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Dialogo tra Jacopo Ricciardi e Giorgio Linguaglossa  sulle aporie della poetry kitchen, Gli autori di  poesia di questi ultimi decenni adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato, Poesia di Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini

(da Facebook del 29 settembre 2022)

Spyke di fine settembre

Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.

Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!

La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
– Che c’è di buono in France?

Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.

Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.

Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi

Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito

Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
– Io non sono Antigone -ripete un ragno sul muro

Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.

La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche

L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

*

Giorgio Linguaglossa

1 ottobre 2022 alle 11:32

Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’ insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere a-significanti e inoperose (g.l.)

Alcuni autori di poesia (ad esempio, Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni) adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno. L’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato; questi autori fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «centricità» dell’io, di «identità», di «soggetto», di «riconoscibilità», di «originarietà» della scrittura poetica implica un rivolgimento: porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione», di un «nuovo paradigma», di una «nuova forma-poesia». Il discorso poetico della poetry kitchen passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo novecento incentrato sul dolorificio permanente dell’io egolalico ed elegiaco e su una «forma-poesia riconoscibile». Il capitalismo cognitivo in crisi di identità e di accumulazione genera ovunque normologia e riconoscibilità; quello che occorre è l’«irriconoscibilità», una poiesis che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica.

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 18:14

Il mio ultimo libro “Dei sempre vivi” è uscito con Stampa2009 diretta da Cucchi. Il libro non è né avvicinabile alla Poetry kitchen (anche se si dirige verso quei lidi) né parente della poesia minimale dell’io e dell’esperienza di cui Cucchi è certamente l’esponente più autorevole.

Si distanziano da questa posizione io-centrica tutto quel gruppo di poeti simili a Marco Giovenale che escludono l’io in favore di una oggettualità del mondo.

Già tra questi due gruppi non c’è alcuna comunicazione, posti come sono sulle due facce della stessa medaglia. Un passaggio però esiste, e riguarda l’utilizzo è la considerazione (la lettura) da parte del secondo gruppo di tutta una serie di testi che per esempio vengono dall’arte contemporanea (Emilio Villa in testa) e questo dal mio punto di vista fa loro onore. Mentre parlavamo del libro da pubblicare Maurizio Cucchi era avverso al Lucio Fontana dei tagli mentre esaltava il sempre eccezionale Lucio Fontana delle ceramiche figurative, o pseudo figurative. Dal mio punto di vista l’inclusione è sempre migliore dell’esclusione.

Ora, se uno volesse una poesia che lavorasse sull’esperienza e sull’io ridimensionandone la portata da una diversa angolazione, si potrebbe benissimo parlare dei due premi Nobel, Szymborska e Tomas Tranströmer, molto diversi ma «rigenerativi». Che il minimalismo italiano sia invece «conservatore», paragonandolo ai due Nobel, mi pare lampante.

Soprattutto Tranströmer nella poesia “Silenzio” mostra come il contesto, il collante, il linguaggio, debba essere compreso o ricompreso, perché il testo ne stabilisce un nuovo ordine: le immagini in successione sostituiscono il dettato, il parlato, quindi il poeta non utilizza le proprie parole ma delle immagini che si sostituiscono al suo parlare e al suo apparire nel mondo. Quindi le frasi di immagini si auto indagano e sprofondano in un abisso del linguaggio rinominando il “silenzio”, rinominandolo in “Silenzio”. Quando nella Poetry kitchen si citano i versi di questa poesia di Tranströmer:

.

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

.

si isolano questi versi dal proprio contesto, e così isolati sembrano già una poesia kitchen. Nella poesia kitchen si passa dall’immagine sola di Tranströmer che tramanda l’abisso dell’essere come cosa della Natura, al distacco elementare di due parti del linguaggio che fa sbuffare su di noi il vuoto. Io colgo in queste tre fasi una direzione di progressiva liberazione dall’io del testo poetico, e la Szymborska e ancor più Tranströmer ne segnano il vettore. Quindi rifiutare questo fatto è pericoloso per la contemporaneità del proprio scrivere.

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 10:26

Da un punto di vista decentrato rispetto alla «posizione centrica» di Giorgio Linguaglossa e di altri come Francesco Paolo Intini o Marie Laure Colasson ecc., io mi trovo a guardare in lontananza ciò che accade in quel centro teorico e pratico, che vuole o vorrebbe, battendo sempre sul medesimo punto, mostrare uno spazio privo di metafisica, quindi senza l’illusione della rappresentazione.

Quindi il processo della lettura nella Poetry kitchen vuole o vorrebbe disarcionare tutta l’abitudine narrativa o lineare dell’osservazione e della comprensione tradizionali, fondati sul riconoscimento delle cose del mondo.

Quindi si ottiene un percorso spezzato che dà su una realtà che è appunto quel vuoto o nulla scoperti in un improvviso altrove che non ha più rapporto coi frammenti che l’hanno suscitato, un vuoto che genera quei frammenti galleggianti sul vuoto. Frammenti che non sono però il vuoto, ma che per frammentazione fanno scorgere oltre di loro il perfetto, il vuoto. Ora se questo vuoto sta anche all’interno dei frammenti, le parole operano come forme e racconti metafisici, con una metafisica tradita che però è sempre metafisica. Una metafisica dal volto disilluso come dice Roberto Bertoldo. Il piacere della lettura è appunto questo perdersi nella parte metafisica, tradente sé medesima, dei frammenti e nei fantasmi delle cose, più che con l’incontro con il vero vuoto che è fisso, identico, tra i frammenti di un solo poeta, e di poeti diversi, uguale, solo momento, a dire il vero inafferrabile, e non trattenibile.

Quindi io credo che il vuoto esterno ai frammenti non sia un appiglio per la mente, e che si riveli alla mente come attimo comunque mascherante se stesso, nel suo essere veritiero, e che i veri appigli siano nei frammenti dalla linearità cortissima o abortita, che trattengono in sé una metafisica ripetutamente e variegatamente ripiegata nel proprio tradimento. Uscire veramente dalla metafisica vorrebbe dire teorizzare il comportamento di una mente senza corpo e priva di mondo, e del tutto senza pensiero, in un tempo vasto senza tempo.

La Poetry kitchen produce lo shock del vero vuoto? Forse.

Giorgio Linguaglossa

1 ottobre 2022 alle 14:27

caro Jacopo,

è che il vuoto ce l’abbiamo nel linguaggio, fuori del linguaggio, di fronte a noi ed è dentro di noi, dentro gli oggetti, è nel soggetto e nell’oggetto, specularmente. E allora, quale sguardo impostare?, quale esperienza?, con quale linguaggio? Il problema di ogni giudizio o rappresentazione è che si tratta di cose che derivano da una posizione frontale (kantiana). L’io, il soggetto metafisico che osserva l’oggetto è una finzione perché il soggetto è sempre parte e «limite del mondo, non si può staccare il soggetto dall’oggetto come un francobollo da una busta. Fare una poesia o romanzo rappresentativi presuppone sicuramente un soggetto plenipotenziario, una ideologia narcisistica, egoriferita, ombelicale ovunque poi cada la rappresentazione, se nella storia o nella storialità, nell’ipoverità o nella iperverità o nella perversione del Collasso del Simbolico. Nel Collasso del Simbolico non c’è una «mente» che possa tenere insieme i membra disiecta. È che non ci resta che una auto educazione alla lateralità, alla disfunzionalità del linguaggio, del soggetto che lo agisce e del soggetto che viene agito e etero agito; occorre la formattazione della antica ottica per una nuova che sdipani i fili di quel che si è fittiziamente e fattiziamente fattualizzato dall’io auto riferito ponendo però attenzione alla dis-attenzione, a quel che, di volta in volta, è andato smarrito, centrifugato e dissolto nel Collasso dei linguaggi e delle visioni.

Il «cogito ergo sum» di cartesiana memoria è stato rovesciato da Lacan nel monito «penso dove non sono, dunque sono dove non penso»: il diffondersi di questa concettualizzazione non-lineare e a-centrica della rappresentazione del soggetto «a-centrico» (per usare una dizione di Enrico Castelli Gattinara) non ha avuto seguito nella produzione poetica e romanzesca italiane (fatta eccezione per Calvino), dunque, la rivoluzione copernicana iniziata da Freud deve essere portata a compimento anche nel cassetto della poesia italiana ancora immobilizzata ad una visione «centrica» della soggettualità.

Il linguaggio non è la sede del trauma, è il trauma che buca il linguaggio; ma il trauma obbliga il soggetto a «perdere» la cosa e a «bucare» la rappresentazione. Questo è il passaggio fondamentale: il momento in cui si struttura la soggettività per la rappresentazione è il medesimo momento in cui si struttura il linguaggio. Da questo momento in poi quando entriamo nel linguaggio «perdiamo» la Cosa e trattiamo con i suoi sostituti: le «parole» delle «cose», così le «parole» acquistano legittimazione filosofica e giuridica. Le parole del mondo collassato sono anch’esse attinte dal collasso. La modalità kitchen disconosce la «posizione centrica», non c’è nessuna posizione che sia «centrica», siamo tutti lateralizzati. Non avrebbe senso dinanzi alle parole collassate salvaguardare una «mente» integra o «centrica» come affermi tu. Le parole del mondo collassato sono degradate ad utilitarietà e convogliate nella comunicazione (a-centrica). E così perdono peso, senso, significato.

Pensare che vi sia una uscita di sicurezza gratuita dalla fine della metafisica attraverso una operazione di modernariato sul linguaggio è una pia illusione, un errore. C’è un dazio da pagare, altrimenti si va a comprare il soggetto «centrico» al mercato nero.

https://www.academia.edu/37583578/PK_9_Soggettivazioni_Segni_scarti_sintomi_Subjectivations_Signs_wastes_symptoms?email_work_card=title

Jacopo Ricciardi

1 ottobre 2022 alle 17:10

L’ipoverità e la disfunzionalità del linguaggio anche se possono essere messi in un discorso come distinti fattori, potrebbero a un atto pratico di verifica – analisi testuale – sovrapporsi ed essere addirittura la stessa cosa. Ossia, come posso sapere se il vuoto vero non è un’ipoverità del vuoto ovvero una sua immagine. Non ho difficoltà a vedere il vuoto, a “sentirlo” addirittura, nelle cose – coglierlo nella struttura della società contemporanea -, a formare di vuoto il soggetto, a rendermi conto della non aderenza tra frontalità e pratica disfunzionale del linguaggio come lateralità, ma penso che essere certi alla lettura che quel dato frammento o parola non mantenga un’aura metafisica che si confonda col desiderio di sogno e di racconto, ancorché negato, non è certo.

Nel mio caso poetico uno spazio e un tempo si dilatano in un modo che trova un luogo fatto di fuori spazio e fuori tempo, eppure resta una forma di spazio e di tempo, anche se nell’esperienza – alla lettura – molto diverso. Nei testi della Colasson trovo personaggi e loro gesti e situazioni ridotte e frammentate che mi danno godimento per essere dei fantasmi la cui aura mi fa sognare, nel vuoto diciamo, però sognato. Può essere un mio errore, il godimento. Però la lettura richiede soddisfazione di un godimento, altrimenti non ci sarebbe lettura. I testi di Linguaglossa mi piacciono perché il luogo dove avviene una serie di fatti idiosincratici è un vuoto che nonostante tutto si riempie, di vuoto forse, ma che è sempre qualcosa. Così seguo la pallottola di Gino Rago, perché fa dipanare una storia che non si svolge, il filo della pallottola è fatto di vuoto ma pure passa come un filo continuo attaccato ad un ago che attraversa e lega distanze e tra loro il vuoto. Se Gino Rago non mantenesse in vita la storia quale piacere proverebbe il lettore. Lucio Tosi seziona la realtà e la isola in maniera tale che la disgrega, ma pure la mantiene viva in pochissimi pezzi e quasi incomunicabile; perché ogni poesia comunica, e lo stare davanti a un testo così stringato che non si stringe può affascinare il lettore. Intini forse è l’unico che concede al lettore meno spazio, e che si trova al centro di un centro. Il testo di Intini si trova nel centro del centro della teoria di Linguaglossa, ma il lettore – dalla mia personale esperienza di lettura – vede il suo desiderio insieme al proprio sogno bruciati via.

Ora questo margine degli autori dal centro del centro – per esempio di Linguaglossa poeta rispetto al Linguaglossa critico – della Poetry Kitchen meno Intini, offrendo uno spazio meno stringato del linguaggio, dove ancora spiffera il desiderio e il sogno del lettore, a me pare necessario; evitandolo nella direzione di Intini – oltre di lui -, che pure non ne è esente, si farebbe del testo un esercizio filosofico anziché restare nel letterario, vivrebbe insomma nel presente della teoria anziché nel futuro della pratica.

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La frattura metafisica della presenza, allora, dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene, Jurij Tynjanov: Per scrivere in prosa bisogna dire qualche cosa

di Giuseppe Gallo

Si chiedeva l’artista Tirelli, poco tempo fa, in una intervista in relazione ai suoi lavori: “Di che materia sono fatte le immagini?” Ricordate l’interrogativo di Shakespeare: “Di che materia sono fatti i sogni?” Ebbene, la domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci: di che materia sono fatte le parole? E qual è la materia “linguistica” che produce poesia? Si può andare al di là del “significato” e del “significante”? Si possono prendere le parole di petto e sperimentarne la natura enigmatica? Le risposte non possono essere nette e precise e mettere a nudo la sua struttura originaria è alquanto difficoltoso. “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”
(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188)

Ebbene, cos’è «questa frattura metafisica della presenza» (Agamben) che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben afferma che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. La frattura, allora, dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significante su significato. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Ritorniamo sempre al solito problema: quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla… precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e confuso per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro. Ma si possono parlare tanti linguaggi… quello del contadino, quello del cacciatore, quello del taumaturgo… tanti linguaggi “speciali”, tante soggettività derivanti dalle tradizione e dalla storia. Nel nostro caso il linguaggio in questione è quello della poesia anche come apertura all’intersoggettività in quanto ogni espressione di poesia individuale deve “essere elevata alla validità universale”. Purtroppo, per molto tempo, il linguaggio poetico nazionale ha alloggiato nelle case dei padri, da Petrarca a Marino, da Leopardi a Quasimodo… tanto che i loro echi, contenutistici e formali, eufonici ed epigonici, ci perseguitano ancora. Certo, negli ultimi decenni del secolo scorso, qualcosa è avvenuto. Un nome per tutti: Eugenio Montale! Lo ricorda molto bene Gino Rago in un suo ultimo intervento su L’Ombra delle parole quando lo stesso Montale dei propri testi lascia scritto: « I primi tre libri, Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939), La Bufera e altro (1956), sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio» e dalla dismissione di questi “panni curiali” giunge alla ironica consapevolezza che non si può più credere “alla funzione diciamo salvifica della poesia, né all’idea della poesia come strumento rivelatore di verità, né alla poesia come folgorazione luminosa.” (Gino Rago, cit.) Vorrei dire che l’assunzione di responsabilità operata da Montale rispetto alla poesia del suo ultimo tempo è qualcosa che necessita di ulteriori indagini. Non la si può edulcorare o trasformare in una semplice “soggettività discorsiva che si ri-forma come confessione e, altre volte, come monologia nell’atto di porsi-di-fronte a quell’apertura muta, nera, come un black hole che è la Storia, gli eventi della Storia. Montale dimentica, o fa finta di dimenticare, la relazione tra monologia e eterologia e riduce tuta la questione in monologia e monolinguismo. Da questo punto di vista «chiude», non «apre» la poesia italiana.” come risponde e suggerisce, Giorgio Linguaglossa, sempre sulle pagine dell’Ombra delle parole…”. E perché? Perché “Il linguaggio non è solo comunicazione, mediante suoni, di contenuti di senso; non è dunque un semplice strumento che designa le cose, e neppure soltanto discorso. È, piuttosto, originariamente, un mostrare , un far vedere , un significare… Dove c’è significato c’è anche linguaggio e dove c’è linguaggio c’è realtà” (in Gadamer e l’ermeneutica contemporanea, a cura di Massimo Marassi, Colonna Ed. 1998, p.16).

Ecco il punto: il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio ci permette l’esperienza di qualche elemento della realtà? Di qualcosa con cui noi abbiamo a che fare? Heidegger, verificando la “linguisticità” del nostro essere nel mondo, ha dovuto distinguere “il Ding, cioé la “cosa” nella sua semplice presenza, nel suo stare di fronte a noi, dalla Sache, cioè la “cosa” come ciò di cui parliamo o che pensiamo. Noi non facciamo mai esperienza di un Ding ma sempre di una Sache…” (in Gadamer, op. cit. p.16). Esiste, cioè, un mondo precostituito e prestrutturato in cui ogni Sache ha avuto la possibilità di depositarsi nelle varie espressioni linguistiche, lemmi, concetti, ecc. permettendo la nostra capacità di comprensione, di analisi e di evocazione. In altri termini ciò che noi possiamo esperire del nostro essere nel mondo e di noi stessi è linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale: se la realtà incontra ancora qualche nostra esigenza; se, invece, non ha rapporto con noi, ma solo con il nostro pensiero, allora il linguaggio può trascinarci in qualsiasi direzione, ma saranno sempre fantasticherie, elucubrazioni, soggettività irrazionali, evasioni gnostiche, sentimentalismi dell’io, ecc. e non si potrà mai dare una qualche risposta, più o meno esaustiva, allo “statuto di verità del discorso poetico”, come richiede puntualmente Linguaglossa.

Anche la poesia, però, non può nascere senza radici… il rapporto con le esperienze poetiche trascorse non potrà mai essere saltato a piè pari… nessuno lo ha fatto e nessuno lo potrà mai fare… e questo perché il linguaggio è anche memoria. Ciò non significa che dipendiamo in tutto e per tutto dal nostro passato perché bisogna specificare, che se la poiesis è sempre un “impasto” di parole, queste devono sempre più “sganciarsi” dalle varie convenzioni comunicazionali; fra loro non c’è e non ci può essere alcun determinismo, ma solo libertà! Libertà che non è data dall’ispirazione di origine romantica, dal razionalismo illuministico o scientifico, dalle libere associazioni psicanalitiche o surrealiste o da qualsia altro “ismo” non citato o ancora ignoto…
Se Montale, alla fine della propria esperienza poetica può affermare, (lo ricorda sempre Gino Rago): “Non sono sicuro che il mondo esista, che la materia esista, che io esista”, vuol dire che egli è arrivato sulla soglia dell’indicibile, nell’ultima vertigine possibile:

“… Inorridivo di essere il solo risparmiato
per qualche incaglio del Calcolatore.
Ma non fu che un istante. Un’ombra bianca
mi sfiorò, un cameriere che serviva
l’aperitivo a un non so chi, ma vivo.”

(Senza mia colpa, Quaderno di quattro anni, Mondadori, p.43)

E, purtroppo per Pasolini, questa illuminazione Montale la recepisce anche quando lo “hanno allogato in un hôtel meublé”.
Perché giriamo ancora intorno al problema? Tutti ormai ci servono aperitivi: la politica, l’economia e ogni tipo di scienza e di ricerca, e così noi smagriamo sempre più: quel “non so chi” diventa la costante che perseguita ogni nostro residuo respiro e noi non possiamo far altro che attendere il disfacimento finale. I vivi, in fondo, sono defunti e i defunti, officiano ritualità senza forma per l’apparenza dei vivi. Ecco, quindi, un esempio di come queste benedette parole possano incontrare altre parole interagendo in modo “creativo” e per evidenziare che il linguaggio contiene in sé un altissimo valore energetico ed espressivo. Il problema è che per molti poeti l’esperienza creativa si basa sulle proprie sensazioni e sulle proprie emozioni; per altri la poesia dovrebbe evocare quella dimensione trascendente che Kant, chiamava dispositio naturalis… per altri ancora è Gnosi… per altri è… qualsiasi cosa vogliate aggiungere…
E allora, su cosa si fonda, in effetti, la poesia? Quando pretendiamo “lo statuto di verità del discorso poetico” non stiamo mettendo sullo stesso piano ermeneutica e poiesis?
Impossibile la verità perché le verità saranno sempre parziali, ambigue e difettose.
Ecco cosa ne pensava Tranströmer in alcuni versi del lontano 1966, nella traduzione e interpretazione di Maria Cristina Lombardi:

Fantastico sentire come la mia poesia cresce
mentre io mi ritiro.
Cresce, prende il mio posto.
Mi toglie di mezzo.
Mi caccia via.
La poesia è pronta.

Anche in altri due versi la consapevolezza di Tranströmer, al riguardo, è chiara e decisa:

Io è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice.

Solo quando il viaggio dell’Io è iniziato per scomparire e per mai ritrovarsi, solo allora “la poesia è pronta” a varcare la soglia delle faccende umane ed apparire come fantasma “reale e concreto” tra gli uomini.

Locandina Festival Poetry kitchen 2023

Non c’è via di uscita, stiamo sempre tra il Simbolico e il Reale

di Marie Laure Colasson

adesso la pubblicità si è impadronita anche delle categorie ermeneutiche di Roland Barthes: Zero calcare – Zero calorie – Zero zuccheri – Zero alcool – E la politica : Zero corruzione… rivelando così che la pubblicità e i linguaggi pubblicitari sono Intelligenti, funzionano per vampirismo, rubano e assemblano e riassettano… l’infanzia è soltanto un ricettacolo per la poetry kitchen, attenti a non sublimare o mitizzare l’infanzia, lì non c’è altro che il malsano, ricordi dolorosi, smembrati, irriconoscibili… l’infanzia va trattata, caro Lucio, come il chewing gum, va masticata e masticata… in realtà il linguaggio crea se stesso, è il linguaggio il promotore della realtà, o meglio, del Reale… il pubblico? Anche questo è un mitologema, io quando scrivo non penso certo al pubblico o all’interlocutore di Mandel’stam, non c’è nessun pubblico, e forse mai ci sarà, non fatevi illusioni, Sanguineti con il suo Laborintus (1956) ha dovuto faticare le fatidiche sette camicie per riuscire ad imporlo, gli anni cinquanta-sessanta erano rivoluzionari per questo è riuscito ad imporlo, con l’aiuto della grancassa del Gruppo 63 e dello sperimentalismo… adesso invece la normologazione è imperante, le cose sono molto, molto più difficili, gli ostacoli derivano dal modo di vita, dal sociale (come si diceva una volta), dalle pratiche della normologazione, che sono invasive e invisibili, il market e il marketing sono delle vere e proprie grammatizzazioni, cioè costituiscono la grammatica della Simbolizzazione e del Reale. E poi la tradizione, quando qualcuno parla di tradizione là c’è il tranello, la tradizione è un fuori contesto, oggi dobbiamo rassegnarci a non poter più contare su alcuna tradizione, e chi la tira in ballo è un imbonitore nel migliore dei casi o uno sciocco nel peggiore. Non c’è via di uscita, stiamo sempre tra il Simbolico e il Reale, si oscilla in perpetuo tra il Simbolico e il Reale, e ritorniamo sempre nel Reale, allo stesso posto. L’unico augurio che posso fare ai cittadini, ai promotori della nuova poesia e ai lettori è che ognuno perda se stesso, si perda nel linguaggio, senza alcuna intenzionalità (che è sempre il deposito delle ideologie). Perdersi quindi nel linguaggio per potersi ritrovare, solo questo posso augurare. Il kitchen è esattamente questo perdersi.

Scrivere un romanzo per scrivere una buona poesia 

di Giorgio Linguaglossa

Un aneddoto. A metà degli anni Novanta feci leggere a una poetessa di Roma, Lisa Stace, (tra l’altro molto brava, talmente brava che poi smise di scrivere poesie), delle mie prose. Lei mi disse che avevano un difetto, Ricordo ancora le sue precise parole: «ci devi lavorare molto. Si vede che prendi la prosa sotto gamba, difetto tipico dei poeti. La prosa richiede invece un lunghissimo lavoro». Non dimenticherò mai quanto quelle parole mi siano state utili. Da allora (e sono passati più di venti anni) non ho smesso di tornare su quei racconti, di ritoccarli.

Questo l’aneddoto. Questo per dire che se non sai scrivere un’ottima prosa non puoi diventare un buon poeta. Il poeta deve essere capace di scrivere ottima prosa, questo è il segreto che Lisa Stace intese svelarmi. Da allora, capii quanto è importante per un poeta scrivere in prosa, la prosa è la vera palestra di un buon poeta, lì si fa una buona muscolatura, con continui esercizi fisici e mentali.
Un altro aneddoto. Ecco un frammento del dialogo tra Goethe ed Eckerman. Scrive Goethe:
«Parlando delle opere dei nostri nuovissimi poeti siamo arrivati alla conclusione – scriveva Eckerman, – che neanche uno di loro scrive della bella prosa. – È semplice, – disse Goethe: per scrivere in prosa bisogna almeno dire qualche cosa; chi non ha niente da dire può tuttavia scrivere versi e cercare rime, e una parola suggerisce l’altra e finalmente sembra che qualche cosa riesca; e benché non significhi niente, sembra tuttavia che significhi qualcosa».

Commento di Jurij Tynjanov: «Cerchiamo di capire la sua definizione di una “nuova lirica”. Non c’è niente da dire, ossia non c’è niente da comunicare; non c’è un’idea che abbia bisogno di essere oggettivata; lo stesso processo della creazione non ha scopi comunicativi. (Mentre la prosa con il suo orientamento sulla parola simultanea è molto più comunicativa: “Per scrivere in prosa bisogna dire qualche cosa”.)
Goethe descrive come una successione lo stesso processo creativo: “una parola suggerisce un’altra” ( e qui Goethe attribuisce un ruolo importante alla rima). “E benché non significhi niente, tuttavia sembra significhi qualche cosa.” Questo è il punto in cui Goethe è in contrasto con Kireevskij (“una parola detta bene ha il valore di una buona idea”). Pertanto, in entrambi i casi, si tratta di parole “prive di contenuto nel senso più lato della parola, che assumono nel verso una certa semantica immaginaria“.»*

Quello che voglio dire è semplice: che spesso i poeti scrivono una parola pensando ad una «semantica immaginaria» del tutto personale, ma la questione non è così semplicistica, non sempre, o meglio, quasi mai una «semantica immaginaria personale» coincide con una «semantica immaginaria pubblica», che il pubblico può comprendere. Spesso i poeti di minore rigore formale e mentale pensano in modo semplicistico che una semantica immaginaria personale debba SEMPRE coincidere con una semantica immaginaria del pubblico. Anche questo equivoco è stato il portato di certo sperimentalismo e orfismo acritici tipicamente italiani diffusosi a macchia d’olio nel secondo Novecento.

Per tornare al nostro oggetto: la questione di una buona prosa. È chiaro che un narratore che non abbia qualcosa di preciso da dire non potrà mai scrivere della buona prosa, ne uscirebbe un ircocervo incomprensibile. Per la poesia invece tutto sembra essere ammesso. Di frequente, io ripeto spesso a certi autori di poesia che non ho le chiavi per entrare dentro i loro testi, intendendo dire che non ho le chiavi per entrare all’interno della loro semantica immaginaria.
Ecco la ragione per la quale ogni tanto mi cimento con il romanzo. Perché il romanzo mi obbliga a pensare un oggetto preciso e a raccontarlo nel modo più diretto, senza ricorrere a retorismi fuorvianti. Quindi, cari poeti, vi consiglio di misurarvi con il romanzo se volete scrivere buone poesie!

J. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, 1968 p. 102

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L’uso della metafora negli haiku di Tomas Tranströmer e dei classici giapponesi, a cura di Giuseppe Gallo, con una Chiosa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 74,5x28 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 75,5×28 cm. acrilico su tavola, 2021

Strilli Transtromer Prendi la tua tomba

Gli haiku di Tomas Tranströmer

di Giuseppe Gallo

Tutti gli haiku dovrebbero essere “profondi abissi di pensiero!”, cosi diceva Maria Cristina Lombardi, a proposito degli haiku di Tomas Tranströmer, nella presentazione ai lettori italiani di Il grande mistero, (Crocetti Ed., Milano 2011, p. 7).
Un abisso ricavato attraverso similitudini e metafore, immagini primarie e secondarie, per mezzo di un linguaggio simultaneamente astratto e concreto. In Tranströmer, afferma sempre la Lombardi, “La comprensione” di queste invenzioni e metamorfosi, di questi “richiami a figure ritmico-sonore” e ad «espressioni metaforiche bimembri presuppone conoscenze di mitologia nordica perché, ad esempio, l’oro, che in quella mitologia viene designato come “fiamma dell’onda», per un lettore italiano risulterebbe incomprensibile. Ecco un haiku di Tranströmer, dove egli «cerca di afferrare gli istanti luminosi che gli rivelano nuove dimensioni di significato, squarciando l’immenso mistero che circonda l’uomo con metafore che scompongono, comprimono, fondono e ricreano» (op. cit. p. 9).

“shiragiku no me ni tatete miru chiri mo nashi

.
Guardando attentamente
i crisantemi bianchi–
non un granello di polvere”


Guardando attentamente, anche noi troviamo che lo haiku in questione è costruito, come pure quello Tranströmer, sulla esposizione di due immagini, sulla loro interazione e sulla loro capacità evocativa all’interno della cultura di riferimento. Per noi occidentali il crisantemo evoca la morte, il granello di sabbia, l’infinitamente piccolo, l’atomo della materia e l’attimo del tempo, si pensi alla clessidra…
Ebbene, in questo caso, “Bashō si sta complimentando con l’ospite (Sonome), rappresentato dai crisantemi bianchi, mettendo l’accento sui fiori e, per allusione, alla purezza dell’ospite stesso. Possiamo dunque concludere che ogni “vedere” presuppone anche una cultura. Oggi che viviamo in un’epoca in cui è caduta ogni ideologia, ogni barriera e ogni distinzione tra i piani linguistici e le forme dei pensieri, tutto sembra cadere nel caos dei fenomeni, delle ambiguità e del paradosso. Ogni immagine non è più immagine di se stessa, ma di altro e lo stesso “principio di identità”, ormai è un principio in disuso, mi viene da chiedermi: cos’è la metafora? Che rapporto esiste tra la metafora e l’immagine? “Di che materia sono fatte le immagini?” Chi viene prima, l’immagine o il pensiero? Che funzione svolge, la metafora, all’interno della forma haiku? Ricordate l’interrogativo di Shakespeare: “Di che materia sono fatti i sogni?”
La domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci, insieme a Tranströmer, di che materia sono fatte le parole? E perché il mondo ci appare come “un grande mistero”? E’ il mondo una immensa metafora? E perché la metafora sorregge le nostre domande e le nostre risposte? Perché la metafora elaborata in un presente, momentaneo e fugace, scompiglia il fluire del tempo, incidendo il passato e preconizzando il futuro? È la metafora a veicolare la poesia o l’arte in genere?


“In fondo, volendo essere radicali,” afferma Gianna Chiesa Isnardi “la parola stessa non è forse metafora della realtà,…?” (T. Tranströmer, La lugubre gondola, a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Bur Rizzol, 2011, p. 97) E tale realtà non è data dalla parola? E la parola non è fondata sulla immagine che contiene? E il nostro pensare non è forse “un pensare attraverso le immagini” contenute nella parola? È evidente allora che “la metafora rinvia al linguaggio della percezione e a quello figurativo” (T. Tranströmer, op. cit., p. 98); che la metafora avvia “l’esplorazione dei legami inaspettati fra le cose del mondo e fra esse e l’uomo…” ( op. cit., p. 99); e che non ci può essere metafora senza “un secondo termine di paragone, uno specchio.” , (op. cit, p. 99). Specchio che significa riflesso di un’immagine, fusione, confusione e divergenza. In definitiva, ogni parola contiene se stessa nella duplicità delle proprie ombre, sotto l’aspetto del “significato” e del “significante”. Entrando nelle parole è come se entrassimo in quello specchio, rifratto e frammentario, ambiguo e misterioso, che è il linguaggio. Entriamo nell’ enigma. Nel vero e nel falso. In quella metafora che tenta di svelare “ciò che sta “dietro le parole” (op. cit, p.101). “Cosa sei tu, dietro te stesso?” si chiedeva Freud. Riusciremo mai a saperlo? Riusciremo mai a tagliare il nodo gordiano di questa ambigua domanda? “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188) Ebbene, cos’è “questa frattura della presenza” che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben risponde che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. Che sia la metafora la porta di accesso a questo “fondamento”? E la frattura dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il nostro linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Ovvero metafora. Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla, precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e in piena confusione per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro.
Il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio in cui ci perdiamo può esserci di aiuto per l’esperienza della realtà? In effetti, tutto ciò che noi abbiamo esperito o possiamo esperire, del nostro essere nel mondo e di noi stessi è diventato, e diventa, linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale.
Ecco un esempio dove la metafora svolge la funzione per cui è nata.


…. Sono trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.

L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
al banco dei pegni.

(T. Tranströmer, La lugubre gondola, op. cit., p. 13)

La metafora, dunque, ha la funzione di arpionare le sembianze, i realia, della natura, ridurre queste “macchie” a nostra rappresentazione, rendendole soggettive ed oggettive, nell’illusione che possano contenere, non solo il vuoto, ma anche, gli emblemi della nostra stessa esistenza.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia». Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi.
Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso:
«Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Strilli Transtromer le posate d'argento

Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

Il mondo è diventato un labirinto
di Giorgio Linguaglossa

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi.

*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato. Continua a leggere

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Compostaggi, di Mauro Pierno (Progetto Cultura, pp. 102, € 12, 2020), Immagine della cover di Marie Laure Colasson, Ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

Mauro Pierno Compostaggi

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”
.

dalla Prefazione di Gino Rago a Compostaggi (2018) di Mauro Pierno

In Compostaggi registro un mutamento radicale nel fare poetico di Mauro Pierno, un mutamento di registro stilistico-formale con approdo all’impiego del distico, come per esempio in questo componimento della sua nuova raccolta poetica:

Di ciliegio sine die
con decorazioni appese ad asciugare.

Tese alla corda orizzontali le tovaglie
rumoreggiano di primavera.

Tra il vento anche le foglie stampate
si battono indipendenti.

Quanto tempo è passato nel giardino
anche tu Raneskaja non lo rammenti più!

Segno evidente, innegabile di una evoluzione che comincia a distanziare Mauro Pierno da tutto il truismario esangue della poesia dei gregari dell’umbertosabismo diaristico, del post-serenismo minimalista, del neocrepuscolarismo dell’io sconfitto, dell’elegia del cardarellismo post-rondista.
Giorgio Linguaglossa in una nota icastica così scrive: «Mauro Pierno è un poeta in rapida evoluzione, ha mandato al macero la poesia accademica e prosegue dritto nella sua ricerca di una poesia archeologica del presente, fa una archeologia del presente, poiché il passato è stato dimenticato dalla odierna civilizzazione di massa e del futuro lui si considera un po’ un antenato, una sorta di astronauta della Terra».
Ed ecco che compare una parola-chiave del nuovo corso poetico di Compostaggi, «archeologia del presente» che nella sua apparente valenza ossimorica dice tutto di un accorto lavoro di scavo nella parola di poesia dagli strati superiori a quelli inferiori fino allo strato del grado zero del linguaggio poetico, dove una sorta di pastiche linguistico ad alta interferenza è di casa come in questi versi:

Il quadrato costruito sull’ipotenusa il teorema applicato
nella moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Nei brani sgranati si arrotolano esistenze piè
e a cena le rive si allontanano.

Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati.
Dalla forma più casuale un ricettario pubblico.

Una rivoluzione portatile per l’ipnosi.
Questa tua apparizione a capotavola,

Tomas, rimette tutto in ballo.
Lo sai che le farfalle son alte alte alte. 

Versi esemplari di un intreccio di geometria-Vangelo-canzonetta che nella ibridizzazione linguistica trova una nuova cifra e anche una nuova energia interna delle parole che il poeta impiega nella architettura della sua nuova poesia, frutto della lunga frequentazione dei temi della Nuova Ontologia Estetica attraverso la Rivista Internazionale di Poesia “L’Ombra delle Parole”, un lavoro di profondo, radicale rinnovamento della nostra poesia ben sostenuto da tutta la Redazione del blog di Letteratura Internazionale, a partire da questi versi di Tomas Tranströmer

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero…
(da La lugubre gondola, Bur, 2011)

dai quali si sprigiona tutta la forza delle immagini metaforiche e/o delle metafore cinetiche della estetica tranströmeriana, cui si approssima questo ben riuscito distico di Pierno “Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati. Dalla forma più casuale un ricettario pubblico”, quasi a preparare i componimenti dell’altra sezione della raccolta poetica di Mauro Pierno, Cose, in distici come questi:

L’ennesima fornitura li trovò spiazzati.
Un ipermercato il punto d’incontro.

Nelle ventiquattrore si apprestarono in tanti
con peluche e mascotte.

E i cani sorrisero. Si leccarono anche,
lappavano i musi, mostravano i denti. In cambio cosa offrivano loro!?

Incalzarono, “Peluche e mascotte!?” E allora sbraitarono.
Fuggirono acquirenti e mercanti.

il poeta suggella il corso nuovo della sua ricerca poetica fondata su un lavoro efficace sul logos.

Mauro Pierno 1

[Mauro Pierno]

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Retro di copertina di Giorgio Linguaglossa

«Ciò che resta lo fondano i poeti» ha scritto Hölderlin. E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate…
Le parole delle poesie di Mauro Pierno sono errori di manifattura, errori del compostaggio, errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili. Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le parole combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non è Mauro Pierno il responsabile. Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del distico è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un distico distassico e dismetrico che contiene al suo interno una miriade di dis-allineamenti fraseologici, dis-connessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo. Il distico è una gabbia metrica dinamica che contiene al suo interno le pulsioni e le tensioni che si sprigionano da decadimento chimico delle parole, che consente una sorta di compostaggio delle parole un tempo nobili e nobiliari.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, Mauro Pierno e i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. «Solo i pensieri che non comprendono se stessi sono veri», ha scritto Adorno.

Mauro Pierno

da Compostaggi (2020) di Mauro Pierno Continua a leggere

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Poetry kitchen, la nuova poiesis, Poesie di Marie Laure Colasson, Alfonso Cataldi, Tomas Tranströmer, Il luogo-non-luogo della poiesis si rivela luogo auto contraddittorio, Riflessioni di Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, citazioni da Giorgio Agamben

Covid garden 3(particolare)BASSACovid garden 2BASSAcaro Lucio,

il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico); non si dà il positivo senza il negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si rivela internamente bifide e auto contraddittoria: perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giorgio Agamben

Stralci

La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tuttala riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2

Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo esserespaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nelluogo del linguaggio, il Dasein trovaun’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3

… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4

1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden 3 acrilico, 50x70 cm, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, olio, 2020

Marie Laure Colasson

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Marie Laure (Milaure) Colasson  francese, nasce a Torino nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in gallerie di Parigi, Bruxelles, Roma, Buenos Aires. Sue opere si trovano nei musei di Giappone, Francia e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È redattrice della rivista lombradelleparole.wordpress.com

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Poetry kitchen

L’ultima poesia di Les choses de la vie
di Marie laure Colasson.

33.

un deux deux
si si non
ouvre la valise
deux un cinq
non non si
cri d’un oiseau
deux cinq sept
non si non
monte les escalier
trois deux deux
non si si
dans la valise une robe en dentelle rouge
deux un sept
si si non
enfile la robe en dentelle rouge
deux un deux
si non si
c’est ton tour
cinq un deux
si si si
mèfiez vous d’elle
trop belle envoutante
fermez les portes les fenêtres
c’est la mort la mort
ne sait pas compter
ne sait pas dire non
mais n’oublie pas del mettre du rouge à lèvres

*

uno due due
sì sì no
apri la valigia
due uno cinque
no no sì
grido di un uccello
due cinque sette
no sì no
sali le scale
tre due due
no sì sì
nella valigia una veste di pizzo rossa
due uno sette
sì sì no
infila la veste di pizzo rossa
due uno due
sì no sì
è il tuo turno
cinque uno due
sì sì sì
diffidate di lei
troppo bella invitante
chiudete le porte e le finestre
è la morte la morte
non sa contare
non sa dire no
ma non dimentica di mettersi il rossetto sulle labbra

La collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è una ubicazione privilegiata, un luogo abitabile? Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana di nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», comprendiamo appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale.
Il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia ed approdano sulla pagina bianca. Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile.

(Giorgio Linguaglossa)

Alfonso Cataldi

Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.
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Omaggio contemporaneo

La conversione stupisce sempre un metro più avanti
Il posto di blocco scompagina gli appunti.

L’ampio parcheggio ospita la povertà di un resoconto
matrimoni combinati omaggiano il bric-à-brac contemporaneo.

Akiva è caduto nel tranello dei ghost painter
dipinge a tempo pieno reprimende da pensionare

la tenda mancante alla finestra
i panni arrotolati in fondo al letto

Dettagli. S’incollano in due ore alla barba di rappresentanza.
Cosa twitterebbe l’Incompiuto?

Un necrologio che penzola distratto
e nessuno ha il coraggio di afferrare.

Giacomo ha cinque anni e non ha chiesto mai perché
In emergenza le risposte sono appese alle finestre dell’albergo.

 

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Cambiamento di Paradigma, Sull’Evento nella nuova poesia, La poesia all’Epoca del Covid19, Poesie di Mario M. Gabriele, Giuseppe Gallo, Gino Rago, 

Gif Danza di bottiglie

sono portato a credere che un’era geologica della poesia sia finita, irrimediabilmente, e che se ne sia aperta un’altra. È cambiato non solo il paradigma, ma è cambiato il mondo, e forse sarebbe bene prenderne atto.

Giorgio Linguaglossa

cambiamento di paradigma

Tempo fa discettavo intorno alla ipotesi che si stesse profilando nella poesia italiana un cambiamento di paradigma, dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza, espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, è ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo. E questa è senz’altro una buona notizia.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (in La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica stilistica) più o meno di moda nei vari periodi, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.
Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck:
«Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.»
Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

si è concluso il Post-moderno

Possiamo dire che quell’epoca che va da l’Opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonologica) ed inizia una poesia topologica che integra il Fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili e mi riferisco ad una recentissima scoperta scientifica: è stato individuato un cristallo che ha una struttura atomica mutante, cioè che muta nel tempo!) ed il Fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un certo concetto di reale e di finzione), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio» (per dirla con un termine del lessico mediatico).

La poesia all’Epoca del Covid19

Leggendo la poesia di Mario Gabriele, sono portato a credere che un’era geologica della poesia sia finita, irrimediabilmente, e che se ne sia aperta un’altra. È cambiato non solo il paradigma, ma è cambiato il mondo, e forse sarebbe bene prenderne atto. E con esso anche la poesia, ovviamente.
È come andare in trattoria, chiedere un fritto misto di paranza e, invece, il cameriere ti porta un usufritto di oloturie, ologrammi e orologi da tasca. Qui c’è qualcosa di irriconoscibile e di inaspettato. E, davanti ad una materia irriconoscibile e inaspettata che cosa ha da dire una ermeneutica? Niente, penso proprio niente.

Mario M. Gabriele

Caro Giorgio,
mi sto indirizzando verso un nuovo paradigma poetico, come eccezione propositiva, senza rinnegare la NOE e i Distici.
Per quanto tempo potrò andare avanti su questa forma? Non lo so!. Ma mi piace assecondare ciò che qui dici con il titolo “cambiamento di paradigma”… “Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, e ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo”. Spero proprio, ma lo avverto che questo testo ne indichi qualcosa. Grazie di questo nuovo post.

*
Dalle cinque alle sei del mattino
sempre in dormiveglia. Perché?

All’alba ci muoviamo per la caccia ai lupi mannari
e ai sacchetti di speranza e di Lou Rossignon.

Ce la fai da solo?
Grazie! Fammi solo compagnia.

Vedo immagini passare come Mary Poppins.
E’ quanto di più raro mi rimane del tempo passato.

In questi agglomerati urbani non puoi chiedere
a nessuno la strada di un nuovo battesimo.

Il Naprosyn mi toglie la sindrome radicolare
simile ad una stagione all’inferno.

Beata te, Vanessa, che cogli le rose e i tulipani
nella serra di Nonno Vincent.

La nostra questione
rimane un olifante senza voce.

Maglie, camiciole, pezzetti di hamburger,
terreni seccati che tornano ad essere vivi.

Forse hai dimenticato qualcosa. Che cosa?
La brunetta che ti adocchiava come in un outlet.

Era la cucitrice di sogni in bianco e nero.
Questione di opinione!

Ciò non spiega l’allume di Rocca,
la barba di Marx e Senofonte!

Vivere a caso ci fa star bene
come un torroncino a Natale.

Il Corriere dell’Inferno scorrazza da New York
ai ghiacciai dell’Antartide.

Mondo sii buono!
E’ questo il mese della primavera!

Gino Rago

Storia di una pallottola 3

Il commissario:

«Madame Colasson, dalla sua pistola è partito un colpo.
che si è allungato lungo via Merulana,

ha colpito di striscio un signore che leggeva il giornale,
– qualcuno ha insinuato trattarsi di Barabba –

e invece si trattava di un modesto poeta di Mediolanum.
Madame, la accuso di infedeltà alla narrativa
e la sbatto in gattabuia!».

Marie Laure scende dal camion. È irritata. Prende un taxi,
si reca all’Opéra di Parigi,

getta un guanto in faccia al commissario Ingravallo,
afferra dalla sua borsa Birkin il revolver con il manico di madreperla

e spara un colpo che,
come al solito, sbaglia traiettoria e attinge

un aquilone il quale precipita in via Gaspare Gozzi
attigua alla abitazione del poeta Giorgio Linguaglossa…

Intanto, fiocchi di neve, chicchi di riso, uno scolapasta,
una stella di latta, un catecumeno con la tonsura,

le Poète noir Antonin Artaud con i guanti bianchi a testa in giù,
una tovaglia ricamata e la bandiera tricolore

precipitano dal quinto piano del balcone di via Gaspare Gozzi,
comprese delle mascherine, dei volantini della Lega lombarda,

una matrioska dipinta a mano,
e un piffero…

«Tutto questo per una pistola a tamburo con il manico di madreperla…»,
pensa Madame Colasson…

«Ah…les choses de la vie», commenta la parigina
mentre fa ritorno a cavallo al Beaubourg.

«Sont les choses de la vie»

Giuseppe Gallo

On/Off

la notte è in piedi
a volte sono io… la porta trasparente, la spia di controllo: accesa/spenta

: verde/bianca. La questione è che non sono ancora del tutto… On/off
Cos’è un P R O B L E M A?

“L’analista era spento”* poi “si tirò su, sorrise…” *
perché nelle sue parti esistono entrambi: la nascita e la morte…

ma le idee non vivono nel vuoto… sono un po’… come intermittenze sonore
o conchiglie infantili depositate sull’arenile.

Il quid è negli interstizi dei vuoti a rendere.
Entra. Siediti. C’è qualcuno che non hai mai visto?

A volte sei anche tu… On/off
è che non sei ancora del tutto… sei un po’… come la trasparenza di una parete,

il controllo di una spia: spenta/accesa: bianca/verde.
Spenta/accesa. Gialla/rossa. Spenta…

* Ph. Dick, The cromium Fence, in Tutti i racconti, 1955-1963, Fanucci Editore, 2012

Lucio Mayoor Tosi

Caro Giuseppe Gallo,
On/Off a me piace moltissimo. Il mix prosa-poesia (prima la prosa, che è cavalier servente) io lo avevo risolto tenendo sul comodino libri di Philip Dick e di Tomas Tranströmer. La prosa di Dick va spedita ma tutto sommato è prosa ordinaria, quel che colpisce è la sua magnifica inventiva. C’è un punto in cui la prosa deve lasciare il posto alla poesia, avviene per una sorta di suo svenimento… lo stop! dopo il quale i motori dell’astronave possono procedere in autonomia. Lo avrai sperimentato chissà quante volte anche tu.

Accensione e spegnimento non dipendono da noi. O raramente. Facciamo tutto in automatico: dal mattino, quando alzandoci dal letto tocchiamo con i piedi il pavimento, a sera nel chiudere gli occhi. Il punto del sonno. Penso che siamo niente. Solo spettatori.
Nemmeno le parole ci appartengono. E ci infiamma il pensiero. Tra poeti ci si legge per vedere chi sa infiammarsi meglio, e porre a confronto le qualità dei fuochi. Se stringiamo questa visione sul verso, ecco vediamo che brucia e finisce. Poi ne brucia un altro. Nella stessa poesia è morire tante volte. Chi non muore è lo spettatore, colui o lei che scrive: nella pausa vive, nell’ozio è se stesso. Dal che se ne deduce che la società non è a misura d’uomo. Nessun tipo di società può essere a misura d’uomo. Mi sa che tornerò a leggere Kierkegaard.

 

 

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Una poesia di Tomas Tranströmer, Poesie e Commenti di Carlo Livia, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Ethos significa soggiorno, Aufenthalt, luogo dell’abitare

Foto Armatura Knights templar

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Una poesia di Tomas Tranströmer

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:

«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare.

La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1

La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere compresi nella nostra più vera essenza.

Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.

1 M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in Segnavia, pp. 306-308

Francesco Paolo Intini

“Trasformare, transformer, forse Tranströmer.”

Che significa questo verso? Non c’è spiegazione migliore di quella tridimensionale riprodotta nell’articolo o forse ce ne possono essere mille altre. Le vie dell’interferire non conoscono limiti così come quelle delle onde. Attraversano mondi e si lasciano contagiare conservandone memoria, colore e natura.

La poesia diventa allora un ricettacolo di cose, avvenimenti senza data, scarti e rifiuti dove il senso è quello di un fiume che si avvita, scende lungo una dolina, scava e deposita contemporaneamente i suoi sali, le sue incongruenze, costruendo immagini, ologrammi, entanglement di mondi sconosciuti e tempi senza tempo, né leggi d’entropia o scambi di calore.

Che c’entra questo tipo di poesia con il resto in cattedra, dei fiumi sinfonici, esaustivi, messaggeri, dimostrativi, violentemente profanatori del silenzio?

Penso nulla e questo scava un fossato tra le esigenze del mercato che vuole la sopravvivenza della poesia affidata a canoni estetici fissati per l’eternità e una che intravede una crisi nell’interpretazione e comprensione del mondo come tendenza generalizzata all’automazione e dunque abbandono dei mezzi espressivi e delle libertà ad essi connesse.

“Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere compresi nella nostra più vera essenza. (G. Linguaglossa)

Andare oltre il principio di non contraddizione sembra allora la via maestra, una esigenza esplosiva tenuta a freno dalla forza forte nel nucleo della razionalità tecnologica che trasforma l’esistenza in gesti della Macchina infinita.

Se c’è una risposta alla domanda: quale poesia dopo la fine della metafisica? Credo che si nasconda nella formula E= mc2.
Qualche tempo fa scrivevo senza alcun riscontro:

Dopo l’ultimo verso
ancora mi commuove
E=mc2 (E uguale emme ci quadro)
che brucia me e ogni sole

(E= Poesia. Inedito 2017)

Che altro è possibile infatti oltre il muro della massa e dell’energia?
E’ un muro (con tanto di filo spinato), simile a “tutte le porte chiuse” di Tranströmer indicato da Giorgio Linguaglossa, che sta ad indicare un limite invalicabile del dire e dunque del significare, la chiusa di ogni possibile poesia semplicemente perché non hanno alcun significato oltre di esso, le nostre categorie.

Al suo interno la storia è gassificata ma non annullata, tanto che si può associare un moto, vederne i frammenti in movimento, azzardare la provenienza ed il contorno dell’intero senza darne assoluta certezza, entrando direttamente in contatto con il nucleo chimico, a tu per tu con l’essenza elementare delle cose, individuarne le combinazioni future.

A svolgere questo lavoro di scavo nel nulla è il pensiero, una lucciola che ha imparato dalle leggi del caso a sintetizzarsi l’abito di tungsteno necessario per sopportare il peso schiacciante del passato e volgerlo in energia luminosa che va dove va, obbedendo solo a sé stessa.

Poesia è questo illuminarsi del mondo dove il verso si mette in proprio, lampo tra catodo e anodo come nell’esperimento degli esperimenti tra sostanze che potrebbero accendersi e reagire, le più semplici nella direzione della futura complessità.

La stessa nella chiusa di G. Rago, probabilmente:

La nostra petizione di una nuova ontologia è quindi la petizione per una nuova polis, per nuove leggi, per nuovi cittadini” . Continua a leggere

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Una poesia inedita di Mario Gabriele. Perché un poeta di oggi non può non essere sempre a contatto con l’immondizia, Poesie di Marina Petrillo, Tomas Tranströmer, «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Inedito di Mario M. Gabriele

 posted on novembre 3, 2019 by mariomgabriele da altervista.org

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019

La nebbia aprì squarci.
Il dubbio era se il mese più corto dell’anno
avesse altre vendette.

Una solitaria tristezza prese la strada più lunga,
senza pigolii d’uccelli allo sbaraglio.

Fu un’antologia di chimismi lirici a portarci in ecstasy.
In nessun porto approdò l’hovercraft.

Ci fu al Berlitz World un memorial day
con uno spartito di Liszt dell’Accademia di Santa Cecilia.

Ogni argine è un approdo di pensieri.
Il jet lag finì con la melatonina.

Un barcaiolo aprì un varco
alle colombe in lutto.

A volte ci si incontra con i vecchi amici.
Qualcuno prepara piani di lettura.

-Per favore, sediamoci
ad ascoltare il Prefatore di questa sera!.-

-Cari signori,
vi parlo di un prologo e di un frammento,
senza leggere i capitoli su Diana Ross.-

Potrebbe essere, il doberman, questa volta,
a trovare il Santo Graal.

Ma non è stato Pietro da Sant’Albano
a citare:’Historia fratris Dulcini Heresiarche”?

Wall Street mi attrae più di New York
e della tomba di Marilyn.

Che ne dici di rifare le scorsaline
per la prossima estate?

Le orchidee sono sempre tristi
come le musiche di Regondi e Pujol.

Abbiamo dovuto bere il latte
per tornare all’infanzia.

Oggi le Gamma GT- (S/U)
sono andate al di là di ogni Off Limits.

L’uragano ha lasciato le strade deserte
e i marciapiedi divelti.

Dalla finestra all’ultimo piano fino all’Eurospin
c’è una distanza dove Jenny naviga a vista.

roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella in una strada di Roma

La grande bellezza, fotogramma del fil di Paolo Sorrentino

Giorgio Linguaglossa

Perché un poeta di oggi non può non essere sempre a contatto con l’immondizia

Provate a leggere questa poesia-polittico con la radio o il televisore accesi. Provate a leggerla in mezzo ai rumori del traffico qui di Roma, quando siete sull’autobus o nel taxi, o in mezzo ai rumori dei talk show della schermaglia politica. Allora capirete perfettamente cosa vuol dirci questa poesia, che è tutto rumore, rumore di sillabe e fonemi, di significati e significanti andati in disuso; le parole di Zanzotto mischiate a quelle di Salvini, le parole di Maria Rosaria Madonna mescolate con quelle di Di Maio o dell’ultima soubrette. Leggete bene. E penserete bene.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/17/mario-gabriele-poesie-scelte-da-in-viaggio-con-godot-progetto-cultura-2017-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/

Forse la poesia ha questo di buono, che di fronte allo stile delle notizie del TG con cui vengono scritti i libri di poesia oggidì, un distico di Mario Gabriele lo individueresti in mezzo a un milione di parole delle poesie che si scrivono oggi. Certo, penso che scrivere un distico come quello sotto riportato implica aver fatto un lungo viaggio dentro se stessi, essersi allontanato dall’io, anzi, averlo fatto sloggiare dal Sé, averlo sfrattato. Tutto quello che rimane dopo questo lunghissimo lavoro di sfratto, è la poesia. Ciò che resta è poesia. Ciò che resta è l’immondizia della nostra civiltà.

Perché un poeta è sempre a contatto con l’immondizia, con i rifiuti, con le discariche delle parole abbandonate come lattine di birra vuote. Un poeta, lo ripeto, può fabbricare le sue costruzioni soltanto con i materiali di risulta, con la spazzatura. Pensate un po’ quanta crudezza e oggettività si cela e si svela in questo distico, che è espresso nella forma di ammonimento ad una persona X, certa Dolin: che ricordarsi di te «è stato sfogliare un album/ con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing». Forse si tratta di un distico d’amore, come si può amare oggidì nel nostro mondo, dove prima di amare si fa il calcolo del dare e dell’avere, di prendere e lasciare prima che arrivi il controllore o il cameriere con il conto da pagare dopo aver sbafato. Penso che Mario Gabriele non abbia mai scritto una poesia d’amore. Penso che non ne sia capace, l’amore esula dalle sue possibilità espressive, e anche dalla sua volontà.

Penso che mettere a confronto una poesia di Mario Gabriele con una di Paul Muldoon sia un esercizio utile. Quella di Muldoon è una poesia della vecchia ontologia estetica che commisura il conto da pagare con la quantità di cibo ingurgitato, quella di Mario Gabriele non fa calcoli di convenienza o di proporzionalità, lui scrive i suoi distici come si inanellano pensieri scurrili e cordiali ad un tempo, sordidi e derisori e nostalgici, ma di una nostalgia che giunge dopo un diluvio che non lascia nulla a cui aggrapparsi, ma solo rottami, spezzoni di una vita che fu.

Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.

Mario M. Gabriele

4 novembre 2019 alle 10:05

Condivido ciò che esprimi, caro Giorgio, anche perché i miei distici sono per lo più epigrafi provenienti dall’accumulo di storie catalogate nel Tempo, e le loro immissioni, come struttura portante: sono rinvenibili anche nel polittico, nelle diafanie e disfanie, come tratti specifici della mia esperienza quotidiana.Per questo mi riesce facile concepire una simile struttura sollecitata da te a suo tempo, rispetto alle mie narrazioni.

Sono schegge di storia umana e psichica, dove il tema dell’Amore è quasi inesistente, e laddove è presente con la citazione, è come sfogliare un album, rivitalizzando figure, oggetti, immagini luminose, ologrammi offuscati e ricomposti in carne e ossa,inclusi in un cerchio ridotto.

Ciò non vuol dire che io faccia poesia acrilica, anzi riporto lo spazialismo estetico e umano con un’ottica perforante dove trasferire il vero, senza tradirlo. Grazie del tuo intervento che assemblerò nel tuo Kit critico sulla mia poesia. Continua a leggere

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La Presentazione e la Rappresentazione nella poesia della nuova ontologia estetica, Poesie e Commenti di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Paul Muldoon, Paola Renzetti, Tiziana Antonilli, Lucio Mayoor Tosi, Adriano Ardovino, Kikuo Takano, Giorgio Linguaglossa

Mario M. Gabriele
inedito da Registro di bordo in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma
5

Il tempo riannodò i fili della memoria.
Uscimmo per andare ai magazzini Spandau.

Negli scaffali trovammo mostrine delle Schutzstaffel
e l’ultima edizione del Die Tageszeitung.

Un giovane livoriano lasciò i Tamburi nella notte.
Non fu facile tornare a casa.

Il triciclo portava fiori a Shiva
per una grazia a Geltrude Bisleri.

oh mammy, ora puoi salire sul Machu Picchu
e parlare con le colombe.

La ragazza sul treno adescava il Quinto Evangelio.
Al Savoia tornarono i ballerini di Grease.

Si sta in attesa di Hamm e Clov.
Beltrand si agita. Chiama un rom.

Gli dice di tenere tranquilla la notte.
Un puma fuggì dalla gabbia.

– Questa volta non lo prenderemo. Ci sono alberi e querce,
lupi e trappole nel bosco -, dissero i guardiani.

La linea della vita
è rimasta nella mano come una cicatrice.

Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.

Francesco Paolo Intini

Il gancio di Kikuo Takano

(libera traduzione di Renato Minore)

Dentro di me si muove
un gancio di ferro
chissà da quando chissà perché
lasciato chissà da chi
appeso così è un gancio proprio pauroso.
e speravo davvero che con la ruggine
mai dovessi provarlo (…)

Io ci aggiungerei una certa difficoltà di fronte all’Impersonale. Con chi prendersela se qualcosa non funziona? La macchina della razionalità affonda i denti nell’individuo in carne e ossa per dialogare con un Io creato dalla macchina stessa e dunque con meccanismi di natura numerica. L’io reale, il gufo che attende il suo turno nell’ufficio postale, lamentando e spazientendo accusa la sua impotenza come un colpo mortale, come si trattasse di aver visto l’efficienza dei campi di sterminio o la potenza dell’atomo nientificare Hiroshima. Un sentimento strano che non si lascia imbrigliare dalla metrica, né dai ritmi o dalle assonanze con cui si fa ancora poesia, semplicemente perché chiede di non piacere ma di annullarsi nel poeta stesso. E dunque l’unico rapporto tra l’Io ed il Mondo si fonda sulla negazione reciproca. Occorrono dei buoni elettroni per fondare un legame, altrimenti dominano quelli cattivi che spingono in basso lo sguardo o contro un cellulare l’orecchio per trascendere il filo che si percorre, secondo R. Minore.

ALGORITMO: L’IO.

Touch-screen e Dio in alto.
L’Everest affacciato alla scrivania.

Inutile rimpiangere la genealogia dell’india.
Ossido di carbonio sorpreso a respirare.

Il Nepal di via Einaudi si collega con la Cina.
Ma bisogna acquisire pratica di sentieri.

Salto di crepaccio
quanto nella lingua.

Parità con la pazienza del proletariato:
In fondo a un libro, incatenato nel Tartaro.

Il numero non era giusto
bisognava ricomporlo.

Avrebbe risposto un impiegato delle poste
Alzando lo sguardo dalla pece dello schermo.

E poi con gli uncini nello stomaco
come si fa a digerire Marx-Engels?

Marie Laure Colasson

Fare una poesia significa trovare il collegamento filiforme nascosto che ci riporta al nostro modo di vita a alla vita che abbiamo vissuto. La ricerca del padre da parte di Renato Minore ne è la prova compulsiva e significativa. È una ricerca ossessiva. Noi possiamo scrivere poesia soltanto se comprendiamo che viviamo all’interno di un sortilegio, quel cerchio magico che è il nostro modo-di-vita. La nostra residenza è la forma-di-vita che condividiamo. A questa forma di vita corrisponde una determinata forma di poesia, e quella del poeta di adozione romana è la sola forma-poesia che oggi possiamo adottare: non più la forma-diario, non più la forma cronologica di elencazione, ma una forma topologica, un luogo che non è un luogo.

Il linguaggio che impiega Minore, a ben guardare, è un linguaggio rifritto, di seconda cottura. Tutta la poesia di oggi è di seconda cottura, ripassata in padella. Così come anche la pittura: i vari strati di pittura, gli strati di colore sovrapposti intendo sui quali il pittore stende la pittura, ehm, definitiva. Volevo dire: ultima, giacché di definitivo nell’arte di oggi non è rimasto un bel niente. La poesia di Renato Minore mi dà la sensazione di una scrittura un po’ improvvisata, come se fosse una scrittura ancora da ultimare. Ma è che non è più possibile pensare di scrivere una scrittura definitiva e definita, oggi non è più pensabile pensare di licenziare una scrittura poetica ultimata. Oggi è forse possibile soltanto una scrittura che porti con sé un quantum di improvvisazione, di oscillazione… Che poi è, mi sembra di capire, quella cosa che sta a cuore alla nuova ontologia estetica. La nuova poesia ha in sé il marchio di fabbrica della propria vulnerabilità e della tendenza alla disparizione oltre che all’ammutinamento. Non saprei come altro dire quello che volevo dire…

Giorgio Linguaglossa

Concetto presentativo dell’arte di contro al concetto corrente di rappresentazione

Pensare l’essere direttamente, in termini assoluti – al modo di Hegel – è un modo analogo di pensare il nulla. Per il nostro concetto rappresentazionale, l’essere può essere pensato come un termine della differenza ontologica, può essere cioè distinto (unterschieden) e indirettamente identificato, con l’altro termine della stessa distinzione (Unterschiedenheit). Ma questa distinzione, in quanto differenza si manifesta nello scarto discorsivo in cui viene registrata la sua aporeticità. La conclusione di questo pensiero di Heidegger è nell’indicare l’essere come il ‘non’ dell’ente, come il ‘niente’ dell’ente. È questa la ragione che ha spinto  Heidegger, nella conferenza sul Principio d’identità, ad ammettere che il nostro linguaggio non possa  procedere in altro modo che nell’ambito del discorso, distinguendo i diversi snodi della articolazione logica, per infine formulare la tesi aporetica che «molto prima che si pervenga ad un principio (Satz) di identità, parla l’identità stessa».

Un’arte che appartiene tutta intera al pensiero rappresentativo è quella che si è praticata a lungo nel corso del novecento e in questi decenni ultimi. Quello che Marie Laure Colasson dice, che la nuova poesia è attenta ad un concetto di presentazione piuttosto che a quello tradizionale di rappresentazione, lo trovo altamente proficuo di sviluppi.

Leggiamo una poesia di Paul Muldoon

(premio Pulitzer nordirlandese) pubblicata da “tuttolibri” de “La Stampa” del 22 giugno 2019:

Rovescio

Tamburellare di pioggia
sul tettuccio della mia auto
come acquasanta
sul coperchio di una bara,
acquasanta e fango
che s’abbatte come un tonfo
benché mentre ne ascoltavo
il frastuono
quello s’affievolì nel silenzio
più spietato… L’ammucchiarono
per tutto il giorno
fin quando non m’abbandonai
a una contentezza
non avvertita da anni,
non da quell’inverno
in cui avevo indossato il mondo
sulla pelle nuda,
indossato la pelliccia verso l’interno

(trad di Luca Guerneri)

È ovvio che qui siamo davanti ad un tipo di poesia generata dal pensiero rappresentativo, si vuole rappresentare uno stato d’animo che scaturisce dalla esperienza della pioggia che cade «sul tettuccio della mia auto».
La seconda parte della composizione descrive la «contentezza» dell’io derivante da quella esperienza.

Si tratta di un modo di fare poesia che la nuova ontologia estetica ha abbandonato. Noi partiamo da un concetto presentativo della esperienza, e non più rappresentazionale. La presentazione degli eventi avviene sempre in modo diretto, non in modo indiretto come accade in questo tipo di poesia secondo cui la pioggia è importante per le ripercussioni psicologiche (la «contentezza») che può avere sull’io. La poesia che adotta il concetto presentativo dell’esperienza intende l’esperienza di un evento del mondo non solo per l’importanza che può avere sull’io ma perché l’evento è importante in sé e per sé, non soltanto per i riflessi psicologici che può avere su un «io» posizionato nel mondo che viene a coincidere con l’io dell’autore.

La NOE si limita a prendere atto che certi eventi (ad esempio, la pioggia) accadono e che sono importanti non perché suscitano la «contentezza» di un «io» (che è un modo riduttivo di fare esperienza degli eventi), ma perché sono importanti anche per tutti gli altri «io» che ci sono intorno, e sono importanti in sé e per sé, perché un evento è un evento per tutti. Ne deriva che la sintassi del modo presentazionale degli eventi muta di colpo, totalmente, muta la sintassi, che non sarà più narrazionale ma presentazionale.
Penso sia chiaro ai lettori che un tale approccio alla «narrazione» di un evento sia diametralmente lontano da quello rappresentativo vigente nella ontologia estetica del novecento che pensa l’arte in un modo che si limita a ripercorrere l’impiego delle categorie estetiche della tradizione senza innovarla, e senza neanche pensare di volerla innovare.
Per usare una formula di Giorgio Agamben che la impiega riguardo alla fotografia, penso che sia possibile utilizzarla anche per quanto riguarda la poesia della nuova ontologia estetica, la quale vuole «Dentrificare il Fuori» e, al contempo, direi: Fuorificare il Dentro. Continua a leggere

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Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Roberto Terzi, Fenomenologia dell’inapparente,  L’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, categoria di Giorgio Agamben, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

foto mani multiple

Faust chiama Mefistofele per una metastasi

Francesco Paolo Intini

[di prossima pubblicazione, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, con Progetto Cultura, Roma]

QUANTO XI

Si trattò di competere con un seme di papavero. Lotta tra Re e nano.
Migliaia di funzionari per i feudi, a spiegare il nero degli stami.

Farneticava la ghigliottina perché aveva furore di avvenire.
Era il ciompo che segnava la gioventù con una lama intorno al collo.

Si cadeva così facilmente che furono necessari rinforzi di ortiche
Leggi mercenarie a regolare il sacco.

Arrivarono con i carichi di mitra
Trascinando l’asino di Gesù nel giorno delle Palme.

ACHTUNG! ACHTUNG!

Cambio vita è il salto di cerchio.
Quanto XI che eccita Nicodemo, il bolscevico.

Il carico di pallottole nelle vene giù per la giugulare
a capofitto nelle mani. Stimmate di ferro ai piedi.

Poi nel risalire un martellare chiodi. Torsione di dorso
Che non voleva saperne di spingersi oltre la Luce.

Nemmeno una piccola fermata a rigirare il Tempo
Miracolo di un esploso che torna nel tritolo.

Carlo Livia

 [di prossima pubblicazione, La prigione celeste, con Progetto Cultura, Roma]

From here to nothing

Attraverso la notte sacramentale, nuda, trascinando l’anima del bambino
morto. Un vecchio mi vede da lontano e grida. Vuole uccidermi, ma diventa di marmo.

Cado nel groviglio francese. E’ piacevole. Il dolore cresce lontano. Divento
Auschwitz. Con le cosce dell’uragano Gloria, e un sesso trionfale con precipizi in fiore. Ritorno nel parco giochi. Un cipresso cieco, furioso, mi sbarra la strada. Ha tutti i morti in mano.

La rugiada delle fanciulle è spesso un addio viola. Segue le croci verso il buco nero, senza domande.

La veste vergine si affaccia dall’incesto, spargendo protoni mortali. Sul
davanzale intermedio traducono i morti in euro.

Dall’amplesso centrale cade un si minore. Biondissimo. Inestricabile dai
lunghi serpenti del profondo. Si staglia nel cielo lastricato di dei. Sul viale
ormonale appena risorto.

Nell’aria un uccello infelice. Diventa un peccato. O un flauto celeste, troppo
sottile. Mi trafigge il cuore. Per fortuna mi addormento. In sogno attraverso le
cascate.

Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata.

Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Intini è evidente che il venire-alla-presenza delle parole nell’ordine del discorso poetico equivale all’apparire degli enti. Si può allora vedere nella questione dell’evento il momento centrale di questa poesia, un’ultima ed estrema radicalizzazione della problematica fenomenologica dell’apparire delle parole nell’ordine del discorso umano. Dell’apparire e dello scomparire delle parole e del senso eventuale loro connesso e concesso da un io che si è ritirato nel nascondimento.

La parola è evento, è il luogo nel quale si mostra l’evento. La parola ci guarda, sta lì da sempre, attende un nostro cenno, un accoglimento, impedito da sempre da una resistenza che noi opponiamo con pervicacia e supponenza. Allora dobbiamo chiederci: si dà un evento senza la parola che lo nomina? La risposta è NO, è la parola che chiama l’evento. È perché siamo «guardati» dall’evento che siamo anche «guidati», condotti dall’evento.

Scrive Roberto Terzi:

«L’uomo in quanto esserci è il Ci, il luogo di questa manifestatività, ma non è colui che la costituisce o padroneggia, perché l’evento accade all’uomo prima di ogni sua iniziativa e l’uomo stesso,come vedremo tra breve, appartiene all’evento in cui diviene ciò che è. Ma concepire il fenomeno in termini evenemenziali significa anche indicare il cuore di nascondimento e sottrazione insito in ogni manifestazione, l’impossibilità di portare l’essere ad un disvelamento completo o ad una «evidenza». È significativo allora che nel suo ultimo seminario Heidegger si confronti nuovamente con la fenomenologia e parli programmaticamente di una «fenomenologia dell’inapparente»: gli enti appaiono, ma l’apparire degli enti non appare a sua volta, non perché sia qualcosa fuori dagli enti, ma perché è l’evento ritraentesi di ciò che appare. Diviene così comprensibile anche il senso del richiamo all’etimologia di Ereignis da eräugen (mostrare, far vedere, o anche guardare, adocchiare) e da Eräugnis (ciò che è messo sotto gli occhi): l’Ereignis è il movimento del venire-alla-visibilità, l’evento che «ostende» qualcosa portandolo alla manifestazione e conducendolo così al suo proprio. È ciò che rende possibile la nostra stessa visione, perché se bisogna parlare qui di un «guardare» e di uno «sguardo», si tratta innanzitutto dello sguardo dell’evento verso l’uomo e non viceversa. È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.» Continua a leggere

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Dopo gli ultimi post sulla Antologia di poesia italiana contemporanea How the Trojan War Ended I don’t Remember, (Chelsea Editions, New York, 2019), torniamo per un momento al capostipite della nuova poesia europea, a Tomas Tranströmer (1931-2015), Commenti di Francesco Paolo Intini, Gianna Chiesa Isnardi

foto-ombre-sfuggenti

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Scrive Tomas Tranströmer

nel risvolto di copertina del libro di esordio 17 poesie (1954):

«Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, cultura e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha lì’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati e concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una contro tendenza nei confronti di questo processo. Le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare».

Foto fuga nel corridoio

Così chiosa Gianna Chiesa Isnardi

«Per corrispondere a questo intento occorrerà dunque un approccio completamente diverso, una diversa capacità di osservare il mondo. Non si dovrà partire dunque tanto da tecniche e strategie comunicative, quanto, piuttosto, da stimoli esterni – trascurati dalle strutture convenzionali e spesso all’apparenza incoerenti – che siano capaci di destare impulsi interiori: frammenti che infondano una ispirazione. Un atteggiamento di sostanziale passività, di ascolto e ricezione cui solo in un momento successivo seguirà l’elaborazione poetica nella quale coscienza, capacità analitica e intelletto saranno chiamati a operare. La difficoltà (il lavoro segreto del poeta) consiste in questo: far emergere questi frammenti, rivestirli di immagine, di suono, di ritmo, in una parola di poesia. Il che significa anche, forse soprattutto, creare un insieme senza falsificare ciò che in questi frammenti portatori di ispirazione vi era di originario o di poco chiaro… Il testo poetico si pone dunque come luogo d’incontro in cui si congiungono sul piano dell’accostamento orizzontale e su quello dell’intersecazione verticale da un lato le immagini e dall’altro tutto ciò che esse simboleggiano o evocano.

La poesia dunque piuttosto che un centro statico in cui gli elementi convergono verso una definitiva collocazione, è un luogo dinamico nel quale essi possono, nella loro intrinseca fragilità e mutevolezza, manifestarsi e interagire per esprimere intuizioni, visioni, illuminazioni, squarci di verità ma anche, ma anche e contemporaneamente, riflessioni sempre nuove, incertezze, ambiguità e non da ultimo, dubbi. Nella poesia di Tranströmer l’uomo sta al centro di un mondo nel quale non è più capace di orientarsi e con il quale ha perso il contatto… Una poesia dunque ‘aperta’, un’arte che si sforza di indagare l’ininterrotto fluire della vita…

Estrema semplicità significa in Tranströmer estrema concisione. la prima impressione che scaturisce dalla lettura dei testi di questo autore è infatti quella di un perfetto nitore delle figure poetiche proposte cui fanno da immediato contrappunto le riflessioni che ne scaturiscono. Pressoché totale è l’assenza di elementi non direttamente aderenti all’immagine e alla sensazione evocata e la concentrazione – che egli stesso ha definito come essenza del parlare poetico – è massima. precisione nelle scelte lessicali e strutturali, prevalenza delle frasi affermative e della struttura lineare, relativa povertà verbale, laconicità, ricorso in misura minima agli elementi connettivi del discorso, frasi talora apparentemente frammentarie, costruzioni ellittiche, uso misurato della ripetizione con l’unico scopo di ricondurre l’attenzione del lettore al punto focale della riflessione poetica, attrazione reciproca fra elementi contrastanti, ossimori, associazione (seppure non immediatamente percepibile) di immagini e conseguentemente di idee, forza espressiva della parola portata all’estremo: un’arte della concisione che risle, almeno in parte, a grandi modelli del ‘900 come, soprattutto, Ezra Pound, T.S. Eliot o il grande Harry Martinson.»*

Si tratta di un documento assai importante perché ci rivela una concezione della poesia molto distante da quello in auge negli anni cinquanta in Italia. Ancora oggi queste parole del poeta svedese suonano come un invito a cambiare la prospettiva dalla quale consideriamo il linguaggio e il mondo. È da queste semplici osservazioni di Tranströmer che nasce la nuova sensibilità che condurrà alla nuova poesia della nuova ontologia estetica.

foto donna con ombrello

Ancora Tranströmer

«…la musicalità delle parole nel senso che uno sperimenta con vocali e consonanti in un certo modo, non è mai stata una attrattiva particolare per me». Tuttavia, nella stessa occasione, parlando del proprio desiderio giovanile di divenire compositore, rivela: «… ma poi ci sono sempre taluni impulsi musicali, che mi arrivano e a volte ciò succede in relazione a una poesia, così c’è come una sorta di ombra della poesia che si fa avanti sotto forma di esperienza musicale. Il che io non registro ma resta là in qualche modo nella coscienza». Inoltre, il poeta svedese precisa che la musica è da lui considerata comunicare direttamente e ispirare in modo straordinario.

In un’altra occasione, dice: «Io sono stato influenzato dal linguaggio della musica, il linguaggio della forma, è difficile dire in quale modo». Qualche tempo dopo, a chi gli domandava se sentisse le limitazioni imposte dalla lingua, il poeta rispondeva così:

«Le sento in modo straordinariamente forte – e forse la mia poesia è una sorta di compensazione per ciò che in realtà andrebbe espresso in musica. «La musica mi dà sempre forti emozioni. Senza musica non posso vivere. Tuttavia io non credo che si possano trasporre automaticamente le forme della musica nella lirica… Spesso forse c’è una sorta di orchestrazione nelle mie poesie. La musica ha questo in comune con la poesia, che è uno spazio di tempo, con un inizio e una fine, a differenza delle arti figurative.»

La musica. E io resto prigioniero
nel suo arazzo

*

La musica è una casa di vetro sul pendio
in cui le pietre volano

*

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

* Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003, p 58 e segg.ti

La Lugubre gondola, composizione per violino e pianoforte. In visita a Venezia presso la figlia Cosima e il marito di lei, Richard Wagner, nell’inverno 1882-1883, List si era ispirato al passaggio di gondole funebri dirette al cimitero, e aveva tentato d di riprodurre in musica l’impressione che ne aveva ricevuta. Trauergondel fu, secondo una dichiarazione dello stesso autore, una sorta di composizione profetica in quanto qualche tempo dopo (il 13 febbraio del 1883) Wagner moriva.

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

Tomas Tranströmer

da La lugubre gondola (1996)

I
Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida
quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner.
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.

Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata. Continua a leggere

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Antonio Sacco, Lo haiku nei poeti occidentali, Federico Garcia Lorca, Pound, Allen Ginsberg, Paul Eluard, Pierre-Albert Birot, Paul Claudel, Andrea Zanzotto, Jorge Luis Borges, Tomas Tranströmer, Jorge Luis Borges, Mario Chini,  Edoardo Sanguineti, Rilke, Octavio Paz

Gif Paesaggio urbano colored

Prendiamo qui in esame il rapporto fra lo haiku e i grandi poeti occidentali del XX secolo, più in particolare questo breve scritto vuole essere un excursus storico – poetico che mira a focalizzare l’attenzione sulle modalità con cui i grandi poeti occidentali sono entrati in contatto con questo genere letterario e, inoltre, desidererei porre enfasi come, essi stessi, si siano cimentati in questo genere citandone alcuni esempi.
Le prime traduzioni di haiku in Occidente furono pubblicate agli inizi dell’900 in Francia e in Inghilterra, esse esercitarono un influsso sugli imagisti anglo-americani a cui si legò Ezra Pound (1885-1972). Pound fu tra i primi ad avvicinarsi allo stile haikai e fu un grande studioso del giapponese, sostenne, fra l’altro, che:

“L’immagine è di per sé il discorso. L’immagine è la parola al di là del linguaggio formulato”.
E questo è importante perché, come sappiamo, lo haiku ci propone delle immagini suggerendo al lettore più che dire esplicitamente. Pound stesso, nel 1913, pubblicò una breve poesia simile agli haiku molto famosa, In a Station of the Metro:

The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.
*
L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.

Come possiamo notare abbiamo, nel componimento testé citato, una poesia di due versi, quattordici parole totali e nessun verbo che descrivono un momento nella stazione della metropolitana.

*
Alba

As cool as the pale wet leaves
of lily-of-the-valley
She lay beside me in the dawn.

Alba

Fresca come le pallide umide foglie
dei mughetti
Giaceva accanto a me nell’alba.

(tratta dalla raccolta Lustra, 1916)

Oltralpe è al poeta Paul-Louis Couchoud che si deve la nascita del movimento dello haikai francese: nel 1905 egli pubblica l’opuscolo anonimo Au fil de l’eau a cui fa seguito, un anno dopo, Epigrammes lyriques du Japon. Lo stesso Couchoud si cimentò nella scrittura di componimenti haiku pubblicando i propri scritti sull’Esagono, egli si convinse che le caratteristiche dello haiku quali la brevità, il potere suggestivo evocato, l’emozione lirica immediata, la rarefazione dei legami logici e, soprattutto, l’assenza di spiegazione potessero rappresentare un’importante innovazione per tutta la poesia francese. Seguendo questa linea tracciata da Couchoud nel 1920 Jean Paulhan dà alle stampe un’antologia di haiku sulla rivista «Nouvelle Revue Française»: il suo scopo è di render noto e far attecchire in Francia questo genere poetico al fine di rinnovare e dare nuova linfa vitale alla produzione lirica francese. Questa antologia conobbe un buon successo negli anni Venti e nei decenni successivi dovuta anche alla presenza di autori come Paulhan, Paul Eluard e Pierre-Albert Birot, tanto che si può dire che con esso lo haiku viene legittimato oltralpe. Paul Eluard (1895-1952) in particolare fa suo lo stile dello haiku riproponendo a più volte, in raccolte successive, gli undici haiku pubblicati nella Nouvelle Revue Française: questo a significare quanto lo colpì questa forma poetica che fa del linguaggio rarefatto e spoglio, privo di orpelli la sua peculiare caratteristica.

Le coeur à ce qu’elle chante
elle fait fondre la neige
la nourrice des oiseaux

Cantando con il cuore
fa sciogliere la neve
la nutrice degli uccelli

(P. Eluard)

Gif ballerina

Cent Phrases pour éventails (“Cento frasi per ventaglio”, 1927) è la raccolta di Paul Claudel (1868-1955), un altro grande nome della poesia francese del Novecento, di componimenti in stile haiku. Il movimento haikai francese suscita l’interesse anche di Paul Valéry, che non si cimenta con questa forma poetica ma che nel 1924 cura la prefazione a una raccolta di haiku tradotti in francese di Kikou Yamata.
Lo stesso Paul-Louis Couchoud diventa il tramite attraverso il quale anche Rainer Maria Rilke, che visita e soggiorna a Parigi più volte, entra in contatto con il fermento artistico e letterario in Francia, anche Rilke in tal modo si avvicina al genere haiku. Il poeta dei Sonetti a Orfeo, soprattutto nell’ultima sua produzione, mira ad una progressiva riduzione dell’Io, ad un distacco dell’Io poetante dalla realtà rappresentata, è molto colpito dal modo di comporre dello haijin. Ebbene anche Rilke sperimenta, cimentandosi, componimenti in stile haikai scrivendone ben ventinove:

Tra i suoi venti trucchi
cerca una boccetta piena:
è diventata pietra

(R.M. Rilke) Continua a leggere

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Carlo Del Nero, Poesie, con una Dichiarazione di poetica,  Giorgio Linguaglossa, Verso un nuovo paradigma poetico?

Carlo Del Nero. Sono nato a Massa il 27/10/1955 e vivo a Massa. Sono un autore inedito. Sono appassionato di musica, ho scritto anche qualche canzone, e di pittura.

Dichiarazione di poetica sulla poesia «ingenua»

caro Giorgio, mi chiedi dunque una «dichiarazione» sul concetto di «poesia ingenua».

Già la richiesta è stupenda, perché «dichiarazione» mi porta subito alla mente una affermazione d’amore. La dichiarazione ad una donna, ma in questo caso una dichiarazione d’amore all’ingenuità.

L’ingenuità è una privazione positiva. L’ingenuità l’abbiamo alla nascita, quando non abbiamo sovrastrutture, non abbiamo limiti, ancora non abbiamo segreti né sappiamo cosa siano. Dura poco. Sopra questa ingenuità si costruisce gran parte di ciò che siamo. Ovvio che non è possibile e neppure auspicabile tornare a quel punto, però è possibile “ripulire”, depurare dal superfluo, togliere dal blocco il marmo in eccesso che nasconde la figura (si vede che vivo da questa parti!! ).Non è l’ingenuità dell’infanzia, quello è solo un richiamo, è invece molto più umilmente l’onestà.

Quando si incontra una persona sconosciuta e per motivi apparentemente incomprensibili, si raccontano cose mai raccontate ad alcuno e che mai avremmo pensato di mostrare.

Dopo tutto è l’onestà di essere quel che siamo. Mica un lavoro da poco!

Insomma, bisogna credere nelle persone nude, che se tutti lo fossimo ci sarebbe solo pace. In questi giorni che scopriamo così tanto odio, tanta vigliaccheria, tanta violenza (in questi giorni come in tanti altri giorni passati), vediamo in realtà solo maschere ammaestrate che probabilmente mai hanno fatto lo sforzo di “scoprirsi” a sé. 
E poi, come già ti dissi, l’arte è una fede. Non sappiamo dove nasce, non sappiamo come, e non sappiamo neppure davvero distinguere con assoluta libertà, precisione e certezza. Però sappiamo vedere, ascoltare e meravigliarci anche senza la formula chimica dell’arte. Esattamente come per chi ha fede: sentire una certezza senza averne alcuna certezza.

E’ una fede che è fiducia, ma non può esistere senza una fiducia nell’individuo nudo che ne è il costruttore. Una fiducia beffarda, perché persiste anche nel più pessimista, deluso, arrabbiato e maledetto dei poeti. Gli infonde l’ottimismo di prendere una penna per descrivere il suo pessimismo. Beffarda davvero, non trovi!
Cercando i contrari di ingenuità, troviamo astuzia, furberia. tra i sinonimi troviamo sincerità, freschezza, purezza. Non tutti questi sono i sinonimi e i contrari, ma questi sono quelli che danno il senso al mio modo di utilizzare il termine. Nell’ammirare una maestosa cattedrale gotica, anche il più “furbo” trova un attimo di ingenuità, e dunque proprio questo sia uno dei compiti dell’arte?

Probabilmente non è questo che chiedevi, ma io non sono all’altezza di scriverti un trattato su alcunché, ti dovrai accontentare.

carlo del nero (13)

PS: una piccola nota sul quadro che ti ho allegato all’inizio della discussione.

il 24 maggio ricorreranno i 100 anni dalla nascita di mia madre. Per commemorarla abbiamo deciso di riunire per una cena i cugini (da parte di madre appunto).  Il quadro che ho allegato l’ho dipinto per l’occasione ed è composto di 15 tavolette di legno della misura 20×30 che tutte insieme compongono l’immagine che vedi. In quella occasione ad ognuno dei 15 cugini (me compreso) consegnerò una foto dell’intero ed una tavoletta. Quel quadro intero non si vedrà più. Nel mio piccolo a me sembra un po’ una poesia anche questa.

Giorgio Linguaglossa

         Verso un nuovo paradigma poetico?

Credo che un poeta completamente inedito, e quindi «vergine» come Carlo Del Nero, e per di più non più giovane – quindi non appartenente alle nuove generazioni le quali sono tutte protese verso le radiose praterie della visibilità – abbia qualcosa da dirci, e ce le può dire proprio perché se ne è restato in disparte per decenni a ruminare la cosa chiamata poesia che tanto non interessa a nessuno, tanto meno agli addetti ai lavori (come si diceva una volta con pessima terminologia). Il titolo è un avverbio, e sta ad indicare la modalità esistentiva dell’esserci, di noi, il nostro modo di approcciare le «cose» con indaffarata superficialità e sordità. Possiamo immaginare che Del Nero abbia dovuto anche lui attraversare il deserto di ghiaccio degli anni ottanta, novanta e dieci del nuovo millennio, abbia scontato sulla propria pelle la deriva epigonica e prosaicista della poesia italiana del novecento e abbia meditato su tutto ciò. Ebbene, Del Nero nulla sa della nuova piattaforma denominata «nuova ontologia estetica», però penso che qualcosa abbia letto se ci ha mandato le sue poesie, ciò vuol dire che abbiamo riscosso quantomeno la sua fiducia. Carlo Del Nero fa poesia perché non ha nulla da chiedere alla poesia, nulla da perdere, fa poesia senza atteggiarsi a poeta (leggo frequentemente degli scriventi che si dichiarano «poeta» e «poetessa» senza tema di apparire ridicoli) e senza infingere o indulgere negli e con gli strumenti retorici e, soprattutto, non fa mai riferimento all’Ego e alla sua profilassi poetologica. Carlo Del Nero preferisce il discorso diretto, non conosce altro che il discorso diretto all’interlocutore. Il discorso testamentario potremmo definirlo:

Amico,
mi piacerebbe tu preparassi
una bella orazione funebre
per la mia notte,
tu

Credo che possiamo tranquillamente annoverare Carlo Del Nero quale ricercatore di «nuova poesia», al pari degli autori della «nuova ontologia estetica», lui che scrive: «mi affascinano i quaderni bianchi,/ le scatole vuote»; «Quanto è vecchio dio!/ neppure si è accorto/ che ha le tasche bucate/ …e quante stelle/ gli sono cadute». Si avverte una disillusione quasi senza amarezza per tutto ciò che è andato perduto, in lui non c’è nulla dello scetticismo, del cinismo e del disincanto del minimalismo post-moderno romano/milanese, il disincanto c’è ma senza ombra di scetticismo piccolo borghese e di cinismo pariolino. Del Nero ha una postura minimale, un lessico minimo, un tono minimo anch’esso, eppure la sua poesia non è minimalismo ma rientra nella poesia a corredo metafisico, quella che va verso le cose e si tiene a distanza dalle cose. Istintivamente intuisce qualcosa sulla differenza tra gli «oggetti» e le «cose».

cambiamento di paradigma

Tempo fa discettavo intorno alla ipotesi che si stesse profilando nella poesia italiana un cambiamento di paradigma, dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza, espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, è ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo. E questa è senz’altro una buona notizia.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (in La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck:

«Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

si è concluso il Post-moderno

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il Fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili e mi riferisco ad una recentissima scoperta scientifica: è stato individuato un cristallo che ha una struttura atomica mutante, cioè che muta nel tempo!) ed il Fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un certo concetto di reale e di finzione), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio» (per dirla con un termine del lessico mediatico).

 

Poesie di Carlo del Nero

In questa stagione non si appendono più
panni all’attaccapanni

L’ingresso è nudo e tagliato
dalla finestra assolata che ribolle il passo

L’Arlecchino nudo è in tinta unita
in tinta erotica Colombina

Ma l’amore stenta nel sudario
regalando l’imbarazzo di un’inutile attesa

Questo silenzio ci insegna
il traffico là fuori

Questo tempo ci indica stanchezza
serena di bastarsi almeno per adesso. Continua a leggere

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Massimo Donà, La struttura aporetica del reale e del linguaggio poetico La struttura a polittico, La nuova poesia italiana, Poesie di Francesco Paolo Intini, Milaure Colasson, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Tomas Tranströmer

Giorgio Linguaglossa

Credo a questo punto sia opportuno verificare il significato del termine «interferenza» che sta avendo un grande ruolo nella costruzione della nuova poesia e del polittico in particolare:

il Sabatini Coletti
Dizionario della Lingua Italiana

Significato di «interferenza»
[in-ter-fe-rèn-za] s.f.
1 fis. Sovrapposizione di fenomeni; nelle telecomunicazioni, azione esercitata da una comunicazione su un’altra con conseguente disturbo || figure d’i., quelle formate per interferenza delle radiazioni ottiche

2 ling. Influenza esercitata da una lingua su un’altra

3 fig. Intervento indebito, intrusione: interferenze della politica nell’informazione.

Ecco cosa c’è scritto nella Treccani:

interferènza s. f. [dal fr. interférence, che è dall’ingl. interference, propr. «incrocio, conflitto (di interessi, ecc.)», der. di (to) interfere: v. interferire]. –

  1. Nel linguaggio scient. e tecn., il sovrapporsi di due fenomeni cooperanti e il conseguente sommarsi o elidersi dei loro effetti. In fisica, con riferimento a fenomeni vibratorî e ondulatorî: i. costruttiva, o positiva, quando gli effetti consistono in un reciproco rafforzamento; i. distruttiva, o negativa, quando si ha una riduzione reciproca dei singoli effetti (con questa accezione, anche assol. interferenza, senz’altra determinazione: i. della luce, o i. luminosa; i. di particelle).

In partic.: figure d’i., le figure luminose formate per interferenza delle radiazioni ottiche; frange d’i., v. frangia, nel sign. 4. Con sign. specifici, in altre discipline:

  1. Nella tecnica delle telecomunicazioni, qualsiasi azione che venga esercitata su una comunicazione da un’altra comunicazione o da un segnale estraneo, dando luogo, in conseguenza, a disturbi e ad alterazioni varie nella comunicazione che interessa. b.

In farmacologia, caso particolare di antagonismo, che interessa organismi molto semplici (unicellulari) e consiste nella inibizione alla penetrazione di un farmaco per la presenza di un’altra sostanza. c.

 In virologia, inibizione della crescita di un virus in cellule infettate da un altro virus. d. In genetica, il fenomeno per cui, nei cromosomi omologhi, non si verificano nei punti prossimi a uno scambio (crossing-over) altri scambî o si trovano con frequenza molto inferiore a quella teoricamente prevedibile. e. In matematica, la parte comune a due o più insiemi, detta anche intersezione. f.

In ottica cristallografica, colori d’i., figure d’i., colori, figure prodotti da sostanze cristalline birifrangenti osservate al microscopio polarizzatore con luce, rispettivamente, parallela e convergente. g. I. aerodinamica, lo stesso che induzione aerodinamica (v. induzione, n. 3 a). h. Con sign. analogo, ma più concreto, nelle costruzioni meccaniche, la compenetrazione dei due profili di una coppia di ruote dentate; anche, la differenza tra le dimensioni delle due parti di un accoppiamento fisso (le dimensioni della parte interna sono infatti sempre superiori a quelle della parte esterna per realizzare il forzamento). 2. estens. In semantica, una delle cause delle trasformazioni di significato d’una parola, consistente nel sovrapporsi d’un secondo significato a un primo in connessione con etimologie popolari o semidotte: per es., l’uso di inedia con il sign. di «tedio, noia» è dovuto prob. a una sovrapposizione di inerzia (un altro esempio di interferenza semantica è lo stesso verbo interferire).

Più generalmente, in linguistica, l’influenza che in singoli casi e come fenomeno individuale una lingua può esercitare su un’altra lingua in contatto, spec. in soggetti bilingui, portando a modificazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche o lessicali; così, per es., a un italiano potrà accadere di dire art nouvelle per art nouveau, dando al fr. art il genere femminile dell’ital. arte; o di dire, per un erroneo calco, ma machine per ma voiture. 3. fig. Incontro di azioni, iniziative, interessi, idee diverse, per lo più discordanti, o che tendano comunque a influire l’una sull’altra determinando spesso un contrasto; più genericam., intromissione, inframmettenza: il potere giudiziario dev’essere sottratto a ogni i. del potere esecutivo; interferenze tra Chiesa e Stato, tra fatti politici e fatti economici; non tollero interferenze nei miei affari privati; la vita … era troppo oziosa perché non vi proliferassero il pettegolezzo e l’i. negli affari altrui (Primo Levi).

Massimo Donà

 La struttura aporetica del reale e del linguaggio poetico

Spezzo un giavellotto in favore della categoria dell’interferenza nel linguaggio poetico. Portiamo ad esempio il concetto dell’uno come uno che, in quanto posto come uno, si duplica in due… e così via di rinvio in rinvio ad altro e, quindi, di duplicazione in duplicazione, essendo la struttura della duplicazione la medesima della struttura dell’uno, al modo che l’identità dell’uno viene confermata nel suo duplicarsi immediato in due e in numeri infiniti. Così, non possiamo che concludere che nell’uno c’è l’infinito, ovvero, nel finito c’è l’infinito. È questa la struttura aporetica del reale che risuona anche nel linguaggio e nel linguaggio poetico in particolare.

(Giorgio Linguaglossa)

«Si pensi al circolo dell’interpretazione infinita (che ancora oggi tanti adepti e continuatori guadagna alla propria causa) – tanto per fare un esempio particolarmente significativo di tematizzazione della questione del “linguaggio” – e al suo teorizzatore: Hans Georg Gadamer.

Egli avrebbe voluto riconsegnare al logos quella ampiezza e quella realità che sembravano destinate a un irresolubile irrigidimento; di contro a un incontrastato dominio della filosofia del “concetto” (si pensi all’enorme influenza dell’hegelismo ottocentesco).

Ma, in realtà, anche questo tentativo doveva essere seriamente inficiato dalla sua vera e propria infondatezza teorica. Il circolo ermeneutico è quello che è solo in quanto per esso “identità definitoria” e “proliferazione delle differenze”, non sono in alcun modo coincidenti – anzi, solo in quanto formalmente separati, si ritiene possano costringere qualsivoglia forma di “unità” a ridefinirsi all’infinito, in corrispondenza alle sempre nuove modalità che la differenza di fatto produce (indipendentemente da ogni troppo prevedibile rispetto verso nomoi già esistenti).

Per Gadamer, infatti, “le possibilità finite della parola sono messe in rapporto con il senso che si manifesta come qualcosa che indica nella direzione di un infinito…”.1

Un esempio particolarmente significativo di tale destino sembra essere rappresentato, agli occhi di Gadamer, dalla parola poetica.
Già Hölderlin ha mostrato che l’invenzione del linguaggio di una poesia presuppone la dissoluzione totale di tutte le parole e le formule linguistiche consuete”.2

Ma, se, davvero, di contro alla dialettica del concetto (e qui il referente polemico è Hegel, ossia la sua concezione dialettica), l’esperienza ermeneutica comporta che “lo sviluppo del significato totale, che è l’obiettivo della comprensione, ci mette nella necessità di formulare un’interpretazione e di ritirarla subito di nuovo”3 – se non altro in quanto, “nell’evento del linguaggio, non ha la sua sede solo ciò che permane, ma anche il mutamento delle cose”4 -, allora, sempre nell’ottica gadameriana, il compito dell’interpretare (e dunque del linguaggio da cui il medesimo è reso in qualche modo possibile), espresso in termini logico-formali, si costituirà nell’incessante ridefinizione di un inesauribile rapporto tra identità (di fatto rinviante al senso in cui l’interpretante di volta in volta si ri-troverebbe ad essere – da cui il suo esser così com’è) e differenza (eccedenza “mai esauribile” del significato – perciò strutturantesi come modo dell’in-finito -, che differenzierebbe, ab alio, quello stesso senso unitario di cui sopra… e per effetto di un’originaria azione destituente da quello costitutivamente insussumibile e dunque illegiferabile).

Da ciò l’originarietà dell’azione reciprocamente determinante di una unità e di una molteplicità sempre non-contraddittoriamente concepite.
Che è proprio quanto abbiamo visto venire ab origine “negato” dall’aporeticità originariamente caratterizzante la struttura del linguaggio tout court; la stessa che mai ci consente una reale esperienza di libertà (libertà, se non altro, rispetto al contesto mondano) – magari fondata sul fatto che “il rapportarsi al mondo richiede che si sia staccati da ciò che nel mondo ci viene incontro al punto da poterselo rappresentare come esso è”.

la posizione gadameriana ha insomma ben poco a che vedere con l’aporia da noi messa in luce; anche perché, a costituirsi, in essa, è invero una palese oscillazione tra affermazioni che ribadiscono l’originaria linguisticità dell’esperienza umana, ovvero l’intrascendibilità del linguaggio (“né si può pensare di guardare dall’alto il mondo del linguaggio, giacché non c’è un punto di vista esterno all’esperienza linguistica del mondo, dal quale tale esperienza possa essere guardata oggettivamente”6) – dominio dell’identità! – e a critiche assunzioni di quella che viene riconosciuta come “apparenza immediata naturale” o “evidenza intuitiva”, e in quanto tale contrapposta all’artificiosità della costruzione linguistico-intellettuale; e valevole quindi come fonte d’esperienza tanto reale quanto quest’ultima
[…]
Si tratterà di sottolineare piuttosto, e nel modo più risoluto, come interrogarsi intorno alla questione del “linguaggio”, non significhi affatto porsi un problema metodologico e dunque preliminare rispetto alla vera e propria ricerca metafisica od ontologica che dir si voglia – quasi ci si dovesse interrogare dapprima sulle condizioni di dicibilità, e solo in un secondo tempo (e quasi indipendentemente dagli esiti di questa indagine preliminare) porsi il problema della “verità” o del “fondamento”… magari dimentichi del fatto che i risultati della prima parte della nostra ricerca dovrebbero valere anche per quel linguaggio che, solamente, consente di esprimersi in termini di fondamento, verità ontologia, identità e differenza.

Insomma, decidere del significato e della realtà del linguaggio è già un decidersi intorno all’essere di ciò che è, e, per quanto detto sino a questo punto, intorno al rapporto linguaggio mondo – e ciò è vero per il semplice fatto, appena ricordato, che la verità può essere detta solo nella misura in cui e nei limiti in cui il linguaggio “dica” davvero qualcosa (la verità non può essere tale se non anche in relazione a quella determinazione che chiamiamo “linguaggio” – il linguaggio, infatti, se è, è, come un tutto, secondo verità).

Ecco, da dove la necessità di un’analisi del linguaggio in grado di concepire il linguaggio medesimo come problema eminentemente filosofico – e l’importanza dei risultati sin qui conseguiti.

Una cosa è certa, comunque: stante che “il carattere di segno esiste qui solo connesso con qualcosa d’altro, che valendo come segno è anche qualcosa di per sé e ha quindi un suo autonomo significato, diverso da quello che ha come segno”8, allora il linguaggio (che, per quanto detto sino ad ora, coincide con ogni determinatezza, in quanto originariamente costituentesi come “significato”) non si configura come semplice struttura di “segni” (né di simboli o immagini che dir si voglia – la struttura del rimando è infatti sempre la medesima, di là dalla precisione o dalla sua più o meno consolidata univocità).
Nessuna “relazione”, infatti, riuscirebbe a giustificarne la supposta potenza indicatoria.

D’altro canto, l’aporia non può certo venire indicata o in qualche modo significata; per quanto non si celi né si ritragga in qualche misteriosa ascosità. Ma da sempre si articoli piuttosto nel di-segno proposizionale in cui, solamente, il non-esistere di quel che esiste può annunciarsi e palesarsi per quello che esso veramente ‘non-è’.»*

* M. Donà, L’aporia del fondamento, Milano, Mimesis, 2008 pp.529 e segg.
1,2,3,4,5,6,7, cit da H.G. Gadamer, Wahreit und Methode, Tubingen, 1965 pp. 444, 446, 441, 425, 419, 429, 425

 Gino Rago

Nel corso di un colloquio-intervista con un poeta, assai noto al pubblico de L’Ombra delle Parole, mi è stata posta anche la:

Domanda

In poche parole come presenteresti un “Polittico poetico in distici”…? 
Ho provato dare questa:

Risposta 

In estrema sintesi direi:

Fisica quantistica+ Civiltà musicale+ Arti Figurative+ Cronaca+ Storia+ Misticismo Barocco+ Arti plastiche+ Scontro di dive (Lisi-Dietrich) come urto fra Cinecittà e Hollywood+ Compressioni ed Espansioni dell’universo+ Letteratura+ Personaggi-poeti vivi + Personaggi-poeti non più vivi+ Tempo dilatato + Tempo compresso+ Spazi-geografie nell’indefinito e nel familiare+ Fono-prosodie con al centro immagini+ Parole entanglate come protoni nell’entenglement+ Rottura delle associazioni sostantivi-aggettivi a favore dei sostantivi+ Soppressione definitiva del piccolo Io narcisistico e perdente come illusoria misura della storia e del mondo+ Valorizzazione del sostantivo+Immissione del parlato ( in forma di monologo o di dialogo) + Altro = Polittico (o meglio, tentativo di polittico, così come lo sto intendendo).

E’chiaro che non si approda al Polittico in distici senza l’attraversamento consapevole della esperienza poetica per “frammenti”.

Per ora il Polittico in distici (Religione-Arte-Letteratura-Poesia) mi pare il max che si possa chiedere alla Parola di poesia se si vuole, per me, andare più in là e un po’ più in alto di dove hanno fin qui osato e ancora osano… le quaglie.

E per non correre più il rischio in poesia di continuare a sentire dappertutto ruggiti… di agnelli, rischiando di annegare nella profondità … di una pozzanghera. Continua a leggere

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Steven Grieco Rathgeb, L’IMMAGINE IN POESIA, PARTE PRIMA – TEMPO, SPAZIALITÀ, DENSITÀ, NEUTRALITÀ DELL’IMMAGINE, Una poesia di Wang Wei, Hiroshige,  Donatella Costantina Giancaspero, Trinita Buldrini, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa 

 

Gif twin tower destruction

Il punto di vista di Steven Grieco Rathgeb

Cari poeti, lettori, di nuovo affronto il nodo cruciale: che cosa è l’immagine in poesia? L’Ombra delle parole ne ha già parlato ampiamente. Con questo pezzo aggiungo la mia visione al dibattito. Inizierò con alcuni brani che ho presentato l’anno scorso ad un laboratorio di poesia dell’Ombra delle parole.

Nel 1999 a Roma, in partenza per l’India,  comprai il libro il tempo del regista Andreij Tarkovskij, sull’arte del cinema. Ne rimasi colpito perché trovavo lì spiegato con molta chiarezza cosa è l’immagine in cinematografia. Capii ancora meglio i film capolavoro di questo regista, che avevo visto a Parigi quasi trent’anni prima. In seguito a quella lettura ho ampliato alcuni dei suoi concetti per poterli adattare alla scrittura poetica e in prosa, aiutandomi con il mio bagaglio di esperienze esistenziali, di poesia occidentale e osservazione del mondo naturale, di estimatore di poesia e pittura cinese; con le ricerche in campo sonoro ed estetico della musica elettroacustica; con un testo fondamentale sulla poesia che è il Dhvanyaloka di Anandavardhana, e con i miei incontri con un altro regista, l’indiano Mani Kaul, e in seguito con un studioso giapponese con cui ho collaborato per 10 anni nello studio/traduzione della poesia waka.

Tutto prende avvio nel momento in cui l’artista (poeta, pittore, regista, musicista, etc.) ha avuto un’idea per fare un’opera. Ha visto delle immagini, ha formulato dei concetti. Essi racchiudono allo stato iniziale il grumo primordiale della sua idea, della sua ispirazione.

Nel cinema, la “immagine” corrisponde all’inquadratura cinematografica, che Tarkovskij definisce “segmento colmo di tempo”. Riflettendo su queste parole, mi trovo a tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. E dice inoltre: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.” Come si può rapportare questo alla immagine in poesia?

Se il tempo, pur nella sua estrema elasticità e relatività, esiste, e se le diverse deperibilità che l’uomo osserva nelle cose sono uno almeno degli indici di questo fluire; se “l’entropia è ciò che trasforma il ticchettio dell’orologio nel distruttore di tutte le cose” (questo sulla scia degli studi rivoluzionari di Boltzmann, il quale introdusse il concetto di tempo reale e trasformazione irreversibile nella perfezione immutabile della fisica classica): se tutto questo ha un senso, si spiega come in un’opera artistica il tempo possa anche possedere una sua fuggevole concretezza: materia immaginale, fluida che può, come l’acqua, traboccare da un vaso, bagnarci le mani. Oggi il concetto di tempo acquisisce questa strana sostanzialità, in qualche modo parallelo al vento, di per sé invisibile, ma osservabile nel muoversi delle fronde, sul viso di una persona, nella misurazione di un anemometro, etc. Se noi artisti oggi spesso immaginiamo il tempo in questo modo, ciò è grazie a tre fattori base: la poesia haiku, le ricerche fatte in campo scientifico, l’invenzione del cinema.

Allora pensiamo un’immagine – l’immagine artistica nel senso più autentico – per quella che è: una cosa reale, vivente: fuoriuscita da noi ma non creata da noi, mai interamente dominata da noi; così come lo scienziato non possiede la sua osservazione. Dice Giacinto Scelsi: “Le compositeur n’existe que comme absent de son oeuvre”. Sulla superficie liquida, tremolante, dell’immagine (e più sottilmente al suo interno), stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono al vento: “nel puro cerchio un’immagine ride”, ma con potenzialità fortemente allargate rispetto al verso montaliano, e con diverso grado di penetrazione. Quando poi quella immagine scaturisce non dalle arti visive o dal cinema, ma direttamente dalla immaterialità della tradizione orale e scritta, siamo di fronte all’immenso lascito culturale della nostra civiltà umana percepito nella luminosità, spessore oscuro ed effimera leggerezza della parola.

Prima di andare avanti, avverto il lettore che in questo scritto miro al totale smantellamento dell’aspetto “letterario” dell’immagine in poesia. Grazie all’esempio della cinematografia più alta, ci è possibile rifondare anche l’immagine in poesia. Il termine “letteratura” porta con sé le peggiori associazioni di testi appesantiti dalla farragine di artifici ed espedienti retorici che in passato hanno avuto un senso, oggi non più. Considero “letteratura”un termine obsoleto per ciò che chiamerei oggi “espressione creativa in forma scritta”, o semplicemente “scrittura” (termine da tempo in uso).

Gif metroSe l’inquadratura in un film è come dice Tarkovskij “segmento colmo di tempo”, vediamo come una simile definizione sia applicabile oggi alla scrittura poetica. Lo ripeto: la poesia ha tutto da imparare dal cinema. Quel segmento è secondo me comparabile ad un segmento scritto in poesia: in entrambe esiste una intensità relativa, che io chiamerei “densità d’immagine”. Le due sono anche diverse fra loro perché l’immagine mentale, virtuale, non ha la concretezza visiva dell’immagine cinematografica.

Come favorire la densità d’immagine. Prima di tutto, accenniamo al senso di spazio all’interno e all’esterno di una immagine poetica. Mani Kaul parla di uno spazio “sacro” e uno spazio “profano”, e cioè lo spazio occupato dalla immagine, e il mondo circostante. Kaul era regista, dunque si riferiva allo spazio inquadrato dall’obiettivo della cinepresa.

Un esempio: “farfalle in volo sulle acque”. Questa immagine, o qualsiasi altra, vista fisicamente o mentalmente, funziona benissimo anche in poesia. Di nuovo, essa non appartiene al poeta. L’illusione che l’artista sia padrone unico della propria mente e dei propri pensieri, è già l’inizio della malattia dell’autorialità, che quando inizierà il lavoro di contestualizzazione entro spazi più grandi, quasi sempre costringerà l’opera in uno spazio soffocante e claustrofobico. Questo è vero delle opere artistiche di tutti i tempi. Tuttavia, in un tempo più classico, quando la poesia viveva abbastanza bene entro schemi o meglio spazi fissi, pre-organizzati e sanciti dalla tradizione, un eventuale senso di autorialità nuoceva sicuramente meno al poeta e alla sua opera. Oggi, nel contesto di un mondo sempre più disorganizzato alla radice come il nostro, l’opera è libera (lo è a tutti gli effetti da più di 100 anni); sfugge a qualsivoglia controllo.

“Farfalle in volo sulle acque”. Farfalla e acque stanno nel campo visivo specifico; il non-specifico, ossia il mondo circostante, è tutto ciò che preme sull’immagine a chiudersi o aprirsi suggerendo altre possibilità, altre potenzialità: Dove? Come le acque? etc. può darsi che il poeta apra a quella più grande area perché sente necessario un ampliamento dell’immagine iniziale: l’immagine lo chiede. Così, favorisce l’ingresso nello spazio “sacro” di materiali non-specifici, in un indispensabile processo creativo che io chiamo di “porosità” fra interno dell’opera ed esterno. Ovviamente parliamo di un processo non solo spontaneo ma anche dettato da ciò che il poeta intende esprimere e che quindi si muove sullo sfondo di tutto il suo bagaglio culturale ed esistenziale. (vedi la poesia di Giorgio Linguaglossa più sotto.)

 “Farfalle in volo sulle acque del Golfo”. Possiamo vedere la crescita di un’immagine in questi termini. La densità è cresciuta, è cresciuto il “senso” dello spazio, pur rimanendo l’immagine leggera e ariosa come prima. Perfino la “g” maiuscola di “Golfo” conferisce un proprio sapore estetico. Ripeto che tale processo è in massima parte spontaneo nel poeta, diversamente si ridurrebbe alla costruzione con mattoni e cemento. Un criterio di scelta comunque è necessario: più questo è pulito, più limpida sarà l’opera. Le farfalle sulle acque del Golfo sono esempio della suggestività neutra di un’immagine: lo scenario a-significante delle cose, entro il quale si iscrivono senza soluzione di continuità le azioni dell’uomo (fra cui anche la sua osservazione di questo scenario).

Farfalle in volo sulle acque del Golfo
gli occhi le perdono
sullo sfondo degli isolotti
riposo / mèta / nido
di altre ali

(Trinita Buldrini)

Qui i versi quarto e quinto non fanno altro che dichiarare l’esatta ragione per cui farfalle o uccelli s’involano sulle acque per raggiungere quell’isolotto lontano. Ogni suggestione di “sollievo” è il lettore a fornirla al testo.

Gif Treno

Vediamo anche questo distico di Wang Wei, poeta di epoca Tang:

pioggia sul monte, tonfo di un frutto che cade:
sotto la lanterna, stridono gli insetti nell’erba

Qui troviamo perfettamente acquisita la fusione leggerissima e inesprimibile di temporalità e spazialità. Vediamo la forza d’urto di una immagine neutra, non impaludata da significazioni letterarie o ideologiche o esistenziali. Un commentatore d’eccezione, giapponese, ha detto di questi versi: “l’uomo sta seduto da tempo in silenzio, con un lume accanto. Il suono della pioggia viene interrotto dalla caduta del frutto; gli insetti si zittiscono, poi riprendono a stridere”. Silenzio dell’uomo in ascolto che suggerisce inoltre intensità, profonda riflessione sullo stesso mistero della poesia.

O questi versi inscritti su una xylografia di Hiroshige:

all’alba la luna si libera
laggiù nella foresta
in autunno il fiume nasce
a Occidente dei monti

Nel primo verso, la partecipazione “segreta” dell’uomo che osserva sta soltanto nel verbo “si libera”; nel terzo verso, nella parola “nasce”.

E un “aicu” di un poeta romanesco, Luciano Gentiletti:

li mannoli se spojeno,
ce so’ millanta fiori ner vento.
Io sgrullo li pensieri.

La neutralità d’immagine la vediamo anche qui sotto:

l’ombrello di chi arriva
passa davanti alla mia porta
e va dal vicino

È inutile dare un significato: l’immagine è già in sé significante, in questo caso pluri-significante. Si è detto che viene espressa la solitudine dell’autore, ma l’haiku potrebbe esprimere anche altri stati d’animo. Io vedo personalmente vedo in essa riflessione sulla solitudine come condizione esistenziale punto e basta. Questo haiku è un esempio modernissimo (sebbene scritto due secoli fa) di composizione a “struttura aperta”. Il vero haiku è struttura talmente aperta, che invita sempre il lettore a completarne il senso.

La neutralità d’immagine, così importante al giorno d’oggi per sfuggire ad obsolete retoriche letterarie, proviene da Oriente. I massimi critici d’arte contemporanei sono convinti che uno degli impulsi più forti alla nascita dell’arte moderna in Europa fosse dovuto all’arrivo di merci dal Giappone, dal 1865 in poi, dentro carta da imballo consistente di copie di xylografie scartate. Sappiamo come queste rivoluzionarono la visione degli Impressionisti, e in seguito, di Van Gogh e altri pittori della sua generazione.

È probabile che il primo gesto artistico realmente “moderno” in epoca moderna nel mondo fosse stato compiuto dal giovane Hokusai a Edo (Tokyo), ai primi dell’800. Era stato invitato alla corte dello Shogun, con altri artisti più grandi e importanti di lui, a eseguire un dipinto seduta stante. Quando toccò a lui, prese un grande foglio di carta, lo mise in terra e ci disegnò sopra delle lunghe pennellate di colore azzurro. Poi da una cesta estrasse una gallina, le intinse le zampe in colore rosso, e la fece attraversare il foglio di carta. Intitolò il suo dipinto “foglie autunnali sul fiume Tatsuta.” Qui è dove assoluta modernità ed astrazione si legano a tradizione: foglie autunnali sul fiume Tatsuta è un soggetto antico della tradizione pittorica e poetica giapponese, reso migliaia di volte nei secoli.

(Similmente, senza “Il naso” di Gogol’ non sarebbero forse stati possibili né il Dadaismo né il Surrealismo. Ancora, questa, una intuizione di assoluta modernità proveniente da un’area periferica alla classica cultura europea.)

Torniamo a noi. Cosa dice Tarkovskij su come congiungere i singoli segmenti di un’opera? “… il montaggio è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi”. Ecco che il concetto di montaggio, o composizione in campo poetico, diventa operazione fondamentale. Ed è un lavoro che l’artista, esecutore-Tiresia, cieco-omnivedente, svolge non tanto per “costruire” l’opera, ma piuttosto per ritrovare la visione, l’intuizione che lo aveva mosso in origine a fare l’opera. La visione originaria è anche il futuro dell’opera. Tarkovskij afferma che il montaggio di un film in base a un progetto pre-organizzato a tavolino tende a soffocare la visione del regista. Questo dice per il cinema, e questo, per quanto mi riguarda, vale anche in poesia.

Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile per il poeta, che non veicola la sua poesia attraverso l’antica e forse futura tradizione orale, ma la “scrive” sul foglio cartaceo o virtuale. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è spingere al raggiungimento del  prodotto finito, alla sua “chiusura” in base a regole preconfezionate; altro è comporre-scomporre-ricomporre per far emergere la pregnanza del tempo interno cui allude il nostro regista. Quindi, vorrei aggiungere io, di offrire un’opera a struttura aperta. A lavoro ultimato, tutto ciò deciderà il relativo grado di “densità” poetica dell’immagine: della sua fruibilità profonda, della possibilità del fruitore di ricrearla.

Continua il regista: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

(La parola “verità” è pericolosa. Qui ci viene in aiuto un concetto indiano, pramāna, spiegato da Ananda Coomaraswamy nel suo libro La trasfigurazione della natura nell’arte. La radice di questo termine sta alla base anche del Greco “metron” e del Latino “mensura”. Gli antichi pensatori e artisti indiani intendevano pramāna come “misura, conferma, verità interiore”, raggiunta in un attimo di tempo e di nuovo persa; e per quanto “interiore”, mai in diretto contrasto con la verità empirica del mondo esterno. La verità-realtà, satya, non dimora mai stabilmente in un singolo concetto o immagine: la sua intima natura è di muoversi, attraversando concetti o immagini o oggetti, che sono i suoi veicoli. Ogni tentativo di fermarla porta a idolatrare un simulacro di essa. La verità-realtà è un’energia, una resilienza: pramāna è la misura per coglierne l’apparire fugace.)

E quindi, sia nel momento di lavorazione, sia in quello della lettura creativa del testo, s’increspa la superficie dell’acqua mentale, immaginante, facendo emergere il senso potente della fuggevole verità artistica, in un procedere cristallino e focalizzato.

In questo modo possiamo determinare un vero e proprio spostamento del baricentro interno del concetto di poesia via da quello che ha dominato la prima fase della modernità, ossia del secolo Novecento. Uno spostamento, se posso dire, “realmente” ontologico (e passatemi la tautologia) attraverso l’individuazione delle stesse radici del poetare, dell’essere in poesia, del punto stupefacente che per un attimo collega interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo: l’immagine. Ma in questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Come il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così l’ha trovata il lettore. La poesia si compie nel lettore.

Invito inoltre il poeta a vedere la poesia e la sua materia grezza – le cosiddette bozze, che io chiamo “supersimmetrie”– come un unico ma complesso organismo vivente. L’opera nelle sue fasi compositive e l’opera finita sono legate in un connubio sottile che va ben al di là dell’apparente processo lineare di perfezionamento e completamento della scrittura, in cui il criterio base è unicamente un ansioso ripulire lo spazio “sacro” di tutti i materiali “profani”. L’opera invece è minuscolo spazio dicibile, aperto a, e dialogante con, lo spazio indicibile che è il mondo circostante.

Gif waiting_for_the_trainCOSÌ, LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

Ridare pienamente la dignità all’aspetto tecnico, compositivo dello scrivere, quel processo che la quasi maggioranza dei poeti in questi ultimi tanti decenni ha considerato quasi meccanico, subordinato alla costruzione a tavolino di una “idea”. Tutto questo segna, secondo me, la fine della lunga strada della decostruzione dell’opera poetica del XX secolo, che può aprirsi ai nostri tempi.

Come sappiamo, in campo musicale tale rivoluzione era iniziata con Mahler alla fine del XIX sec., ma è continuata fino ai giorni nostri, passando fra l’altro per Stockhausen, il quale poté 60 anni fa asserire che esiste una assoluta equivalenza tra suono e rumore. È possibile che esista una equivalenza simile – forse meglio dire corrispondenza – fra la singola unità immaginale differenziata nella scrittura e la sua immagine indifferenziata nel mondo. Il problema è che in poesia e in prosa questo tipo di processo creativo di decostruzione è stato interrotto 60-70 anni fa. Ciò è avvenuto per tanti motivi: uno di questi sicuramente lo possiamo individuare nella “riscoperta” di T.S. Eliot ( e i poeti che si sono fatti suoi portavoce: Milosz, Brodskij, e tanti altri) dei sacri valori culturali dell’Occidente che la seconda guerra mondiale, l’Olocausto e tutte le altre vicende del secolo 20° avevano mandato a gambe all’aria, rendendoli inservibili e ingiustificabili. Nasceva la distopia – il mondo assurdo e disfanico. E Theodor Adorno poté giustamente dire che non era più possibile scrivere poesia dopo Auschwitz. Alle condizioni poste dalla poesia minimalista, privatista, confessionale,  certamente no! Ma anche in Adorno vediamo ancora vivo quel pensiero retrogrado e idealizzante che presuppone la poesia un dire aulico, sublime, incapace di affondare la lama nel cuore della realtà. E la maggioranza dei poeti occidentali della seconda metà del Novecento non fecero niente per fargli pensare il contrario.

In questo nuovo secolo la poesia può essere in grado di trasmettere una sua propria ‘verità’ artistica, e nient’altro. Mostrando così tutta la sua relatività. Il lettore, in seguito, non potrà non darle un ‘senso’ in base al contesto sociale, storico, filosofico, religioso, ideologico legato al suo tempo. Che però manterrà in sé tutta quella sua relatività. I più grandi critici letterari non sono mai riusciti a sviscerare le grandi opere poetiche, soltanto (e non mi sembra poco) a illuminarne il contesto, i contesti. La poesia stessa, per sua propria complessità, si apre e si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Lo abbiamo visto già nella seconda metà del 20° secolo con poeti come Tranströmer o Celan. Così era sempre stato per la grande poesia, quella disancorata dalle meschinità e beghe del contesto sociale in cui nacque.

Tale l’immagine poetica. Tale la libertà di una poesia composta come organismo vivente.

Donatella Costantina Giancaspero

Anche il cielo ha concesso una tregua.
Un riverbero di voci spalanca il cortile.
In tempo, per la luce che resta
sulle corde tese dello stenditoio condominiale.

Sufficiente per vedere in controcampo
la trama della tarlatana, mai ingiallita;
di un biancore, anzi… Richiama
il panetto di magnesio da 55 grammi, poggiato sulla mensola,
la velatura pomeridiana della luna.

Comprese nel proprio umore madido,
le stampe asciugano ordinate in silenzio, sullo stendino.
A due a due, tra i cartoni. Ci restano fino a domattina,
se la notte si solleva col vento.

«Prendi l’asta, che abbasso la serranda…»
«Hai chiuso l’inchiostro?»

Un residuo di nero tuttavia rimane sotto le unghie,
anche se si lavano più volte, se l’acqua scorre con foga
dal rubinetto della nuova abitazione.
Da tempo, gli manca qualcosa: un dettaglio di poco conto,
un vezzo decorativo… E non si fa più caso.
Ma è qui, tra lo specchio e il presente.

Chiara Catapano

Salaora

Mura di territorio aperte

La voragine screziata delle mani greche
cui comparve il giorno paesaggio, non conosciuto di nostalgia, di vivere
sempre spostati,
sempre diversa da sé, ri-paesaggi
ombre di nomi più enormi dell’inapparso Ancora.

Poi a SALAORA. Dischiude il cerchio dietro la nuca. Un sole nero, accecato.
Allarga il vedente qui-dopo, la strage di gatti sulla strada dei canneti.
Le canne altissime indicanti
unica la direzione, venirandare
ma non quando si arriva a Salaora:
zitto allora il sole nella luce, zitto il volo abbagliato del Dio-Pellicano
zitte ossa e di tendini, sangue pompato
nel cuore-suono invertebrato.
Gola inizio, dispiega da un centro
che piega e mescola
acque del sopra e sotto mondo.

Mentre il sole impallidisce e trema convogliando
il reale
liberano porpora azzurri e gli arancioni
dello stupito viandante, dallo stupore stesso
come in angoscia d’appartenere.
Nella gola nera-avanzante finalmente il silenzio
spezza la sua inimmagine:
stridono d’accoppiamento i luoghi, convergenti irradianti
dal grido airone.
Poi, nulla.
Un cane. Molti cani.
L’opera dell’uomo di girare l’interruttore.
Le tavole fumanti del pesce.

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

foto di Evgenia Arbugeva, Siberia, polo artico

Giorgio Linguaglossa

(una poesia inedita, da La notte è la tomba di Dio)

Il bacio è la tomba di Dio

La torre del faro nella pianura di neve.
«Il bacio è la tomba di Dio».

C’erano scritte queste insensate parole
sopra l’ingresso della torre…

Ma forse non era quella la torre ma un’altra
che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico

dove sorge un’isba. Nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva.
Sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.

Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti.
C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,

le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli.
[Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]

La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna.
Diventa luce.
[…]
La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
Nella picea onda del Canal Grande.

Ponte degli Scalzi.
L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.

Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica.
Il vento sfoglia le pagine dello spartito.
[…]
Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.

[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.]

Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir.
Ufficiali austriaci giocano a whist

mentre il Signor K asserisce:
«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà

non può violare il principio di non contraddizione.
Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti;

mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,
picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono,

a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…».
[…]
Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
è ritratta la Peste.

La Signora Morte impugna una pertica
che termina con una falce.

Ammassa i morti e taglia loro la testa.
E ride.

Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
E canta.

Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
[…]
Wagner e Liszt giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande.

Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano».
[…]
Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti
nel salotto color fucsia.

I clienti della locanda del buio brindano alla felicità
con i calici di Murano.
[…]
Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
“Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito

quel pensiero molesto.
Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:

«Non c’è più lutto tra i morti».
«Non c’è più lutto tra i morti».

(inedito, da La notte è la tomba di Dio)

Mi soffermo brevemente sulla poesia di Giorgio Linguaglossa. Questa poesia è un rifacimento di un rifacimento di un rifacimento di un rifacimento. Costruzione-decostruzione-ricostruzione. È proprio in questo lento scavare e voluto impoverimento della materia poetica  (così come l’uranio impoverito, perché la poesia buona è psichicamente magmatica), che la poesia di Linguaglossa viene privata di tutti i consueti punti di riferimento che ancora oggi formano la base di gran parte della scrittura “buona”. Questo è il sublime assurdo: pura indeterminazione; il significato si costruisce sulla apparente assenza di significato. E, aggiungo, essa è in grado di dare risultati di molto alta leggibilità e godibilità. Inoltre, tutti i punti di riferimento decostruiti o variamente deformati, distorti o ignorati aprono fessure ovunque, attraverso le quali si evince non una nuova poesia, quanto una terra poetica di nessuno, fra lo ieri e il domani. Che spinge appunto verso una nuova ontologia estetica.

Onto Steven GriecoSteven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:  protokavi@gmail.com

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Antologia di poesia di 10 autori che si riconoscono  nel nuovo orientamento di ricerca denominato Nuova ontologia estetica, Carlo Livia, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Marina Petrillo, Sabino Caronia, Edith Dzieduszycka, Mauro Pierno, Giuseppe Cornacchia, Francesca Dono, Giorgio Linguaglossa, con una nota sullo «spazio espressivo integrale»: Confronto tra una poesia di Sandro Penna e una di Tomas Tranströmer

 

gif bella in reggiseno

Caro […] le idee sono gratis, chi vuole se le piglia, le idee esercitano seduzione, nascono, si diffondono, dilagano, chi pensa di arrestarle è un ingenuo, e anche uno sciocco…

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio…

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Tenterò di spiegare il nuovo «spazio espressivo integrale» nella poesia di Tomas Tranströmer. Quando parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una strofa di Tranströmer:

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.
Leggiamo quest’altra strofa:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

(Giorgio Linguaglossa)

Carlo Livia Aleph, Roma, 2017

Carlo Livia, Aleph, Roma, 2017; seduti: Antonio Sagredo, Sabino Caronia, Salvatore Martino

Carlo Livia

La prigione celeste

Dalla finestra di Mozart vedo la donna nuda che beve lacrime divine in un cielo di astri divelti

e un vecchio bambino pazzo che trascina ridendo l’anima del Grande Assente.

A forza di dormire sull’orlo del precipizio, la mia anima si è mutata in sette serafini ciechi

che baciano in sogno l’infelice sposa dell’Ultradio.

Ho attraversato tutto l’universo, cercando quella fessura del tempo da cui affiora la morte

ma ho trovato solo lo splendore delle madonne silenziose votate al blu.

Tutti i tabernacoli sospesi in alto mare s’inclinano lottando contro un vento di frasi fatte

e versano in cielo una musica di carezze e desidèri di fanciulla,

tristi come la voce che mi sfiora in sogno
per dirmi che non è più qui. Continua a leggere

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L’Inconscio, il suo emergere nella poesia moderna – Poesie di Alfredo de Palchi, Tomas Tranströmer, Carlo Livia. Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

 

Foto by Richard Vergez

foto di Richard Vergez

Tre poesie di Alfredo de Palchi da Foemina tellus, 2010, Joker

Fredda
brilla di sole freddo al mattino
la zolla capovolta
con svolazzi di passere
su mucchi di letame che fumano l’odore
astringente
intorno gli spineti fioriti di ghiaccio sulle spine
i cortili medievali
che ti svuotano ai campi dove nei solchi
calchi il brulichio di verminai

di semenze
che a caso crescono gramigne
fiori campestri
spighe di grani selvatici
e papaveri per sfogliarsi
alla tua presenza losca di nero
nella calura che vibra

di clangori
dissonanza d’ogni
città al di là del fiume.

(4 dicembre, 2006)

*

Autunno
precocemente m’inganni con un giorno di luce
e un altro giorno di acqua che svuota le panche
della piazza e vento
che spiazza i colombi le passere
e scombuglia gli scoiattoli tra ventagli
di ramaglie tenaci a tenersi un po’ di foglie

non come tu sei
io sono tale e qual ero nel tuo corpus
mistico di vulva
un giorno così e un altro così
senza la fretta di arrivare là dove tu arrivi.

(17 ottobre, 2006)

*

potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo

rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

(21 giugno, 2009)

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

In queste poesie si intravvede la presenza del fantasma che «scombuglia» l’ordine costituito dall’io. È la prima apparizione del fantasma che agisce liberamente e spezza, riduce in frantumi la sintassi e la sua logica, dissolve la poesia di paesaggio in una miriade di appercezioni. La sovradeterminazione stilistica è un simbolo di un conflitto presente che si dirama nelle ramificazioni scendenti di questa discendenza simbolica nei momenti in cui le forme verbali incrociano i nodi della struttura linguistica. Quando affermo con convinzione che la poesia di Alfredo de Palchi è la progenitrice della poesia di oggi, quella stilisticamente più evoluta, la nuova poesia, alludo a qualcosa di analogo a quel che intendeva in un commento di qualche tempo fa, Lucio Mayoor Tosi:

«In ognuna di queste poesie si avverte il bisogno di stare nel viaggio introspettivo, verso la conoscenza di sé ma tra le cose; quindi con l’intento di non fermarsi alla psicanalisi ma di trovare un senso ontologico nell’esistere. Al lettore non interessa quale sia la psiche del poeta, quali i suoi tormenti, gli interessa di trovarsi coinvolto nel percorso introspettivo. Si tratta infatti di una nuova dimensione, tra psicanalisi e storia, una dimensione del tutto inedita e inusuale.
Tra cent’anni, che diranno le persone di noi? Non sarà come adesso quando cerchiamo di leggere tra le rovine di civiltà passate: di noi si saprà tutto!».

Verissimo. Appunto, «di noi si saprà tutto».

Per questo affermo che «di noi» non si saprà niente, perché quello che al lettore del futuro posteriore interesserà sarà sapere «qualcosa» circa il funzionamento della nostra psiche, conoscere ciò che noi siamo stati capaci di rappresentare di noi stessi. Per tutto il resto ci saranno miliardi e miliardi di immagini, della televisione e di internet che lo renderanno edotto. Quello che al lettore del futuro importerà sarà conoscere «qualcosa» che non è contenuto in quelle miliardi di immagini e di informazioni che navigano nell’etere di internet. Chiaro? Di questo si occupa la «nuova ontologia estetica». Per chi ancora non abbia afferrato il concetto.

L’io, dice Freud, è soprattutto inconscio.1]

Siamo di fronte a un problema cruciale. Una tale affermazione sembrerebbe a prima vista contraddire l’evidenza che l’io sia quella parte della psiche che gode della facoltà di corrispondere al pensiero cosciente. Per comprende la portata di una tale affermazione, occorre innanzitutto chiarire cosa sia l’inconscio, o almeno quale sia la sua estensione nel sistema freudiano, al fine di poter darne ragione e cogliere successivamente il luogo e lo statuto dell’io.

Inconscio è innanzitutto la sede di quei contenuti, di quelle rappresentazioni che, per via dell’azione della rimozione, non raggiungono la coscienza. Nel sistema freudiano si distinguono rappresentazioni inconsce e rappresentazioni consce. Nella Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912) Freud chiama conscia «soltanto la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e di cui abbiamo percezione»2]. L’ovvietà di una simile definizione serve a tracciare la strada per il suo opposto, ossia per la definizione dell’inconscio:

«Una rappresentazione inconscia è quindi una rappresentazione che non avvertiamo ma la cui esistenza siamo pronti ad ammettere in base a indizi e prove di altro genere».3]

L’esistenza dell’inconscio lo si deduce da « indizi e prove di altro genere». Quali? Freud risponde: lapsus, atti mancati, motti di spirito, sogni; tutto ciò che sorprende il soggetto e lo coglie in fallo rispetto al suo voler-dire. Ed io aggiungo: le poesie. Nella rappresentazione poetica coabita il paradosso che negli enunciati, nel già detto, si nasconde e viene ad evidenza il non detto, il non enunciato, il linguaggio latente, il rimosso, che distorce e deforma il linguaggio rendendolo così idoneo alle necessità della nuova significazione.

La poesia di Lucio Mayoor Tosi, come quella di Donatella Costantina Giancaspero, la mia, quella di Mario Gabriele, di Francesca Dono ma anche quella di Alfonso Cataldi, di Carlo Livia, di Mauro Pierno e di altri poeti della nuova ontologia estetica è ricchissima di referti, di lessemi, di stracci dell’inconscio il cui linguaggio è, sostanzialmente, un linguaggio onirico, visionario, allucinogeno, ma anche sommamente razionale, ordinato in una scansione logica inafferrabile ma cogente… non dico cose così bizzarre se affermo che nel nuovo indirizzo della poesia italiana un posto centrale è occupato dalla indagine sull’inconscio.

L’inconscio per Freud «comprende da un lato atti che sono meramente latenti, provvisoriamente inconsci, ma che per il resto non differiscono in nulla dagli atti consci, e dall’altro processi come quelli rimossi, che, se diventassero coscienti, si discosterebbero necessariamente, e nel modo più reciso, dai rimanenti processi consci».4]
Come è noto, l’inconscio sfocia nel sistema Preconscio, un sistema che è in contatto e in comunicazione con il sistema Conscio e con l’Inconscio sia sul piano propriamente dinamico che sul piano topologico. Sul piano geografico il sistema Inconscio si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di estraneità tanto dal sistema Preconscio che da quello percezione-coscienza. Assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, e una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell’inconscio.

Selfie Suzanne Muzard and André Breton, 1929

Suzanne Musard André Breton, 1929

L’Inconscio non è un abisso, non è un flusso di energia cieco.

Esso è piuttosto il luogo in cui accadono eventi, in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, le rappresentanze pulsionali, che sono investimenti, residui delle immagini mnestiche della cosa, di tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini, come asserisce Freud. L’inconscio sarebbe un sistema di tracce mnestiche, non impronte, da cui derivano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, «in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto». Ecco, credo che la nuova poesia che noi stiamo indagando tratti proprio queste, diciamo così, «trascrizioni», lessico del linguaggio freudiano, wortvorstellungen, lemmi dotati di semantica e di mantica.

Scrive Freud: «La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali»5].

1] Cfr. S. Freud, Das Ich und das Es, in Gesammelte Werke, S. Fischer Verlag, Frankfurt a/M, (18 voll.); trad. it. a cura di Musatti C., in Opere vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti (1917-1923), Bollati Boringhieri, Torino 1977, §. L’Io e l’Es, p. 482.
2] S. Freud, A note on the Unconscious in Psychoabalysis (1912), in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 6. Casi clinici e altri scritti (1906- 1912), Bollati Boringhieri, Torino 1974, Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), p. 575.
3] Cfr., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), cit; p. 576
4] S. Freud., Metapsicologia, § L’inconscio, in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915)., p. 49.
5] Cfr., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), cit; p. 576.

Tomas Tranströmer scrive:

La casa assomiglia al disegno di un bambino.
Un’innocenza sostitutiva che si è sviluppata perché troppo presto qualcuno ha rinunciato all’incarico di essere bambino. Apri la porta, entra! Qui dentro c’è inquietudine nel tetto e pace nelle pareti

*

Il tema della «finestra» quale luogo o zona dalla quale si può passare da una dimensione all’altra è molto presente nella poesia di Tranströmer. Così nella poesia di Carlo Livia il tema della «grande sala», del «salone» è il tema che consente all’autore di rappresentare e immaginare cose che altrimenti sarebbero irrappresentabili.

*

Lontano mi capita di fermarmi davanti a una delle nuove facciate.
Molte finestre che vanno a formare un’unica finestra.
la luce del cielo notturno vi è catturata e il movimento delle chiome degli alberi.
È un luogo riflettente senza onde, innalzato nella notte d’estate.

*

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

*

È doloroso passare attraverso le pareti, ci si ammala
ma è necessario.
Il mondo è uno. Ma le pareti…

E la parete è una parte di te –
uno lo sa o non lo sa ma è così per tutti
tranne che per i bambini piccoli. Per loro niente pareti.

*

Ma non sono maschere ora bensì volti

che emergono attraverso la bianca parete dell’oblio…

emergono attraverso la parete ridipinta dall’oblio
la parete bianca
scompaiono e ricompaiono.

*

Ho trascorso la notte nella casa densa di rumori.
Molti vogliono entrare attraverso le pareti
ma i più non arrivano fin là:
le loro voci sono sopraffatte dal brusio bianco dell’oblio.

Un canto anonimo sprofonda attraverso le pareti.

Ecco, da questi pochi esempi abbiamo la riprova e l’esemplificazione di quanta parte ha l’inconscio e le sue immagini nella ricerca della poesia moderna, anzi, si può dire che la parte prevalente, la più evoluta della poesia moderna europea ha a che fare con l’inconscio, con le sue inimmaginabili diramazioni, le sue complessità. Il senso di minaccia, il presentimento che «qualcosa» stia per avvenire che non avevamo previsto, ci turba e ci getta nell’angoscia:

… Qualcosa di oscuro
stava presso la soglia dei nostri cinque
sensi, senza oltrepassarla.

*

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

*

Più debole del fruscio di una conchiglia
si udivano suoni e voci dalla città
che volteggiavano nella stanza deserta,
sussurrando e cercando un potere.

*

Una musica si sprigionò
e avanzò nella neve vorticante
con lunghi passi.

*

Una musica abbozzata come dalla
forza dell’orchestra prima che lo spettacolo abbia inizio.

*

Quando l’oscurità scese io stavo quieto
ma la mia ombra batteva
sul tamburo dello sconforto.
Quando i colpi cominciarono ad affievolirsi
vidi l’immagine di un’immagine.

*

Spengono la lampada e il suo globo brilla
per un attimo prima di sciogliersi
come una compressa nel bicchiere dell’oscurità.

*

… l’anima /sfregava contro il paesaggio come una barca /sfrega contro il pontile a cui è ormeggiata.

*

Il vento procedeva lentamente come se spingesse davanti a sé/ una carrozzina.

*

Il sogno in cui il dormiente sta disteso
diventa trasparente. Egli si muove, comincia
a cercare a tastoni gli utensili dell’attenzione –
quasi nello spazio.

*

Rivivo un sogno. Che io sto in un cimitero
da solo. Tutt’intorno splende l’erica
a perdita d’occhio. Chi aspetto? un amico. Perché
non viene? È già qui.

*

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stesso.

*

La strada non finisce mai. L’orizzonte corre in avanti. Continua a leggere

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Intervista di Donatella Costantina Giancaspero a Giorgio Linguaglossa – Ho letto il tuo libro Critica della ragione sufficiente, ti chiedo: è scomparsa la critica militante? 1) Ha senso, a tuo avviso, la linea dicotomica tracciata da Gianfranco Contini: La componente innica e quella elegiaca del Novecento? 2) La Nuova Ontologia Estetica? 3) Il Grande Progetto?

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Domanda: Ho letto il tuo libro, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21), un lavoro monumentale di indagine ermeneutica sulla poesia italiana e sui nuovi orientamenti della «nuova ontologia estetica». Perché quel titolo?

 Risposta: Ho scritto nel retro di copertina del libro:

«Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: verso una nuova ontologia estetica. Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una ragione sufficiente. Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una nuova ontologia estetica della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.»

Domanda: Subito un grande problema: ha cessato di esistere la critica militante della poesia?

Risposta: Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai cinquanta anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.
È per questo che io ho dovuto forgiarmi, quasi da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, la psicofilosofia… ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio (personalissimo) linguaggio critico che qualcuno ha definito «inventato»; e in effetti lo è, perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altri prodotti, non lo si trova già bell’è fatto..

Un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi cinquanta anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico: si perde la memoria storica del linguaggio critico, quel linguaggio, dicevo, cessa semplicemente di esistere.

Domanda: Riprendo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”. Ripartiamo da Gianfranco Contini, perché a mio avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni: linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri, ad esempio nella indicazione della «linea elegiaca dominante» nella poesia italiana e la canonizzazione di Montale quale poeta strategico del novecento. Tu di recente hai proposto la linea del «discorso poetico» che permetterebbe di considerare il ruolo positivo svolto da poeti come Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), Angelo Maria Ripelllino, Edoardo Sanguineti, Alfredo de Palchi, Helle Busacca, fino a Maria Rosaria Madonna, il che consentirebbe una rivalutazione di un poeta come Aldo Palazzeschi che altrimenti verrebbe sacrificato dalle strette maglie della «linea elegiaca». In quest’ottica, se non sbaglio, la proposizione della nuova ontologia estetica verrebbe ad occupare una posizione centrale.

Risposta: Scrivevo il 21 dicembre 2015 alle 11:42 su questa rivista: «Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

Ecco, io vorrei dire che tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco.

Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento”, perché è importante scalzare la visione dicotomica del Contini. Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Aldo Palazzeschi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Mario Lunetta Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che percorrono un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè né con la linea innica né con la linea elegiaca. È importantissimo tenere questo distinguo. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del Discorso Poetico di stampo modernistico. Ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare la «Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione oltre ad altri poeti e che vede impegnati in questa ricerca i migliori poeti contemporanei.

Domanda: Quindi la questione della «forbice» tra «poesia innica» e «poesia elegiaca» è un falso problema?

Risposta: La questione della «forbice» tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, rientra in una una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi «politici» a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là; ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema delle conflittualità delle  linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà  novità e approfondimenti. A mio parere, la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Domanda: Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

Risposta: L’indicazione della Linea dominante dell’elegia post-montaliana di Contini è un atto critico che, come tale si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra «Linea» da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, i valori assodati da Contini saltano in aria, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il «più grande poeta dopo Montale». Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è stato il più abile rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento che trova il suo apice ne La Beltà del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile, le «isoglosse» e le isoipse di continiana memoria vanno a farsi benedire. Oggi è chiaro che non c’è più una Linea dominante, oggi si assiste alla polverizzazione dei «modelli», alla disseminazione dei «canoni». Fenomeno squisitamente post-modernistico. Continua a leggere

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Donatella Costantina Giancaspero, Lettura critica di alcune poesie di Kjell Espmark, da La creazione, Roma, Aracne Editrice 2017, traduzione di Enrico Tiozzo

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

foto Jason Langer [Lei è dunque stata un’altra per otto anni/ senza saperlo]

Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.

Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.

Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.

Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.

All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer.

In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.

Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro Via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.

Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che si trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa è del 2017, libri pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.

(Donatella Costantina Giancaspero)

Foto Death Mask by Jason Langer

Si guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

Da Lo spazio interiore (2014)

La tradita: solo un contorno senza forza

Lei è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne pendolanti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
Il prezzo per la calma di tutti splendente come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Si guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Lei vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.
Infine siede sul pavimento del bagno
del tutto messa a nudo. Nulla è rimasto degli otto anni.
Solo il sapore di metallo in bocca.
Dovete restituirmi i miei anni!
I bambini se la cavano, inaspettatamente adulti, imbarazzati
dalla retorica, da questi resti di disperazione
che nemmeno ha parole proprie.
E gli occhi dei vicini nelle maioliche del bagno!
Lei siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso.
Cerca di proteggere la sua povertà con la schiena contro tutti quelli che hanno saputo. Continua a leggere

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Alfonso Berardinelli, Anche le Lettere sono finite? La questione della Fine del Novecento – Due domande di Giorgio Linguaglossa ai poeti di oggi con un Dialogo tra gli intervenuti al dibattito e un Commento a una poesia di Franco Fortini

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

 Recentemente ho posto ad un poeta queste domande. Penso che la risposta ad esse dica molto sulla poetica di un autore, in tal senso la ripropongo ai lettori, perché penso che siano due domande di fondo alle quali un poeta degno di questo nome non può sottrarsi.

1) Che rapporto ha la tua poesia con la tradizione del Novecento?

2) All’interno del Novecento (italiano ed europeo) quale linea intendi rintracciare e tracciare per il presente e l’avvenire?

Colgo l’occasione per ripostare un articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato nel 2014 che fa il punto della questione della Fine del novecento.

(Giorgio Linguaglossa)

Anche le Lettere sono finite? di Alfonso Berardinelli (2014)

Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”.

Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica, è mutata la figura dello scrittore: hanno vinto consumo e mercato. E ora siamo nell’epoca in cui tutti scrivono.

Nessuno può dubitare che il Novecento sia finito. Ma quando e come è finito? Da quali segni e fenomeni si evince che la continuità è interrotta? L’edizione aumentata e aggiornata dell’ultimo volume della Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni è uscita già da un anno, ma continuo a sfogliarla e rileggerla cercando di capire che cosa contiene, che cosa rivela o nasconde quel nuovo sottotitolo:

«Il Novecento e il nuovo millennio». A che cosa sostanzialmente fa pensare una tale formula, che sembrerebbe soltanto informativa? È certo che gli anni passano, che qualcosa di nuovo si aggiunge al passato. Qualcosa cambia, qualcosa si perde e si dimentica. Soprattutto se si tratta di un’intera letteratura, i cambiamenti sono molti e possono confondere le idee. Oggi c’è un clima generale diverso. Ma d’altra parte si ha o si vuole avere l’impressione che “tutto sommato” si vada avanti più o meno come prima. Gli autori hanno altri nomi, ma non cambia il nome di quello che fanno: si scrivono romanzi e poesie, si fanno recensioni, escono libri di saggistica e di critica. Ci sono, come prima, il premio Strega e il premio Campiello, che ogni giovane vuole.

A Torino c’è la Fiera o Salone del libro. Poi c’è la Milanesiana, c’è Massenzio, e poi “Libri come” e “Più libri, più liberi”… Ma se devo interpretare il punto di vista di uno storico della letteratura, in questo caso Ferroni, mi sembra che sia lui per primo ad avvertire la fine di un’epoca letteraria che aveva mantenuto per cinquanta o cento anni caratteristiche relativamente costanti, anche nel passaggio da modernità a postmodernità. Pubblicando nel 2012 un saggio su Giudici e Zanzotto, non sarà un caso se Ferroni lo ha intitolato Gli ultimi poeti, cosa che ad alcuni, specie ai più giovani, non è affatto piaciuta. Ultimi? Ma come? E noi chi siamo? La poesia continua a vivere.

Il presente esiste, ha preso il posto del passato e guarda al futuro. La parola “ultimi” non credo però vada presa troppo alla lettera e in assoluto. Si dovrebbe intendere come: “gli ultimi poeti di un’epoca in cui i poeti avevano certe caratteristiche oggi più difficili da trovare, perché loro appartenevano a pieno titolo al Novecento, un secolo finito”.

Dunque: quando è finito il Novecento? La sua fine non mi sembra sia un fatto accaduto fra il 1999 e il 2000. Il Novecento ha cominciato a finire prima, è finito più volte, potrei dire che è finito tre volte. Si è trattato di un processo scandito in circa tre decenni, mentre per altri versi qualcosa di quel secolo vive tuttora. In questo o quel punto del sistema letterario la memoria della cultura novecentesca agisce ancora.

Due critici nati negli anni Cinquanta e dotati di un notevole senso del passato e della storia (ma un critico smemorato non è un critico), come Giorgio Ficara e Raffaele Manica, intitolarono alcuni anni fa le loro raccolte di saggi rispettivamente Stile Novecento ed Exit Novecento. Non può essere una banale coincidenza. Credo che ci siano state da parte degli autori una precisa intenzione e una chiara intuizione di ciò che è avvenuto. Almeno nella letteratura italiana, uno stile è finito, uno stile che nonostante le sue varianti, ramificazioni e divaricazioni si spiegava e si generava a partire da presupposti che da un certo momento in poi (nel corso degli anni Novanta, mi pare) sono venuti meno.

Secondo alcuni pessimisti non si è perso “uno” stile, si è perso o è sempre più raro “lo stile”: almeno se si pensa che lo stile sia un valore e non un fatto che in arte si dà comunque, buono o cattivo che sia. Mi sembra che stia aumentando il numero di coloro secondo i quali tutto “a suo modo” è cultura ed è a suo modo arte anche l’intenzionale o inconsapevole negazione dell’arte intesa come lavoro sulla forma, eccellenza tecnica, abilità e originalità artigianale.

Per chi crede che lo stile sia un valore, la critica non ha senso se non valuta e giudica. Per chi crede invece che lo stile sia un fatto, la critica è registrazione di eventi che esistono come puri eventi, tutti di pari dignità, per i quali viene rivendicato il diritto di ricevere attenzione. Piacciano o non piacciano e quanto valgano, è allora del tutto secondario: ogni prodotto è artistico se si presenta come artistico e va quindi accuratamente descritto e interpretato.

Le avanguardie novecentesche fondavano su questo principio la loro strategica e tattica forza d’urto. Non importa che molta letteratura futurista e surrealista risulti illeggibile: è indubbiamente un fatto e quindi anche un valore letterario. Non importa che molta pittura e scultura moderna (ammesso che la distinzione sussista) siano a malapena guardabili dopo un primo sguardo: sono prodotti esposti e conservati nei musei e nelle gallerie d’arte, critici autorevoli si sono applicati a darne sofisticate o sofistiche interpretazioni e dunque guai a chi osa dire, ad esempio, che da un certo punto in poi Picasso ha prodotto solo merci artistiche facilmente realizzabili da vendere a caro prezzo, che Duchamp è stato solo un brillante provocatore e Andy Warhol un astutissimo mercante.

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

Nelle arti visive il Novecento non è ancora finito, le repliche continuano. In letteratura molta della qualità novecentesca si è perduta.

Già con la seconda metà del secolo il romanzo, la poesia e la critica non hanno dato più niente di paragonabile alle opere di Proust, Joyce, Svevo, Mann, Kafka, Musil, Yeats, Apollinaire, Blok, Machado, Eliot, Lorca, Benn, Lukács, Spitzer, Šklovskij, Benjamin… La postmodernità ha prodotto Borges, Auden, Camus, Beckett, Nabokov, Grossman, Morante, Yourcenar, Celan, Calvino, Enzensberger, Barthes, Steiner… È con questi autori che il Novecento si conclude. Ognuno di loro è stato consapevole del suo venire dopo, del suo essere “post” rispetto ai classici di primo Novecento. Anche questa coscienza era un tipo di continuità.

Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”. Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica non cambiò solo la società letteraria, cambiò l’idea di letteratura, la figura dello scrittore e il modo di produrre, consumare, interpretare la letteratura. Generi lungamente e anche proficuamente messi in discussione, come il romanzo e la poesia, riacquistarono una forma convenzionale, quella che permette oggi al romanzo di “fare mercato” (a dominare è il modello del best seller narrativo, reale o potenziale) e che permette alla poesia di entrare in una circolazione fluida, fra letture pubbliche e presenza in rete, una circolazione che quasi non prevede più una vera e propria lettura, il che mina la stabilità formale dei testi, dati per poetici perché si presentano come poetici.

Una simile situazione non è più neppure postmoderna, non presuppone la modernità, la ignora e quindi non può che mettere in difficoltà il lavoro e il ruolo della critica. Anche uno storico e critico molto informato e militante come Ferroni da anni parla ripetutamente di “angoscia della quantità”. Il post-Novecento è dunque, come disse Cesare Garboli, l’epoca in cui “tutti scrivono” rivendicandone anzitutto il diritto. La scena letteraria è affollata di decine e centinaia di nuovi autori in cerca di “visibilità”, mentre la qualità dell’atto di leggere tende gradualmente a scadere in “lettura distratta”. Dilatandosi  enormemente, la nozione di letteratura perde la fisionomia che aveva conservato ai più alti livelli nel corso del Novecento, quando l’idea di testo letterario e della sua priorità, le tecniche di analisi formale e linguistica, l’enfasi sull’importanza della lettura avevano provocato riflessioni e discussioni ininterrotte e appassionate.

Dagli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio è cresciuta piuttosto l’importanza del mercato, del consumo librario come che sia, della presenza del personaggio-autore nei festival e nei media di massa vecchi e nuovi. Per tutto il Novecento, anche nelle sue ribellioni e turbolenze, la letteratura viveva tenendo presente la storia della letteratura. Oggi si va verso una letteratura o postletteratura che vive in uno spazio non più storico e che sembra “non fare storia”. Per questo, sebbene priva dell’autorità che ha avuto in passato, la critica sta diventando il solo luogo in cui la letteratura continua almeno in parte a prendere coscienza di se stessa, dei propri precedenti e del proprio passato.

Se mi si chiedesse quali sono stati gli ultimi scrittori italiani ancora pienamente, esemplarmente novecenteschi e con i quali il secolo scorso si è chiuso, credo che farei i nomi di Raffaele La Capria, Cesare Garboli, Piergiorgio Bellocchio. Scrittori al di là dei generi letterari, che hanno praticato tuttavia in prevalenza il genere saggistico. Eppure in tutti loro agisce sotto la superficie una vocazione e attitudine di narratori superiore, mi sembra, a quella che si trova in molti autori di romanzi. È la narrazione autobiografica, è la critica in senso lato culturale (“critica della vita”, direbbe Massimo Onofri) che fanno la sostanza e l’energia della loro scrittura.

Pasolini e Ungaretti

La Capria ha scritto romanzi, il più famoso e apprezzato dei quali, Ferito a morte (1961), è però già un romanzo più autoriflesso e poetico che propriamente narrativo. In quel libro La Capria sembra influenzato dalla tessitura musicale e saggistica dei Quartetti di Eliot più che da altri romanzieri. Tutta la seconda metà della sua opera, da L’Armonia perduta (1986) in avanti, è saggistica autobiografica per episodi ed emblemi (Guappo e altri animali), autobiografia di un lettore (Letteratura e salti mortali) e critica sociale.

Cesare Garboli ha sempre negato di essere un critico letterario, pur essendo stato colui che ha più modificato lo stile della critica, i temi della critica negli ultimi vent’anni del Novecento: accentuandone a volte scandalosamente il carattere soggettivo. Come quella di Roberto Longhi o di Giacomo Debenedetti, la sua prosa è una delle più complesse, analitiche, perfettamente scandite e visionarie della nostra tradizione novecentesca. Scritti servili (poi Storie di seduzione) e Falbalas sono indagini sulla fisiologia dell’invenzione letteraria e diagnosi delle patologie che legano ogni autore al suo habitat.

Piergiorgio Bellocchio è uno scrittore morale e satirico, viene da una lunga tradizione che va da La Rochefoucauld a Flaubert, da Kraus a Kubrick. I suoi libri sono fatti di aforismi, micro racconti, recensioni e pirotecnici pezzi comici sull’inaridimento e le parodistiche deformità della vita nella società contemporanea. Il modo borghese di un tempo era certo affliggente e ipocrita, ma quello postborghese è l’apoteosi della stupidità fatta metodo. È così, secondo Bellocchio, che il Novecento è finito.

*

[Alfonso Berardinelli è uno dei critici più originali della cultura contemporanea, con una profonda esperienza della poesia e del romanzo. Collaboratore di diverse testate, tra le sue opere ricordiamo: La poesia verso la prosa (1994); Casi critici (2007); La forma del saggio (seconda ed. 2008); Poesia non poesia (2008); Non incoraggiate il romanzo (2011); Leggere è un rischio (2012)]

[grafica di Lucio Mayoor Tosi]

dai Commenti del 3 agosto 2018 a cura di Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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Donatella Costantina Giancaspero, Lettera a un poeta – Poesie di Donatella Costantina Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, Alfonso Cataldi, Mauro Pierno, Ewa Lipska, Charles Simic, Tomas Tranströmer – con un Commento di Gino Rago

 

Gif maniglia

«quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza» (Th.W.Adorno) – «Sono invisibili, ma io li vedo./ A tentoni… giro una maniglia» (G. Linguaglossa)

Donatella Costantina Giancaspero
24 luglio 2018 alle 14:47 

«quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza» (Th. W. Adorno)

Gentile Roberto Maggiani,

da quando sono ne L’Ombra, è in assoluto la prima volta che mi trovo in una situazione così incresciosa. E mi sorprende moltissimo! Mi sorprende ricevere tale genere di rimprovero: «l’educazione vorrebbe che…». Ehi, ehi, andiamoci piano con «l’educazione»! Mi pare di essere una persona attenta e corretta, e più di un esempio può testimoniarlo. Ma veniamo ai fatti:

1. l’«invito in casa» (per riprendere le Sue parole) l’ha stabilito il nostro coordinatore, Giorgio Linguaglossa;

2. questa «casa» (ovvero la rivista) è di tutti, è libera, è di chiunque voglia intervenire, apportando con onestà il proprio contributo;

3. i commenti, a volte, possono sembrare slegati dall’articolo proposto; e qui sottolineo “possono sembrare”, perché niente, in realtà, è «fuori tema», o nasce per caso (come andrò a dimostrare proprio riguardo all’intervento di Mario Gabriele e alla mia conseguente risposta. Vedrà quanto invece sia inerente a questo articolo il senso – attenzione, ho detto “senso” – di quelli che Lei definisce genericamente «altri temi»);

4. questa «casa» non è «mia»: semmai, se proprio di qualcuno dev’essere questa casa, vivaddio!, sarà della Poesia. E qui, ne L’Ombra delle Parole, tutti hanno considerazione per tutti, almeno «un minimo», anche attraverso il silenzio, se vuole, qualora si preferisca astenersi da ogni commento diretto. Una libera scelta anche questa. E va rispettata;

5. ne L’Ombra, il fatto di «parlare con i miei amici dei miei temi» non esiste proprio, perché il web offre altre piattaforme preposte a questo: Facebook, in primis. Viceversa, nella rivista, i cosiddetti «temi» riguardano tutti, coinvolgono tutti, perché affrontano problematiche estetiche, storiche, filosofiche… In pratica, tutto ciò che può riguardare la nostra comune ricerca finalizzata a una Nuova Ontologia.

Chiariti questi punti, dirò che mi sono sentita in dovere di rispondere all’interlocutore Mario Gabriele (badi bene, ho detto “interlocutore”, perché qui siamo tutti interlocutori, prima ancora di essere amici), insomma, ho sentito la necessità di intervenire, poiché ho compreso il “senso” implicito del suo commento. E, nella mia risposta, ho inteso esplicitare questo “senso”, riproponendo la posizione di Th. W. Adorno nella sua Dialettica negativa (1966), a proposito della Poesia e dell’Arte in generale, dopo Auschwitz, dopo l’Olocausto. Il filosofo dichiara:
«nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica».

Con queste parole, Adorno assume quella tragedia storica come simbolo universale della messa in scacco dell’idea di un «senso di ciò che è».
In questa condizione, il dovere del filosofo e, nondimeno, del poeta, è quello di farsi carico della realtà.

Sì, farsi carico della realtà. Quale realtà? Questa realtà. Questa nostra, del XXI secolo. Hic et Nunc il poeta deve farsi carico della propria epoca.
Molti cambiamenti epocali, e drammatici, si sono verificati nell’ultimo (quasi) ventennio. In particolare dopo le stragi delle Torri Gemelle. The day after l’11 settembre 2001, il mondo non è più, irreversibilmente, lo stesso di prima.

Dopo Auschwitz, dopo Hiroshima e Nagasaki (di cui si avvicina l’anniversario), la strage delle Torri Gemelle rappresenta la tragedia del XXI secolo che segna l’inizio della terza guerra mondiale “a pezzi” (l’ha detto Qualcuno…).

E l’Uomo? Che cosa è diventato l’Uomo? E la metafisica? «La metafisica è paralizzata, perché quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza», scriveva Adorno dopo Auschwitz.

E la poesia? Parafrasando Adorno potremmo dire: “quel che accade ha spezzato alla poesia la base della sua compatibilità con l’esperienza”.

A questo fanno eco le parole di Giorgio Linguaglossa nella sua «Ermeneutica» alle poesie di Roberto Maggiani: “Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate”.

Ecco il punto: dove sono le «parole diverse, nuove, non usurate», nella poesia di Roberto Maggiani? La sua poesia «è da tempo impegnata alla riunificazione del discorso umanistico e del discorso scientifico» (Linguaglossa): sì, vero!, ma non è più questo che oggi occorre alla poesia: «oggi la poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante…» (cit.).

Le parole appartenute all’ontologia estetica del Novecento risultano inadeguate al dire del XXI secolo. E già l’ultima parte del Novecento ha preparato la Storia al nostro cambiamento epocale. Ovvero, il «vecchio» ha spinto al «nuovo». Ora la Storia ci rovescia addosso i più tragici avvenimenti.

L’Occidente (in senso lato) è devastato. “In tutto l’Occidente”, il sole, quello che Roberto Maggiani vede “più luminoso”, “le cui dita tocchino i tetti e le strade/ come qui a Lisbona”, è morto. A Lisbona come in tutto il resto del mondo. Quella che gli appare, così elegiaca, è una visione di superficie, appunto, apparente. C’è qualcosa aldilà dei tetti, delle strade e perfino oltre le molecole, che la sua poetica non vede, non coglie. Forse sarebbe stato meglio soffermarsi su quel “sottile disagio” finale. E che il disagio, da sottile, fosse diventato “spesso”, “duro”. Invece, la poesia mette il punto e chiude. Trasvola proprio su quell’unica cosa importante: il disagio. Disagio di oggi, della nostra epoca. Disagio di vivere. Disagio che è dramma attuale dell’Uomo, al centro di un nuovo Esistenzialismo, che pone inquietanti interrogativi sulla condizione etico-civile dell’individuo. Tutti noi dobbiamo prendere atto di questo. Ma più di tutti deve farlo il poeta, perché senza tale consapevolezza non possiamo parlare di Poesia.
Il primo passo verso tale coscienza consiste nel farsi carico della realtà in cui siamo, salutando il Novecento. Senza rimpianto.

Strilli Lucio Ricordi

Versi di Lucio Mayoor Tosi – «quel che accade ha spezzato alla poesia la base della sua compatibilità con l’esperienza» (D.C. Giancaspero)

Donatella Costantina Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.

Strilli Gabriele2

Giorgio Linguaglossa

Omega

[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,

corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.

A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.

D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
[perché a destra (!?)]
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.

Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.

Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.

Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».

Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari. Continua a leggere

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Intervista Mario M. Gabriele a Giorgio Linguaglossa sulle tesi di Critica Della Ragione Sufficiente, verso una nuova ontologia estetica, Progetto Cultura, 2018 nel nuovo contesto socio-culturale di oggi.

Critica della ragione sufficiente Cover Def

1) Domanda.

Caro Giorgio,

è appena uscito il tuo volume: Critica Della Ragione Sufficiente, (verso una nuova ontologia estetica), presso le Edizioni Progetto Cultura di Roma, 2018, pagg. 512, 21 Euro, Art-director Lucio Mayoor Tosi, volevo chiederti il senso di questo tuo nuovo lavoro critico, in risposta agli editori nazionali, più intenti a storicizzare e a periodizzare le voci dei poeti generazionali, che a riportare progetti di poesia fuori dall’elegia fenomeno tipico della poesia italiana. Per fortuna non si parla più di canoni o mini canoni, questo sembra un buon segnale.

Risposta:

Il sotto titolo del libro parla chiaro: «verso una nuova ontologia estetica», con il che si vuole intendere il percorso di pensiero che bisogna fare per introdurci dentro le categorie di una nuova ontologia. Le cose non avvengono a caso, se poeti di lungo corso come te, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia e poetesse più giovani come Letizia Leone e Chiara Catapano e altri che ci seguono: Mauro Pierno, Alfonso Cataldi, Vincenzo Petronelli, Francesca Dono… si sono riuniti attorno ad un progetto di «rottura» del conservatorismo della poesia italiana. La «rottura» era ed è necessaria, anzi, è indispensabile e inevitabile dopo un cinquantennio di sostanziale stasi del pensiero poetico. Per i «poeti», diciamo così, istituzionali, la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. Altri poeti, invece, per esempio, Lucio Mayoor Tosi, ha preso atto dell’eclissi del principio e ne ha tratto tutte le conseguenze… E la disseminazione è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata ricchezza. E il linguaggio poetico si è rivitalizzato.

In fin dei conti, ogni poeta non può fare altro che tracciare i bordi della propria mappa metafisica. Steven Grieco Rathgeb tenta in tutti i modi di tracciare i confini di questa mappa, sono più di trenta anni che ci lavora. Lui la mappa l’ha già tracciata: sono le poesie che tiene gelosamente nel cassetto. Come Kikuo Takano, Steven Grieco Rathgeb è rimasto in silenzio per tre decenni perché l’imperversare di un clima ostile alla poesia, qui in Italia e in Europa, glielo impediva. Non che adesso il clima sia mutato, ma sono venute a cadere le ragioni, le paratie, le giustificazioni che gli artisti di solito danno a se stessi e di se stessi; sono venute ad evidenza tutte quelle chiacchiere-di-poesia o poesia-chiacchiera di cui sono pieni i romanzi e le poesie che si fanno «oggi». Chiacchiere, ciarle, battute da bar dello spot, la poesia di Zeichen, di Magrelli, per fare due nomi noti, e degli odierni epigoni della masscult.

Per tanti troppi anni è stato problematico, qui in Italia, ai poeti di un certo livello tracciare la geografia della propria mappa spirituale e stilistica. Siamo stati assediati dalla anomia delle proposte di poetica pubblicitarie e dalle battute da bar dello spot, siamo stati impossibilitati a scrivere poesia… Anna Ventura, Steven Grieco, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia leone sono poeti ossessionato dalle «parole», dalla gratuità e dalla faciloneria con la quale la poesia alla moda tratta le «parole», la faciloneria con la quale si mettono le «parole» sulla carta bianca, con cui si sporca la carta bianca, e le parole diventano equivoche e ciarliere. Le parole per Steven sono simili alle «pantegane» di una sua poesia che entrano ed escono liberamente nel e dal nostro corpo… qualcuna si impiglia nella rete che il poeta predispone meticolosamente in anni di lavoro, così che può lavorare con quelle «parole» rimaste impigliate nella rete, mentre la poesia che si fa oggi assume le parole rimaste impigliate nella rete a strascico gettate dai pescatori di frodo e dai tombaroli di «parole».

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità.

«Ciò che resta lo fondano i poeti», scriveva Hölderlin, ma si tratta di un povero reame fatto di «cose» dismesse che le persone di buon senso hanno gettato nella spazzatura; il poeta oggi raccoglie quelle «parole» inutili gettate nella discarica e le riutilizza. Non può fare altro che andare alla ricerca delle «parole» nella discarica delle parole. Anche la poesia di Gino Rago è fatta con le «parole» trafugate dalla discarica pubblica. La vera poesia del nostro tempo è fatta con queste «parole» di cui le persone per bene si vergognano e che ripudiano…

Il poeta del nostro tempo disgraziato non può che dire:

Torno dall’esilio. Torno dalla libera caduta.
Così mi racconto.
La mia lingua è un alveare.

(Gino Rago)

 

Foto Richard Serra (1939) the labirint

Richard Serra, The Labirint (1939) – ci troviamo all’interno di una nuova ontologia della forma-poesia

Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche risibile. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarmelo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) posso  (possiamo) pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia», la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo: un nuovo modo di intendere le categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Erik Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità emotiva dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, miliardi di parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo, i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati ospiti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Foto semafori sospesi

Che cos’è una patria metafisica?

2) Domanda: Continua a leggere

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L’oggetto in poesia – La debolezza degli oggetti – Poeti a confronto: Tomas Tranströmer, Iosif Brodskij, Francesca Lo Bue, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Raffaele Greco – L’ontologia del declino del soggetto e dell’oggetto a cura di Giorgio Linguaglossa

foto palazzo illuminato

La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente

Giorgio Linguaglossa

A proposito della «noia» e del «vuoto» e dell’«oggetto»

«La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente. La parola tedesca è langweile: un lungo indugio, una piccola sosta protratta lungamente nel tempo. Il tempo che si caratterizza per una ripetizione infinita: non solo la mancanza della novità ma soprattutto la mancanza della speranza stessa che qualcosa di nuovo possa accadere. È l’esperienza del soffocare, che può aprire alla disperazione, questo è ovvio, ma anche al salto, religioso e filosofico. Senza questo senso di soffocare nel vuoto è impensabile anche solo pensare di uscirne. Quando giungi al limite in cui il passato ti sembra niente puoi immaginare un oltre. La noia direi, quindi, ha una duplice faccia: consuma il tempo passato, consuma il presente ma non è detto che si fermi lì, può portare ad una novitas, il tempo si è esaurito ma può esserci dell’altro.
Poi non citerei sempre lo straniero, citerei Leopardi, è un discorso tipicamente e completamente leopardiano, ma direi anche tipicamente italiano, anche del Tasso e di tutta la grande lirica italiana.» (da una intervista a Massimo Cacciari)

La debolezza degli oggetti

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità, assumono una grande carica simbolica. Il «lungo indugio» richiede che il punto di vista della noia si posi sugli «oggetti» per rivelarne  la loro intrinseca debolezza ontologica: l’oggetto diventa «debole», e anche il soggetto diventa «debole». Si va profilando la «ontologia del declino» degli oggetti e del soggetto di cui ci ha parlato Gianni Vattimo. La «debolezza degli oggetti» va di pari passo con la appercezione annoiata del mondo tipica della attuale fase della civiltà del capitalismo finanziario e globale; è la conformazione indebolita degli oggetti quella che appare alla epoché dello sguardo annoiato, ma, appunto, questo sguardo indebolito richiede una sintassi indebolita, e così le giunture razionalizzatrici della sintassi si indeboliscono, la direzione unilineare e unitemporale della sintassi diventa fragile e si disintegra; analogamente avviene con la appercezione dello spazio-tempo: lo spazio tempo, liberato dalla costrizione della sintassi, si moltiplica in una pluralità di spazi e di tempi, e arriviamo alla appercezione indebolita della «nuova poesia», cioè della «nuova ontologia estetica». È un movimento epocale che qui ha luogo, un movimento innervato nella «ontologia del declino» del soggetto e dell’oggetto.

Pensavo in questi giorni leggendo la poesia di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi che la poesia della nuova ontologia estetica dà molto credito alla noia. La noia è una ottima maestra dell’arte poietica; la disarmonia di cui parla Leopardi a proposito della musica (intuizione brillantissima), pone la musica alla stessa stregua della poesia, entrambe sono una interruzione della noia, della noia come rallentamento del tempo e dilatazione dello spazio; la musica questo lo sa da tempo immemorabile e la musica di Rossini e di Paganini ne è un esempio impareggiabile…

In tempi moderni la musica di Giacinto Scelsi mette in opera il principio della noia: gli «oggetti», i «suoni» della musica tradizionale scompaiono, per Scelsi la musica è interna al suono (ascolta Quattro pezzi su una nota sola, per orchestra da camera, del 1959), il musicista che abita davanti al Foro romano distingue la musica dei suoni dalla musica del suono, e la sua ricerca musicale si concentrerà sulla musica che scaturisce da un suono solo, un suono dominante che si può dilatare e temporalizzare all’infinito. Scelsi compone sempre più a rilento, spesso rielaborando opere precedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto.

Analogamente, la noia per la orchestrazione sonora della tradizione poetica, sostanzialmente elegiaca e monocorde, spinge la «nuova poesia» che vuole essere inusitata e dissonante a ricercare nuove soluzioni di conflittualità e di dissonanza, ma tutto ciò all’interno di una tonalità dominante, non più entro il perimetro di un concetto di panlogismo zanzottiano e sanguinetiano che accosta parole-suoni diversi e differenti in un conglomerato unilineare e unitemporale, nella «nuova ontologia estetica» la differenza e la diversità si possono trovare soltanto all’interno di una metafora dominante o una tonalità emotiva dominante.

La «noia» è il vuoto che si apre, che apre spazi e spalanca tempi; soltanto la «noia» ti consente questa esperienza fondamentale… ti fa esperire il tempo e lo spazio attraverso le parole… e le parole vengono ad essere temporalizzate e spazializzate… Il punto e la spaziatura tra i singoli versi e le singole strofe sono balconi che si affacciano sul vuoto della pagina bianca… Il «vuoto», dunque, insieme alla «noia» sono esperienze costitutive della poesia della nuova ontologia estetica; per «vuoto» intendo qui qualcosa di affine alla «noia», qualcosa che consente la traslazione di essa nella pagina bianca, perché è la «noia» che può spalancare la impalcatura del «vuoto», solo la «noia» per la parola panlogistica.

 Due parole sull’oggetto

l’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto; l’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo. La «questità» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, la possibilità del loro essere e la non-possibilità, cioè il loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]

La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in oggi oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.

Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3] –

La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.

1] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 41
2] Ibidem p. 39
2 Ibidem, p. 168

Gif volto bianco con macchia rossa

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità

Francesca Lo Bue

18 maggio 2018 alle 18:40

Una parola e una poesia sull’oggetto “lampada”.
Nel nominare gli oggetti la loro “specifica ” oggettualità, o precisione è già implicita la loro vaghezza, perché comporta la “condanna del linguaggio”: il suo essere scarso, limitato, approssimativo. Ma pure paradossalmente, nominare gli oggetti è aprire con una “chiave” la infinita possibilità di dire, nominare in un altro modo. Come una lampada che gettando luce su gli oggetti li chiama alla visibilità, alla loro presenza ed uso.
La poesia è questo oggetto “lampada” che è capace di potenziare la nominazione, quindi arricchire la esistenza materiale e spirituale del mondo.

Cercare

Come fossi lo spirito della lampada
cerco il luogo del Nome e della cima innevata,
cerco nel gioco delle mani la scrittura fatale del tuo destino.

Visione..
Barbaglii di brace in desolato suono.
Mano che afferri
oltre pareti di ferro,
scarlatto che ammicchi una chiave di silenzio e presagio.

Buscar

Como si fuera el espíritu de la lámpara
busco el lugar del Nombre en la cima nevada,
busco en el juego de las manos la escritura fatal
de tu destino.

Visión,
destello que abrasa en desolado sonido.
Mano que aferras
más allá de las paredes de hierro.
guiñas una llave de silencio y presagio.

Lucio Mayoor Tosi

18 maggio 2018 alle 18.02

La maniglia argentata
di una vecchia macchina da scrivere.
Questo lento a capo.

Foto Man Ray Linda Lee

Man Ray, Lee Miller

Giorgio Linguaglossa

19 maggio alle 19.28 alle 18.02

Due poeti a confronto: Tomas Tranströmer e Iosif Brodskij – L’uso degli «oggetti» Continua a leggere

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Il filosofo Vincenzo Vitiello sull’etica dello spazio; Il nesso dello spazio con il tempo; Quando sorge un nuovo linguaggio poetico?; Lo spazio, il tempo e la memoria; Noi, chi siamo?Una poesia di Donatella Giancaspero

Gif volto bianco con macchia rossa

noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo

Vincenzo Vitiello scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).

Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?

Vincenzo Vitiello: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.

[ Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente? ]

Vincenzo Vitiello: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.

Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.

Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.

Gif Treno

Quando sorge un nuovo linguaggio poetico?

[ Quando sorge un nuovo linguaggio poetico? Ecco due versi del poeta Tomas Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

In questa immagine a solenoide del poeta svedese abbiamo la rappresentazione a-prospettica di UNA temporalità, una temporalità che, per paradosso, ha bisogno di riferimenti spaziali e simbolici per poter essere avvertita e rappresentata. Anzi, il simbolo è il nesso (concretamente linguistico) che unifica la dimensione temporale e quella spaziale. E qui si cela il paradosso del tempo. Il tempo, nella cognizione ontologica che l’uomo ne ha nella sua vita quotidiana, non è portato da una dimensione temporale ma da una Esperienza che ha abitato la dimensione temporale. Il paradosso è tutto qui: noi percepiamo lo scorrere del tempo e la distanza temporale non mediante la dimensione temporale che, di per sé, è vuota, ma attraverso le esperienze che hanno abitato la dimensione temporale. Nella dimensione del linguaggio poetico di Tranströmer, ad esempio, il simbolo si dà in una o più immagini concatenate che, tutte insieme, concorrono a modellizzare linguisticamente il tempo. Ed il tempo diventa «interno», si internalizza, prende ad abitare le immagini. Nella poesia sottostante di Donatella Giancaspero abbiamo uno «stato di cose» (Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde) che è nel tempo e nello spazio ma, paradossalmente, fuoriesce sia dal tempo che dallo spazio. Che cos’è uno «stato di cose»? Dove abita? Nel tempo? Nello spazio?, o fuori dal tempo e fuori dello spazio?

Una poesia di 

Donatella Giancaspero

Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde:
a colpo d’occhio, una scodella di corti steli marroni
piantati nel brodo di polvere.
Accanto al posacenere, l’ora di Armonia,
in attesa di salire col fumo al mentolo.

Alla fine dell’estate, un nido di vespe nel lampadario.
Un enigma al telefono.
Il problema logistico che sposta l’inizio delle lezioni.

La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano.

Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.

Vincenzo Vitiello: il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

 Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero. L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.

Prendiamo la prima parte dell’enunciato: noi abitiamo lo spazio. Non però nel senso in cui diciamo che abitiamo in una casa, in una città. Casa e città già ci sono perché noi si possa abitare in esse. Lo spazio, invece, è per l’abitare. È per l’abitare che c’è spazio. E se “abitare” dice: prendersi cura delle cose, allora è per il prendersi cura che lo spazio è. Stiamo qui capovolgendo l’argomento kantiano dell’“apriorità” dello spazio, per il quale in tanto possono esserci sopra e sotto, vicino e lontano, destra e sinistra – e cioè relazioni spaziali – in quanto c’è, c’è già, la forma pura dello spazio. Vero è che Kant muove dalla concezione dello spazio (e del tempo) elaborata dalla scienza moderna: la concezione dello spazio come contenitore universale di tutti i fenomeni esterni. È lo stare in esso che determina la spazialità degli enti, i rapporti cioè di vicinanza e lontananza, tra “su” e “giù”, “davanti” e “dietro”… Non si tratta, chiaramente, di un contenitore “inerte”, al contrario, lo spazio è forma attiva, forma formante: esso spazializza tutto quanto accoglie in sé. Sin dall’inizio Kant antepone la “forma” al “contenuto”, la relazione ai suoi termini, l’attività alla passività. Questo ci permette di dire che Kant non pone il problema del “costituirsi” di questa forma formante, del sorgere dell’esperienza dello spazio. Lo spazio c’è, c’è già, da sempre – si dice. E sia pure. Ma come accade a noi di fare esperienza dello spazio?

La domanda è ineludibile. Kant stesso inizia chiamando in causa “chi” può fare esperienza dello spazio. Soltanto un ente sensibile – risponde –, ossia un ente ricettivo e quindi “finito”, in quanto rinvia ad “altro”, a ciò da cui “riceve”. La “finitezza” dell’ente, la sua ricettività, il suo riferimento ad altro, implica la sua spazialità a priori, il suo essere già – già da sempre – nello spazio (qual forza spazializzante passiva e attiva insieme). Del tutto evidente che è dalla determinazione dello spazio che viene ricavata la determinazione dell’ente che ne fa esperienza, il “noi”, e non viceversa. Né vale replicare che l’esperienza dello spazio – e cioè la conoscenza che l’ente sensibile finito ha della sua spazialità a priori – è una ri-flessione, un ripiegamento dell’ente finito sulla propria apriorica costituzione spaziale. Non vale, perché la replica conferma l’obiezione, e cioè l’asserita presupposizione della spazialità dell’ente sensibile finito. Ma: è sufficiente la “ricettività” a definire l’ente che fa esperienza dello spazio?

Gif finestre

il linguaggio è pieno di metafore, di trasposizioni. E non è necessario evocare il linguaggio della poesia, basta avere una qualche confidenza col linguaggio popolare o dialettale. Il passaggio dallo spazio al tempo comporta altro “salto” nella continuità dell’esperienza.

Giorgio Linguaglossa: Lo spazio, il tempo e la memoria, la memoria che apre all’uomo l’esperienza della quadri dimensionalità. Scrive in proposito Giacomo Marramao: Continua a leggere

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Petr Král – Lettera ai poeti della nuova ontologia estetica – Sabino Caronia – Un Appunto su Critica della ragione Sufficiente (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21) di Giorgio Linguaglossa con due poesie di Anna Ventura

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Lettera di Petr Král

 Chère Donatella Costantina Giancaspero,

merci de votre lettre et de l’intérêt que vous portez à mes écrits; l’article sur Notions de base, bien sûr, m’intéressera beaucoup.

Je comprends mieux, grâce à votre lettre,  la notion de “nouvelle ontologie  esthétique” et le besoin que vous avez d’une “devise” de cette sorte. Moi aussi, après tout, j’ai utilisé l’expression de “phénoménologie” poétique à propos de mes Notions de base, justement, ce qui n’est pas très loin de votre ontologie… Je trouve, en tout cas, que votre initiative pour relancer le débat sur la poésie dans le contexte actuel est une initiative heureuse et utile et qu’elle mérite  d’être connue et suivie le plus possible; et si je peux y contribuer un peu, je n’hésiterai pas à le faire, selon les circonstances et avec mes moyens personnels.

Comme vous, je serais content si cela  nous permettait également de nous rencontrer un jour. Avec un amical bonjour pragois, à vous et à vos amis ontologistes.

[Cara Donatella Giancaspero,

grazie per la tua lettera e il tuo interesse per i miei scritti; l’articolo su Nozioni di base, ovviamente, mi interesserà molto.

Capisco meglio grazie alla tua lettera, il concetto di “nuova ontologia estetica” e la necessità si dispone di un “motto” di questo tipo. Io anche, dopo tutto, ho usato l’espressione “fenomenologia” poetica a proposito delle mie Nozioni di base, che non è molto lontano dalla vostra ontologia … Io penso, comunque, che la vostra iniziativa per rilanciare il dibattito sulla poesia nel contesto attuale è un’iniziativa felice e utile e che merita di essere conosciuta e seguita il più possibile; e se posso contribuire un po’, non esiterò a farlo, secondo le circostanze e con i miei mezzi personali.

Come te, sarei felice se ci permettesse anche di incontrarci un giorno. Con un amichevole buongiorno praghese, a te e ai tuoi amici ontologisti]

[Sabino Caronia, Steven Grieco Rathgeb, Grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Sabino Caronia, soltanto un Appunto

 Giorgio Linguaglossa scrive nel Retro di copertina del volume:

Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci  illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia:  un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che  il presente non è affatto certo.

Il programma «minimo» annunciato nel sotto titolo diventa, come per magia, un programma «massimo».

Diamo la parola a Linguaglossa:

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive: «l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica». Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo. Con  Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale. La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte e stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredita di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.

Il «frammento» si da soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perche l’eta pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».

 Esponente di rilievo dell’ermeneutica contemporanea, fortemente influenzato dal pensiero di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, Vattimo ritiene che l’oltrepassamento della metafisica sfoci in un’etica dell’interpretazione. La filosofia diventa pensiero debole in quanto abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma è intesa come continua interpretazione. Esistono, dunque, diverse ragioni che contrastano le pretese della filosofia fondazionale, ma il motivo di maggior peso è dato proprio dall’ermeneutica, arte e tecnica dell’interpretazione che riguarda il rapporto tra Linguaggio ed Essere.

Esistere significa vivere in relazione ad un mondo e questo rapporto è reso possibile dal fatto che si dispone di un Linguaggio. Le cose vengono all’essere solo entro orizzonti linguistici non eterni ma storicamente qualificati. Anche il linguaggio non è una struttura eterna.

[Giuseppe Ungaretti, Eszra Pound, Grafica di Lucio Mayoor Tosi L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici]

L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici, legge ed interpreta l’essere e si rapporta ad essi. Ma, trattandosi di orizzonti temporalizzati, vale a dire non eterni, è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute su Dio, sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità. L’avventura del pensiero metafisico è giunta al suo tramonto. L’uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L’uomo si apre al mondo tramite il Linguaggio che parla. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali.

La verità diventa la trasmissione di un patrimonio linguistico e storico, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo.

Umberto Saba scriveva in Quello che resta da fare ai poeti: «un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima invenzione». È proprio quello che fa Linguaglossa quando sposta il binario Debenedettiano dalla linea Saba-Penna alla linea Tranströmer-Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb nuova ontologia estetica della poesia italiana ed europea. Leggiamo un brano significativo.

Ha scritto Linguaglossa:

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio…

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer Continua a leggere

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Gli oggetti, le cose, le parole – La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità. Dialogo tra Steven Grieco Rathgeb, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Raymond Queneau – Una poesia di Tomas Tranströmer, Anna Achmatova, Katarina Frostenson, Lucio Mayoor Tosi tradotta da Adeodato Piazza Nicolai

 

Foto segretaria

La brutta poesia dei nostri giorni disgraziati è fatta con le parole della chiacchiera e della stolida, superficiale nequiziosità

Lucio Mayoor Tosi

Poesia che fai scrivere poesia

In quest’angolo d’America
regno delle tabaccherie – che Dio le strafulmini –
fai che questa stanza sia come quella di Hemingway;
quando la sera musicale
rallenta
le parole arrivano già scritte. Nella notte
tutte quelle lanterne accese. Prendimi
per mano, andiamo
in cucina. A nuoto
nell’aria gelida
di febbraio.
Il racconto di Coniglio.

Febbraio 2018, Candia Lomellina (PV)
La realtà è indescrivibile.

***

Poetry You Cause the Writing of Poetry

In this corner of America
kingdom of tobacco shops – May God strike them down –
make this room like that of Hemingway;
when evening music

slows down

the words come already written. In the night
all those lanterns lit up. Take me
by hand, let’s go in the kitchen. Swimming
in the freezing air
of February.

The tale of Rabbit.
February 208, Candia Lomellina (PV)
Reality cannot be described.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem Poesia che fai scrivere poesia.
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb

2 dicembre 2017

«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.

È da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.

In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.

L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.»

  Giorgio Linguaglossa

l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio.

  Raymond Queneau

 I popoli felici non hanno storia. La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini.

 onto Chiara

Catapano Chiara   

2 dicembre 2017 alle 12:51 

“diversamente da questo, dobbiamo riflettere se i nostri alfabeti oggi riescano con queste stranissime pezzettini, bastoncini, semi cerchi, puntini, a creare una suggestione immensa nel lettore.”

Parto da qui. Negli ultimi mesi ho avuto modo di discutere a lungo con Steven Grieco-Rathgeb sulla virtualità della scrittura, della lingua che da suono si fa segno e poi di nuovo suono, in un travaso continuo, una ripetizione che internamente ha un profondo effetto rinnovatore: le lingue sono un tessuto vivo, che evolvono, muoiono in una forma per rinascere in un’altra. Ma il mistero del travaso (phōnē-morphé-phōnē, φωνή-μορφή-φωνή), conserva in sé il suo segreto.

Va sottolineato che le parole greche φωνή (voce) e φαίνω (mostrare) condividono la stessa radice. La voce si fa segno, lo racconta l’etimologia stessa di quelle parole che noi poeti adoperiamo come materia prima.

Mi ha detto, in una recente conversazione, come secondo lui la società tecnologica suo malgrado allontana dallo studio della lingua, della letteratura. Gli risposi che nella nostra società, stanca e in declino, pare di assistere ad un fenomeno che un tempo era diacronico, ed ora (in convergenza temporale) è divenuto sincronico: ovvero la lingua parlata e scritta è (per dirla con un ossimoro) “vissuta come morta”. Intendo dire che un tempo le lingue morte erano quelle classiche, antiche – quante volte mi hanno rivolto questa domanda, quand’ero al liceo: “Perché studi le lingue morte? A cosa “ti serve”?); oggi la stessa domanda mi viene rivolta da studenti che vengono da me per ripetere e studiare l’italiano: “Perché devo studiare la grammatica? Non mi servirà mai a niente”.

Dall’altra parte, una giovane insegnante di discipline plastiche, a scuola di mio figlio, racconta delle sue esperienze estive in Messico, dove ogni anno trascorre il periodo di pausa da scuola: lì insegna a leggere e scrivere a giovani e giovanissimi. E lei vuole portare ai nostri ragazzi, qui, la testimonianza di quello stupore che invade le fronti (diventano chiare, aperte quelle fronti!), quegli occhi, quando finalmente imparano a rendere simbolo il suono della loro voce, le parole pronunciate dal padre e dalla madre, e poi persino i loro pensieri, prima ancora che si trasformino in suono. Dicono di ciò che fanno, che stanno compiendo una magia.

Tornare alla virtualità della scrittura, riappropriarci dello stupore. Ripartire, come analfabeti, a leggere da capo il mondo.

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

Dipinto di Kuzma Petrov Vodkin, A. Achmatova

Una poesia di Anna Achmatova
(versione di Paolo Statuti) Continua a leggere

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La nuova ontologia estetica – Contro le accuse di redigere manifesti, organizzare gruppi, movimenti, tesi, decaloghi, avanguardie, retroguardie etc. Noi diciamo semplicemente che vogliamo rimettere in moto l’esercizio del pensiero poetico dopo cinquanta anni di immobilismo – Poesie di Francesca Lo Bue, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Mario Gabriele, Anna Ventura, Antonio Sagredo – pensieri di T.W. Adorno, Pier Aldo Rovatti, Maurizio Ferraris, Giorgio Linguaglossa, Adeodato Piazza Nicolai, Mauro Pierno

Gif Astronauta che sogna

Cari signori poeti delle parole morte,
Il vostro viaggio è finito.

 

Gino Rago

La sella vuota

“Cari signori poeti delle parole morte,
Il vostro viaggio è finito.
La corsa senza freni sui prati
è terminata. A che vi serve il cavallo?

Restituite al mondo la sella ormai vuota.
Non vi serve più l’aria.
Restituite l’ossigeno a chi saprà ingoiarlo.

Scrivere per sé stessi
carezzando l’io, il mio, il soltanto io
spinge le parole nell’abisso di ghiaccio.

Regalate il cavallo. Restituite l’aria.
Lasciate la sella vuota a chi saprà usarla.
Cari signori poeti delle foglie appassite,
se dite ‘futuro’ il presente vi divora.

Se dite ‘vita’ la morte vi frantuma.
Giorgio ha ragione. Non c’è destino
per le parole morte. Trascinate versi,
amori, parenti, amici nella valigia,
congedatevi dal mondo senza cerimonie.

 

Giorgio Linguaglossa
18 giugno 2017 alle 15.54

caro Mario,
Vorrei dire ad Alfredo Rienzi e ad altri innumerevoli che ci hanno accusato di redigere «manifesti», organizzare «gruppi», «movimenti», «tesi», «decaloghi», «avanguardie», «retroguardie» etc. che, di contro alla immobilità degli ultimi 50 anni della poesia italiana, per la prima volta in Italia è apparsa una pratica della poesia e una teoria della poesia e della scrittura letteraria in generale, che non è più soltanto una avanguardia» né una «retroguardia», né un «movimento», né abbiamo aperto un esercizio per la vendita al dettaglio degli affari propri e correnti, né una legge finanziaria con tanto di capitoli ma è qualcosa di diverso, è un movimento di pensiero e di azione teorica da parte di alcuni poeti di diversissima estrazione e provenienza che ha deciso di rimettere in moto il pensiero poetico, non si tratta di una vendita all’asta al miglior acquirente, né di una domiciliazione bancaria delle proprie rendite di posizione, né di una poetica pubblicitaria e di vendite promozionali come è avvenuto nel corso del secondo novecento, la nostra non è né una cosa né l’altra… contro i timorosi del «nuovo», contro i conservatori ad oltranza, contro chi reclama la conservazione della tradizione (come se essa fosse un capitale che sta in banca a produrre altro capitale parassitario ad interessi fissi), contro chi è recalcitrante alle nuove forme estetiche, contro chi pensa che scrivere poesia lo si possa fare a spese della tradizione utilmente collocata nel proprio bagaglio pret à porter, riporto qui un pensiero di Adorno:

“Gli argomenti contro l’estetica «cupiditas rerum novarum», che così plausibilmente possono richiamarsi alla mancanza di contenuto di tale categoria, sono intrinsecamente farisaici. Il nuovo non è una categoria soggettiva: è l’obbiettiva sostanza delle opere che costringe al nuovo perché altrimenti essa non può giungere a se stessa, strappandosi all’eteronomia. Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo… Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità. Quel che Schömberg diceva con semplicità, «chi non cerca non trova», è una parola d’ordine del nuovo […] Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obbiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo (e ciò è esemplare per le categorie dell’arte moderna) è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale, nome per modi di comportamento artistici per i quali il nuovo è vincolante, si è conservato; esso però indica ora un elemento qualitativamente diverso… indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo”. “la categoria del nuovo è centrale a partire dalla metà del XIX secolo – dal capitalismo sviluppato -. “L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1]

Scrivevo tempo fa, riprendendo una affermazione di Paul Valéry secondo il quale «il mercato universale ha oggi prodotto un’arte più ottusa e meno libera», che l’Amministrazione degli Stati moderni ha imparato la lezione, è l’Amministrazione globale che gestisce la Crisi e gli oggetti della Crisi, e che la Crisi è nient’altro che il prodotto di una Stagnazione Permanente.

«Non sarà più possibile trattare le parole nei limiti di un linguaggio oggetto, perché se da qualche parte esse fanno sentire il loro peso, sarà dalla parte del soggetto: lungi dall’eclissarsi, come molti nietzschiani vorrebbero far dire al testo di Nietzsche, il “soggetto” diviene tanto più importante come questione per tutti (e di tutti) quanto più l’uomo rotola verso la X (con la spinta che Nietzsche ci aggiunge di suo). Passivo, quasi-passivo, attivo nella passività; soggetto-di solo in quanto (e a questa condizione) di sapersi-scoprirsi soggetto-a… La frase di Nietzsche documenta, come tutte quelle che poi la ripetono, una condizione della soggettività, di cui sarebbe semplicemente da sciocchi volerci sbarazzare (sarebbe un suicidio teorico)… Ma sappiamo anche che è innanzi tutto e inevitabilmente una questione di linguaggio, e che l’effetto davanti al quale preliminarmente ci troviamo è un effetto di parola». 2]

Un aneddoto.

Vi racconto un aneddoto. Una volta una rivista di questi giovanotti che scalpitano e sgomitano mi ha rivolto un questionario con domande sulla «critica della poesia». Mi avevano chiesto, questi giovani, che cosa intendessi per «critica della poesia», quale «scuola di pensiero estetico seguissi», se esistesse, a mio giudizio, oggi, «una critica della poesia»… E via di questo passo.
Io gli risposi che non sapevo cosa fosse la «critica della poesia», che non seguivo «nessuna scuola di pensiero estetico e che, a mio avviso, non esisteva la critica della poesia».

La risposta di quei giovanotti fu più o meno questa, mi chiesero: «se avessi inteso prendermi gioco delle loro domande e se intendessi proprio quello che avevo scritto». Inutilmente io ribadii che ero serissimo e che non mi sarei mai permesso di prendermi gioco di nessuno, tantomeno delle loro domande. Il risultato fu che le mie risposte alle domande del questionario non videro mai la luce in quella rivista.

Questo aneddoto lo riferisco perché illumina bene il livello della «pseudo-cultura» che quei giovanotti hanno introiettato e come sia ormai interiorizzato tra gli «appassionati alla poesia» un genere di credenze e convincimenti tipici di una cerchia sacerdotale la quale non ammette chi pone in discussione i presupposti della pseudo-cultura di quella cerchia di sacerdoti del conformismo culturale. Intendo dire con questo aneddoto quanta strada all’indietro le nuove generazioni abbiano percorso dal pensiero critico di persone della mia età. Si è trattato, a mio modesto avviso, di una regressione a un pensiero soteriologico, sacerdotale,di chi si crede di detenere le chiavi per l’accesso al Paradiso delle lettere…

Insomma, non posso non notare una sorta di regressione profondissima verso un pensiero acrilico e acritico, L’aspetto più ridicolo è il concetto di cultura di cui quei giovanotti sono portatori, un concetto dal quale sono stati espunti gli elementi di critica delle ideologie e di critica tout court.

L’aspetto umoristico è che questi giovanotti hanno interiorizzato il meccanismo mentale dell’Amministrazione globale della Crisi, ovvero, il principio della censura e dell’esclusione di chi non condivide la loro cultura agiografica del presente. E questo è proprio il metodo di dominio che l’Amministrazione delle cose ha in Occidente: l’Amministrazione gestisce le CRISI insinuando nelle menti deboli di pensiero critico la convinzione secondo cui occorre espungere dal catalogo degli «addetti ai lavori» chi non la pensa come la maggioranza imbonita, chi la pensa in modo diverso. E chi agisce in modo diverso.

(Giorgio Linguaglossa)

Chi ha paura delle idee?

In proposito scrive Maurizio Ferraris: «l’inventore della scrittura cercava un dispositivo contabile, ma con la scrittura si sono composti versi, sinfonie e leggi;, l’inventore del telefono voleva una radio, e viceversa; chi ha inventato le tazze da caffè americano non prevedeva la loro destinazione parallela a portapenne; l’inventore dell’aspirina pensava di avere scoperto un farmaco antinfiammatorio, mentre una delle sue più interessanti qualità è che sia un farmaco antiaggregante, quindi fluidificante del sangue, come sì è capito più tardi; l’inventore del web pensava a un sistema di comunicazione tra scienziati, e ha dato vita a un sistema che ha trasformato l’intera società. Lo stesso cellulare è evoluto da apparecchio per la comunicazione orale ad apparecchio per la comunicazione scritta e la registrazione, smentendo l’assunto secondo cui la comunicazione costituirebbe un bene superiore alla registrazione, e l’oralità un veicolo di scambio più gradito, naturale e addirittura appropriato della scrittura…».3]

1] T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33

2] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, pp. XX-XXI

3] Maurizio Ferraris, Emergenze, Einaudi, 2016 pp. 120 € 12

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Pensieri  poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

  1. (J. Lacan – seminario XI)

*

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda

*

Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono  silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».

Strilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secoloStrilli Transtromer le posate d'argentoLa verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».

Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».

Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza. L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna VenturaMario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.

I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».

Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza. Continua a leggere

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La nuova ontologia estetica – Poesie di Tomas Tranströmer, Ewa Lipska, Mario M. Gabriele, Francesca Dono, Fritz Hertz, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Giorgio Linguaglossa – Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero – Intorno ad una diversa ontologia delle parole

Foto Karel Teige

-Tu conosci Sally?.
È una donna sulky, un po’ surreale-.
-Ma lei non è più qui- disse Larry.
-E che sarà di noi?.
E che si dice di là nella vita,
di là da quelle parti, là in parte?-.
-Hallo, Cristina! Ich kann dir helfen?

Poesia di Mario M. Gabriele

1
autostrada per Brera
con i pensieri agli otages del 45
senza la sindrome di Stendhal.
Diciamolo pure tra noi, Joyce:
Molly Bloom incanta ancora.
Ernest aveva un angioma sulla guancia
che sembrava uno schizzo di Mirò.
-Tu conosci Sally?.
È una donna sulky, un po’ surreale-.
-Ma lei non è più qui- disse Larry.
-E che sarà di noi?.
E che si dice di là nella vita,
di là da quelle parti, là in parte?-.
-Hallo, Cristina! Ich kann dir helfen?-.
Per noi questa nascita
fu come un’aspra ed amara sofferenza,
come la Morte, la nostra Morte.
La regia non toccò il Finale di partita.
rimise a posto Le finestre di Magritte
e il Portrait of a Lady.
David tacque di fronte all’Unde Malum.
(…)
Non abbiamo trovato blazer Trussardi
ma camicie as aufzüge nell’outlet.
Dalla cima del Mc Kinley, imbiancata di neve,
scivolammo fino al padiglione Pickwik
tenendoci per mano senza fermarci al Park Down,
facendo il giro del lazzaretto,
lasciando ai miseri la Misericordia,
e ai dannati Le voyage dans la lune.
Brecht rimase sul sofà con Madre coraggio.
Nelle nursing homes
i pochi rimasti nella veglia
attendevano miracoli dal guru,
guardando le sfere passare oltre,
dilagare gli anni in lutti e gioie.
a sera porremo per tutti un bouquet di loto e di talee.
ognuno avrà freschezza di lini e di rugiada
e tutto si compirà in prodezze di oracoli e scritture
in un tempo oscuro e breve,
poco più d’un attimo, una stagione.
Ci fu chi domandò:
-Chi c’è là nel metamondo?.
E Linda è vero che sta con voi?-.
Si era spezzato il dialogo con gli altri,
né vennero al cold reading il dottor Gary
e l’umanista Schwartz smarriti in un viaggio,
chi a bordo delle navi,
chi su malferme barcarole.
(…)
Ci sono anni che sembrano boschi,
strade senza uscita, Signora Spolding!
Qui ancora si contano i ragazzi del Quaranta,
mentre saltano pick-up,
bruciano palmizi,
boati scuotono le strade.
Good bye, mamà!.
Nessuno più ti metterà le flebo e i tubicini.
Ci saranno stati piccoli rumori, scricchiolii.
Ma chi li ha sentiti?.
Lucy, non so dirti!.
abbiamo spento il widescreen.
E’ successo all’improvviso.
Volevo solo restare nel sogno,
chiedere a Willy dove fosse la sua anima
quando lasciò il paese
passando lungo i campi dei papaveri rossi.

da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2018)

Laboratorio 5 zagaroliLaboratorio 5 poeti
*
Leggiamo qualcosa di Tomas Traströmer:

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi
*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.
*
Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
a quello che IO sono, quello che IO sono.
Ma non appena sono riuscito a vedere IO
IO è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice
*
Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
*
Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
*
Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota
*
… una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…
*
… e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
su una macchina che non ha nastro solo una linea
d’orizzonte
sicché la parole battono invano e non resta nulla
*
Io sono attraversato dalla luce
e uno scritto si fa visibile
dentro di me
parole con inchiostro invisibile
che appaiono
quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!
*
Leggevo in libri di vetro…
*
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
*
…la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

Commento di Giorgio Linguaglossa

Sono versi di Mario Gabriele e di Tomas Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE. Il problema è che c’è, ed è ben visibile l’Assoluto, che è assolutamente incontraddittorio, e quindi incoglibile. A loro modo sia Mario Gabriele che Tomas Traströmer fanno poesia dell’Assoluto, del dio dell’istante, di tutto ciò che è incoglibile.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto lirico

poesia di Edith Dzieduszycka da Squarci (inedito)

Perché bottino.
Perché tesoro.
Prezioso, labile, fluttuante,
pronto ad evadere, malgrado corda, catena,
nastro, promesse, lusinghe, minacce.
Non essere mai sicuri,
tornare e ritornare,
di giorno, di notte,
su luoghi, pensieri, parole, dubbi,
verificare, correggere, controllare,
non fidarsi, star in allerta, misurarsi.
Non accontentarsi.

*

Si negavano, i personaggi.
Si negavano con ostinazione.
E non era dato sapere,
se ancora dovevano arrivare,
o se, arrivati, erano già scappati,
da ogni interstizio, da ogni crepa.
Se si nascondevano dentro le buche,
sotto la sabbia, negli anfratti delle rocce.

Non si riusciva a capire
se avevano deciso di rifiutarsi,
di trattenersi di comun accordo,
di non saperne di venire,
alla luce, all’evidenza, alla ribalta.
Se si ribellavano allo strapotere
di chi avrebbe potuto decidere al loro posto,
di chi li avrebbe trasformati in marionette,
in fantocci senza volontà,
costretti a promiscuità indesiderate,
matrimoni forzati, separazioni dolorose,
lavori inadeguati, rinunce penose,
vergognosi fallimenti.
di chi li avrebbe incanalati
dentro comportamenti condannati,
di chi li avrebbe fatti tiranni, vili, assassini,
ignoranti, emarginati, affamati,
o santi, navigatori, scopritori, poeti.
I primi della terra come gli ultimi.

Di chi avrebbe avuto il potere di costringerli
al silenzio, all’immobilità, alla poltrona,
al letto, alla morte.
Perfino alla non morte.

*
poesia di Fritz Hertz -Francesca Dono

caro tesoro – una poesia di Fritz Hertz

Caro tesoro, sono uscito presto. A voce bassa. Velocemente,\ come un ladro.
In cucina lascio due mele. Sulla sedia inclinata il tailleur di lana verde. La sveglia ha suonato mezzo secolo. Nel frattempo mi sono rasato e spogliato sotto il neon per ben tre volte. Avevo la saponetta di sempre.
Il solito rumore della scala.
Caro tesoro , c’è modo di svegliare questo sonno?
Le foche battono la fiacca. Tutti chiedono il tuo mondo. Non avrai (per caso) scordato il nostro amore? Agamennone è qui. Sul selciato del vicino di casa. Dal rovescio della notte in pieno giorno. Tu lo capisci _ vero?
Testata politticoLaboratorio 4 Nuovi
Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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Carlo Del Nero, Poesie inedite, Prima pubblicazione – con un Commento di Giorgio Linguaglossa: Verso un nuovo paradigma poetico

 

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Amico,/ mi piacerebbe tu preparassi/ una bella orazione funebre/ per la mia notte,/ tu

Carlo Del Nero. Sono nato a Massa il 27/10/1955 e vivo a Massa. Sono un autore inedito. Sono appassionato di musica, ho scritto anche qualche canzone, e di pittura.

Giorgio Linguaglossa

         Verso un nuovo paradigma poetico

Credo che un poeta completamente inedito, e quindi «vergine» come Carlo Del Nero, e per di più non più giovane – quindi non appartenente alle nuove generazioni le quali sono tutte protese verso le radiose praterie della visibilità – abbia qualcosa da dirci, e ce le può dire proprio perché se ne è restato in disparte per decenni a ruminare la cosa chiamata poesia che tanto non interessa a nessuno, tantomeno agli addetti ai lavori (come si diceva una volta con pessima terminologia). Il titolo è un avverbio, e sta ad indicare la modalità esistentiva dell’esserci, di noi, il nostro modo di approcciare le «cose» con indaffarata superficialità e sordità. Possiamo immaginare che Del Nero abbia dovuto anche lui attraversare il deserto di ghiaccio degli anni ottanta, novanta e dieci del nuovo millennio, abbia scontato sulla propria pelle la deriva epigonica e prosaicista della poesia italiana del novecento e abbia meditato su tutto ciò. Ebbene, Del Nero nulla sa della nuova piattaforma denominata «nuova ontologia estetica», però penso che qualcosa abbia letto se ci ha mandato le sue poesie, ciò vuol dire che abbiamo riscosso quantomeno la sua fiducia. Carlo Del Nero fa poesia perché non ha nulla da chiedere alla poesia, nulla da perdere, fa poesia senza atteggiarsi a poeta (leggo frequentemente degli scriventi che si dichiarano «poeta» e «poetessa» senza tema di apparire ridicoli) e senza infingere o indulgere negli e con gli strumenti retorici e, soprattutto, non fa mai riferimento all’Ego e alla sua profilassi poetologica. Carlo Del Nero preferisce il discorso diretto, non conosce altro che il discorso diretto all’interlocutore. Il discorso testamentario potremmo definirlo:

Amico,
mi piacerebbe tu preparassi
una bella orazione funebre
per la mia notte,
tu

Credo che possiamo tranquillamente annoverare Carlo Del Nero quale ricercatore di «nuova poesia», al pari degli autori della «nuova ontologia estetica», lui che scrive: «mi affascinano i quaderni bianchi,/ le scatole vuote»; «Quanto è vecchio dio!/ neppure si è accorto/ che ha le tasche bucate/ …e quante stelle/ gli sono cadute». Si avverte una disillusione quasi senza amarezza per tutto ciò che è andato perduto, in lui non c’è nulla dello scetticismo, del cinismo e del disincanto del minimalismo post-moderno romano/milanese, il disincanto c’è ma senza ombra di scetticismo piccolo borghese e di cinismo pariolino. Del Nero ha una postura minimale, un lessico minimo, un tono minimo anch’esso, eppure la sua poesia non è minimalismo ma rientra nella poesia a corredo metafisico, quella che va verso le cose e si tiene a distanza dalle cose. Istintivamente intuisce qualcosa sulla differenza tra gli «oggetti» e le «cose».

cambiamento di paradigma

Tempo fa discettavo intorno alla ipotesi che si stesse profilando nella poesia italiana un cambiamento di paradigma, dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza, espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, è ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo. E questa è senz’altro una buona notizia.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (in La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

si è concluso il Post-moderno

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili e mi riferisco ad una recentissima scoperta scientifica: è stato individuato un cristallo che ha una struttura atomica mutante, cioè che muta nel tempo!) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un certo concetto di reale e di finzione), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio» (per dirla con un termine del lessico mediatico).

Carlo Del Nero 1

Lanciavo i miei aeroplanini di carta/ da bambino

Poesie di Carlo Del Nero

Lanciavo i miei aeroplanini di carta
da bambino
e pregavo con tutte le mie forze
che volassero
almeno il tempo di farmi sognare.

*

Sei invecchiata anche tu
come una casa svuotata
che non ci ricorda più
anni lontani.

*

Mi affascinano i quaderni bianchi,
le scatole vuote,
ripostigli e nicchie;

ogni luogo dove poter riporre
qualcosa di me.

Ogni amore dunque.

*

-scene dal libertino-

scena prima

Occhiaie di strega;
impronte di bicchieri
lasciate da un incontro
sul legno screpolato;
una macchia sul divano e
un’alba faticosa.
La promiscuità
è tutta nel mattino
che focalizza rovine.

*

Nella dispensa del mio cuore
dove già in molti hanno razziato
ancora puoi trovare ristoro
alla tua fame. Continua a leggere

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Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura, Donatella Costantina Giancaspero, Una poesia inedita con Commenti di Giorgio Linguaglossa – La poesia italiana ai piani alti della poesia europea

Foto Walking

Dietro di te – ma forse anche intorno a me? – / qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.

 

Ormai siamo talmente abituati a considerare poesia i versi sul phon che funziona male, sull’oblò della lavatrice che non chiude, sul rubinetto del lavabo che perde acqua, sulla doccia con abbondante acqua calda scambiata per lo scrittoio, sul proprio figliolo che si fa la doccia e consuma tutta l’acqua dello scaldabagno, etc., dicevo, siamo così abituati a considerare «poesia» soltanto ciò che risponde ai canoni, non direi neanche più del minimalismo, ma al serbatoio di tutti quei truismi che sono patrimonio comune del gergo internazionale che oggi viene scambiato in tutti i paesi dell’Occidente come «poesia», che non siamo più in grado di apprezzare questi tre autentici capolavori della poesia  italiana contemporanea qui di seguito.

Foto volto con mani

È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.

Giorgio Linguaglossa
26 novembre 2017 alle 13:51

Una poesia di Lucio Mayoor Tosi:

Dietro di te – ma forse anche intorno a me? –
qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.

È davvero strano, non esserci. Non lo sapevo,
non me n’ero accorto.

Mi sorprende sapere che non siamo veri.
Che siamo pensieri. Senza me e senza te ma insieme.
Forse al mondo un posto migliore di noi non si trova.
Un posto vero, voglio dire, che non sia soltanto un’immagine.
Un posto divino, che a toccarlo sia convincente.
Una corporea entità.

È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.

*

Behind you – but maybe also around me? –
someone is feigning to be. I didn’t know it,
I wasn’t aware.

It is surprising to know we are not real.
That we are thoughts. With no me and with no you but together.
Maybe in the world a better place for us cannot be found.
A real place, I want to say, that is not only an image.
A divine place, when touching it is convincing.
A corporeal entity.

It is truly strange for me to be here. Me and you.
You who are not, I who am not and the world that seems.

© 2017 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem “Dietro di te…”
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.

Appunto di Lucio Mayoor Tosi:

In questi giorni sto scrivendo davvero male, con fatica e tanti ripensamenti. È come disegnare svogliatamente, senza convinzione. Probabilmente qualcosa sta bollendo in pentola, qualcosa di cui ancora non so nulla.
Intanto mi aggiusto l’idea, che sarebbe bello poter unire due modi di scrivere poesia: quello di Tomas Tranströmer con quello di Czeslaw Milosz. La resa in parole di Tomas con la volontà di dire che ha Czeslaw.
Ai poeti squinternati come me, conviene, e fa senz’altro bene, guardare in alto.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Caro Lucio,
questa prosa poetica o prosa in poesia o poesia in prosa, come dice Alfredo de Palchi, è una delle tue più riuscite. Tu riesci a comporre in un unico stile il periodare argomentativo con assiomi e lacerti aforistici e il periodare per immagini e per traslati. Questa è una tua caratteristica peculiare, non conosco nessuno, nella poesia italiana, che ti può stare dietro. E capisco anche il tuo tentativo di riunire in un solo stile polimorfo il periodare argomentativo di Milosz con le immagini di Tranströmer, quanto di più difficile si possa immaginare, ma sei sulla buona strada. Del resto sono proprio i parti difficili quelli che danno i migliori risultati. Complimenti. Continua a leggere

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Un confronto tra lo spazio espressivo integrale di Sandro Penna, tipico del realismo lirico novecentesco e una strofa di Tomas Tranströmer del 1954 Poesie di Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, J. Haddad, Francesca Dono, – Commenti

Gif metro

La vita… è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba

 

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Foto uomo tigre

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer

Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.

Leggiamo quest’altra strofa:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

Mario Gabriele In viaggio con Godot cover 1

Carlo Livia

13 novembre 2017 alle 12.59

Caro Giorgio, condivido metodo e fine della tua analisi comparata, e anche aver scelto Penna come esemplare di maggior risultanza icastica di un atteggiamento espressivo ancora fatalmente imbrigliato nei vincoli della vecchia onto-logia, cioè di un rapporto pensiero-essere che non può svincolarsi dalle tradizionali codificazioni mimetiche, che presuppongono non solo isomorfismo, ma subordinazione del pensiero- linguaggio ai (presunti) immutabili caratteri e confini del reale. Che tra logica e ontologia regni totale eteronomia è inconfutabilmente acquisito dalla riflessione dell’analitica del linguaggio (Frege, Wittgenstein, ecc.); ciò ha avuto importanti riflessi anche nella riformulazione estetica, etica, assiologica, di strumenti e destini creativi, culturali e antropologici.

In passato abbiamo spesso polemizzato, come ricorderai, soprattutto perché non condividevo la tua faziosità e le tue furiose stroncature, per me eccessive, ma devo riconoscere che mi sbagliavo: si tratta effettivamente di farsi protagonisti di una svolta epocale, che passa anche per l’arte e la letteratura, la sua funzione, la sua analisi critica, il suo contributo all’evoluzione di configurazioni psichiche e prassi culturali e sociali.
Il pensiero poetico (dove l’essere, attraverso il linguaggio, accade, sorge alla luce) ha da sempre un funzione insostituibile nel rinnovare e liberare da codici, norme e ideologie fossilizzate e violente; non è casuale l’ossessiva volontà, da parte di tutti i totalitarismi (compreso quello consumistico-tecnologico in cui sopravviviamo emarginati, nascosti nell’…ombra!) di perseguitare e sterminare i poeti.

C’è un solo particolare da cui dissento, che la svolta sia stata compiuta dall’opera di Tranströmer, che è certamente, anche perché psicologo del profondo, uno dei più consapevoli esegeti delle nuove dinamiche intrapsichiche e delle mutazioni linguistiche che le determinano e descrivono: Ma Rimbaud ha fatto qualcosa di simile un secolo prima:

Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante
e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque
e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono,
nel loro silenzio atrocemente agitato…

(Da Illuminazioni)
Per non parlare dei paesaggi onirici e deliranti dei surrealisti, specialmente francesi e spagnoli:

”A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove piange la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate…

(F. G. Lorca da Piccolo valzer viennese, L. Cohen ne ha fatto una versione inglese in musica)

Foto in Subway 50 years

Entrammo. Un’unica enorme sala,/ silenziosa e vuota

Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

————————————————————————
mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
————————————————
dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

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Yang Lian   POESIE SCELTE traduzioni di Claudia Pozzana e Alessandro Russo con un Commento di Giorgio Linguaglossa

[nella lingua dei corvi ogni mattino muore un’altra volta]

Yang Lian è nato in Svizzera nel 1955, ma è cresciuto a Pechino dove ha fondato la scuola di poesia contemporanea cinese ‘Misty’.
La poesia di Lian è caratterizzata da lunghi poemi che evidenziano un profondo legame con la poesia classica cinese.
Yang Lian è un poeta in esilio (vive a Londra dal 1997). Otto anni dopo il massacro di piazza Tienanmen ha lasciato il suo paese d’origine.

Ha pubblicato dieci raccolte di poesie, due raccolte di prosa e una raccolta di saggi in cinese. Yang Lian è stato insignito del Premio Internazionale di Poesia Flaiano (Italia, 1999) e il suo “Dove si ferma il mare: nuove poesie” è stato Poetry Books Society Recommended Translation (UK, 1999).

Tra le sue opere più famose tradotte in inglese: Dove si ferma il mare, (Bloodaxe Books, UK, 1999); Yi, (Green Integer, USA, 2002); Concentric Circles, (Bloodaxe Books, UK, 2005) e Riding Pisces: Poems From Five Collections (Shearsman Books, UK, 2008);  Lee Valley Poems – Un progetto di poesie e traduzioni (Bloodaxe Books, UK, 2009). Yang Lian e il poeta scozzese W.N. Herbert sono co-editori di una nuovissima Antologia della Poesia Contemporanea Cinese (1978 – 2008) in inglese,  pubblicata da Bloodaxe Books nel 2011. In Italia è uscito Dove si ferma il mare (Scheiwiller, Milano 2004); alcune sue poesie si trovano in Nuovi poeti cinesi, Einaudi, 2012.

[la luce cavalca la più fragile delle pietre infiltrata sotto terra]

Yang Lian è uno dei poeti più straordinari che abbia letto. Ha una sensibilità occidentale, modernista, unita a una cinese, antica, quasi sciamanica. É capace di entusiasmarti e terrorizzarti: è una specie di ibrido tra MacDiarmid e Rilke che impugna una spada da Samurai!
– W.N. Herbert, Scotsman

Il suo lavoro è un ponte tra la tradizione cinese e il modernismo occidentale. La portata della sua immaginazione è sorprendente.  Yang Lian è uno dei più grandi poeti della nostra epoca.
– Klaus Rifberg, Edinburgh Review

Non mi sorprenderebbe se un giorno vincesse il Nobel. Il suo è uno stile di straordinaria grandezza e ambizione.
– David Morley, Stand

*

«Ancorato alle millenarie radici della sua cultura, la reinterpreta reinventandola, aprendola alle tensioni della contemporaneità, toccando nei suoi versi tutti i grandi interrogativi del nostro esistere e ricordandoci che la poesia è la nostra unica lingua madre. Vive e poeta da esiliato non solo dalla sua terra, spingendo al confine estremo il suo vedere. Un esule assoluto e distante cantore, profondo al di là del nostro spazio-tempo».

Così la giuria del Premio Internazionale Nonino 2012 ha raccontato Yang Lian, poeta cinese esiliato dopo il massacro di Tienanmen, annunciandone la vittoria.
Insieme a Yang Lian, la giuria – presieduta da V.S. Naipaul, premio Nobel per la letteratura 2001, e composta da Adonis, John Banville, Ulderico Bernardi, Peter Brook, Luca Cendali, Antonio R. Damasio, Emmanuel Le Roy Ladurie, James Lovelock, Claudio Magris, Norman Manea, Morando Morandini, Edgar Morin ed Ermanno Olmi – ha premiato Hans Küng e Michael Burleigh.

Il Premio Nonino si conferma come una delle manifestazioni culturali più importanti nel nostro paese, capace di individuare nel panorama internazionale figure di rispettabile spessore artistico e intellettuale (nel 2004, ad esempio, un altro poeta – allora quasi inedito in Italia – si era aggiudicato il premio: il Nobel 2011 a Tomas Tranströmer).

Giorgio Linguaglossa Franco Di Carlo 5 ot 2017

da dx, Giorgio Linguaglossa e Franco Di Carlo, Roma, ottobre 2017

Commento di Giorgio Linguaglossa

Possiamo dire che con quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il fittizio, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo “dominio” (per dirla con un termine nuovo).
Nei nuovi romanzi e nelle nuove poesie, finzione e realtà non costituiscono più un’opposizione ontologica, il reale stesso si mostra come il fittizio o fantastico potenziale, il presunto originale si presenta come un mero poscritto ad un testo passato, una sorta di palinsesto nel quale appaiono le tracce di ciò che il Novecento aveva già pensato e ci aveva consegnato. La poesia di Eliot e Brecht rappresenta i due corni della distanza che separa due tipi di poesia rendendoli  inconciliabili. Ancora una volta il grande precursore di questo modo di intendere la letteratura è stato Borges con Finzioni (1941) e con Pierre Menard autore del Chisciotte (scritto già nel 1939); l’ambizione di Menard sarebbe stata quella di riscrivere il Chisciotte adeguato al proprio tempo. Ebbene, l’opera di Borges ci pone il problema seguente: che non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo che interviene a modificarla dall’interno. Ecco il punto: nel mondo tecnologico odierno è il fattore Tempo ad essere sovversivo. A mio parere, della nostra epoca sopravvivranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo, ovvero, che hanno riflettuto sulla funzione deformante del tempo e sulla funzione spaesante dello spazio all’interno della scrittura lineare progressiva, quella che va dall’inizio alla fine seguendo una segmento direzionale unilineare.

Nella scrittura di Yang Lian si avverte la digressione dei fattori «tempo» e «spazio». Il verso assume un conglomerato, come dire, di antico e di moderno; nella sua poesia le immagini sanno di antico e di moderno, sono spezzate e riannodate; si percepisce l’eredità della migliore cultura poetica europea con qualcosa che a noi europei appare come «esotico» (vedi l’abbondare di corvi, di coccodrilli, e la presenza di immagini cinesi: «pozzo di giada», «denti di squalo», etc.). Una miscela di elementi che conferiscono a questa poesia uno spessore immaginifico particolarmente ricco e originale.

Yang Lian utilizza la metafora come chiave privilegiata di accesso alla verità. Detto così sembra una boutade, ma forse per un poeta di origine cinese come lui ciò è normale, la forza di questa poesia è nella sua sapiente capacità di creare illusione e illusorietà; qui si parla di «coccodrilli» che hanno «palpebre come foderi di coltelli», di una «casa come ombra», «su uno strato di aghi di pino oscilla la luna», «l’ombra del pino è immersa nell’acqua». Metafore, catacresi, voli pindarici, epifanie ultronee. Ecco, questo è il terreno di coltura della «poesia nuova» di Yang Lian, una poesia molto diversa da quella in auge in Italia. Il poeta di origine cinese ci rivela una «nuova Patria» delle parole, una nuova «atmosfera».

Momenti di forza della poesia di Yang Lian sono: la catena sinonimica e la metafora, che, letteralmente significa “portare fuori”, fuori dal linguaggio… non c’è un significato univoco al quale la metafora corrisponde ma molti significati che si intrecciano, questo è il bello della poesia di alto valore. E nessun significato può esaurire il significabile, perché il significabile è molto di più di ogni singolo significato.

yang-liang

Il coccodrillo ti morde con lo sguardo/ palpebre come foderi di coltelli/ nascondono denti insonni

Poesie di Yang Lian

Il coccodrillo ti morde con lo sguardo
palpebre come foderi di coltelli
nascondono denti insonni

sentieri nella carne
premono verso lo stagno
vieni divorato dalla tua stessa occhiata

(da Maschere e Coccodrilli) Continua a leggere

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La nuova ontologia estetica – Poesie di Anna Ventura, Antonio Sagredo, Gino Rago, Francesca Dono, Lucio Mayoor Tosi, Edith Dzieduszycka, Mariella Colonna, Tomas Tranströmer, Carlo Livia con Commenti di Giorgio Linguaglossa e Gino Rago – Da dove viene l’inconscio?

Giorgio Linguaglossa Aleph, Roma, 2017 Sabino Caronia

da sx Giorgio Linguaglossa, Costantina Giancaspero. Franco Di Carlo, Sabino Caronia, 2017

Giorgio Linguaglossa

Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici.

L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia del discorso poetico. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua e sussiegosa che rifugge da ogni petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.

Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza del senso comune, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che è destinato a rimanere sul piano della espressione comune.
Dovremmo chiederci perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia». Il bisogno di una «nuova ontologia» del poetico è oggi diventato una necessità.

Strilli Tranströmer2Strilli Transtromer le posate d'argentoTomas Tranströmer

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

(da Tomas Tranströmer 17 Poesie, 1954, prima poesia che ha titolo: Preludium)

Anna Ventura
10 ottobre 2017 alle 17.29

La vergine di Norimberga*

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

* notizie storiche sulla Vergine di Norimberga

La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.

La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.

Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).

Strilli Espmark è stata un'altra per otto anniStrilli RagoCommento di Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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Tomas Tranströmer (1931-2015) – Poesie da La lugubre gondola (1996) – Brani dalla Introduzione di Gianna Chiesa Isnardi a Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003

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gunnar-smoliansky-1976

Tomas Tranströmer, premio Nobel per la Letteratura nel 2011, è morto venerdì 27 marzo 2015 a 82 anni. Quando vinse il Premio dell’Accademia era stato colpito da undici anni  da un ictus che gli aveva inibito la capacità di parlare. 
Psicologo di professione, era il massimo esponente della generazione di intellettuali che si è affermata dopo la Seconda Guerra mondiale. Convinzione di Tranströmer era che l’esame poetico della natura fornisce intuizioni sull’identità umana e sulla sua dimensione spirituale. La sua poesia sconfina spesso in territori metafisici. “L’esistenza di un essere umano non finisce dove terminano le sue dita”, ha scritto un critico svedese della sua poesia, definendo i suoi lavori “preghiere secolari”.
La sua notorietà nel mondo anglofono derivava dalla sua amicizia con il poeta americano Robert Bly, che ha tradotto gran parte del suo lavoro dallo svedese all’inglese, una delle 50 lingue in cui le sue poesie sono apparse.

Notizie sull’autore

Tomas Tranströmer, unanimemente ritenuto il maggiore poeta svedese contemporaneo, più volte candidato al Premio Nobel, è nato a Stoccolma nel 1931. Di professione psicologo, dopo aver lavorato alcuni anni all’Università, nonostante il successo della sua poesia, ha continuato a svolgere attività terapeutiche in centri di riabilitazione di varie città svedesi. Pianista di notevole talento, ha spesso composto i suoi testi ispirandosi a ritmi e forme musicali. Benché una grave malattia gli abbia provocato una dolorosa paralisi, non ha smesso di scrivere, come testimonia la sua ultima opera Sorgegondolen (La gondola a lutto), del 1996, e il volume di traduzioni di poeti europei e americani Tolkingar (Interpretazioni), del 1999. Ha pubblicato sinora dodici brevi raccolte: 17 Dikter (17 Poesie), 1954; Hemligheter på vägen (Segreti sulla vita), 1958; Den halvfärdiga himlen (Il cielo incompiuto), 1962; Klanger och spår (Echi e tracce), 1966; Mörkerseende (Colui che vede nel buio), 1970; Ur stigar (Fuori dai sentieri), 1973; Östersjöar (Mari Baltici), 1974;Sanningsbarriären (La barriera della verità), 1978; Det vilda torget (La piazza selvaggia), 1983; För levande och döda (Per vivi e morti), 1989; Minnena ser mig (I ricordi mi vedono), 1989; Sorgegondolen (La gondola a lutto), 1996.

tomas transtromer

Leggere la sua poesia non è un percorso lineare: è come entrare in una labirintica chiocciola. La concentrazione dei concetti in immagini conduce alla contrazione degli elementi connettivi, dei passaggi logico-sintattici, alla prevalenza dei sintagmi nominali. La capacità di realizzare densità poetica non è in Tranströmer tanto imputabile alla parola, al singolo lessema semanticamente pregnante, ma alla rete capillare di nessi che vengono a stabilirsi tra le parole. Tale sottile interazione, non facile a cogliersi immediatamente, dà spazio alla molteplicità interpretativa, alla pluralità del senso, lasciando spesso misteriosi i referenti delle metafore. Questa “oscurità”, comune a molta poesia contemporanea, in Tranströmer nasce dalla volontà di fuggire ai vuoti schemi della comunicazione massificata, di contrapporsi ai linguaggi pubblicitari, rifuggendo dall’univocità e proclamando la “polivocità” della parola.

(dalla prefazione di Maria Cristina Lombardi in Poesia dal silenzio, Crocetti editore, 2011)

Tomas Tranströmer
da La lugubre gondola (1996)

I
Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida
quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner.
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.
Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata.

II
Una finestra del palazzo si spalanca e si fanno smorfie alla corrente improvvisa.
Fuori sull’acqua compare la gondola dell’immondizia spinta da due banditi con un solo remo.2)
Liszt ha buttato giù alcuni accordi, così pesanti3) che dovrebbero essere mandati
all’istituto mineralogico di Padova per l’analisi.
Meteoriti!
Troppo pesanti per trovar quiete, possono solo sprofondare sempre di più
dentro il futuro giù
fino agli anni delle camicie brune.4)
La gondola è gravata dal peso delle pietre del futuro rannicchiate.

Sguardi5) sul 1990

III
25 marzo. Inquietudine per la Lituania.6)
Ho sognato che visitavo un grande ospedale.
Niente di personale. Tutti erano pazienti.
Nello stesso sogno una bambina appena nata
che parlava con espressioni compiute.

IV
Accanto al genero che è uomo del suo tempo Liszt è uno sciupato grandseigneur.
È un travestimento.
L’abisso che prova e respinge tante maschere ha scelto proprio quella per lui –
l’abisso che vuol far visita agli uomini senza mostrare il suo volto.

V
L’abate Liszt è abituato a portarsi da solo la valigia nel nevischio e sotto il sole
e quando un giorno morirà nessuno lo aspetterà alla stazione.
Una tiepida brezza d’un generoso cognac lo rapisce nel bel mezzo di
un compito.
Ha sempre dei compiti.
Duemila lettere all’anno!
Lo scolaro che scrive cento volte la parola sbagliata prima di poter andare a casa.
La gondola è gravata dal peso della vita, è semplice e nera.

VI
Di nuovo nel 1990
Ho sognato che avevo guidato per duecento chilometri inutilmente.
Poi tutto si fece grande. Passeri grossi come galline
cantavano in maniera assordante.
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.

(traduzione di Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003)

Onto Transtro¦êmer

Tomas Tranströmer, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Altre poesie

SULLA STORIA (PARTE V)

Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato
giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti.
Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia,
sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo.
Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.

MOTIVO MEDIEVALE

Sotto le nostre espressioni stupefatte
c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre
il sole lento ruota nel cielo.
La partita a scacchi prosegue.
Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
Il sole ruota lento nel cielo.
La partita a scacchi si interrompe sul pari.
Nel silenzio di un arcobaleno.

(traduzione di Enrico Tiozzo)

foto Gunnar Smoliansky - Sodermalm, 1956

gunnar-smoliansky-1956

dalla Introduzione di Gianna Chiesa Isnardi a Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003

«La lingua marcia al passo dei carnefici. / Perciò dobbiamo cercarci una lingua nuova» (T.T.)

«Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra le parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, culture e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha l’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati, concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una controtendenza nei confronti di questo processo. le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare». (T.T.)

Il testo poetico si pone come luogo d’incontro in cui si congiungono sul piano dell’accostamento orizzontale e su quello dell’intersezione verticale da un lato le immagini e dall’altro tutto ciò che esse simboleggiano o evocano.

[…] Estrema semplicità significa in Tranströmer estrema concisione. La prima impressione che scaturisce dalla lettura dei testi di questo autore è infatti quella di un perfetto nitore delle figure poetiche proposte cui fanno immediato contrappunto le riflessioni che ne scaturiscono. Pressocché totale è l’assenza di elementi non direttamente aderenti all’immagine e alla sensazione evocata e la concentrazione – che egli stesso ha definito come essenza del parlare poetico . è massima. Precisione nelle scelte lessicali e strutturali, prevalenza delle frasi affermative e della struttura lineare, relativa povertà verbale, laconicità, ricorso in misura minima agli elementi connettivi del discorso, frasi talora apparentemente frammentarie, costruzioni ellittiche, uso misurato della ripetizione con l’unico scopo di ricondurre l’attenzione del lettore al punto focale della riflessione poetica, attrazione reciproca fra elementi contrastanti, ossimori, associazione (seppure non immediatamente percepibile) di immagini e conseguentemente di idee, forza espressiva della parola portata all’estremo: un’arte della concisione che risale, almeno in parte, a grandi modelli del ‘900 come, soprattutto, Ezra Pound (del quale viene spesso ricordata l’espressione: “Great literature is simply language charged with meaning to the outmost possible degree“), T.S. Eliot o – per restare nell’ambito della letteratura svedese – il grande Harry Martinson.

Volendo scegliere, fra i tanti possibili, un esempio ineccepibile di questo atteggiamento stilistico pare opportuno trarlo qui innanzi tutto da una “poesia in prosa”, un genere di componimento che Tomas Tranströmer ha talora privilegiato, ogni qual volta tale tipo di espressione appaia immediatamente confacente al ritmo assunto dallo spunto della riflessione poetica. Per quanto vicino ai modi della poesia questo genere resta infatti, per il suo intrinseco e mai rescindibile legame con la prosa, più facilmente soggetto a tentazioni di sovrabbondanza o anche, più semplicemente, di superfluità verbale: l’estrema capacità di concentrazione poetica con cui Tranströmer sa costruire anche questi testi testimonierà dunque qui ampiamente le proprie qualità straordinarie. Si legga:

Nella foresta c’è una radura inaspettata che può essere trovata solo da chi si sia perduto. / La radura è racchiusa da una foresta soffocata in se stessa

In queste righe introduttive va rilevata innanzi tutto la linearità dell’espressione verbale affidata alla semplicità della costruzione della frase principale cui è connessa in modo immediato la secondaria relativa. Il procedere perfettamente coerente della descrizione si limita a fornire elementi essenziali quali un dove e un che cosa che è, daltronde, da identificare con il dove medesimo: la radura che sta nel cuore della foresta è  al contempo il cuore della foresta. L’aggettivo che definisce la radura «inaspettata», è richiamato nella relativa dal riferimento a «chi si sia perduto»: solo chi abbia smarrito la direzione, cioè chi sia uscito dalla prevedibilità delle strade consuete (dal linguaggio convenzionale?) potrà infatti imbattersi in un incontro inatteso. Una sola riga è dunque sufficiente al poeta per definire un luogo concentrandovi la sensazione di distacco dalla realtà ordinaria e, insieme, lo stato d’animo che la rende possibile e l’accompagna. Che si sia di fronte a una situazione di improvviso isolamento è del resto chiaro dalla scelta dell’immagine della «radura»: luogo perfettamente definibile nei suoi contorni proprio perché circondato da una foresta «soffocata in se stessa» a formare una barriera nella quale è delimitata una netta linea di separazione dal resto del mondo.

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La radura diviene così il centro sul quale far convergere ogni attenzione e al quale riferire ogni riflessione poetica. La tecnica di far convergere l’attenzione su un elemento semplice e definito nella sola essenza distraendo al contempo da tutto ciò che vi sta attorno, è un procedimento che consente di focalizzare le energie su un unico punto nel quale tutto lo spazio della mente, sensitivo e intellettivo (sensi, intuizione, presa di posizione, memoria), viene senza distinzione assorbito, confluendovi in perfetta coesione… “Concentrare” quindi nel senso proprio di “attrarre verso un centro”: un risultato raggiunto grazie alla perfetta sovrapposizione di elementi lessicali (affidati a un impianto sintattico il più semplice possibile) che si mostrano capaci di catturare le sensazioni e i pensieri del lettore, che solo in quel centro si sentono perfettamente espressi. Un risultato che costituisce tuttavia solo il punto di partenza per l’indagine poetica, perché… in quella «radura», luogo del corpo, della mente e del sentimento troveranno spazio nuove ricerche. («nello spazio aperto l’erba è incredibilmente vera e viva»), si leggerà poco più avanti nel testo.

Se tale è la regola della concentrazione in una  “poesia in prosa” non sarà difficile comprendere quanto più la disciplina formale sarà rigorosa nei versi veri e propri, là dove la precisione delle immagini, la capacità di comprimere il testo, la perspicacia delle scelte lessicali, la precisa organizzazione dell’impianto poetico costituiscono una caratteristica determinante di questo autore fin dalla raccolta del debutto […] Va qui sottolineato tuttavia che (forse proprio per rispondere a questo desiderio di concisione) negli ultimi tempi il poeta è venuto sempre più privilegiando le composizioni brevi o molto brevi – in particolare sul modello orientale, cinese e soprattutto su quello giapponese del haiku, per il quale egli mostra forte inclinazione. La poesia haiku rappresenta… un tipo di espressione che intende corrispondere a ciò che nella filosofia di vita giapponese viene espresso con il termine satori, che significa «comprensione intuitiva», «illuminazione»: una conoscenza cioè che oltrepassando ogni confine logico superi lo spazio e il tempo. Lo scopo di un tale componimento è, nella sostanza, quello di rendere poeticamente tale concetto facendo rivivere tale esperienza. Un haiku, si precisa opportunamente, non è un aforisma: piuttosto può essere definito «arte dell’illusione». Non ha infatti tono sentenzioso, né percettivo, né di riflessione o commento sulla realtà, bensì piuttosto si propone di fornire gli strumenti linguistico-formali tramite i quali una situazione oggettiva venga trasformata in un processo mentale di conoscenza… Ha dunque bisogno di una lingua che consenta di tradurre elementi concreti (talvolta tratti da una realtà persino banale) in esperienza intuitiva e dunque immediata:

I pensieri sono fermi
come le tessere di un mosaico
nel cortile del palazzo

Una tecnica che potrebbe essere definita della delineazione, con ciò intendendo che essi ci appaiono, per così dire, ‘tradotti in linee’ che disegnano le traiettorie o intersecano le superfici in una nitida ed essenziale geometria che ne fa la cornice d’una sorta di ‘specchio magico delle fiabe’, finestra sull’ignoto…

… finché è tempo di uscire
e vagare a lungo nella foresta.
Seguire le orme del tasso.
Si fa scuro, è difficile vedere.
Là, nel muschio, ci sono delle pietre.
Una delle pietre è preziosa:
Può trasformare tutto
può far brillare l’oscurità.

Alla ricerca di una lingua poetica

Interrotto nel mezzo di un discorso
che il silenzio porta avanti
ma con forza ancora più grande.

Si torna così al problema dal quale si è partiti: come dar voce agli spunti poetici che si affacciano alla coscienza senza che essi vengano in qualche modo ‘corrotti’ nell’atto di trasporli in parole? Per un poeta come Tomas Tranströmer, il cui percorso si muove in direzione di una concentrazione sempre più marcata, l’atteggiamento nei confronti della lingua pare gradatamente muovere verso un crescente scetticismo.

In un testo che risale al 1980, il poeta, dichiarata la propria stanchezza nei confronti di tutti coloro che si presentano con parole, rivela di aver cercato rifugio nella natura:

Stanco di tutti quelli che si presentano con parole, parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!

Sulla neve, bianca come un foglio immacolato, le orme degli animali selvatici: «Lingua, ma niente parole».
Immediatezza e semplicità; il bisogno di lasciare lo spazio al linguaggio della natura, che ha… come interlocutori privilegiati i bambini (cioè coloro che ancora posseggono il dono di una intuitività incorrotta.

Una natura morta fatta di tronchi sulla neve mi rese pensieroso.
Domandai loro:
“Mi accompagnate fino alla mia infanzia?” Risposero “sì”.

Dentro ai cespugli si sentiva un mormorio di parole in una lingua nuova:
le vocali erano il cielo azzurro e le consonanti i rami
scuri e parlavano così pacatamente sulla neve.

Una lingua nuova, in realtà, antichissima. […] la considerazione della minaccia, sempre presente, che la lingua possa essere (come in effetti è) utilizzata come strumento di potere, come prigione nella quale rinchiudere l’uomo in celle costruite con parole che appartengono a convenzioni da taluno imposte e da altri subite. davanti a tutto questo solo la letteratura e in particolare la poesia può forse offrire una via d’uscita.

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gunnar-smoliansky-1970

Note

1] In svedese Kasper è una maschera del teatro delle marionette, una sorta di Arlecchino.
2] Vi è qui un gioco di parole, intraducibile, tra enarade banditer “banditi a un sol remo” (con evidente allusione al modo in cui i gondolieri spingono la loro imbarcazione) e l’espressione svedese enarmad bandit, letteralmente “bandito con un solo braccio”! con cui si fa riferimento a una slot machine. Ciò, secondo S. Bergsten sottolinea l’aspetto di buffonata da fiera che assumerà il culto di Wagner.
3] L’allusione è probabilmente al fatto che sullo spartito Liszt ha inseriro l’indicazione «pesante».
4] Chiara allusione al fatto dall’ideologia nazista della figura e dell’opera di Wagner.
5] Letteralmente, in svedese glugg (plurale gluggar) indica una “apertura” o una “piccola finestra”.
6] Non si dimentichi che dal punto di vista storico i Paesi baltici hanno da sempre rivestito una grande importanza per gli Svedesi. Si consideri inoltre che Tomas Tranströmer, oltre ad avere rapporti personali di amicizia con intellettuali di quell’area, ha dedicato alla distesa del Mar Baltico (quello che al “tempo della grande potenza” [stormakstid], 1630-1721, poteva essere considerato il mare nostrum svedese) l’opera Österjöar (“Mari baltici”, 1974), nel cui titolo l’uso di un plurale apparentemente improbabile vuole invece sottolineare la molteplicità degli elementi naturali e culturali che la caratterizzano.

 

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Laboratorio pubblico di poesia: commenti e poesie al seguito di Ewa Lipska tra Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Daniela Crasnaru, Francesca Dono, Fritz Hertz, Antonio Sagredo, Gino Rago, Nelly Sachs, Chiara Catapano, Lucio Mayoor Tosi, – verso una nuova ontologia estetica

Giorgio Linguaglossa

22 settembre 2017 alle 9:08

E adesso, una mia poesia.
(alla maniera di Ewa Lipska)

«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…
Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più
possibile trovarsi, dove non c’è neanche bisogno
di cercare le scaturigini di alcunché.
Le parole, egregio Signor Linguaglossa,
in questo luogo sono del tutto fuori posto.
Mi perdoni questa ovvietà,
ma lei, mi dicono, è un poeta!
Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole

nella trappola della geometria euclidea.
Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi.
Tutto ciò che ci ha amato,
cari Rago e Linguaglossa, cari Gabriele e Tosi,
e quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…».

Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac. Arietta di Offenbach.  Sorrise. La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano. «Professione?», «Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose. Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto. Cravatta blu a pallini gialli. Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda. «Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi… No, no, non parlo di voi, caro amico… parlo d’altro…».

«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.

Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi

nel suo stesso negarsi.

Che vuole, un gioco di prestigio!

Sì, mi attendo da Voi una risposta.

Una sola, però,

intorno alla de-coincisione dell’essere dal nulla.

E sì…

anche intorno all’Assoluto, che vuole!.
Per questo Vi dò il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà
al numero civico 777 piano terzo scala D,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

 

Mario M. Gabriele

22 settembre 2017 alle 14:16

Signor K, e Signor Cogito, Sig.Gab e Sig.na Evelyn, Sig.ra Schubert, Sig Tosi e Sig. Rago, Sig. Steven e tanti altri Signori e Commodori,ma dove vi siete incontrati? Al Palazzetto dello Sport Linguistico? Abbiamo tutti un indirizzo ed è: il “Quartier Generale dell’ALDILA’, al numero civico 777, vicino alla abitazione di Dio. Ciò che ci ha amato se ne è andato dalla ciminiera Al Centro Impiego cercano “Spazzini”.

 Strilli Espmark Le labbra dell'insegnanteStrilli Busacca Vedo la vampa

Carlo Livia

22 settembre 2017 alle 12:37

La decomposizione delle strutture morfosintattiche, come strumento d’indagine di nuove relazioni tra linguaggio e ontologia, come nell’opera di Zanzotto o Celan, può essere mutata in una decontestualizzazione semantica di sintagmi e frammenti diegetici che rimangono strutturalmente integri, ma assumono diversa funzione noetica, nella trasgressione dell’ordine logico-relazionale, con il risultato di mettere in luce l’irrazionalità latente nella logica convenzionale, come avviene in Lipska e Linguaglossa; è la stessa differenza, più o meno, che sussiste fra la pittura di Braque e quella di Magritte. Ecco un testo in cui ho tentato un’integrazione delle due procedure espressive.

Altra ferita del silenzio
Il corpo allucinante risplende
e scompare nella risata del vento
coi suoi frutti segreti mangiati vivi
L’amore sprofonda nello specchio
pugnalato dalla memoria
Dietro i pozzi degli antenati
vecchie femmine lunatiche sorvegliano l’entrata
Trascino il mio letto per campi lamentosi
la madre s’allontana su fondali d’erba
E’ finita l’attesa
quella lotta d’alberi e belve
dietro la casa di cenere
Ma non riesco a dormire
sotto lo sguardo di questi spettri

Donatella Costantina Giancaspero

22 settembre 2017 alle 20:13

gentile Carlo Livia,

seguo sempre con attenzione e stima i suoi interventi e le sue poesie. Complimenti sia per il commento che per la poesia, molto interessante e coinvolgente… si vede che anche lei sta cercando una poesia diversa da quella che si legge in Italia… inserisca pure le sue poesie sono una lettrice attenta e priva di pregiudizi. Questo è un Laboratorio all’aperto, fatto per poeti senza tacchi a spillo. Ho un appunto da farle. La prima strofa io la scriverei così, togliendo due aggettivi. Secondo me la strofa corre meglio:

“Il corpo risplende e scompare nella risata del vento
coi suoi frutti mangiati vivi…”

a me sembra più scorrevole…

saluti.

Strilli GriecoCarlo Livia

22 settembre 2017 alle 20:59

Grazie, gentilissima, faccio quello che posso, i tacchi a spillo non li ho mai amati, nemmeno come simbolo, malgrado sia di pochi centimetri più alto di Woody Allen. Un caro saluto. Continua a leggere

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Ewa Lipska da L’occhio incrinato del tempo titolo originale: Droga pani Schubert (Cara signora Schubert, 2012) a cura di Marina Ciccarini (Armando, 2014) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

foto selfie 1

Cara signora Schubert, mi chiedo dove andremo ad abitare Dopo. Dopo

Ewa Lipska, poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto diversi importanti premi per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte in molte lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io, 2004), Pogłos (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012).

Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume Wiersze (Poesie), Ewa Lipska appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937). La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante. La sua poesia si concentra sui sentimenti della sofferenza e della paura, sulla fragilità dell’esistenza condannata a morire. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive:

«La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente».

(Paolo Statuti)

foto volto Malika Favre

grafica Malika Favre [Il nostro amore l’ho lasciato al Passato
che, come sempre, rimettiamo al Futuro.
L’ho sottratto al sonno. Sono spuntate le rondini]

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 

 Il titolo originale del libro è Cara signora Schubert, chissà perché poi cambiato, dall’editore italiano,  con quell’orribile e banale L’occhio incrinato del tempo. Forse all’editore sembrava troppo «semplice» quel titolo. Anche qui, come vedete, è in azione il filtro del conformismo e della omologazione verso il basso, addirittura i titoli dei libri vengono cambiati in stile «ultroneo». La forma prescelta da Ewa Lipska è la più semplice in assoluto, una serie di lettere indirizzate ad una signora dal nome corrivo e convenzionale: Schubert. E che si dice in queste lettere? Niente di trascendentale, si parla di un reale poroso, corrivo, sciatto, convenzionale, in uno «stile [che] non vale niente», scritte di «pugno degli Dei», ovvero, degli uomini del nostro tempo corrivo e banale. E la poesia? La poesia di Ewa Lipska non può che sortire fuori dalla metratura di questo «mondo». Chiede la poetessa: «dove andremo ad abitare Dopo»?. Domanda corriva che richiede, ovviamente, una poesia corriva.

Ecco, mi piace questa poesia fatta di stracci, di corrivo, di rottami linguistici, scritta in uno stile minimalista, terra terra, volgare come è volgare il nostro «mondo», dove ci sono tante cose: «Una cena con Nerone / all’Hotel Hassler di Roma»; ci sono pezzi di cronaca: «l’Unione Europea? Il XXI secolo»;  ci sono incisi mozzafiato: «Tutto ciò che ci ha amato, cara / signora Schubert, non ha più via d’uscita»;  «cara signora Schubert le porgo i miei saluti dal Labirinto»; dove «Greta Garbo è sempre più simile a Socrate». E, infine, l’ironico augurio: «siccome credo nella vita d’oltretomba, ci incontreremo senz’altro nel Grande Collisore di Adroni».

 Qual è la differenza tra la poesia di Ewa Lipska e quella che si confeziona in Italia oggi? (in particolare mi riferisco alla antologia di poesia femminile pubblicata da Einaudi a cura di Giovanna Rosadini nel 2014). La poesia maggioritaria che si fa oggi in Italia consta di commenti, una fenomenologia para giornalistica che va verso la narrazione indiscriminata delle questioni dell’io e delle sue adiacenze, una fenomenologia del banale, priva di direzionalità laterali e trasversali, priva di verticalità, di diagonalità, di salti posizionali, temporali e spaziali. Direi che questa è un modo di scrittura che privilegia la banalità. È la negazione dello stile, con l’io posticcio e artefatto governatore del piccolo mondo dell’io e delle sue adiacenze. Ewa Lipska invece va dritta dentro i problemi di oggi, la poetessa polacca lascia cadere le domande, una dopo l’altra, come una collana di perle nere, con apparente negligenza: «Cara signora Schubert, che fare dell’eccesso di memoria?»; «Come si entra nella storia, cara signora Schubert?». Ma si tratta di domande fondamentali, quelle di cui dovrebbe occuparsi la poesia di serie “A”.

foto Malika Favre ritratto

grafica Malika Favre [il nostro mondo è come una lettera scritta di proprio pugno dagli Dei, ma lo stile non vale niente…]

Uno spettro si aggira per l’Europa: una fame di riconoscibilità,

una sete di omologismo. Il problema cui si trova davanti la poesia di oggi è quello di una forma-poesia riconoscibile. Gli scrittori e soprattutto i «poeti» mirano a creare qualcosa di immediatamente riconoscibile e identificabile. Il problema di una forma-poesia riconoscibile, è sempre quello: se l’«io» sta in un luogo, immobile, anche l’«oggetto» sta in un altro luogo, immobile anch’esso.

Il discorso poetico diventa un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico assume un andamento lineare. Ma, se poniamo che l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non è più l’oggetto di un attimo prima; di più, se anche l’io si sposta di un metro, vedrà un oggetto ancora differente, anche posto che l’oggetto se ne fosse stato fermo nel suo luogo tranquillamente per un bel quarto d’ora. E così, il discorso lirico (o post-lirico) si può sviluppare tra due postazioni in stazione immobile. Altra cosa è invece se le due posizioni, ovvero, i due attanti, cambiano il loro luogo nello spazio; ne consegue, a livello sintattico, un moto di ripartenza, di stacco e di arresto e, di nuovo, di stacco. Avremmo una poesia che non si muove più secondo un modello lineare ma secondo un modello non-lineare. Voglio dire che già Mallarmé aveva distrutto il modello lineare dimostrando che esso era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, bisognava derubricarla e passare ad uno sviluppo non più lineare ma circolare della poesia.

Gran parte della poesia contemporanea che si fa in Europa parte da un assunto acritico: dalla stazione immobile dell’io, con l’io al «centro del mondo», attorno al quale ruota tutta la fenomenologia degli oggetti; in modo consequenziale i giri sintattici, anche se di illibato nitore e rigore metrico, si dispongono in modo lineare, come tipico di una tradizione recente: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte.

Questo tipo di impostazione, intendo quello della stazione immobile dell’io e della distanza fissa tra l’io e gli oggetti, conduce, inevitabilmente, al pendio elegiaco. L’elegia ti costringe a cantare la «distanza». L’elegia è tipicamente consolatoria. In definitiva, il dialogo tra l’io ed il suo oggetto si rivela essere un dialogo posizionale, posizionato, «convenzionale». Infine, chiediamoci: che genere di poesia scrivere in un’epoca afflitta, come scrive la Lipska, da «eccesso di memoria»? E non è questa la domanda cruciale che si pongono anche i poeti della «nuova ontologia estetica»?

 

ewa-lipska

E. Lipska [Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,/ la guerra, la morte.]

da Droga pani Schubert (Cara signora Schubert, 2012)

 

Tra

Cara signora Schubert, mi chiedo dove andremo ad abitare Dopo. Dopo, cioè là dove prima c’era la fabbrica che produceva la vita d’oltretomba. Sarà tra ciò che non abbiamo fatto e ciò che non faremo più.

Il nostro mondo

Cara signora Schubert, il nostro mondo è come una lettera scritta di proprio pugno dagli Dei, ma lo stile non vale niente…

UE

Cara signora Schubert, ricorda ancora
l’Unione Europea? Il XXI secolo, Quanti anni sono trascorsi…
ricorda il grano ecologico? la depressione del lusso?
e il nostro letto che sfrecciava sull’Autostrada del Sole? Era la [nostra]
giovinezza, cara signora Schubert, e per quanto gli orologi
persistano nella propria opinione, tengo questo tempo
ben stretto nel pugno. Continua a leggere

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Mariella Colonna, POESIE SCELTE – Il tempo della rosa, Evelyn e il signor K si amano, Quando Evelyn fuggì, Gabriel da ieri è a Parigi, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Gino Rago

 

foto volto con mano

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E. Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros Dove Dio ci nasconde.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli Due cuori per una Regina / una storia nella Storia, opera scritta insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato Giallo colore dell’anima è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia Ero una crepa nel muro; nel 2013 ha pubblicato L’innocenza del mare, Europa edizioni; nel 2014; Paradiso vuol dire giardino, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito, pubblica Mary Mary, La vita in una favola.

foto cry me a river 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La Nuova poesia ontologica di Mariella Colonna

Nella poesia di Mariella Colonna si verifica lo spostamento del baricentro narrativo, dal tempo cronologico, (fondato sul presente, sull’«hic et nunc», assunto come unica realtà), ai tempi simultanei e compossibili. Si tratta di una scelta non da poco, per un duplice motivo. In primo luogo, per l’intrinseca labilità che sembra avere questa dimensione compossibile del presente, dove coesistono immagini e locuzioni che usiamo tutti i giorni quando parliamo del presente, dicendo usualmente che esso “passa”, “scorre”, “fugge” o, addirittura, “vola”; in primo luogo, il presente nella poesia di Mariella Colonna in realtà non esiste se non come compossibilità; in secondo luogo,  per la difficoltà che il pensiero filosofico e scientifico ha di confrontarsi con l’esperienza fenomenologica dell’immediato e con l’affermazione della «presenza».

Giorgio Linguaglossa
25 agosto 2017 alle 15.03

Cara Mariella,
leggevo questi tuoi versi:

Evelyn, personaggio di Mario Gabriele
adesso entra nella mia poesia
“perché” dice “non è opportuno
che una signorina resti sola nella poesia di un uomo…

E poi questi altri che rivelano una forza fantastica straordinaria:

“Mario ci ha presentate
nella sua ultima creazione poetica, ricorda?”
“Sì, certo! È un vero piacere, Evelyn, io sono Mary”
“Grazie… però senti… preferivo entrare
in quella poesia di Giorgio Linguaglossa
dalla finestra aperta… quella poesia
Mi piace di più della tua… e poi
questa volta voglio essere io il corvo!”

Qui di straordinario c’è che tu «confondi» personaggi reali (io, Mario, tu) con i personaggi delle loro poesie (Evelyn, Miss Swedenborg, il «corvo» Marilyn), con certe situazioni che si trovano in altre poesie («la finestra aperta»), a generare un senso di comunanza fratellanza e anche di coappartenenza, tu prendi tutto da tutti perché hai una dote rarissima: quella di non pavoneggiarti mai nel narcisismo dell’io e nella sostenutezza dei poeti letterati i quali sono notoriamente stitici ed alieni dall’ammirare le opere altrui. Tu, invece, hai questa dimestichezza con la leggerezza e un altruismo che ti rende poeta unica. Nella tua poesia c’è aria di libertà, una sfrenata libertà, la leggerezza della ingenuità (solo i veri ingegni sono ingenui!), c’è quella ironia che non vuole canzonare nessuno, che non si ammanta di un’aria di superiorità ma che vuole accompagnare il teatro del mondo con tutte le sue commedie, risibili, grottesche e tragiche…

«Evelyn», il personaggio di una poesia di Mario Gabriele,  è una megera, una giocatrice di tarocchi, abile nel gioco dei bari, abile nel gioco delle carte, «il Signor K.» è un personaggio di una mia poesia, è nientemeno che il diavolo in persona, quindi sono due «tarocchi», due mascalzoni che passano il tempo a brigare e a turlupinare gli altri commedianti della Commedia umana; anche il «corvo» è un’altra personificazione del Signor K., quindi è il diavolo in persona che si affaccia alla finestra e bussa con il becco educatamente sul vetro della finestra per poter entrare nell’appartamento. Insomma, sta di fatto che in questa poesia, come in tutte le altre tue, c’è una gran confusione: il mare si agita «con onde fino a tre metri»; e qui interviene sulla scena «Odette», la quale, da intelligente prosseneta, fa entrare «la giovane donna» «dalla finestra del corvo». Insomma, qui il lettore avrà capito che si sta in un mondo dove tutti gli eventi (reali e immaginari) risultano compossibili e partecipano ad un gran ballo in maschera, il ballo in maschera della «nuova ontologia estetica» la quale non contempla separazione di eventi: di qua il reale, di là l’immaginario, e di là il simbolico; di qua un poeta, di là un altro… tutti in rispettabili compartimenti stagni. Ecco, tutto ciò non corrisponde al vero, Mariella Colonna ha appreso subito il segreto dell’arte del mestiere: tutto comunica con tutto, ergo il poeta dovrà fare di tutto a rendere possibile che questo avvenga in piena libertà. E poi, addirittura, c’è un passo dove avvengono le presentazioni tra i vari personaggi usciti dalla fantasia di altri poeti che si incontrano e si fanno i salamelecchi, proprio come avviene nella vita di tutti i giorni, dove il falso si confonde con il vero e il posticcio con l’originale… se Mario Gabriele è un maestro nel gioco dei tarocchi (s’intende della poesia), è abile nel tenere segreto il segreto e nel propalarlo mediante argomentazioni paradossali e le metonimie. La sua è una poesia che ama il paradosso, anche Mariella Colonna è una ammaestratrice di serpenti, una pifferaia di flauti magici, lei ama giocare con i paradossi e le metonimie alla sua maniera, indisciplinata e frivola. Nella sua allegrezza senza scopo, ha preso in parola il motto dell’estetica di Kant secondo la quale l’arte è «finalità senza scopo».

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Gino Rago, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Commento di Gino Rago

Dichiaro la mia gratitudine verso Costantina Donatella Giancaspero per l’arricchente occasione di ascolto delle meditazioni di Massimo Donà sulla aporia del tempo, sulla sua non abitabilità, sulla necessità di frammentarlo, sul suo lungo indugiare sull’idea agostiniana di passato – futuro – presente. Dunque, parola e tempo, poesia e tempo s’intrecciano inestricabilmente, come del resto L’Ombra delle Parole sta sostenendo fin dalla sua apparizione problematica e stimolante nel panorama della nostra letteratura. Anzi, lo stesso Giorgio Linguaglossa, ha collocato proprio il tempo al centro di quella sua folgorante intuizione ormai nota come «Spazio Espressivo Integrale», sulla cui importanza, anche nel campo degli esercizi di critica letteraria, mi sono sempre – fin dalla interpretazione della linguaglossiana “Preghiera per un’ombra” nel Laboratorio di Poesia – con entusiasmo espresso.

Ma non posso tacere su quell’idea di Massimo Donà, idea che mi ha fatto sobbalzare per la sua franca verità che contiene, secondo cui “I libri esistono per non essere letti perché i libri sono soprattutto una esigenza di chi li scrive… Poi si può verificare anche il miracolo che qualcuno li legga…”. Che aggiungere.

Trovo poi strepitoso per verità e pathos il commento di Mariella Colonna soprattutto in quel passaggio sull’analogia tra il crollo e lo sfarinamento dell’intero universo troiano e l’incenerimento quotidiano di questo nostro mondo che, così com’è, ci è toccato in sorte…Ma, e questo passaggio di Mariella Colonna lo trovo carico di rivelazioni, sopra di noi “splendono le stesse stelle che splendevano nel cielo sopra Omero…”. Bellissimo.

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Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Poesie di Mariella Colonna

Il tempo della rosa

“Non vorrai scherzare col fuoco?” mi hai detto.

I quattro angoli della stanza
si unirono a quattro stelle
dell’Orsa Maggiore. Intorno tutto
prese una nuova posizione. I piatti
a tavola giravano velocissimi su se stessi
pronti a raggiungere la nostra base spaziale.

Il mio e il tuo “io”
disposti sugli assi cartesiani
della nuova dimensione nata
dai nostri pensieri in croce,
proprio nel punto zero.
Follia creativa
della luce”!
Volevamo cambiare il corso del tempo.
Sostituire agli attimi
le farfalle dei pensieri
e riempire lo spazio con il canto degli uccelli
per raggiungere la dimensione del volo
quando all’improvviso fiorisce
una rosa perfetta.
Si mette tra noi e lo spazio
tra noi e il tempo
tra te e me.

Quel fiore splendido, prepotente
aggressivo, quella regina di Bellezza
prende possesso della tua mente.

A me resta soltanto
la silenziosa carezza
del nulla,
ma dal nulla fiorisce l’universo.

Il nulla
è una rosa. Continua a leggere

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Antonio Riccardi POESIE SCELTE da Gli impianti del dovere e della guerra (Garzanti, 2004) Con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Strilli Sagredo2[Antonio Riccardi è nato a Parma nel 1962. Ha studiato fiosofia all’Università di Pavia. Dalla fine degli ani ottanta è stato impegnato nella Mondadori di cui è stato direttore editoriale degli Oscar. Per la poesia ha pubblicato: Il profitto domestico, 1996; Gli impianti del dovere e della guerra 2004; Acquarama e altre poesie d’amore, 2009. Ha curato il volume di saggi Cosmo più servizi. Divagazioni su artisti, diorami, cimiteri e vecchie zie rimaste signorine, 2015]

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

 Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, si profila l’Epoca della stagnazione stilistica

Come è noto, dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia italiana diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi allo stato molecolare, il tutto legittimato dall’imprimatur del governatorato dell’io; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso, si ha in mente un senso implausibile ed effimero, come se il senso non sortisse fuori da una ricerca del senso; si scommette sulla facile semantica che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi. Sarà questa la via verso la de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Subito si spalanca davanti al lettore la «mantica», la cosa fatta di semantica: la poesia dell’io e delle sue problematiche nel quotidiano. Accade così che si diffonde a macchia d’olio una poesia fatta di esternazioni dell’io, di ipotiposi dell’io. La poesia italiana degli anni settanta cercherà l’«assenza» tra l’affollamento  degli oggetti del quotidiano, nasce così una poesia del «pieno», non più inquietante ma rassicurante, il «pieno» delle parole della «comunicazione».

La problematica derridiana della «traccia» viene sproblematizzata e interpretata come discorso narrativo dell’io che ha perduto le fondamenta, di qui l’erranza dell’io, l’ipertrofia dell’io. La poesia oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta, la citazione ironica e la accettazione di una poesia del «pieno», di cose dette, di oggetti conosciuti, di faccende domestiche. Si disse in quegli anni che la poesia doveva cessare di produrre «valore», di produrre «senso», di produrre qualsivoglia «valore». Dati questi presupposti, la poesia didascalica del quotidiano ne è stato il risultato naturale. La poesia italiana degli anni settanta, quella dell’esordio di Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen e Valerio Magrelli si muoverà in questo orizzonte di idee; si adatta alle nuove circostanze che richiedono una poesia democratica, o meglio, demotica, fungibile, comunicabile che finga ogni manomissione del «senso» e del «valore». La conseguenza di questa situazione sarà che chi viene dopo questi poeti non potrà che continuare a produrre fraseologie dell’io, frasari distassici, combusti magari con allegria per re-impiegarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila così la Grande Crisi della poesia italiana che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «leggibilità» della forma-poesia, al punto che non si sa più cosa si debba intendere oggi per forma-poesia, che cosa si intenda per dismetria, che cosa sia rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti.

Strilli Gabriele2Strilli Tranströmer1La poesia non ritiene più indispensabile edificare su Fondamenta solide,

equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di fondamenta.

È un fatto che la poesia italiana di questi ultimi decenni sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali di una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» con il pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). Si assiste alla scomparsa del pubblico. La poesia parla del non-senso?, del senso?, del pieno tra le parole?, del pieno e del detto tra le parole?, del pieno e del detto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia come aneddoto?, la poesia della riproposizione del mito?. Il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero poetico.

La poesia italiana dagli anni novanta ad oggi ha tentato di, in qualche modo, orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, ha tentato il piccolo cabotaggio tramite una facile dismetria, una facile procedura ironica, quando sarebbe occorsa una seria riflessione sulla difficoltà del fare poesia nella nuova condizione della materia lessicale combusta, dei materiali esausti, degli isotopi di un lessico usurato, della situazione di detrito permanente della forma-poesia. Siamo così arrivati alla «dissolvenza» di tutti i concetti saldamente ancorati ad una idea forte di forma-poesia, ci si è accontentati di navigare a vista per il tramite del referenzialismo e di una «narrativizzazione» ad oltranza della forma-poesia.

Così è accaduto che, durante questi ultimi decenni, per la precisione dagli anni settanta ad oggi, la poesia italiana ha seguito la moda di un referenzialismo che poggiava sullo zoccolo duro del linguaggio del quotidiano con l’idea invalsa che le frasi-proposizioni potessero esistere isolatamente e fossero intellegibili in sé sulla base di una interpretazione letterale; si è creduto che la strada di una poesia  metaforica fosse un azzardo. Così è nato l’equivoco che la poesia dovesse «narrare» il quotidiano. Dopo Satura (1971), la scelta fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato metonimico (Fortini) sarebbe andato a vantaggio del piano inclinato di un quotidiano acritico e acrilico. Di fatto, dalla poesia italiana  viene espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico.

Strilli Linguaglossa1Strilli Talia2Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo, una equivalenza alimentata da una cultura male assemblata. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nella positivizzazione della forma-poesia. La positivizzazione sarà stata anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia, ma rimarrà una risposta insufficiente. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione,

di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

La de-fondamentalizzazione del discorso poetico

Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e consapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che ingloba la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.

Strilli RagoStrilli LeonePositivizzazione del discorso poetico*

Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione culturale» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

*[C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».

La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. Il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.

Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.

La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime (quale suo luogo naturale) in metafore e immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.

Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana, ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Rammento che circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», stilato, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.

La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

*

ANTONIO-RICCARDI

Antonio Riccardi

La prima sezione de Gli impianti del dovere e della guerra (2004) di Antonio Riccardi raffigura la città industriale colta per lampeggiamenti memoriali, c’è «mio padre… coperto dal camice di piombo», «con l’Alfa scendeva nell’oriente della pianura / verso il dominio di Cattabiano»; c’è «la sirena» che regola il tempo della città industriale, qui la positivizzazione del discorso poetico trova una modellizzazione in chiave realistica: Continua a leggere

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RIDONDANZE

La poesia non ha rimandi . La consapevolezza d'essere poeta è la stessa spontanea parola che Erode. Stermino io stesso il verso.

Mario M. Gabriele

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

LA PRESENZA DI ÈRATO

La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.

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