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Appunti intorno a una gallina Nanin e a una pallottola, libro di Gino Rago, a cura di Marie Laure Colasson, Storie di una pallottola e della gallina Nanin, Progetto Cultura, 2022, La poesia kitchen è l’esempio più eclatante di una poesia rimasta senza parole. In realtà il poeta di oggi non ha nulla da dire: nessun messaggio, niente di niente tranne la scatola vuota del vuoto che è l’io, quell’io che è la quintessenza della metafisica della volontà di potenza e del mondo come volontà e rappresentazione

la realtà oggettiva del linguaggio è una realtà coscrittiva

la lingua non esprime fenomeni psicologici,
non riflette ciò che il parlante vuole, immagina o pensa,
la lingua sta fra i singoli parlanti, come l’acqua fra i pesci del mare

È la condizione di Emergenza che determina la «rivoluzione»
È la condizione di Emergenza che determina il «nuovo politico»
È la condizione di Emergenza che determina la «nuova poiesis»

(Giorgio Linguaglossa)

Cover Gino Rago Gallina Nanin

Gino Rago è nato a Montegiordano (Cs) nel 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022)  . È presente nel libro di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.  Nel 2022 pubblica Storie di una pallottola e della gallina Nanin, è nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” ed è redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”

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Appunti intorno a una gallina Nanin e a una pallottola

di Marie Laure Colasson

Gino Rago con Storie di una pallottola e della gallina Nanin (Progetto Cultura, Roma, 2022) edifica una «anti-grammatica» di una «anti-avanguardia», la sola cosa oggi possibile ad un poeta che non voglia arrendersi ad un discorso di nicchia, da prigione dorata, e lo fa attraverso una ridefinizione del linguaggio poetico visto come un meccanismo di Escher teso a disarticolare le relazioni di tempo e spazio e la consequenzialità logica e unilineare nella narrazione a vantaggio di una «concezione figurativa del linguaggio poetico» la quale, smascherando la vulgata corrente della enigmaticità del mondo, la esplica, con Wittgenstein, all’evidenza della mera fatticità del mondo che il linguaggio ha solo la funzione di rappresentare mimeticamente. In questo modo, il poeta di Trebisacce opera alla stregua di un demiurgo che costruisce una propria anti-metafisica come pratica di letteralità del linguaggio e della sua condizione di prigionia che costringe il soggetto ad un perenne girare a vuoto; così operando Rago mette in piedi un macchinario celibe, smaschera, indirettamente e implicitamente, la prigione dorata della poesia elegiaca che crede ingenuamente di poter sopravvivere nell’epoca del Collasso del Simbolico e della Catastrofe permanente. In questo modo denuncia, indirettamente e implicitamente, l’illusione della narrativa del consenso cultural-mediatico che si nutre di narrazioni trolliste e usufritte funzionali alla conservazione dell’assoggettamento del soggetto e del suo linguaggio allo status quo permanente.

Soltanto la «forma-polittico»con l’impermanenza dei suoi costrutti e con i suoi meccanismi di distanziamento e di straniamento del discorso poetico attraverso tecniche retoriche d’interruzione, détournement, entanglement e peritropè, evidenzia lo stupore per un’impossibile uscita del linguaggio poetico dal linguaggio. E mostra che il Re è nudo. È lo stupore che guida le peripezie e le acrobazie della «gallina Nanin» e della «pallottola» nei loro andirivieni. La  «poesia-polittico» di Gino Rago è un work in progress della fortune-telling book, un coacervo di bisbidis di quisquilie e di filosofemi, di pos-it, di appunti sul verso e sul recto di cartoline postali, di poscritti su attaches, di appunti smarriti e poi ritrovati, di calembour e di giochi di prestigio. Tutto ciò sull’altare desacralizzato di una «gallina» e di una «pallottola» sparata a casaccio dal commissario Ingravallo, che esce dal romanzo di Gadda e se ne va a zonzo a seminare discordia ed equivoci plurimi.

L’andatura apoplettica della «nuova poesia» è fatta di vacillamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro (ma dove?); un passo in avanti e due all’indietro. Si va per passi laterali, per tentativi, per scorciatoie, per smottamenti laterali, e ribaltamenti e ritrosie, per tracciamenti di sentieri che si rivelano Umwege e ritracciamenti all’indietro, di lato… È che non essendoci più una fondazione sulla quale fondare il discorso poetico, anch’esso se ne va ramengo, senza un mittente e senza un destinatario, contando unicamente sulla destinazione: si invia, si destina qualcosa a qualcuno pur sapendo che non giungerà nulla a nessuno, la destinazione è priva di destino, si vive alla giornata seguendo il Principio Postale, la spedizione della cartolina, delle cartoline.

La «forma polittico» è una sommatoria di cartoline, di invii, di rinvii, di post-it, di scripta improvvisati. Si tratta di un meccanismo di invii e di tracciati destinati allo sviamento e all’evitamento, dove il messaggio, che reca impresso il desiderio, la pulsione, non arriva mai a destinazione in quanto per definizione freudiana inibito alla meta, e il Principio di Piacere che ha prodotto il desiderio approda infine al Principio di Realtà. E così facendo perpetua il meccanismo di riproduzione del capitale del piacere non ottenuto mediante la riproduzione del piacere in piacere sublimato, piacere tras-posto, tras-ferito.

Il mondo è raffigurabile ma non rappresentabile sembra dirci Gino Rago se non attraverso una struttura polifrastica aperta che si snoda mediante continui cambi di passo e di direzione e veri e propri smash, attraverso cambi di ritmo, improvvise accelerazioni e susseguenti decelerazioni nella convinzione che il soggetto è un congegno molteplice e moltiplicato che conosce la moltiplicazione e la diversificazione continue. La «struttura a polittico» non può che ripetere la «struttura del Labirinto» e la «struttura del soggetto» ed è, di fatto, una struttura circolare che ci riporta sempre al punto di inizio. Una mera illusione.

La poesia kitchen è l’esempio più eclatante di una poesia rimasta senza parole. In realtà, il poeta di oggi non ha nulla da dire: nessun messaggio, niente di niente tranne la scatola vuota del vuoto che è l’io, quell’io che è la quintessenza della metafisica della volontà di potenza e del mondo come volontà e rappresentazione. Quella metafisica è giunta al capolinea. E con essa tutta l’argenteria e l’oreficeria della poesia della tradizione lirica. Quella argenteria, però, è oggi inservibile. Un poeta consapevole lo sa, non può non saperlo.

Poesie di Gino Rago

Marie Laure Colasson interpella la scultura: l’uccello Petty
posata sopra il comodino a destra del soggiorno
dell’appartamento in affitto sito in Roma, Circonvallazione Clodia n. 21
accanto ad un volantino color turchese
e una molletta per i panni.

L’uccello Petty:
«Egregio critico Linguaglossa,
la informo che
la “Bestia” di cui parla il Conte di Kevenhüller
l’ho catturata io, è un sedicente poeta elegiaco,
una vera canaglia,
le cui auto pubblicazioni oscillano fra lo “Specchio” Mondadori
e la collana bianca dell’Einaudi,
l’ho chiusa a chiave nella toilette dell’atelier di Piero Tevini
sito in questo stabile al piano quinto.

Resto in attesa dei 49 milioni di euro a suo tempo trafugati
dalla Lega lombarda di via Bellerio;
mi sto preparando
per la cerimonia della targa all’ex Presidente della Repubblica
Carlo Azelio Ciampi …
ma che è che non è la squadra omicidi del commissariato del dott. Ingravallo
ha manomesso il nome deturpandolo,
allora la sindaca dell’Urbe,
la Raggi,
ha reclamato essere stata oggetto di un complotto
ordito dalla Lega lombarda e da Fratelli d’Italia per detronizzarla
dalla carica di sindaco
e far decollare la candidatura della leghista Irene Pivetti
– l’ex Presidente della Camera dei deputati –
per le elezioni del sindaco di Roma Capitale
e così infliggere un colpo mortale ai 5Stelle.

Il Conte di Kevenhüller
ha già ordinato alla Tesoreria Generale della Banca d’Italia
di corrispondere 49 milioni di euro
a chi colpirà la “Bestia”,
somma che verrà corrisposta al Regio Cassiere
don Antonio Porta
per il tramite del direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani, 18.

Allora, accade che il pentastellato Lucio Mayoor Tosi
abbia contattato il filosofo Žižek
il quale ha appena affibbiato un ceffone in pieno viso
al segretario della Lega lombarda,
tale Salvini,
ben noto al commissariato del dott. Ingravallo
in quanto reo di aver baciato in pubblico il rosario
della Madonna Santissima Addolorata
dopo aver deglutito alcuni panini alla mortadella e alla porchetta di Ariccia,
pregandolo di risolvere a suo modo la questione.
Allora, Žižek
ha telegrafato al commissario Ingravallo
intimandogli di sortire fuori dal romanzo
di Carlo Emilio Gadda
e di assumere servizio presso il commissariato della Garbatella
in subordine al commissario Montalbano
il quale ha risolto il caso chiamando in servizio operativo
nientemeno che il filosofo Giorgio Agamben
il quale ha scritto una interpellanza al Presidente del Consiglio Mario Draghi
il quale a sua volta ha ordinato al Generale Figliuolo
di intercedere presso la Santa Sede per via della
Madonna Santissima Addolorata
baciata dal nominato Salvini sul pubblico palco del “Papeete”
quando i sondaggi lo davano al 34%
mentre il nominato chiedeva «pieni poteri» per poter risanare
l’Italia…
La storia non finisce qui, potrebbe continuare, ma noi la vogliamo
interrompere qui…».

Sarà quel che sarà, ai posteri l’ardua sentenza. Continua a leggere

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Poesie di Francesco Paolo Intini, Resonance effect, Mimmo Pugliese, l’ultimo airone, «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere», afferma Wittgenstein, Dispositivi poietici e dispositivi politici sono solidali, conflittuali, legati da un nesso dialettico, hanno luogo nella medesima polis e presuppongono sempre una metafisica o la fine di una metafisica, Žižek afferma che l’ideologia «comporta che gli individui ‘non sappiano quello che fanno», che finché c’è, lacanianamente, il grande Altro, ovvero, l’ordine simbolico, scopo dell’ideologia è rendere gli uomini ingannabili e governabili, Marie Laure Colasson, Polittico, cartoni sovrapposti su compensato, 2021

Marie Laure Colasson Cartone su legno 40x40 2021

Marie Laure Colasson, Polittico, cartoni sovrapposti su compensato 40×40 cm. 2021 – Il Polittico è il luogo più idoneo per costruire la dialettica tra gli impulsi della materia, gli impulsi dello stile e la struttura costrittiva, tanto vale per l’arte figurativa che per la poesia che per il romanzo, nel polittico la struttura di dominio entra in crisi, si sfrangia, si distribuisce in frammenti. La poiesis di oggi richiede il polittico plurilinguistico e pluristilistico, pena la sua ricaduta nella antica metafisica e nel monolinguismo.

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Resonance effect
di Francesco Paolo Intini

Davvero una curiosa sensazione trovarsi in una di queste macchine. Sembra la vendetta di qualcuno a cui hai offeso il cuore e che adesso ha l’occasione di dirti chi sei e sputarti in faccia l’evidenza di un ammasso di nervi e relais. La musica di segheria semina il panico tra talamo, ipotalamo e cervelletto. Assomiglia al distico persino un colpo di martello su una porta. Strida si susseguono a squittii. Ogni gruppo organizzato di suoni sembra mandato a delinquere per le strade del cervello o ad organizzare lo sciopero generale delle parole contro lo sfruttamento del significato. Da un usignolo ti aspetti la serenità di un nido su un pesco in fiore ma ricevi un colpo di pistola. È così che s’interferisce nei fatti altrui? Sembra che però funzioni a meraviglia. Inutile a questo punto protestare la propria innocenza, lo scopo nobile del ricercatore che interroga la natura è messo alla gogna da questo Robespierre in camice verde. Si ha la sensazione a tratti che la cuffia da palombaro intorno al cranio tiri fuori la lista dei nuclei di idrogeno tormentati in questi anni dal Torquemada, per svelare le loro intimità, le riunioni segrete, la capacità di adattarsi a tutte le circostanze, il sale della terra. Che ne hai fatto del carbonio? Speriamo che non mi chieda del platino? Non ho tracce di azoto e fosforo da molti anni e dunque almeno loro dovrebbero star zitti. Eh si, l’odore di resina versata mi riempie le narici di peccati contro l’umanissima tavola periodica e il passato è un macigno sulla testa di elementi calpestati in nome dell’ingenuità e del significato ultimo di questo abitare l’universo. Che peccato è tradurre l’universo in una lingua indistruttibile? Invoco l’autorità della pagina scritta col lavoro di mani e fuoco vivo, ma mi accorgo che i meriti adesso sono diventate colpe. Leonora vede il Monitore ritorcersi contro lo stesso dito che incoraggiò la penna. Una pace serena di parecchi secoli prende però piede adesso tra occhi e orecchie. I nervi cranici si sono messi d’accordo ed è bastata qualche scaramuccia per risolvere la questione. Metternich non è mai morto e ora minimizza tutto. Mai una Marengo, nessuna Austerlitz soltanto Waterloo e sant’Elena. Ma detta tra noi qual era in fondo? Diplopia che vuol dire? Che c’è un difetto nella visione. L’Io e il suo doppio alle spalle. Se guardi Caino non sei certo che Abele stia fuori dall’obiettivo , ma anche il poeta sguazza nel cuore di Faust. Un fiammeggiare di imprevedibilità circonda il Sole ed osservare non risolverà il mistero di essere osservati. Almeno per questa volta.

Poesie di Francesco Paolo Intini

Si affacciò come una ragazza curiosa
di uno stallone sopra la giumenta.

D’altro canto la Terra è calva
e nessuno sbuffo esce dalla marmitta.

L’NMR posò il becco e cominciò a mangiare.
Di geco il sapore in bocca.

Tutti all’inseguimento di Mengele. E Pasolini?
Dove sono i rimasugli del 68?

In qualche Bar c’è un messo dell’ottocento.
La caffettiera, poeta maudit, alza il vapore.

A quella marmaglia sopravvisse Robespierre.
Dove lo metti uno che non sa fare il dolce?

Una nuvola parla a nome di un’aquila.
Un dito solleva una questione interno all’uovo.

E dunque cosa nascerà da questi manufatti senza fondo?

Se la crema da barba vale un bombardamento
Al massimo avremo una diagnosi col casquè.

Tra le grondaie germogli di senecio.
E l’autunno? Urla di camoscio spinto in giù.

HIROO! QUEST’È

Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.

Fumare è una passione in tempi di Luna sorella.
Ottobre passò con le ciminiere appassite

Giurò di impastare un Lenin al secondo
Se non avesse visto la Tabella sul senecio.

Prometeo scostò le tendine del salotto
E fece un esperimento di entanglement

Le madame si arrabbiarono quando videro
Il diamante bruciare in Paradiso.

Sarebbe riapparso a fine corsa:
Amore di mamma su katana.

Una cardo vantò l’offerta formativa di una rosa
La questione finì davanti a una bella di notte

Solo perché da una tubetto di smeraldo
Spuntò il soldato Oneda, baionetta e ramarro.

Un gioiello riappare sempre dal lato kitsch
Talvolta il vestito appende il volto blu

Carbonio o Plutonio?

Quello vero ha barba e occhiali ma vota PCI
e lo fa ogni giorno e lo fa ogni volta che ha una donna

Ma il tema sopravvive all’inganno.
E l’imperatrice?

Un haiku al giorno:
chi vinse la pandemia?
Hirohito Yeah!

caro Franco Intini,

«I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», afferma Wittgenstein, delineando una ontologia materialistica.
Lo stare al mondo del soggetto si dispiega come linguaggio e attraverso il linguaggio.
Qualsiasi fenomeno che esuli dalla trasferibilità linguistica non ha alcuna valenza ontologica. Quando Wittgenstein parla di «mondo» si riferisce a un concatenarsi di fatti o stati di cose, che possono trovare immagine nel pensiero. «L’immagine logica dei fatti è il pensiero». Tuttavia, perché il pensiero operi correttamente è necessario che sia costituito come una proposizione dotata di senso, ovvero che abbia una funzione veritativa rispetto al mondo esterno.

L’alternativa a tutto quanto non è elaborabile come linguaggio della logica e del senso compiuto è il silenzio.
«Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere».

Dovremmo concludere che esiste solo ciò che è riducibile alla parola? Il filosofo austriaco, ben conscio della critica cui poteva andare incontro l’esasperazione del suo pensiero, prende le distanze dal «mistico». Il «mistico» è fuori dal linguaggio e quindi non può essere glossato. Ci sono però situazioni che, contrariamente a quanto fin qui asserito, rivendicano un preciso diritto di realtà, sebbene non ne sia possibile una fedele trasposizione linguistica. È il caso dei sentimenti, degli stati d’animo o di particolari vissuti. Di fronte a questi fenomeni – che sono cose diverse dai «fatti» che per Wittgenstein costituiscono il «mondo» – la parola si fa immediatamente personale e peculiare: non è più il mondo, ma il mio mondo. Il linguaggio è ridotto alla sua funzione di segno e diventa irriducibile la sua valenza logico-scientifica. Il «mistico», così come citato dallo stesso Wittgenstein, è linguaggio che non si lascia significare dal linguaggio.

In un certo senso, il «mistico» inteso in senso wittgensteiniano è il luogo della poetry kitchen che adotta la logica del linguaggio per andare oltre la logica del senso e del significato. La poetry kitchen ha una ben precisa funzione veritativa rispetto al mondo esterno, allarga il mondo esterno, ci fa vedere cose che prima non vedevamo.

Žižek afferma che l’ideologia «comporta che gli individui ‘non sappiano quello che fanno”»; che finché c’è, lacanianamente, il grande Altro, ovvero, l’ordine simbolico, scopo dell’ideologia è rendere gli uomini ingannabili e governabili; l’ideologia comporterebbe sempre un quantum di inganno, di cecità, un quantum di falsa coscienza. Vale a dire che la falsa coscienza è indispensabile affinché sorga e si stabilizzi una ideologia. E una ideologia è indispensabile affinché nasca uno stare nel mondo, un’etica e una estetica. La modalità kitchen è, a mio avviso, un atto di consapevolezza della cecità e della falsa coscienza nella quale siamo immersi. E questo è il punto a vantaggio della poetry kitchen rispetto alle modalità del senso e del sensorio che una poiesis illusoria e mimetica pone in essere in quanto dotate di una minore consapevolezza della falsa coscienza nella quale tutti i linguaggi sono attinti e del carattere illusorio di ogni algebra del senso e del sensorio.

Mimmo Pugliese ha scritto questi tre versi:

Gianna aveva un coccodrillo ed un dottore *
tacciono gamberi e ortiche

il canarino inala un analcolico

* Gianna (cit. Rino Gaetano,1978)

dove è evidente che il lessico della canzonetta (vedi Rino Gaetano) era molto avanzato mentre quello della coeva poesia italiana era semplicemente stazionario, nel senso che si era fermato nella stazione ferroviaria principale: il lessico di Bertolucci da una parte e quello di Raboni dall’altra.
Certo, ci sono delle ragioni ben precise che hanno causato la stazionarietà della poesia italiana dagli anni ottanta in poi, quelle ragioni le abbiamo esplicitate in più occasioni, è lì che la poesia italiana con il suo lessico, la sua lessicografia, la sua stilematica pseudo orfica e pseudo sperimentale si è sclerotizzata.
Mimmo Pugliese riparte da lì, da quella stazione dove i linguaggi poetici si sono fermati a prendere un caffè e poi hanno smarrito la strada del futuro. I linguaggi artistici sono sempre irrelati con il futuro più che con il passato, guardano al futuro, sono costretti a guardare al futuro, pena la auto nullificazione, la tautologia e il protagonismo dell’epigonismo.
Anche la poesia di Tiziana Antonilli si è mossa, dopo il suo libro Le stanze interiori (2018), che comunque segnavano un approdo sicuro, la poetessa di Campobasso aveva bisogno di inalare un po’ di ossigeno, di rinfrescare il suo lessico e il modo di disporlo sulla pagina, e c’è riuscita, segno evidente che la frequentazione dell’Ombra delle Parole dà i suoi frutti.

La modalità kitchen è, a mio avviso, un atto di consapevolezza della cecità e della falsa coscienza nella quale siamo immersi; innanzitutto, quando leggiamo una poesia, il suo lessico rivela immediatamente a quale mondo è imparentato. Quei significati di quel lessico si sono auto derubricati, oggi non significano nulla più che nulla. Quel senso e quel sensorio erano telefonati, erano già invalidi all’inizio. Occorre prenderne atto.
E questo è il punto a vantaggio della poetry kitchen rispetto alle modalità del senso e del sensorio che una poiesis illusoria e mimetica pone in essere in quanto quest’ultima è dotata di una minore consapevolezza del carattere illusorio di ogni algebra del senso e del sensorio.

Mimmo Pugliese

L’ultimo airone

Era l’ultimo airone
dopo sere di cenere
campane sul tavolo
eleggono torce votive

Online trasmettono il diluvio
il drive-in ha i menischi consunti
Qualcuno ha il lunedì al guinzaglio
gerani di fosforo

affollano lavatoi a pedali
I ripiani della libreria sono un fiume
una pietra a forma di toga
sopravanza le lucciole

il confine è un lampo
Guardi una foto un pò sfocata
improvviso il vento spalanca la porta
i pesci non rispondono

Nella baraonda del dopocena
capannelli di moscerini
radono al suolo l’emicrania
la notte è un brufolo

Fine

La luna raccoglie papaveri
in fondo allo stagno di sassi
quegli uomini erano stati soldati

Falene ubriache
sfondano specchi di ghiaccio
la strada è un rettangolo

La scuola turchese
è avvitata con chiodi di prugna
hanno scambiato l’ordine dei materassi

L’acqua ha una ruga in più
dalla cruna degli aghi
si intravede Kabul

Rocce arroventate
albe colpite alla schiena
dalle ali degli aerei

Il maniscalco parla al contrario
ha il becco dell’aquila
per cappello un mappamondo

Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione…

Fine

filosofia geworfenheit

Sulla voce

Dispositivi poietici e dispositivi politici sono solidali, conflittuali, legati  dalla dialettica dei distinti e degli opposti, hanno luogo nella medesima polis e presuppongono sempre una metafisica. L’articolazione originaria tra la Phoné (la voce che si toglie, viene meno e precipita nel negativo) e il Logos (il discorso articolato in un linguaggio), fonda la phoné come il negativo e il logos come positivo.
Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela una nuova metafisica. Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela la fine di una metafisica. Una nuova «voce» può sorgere soltanto dal perire della vecchia «voce» e della vecchia metafisica.
La dizione «voce senza linguaggio» significa questo emergere della voce nel e dal linguaggio, nel e dal linguaggio che sta emergendo. La «voce» è sempre alla ricerca del linguaggio più appropriato che possa ospitarla. Il linguaggio è la «casa» della «voce».
Quando la «voce» abbandona un linguaggio, ciò avviene perché quella «casa» è diventata inospitale: ci piove dai tetti, le finestre e le porte non chiudono bene alle intemperie e vi penetra il gelo d’inverno e la calura in estate. Allora, la «voce» deve abbandonare l’abitazione e si mette in viaggio alla ricerca di una nuova abitazione.
La poiesis è quell’ente per il quale ne va, nel suo esistere, del suo aver nome, del suo essere un fare nel linguaggio.

(Giorgio Linguaglosa)

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.

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Giorgio Agamben, Che cosa resta? Quattro poesie kitchen di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Composizione in polittico e Instant poetry, Mario M. Gabriele, Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno, L’ES è in rotta con la sfera volitiva, Salvatore Sciarrino, Sulla composizione, Una poesia di Francesco Paolo Intini, Brasileira

Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Lucio Mayoor Tosi, Composizione in polittico

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Ascoltiamo le parole di un maestro della musica contemporanea, Salvatore Sciarrino, sulla «composizione»

«…è come se io partissi a rovescio, immaginassi il punto di arrivo e poi studiassi come arrivarci, e questo secondo me rovescia un po’ il modo di procedere della composizione così come la conosco io attraverso la scuola… per me l’immaginazione sonora è la prima cosa, il che non vuol dire soltanto immaginare un suono ma immaginare il modo verso il quale tu vai e dentro il quale tu vuoi visitare e che contiene delle cose che ti attirano e ti danno la voglia di prenderle con te e mostrarle agli altri… se non avviene dentro di noi uno sforzo molto forte di superare, non gli ostacoli, ma proprio di bucare i muri… aprire porte dove non ci sono porte, noi non otteniamo nessun risultato. Un pezzo di musica in più o in meno non ci serve, noi abbiamo bisogno di cose che ci sorprendono, che ci rapiscano e ci trasformino. Quindi, la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando… dentro quale parte ci vogliamo avventurare, questa è la prima cosa, il resto è già scontato, perché se c’è la immaginazione di una nuova opera, il resto riguarda più i dettagli o come realizzarla».

Giorgio Agamben.
Che cosa resta?

1.
«Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato». Questa frase di Flaiano – uno scrittore le cui battute vanno prese estremamente sul serio – contiene una verità su cui vale la pena di riflettere. Il futuro, come la crisi, è infatti oggi uno dei principali e più efficaci dispositivi del potere. Che esso venga agitato come un minaccioso spauracchio (impoverimento e catastrofi ecologiche) o come un radioso avvenire (come dallo stucchevole progressismo), si tratta in ogni caso di far passare l’idea che noi dobbiamo orientare le nostre azioni e i nostri pensieri unicamente su di esso. Che dobbiamo, cioè, lasciare da parte il passato, che non si può cambiare ed è quindi inutile – o tutt’al più da conservare in un museo – e, quanto al presente, interessarcene solo nella misura in cui serve a preparare il futuro. Nulla di più falso: la sola cosa che possediamo e possiamo conoscere con qualche certezza è il passato mentre il presente è per definizione difficile da afferrare e il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata che nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro: costui sta quasi sempre cercando di intrappolarvi o di raggirarvi. «Non permetterò mai all’ombra del futuro» ha scritto Ivan Illich «di posarsi sui concetti attraverso cui cerco di pensare ciò che è e ciò che è stato». E Benjamin ha osservato che nel ricordo (che è qualcosa di diverso dalla memoria come immobile archivio) noi agiamo in realtà sul passato, lo rendiamo in qualche modo nuovamente possibile. Flaiano aveva allora ragione suggerendoci di fare progetti sul passato. Solo un’indagine archeologica sul passato può permetterci di accedere al presente, mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente.

3.
Nicola Chiaromonte ha scritto una volta che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non è che cosa abbiamo avuto o non avuto, ma che cosa resta di essa (corsivo del redattore). Che cosa resta di una vita – ma anche e ancor prima: che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? All’intervistatore che le chiedeva «che cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?», Hannah Arendt rispose «resta la lingua». Ma che cos’è una lingua come resto, una lingua che sopravvive al mondo di cui era espressione? E che cosa ci resta, quando ci resta soltanto la lingua? Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? (corsivo del redattore). Ricordo che Ingeborg Bachmann mi disse una volta che non era capace di andare dal macellaio e chiedergli: «mi dia un chilo di fettine». Non credo che volesse dire che la lingua della poesia è una lingua più pura, che si trova al di là della lingua che usiamo dal macellaio o per gli altri usi quotidiani. Credo piuttosto che la lingua della poesia sia l’indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane, così come qualcuno ha scritto che l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto. Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. La poesia e il pensiero attraversano la lingua in direzione del nome, di quell’elemento della lingua che non discorre e non informa, che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama. Un breve testo che Italo Calvino usava dedicare agli amici come il suo «testamento spirituale» si chiude con una serie di frasi mozze e quasi ansimanti: «tema della memoria – memoria perduta – il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio.1

Queste note riproducono parte dell’intervento al Salone del libro di Torino il 20 maggio 2017.
(Giorgio Agamben, 13 giugno 2017)
1 Id., «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018]

Mario M. Gabriele

Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno. L’ES è in rotta con la sfera volitiva. C’è chi predilige forme e oggetti di varia natura, tra cui si annotano materassi, letti, tavoli, armadi, cassettiere, scaffali, divani, poltrone, sedie, carrozzine, girelli, culle, televisori, videoregistratori, lavatrici, frigoriferi, elettrodomestici da incasso, condizionatori, stufe e mascherine Covid, assieme a materiale chimico ed edile, come amianto, colori, vernici, bombole di gas e ossigeno, provette con idrogeno, elio, litio, boro, azoto, antimonio, argon, bismuto, cobalto, cripto, per creare un polittico? Una pala sacra? O una scuola primaria per poeti del futuro? Ciò significa mettere in scena figure e oggetti apocrifi nel tentativo di creare un camaleontismo linguistico di elevazione così bassa in cui il lettore si perde nel gioco smaliziato di significati e feuilleton. E chi lo pratica non abiura i propri solipsismi, e grovigli letterari e scientifici, che in molti casi si autodistruggono da soli, bloccando la poesia dalla sua funzione d’Arte. Svuota poesia? Sì! Ma anche svuota cantina!

Quattro poetry kitchen di Gino Rago

Bubù de Montparnasse fa il gigolò
con l’amante di Jean-Luc Nancy

Domani torno a Paris avec Madame Batignolles
aspettami alle Tuileries

scrive madame Fru-frù all’ispettore Poirot
bisogna arrestare il poeta Iacopò Ricciardì

e tutti gli altri della kitsch poetry

*
Sul notturno Roma-Paris
Ne pas se pencher au dehors

dice Madame Colasson all’uccello Pettì
Un talebano dice Ohibò al pappagallo Totò

e fa la pipì sulla moquette del wagon-lit
Si salvi chi può dice da un oblò

il Presidente Biden al nano Cocò
*

A Parigi, sotto la finestra dell’atelier
di Marie Laure Colasson

in Rue du Lapin, près du marché aux puces,
un tenente de ll’Armée Française,

Edition par Lucien Rousselot,
arresta la danseuse étoile de l’Opéra.
*

Giorgio De Chirico guida il taxì,
Marcel Duchamp espone l’orinatoio a Trinità dei Monti

Ennio Flaiano ci fa la pipì,
prende al volo un colibrì

Lucio Mayoor Tosì entra nel “Notturno” di Madame Colasson
e invita l’uccello Pettì al Caffè de Paris Continua a leggere

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Tre Strutture dissipative del 2020 di Marie Laure Colasson, Il gesto linguistico e il gesto pittorico, Dalla scrittura a frammenti al polittico e alla poetry kitchen, L’arte insegue il reale o è il reale che insegue l’arte? Dialogo tra Lucio Mayoor Tosi e Giorgio Linguaglossa, Scopo dell’arte è reinventare il reale, Poesie di Mario M. Gabriele, Carlo Livia

Marie Laure Colasson XY Struttura dissipativa 25x60 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa XY, acrilico 80×30 cm, 2020

Marie Laure Colasson YY Struttura dissipativa 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa YY, acrilico 50×30 cm., 2020

Marie Laure Colasson XX Struttura +dissipativa

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa XX, acrilico 50×30 cm., 2020

Ed ecco che la struttura dissipativa di Marie Laure Colasson giunge alla sismografia della luce e delle forme, alla spettrografia come sismografia del frammento, al frammento come linguaggio originario, linguaggio allo stato aurorale incipitario. Perché lo scopo dell’arte è oggi quello di reinventare il reale. Occorreva ripartire dall’alfabeto e dal lessico del frammento e dalla forma frammento, dalle forme primordiali della curva e della semiretta, dalla luce e dal colore per poter costruire una nuova sintassi dove la forma-colore e la forma-limite assumessero un ruolo determinante. Il tratto, il graphein singolare trascrive la sismografia del testo, il luogo-non-luogo che soltanto il frammento può abitare. Ha scritto Lucio Mayoor Tosi: «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto, senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Il commissariamento della poiesis

Il tedio di Dio, la mia ultima opera, pubblicata nel 2018 per i tipi di Progetto Cultura di Roma segna un punto: la scomparsa dell’io  totalitario e panottico che ha fornito il binario della poesia europea dal 1970. L’io oggi non è più il punto di riferimento del discorso poetico. La poesia dell’io e delle sue adiacente che si fa in Europa da alcuni decenni è Kitsch e conformismo senza neanche avere coscienza del kitsch.

 «Il frammento è il sigillo di autenticità dell’arte moderna, il segno del suo sfacelo», ha scritto Adorno nella Teoria estetica nel 1970pensiero quanto mai vero che si insinua all’interno del facere della «nuova poiesis» con lancinante attualità. L’aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre («il tutto è il falso») è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia di Hegel che recita: «Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]». La poetica del «frammento» e la poetry kitchen sono la risposta più drastica che la poiesis oggi dà alla Crisi dell’arte, con la consapevolezza che la poiesis del «frammento» è la poiesis del negativo, della negatività assoluta che confuta il «vero» e il «falso», il «vuoto» della «totalità» che abita l’ideologia della compromissione in cui oggi tutti siamo coinvolti. Le immagini della poiesis diventate effimere, serializzate, moltiplicate, e quindi de-realizzate, precipitano nel valore di scambio e nella inautenticità di qualsiasi enunciato che oggi la poiesis possa abitare.

Ad essere revocato nel nulla, e cioè nell’inesistente, è il «valore» della poiesis, è la posizione nel mondo della poiesis, tant’è che non suscita più alcuna meraviglia che le immagini dell’arte siano state sostituite con gli avatar, le copie, le icone. In questo contesto, la diagnosi di Fredric Jameson sul postmodernismo (secondo cui le tipiche armi dell’avanguardia novecentesca: lo choc, la rottura, lo scarto, l’incomunicabilità, il nuovo sono diventate variabili richieste dal sistema, replicabili e serializzate all’infinito) coglie nel segno. Parlare del valore di posizione, di op-posizione della poiesis, è oggi una utopia da anime intonse. Semmai, lo scopo della poiesis non è tanto creare un varco nella significazione ma negare la stessa significazione per sostituirla con il «vuoto» del segno.

«È ormai ovvio che niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza», ha scritto Theodor W. Adorno nella Teoria estetica.

(g.l.)

Mario M. Gabriele

Una Jeep  Renegade ferma davanti alle VideoNews.
Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
dove  meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

Non dicono molto
ma rappresentano episodi di prosa spontanea.

Esterno. Campo vietato. Bandiere a mezz’asta.
Resiste in classifica
L’Enigma della camera 622 di Joel Dicker.

Meg ha in mente un viaggio,
lasciando la speranza ai poveri  e i copecki ai ciechi.

Un Web-designer accende il PC
per correggere i fogli di Criminal Found.

Rivediamo i Mondi di Oz
anche se Turner lo fa di malavoglia.

Il cane bassotto
non trovò le tracce dell’assassino della piccola Maddie.

Tace la radio Deejay. Non c’è nessuno
che ascolti gli Scorpions.

Tornano in gioco Hamm e Clov
nella Febbre del Sabato Sera.

Volano i tweet. –Andrà tutto bene.
Ne sono sicuro- ,  disse il tutor su Instagram.

Si è fatto tardi. Silenzio blu notte
con flash mob lungo il colonnato.

Una farfalla muore sul poster di Guernica.
La guardo se mai dovesse volare via.

TM 22 è il numero del Call Center
per vedere Shining di Stanley Kubrick.

-Manca l’attitudine a produrre verità e trarre un film-
disse il critico all’autore della sceneggiatura.

Schermo piatto.Colore nero.
Diffusione di lampade Led in Galleria.

Miss Klary  stava dietro ad una storia
dopo i dati dei subplots.

Voce di fondo e inquadrature a fumetti
nelle mani  di un viaggiatore nel mondo.

Dolly voleva riprendere il cielo con uno Zoom
e ricavarne una Metafisica.

-Va bene, puoi provarci.
Saranno le nuvole a distrarti-,
disse  Seanbook, manager del Progetto Outline
affiliato alla Glenn Artur jr e Company di Filadelfia.

Ginsberg, in quarantena, chiedeva Howl.
Voleva mettere qualcosa di suo e della Corea
con uno shock  stellato di misericordia.

caro Mario,

Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
La tua poesia, caro Mario, è l’epitaffio più sincero che oggi si possa scrivere per il cadavere della poiesis.

(Giorgio Linguaglossa)

caro Giorgio,

La mia perplessità è un’altra: ci sono voluti anni per mettere a punto un discorso critico sulla scrittura a frammenti, anni per creare in distici (tra l’altro, allo scopo, penso io, di stabilire una situazione d’obbligo alla poesia, non divagante ma per aprire gli occhi, svegli nel sogno), anni per la struttura a polittico (come per allargare confini), per poi ripiegare sul verso libero, anche se in forma di casamatta, cioè di architettura non per upper class… ora Pop, tra Rushdie e il Tarantino di Pulp Fiction, la più avanzata cinematografia. Tutto questo mentre sento crescere, nel mio piccolo mondo, il bisogno di riordinare (il mio stupore nell’accorgermi di stare nel marasma con simil doppi ottonari e novenari)… Abbiamo riaperto le danze?

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

penso che scopo dell’arte sia quello di reinventare il reale. Come apparirà chiaro leggendo la poesia di Intini o di Gino Rago, nella nuova ontologia estetica, la forma grammaticale non è una eco visibile di un pensiero invisibile che si trova nella cellula monastica dell’io del poeta. Al contrario, è la forma grammaticale che determina ciò che io penso, è la struttura grammaticale e la struttura sintattica che determinano ciò che io penso. L’io è quindi un epifenomeno. Ecco spiegato perché nella nuova ontologia estetica l’io è quasi assente, o, se è presente, è presente come un io tra i tanti. Il significato è un evento secondario del linguaggio, direi un evento terminale, l’evento primario sta a monte del significato e, a rigore, a monte del linguaggio, alla sorgente del linguaggio. L’evento è l’atto sorgivo del linguaggio.

Per Wittgenstein il significato non è un evento mentale: Quando Wittgenstein nelle sue osservazioni filosofiche, analizza il grido «Lastra!» che il muratore dice al manovale di passargli una lastra, cioè che qualcuno deve portargli una lastra, vuole far capire che tutto dipende dal modo in cui quel grido è usato, dal contesto in cui accade e, più in generale, dall’insieme delle relazioni che sussistono tra i parlanti, non da ciò che eventualmente passa per la mente di chi parla. Ma ciò è quanto dire che non possiamo fare riferimento al pensiero per considerare incompleta una forma linguistica: ciò che pensiamo, per Wittgenstein, non determina il significato delle nostre parole.

Quando metto sotto accusa il capitalismo internazionale non mi passa per la mente un giudizio già preso perché so che ciò che io chiamo il mio pensiero è una diretta conseguenza dello stato delle cose che il capitalismo determina nel mondo. Io non sono un populista che mescola patate e pomodori e arsenico, io mi limito ad argomentare che le patate e i pomodori sono cose diverse dall’arsenico, anche se tutti e tre questi prodotti sono manufatti del capitalismo. Il marxista comunista che esprime un pensiero critico sa che il significato che noi diamo alle nostre parole è un epifenomeno del linguaggio che viene impiegato. Ma una poesia di Intini o di Gino Rago o di Marina Petrillo sono cose diverse proprio in quanto manufatti distinti, ma sono tutti prodotti del sistema capitalistico e del pensiero critico che si innerva nel linguaggio.

Wittgenstein ci dice che un gesto linguistico ha un significato non già in virtù dei pensieri che attraversano la mente di chi parla, ma in ragione della sua appartenenza ad un determinato «gioco linguistico». Ne segue che alla forma grammaticale del linguaggio non è affatto chiesto di rispecchiare i pensieri che abitano e sgomitano nella nostra mente mentre la esterniamo, poiché il senso di una proposizione dipende dall’uso che se ne fa in una circostanza determinata. E ogni nuova circostanza determina un nuovo «gioco linguistico», e così il «gioco» va avanti e il «significato» delle parole cambia, si modifica. Ciò che pensiamo non determina il significato delle nostre parole. Il significato è determinato dal «gioco» di innumerevoli fattori che intervengono all’interno del campo del linguaggio.

Scrive Wittgenstein:

«quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? — Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici (come potremmo dire) sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «gioco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: comandare e agire secondo il comando — Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni — Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) — Riferire un avvenimento — Far congetture intorno all’avvenimento — Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova — Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi — Inventare una storia; e leggerla — Recitare in teatro — Cantare in girotondo — Sciogliere indovinelli — Fare una battuta; e raccontarla — Risolvere un problema di aritmetica applicata — Tradurre da una lingua in un’altra — Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare».1

(Giorgio Linguaglossa)

1 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 23.

caro Giorgio,

Ma tu pensi davvero che io abbia avuto un pensiero a monte, o peggio una opinione in merito alla vicenda di Silvia Romano, tale da dover essere comunicata in poesia? Questa mia è una risonanza, un prestito, un guazzo figurativo, una restituzione dovuta a quanto nella mente ho recepito della bagarre pseudo politica di questi ultimi giorni.
Di solito evito la poesia dedicata, ma ho avvertito il momento favorevole al non senso. In momenti così posso scrivere qualsiasi cosa. E’ accaduto.
Il non senso è scrittura che si fa con il vuoto, non può darsi con alcun progetto. Quindi, per restare nel tuo pensiero, il non senso sfugge al sistema capitalistico, come a qualsivoglia ideologismo. Caro Giorgio, io non mi pre-occupo di essere di sinistra, penso di essere l’unico comunista sereno che esiste al mondo. Non indugio su l’istinto di morte perché so che morte e vita, una forza e l’altra, sono Yin e Yang che si intersecano, e una va nell’altra sicché l’immagine a me non pare affatto divisa, o contrapposta. Anche questo è “pensiero critico che si innerva nel linguaggio”.

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

io alle poesie a tema non ho mai dato credito. Si tratta di poesia-a-tesi. E la poesia, la Musa rifugge da ogni tesi, foss’anche la più nobile. In questo senso la tua poesia è bella, ma è troppo «direzionata», alla fine non dice niente di più di quel che dice, rientra nel «significato» che volevasi dismettere e far uscire dalla finestra.

Se leggi la prima e poi la seconda versione della “Storia di una pallottola” di Gino Rago, ti accorgerai che nella prima stesura la poesia era troppo fedele al «significato», nella seconda invece si è liberata del e dal «significato» e il risultato è senz’altro migliore.

Questa strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica, è una lotta incessante perché il «significato» ci circonda da ogni parte e ci soffoca e la Musa muore soffocata dai truismi.

Tu dici che «il non-senso sfugge al sistema capitalistico»? Io invece penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore e della accumulazione del capitale che, in sé è un non significato, è un atto di fede. Nient’altro. È una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede. Se cessa la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cessa di colpo anche il capitalismo. Ma queste cose le ha ben spiegate Agamben (per ultimo).

Io penso che quando tu fai poesia per scherzo, dissipi le tue migliori qualità. La poesia non è uno scherzo, e anche quando assume la forma di un divertissement, dice cose molto serie.

(Giorgio Linguaglossa)

Carlo Livia

UNA CANOA DI LAMPI

Se Tu
( in sogno )
ritorni nella Pausa
( capovolta invano )
sospinta in alto verso
( nuvole, sospiri, particole svanite )

Se Lei
( nella pioggia pallida )
ti chiede la gioia suprema
(del mondo senza di te )

Se Tu rifiuti e ti armi di
( parole, tenebre, farmaci, spigoli )

Assassinando la sera il lampione
( il cuore ) sbaglia tristezza

( l’addio è pieno di germogli di donna
ma ha la malattia immortale )

Se il suo corpo ti dice assente ma
( ha canti e prigioni inesplorabili
decompone l’angoscia in sette precipizi morbidi )

In fondo ad ogni anima
c’è la stessa Vergine implacabile
che aspetta

Ai suoi piedi il livello dell’amore
( dell’orrore )
cresce come un fiore

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Gino Rago, Storia di una pallottola, Poesia inedita, Prima e seconda versione, Il Polittico come struttura instabile aperta, Editoriale n. 9 de Il Mangiaparole, Giorgio Linguaglossa

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È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
1a stesura

Gino Rago

Storia di una pallottola

La volontà di fare di sé stessi un fuoco. Una rivoltella.
Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
Daniil Charms a distanza di chilometri

sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
«Forse è’ un alieno sulla mia testa o uno starnuto dal Cremlino…»

La pallotola entra in un monolocale, si ficca in un’altra pistola.
Parte il colpo. Scoppia il cuore di Vladimir Majakovskij.

La pallottola-dei-poeti fuoriesce dalla spalla,
Lascia la stanza:«Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa,

Non mi fermano né il tempo né lo spazio
Né le forze di attrazione della terra e della luna».

Torino. Agosto. 1950. La pallottola-dei-poeti rompe i vetri
Di una camera dell’albergo Roma.

Cerca un’altra tempia.O un altro cuore. Afa. Nemmeno un’anima in giro:
«Tardi, troppo tardi…»
[…]
Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.
Sulla copertina dei Dialoghi con Leucò:« Perdono a tutti e a tutti chiedo Perdono… Non fate troppi pettegolezzi».

La Stampa. Prima pagina. Morto-suicida-Cesare-Pavese.
La pallottola lascia di corsa la camera dell’albergo.

Ha fatto in tempo a leggere su un foglietto non visto da nessuno:
T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

Un agente della STASI ruba i due foglietti.
Con il primo treno parte da Torino in direzione di Berlino Est…

*
2 stesura

Storia di una pallottola

Una rivoltella.
Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
Daniil Charms a distanza di chilometri

sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
«Il miagolio di un gatto o uno starnuto dal Cremlino?»

La pallottola fa ingresso in un monolocale, entra nel tamburo
del revolver col manico di avorio di Madame Colasson.

Parte il colpo. Colpisce al cuore Vladimir Majakovskij.
poi la pallottola fuoriesce dalla spalla, va in giro per un po’,

lascia la stanza: «Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa».
Entra nel boudoir di Madame Altighieri

E colpisce alle spalle il generale d’Aubrey
in partenza per la guerra di Crimea.

Torino. Agosto. 1950. La pallottola rompe i vetri
di una camera dell’albergo di Roma.

«È tardi, troppo tardi…».
Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.

Una copia dei “Dialoghi con Leucò”. Sulla copertina c’è scritto:
«Non fate troppi pettegolezzi».

Prima pagina de “La Stampa”. «Morto suicida Cesare Pavese».
Lascia di corsa la camera dell’albergo.

Ha letto su un foglietto non visto da nessuno:
T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

Un agente della STASI ruba i due foglietti.
Con il primo treno parte da Torino

in direzione di Berlino Est… cerca al telefono
il Signor Cogito. «È in casa Cogito?».

«No, non è in casa. È uscito».
E allora cambia strategia. Si reca ad Istanbul.

Sull’Orient Express incontra Madame Altighieri,
si innamora della duchessa e la uccide con un colpo

di pugnale alle spalle…

Ma non è questo quello che volevo raccontare,
era un’altra storia, che però ho dimenticato…

gif sparo tumblr

Nella prima versione appare chiaro che inseguivo troppo “il significato” e questo procedere può diventare una gabbia, un freno inibitore alla libertà completa della nostra immaginazione.
Nella seconda versione, grazie anche alla approfondita lettura dell’Editoriale di Giorgio Linguaglossa per il prossimo numero della Rivista “Il Mangiaparole”, rimuovendo il condizionamento dell’inseguimento del “significato” a tutti i costi, l’inedito ha guadagnato in libertà ed entra nello scenario Madame Colasson che capovolge, anzi stravolge la storia della morte di Vladimir Majakovskij: non più suicidio, ma omicidio (non importa se omicidio volontario o involontario) commesso da Madame Colasson. Il regime bolscevico ha nascosto a lungo questa verità? Sulla morte di Majakovskij ha diffuso un’altra notizia falsa fra le tantissime notizie false di regime? E chi si meraviglia delle tantissime “bugie di Stato” adoperate sia dai regimi totalitari sia dalle democrazie occidentali? Allora anche lo stratagemma, tipico di una poesia della NOE, di stravolgere una storia radicata nel tempo e nella memoria collettiva ‘inventando’ un’altra storia al posto della precedente è un gesto di coraggio estetico e dunque è anche un fatto etico, eticamente lecito,
perché tutti noi d’accordo con Brodskij sappiamo che “l’Estetica viene prima dell’etica”.
Accanto a Madame Colasson agiscono, per proprio conto, ma nello stesso tessuto poetico, come nel teatrino siciliano dei ‘pupi’ con i fili tirati da un unico puparo, anche Madame Altighieri la quale, con un salto acrobatico spaziotemporale, spara al Genarale d’Aubray sullo sfondo della Guerra in Crimea, per poi saltare a Torino nel 1950, un altro tempo, un altro luogo…con un agente della STASI, (i cui tentacoli come sapevano tutti erano in grado di arrivare su chiunque e dappertutto, che forse deve redigere un rapporto al Signor Cogito), che a sua volta sopprime Madame Altighieri ma con un pugnale per non far troppo rumore perché viaggiano pugnalatore e pugnalata sullo stesso treno, il treno più elegante ed esclusivo del vecchio Novecento europeo (assassinio sull’Orient Express…). Per noi la scrittura non è lineare, consequenziale, perché non crediamo nel tempo premoderno né nei tempi moderni o postmoderni o ipermoderni, lo stesso dicasi per lo spazio.
Perché?
La risposta è anche qui, nella parte finale dell’Editoriale scritto da Giorgio Linguaglossa per il n.9 del trimestrale cartaceo Il Mangiaparole, perché:
“il «polittico» è un sistema instabile che fa di questa instabilità un punto di forza. Mi sembra una ragione sufficiente”.

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

La poesia NOE è nient’altro che una «rappresentazione prospettica», una rappresentazione priva di funziona simbolica. La prospettiva come forma simbolica (1924) di Erwin Panofsky è una utilissima guida perché ci mostra come funzione simbolica e rappresentazione siano legate da un cordone ombelicale che è dato dal linguaggio. Ma mentre le opere del passato erano portatrici di una funzione simbolica, le opere moderne, a cominciare da Brillo box di Warhol, non sono provviste di alcuna funzione simbolica, sono dei dati, dei fatti, dei ready made. Invece, la tua poesia, di Intini, di Mario Gabriele, di Giuseppe Talìa per fare qualche nome di poeta che è maturato nell’officina della NOE, è priva di funzione simbolica, sembra la registrazione di dati di fatto, di elenchi statistici, elenchi cronachistici. In più, qui si ha una molteplicità di prospettive che convergono e divergono verso nessun fuoco, nessun centro prospettico, le linee ortogonali non portano ad alcun centro che non sia eccentrico, spostato, traslato; inoltre lo sguardo che guarda è diventato diplopico, diffratto, distratto.

La tua «poesia-polittico» può essere ragguagliata ad una matassa, ad un groviglio. Tu ti limiti ad aggrovigliare i fili, li intrecci gli uni con gli altri e tiri fuori il percorso degli umani all’interno di un labirinto. La tua è una «poesia-labirinto», uno spiegel-spiel. I tuoi personaggi sono gli eroi, prosaici, del nostro tempo, vivono in un sonno sonnambolico, tra chiaroveggenza e inconscio, guidati e sballottati come sono dalla Storia (Achamoth) e dalle loro pulsioni inconsce (Von Karajan, la Signora Schmitz, Joseph il pacifista, Madame Colasson); c’è «poi Madame Tedio, il tempo,[che] sbroglia le carte» e sdipana i destini individuali; c’è l’intellettuale, il Signor L., il quale denuncia la Grande mistificazione dell’Occidente: che l’«Ulisse è un bugiardo inglese». Questo Signor L. mi piace, è una sorta di Baudrillard per antonomasia, l’intellettuale che ci mette in guardia contro la mitologizzazione di certi prototipi umani come Ulisse, progenitore e prototipo del politico imperialista che avrà discendenti di tutto riguardo ai giorni più vicini a noi, da Giulio Cesare a Napoleone e giù fino ai pazzi sanguinari Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot, etc.

La tua «poesia-polittico» è un esempio mirabile di come si possa oggi scrivere una poesia moderna, appassionata e dis-patica, raffreddata e ibernata, patetica e algida, serissima e ilare. Una poesia che, finita la lettura ci lascia sgomenti e ammirati.

 

Giorgio Linguaglossa

Editoriale n. 9 (rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”)

L’ermeneutica segna lo spostamento del baricentro della trattazione dai problemi del senso verso i problemi del referente. In conformità con questa impostazione concettuale, tutta la poesia del secondo novecento e di questi ultimi anni ha perseguito il medesimo obiettivo: ha fatto una ricerca del senso impiegando un linguaggio referenziale.
L’equivoco verteva e verte sul fatto che si è considerato il discorso poetico come equivalente, nella sua funzione, al discorso ordinario, senza capire che il linguaggio ordinario si limita a «servire» gli oggetti che rispondono ai nostri interessi sociali, il nostro interesse sociale è limitato al controllo e alla manipolazione degli oggetti nella vita quotidiana, ma la funzione del linguaggio poetico non può essere «servente» degli oggetti, questa sarebbe una grave miscomprensione della sua natura specifica e ci porterebbe fuori strada.

Il discorso poetico lascia in libertà la nostra appartenenza al mondo della vita e al mondo della vita quotidiana, lascia-dirsi, lascia che vengano messe delle parentesi tra il pensiero e il linguaggio, tra il linguaggio e il linguaggio, lascia alla parola il compito di dire ciò che il linguaggio ordinario non può dire. Quello che così si lascia dire è ciò che Paul Ricoeur chiama la referenza di secondo grado, la referenza sganciata dal rapporto di controllo e di dominio degli oggetti e del mondo.

Il discorso poetico della nuova ontologia estetica, comporta (in modi vari e con diverse sensibilità linguistiche), l’abolizione del linguaggio descrittivo-informativo. Ciò potrebbe far pensare alla famosa «funzione poetica» di Jakobson, ad un concetto di linguaggio poetico che rinvii soltanto a se stesso, ma la NOE ha compiuto un decisivo passo in avanti: è proprio tale abolizione che costituisce la condizione positiva affinché venga liberata una possibilità più profonda per attingere un referenza soggiacente, una referenza di secondo e terzo grado che coglie il mondo non più al livello degli oggetti manipolabili, ma ad un livello che Husserl designava con l’espressione Lebenswelt e Heidegger con In-der-Welt-Sein.

Se osserviamo la struttura delle poesie della nuova ontologia estetica, ci accorgiamo che è lei, la struttura, che decide la disposizione, la frammentazione, la dislocazione e la cucitura degli enunciati: il loro ordine disordinato, o il loro disordine organizzato, il disallineamento degli enunciati e l’eterogeneità degli stessi, la loro natura disparatissima di varia provenienza di ordine culturale, in una parola: è la struttura che dispone della libertà o illibertà degli enunciati e delle immagini.

Un aneddoto di distrazione esistenziale

Un giorno uscii con due calzini diversi, uno blu e uno avana. Me ne accorsi quando fui in metropolitana accavallando le gambe. Davanti a me era seduta una signora vistosa, con permanente, biondizzata e profumata la quale puntò gli occhi sui miei due calzini. Ecco, mi accorsi allora che avevo messo i calzini invertiti. Avevo infranto una consuetudine condivisa inconsapevolmente dalla generalità attirando l’attenzione della bella signora. Così, un giorno, consapevolmente, uscii di casa con ai piedi due scarpe diverse, un mocassino testa di moro con la frangia e una scarpa con i lacci nera con in più due calzini di colore e di foggia diversi. Presi di nuovo la Metro e accavallai le gambe. Il risultato fu che tutti gli utenti della metro mi guardarono le gambe e i piedi. Ecco, non avevo fatto nulla di particolare, ma avevo infranto lo “schermo” di una condivisione sociale accettata inconsapevolmente da tutti. Penso che la poesia debba avere il coraggio di fare questo: di infrangere il conformismo di un linguaggio informativo, performativo, referenziale. E, per fare questo occorre una notevole dose di distrazione continuativa.
Una distrazione esistenziale radicale può aiutare.

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line lombradelleparole.wordpress.com”.

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Gino Rago, Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La forma-polittico della nuova ontologia estetica

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[Un Nemico intelligente, un Estraneo, si aggira per le nostre città, per le nostre metropolitane, per le strade, ovunque… si chiama Covid19, ovvero, Coronavirus. Si tratta di un micro organismo intelligente, scaltro, rapace che si mimetizza in alcuni umani non manifestando alcun sintomo della sua presenza, sono i cosiddetti asintomatici, è aggressivo, mutante, subdolo, è stato creato dal modo di produzione capitalistico. Paradossalmente ciò è avvenuto in un paese che si auto definisce “comunista” ma che è governato con polso di ferro da una autocrazia. Il Covid19 può prosperare soltanto in una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi escrementi; una natura che si conosce, mediante l’accumulazione degli escrementi, dei profiterol dell’immondizia, delle merci invendute e obsolete, del trash, dello spam. La natura infatti è benigna, ci propina dei profiterol, ci prende sul serio, crede che all’homo sapiens piacciano gli escrementi e ci ha propinato l’Ebola, la Sars, il Covid19. La natura fa sul serio. Infatti, non agisce per paradosso ma per contiguità e coerenza della parte con il tutto, e delle parti con altre parti]

 

Gino Rago
Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12

 

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Il poeta vede ciò che il filosofo pensa

“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre.
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,

La copia della Gioconda, il lilla
E la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,

Abbiamo altro da fare, per esempio
Ascoltare il canto degli uccelli

O il ronzio della Storia
Nei  bassifondi di Vienna,

Ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
E quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo

La smettano di fare baccano,
Coprono il canto delle allodole di tutto l’occidente.

Anche gli dei imparino a tenere il becco chiuso,
Sono sull’Olimpo grazie alla poesia.

Cara M.me Hanska,
Dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria

il poeta vede tutto ciò che il filosofo pensa”.

Strilli Rago

Il liquido reagente

Cara Signora Jolanda W.,

Il mio Amico di Istanbul
dice che possediamo il Liquido Reagente.

Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma
[dell’Occidente

e il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno

[della Felicità,
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.

Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF

non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle
[scarpe

che si toccano sotto il tavolo.
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia

sempre nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”

perché se ne infischia delle nostre domande.


Il bacio

Cara Signora Lipska,
oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.

Il tram ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka,

è in polemica con Schiele per« ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta.

Il mio amico* ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,

illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
Il vuoto dentro lo specchio è assenza o cruna nell’ago

verso la più alta conoscenza?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.

Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo

è già luce dello sperma siderale».
La Paradeplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.

Francesco Giuseppe. A  Trieste, a Piazza dell’Unita,
fin dall’alba lascia il Castello di Duino,

tracanna Campari e spritz al Caffè degli Specchi.
A Vienna la principessa balla con un uomo senza qualità.

*È Giorgio Linguaglossa

Strilli Rago1

10 – Le città

Cara Signora Jolanda,
ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.

Passa da qui ogni mercoledi,
mi fissa negli occhi e prosegue:

«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino

per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.

Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.

Nei caffè di Cracovia ora tutti mi chiamano
“il-poeta-santo-bevitore”.

Questo nome ora è il mio destino».

[…]

Se non a Lei a chi potrei dire
che le città che lasciammo ci inseguono. Continua a leggere

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Ludwig Wittgenstein, Perché dire la verità se si può trarre vantaggio da una menzogna? Poesie e Dialogo, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Adriana Gloria Marigo

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[Marie Laure Colasson, foto di un interno domestico, 2020 – La foto ritrae un interno visto attraverso il riflesso del vetro di una finestra con la tendina di lato. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che si accosta all’altro, da un occhio che legge un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. Questo sostare del senso sul limite è espresso anche con il termine di escrizione, intesa come la scrittura del senso nel fuori, nel-l’ex, sulla pelle di un corpo.  L’escrizione del quadro è analoga alla escrizione del nostro corpo. È ciò per cui dobbiamo innanzitutto passare. Osservando, noi entriamo dentro il quadro, possiamo ispezionarne l’interno. La sua inscrizione-fuori, la sua messa fuori-testo come il movimento più proprio del testo è il risvolto della sua inscrizione-dentro […] Il corpo, come il limite di una foto, di un quadro, non è un precipitato ma è il limite, il confine, il bordo esterno-interno, estremo, che niente richiude e niente esclude e che include… Il testo, il quadro sono un corpo e un fuori corpo, includono l’iscrizione e l’escrizione, il limite e il non-limite. E questo è il senso. L’unico senso possibile, la verità] (g.l.)

Ludwig Wittgenstein

Perché dire la verità se si può trarre vantaggio da una menzogna?”*

Questo fu l’oggetto della prima riflessione di Ludwig Wittgenstein di cui si abbia traccia. Aveva circa otto anni quando si soffermò a considerare la questione, giungendo alla conclusione che, dopo tutto, non v’era nulla di male a mentire in quella circostanza.

* Questa riflessione è ricordata in alcuni appunti ritrovati tra le carte di Wittgenstein e citati in McGuinness Brian, Wittgenstein: A life. Young Ludwig 1889-1921, London, Duckworth, 1988, pp.47-48. Monk Ray,
Ludwig Wittgenstein, Il dovere del genio, Bompiani, traduzione italiana di Arlo-rio P., Milano 1991, p.11.

 

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

[Lucio Mayoor Tosi, Polittico su parete bianca. Un quadro lindo e pinto, manca solo un delitto. Entra il commissario, ispeziona con lo sguardo la parete, il mosaico, ne deduce che c’è stato un delitto ma che l’assassino ne ha cancellato le tracce, e quindi non resta che interrogare il portinaio, il vicino di casa, il commesso degli alimentari, l’ubriacone sotto casa della vittima, etc. Il commissario redige un verbale nel quale sono accuratamente segnati gli oggetti: il divano verde, la sedia di gomma, il mosaico di 13 tessere… Tutto in apparenza è in ordine…] (g.l.)

Lucio Mayoor Tosi

Morti di questi tempi

I morti per virus corona, tenuti in grazia dalle istituzioni
camminano su rotaie con intorno lo spavento delle ossa.

Vivi, ci ricordiamo di loro in gabbiette di metallo ripiegati,
alcool che disinfetta e aceto. Nessuno più, ma fiori nuovi,

occhi della Madonna. E forse e domani. Se qualcuno
tornando, mettendosi di lato, tra quelli che restano,

in farsi di primavera non avrebbe odore. Aria smemorata
che sa di niente. Leggera, nuova si direbbe.
.

Nei locali pubblici a lutto le saracinesche della crisi
dove si balla, quando passano veloci quelle poche

automobili che a notte sfiorano con il tempo distanze
stellari, e al mattino trovi il corpo del gatto

di qualcuno penitente; che magari starnutiva in laboratori,
al braccio forte della finanza. Certe persone a martello,

o certi numeri. Una grande famiglia in assetto di sterminio,
davanti al sole costruire cerbottane.

Ma dietro, nulla. Non un nemico. Un perché di tutto.
.

Allora, poniamo che venga ferragosto, e ci arrostiamo:
di quale colore i campanelli, le fettuccine all’arancia?

Oh, Mayoor, sei tornato? Avevo da finire un libro,
aggiustare una tapparella. Metterci dei buchi.

Su pianeti come questo, dove non si fa altro che lavorare;
quindi arredato con paesaggi alpini, lune belle e ripostigli

per le scarpe da sci. Pensieri di tante maiuscole. Nomi estinti
di morti profili social. Nuovi cimiteri. Sorridenti.

Metà grazie, prego. Veniteci a trovare.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

[Lucio Mayoor Tosi. Sembra la foto di una scena di delitto. C’è la caraffa del tè, la tazza, la zuccheriera, un vaso di fiori… e, forse, un veleno disciolto nel tè…] (g.l.)

Giorgio Linguaglossa 

caro Lucio,

apprezzo in particolar modo l’andamento dinoccolato del componimento, con i suoi allunghi nel non senso del senza-senso, quel tuo modo di nominare le cose («Pensieri di tante maiuscole») che sono un modo per non nominarle, per evitare di passare alla cassa a pagare il conto salato della esistenza. Perché l’esistenza ha un conto in sospeso… e così tu lasci le tue fraseologie in sospeso, tu adotti la strategia dello struzzo, nascondi la testa nella sabbia quando vedi arrivare la buriana, il pericolo di animali feroci. Ma è che sia la natura che la società è popolata di nefandezze. A me non mi incanta il cielo stellato di kantiana memoria, anzi, lo trovo irrisorio e usufritto, roba da fumagalli per chi ci crede.

Apprezzo questo tuo entrare con «le scarpe da sci» nel discorso poetico più scombiccherato e svagato che oggi si scrive in Italia… e quel modo auto ironico di citarti in seconda persona «Oh, Mayoor, sei tornato?», per poi infilare la risposta in modo indiretto «Avevo da finire un libro,/ aggiustare una tapparella. Metterci dei buchi», che non sai se sia derisoria o irrisoria o auto irrisoria. È questo tuo procedere per diradamenti e per evitamenti che più apprezzo, quel tuo modo di non-rispondere, di sottrarti al dovere di fornire una risposta come il celebre Mr. Bartleby lo scrivano, di Melville, che risponde sempre allo stesso modo a tutte le domande: «Preferirei di no», il che getta nella disperazione il suo datore di lavoro che lo interroga. Ecco, tu adotti la medesima strategia di sopravvivenza di Bartleby, ti sottrai al dovere, a qualsiasi dovere di dover rispondere dando comunque una risposta che però risulta inutilizzabile, evasiva, e, alla fin fine, eversiva… La verità è che dei «morti per virus corona» non gliene frega niente a nessuno, questa è la verità, quello che importa sono le quotazioni di borsa in crollo e la pecunia che non olet.

La tua poesia vuole sottrarsi a tutto ciò. Vuole sottrarsi ad ogni dovere. Ad ogni dovere di kantiana memoria. E in questa impresa temeraria mi sembra che riesca a comunicare al lettore quello che vorrebbe fargli capire: la profondissima disistima che noi abbiamo di noi stessi per accettare senza battere ciglio tutto quello che accettiamo senza mai colpo ferire, senza auto dichiararci tutti quanti dei pazzi che sbraitano in un grande manicomio l’un contro l’altro armati.

Lucio Mayoor Tosi

Caro Giorgio,

tento di scrivere una poesia immune dal senso di colpa. Non l’ho fatto io questo mondo, sono qui per ragioni personali che nulla hanno a che vedere con tutta quanta l’umanità. E non mi riguarda il “pensiero unico”, tendenzialmente presente anche nelle varie diramazioni ideologiche. Se provo disistima, ed è vero, è perché considero pazzesca la volontà di potenza, che tanti hanno perfino tratto dalla Bibbia. Da non credere, cose dell’altro mondo!
Poesie come quelle della Gualtieri, pubblicata ieri, del volemose-bene, non mi riguardano. Il “noi” giustifica sempre le nefandezze del mondo, e non ci mette al riparo da nulla. Se manca autenticità, a che vale essere volenterosi?
Non si può dire che la natura sia popolata da nefandezze: solo perché non ci asseconda nei desideri? Cerchiamo piuttosto di capirla, capirci, perché non ne siamo separati… e lì trovare equilibrio.
In mancanza di ideologia, viene meno anche il giudizio. In mancanza di desideri nessuno più resterebbe deluso. Riprendiamoci la ricchezza prodotta forsennatamente a prezzo della vita, e il tempo che ogni giorno ci viene sottratto. E liberiamoci dal lavoro. Amen.

 

Lucio Mayoor Tosi Sponde

[Lucio Mayoor Tosi, Polittico – Un polittico di tessere apparentemente innocue. Chi può dirlo? Tuttavia, queste tessere potrebbero nascondere qualcosa di non completamente innocuo] (g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Relazione non significa identità

La nuova ontologia estetica è fondata sul Principio di relazione, in base al quale le Figure, le Icone, i luoghi della poiesis non vogliono ridurre il discorso poetico a discorso intorno alla identità di ciò che noi siamo ma come discorso intorno alla molteplicità e alla diversità di ciò che noi siamo diventati e continuamente siamo.

La forma-polittico è quella più idonea a raffigurare (cioè ridurre a Figura) la molteplicità del divenire. Alla base della «forma-polittico» non si dà più la forma di dominio sull’ente ma l’ente viene nominato senza l’intervento di alcuna forma di dominio su di esso. Nominare l’ente è il farlo venire alla presenza della visibilità della poiesis.

La scienza e l’arte dell’Occidente sono una forma di conoscenza che si è sviluppata nell’ambito dell’alienazione nichilistica dell’Occidente, utilizzando le categorie ontologiche sviluppate dall’epistéme greca.

Ponendosi come una forma di dominio, di potere sulla realtà, disposta a farsi dominare proprio in quanto diveniente («il senso greco del
divenire dell’ente rimane alla base della scienza moderna», «l’ontologia greca apre lo spazio della creatività e della distruttività estreme»),1 la scienza moderna si toglie la maschera, rivelando come tutti i suoi elementi,come «tutti gli elementi della nuova scienza siano già presenti nella filosofia e nella scienza greca» : l’affinità tra scienza e filosofia si manifesta soprattutto nel fatto che, nata nella modernità come una forma di sapere «che intende essere epistéme e anzi, spesso, l’epistéme autentica, in contrapposizione alle pretese epistemiche della filosofia», con il «tramonto dell’epistéme» in filosofia, anche la scienza «per rendere più radicale il proprio dominio sulle cose […] rinuncia ad essere verità definitiva e incontrovertibile»: «il tramonto dell’epistéme è un evento che non si manifesta soltanto nell’ambito del pensiero filosofico […] la filosofia, in quanto epistéme, è diventata infatti un poco alla volta il terreno, lo sfondo, l’atmosfera in cui sono andati via via manifestandosi i grandi fenomeni della storia dell’Occidente». 2

1 Severino E., Gli abitatori del tempo, p. 63.
Ivi, p. 66.
Ivi, p. 65.
2 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 283. 261

Adriana Gloria Marigo

concordo sulla tua affermazione “La relazione non significa identità”. Tuttavia nella relazione sono implicate le identità. Da questa implicazione sorge la complessità e la problematicità della relazione in quanto le identità si strutturano a livello psicologico filosofico culturale antropologico e in una percentuale di consapevolezza o inconsapevolezza tali da rendere la tramatura della relazione un processo perfettibile.
La tramatura della relazione consente il sorgere, inevitabile, dell’ontologia estetica: deve pur darsi un canone entro il quale esprimere il potenziale compresente delle identità che, in virtù della compresenza, perdono la distinzione e l’individualizzazione e si coniugano olisticamente, perdendosi così ogni forma di dominanza a favore di un oltre che, a mio avviso, si dà come metafisico.

Giorgio Linguaglossa

Les mots qui vont surgir savent de nous ce que nous ignorons d’eux.
(René Char, Chants de la Balandrane)

cara Adriana Gloria Marigo,

è l’inconscio che fa sì che accadano un «effetto di ritardo» e un «effetto anticipatorio» nella catena significante, effetti che si manifestano in un risultato di disallineamento fraseologico il cui prodotto finale è il discorso poetico minato al proprio interno da questa funzione ritardante o anticipatrice che lo renderebbe del tutto inidoneo alla significazione ordinaria o consuetudinaria. Il polittico è una costruzione di relazioni, di effetti ritardanti, anticipatori, di effetti di deviazione che prescindono da qualsiasi orditura di un senso stabilito. Ed è ovvio che una tale costruzione non corrisponda più ad un discorso poetico unilineare e unitemporale, ma ad una struttura a polittico multitemporale e multispaziale.

Infatti, la phoné è quello che dà il senso della peculiarità fenomenologica di continuità e di contiguità dei significanti fonici, che sembrano susseguirsi senza interruzioni, per disporsi in una successione unilineare e irreversibile. Ciò conferisce al soggetto la convinzione che lo sviluppo di un discorso non solo si manifesti linearmente, ma che si costituisca come tale linearmente, teleologicamente, fase dopo fase, astrazione dopo astrazione, come in una sorta di addizione progressiva. Questo sarebbe «il concetto linearistico della parola», che avrebbe indotto De Saussure ad affermare «l‟essenza temporale di ogni discorso».1

L‟idea di linguaggio, della costruzione da parte del soggetto di una proposizione con significato, per De Saussure, così come esposta nel Cours de linguistique générale, è proprio quella di una concatenazione progressiva di sintagmi e che è al contempo resa possibile dalla forma sensibile della temporalità lineare.
All’inizio del Corso, De Saussure elenca infatti i due principi sui quali deve fondarsi una scienza linguistica: il primo è l‟arbitrarietà del segno, il principio secondo il quale non vi è nessun rapporto di necessità fra una cosa e la parola usata per indicarla: il cane si può indicare benissimo con una parola diversa da “cane”, niente lo proibisce. Il secondo, invece, riguarda il significante che “essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo ed ha i caratteri che trae dal tempo:
a) rappresenta un‟estensione,
b) tale estensione è misurabile in una sola dimensione è una linea”.2

1 J. Derrida, De la grammatologie, Parigi, Minuit, 1967, a cura di G. Dalmasso, Della Grammatologia, Como,Jaca Book, 1969, p. 105.
81 Ivi., p. 105.
2 F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Parigi, Editions Payor, 1922, trad. It. di T.De Mauro, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1968, p. 88

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Stanza n. 13, Poesia di Giorgio Linguaglossa, Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla 

foto Vopos

Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.

Giorgio Linguaglossa

Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, per Heidegger è la condizione dell’EsserCi.
La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla proprio in quanto mantenimento nei limiti e nella circonferenza del finito.

Costitutiva della verità dell’essere è per Heidegger la sua finitezza, o il fatto che l’essere è finito, il che ha sollevato un mare di discussioni sull’ateismo di Heidegger, sulla morte di Dio, come morte del Dio della metafisica tradizionale. Il che ha sollevato un mare di eccezioni. Che l’essere sia finito significa per Heidegger che la verità dell’essere si manifesta all’esserci dell’uomo solo sulla base del nulla. Se Dio fosse l’essere assoluto, sarebbe limitato dal nulla al quale si deve rapportare nella creazione del mondo. Occorre quindi ammettere che il nulla si manifesta come appartenente all’essere stesso. Ergo, l’essere è nella sua essenza finito in quanto si manifesta soltanto nella trascendenza dell’ esserci che si mantiene nel nulla.
La trascendenza dell’esserci rispetto all’ente nel suo tutto è radicata nella sua finitezza, che è al tempo stesso la finitezza dell’essere, cioè la coessenzialità dell’essere e del nulla.

L’esserCi non è semplicemente nel tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’esserCi. Le cose sono nel tempo, scorrono nel tempo, ma il tempo è intemporale. Le cose scorrono nel tempo proprio in quanto hanno un luogo dove stare, e questo luogo è il tempo.
La temporalità è la dimensione fondamentale dell’esserci, che è l’essere dell’uomo come esistenza, come essere gettato nel tempo e come progetto. L’esserci è il terreno su cui basare la domanda della ontologia fondamentale. 2

1 Cfr. Was ist Metaphysik?, trad. it. Che cos’è Metafisica, cit., p.15.
2 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927

*

Ecco l’ennesimo rifacimento di una mia poesia. Ho sostituito moltissime virgole con dei punti. Ho sbirciato nella Stanza n. 13.

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

…verso la libertà a bordo della BMW Isetta, una storia vera…

Stanza n. 13*

Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.

Torrette di avvistamento. A sinistra, il muro. A destra, il muro.
Una scala a chiocciola. In ferro.

Prigionieri. Gendarmi. Hangar. Corridoi. Cancelli.
Uniformi. Celle. Sbarre. Cancelli.

Pavimento epossidico color ambra. Materasso. Tavolo.
Lampadina. Soffitti. Oblò. Cortili.

Cellule fotoelettriche. Torce elettriche. Riflettori.
K. con i tacchi a spillo fuoriesce dalla finestra

Ed entra dentro la cella del filosofo.
«Veda Cogito, i marziani hanno occupato lo stabilimento balneare.

Si arrenda. Non ha più scampo ormai».

[…]

Ma io sapevo che il filosofo avrebbe vinto la partita,
sarebbe andato fino in fondo.

Che cosa aveva da perdere ormai…

Ma scacciai subito quel pensiero. Lo sostituii con una sigaretta elettronica.
Per paura. Forse.

Per disperazione. Per dissipazione. Per distrazione.
Per dimenticanza.

[…]

Il Re di Denari bacia la dama in maschera.
Un quadro del Tiepolo. Il cicisbeo accenna un inchino che non avviene.

La dama con l’orecchino di perla manda un sms a Vermeer,
c’è scritto: «Voglio anch’io un ritratto come quello che ha fatto

A quella sguattera con l’orecchino di perla…».
Il pensiero impresentabile mi sorprese all’angolo di via Gaspare Gozzi.

Pietro Longhi ritrae la damigella col guardinfante
in posa col papà nello studio del pittore, al Cannaregio.

Mozart compila il 740, si reca al Caf per la denuncia dei redditi.
Mangia un gelato italiano alla panna. Ride.

Ma dimentica qualcosa, ordina al calessino di tornare indietro.
E si perde nel traffico della Vienna imperiale.

[…]

A destra, la scala a chiocciola. Di fronte, il vano dell’ascensore.
Rumori di ascensore. Ottusi.

Fantomas imbracciò il piede di porco e sollevò la saracinesca
«La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma».

I cristalli della vetrina splenderono di luce abbagliante.
Poi si pulì i guanti con lo spazzolino da denti.

E prese congedo.

*

*Ecco qui un «polittico» composto con spezzoni e frammenti di altre poesie distrutte dall’hacker e da me miracolosamente ripescati dalla memoria. Quindi, si tratta di duplicati di scarti e di frammenti che forse non hanno né capo né coda, o forse hanno una coda, ma senza alcun capo… Lo stile è nominale; ho eliminato tutti i verbi inutili e gli aggettivi esornativi. Ho lasciato i nomi e le immagini.
Il «polittico» abita la pluralità dei tempi e degli spazi. Più spazi e più tempi convergenti costruiscono la casa del «polittico», altrimenti non si ha «polittico». C’è un filo conduttore che unisce quei tempi e quegli spazi, ma non è neanche detto che ci sia. Molto probabilmente ci sono una molteplicità di fili conduttori che si dipanano dal «polittico», c’è un tessuto di fili che tiene insieme il «polittico». Ma, anche se non ci fosse, non importa, perché l’arte è finzione, finzione che qualcosa accada; e finzione significa rappresentazione.

«Vero è che la permanenza è propria del tempo considerato nella sua totalità. Come tale il tempo non scorre, non cambia. Cambia, scorre, ciò che è nel tempo».1]

1] V. Vitiello, op. cit. p. 203

Foto Karel teige collage 1

Karel Teige, collages

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), indica, infatti, la necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo Super Faber, Super Sapiens.

Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» oggi, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» ad economia globale (Giorgio Agamben), è quindi una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica estetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte della polis per la polis.

la globalizzazione è un processo ancipite, in cui agiscono vettori anche contrastanti: non vi è solo sconfinamento e apertura al globo, ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile prescindendo da conflitti e polemiche: le assonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse complesse. Non esiste, in questo senso, «la filosofia europea». Non esiste, in questo senso «la poesia europea». Però. lo so, è paradossale, oggi può esistere soltanto una poesia europea, che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo.  Oggi può esistere soltanto una filosofia europea. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova nell’orbita: dalle Alpi al mare Jonio, permettetemi di dirlo, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla forma-poesia.

Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardia. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione pensante del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico del presente. Quello che oggi occorre fare è riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

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Ewa Tagher, polittico, Interferenza, Le mie poesie sono errori di manifattura, Commento di Giorgio Linguaglossa, L’Io non è più padrone in casa propria

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Ewa Tagher, trapezista presso il circo di Lubiana (occasionalmente si occupa anche di riassettare le gabbie dei leoni e dei dromedari). Spesso viene inviata dalla famiglia Dzjwiek, proprietaria del circo, alla ricerca di curiosità esotiche e fenomeni da baraccone.

Ewa Tagher
Intento poetico

ho raccolto residui di cuoio, di cui si è sbarazzato il mastro calzolaio dopo aver sapientemente realizzato un paio di mocassini. I pezzetti di pellame sono bizzarri da rielaborare, sfuggono a qualsivoglia volontà di dar loro una nuova forma: ognuno ha già caratteristiche proprie. Nessuno è simile o uguale all’altro. Perciò mi sono limitata a collezionarli e a provare a dar loro un’identità. Di certo vi è che nessuno di loro ha dignità di diventare calzatura: qualcuno è uno scarto di lavorazione, un altro è un tentativo venuto male, un altro ancora semplicemente un errore. Le mie poesie sono errori di manifattura.

Ewa Tagher Brigida Gullo dagherrotip

Ewa Tagher

Le mie poesie sono errori di manifattura

INTERFERENZA 1

“Campo 1 chiama Campo 2
… Campo 1 chiama Campo 2”

Anni a giocare a nascondino con i figli.
Sorry, l’indirizzo di posta non è più valido.

D. “Cosa ha provato nel momento della sua dipartita?”
R. “Qualche turbolenza. Poi un atterraggio perfetto.

“Campo 1 chiama Campo 2
Mi senti Campo 2?”

ANN. “Scambio una famiglia felice con un turacciolo di rosè”
fa eco Salmace, ancora avvinghiata a Ermafrodito.

“Qui Campo 2, ti sento forte e chiaro!”
una fetta d’anguria contro l’eclissi di sole.

Chi ha invertito i gemelli? Una ninfa, passata col rosso.
Non è un caso, che i biglietti in prima fila imparino subito a parlare.

“Pronto Campo 2, occorrono generi di prima necessità!”
La vicina si affaccia e accarezza la ringhiera. Poi fa visita al selciato.

D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?”
R. “ Lasciare sempre libere le vie di fuga”.

Il rumore di sottofondo somiglia alla facciata di Villa Chigi.
Sofonisba Anguissola imita spudoratamente la Abramovic.

“Qui Campo 1. Abbiamo solo merletti e altre oscenità. Arrangiatevi.”
“… dateci almeno uno spago per rifinire le cuciture del vascello fantasma!”

D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?
R. “Sono libere le vie di fuga?!”

N.B. Attenzione all’utilizzo di lampade a forfait.
L’abuso potrebbe ridurre l’importo calorico del film.

SCRIPT 1

PPP Angelo accasciato sulla tomba di Emelyn Story.
Totale di Mnemosine che reca in mano le istruzioni per la defunta.

Mn.“ Quando sarai giunta negli inferi, non accontentarti
di bere alla prima fonte, ma cerca l’acqua degli iniziati”.

SCENA 1. Interno giorno. Sala da pranzo apparecchiata.
CORREZIONE. Sala da pranzo con tavolo a tre gambe, spoglio.

E.Story: “Son figlio della Greve e del Cielo stellato,
di sete son riarso e mi sento morire: ma datemi presto
la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosine”.*

SCENA 2. NOTTE. Dai vicoli dietro la Basilica di Massenzio,
odore di cenere, effetto fumo, a tratti luci strobo.

Dalla regia fanno notare che l’ultimo piano sequenza
ha portato la produzione sull’orlo del fallimento.

Mn. (FUORI SCENA) “Sono stanca di questa pagliacciata,
datemi un copione sull’archeologia del domani.”

(APPLAUSI CLAQUE)

* iscrizione su lamina orfica di Hipponion (IV secolo a.C.)
Mn. = Mnemosine

Giorgio Linguaglossa
«L’Io non è più padrone in casa propria»
(Osip Mandel’stam)

Per chi l’abbia dimenticato, da questa frase di Osip Mandel’stam nasce negli anni Dieci l’acmeismo russo come reazione al «laboratorio di impagliatura» del simbolismo. Ecco, io penso che da questa frase di Ewa Tagher: «Le mie poesie sono errori di manifattura», nasce la nuova ontologia estetica come reazione al «laboratorio di impagliatura» della poesia italiana di oggi.
Errori di manifattura, errori di cucitura, pellami scuciti che il «maestro calzolaio» ricuce e riadatta alla «nuova calzatura» conferendole nuova «identità». Mi sembra che la «trapezista presso il circo di Lubiana» abbia compreso perfettamente qual sia oggi la posta in palio, qui c’è di mezzo il ribaltamento del tavolo di gioco su cui ha sonnecchiato la poesia italiana delle ultime decadi, il cambio di paradigma, una nuova fenomenologia estetica adatta ai nuovi tempi del sovranismo, del populismo e delle DemoKrature. In una parola: la nuova poesia che nasce dalle ceneri del modernismo europeo. La poesia di Ewa Tagher si popola di «oggetti bizzarri» che denotano «l’alterità intima del soggetto», la de-soggettivazione del soggetto e la de-oggettualizzazione dell’oggetto. «L’io non è più padrone in casa propria» ed ha deciso di uscire a prendere un po’ d’aria fresca e a passeggiare per le strade affollate di Lubiana. Continua a leggere

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 Due poesie inedite di Paola Renzetti con un esperimento di riscrittura di Giorgio Linguaglossa 

Strilli Lucio Mayoor Hurg

 L’immagine mi fa venire in mente la realtà che si presenterà ai sopravvissuti dopo una catastrofe nucleare… l’arte più evoluta di oggi ci presenta la possibilità dell’impossibile come la probabilità più probabile. È l’Evento della catastrofe che non suscita negli uomini di oggi più alcuna emozione perché è stata bandita finanche la possibilità stessa dell’esperienza (g.l.)

Paola Renzetti: «è sempre impegnativo dare una definizione di se stessi, ma la cosa si fa meno ardua, se si parte dall’assunto che nessuna può esserlo davvero. Sono nata nel 1955 in un piccolo paese dell’Appennino Tosco Emiliano. Ho mantenuto un legame forte con le mie origini, pur avendo studiato e lavorato sempre a Milano e provincia. Da sempre sono appassionata di pittura e di scrittura».

Paola Renzetti

Consumata dal suo radio

Ferma Lia non ci può stare
con il piccolo fra le lenzuola
della cesta. E il latte.

Commissario straordinario
per le inondazioni, agli interni
responsabile dell’emergenza
e firmataria finale
del piano di ristrutturazione.

Pronta Lia, non si sa mai.

La signora le dà un’occhiata:
“Vieni avanti. Proveremo”
E non è detto che il lavoro, serva.

No bimbi. Bene cani e gatti.
Lia, sempre lei. Capo coperto e nudo
Lia o Maria dell’avamposto, per le piazze
sull’effigie dell’uscio di una casa.

Pronta Lia, non si sa mai.

Compagna o giovane, provata
capacità delinquenziale. Sempre lei
progetto di ricerca, polo d’attrazione
e di persecuzione.

Consumata dal suo radio
o per la strada, se l’è cercata…
Quest’anima, tra i corpi.

strilli Lucio Mayoor Chi

testo di Lucio Mayoor Tosi

Riscrittura della poesia di Giorgio Linguaglossa

Consumata dal suo radio

Ferma Lia non ci può stare con il piccolo fra le lenzuola della cesta.
E il latte.

Commissario straordinario per le inondazioni, agli interni
responsabile dell’emergenza e firmataria finale

del piano di ristrutturazione. Pronta Lia, non si sa mai.
La signora le dà un’occhiata:

“Vieni avanti. Proveremo”
E non è detto che il lavoro, serva.

No bimbi. Bene cani e gatti.
Lia, sempre lei. Capo coperto e nudo.

Lia o Maria dell’avamposto, per le piazze
sull’effigie dell’uscio di casa.

Pronta Lia, non si sa mai. Compagna o giovane,
provata capacità delinquenziale.

Sempre lei progetto di ricerca, polo d’attrazione
e di persecuzione.

Consumata dal suo radio o per la strada, se l’è cercata…
Quest’anima, tra i corpi.

cara Paola Renzetti,

mi sono permesso di fare un esperimento con la tua poesia. L’ho suddivisa in distici e ho applicato il principio delle frasi nominali; ho evitato gli enjambement (che hanno senso in una colonna sonora con tanto di significante e di significato e con tanto di bella eufonia). Ho così fatto qualcosa che si può dire così: ho inserito un linguaggio nel linguaggio originale, il che determina un rapporto conflittuale tra il linguaggio sotterraneo (quello originale) e il linguaggio secondo, quello affetto da secondarietà, coadiuvato dall’inter-vento del distico che è utile per rassodare le membra disiecta. Come puoi vedere, lo stile nominale ha sostituito in pieno la colonna sonora della tradizione novecentesca che oggi non ha più ragione di sopravvivere se non per gli scolaretti e gli epigoni. Il risultato mi sembra buono. Però, vorrei il parere dei lettori, è importante che tutti i lettori della NOE esprimano il proprio punto di vista.

Stavo riflettendo sulla caratteristica trasversale che ha la nuova poesia rispetto a quella che si indica come tradizionalmente ottocentesca e novecentesca, che la prima non contempla necessariamente l’accadimento di un evento, sia questo epifanico, interfanico o dis-fanico… nelle poesie di Marie Laure Colasson, Mario Gabriele, Francesco Paolo Intini, Gino Rago… e anche in questa di Paola Renzetti non si ha nessun Evento, l’evento è un Assente, la nuova poesia narra piuttosto il non-evento. E questo è senz’altro una macroscopica novità. La nuova poesia prende come propria la problematica della assenza-di-qualsivoglia-evento.
E questo, di per sé è un Evento.

Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Lucio Mayoor Tosi, acrilico

Paola Renzetti

Grazie Giorgio, per la tua gentile attenzione. L’inserimento di questo linguaggio “secondo”, mi è apparsa una modalità nuova di interpretazione (libertà scenica). Anche i suoni, cambiano, e non solo. Almeno non si scrive solo per se stessi, si hanno dei riscontri, un’eco con risonanze diverse e impensate. Riguardo all’evento, non c’era nessuna verità da affermare, nessun intento narrativo-logico, ma immagini appena abbozzate di tempi, situazioni, voci di persone diverse (reali o simboliche) che si affacciano per provare a dire (a modo loro) di una condizione femminile vissuta e/o subita. Ogni parola è veramente una casa da abitare, da esplorare, sia per chi scrive, sia per chi legge. Ma le parole non restano in solitudine a lungo.

Con un gesto forse poco “politicamente corretto” inserisco un’altra mia poesia, che ha un tono diverso, forse ancora novecentesco, ma che nasce e chiede udienza come espressione di uno degli aspetti fondamentali della di un sentire e pensare poetico, che è quello che è  (risultato – sempre parziale e provvisorio – di un’epoca, di un percorso personalissimo e insieme collettivo.) non so da quanti condiviso qui…

Sul ramo sottile

Airone blu, airone cinerino, airone bianco
a tanto, e oltre, si spinse la favella dell’origine
fra spazi interstellari, avrebbe dato
forme e fiato di varianti infinite.

Da luoghi di indicibile bruttezza, ostie si elevano
senza remissione, a terra reclinate in nefandezza
di incurie senza volto né memoria, in vuoto di
coscienza, che non ferisce gli occhi, perché

qui, da tempo, si spense ogni lume.

Dove sta scritta la tua schiena bianca
o airone? Il tuo osare sul ramo sottile
sono nozze, queste? Segno che nell’avanzare
e convivere delle specie, è possibile intendersi

fare ammenda, non lasciare in pegno, fra il disordine
arrecato, e ultimo lascito di eredità, il corto
respiro della pazzia, che nulla s’en fa
di grazia innocente e bellezza. Continua a leggere

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Il polittico è un sistema instabile che fa di questa instabilità il suo punto di forza, Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Talìa

Giorgio Linguaglossa
il «polittico» è un «sistema instabile» in sommo grado

Sia la poesia di Alfonso Cataldi che quella di Giuseppe Talìa, con “Peter Knut” sono degli esempi, riuscitissimi. C’è da dire che la «nuova poesia» è attraversata da forze trasversali e centripete che portano la forma-poesia verso la soluzione del «polittico». Nel «polittico» queste linee di forza possono trovare una co-abitazione non forzosa, una temporanea com-posizione tra dis-equilibri divergenti e dissonanti.

Il «polittico» è un «sistema instabile», formato da una materia verbale e iconica altamente infiammabile, precarizzata dalle forze motrici storiche.

È necessario non cessare mai di problematizzare la soggettività, anche e sopratutto quando gli esiti di questa operazione critica ci conducono lontano da quelle che sembravano le nostre certezze. La soggettività, come le sfere della verità e quella del gioco, sono questioni politiche, costruzioni della polis; ed è ovvia la considerazione secondo cui la soggettività nel «polittico» sia cosa diversissima dalla soggettività della tradizione del novecento, ad esempio della Camera da letto (1984, 1988) di Bertolucci o di Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, una soggettività fondata sulla forma tradizionale della poesia dell’io panopticon. Ogni forma poetica adotta un determinato paradigma della soggettività, quello che consente una migliore omogeneizzazione,  rebus sic stanti bus, delle linee di forza stilistiche di un campo di forze storiche.

In fin dei conti, il «polittico» è un metodo di sovra impressione di segni su un pre-testo che sta dietro il testo visibile. Nella forma-polittico tende a scomparire l’io panopticon, l’io plenipotenziario che governa il logos. Il «polittico» è un sistema di segni che, per apparire, non deve essere affatto visibile. Il trucco c’è ma non deve essere visibile, in tal modo appare alla luce della visibilità come un fenomeno naturale.

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), il poeta francese indica la necessità di impiegare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo super Sapiens.

Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» del poetico, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» (Agamben) ad economia globale; è una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica poetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte, paradossalmente e in modo auto contraddittorio, impegnata, una poiesis della polis per la polis.

La globalizzazione è un processo ancipite e auto contraddittorio in cui agiscono vettori e linee di forza divergenti: non vi è soltanto sconfinamento e apertura al «globo», ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile se si prescinde dalle conflittualità delle forze estetiche: le consonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse operazioni complesse. Non esiste, in questo senso una «poesia europea» in sé, se non  come una poesia che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova unicamente nell’orbita patriottica: dalle Alpi al mare Jonio, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla forma-poesia.

Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardi. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dis-mettere per ri-fondare una nuova Ragione del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico. Oggi è urgente riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

Scrive Giacomo Marramao:
«Sono ancora convinto che il nocciolo duro della concettualizzazione del nostro presente, un presente in cui il tempo-del-mondo sembra essere interamente risucchiato nelle logiche non-euclidee dello spazio globale, rimanga, oggi più di ieri, quello della secolarizzazione. Ma è una categoria che va assunta in un senso radicalmente diverso tanto dalla versione unilineare quanto dalla versione dialettica: essa può funzionare come criterio per evidenziare la compresenza, a un tempo non-lineare e adialettica, delle analogie e differenze, delle congiunzioni e delle disgiunzioni, delle convergenze e dei contrasti, in breve della “sincronia dell’asincronico” che caratterizza la logica e la struttura della modernità-mondo. Muovendo da questo sfondo, penso si possa provare a elaborare un concetto, per usare l’espressione di Bataille, “a-teologico” del politico: su questo e altri aspetti sto scrivendo un libretto per Bollati Boringhieri, nel quale intendo dedicare una parte alla teologia politica e discutere criticamente temi di Esposito e Cacciari. La mia idea è che un’effettiva e radicale secolarizzazione del politico debba essere operata non in senso anti-teologico ma a-teologico: l’anti-teologico è un momento in tutto e per tutto interno al paradigma teologico. Almeno su questo punto, non si può dar torto ad Heidegger: il rovescio di una posizione metafisica resta una posizione metafisica. Ma qui si pone un grande punto interrogativo rispetto alla stessa operazione benjaminiana, alla quale mi sento molto legato per tanti aspetti. Dovremmo forse cominciarea d ammettere che quello benjaminiano è rimasto necessariamente un programma abbozzato, che rischia di sfociare in un pericoloso cortocircuito fra due dimensioni concettualmente e simbolicamente differenti, se non addirittura divergenti: il nesso ‘energetico’ tra il politico e il messianico, ela relazione ‘costitutiva’ tra il politico e il teologico. Si potrebbe a questo punto aggiungere, per inciso, che forse proprio questa incompiutezza carica di suggestioni può gettar luce sul fatto che la resa di conti filosofica con Heidegger sia rimasta in sospeso: malgrado l’appunto in cui si afferma lanecessità di “distruggere” la filosofia heideggeriana, Benjamin non ci dà una chiave per farlo. Per questo, pur facendo tesoro dei suoi straordinari spunti, sui quali non cessiamo di ritornare, si tratta ora di andare oltre. La vera posta in gioco del dualismo occidentale di immanenza e trascendenza consiste in una semplice e drastica formula: secolarizzare la stessa categoria di secolarizzazione».1
1 https://www.academia.edu/9199181/La_differenza_italiana._Filosofi_e_nellItalia_di_oggi_XV_2014_II_?email_work_card=thumbnail

Francesco Paolo Intini

19 dicembre 2019 alle 9:01

A-tomismo

L’intercapedine non si fece attendere.

Un io senza io sventolò lenzuola
e disse che il balcone ci sarebbe stato.

Passavano di sotto,
avrebbe preferito lisciarsi le unghie

Ma ognuno aveva un catena al collo
Le falangi di marmo sul volante

Il flusso in cui affoga il rosso.
L’auto portavoce del verde.

Un rosicchiare e passare indisturbati
per poi organizzare ossa e carne.

Fu salvo da ogni colpa, libero di andarsene
Sbattendo lunghe pinne contro i muri

L’equazione sovrasta le antenne:
tornano nel conto i fili dei pianeti.

Colpi di cemento completano i denti.
Ma poi sorridono guardando lo specchietto.

Se una banca soffoca
un ragno succhia il cuore.

Troppe mischie intorno agli uffici.

Se cola sangue da una crepa
l’ascensore chiede di allargare la sua vena.

Un gruzzolo di numeri guasti
Fa bene all’esattezza dell’oracolo.

Nelle banche depositano i semi
Nascono fichi dalle casseforti

Passano il tunnel sotto il muro
Linea di potenziale in cui scorre il calcare

Poi d’improvviso il vuoto riempie il centro città
Un mucchio di protoni confusi sui segni.

Ruotano gambe scopando orme.
Di fronte la statua di Albanese, martire 1799.

I simboli s’affaticano.

Ergono muri intorno Stalingrado.
Chi le gira attorno sa che non resisterà.

Alesia e Vercingetorige
Bufere di voci, scatenamenti d’incubi.

Il vaticinio scorre il futuro con cavalli di ghiaccio
Si rumina senza abomaso si violenta senza uomo.

Puntò Serse le sue meduse. Toccare di tentacoli
E freddare la gazza nel nido.

In fondo anche Cesare non è mai esistito
Soltanto cellule su una scacchiera

Lewis di polmone e calcolo combinatorio.
Folte schiere nelle trincee senza inizio fine.

….

Alla previsione mancò l’ estate.
Doveva essere vento e mandorlo caldo

Successero Giga con le piume di chioccia
e uova infeconde.

Mezzogiorno mise il sole
in una buca di golf.

Palline in orario
si rincorrevano su un tavolo verde.

Nacquero vecchi col secolo in polmone.

Elettroni rifiutarono la carica
nuclei sostituiti da alveari morti.

La dipendenza dal carbonio
sconfitta per sempre.

Il tritolo aveva scelto dicembre
per competere con il DNA.

Il cupo chiuso di una borsa

Polvere brucherà l’ erba.
Mischia di aggettivi al ferro.

Percentuali esatte navigarono l’Europa.
E dunque nessun testimone oserà cantare.

L’enfasi trasformata in orbitale.
Ogni nascita di Stukas un canto gregoriano.

I vichinghi sbarcarono nel 2020
preceduti da un uragano di nero.

Percorreranno il Volga, cercando ere.
Caricavano bottini e violentavano la Russia.

Bocche e vaticini da prendere agli uncini.
Arrotolarono l’asfalto e ne sparsero il seme.

La vista impedita dai globi.
Nel cavo d’occhi la visione.

D’ora in poi nittitanti senza palpebre
E martellarsi di chiodi nell’ acciaio.

Etica temperata da Efialte.
Finestre obbedienti a un algoritmo.

Giuseppe Talìa
19 dicembre 2019 alle 13:34

Trovo gli aforismi-polittico di Francesco Paolo Intini interessantissimi: ossimori, sinestesie, non-sense, metafore, iperbole… Una vasta e ricca gamma di figure e di bersagli centrati in pieno. Un ottimo esempio di poesia apofantica.

La poesia di Francesca Dono mi ha fatto pensare alla sceneggiata napoletana, Isso, issa e ‘o malamente, dove il personaggio del ‘o malamente è dio che nella sua onniscienza non riesce a soccorrere Lilith, la donna che divide le crepe dal deserto, dai molluschi, dall’uccello strappato che sembra immobile rispetto al movimento della montagna in una sinestesia psicologica che pervade l’intero testo dove gli stimoli sensoriali non sono distinti ma concomitanti: che dio non sappia di bings maps?
Ci sarebbe tanto altro da dire su questo testo liturgico.
Alfonso Cataldi, invece, ci conduce da una aspettativa (intenzioni pre-matrimoniali) ad una realtà molto diversa da quella che ci si aspettava: il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozzago (la poiana), passando tra parole in decantazione, equilibri “sulla trave” e “calce che bolle.” Un pezzo di vita un resoconto tra un ideale e un quotidiano.
Tosi, sceglie, ironicamente “parole d’amore” per “alzare insieme la tapparella”, in uno scambio continuo, un mashup di domande che tolto il punto interrogativo potrebbero benissimo essere delle semplici constatazioni.
In definitiva, tra i quattro, Dono e Cataldi parlano di sé stessi, Mayor e Talìa parlano di altro (?). Da notare, nella poesia a quattro mani, “gli autoreggenti di pizzo…” Chissà quale delle quattro mani, o meglio, “Chi delle quattro mani?”

Carlo Livia

Carlo Livia Immagine 12
Carlo Livia Immagine 11Carlo Livia Immagine 919 dicembre 2019 alle 11:10

Vorrei esprimere la mia sincera ammirazione alla ignita tensione decostruttiva e alla violenza centrifuga e allucinatoria che percorre e organizza, in un codice sommerso, inafferabile, i testi di Cataldi. Ma , se mi è permesso, forse sarebbe necessario un elemento organizzativo, equilibrante, che funga da centro di attrazione e coesione di sintagmi, icone oniriche e frammenti narrativi, che personalmente vedo come un’energia emozionale, aggregante, effusiva di una sorta di logos metarealistico e visionario. In Cataldi questo filo conduttore, forse, si interrompe troppo frequentemente.

Tempo di raccolta

I sessi scuri pregano, indifferenti alla tempesta di bambole.

La gentilezza delle chitarre forma un toro rosa, che illumina la malattia sopra la cattedrale.

Signore, tu hai divorato con noi l’agnello, ora immobile contempli gli universi, i millenni morti.

La sorgente impazzita esporta profeti dilaniati, il nero delle loro anime scende e riempie l’offerta, l’attesa. Nella pausa piena di morti.

Il tuono soffice si schianta nell’alcova, sugli spigoli biondi della dea, in fondo al peccato.

L’amplesso precipita verso l’alto, nell’aria densa di pianoforti a coda.

Io sono l’unico portale senza uscita, la stanza verde mi sogna nell’Eden appena risorto. Un giocattolo gettato via dalla principessa.

Hai troppi desideri, troppi tentacoli – dice il dio vagante nelle praterie – hai la malattia immortale, la stella fissa, l’incendio nel duomo.

Entro nella stanza retrostante. Un intero secolo in rovina. C’è solo la donna- serpente, che si trucca davanti allo specchio. Mi ordina di fermare i risorti.

Cerco il pensiero per spegnere l’incendio. E’ un sogno di lampi immobili, in fila per il bacio di geranio. Della sovrana infedele, che muore sorretta dai suoi celibi.

Il vagone viaggia verso l’Eterno. Ma è fermo in una giungla di metallo. Belve dementi bevono la lacrima immensa. Che è stata Dio.

La sposa-bambina mostra l’ultimo istante. Un macigno di delizie, spesso viola. Lo usano i muri pazzi, per diventare cieli.

Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2019 alle 15:47

Mi sembra che le superfetazioni poetiche di Alfonso Cataldi, Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Paola Renzetti e altri di questa pagina dell’Ombra vadano nella direzione di uno smontaggio dis-articolazione della struttura predicativa e del linguaggio sintattico unilineare. Finalmente, la poesia della nuova ontologia estetica è diventata adulta, si è lasciata alle spalle la struttura predicativa classica: soggetto-predicato-complemento oggetto, per sostituirla con una struttura non-predicativa. È stata sufficiente questa presa di possesso del cardine della nuova poetica per liberare le energie poetiche come un vaso di Pandora.

Scrive Emanuele Severino:
«l’aporia sorge perché dopo aver detto che il significato in un contesto diverso non è più lo stesso, si ripropone a proposito di questo significato la situazione di isolamento che gli conveniva con l’insorgere dell’aporia».

La tautologia è il segreto del linguaggio: dire l’identico in modi sempre diversi. È da qui che ha origine il linguaggio. La tautologia crea la differenza e quest’ultima ripropone la tautologia. La struttura originaria parla il linguaggio della tautologia.

Non posso che complimentarmi con tutti i protagonisti di questa pagina, sono convinto che stiamo scrivendo tutti insieme una nuova pagina della poesia italiana ed europea.

«Entro nella stanza retrostante. Un intero secolo in rovina. C’è solo la donna- serpente, che si trucca davanti allo specchio. Mi ordina di fermare i risorti.»

Questo distico di Carlo Livia, da solo è sufficiente per cancellare migliaia di pagine di pseudo poesia che circola in Italia. È un colpo di scopa che spazza via tutta la pseudo poesia di questi ultimi decenni.

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L’iper-moderno ha posto fine al post-moderno. Si aprono scenari nuovi. La Nuova Ontologia Estetica è un attore centrale di questi nuovi scenari. Poesie di Mario M. Gabriele, La de-fondamentalizzazione del soggetto e del linguaggio, Riflessioni di Gianni Vattimo, Martin Heidegger, Paolo Tamassia, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Foto new-york-2

New York

Mario M. Gabriele

[da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-11/?doing_wp_cron=1575393061.6615409851074218750000#comment-230%5D

Parliamo di rado, e poche volte usciamo all’aperto.
In cima ad un albero aspetta Il pettirosso.

Mancano i poeti della Quinta Strada
nell’Indice dei Nomi.

Così pure Marianne Moore
e Merrill James.

Tre operai arano la terra
per un nuovo Comandamento.

Rimani nel sotterfugio così diremo a tutti
che vivi nell’Emisfero australe.

Parliamo a ritroso con la prima domenica d’Aprile
quando aspettiamo le rondini sul davanzale.

Dory, sorride tutte le volte che legge
“Carne e Sangue” di Michael Cunningham.

Mi accorgo solo ora che ciò che conservo
diventa ossetto di Tutankamon.

-Non puoi essere sempre una governante borghese
perché hai buone maniere con l’uomo e la cicala.

Una strizzata d’occhio ai versi di John Ashbery
non te la toglie nessuno.

Il deserto porta dubbi.Quando mi toglierai il ghiblì di dosso?
Quando aprirò il mio supermarket di gigli e primeroses?

Giorgio Linguaglossa

Interrogazioni metafisiche

Un Avatar al Campo Boario ingoia soltanto
monete da 2 euro
La Bocca della Verità ha sputato 2 neonati giapponesi
con tutta la carrozzella

È accaduto che Miss Italia si è presentata al Colosseo
in mezzo ai fotografi e ai paparazzi con il grembiale à pois
ma sotto era nuda
insinuarono gli apostoli del beato Placido Ricciardi
interrompendo il digiuno dell’eucarestia

I 5Stelle hanno presentato una interrogazione parlamentare
al governo Draghi:

All’autogrill di Fiano romano una giraffa si reca al bar
sale sul cavallo a dondolo
il cameriere porta su un vassoio una porzione di camembert
e un crodino
il cavallo a dondolo si mette il rossetto
dice che è l’ippogrifo e che ha un appuntamento con l’Ariosto
che, per gelosia, lo ha spedito sulla luna

Un sommozzatore col paracadute a stelle e strisce
atterra a piazza San Pietro
e qui inghiottisce una spremuta di lampioni
(però sbaglia la parola, voleva dire lamponi)
il carabiniere in sidecar scende dalla moto
e beve un succo di mirtilli

Raffaella Carrà litiga con il dentifricio Colgate
perché si è invaghita di Mentadent white
così, sale sul cavallo a dondolo
che è ancora seduto alla toletta e uccide il sommozzatore
in preda ad un terribile mal di stomaco

*

I palombari a cavallo usciti da un romanzo di Calvino
hanno preso il Bus 23
all’altezza della chiesa di San Paolo in via Ostiense
e sono scesi alla fermata della Garbatella

dove stazionava un gruppo di fiammiferi svedesi
che iniziò a litigare con uno stuzzicadenti
«Cave canem!»
esclamò un ippopotamo
appena uscito da un uovo di Pasqua

Proviamo a pensare all’evento non visibile della linguisticità a partire dall’Evento linguistico

Mi sembra che le poesie postate e riflettano bene la grandissima variabilità e possibilità di espressione  presente nei  poeti kitchen. Che cosa significa? Significa che cercare in una direzione non equivale ad avere tutti le medesime idee circa quella direzione. Quindi, nessun Modello maggioritario, nessun Canone impositivo, nessuna Scuola, nessun Monolite.

Proviamo a pensare alla poesia non a partire dall’io ma a partire dall’evento di una esperienza, di una cosa. Proviamo a guardare quella palla di vetro opaca e arrugginita che è il soggetto con gli occhi dell’Evento, e tutto ci apparirà chiarissimo: la poesia dell’io è una commoditas, una convenzione… per lo più mediante essa si accede ad un linguaggio reificato, cosificato, comunicazionale.

Poesia è Evento.

È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.

Proviamo a pensare all’evento non visibile della linguisticità a partire dall’Evento linguistico. E tutto ci apparirà chiaro.

La de-fondamentalizzazione del soggetto e del linguaggio nelle poesie kitchen mi sembra che colga il bersaglio. Non è illogico quel linguaggio, è illogico e supponente l’io che vuole ricomprendere ed esprimere tutto a partire da una convenzione linguistica, questo pregiudizio non può che condurre ad un linguaggio convenzionale e comunicazionale. Essenziale quindi è riuscire ad estraniarsi da se stessi ed estraniarsi dal linguaggio cosificato che ci è dato dalla comunicazione.

Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso. Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione narrante. È perfino ovvio che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria sua legislazione interna. Il concetto di «contemporaneità», come il concetto del «nuovo», è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è l’unica situazione immodificabile dalla quale bisogna ripartire. Ricominciare a pensare in termini di Discorso poetico significa porre stabilmente il Discorso poetico entro le coordinate della sua collocazione post-moderna.

Scrive Gianni Vattimo:

«si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 1]

Possiamo affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è diventata problematica. In questa direzione di ricerca mi sembra che la poesia di Francesco Paolo Intini sia lapidaria in proposito:

«… l’ipermoderno. Fa uso di norma di un tempo reversibile che modifica il passato fino a falsificarlo e muove i fenomeni in senso inverso per cui l’entropia non esiste.
E dunque non c’è nulla da comunicare, nessuna lezione da impartire, nemmeno un palcoscenico da commuovere o da coinvolgere o qualcosa che assomigli alla ricerca di un premio, una rivincita, una prestazione dell’Io.
La poesia si svincola dall’etica. Diventa un movimento impossibile da gestire, da finire.»

L’iper-moderno ha posto fine al post-moderno.

Si aprono scenari nuovi. La NOE (nuova ontologia estetica) è un attore centrale di questi nuovi scenari. Condivido quindi con Intini che non c’è «nessuna lezione da impartire, nemmeno un palcoscenico da commuovere o da coinvolgere o qualcosa che assomigli alla ricerca di un premio, una rivincita, una prestazione dell’Io». La poesia di Mario Lunetta in questo senso ci è lontana, però non estranea, non la sua lezione e il suo magistero, il poeta di via Accademia Platonica (Mario Lunetta) pensava ancora nei termini della ontologia estetica del novecento: poesia come opposizione e rigetto della poesia elegiaca imperniata sull’io per un soggetto forte, per la riproposizione di una soggettività ben attrezzata all’opposizione. Continua a leggere

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Marie Laure Colasson, poesie inedite da Elle fumait un demon vert, con una Glossa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Abstract_gris

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea

Marie Laure Colasson

dedico questa mia poesia ad Ágota Kristóf dalla mia raccolta inedita

En chute libre

14.

Eredia regard mélancolique
le balcon du deuxième étage
un amour réduit en cendres

Dante et Delacroix jouant aux échecs
se partagent l’enfer

Les chaises encordées
dans leur chute l’une après l’autre
remontent la pente

Akram Khan gestes saccadés insecte prisonnier prodigieuse toupie
immersion dans des méandres inextricables

La pluie en trombes
des annelides grouillant sur la pierre

La Contesse Bellocchio
villa palladienne
entourée de jeunes artistes
laisse tomber bagues et diamants

Sébastien tout habillé chapeau melon
sort de l’eau en tumulte
Elisa portable à la main photo et fou rire

*

Eredia sguardo malinconico
il balcone del secondo piano
un amore ridotto in cenere

Dante e Delacroix giocano a scacchi
si dividono l’inferno

Le sedie legate con la corda
nella loro caduta l’una dopo l’altra
risalgono la china

Akram Khan gesti a scatti insetto prigioniero prodigiosa trottola
immersione dentro meandri inestricabili

La pioggia battente
anellidi brulicanti sulla pietra

La Contessa Bellocchio
villa palladiana
circondata di giovani artisti
lascia cadere anelli e diamanti

Sebastiano tutto vestito bombetta
esce dall’acqua in tumulto
Elisa cellulare in mano foto e risata a crepapelle

Marie Laure Colasson Abstract_13

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

15.

Eredia
tête océanique aux écoutes
erratiquement persécutée
misophonie

Découpage collage papiers savoureux
” oublions les choses ne considérons que les rapports ”
Braque révolution artistique

Après – guerre en Russie
Lya la grande gigue du front
étouffe Pachka enfant
séquelles de traumatismes d’ exactions

Zaza dans son lit
nicopactch sur la fesse rêve d’une course effrénée
sort du lit course effrénée dans le vide
contre la penderie son visage fracassé

Petit fauteuil Louis 16
velours grenat boiseries blanches
étroite assise pour un arrière train volumineux

Biarritz G 7
tour d’ivoire des foutus politiques
manifestations manifestations
………manifestations

Miso Misein misandre
délaissée isolement revanche

Un toit d’ardoises
deux pigeons ramiers au ventre rose
roucoulements battements d’ailes

Abrahim pleure
dans les sables mouvants de son oreiller

*

Eredia
testa oceanica in ascolto
erraticamente perseguitata
misofonia

Découpage collage carte saporite
“dimentichiamo le cose
consideriamo soltanto i rapporti”
Braque rivoluzione artistica

Dopo guerra in Russia
Lya la spilungona del fronte
soffoca Pachka bambino
sequele di traumatismi di atrocità

Zaza nel suo letto
nicopatch sulla chiappa sogna una corsa sfrenata
si alza dal letto corsa sfrenata nel vuoto
contro l’armadio il suo volto fracassato

Poltroncina Luigi XVI
velluto granata boiserie blanche
seduta stretta per un sedere voluminoso

Biarritz G 7
torre d’avorio dei fottuti politici
manifestazioni manifestazioni manifestazioni

Miso… Misein… misandria
trascurata isolamento rivincita

Un tetto di ardesia
due colombacci dal ventre rosa
tubare battiti d’ali

Abrahim piange
nelle sabbie mobili del suo cuscino

Marie Laure Colasson Abstract_2

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

17.

Perles en boucles d’oreilles en colliers
ruban dans les cheveux un large chapeau rouge
habits ornés d’hermine
billets doux lèvres entrouvertes
futilités terrestres les femmes de Vermeer

Bancs pelouses l’une dessine l’autre écrit
jardin du Luxembourg

Caste vulnérable
tout juste onze ans jeune fille indienne sans dote
soumise à une cerémonie nuptiale avec la divinité

Elisa ses guerriers de passage très sage
“le temp perdu ne se rattrape plus”

De branche en branche moineaux sautillants
un numero d’équilibre

Construction de l’espace des formes des couleurs
pur élixir artisanal
le reste du monde annulé

*

Perle orecchini collane
nastri nei capelli un largo cappello rosso
vestiti ornati d’ermellino
biglietti d’amore labbra socchiuse
futilità terrestre le donne di Vermeer

Panchine prati l’una disegna l’altra scrive
jardin du Luxembourg

Casta vulnerabile
undici anni ragazza indiana senza dote
costretta a una cerimonia nuziale con la divinità

Elisa e i suoi guerrieri di passaggio molto saggia
“il tempo perso non si riacciuffa più”

Di ramo in ramo passerotti saltellanti
un numero da equilibrista

Costruzione dello spazio delle forme dei colori
puro elisir artigianale
cancellato il resto del mondo

Marie Laure Colasson Abstract_11

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

18.

Les yeux fouillaient et farfouillaient
de droite à gauche
de gauche à droite
une mobilité affollante

Un jour la nuit
le tourbillont de Gustav Malher symphonie n° 1 “Le Titan”
sous les feux de la scène elle danse
elle danse à l’unisson elle danse
présence magnétique

La chaleur a flétri le bouquet de freesia
il n’en reste que la fragrance souvenir parfumé

Répétitions
calcul du temps pour changements de costumes
Rita bombarde les danseuses avec sa Nikon
la saine sueur du corps et de l’esprit en éveil… combat

Allongée la tête bandée les bras sanglés
sous appareillage clignotant de différentes couleurs
elle gémit… mourir sous torture… civilization

*

I suoi occhi frugavano e rovistavano
da destra a sinistra
da sinistra a destra
una mobilità spaventosa

Un giorno la notte
il turbine di Gustav Malher sinfonia n° uno “Il Titano”
sotto i fuochi della scena lei balla
lei balla all’unisono lei balla
presenza magnetica

Il caldo ha fatto appassire il mazzo di fresie
non ne resta che la fragranza ricordo profumato

Ripetizioni
calcolo del tempo per i cambi di costumi
Rita bombarda le ballerine con la sua Nikon
il sano sudore del corpo e dello spirito in allerta… combattimento

Sdraiata la testa fasciata le braccia allacciate
sotto un macchinario lampeggiante di vari colori
geme… morire sotto tortura… civilizzazione

[Trad. di M.L. Colasson e G. Linguaglossa]

Marie Laure Colasson Abstract_11

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Scrive Adorno in Teoria estetica: «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».

E Marie Laure Colasson :

“ oublions les choses ne considérons que les rapports ”.

Il senso di questa poesia lo si coglie se si pensa il «polittico» non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e fluttuante ma come un essere poliedrico che solo il discorso poetico può intuire, percepire e cogliere. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliniana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura in senso ontologico come un esercizio dell’abitare il mondo mediante il quale è possibile costruire e narrare un’identità fondata sul senso dell’appartenenza alla terra, al fine di corrispondere alla domanda sul senso del mondo e su noi stessi che ci troviamo nel mondo. Il «progetto poetico» (dichtende) della verità, che si pone in opera, non avviene nel vago e nell’indistinto, ma si svolge per l’umanità storica, nell’apertura di ciò in cui l’Esserci è di già gettato in quanto storico, e quindi un mondo di relazioni, vale a dire la terra e per un popolo storico la sua terra.
La terra per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso, che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente», talché la produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1

Il soggettivismo moderno ha frainteso l’idea di creatività, perché l’ha intesa come l’atto di genio di un «soggetto sovrano», mentre, al contrario, «l’instaurazione della verità è instaurazione non solo nel senso di libera donazione, ma anche nel senso di fondamento che fonda».

L’orientamento della nuova poesia e del nuovo romanzo è antisoggettivistico, e la «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione ontologica di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il «polittico» come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità, compossibilità di contraddittorietà. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento. Scrive Walter Benjamin:

«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente
temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2

La forma-poesia prescelta è il «polittico», così anche nella sua pittura la Colasson segue la forma-astratta come collegamento inferenziale delle cose, che è il luogo dove abitare in modo spaesante i linguaggi figurativo e poetico. Nei suoi «polittici» Marie Laure Colasson entra da subito nelle linee interne delle cose, illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo del nostro mondo, il quale si dà, lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fonosimbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico cessa di essere un discorso identitario di una identità e diventa discorso plurale della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.

1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
2 2 W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

Marie Laure Colasson Libri in volo

Marie Laure Colasson, La chute

Lao Tzu scrive:

«La via è vuota, ma usandola, non si riempie».

C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano.

In tal modo, la poesia eleva alla estrema potenza il linguaggio: nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto.

Ma sovrano assoluto che regna in modo assoluto sulla soggettività, sull’io. Soltanto quando l’io si fa da parte, quando si depotenzia, la poesia può esercitare il suo potere dispositivo sulle parole.
Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa.

In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz o di Ágota Kristóf fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica). Entra da subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come essere nel mondo.

La linea interna delle cose è ben più importante della linea esterna di esse.

Penso che Ágota Kristóf sia riuscita in modo mirabile nel duplice compito di estraniarsi da se stessa e di estraniarsi dalla propria lingua adottando una lingua straniera, il francese, e scrivendo in quella lingua straniera. Possiamo dire che anche Marie Laure Colasson ha adottato il francese in modo straniante, è tornata al francese di ritorno dall’italiano, il che è un modo tutto particolare di stare nella propria lingua madre.
È un lavoro su se stessi che consiglio a tutti gli aspiranti poeti, migliaia e decine di migliaia, ma lo consiglio in specie ai poeti laureati i quali credono di scrivere nella loro bella lingua, quando invece la lingua fugge a gambe levate dalle loro persone.

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Una poesia inedita di Mario Gabriele. Perché un poeta di oggi non può non essere sempre a contatto con l’immondizia, Poesie di Marina Petrillo, Tomas Tranströmer, «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Inedito di Mario M. Gabriele

 posted on novembre 3, 2019 by mariomgabriele da altervista.org

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019

La nebbia aprì squarci.
Il dubbio era se il mese più corto dell’anno
avesse altre vendette.

Una solitaria tristezza prese la strada più lunga,
senza pigolii d’uccelli allo sbaraglio.

Fu un’antologia di chimismi lirici a portarci in ecstasy.
In nessun porto approdò l’hovercraft.

Ci fu al Berlitz World un memorial day
con uno spartito di Liszt dell’Accademia di Santa Cecilia.

Ogni argine è un approdo di pensieri.
Il jet lag finì con la melatonina.

Un barcaiolo aprì un varco
alle colombe in lutto.

A volte ci si incontra con i vecchi amici.
Qualcuno prepara piani di lettura.

-Per favore, sediamoci
ad ascoltare il Prefatore di questa sera!.-

-Cari signori,
vi parlo di un prologo e di un frammento,
senza leggere i capitoli su Diana Ross.-

Potrebbe essere, il doberman, questa volta,
a trovare il Santo Graal.

Ma non è stato Pietro da Sant’Albano
a citare:’Historia fratris Dulcini Heresiarche”?

Wall Street mi attrae più di New York
e della tomba di Marilyn.

Che ne dici di rifare le scorsaline
per la prossima estate?

Le orchidee sono sempre tristi
come le musiche di Regondi e Pujol.

Abbiamo dovuto bere il latte
per tornare all’infanzia.

Oggi le Gamma GT- (S/U)
sono andate al di là di ogni Off Limits.

L’uragano ha lasciato le strade deserte
e i marciapiedi divelti.

Dalla finestra all’ultimo piano fino all’Eurospin
c’è una distanza dove Jenny naviga a vista.

roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella in una strada di Roma

La grande bellezza, fotogramma del fil di Paolo Sorrentino

Giorgio Linguaglossa

Perché un poeta di oggi non può non essere sempre a contatto con l’immondizia

Provate a leggere questa poesia-polittico con la radio o il televisore accesi. Provate a leggerla in mezzo ai rumori del traffico qui di Roma, quando siete sull’autobus o nel taxi, o in mezzo ai rumori dei talk show della schermaglia politica. Allora capirete perfettamente cosa vuol dirci questa poesia, che è tutto rumore, rumore di sillabe e fonemi, di significati e significanti andati in disuso; le parole di Zanzotto mischiate a quelle di Salvini, le parole di Maria Rosaria Madonna mescolate con quelle di Di Maio o dell’ultima soubrette. Leggete bene. E penserete bene.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/17/mario-gabriele-poesie-scelte-da-in-viaggio-con-godot-progetto-cultura-2017-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/

Forse la poesia ha questo di buono, che di fronte allo stile delle notizie del TG con cui vengono scritti i libri di poesia oggidì, un distico di Mario Gabriele lo individueresti in mezzo a un milione di parole delle poesie che si scrivono oggi. Certo, penso che scrivere un distico come quello sotto riportato implica aver fatto un lungo viaggio dentro se stessi, essersi allontanato dall’io, anzi, averlo fatto sloggiare dal Sé, averlo sfrattato. Tutto quello che rimane dopo questo lunghissimo lavoro di sfratto, è la poesia. Ciò che resta è poesia. Ciò che resta è l’immondizia della nostra civiltà.

Perché un poeta è sempre a contatto con l’immondizia, con i rifiuti, con le discariche delle parole abbandonate come lattine di birra vuote. Un poeta, lo ripeto, può fabbricare le sue costruzioni soltanto con i materiali di risulta, con la spazzatura. Pensate un po’ quanta crudezza e oggettività si cela e si svela in questo distico, che è espresso nella forma di ammonimento ad una persona X, certa Dolin: che ricordarsi di te «è stato sfogliare un album/ con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing». Forse si tratta di un distico d’amore, come si può amare oggidì nel nostro mondo, dove prima di amare si fa il calcolo del dare e dell’avere, di prendere e lasciare prima che arrivi il controllore o il cameriere con il conto da pagare dopo aver sbafato. Penso che Mario Gabriele non abbia mai scritto una poesia d’amore. Penso che non ne sia capace, l’amore esula dalle sue possibilità espressive, e anche dalla sua volontà.

Penso che mettere a confronto una poesia di Mario Gabriele con una di Paul Muldoon sia un esercizio utile. Quella di Muldoon è una poesia della vecchia ontologia estetica che commisura il conto da pagare con la quantità di cibo ingurgitato, quella di Mario Gabriele non fa calcoli di convenienza o di proporzionalità, lui scrive i suoi distici come si inanellano pensieri scurrili e cordiali ad un tempo, sordidi e derisori e nostalgici, ma di una nostalgia che giunge dopo un diluvio che non lascia nulla a cui aggrapparsi, ma solo rottami, spezzoni di una vita che fu.

Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.

Mario M. Gabriele

4 novembre 2019 alle 10:05

Condivido ciò che esprimi, caro Giorgio, anche perché i miei distici sono per lo più epigrafi provenienti dall’accumulo di storie catalogate nel Tempo, e le loro immissioni, come struttura portante: sono rinvenibili anche nel polittico, nelle diafanie e disfanie, come tratti specifici della mia esperienza quotidiana.Per questo mi riesce facile concepire una simile struttura sollecitata da te a suo tempo, rispetto alle mie narrazioni.

Sono schegge di storia umana e psichica, dove il tema dell’Amore è quasi inesistente, e laddove è presente con la citazione, è come sfogliare un album, rivitalizzando figure, oggetti, immagini luminose, ologrammi offuscati e ricomposti in carne e ossa,inclusi in un cerchio ridotto.

Ciò non vuol dire che io faccia poesia acrilica, anzi riporto lo spazialismo estetico e umano con un’ottica perforante dove trasferire il vero, senza tradirlo. Grazie del tuo intervento che assemblerò nel tuo Kit critico sulla mia poesia. Continua a leggere

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Chiedo ai lettori: C’è un nesso e qual è se c’è, che lega la nostra odierna forma-di-vita  alla struttura dissipativa e al polittico tipici della nuova ontologia estetica? Uno stralcio da un’opera di Giorgio Agamben, Poesie Letizia Leone, Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Paola Renzetti, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa

Foto smartphone

Che cosa sono le cose? Si chiese Talete di Mileto (Letizia Leone)

Letizia Leone

Due miei inediti da un libro in costruzione:

Che cosa sono le cose? Si chiese Talete di Mileto
e inaugurò il pensiero. Sotto un platano.
Ma la natura non era ancora natura, era Erba.
Verde accecante.

La magnificenza di una rosa nella mano sinistra,
quanta inguaribile superiorità dell’umano.

In cucina è stata crocefissa una gallina.

*

Talete. Già questo fatto del domandare
Là sotto il platano altissimo lo riportò indietro.
Di nuovo povero e scalzo.

Stamattina a tre euro hai comprato una rosa.
Una rosa filosofica.

Per ciò che riguarda la metafora (“una picciola favoletta”) sarebbe utile anche ricordare il pensatore della “Scienza nuova” che sta all’origine dell’estetica moderna, Giambattista Vico, il quale delega alla metafora una funzione generativa del linguaggio ( !) oltre che conoscitiva: “Poiché i primi motivi che fecero parlare l’uomo furono passioni, le sue prime espressioni furono tropi. Il linguaggio figurato fu il primo a nascere, il senso proprio fu trovato per ultimo”.
Tanto che Cassirer considerò il Vico il fondatore della moderna filosofia del linguaggio.
L’uomo primitivo “poeticamente abita” il mondo, lo stare tra le cose del mondo si configura come atto poetico originario, prodotto dalla percezione e dall’immaginazione, da “vivido senso” e “corpolentissima fantasia” per dirla con Vico. Questo atteggiamento mitopoietico, spiegherà la logica poetica del pensiero, la poesia come modo fondamentale del conoscere, una modalità della coscienza…
Qui solo qualche accenno da approfondire data la vastità della questione

Marie Laure Colasson Abstract_gris

Marie Laure Colasson, Abstract, monocolore, La struttura dissipativa

Giorgio Linguaglossa

Penso che la struttura dissipativa e il polittico siano i corrispondenti speculari della nostra odierna forma-di-vita. Leggiamo una pagina di Giorgio Agamben.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/10/21/la-nuova-poesia-la-poesia-come-struttura-dissipativa-sulla-metafora-che-precede-il-linguaggio-sulla-tribalizzazione-della-verita-commenti-vari-una-pagina-di-giorgio-agamben-sulla-forma-di-vita-p/comment-page-1/#comment-59848

Giorgio Agamben

Ho tra le mani il foglio di un giornale francese che pubblica annunci di persone che cercano di incontrare un compagno di vita. La rubrica si chiama, curiosamente, «modi di vita» e contiene, accanto a una fotografia, un breve messaggio che cerca di descrivere attraverso pochi, laconici tratti qualcosa come la forma o, appunto, il modo di vita dell’autore dell’inserzione (e, a volte, anche del suo destinatario ideale).

Sotto la fotografia di una donna seduta al tavolo di un caffè, col volto serio – anzi decisamente malinconico – poggiato sulla mano sinistra, si può leggere: «Parigina, alta, magra, bionda e distinta, sulla cinquantina, vivace, di buona famiglia, sportiva: caccia, pesca, golf, equitazione, sci, amerebbe incontrare uomo serio, spiritoso, sessantina, dello stesso profilo, per vivere insieme giorni felici, Parigi o provincia».

Il ritratto di una giovane bruna che fissa una palla sospesa in aria è accompagnato da questa didascalia:

«Giovane giocoliera, carina, femminile, spirituale, cerca giovane donna 20/30 anni, profilo simile, per fondersi nel punto G!!!». A volte la fotografia vuole dar conto anche dell’occupazione di chi scrive, come quella che mostra una donna che strizza in un secchio uno straccio per pulire i pavimenti: «50 anni, bionda, occhi verdi, 1m60, portiera, divorziata (3 figli, 23, 25 e 29 anni, indipendenti). Fisicamente e moralmente giovane, fascino, voglia di condividere le semplici gioie della vita con compagno amabile 45/55 anni». Altre volte l’elemento decisivo per caratterizzare la forma di vita è la presenza di un animale, che appare in primo piano nella fotografia accanto alla sua padrona:

«Labrador gentile cerca la sua padroncina (36 anni) un padrone dolce appassionato di natura e di animali, per nuotare nella felicità in campagna». Infine il primo piano di un volto su cui una lacrima lascia una traccia di rimmel recita: «Giovane donna, 25 anni, di una sensibilità a fior di pelle, cerca un giovane uomo tenero e spirituale, con cui vivere un romanzo-fiume».

L’elenco potrebbe continuare, ma ciò che ogni volta insieme irrita e commuove è il tentativo – perfettamente riuscito e, nello stesso tempo, irreparabilmente fallito – di comunicare una forma di vita. In che modo, infatti, quel certo volto, quella certa vita potranno coincidere con quel corsivo elenco di hobbies e tratti caratteriali? È come se qualcosa di decisivo – e, per così dire, inequivocabilmente pubblico e politico – fosse sprofondato a tal punto nell’idiozia del privato (corsivo mio), da risultarne per sempre irriconoscibile.

Nel tentativo di definirsi attraverso i propri hobbies emerge alla luce in tutta la sua problematicità la relazione fra la singolarità, i suoi gusti e le sue inclinazioni. L’aspetto più idiosincratico di ciascuno, i suoi gusti, il fatto che gli piaccia così tanto la granita di caffè, il mare d’estate, quella certa forma delle labbra, quel certo odore, ma anche la pittura di Tiziano vecchio – tutto ciò sembra custodire il suo segreto nel modo più impenetrabile e irrisorio.

Occorre sottrarre decisamente i gusti alla dimensione estetica e riscoprire il loro carattere ontologico (corsivo mio), per ritrovare in essi qualcosa come una nuova terra etica. Non si tratta di attributi o proprietà di un soggetto che giudica, ma del modo in cui ciascuno, perdendosi come soggetto, si costituisce come forma-di-vita. Il segreto del gusto è ciò che la forma-di-vita deve sciogliere, ha sempre già sciolto e esibito – come i gesti tradiscono e, insieme, assolvono il carattere.1]

1] G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014, pp. 293-294

[Lucio Mayoor Tosi, Compositions]

Chiedo ai lettori: c’è un nesso e qual è se c’è, che lega la nostra odierna forma-di-vita alla struttura dissipativa e al polittico tipici della nuova ontologia estetica?

È la metafora che fonda il linguaggio. È la Figura che fonda la poesia. È il nome che «chiude» il linguaggio, che lo arresta, perché non si può andare oltre il nome. Il nome è la barriera contro cui si infrange la significazione.

Non ci sono vie di mezzo, non si può essere diplomatici su queste questioni, altrimenti si fa poesia mimetico-neorealistica, poesia memoriale-realistica o sperimentalismo post-moderno.

Marina Petrillo

Irraggiungibile approdo tra diafanie prossime alla perfezione.
Digrada il mare all’estuario del sensibile
tra risacche e arse memorie.

Si muove in orizzonte il trasverso cielo.
Fosse acqua il delirio umano perso ad infranto scoglio…
Sconfinato spazio l’Opera in Sé rivelata.

Conosce traccia del giorno ogni creatura orante
ma antepone al visibilio il profondo alito se, ingoiato ogni silenzio,
ritrae a sdegno di infinito, il brusio della spenta agone.

E’ nuovo inizio, ameno ritorno alla Casa della metamorfosi.
Saprà, in taglio obliquo, se sostare assente o, ad anima convessa,
convertire il corpo degli eventi in scie amebiche.

Un soleggiare lieve, di cui non sempre appare l’ambito raggio.

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera
.
Per struttura dissipativa (o sistema dissipativo) si intende un sistema termodinamicamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia. I sistemi dissipativi sono caratterizzati dalla formazione spontanea di anisotropia, ossia di strutture ordinate e complesse, a volte caotiche. Questi sistemi, quando attraversati da flussi crescenti di energia, materia e informazione, possono anche evolvere e, passando attraverso fasi di instabilità, aumentare la complessità della propria struttura (ovvero l’ordine) diminuendo la propria entropia (neghentropia). 
Il termine “struttura dissipativa” fu coniato dal premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine alla fine degli anni ’60. Il merito di Prigogine fu quello di portare l’attenzione degli scienziati verso il legame tra ordine e dissipazione di entropia, discostando lo sguardo dalle situazioni statiche e di equilibrio, generalmente studiate fino ad allora, e contribuendo in maniera fondamentale alla nascita di quella che oggi viene chiamata epistemologia della complessità. In natura i sistemi termodinamicamente chiusi sono solo un’astrazione o casi particolari, mentre la regola è quella di sistemi termodinamicamente aperti, che scambiano energia, materia e informazione con i sistemi in relazione e, grazie a questo scambio, possono trovarsi in evoluzione.
Fra gli esempi di strutture dissipative si possono includere i cicloni, la reazione chimica di Belousov-Zhabotinskyi, i laser, e – su scala più estesa e complessa – gli ecosistemi e le forme di vita.
Un esempio molto studiato di struttura dissipativa è costituito dalla cosiddette celle di Bénard, strutture che si formano in uno strato sottile di un liquido quando da uno stato di riposo ed equilibrio termodinamico viene riscaldato dal basso con un flusso costante di calore. Raggiunta una soglia critica di temperatura, alla conduzione del calore subentrano dei moti convettivi di molecole che si muovono coerentemente formando delle strutture a celle esagonali (ad “alveare”). Con le parole di Prigogine:[1]
«L’instabilità detta “di Bernard” è un esempio lampante di come l’instabilità di uno stato stazionario dia luogo a un fenomeno di auto-organizzazione spontanea».

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Livio Cinardi, Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci, Poesie di Carlo Livia, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo – Giorgio Linguaglossa, Perché la spazzatura?

Foto monna lisa pop

ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino?

Carlo Livia

… ma perché [parli di] spazzatura e non piuttosto echi celesti, tracce del divino? Perché solo Burri e non Chagall? L’inconscio non è una discarica di materiali rifiutati dall’istanza morale, come credeva Freud, ma semplicemente l’infinito che trascende e alimenta l’io, di cui in sogno afferriamo brandelli, echi, lampi, riflessi. Noi non sogniamo ciò che vogliamo, ma ciò che dobbiamo, e quando ripercorriamo coscientemente il labirinto onirico, siamo pervasi da una libertà smisurata, insostenibile, che coincide con la necessità di dare vita e forma all’emozione che sentiamo all’origine del percorso iconico, che alimenta e orienta l’espressione, dandole concretezza e densità icastica.

Recitare nel nascondiglio

Sono nella quinta rassegnazione, con lo sciame in collera e la testa di sonno.

Lei mi guarda col vassoio pieno di secoli. La vergine irreale e l’istante pazzo che si getta dalla scogliera.

La bestia della provvidenza si dondola dalla vetrina in fiamme, ornata di lunghe psicosi.

Quando cadono, c’è un brivido che unisce i risorti all’erba stregata, gonfia di occhi induriti dai farmaci.

Allora fa buio nel miracolo, e chi crede di esistere entra nell’omicidio dell’acqua santa.

La prigione allucinogena fugge dalla madre triste. È un esilio in sol minore, biondissimo. Cresce dall’umido della sposa.

Respiro il sax del mostro verde, morto alle fanciulle. Le antiche vaniglie non mi lasciano risorgere.

È solo uno specchio, altissimo e confuso – dicono.

Giuseppe Talìa

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse
Personale. Il vulnus della legge lo trovi in ogni supermercato

nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli
e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato
in…

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.
Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

È il sottovuoto il vero problema. È l’involucro il vero esantema.
Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;
diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica
e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati
fanno da colonna sonora ai gladiatori che sono degli influencer
di fama.

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia
alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;

Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart,
un pomp rock.

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla,
ma si può condire.

Marina Petrillo

Si accende in distonia celeste,
pira di combusta legna arsa in epoca remota.

Indugia ogni terra a varcare la sua soglia se, a seme inverso, oblitera i sensi.
Siamo forse giunti in estremo limite.

Essere o naufragare.
Traccia di linea assente il buio nel miracolo.

Deve aver lasciato tracce troppo lievi per affondare sulla neve.
Le sillabe stropicciano al sole e la dimora sussulta il giudizio finale.

Del proprio abito rinviene l’antica forma sino a tacitare l’inascoltato suono.
Era vento o acqua a giacere tra rovi e rose…

Trascorso in attimo, la luce rifrange l’esilio.
Devoto fiore sospeso tra nembi dal cui nitore erge capo l’indicibile.

Fummo elementi del Tutto, a lui affini,
poi in dimenticanza sorse un idioma a cui porgemmo inchino.

Poeta, la cui vacuità declama versi.
“Anima lucente che doni spazi di umide stelle, o luna, in antico candore involta.

Linea di perfezione cosmica, sede di intelletto,
ove Astolfo sostò per Orlando, pazzo d’amore.

S’io fossi in altro tempo viva, di te, o dea, stupirei i contorni
di fasi e inclinati assi.

Coglierei erbe mediche e studierei il tuo profilo di madre.
Poiché questo tu sei.”

Scrivo, carissimo Carlo Livia, dall’ultimo sogno mai giunto a destinazione. Dai minuti negati che in silenzio creano una piccola ombra. Scrivo in dolce sintassi mentre il cuore piange un ricordo svanito.
Esilio la parola, Giorgio, ove sostare. Combustione. Etere. La ferita del tempo nel ventoso orizzonte degli eventi ove tutto converge: scorie, lamine d’oro e zolle di terra, lamentazioni agli dei. Umano in assenza di tempo, Virtuoso neologismo dal cui sconfitto fronte, nasce rugiada.

Giorgio Linguaglossa

caro Carlo Livia,

è che noi viviamo in mezzo alla spazzatura ogni istante del nostro giorno: lessico salviniano, parole prossime alla betoniera, parole del museo delle discariche, parole dei cartelloni pubblicitari quali sono Istagram, Twitter e Facebook et similia… come possiamo pensare di avere a che fare con degli «echi celesti»?

Il polittico, nel quale siamo impegnati tutti noi, chi più chi meno, è la frontiera più avanzata di una poesia difficile, sempre più problematica, ma il polittico presuppone una grandissima distanza tra il sé e l’ego, presuppone una Gelassenheit dalle cose e alle cose, un rivolgimento del piano del quotidiano. So che queste mie osservazioni ti sono familiari, anche la tua poesia è protesa verso quest’obiettivo, ma è difficile, oltremodo problematico avanzare lungo queste frontiera, occorrono lunghissimi sforzi, reiterati tentativi. Costruire un polittico non lo si può fare con il semplice ausilio di una tecnica versificatoria come quella che vediamo spesso impiegata oggi nella poesia epigonica, quello è mestiere, nient’altro.

La mia e la nostra poesia si nutre della spazzatura, dei rifiuti urbani, del ciarpame. Ed è un ottimo menù, perché questo è il mondo di oggi, non spetta al poeta abbellirlo, semmai spetta al poeta mostrarlo per quello che è.

Livio Cinardi

Sulla situazione emotiva quale struttura dell’esserci

L’esserci è già sempre, afferma Heidegger, situato. Manifestazione del suo “ci” è l’essere-nel-mondo, l’essere situato in esso il donde e il verso dove sono petizioni non concernenti l’ontologia fondamentale. Come fenomeno, vive il proprio esser-situato come gettatezza, e proprio perché è vita e non teoria, ne fa esperienza, l’esserci ne va del proprio essere.
Come fa esperienza del proprio “ci”, della propria gettatezza l’esserci è già sempre situato, emotivamente.
L’esserci è situazione emotiva, sentirsi situato emotivamente. La Befindlichkeit  è il come, il modo in cui l’esserci si trova aperto nei confronti del puro e semplice fatto di esistere: rispetto al nudo «che esso è»1. Non più solo semplice-presenza, persa nel mondo: l’esserci si scopre, svelato, come semplice-esistenza. L’esserci è ex-sistenza, è essere-oltre ciò che il quotidiano sguardo dell’esserci, errabondo, ha del proprio essere. In quanto ex-sistenza, è pro-getto: esistenza progettante.

La situazione emotiva è struttura dell’esserci, il quale, in quanto situato, gettato, rimesso, è emotivamente intonato. Ogni situazione emotiva, ogni essere-situato dell’esserci è già fenomeno. Nella fenomenologia ontologica, o ontologia fenomenologica heideggeriana (ovvero, fondamentale: fondamento è il fenomeno, la cosa stessa), manifestazione del fenomeno dell’esserci in quanto essere-emotivamente-situato è la tonalità emotiva, ovvero, “lo stato d’animo”. Precisa il filosofo: vi sono tonalità emotive sorgive dall’autenticità dell’esserci, e tonalità emotive sorgive dall’inautenticità dell’esserci. L’esserci percepisce l’autenticità o l’inautenticità dell’essere del proprio esserci già sempre secondo le tonalità emotive che vive: la vita, l’esserci, è già sempre tonalità emotiva. A tal guisa, Heidegger riporta due exempla, dai quali appunto comprendere cosa egli intende per tonalità emotive: la paura e l’angoscia. Molta è la confusione intorno a tali stati d’animo, ragionevole data l’ambiguità caratteristica di entrambi. L’indagine attorno alle tonalità emotive dell’esserci costituirà il corpo centrale del presente elaborato.
Avanzeremo così nella “notte” dell’esserci: non più perso nel mondo ma preso, assalito dall’angoscia, proprio dentro il più familiare dei mondi circostanti, l’esserci non si trova più a casa, neanche nell’ambiente più vicino e fidato. Allora, si scoprirà come possibilità: scoprirà il proprio essere, l’autenticità del proprio essere, come possibilità. Una possibilità massima solo apparentemente contradditoria: l’essere-per-la-morte dis-vela all’esserci il proprio essere, come ni-ente, come non-ente. Per l’appunto, oltre l’ente, ovvero ex-sistenza. In una parola: leben.

Ciò che nella domanda è in domanda è l’essere che avverto, ex-per-isco come Stimmung, come tonalità emotiva, come stato d’animo, come vibrazione. Io sono toccato da ciò che cerco, ovvero gettato nel cercare. Per questo lo cerco. La gettatezza è allo stesso tempo pro-getto. È una co-struttura. L’esserci è quell’ente che in quanto è gettato nel mondo, gettato in ciò che è, si lascia toccare da questo getto (che è dell’essere dell’esserci) e in questo getto che lo tocca e lo riguarda, progetta se stesso. Questo pro-gettare se stesso,questo gettare-innanzi se stesso, è trascendenza, è esistenza. Essere già sempre oltre. Non in senso religioso: non è verso dove, ma è oltre, in senso ontologico, costitutivo: fenomenologico. L’esserci ontologicamente non è già, lo ripetiamo, de-finito (non ha una essenza che lo determini). l’esserci è in quanto poter-essere, in quanto possibilità. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa,  Una poesia, Avenarius tirò una cordicella, Poesie di Alfonso Cataldi, Mauro Pierno, Commento di Giuseppe Talìa, Il Nulla e lo stile ultroneo della nuova poesia

Antology How the Troja war ended I don't remember

Giorgio Linguaglossa

caro Giuseppe Talìa,
dopo alcuni anni di rifacimenti, ecco una mia poesia fatta dal Signor Nulla con gli scampoli e gli stracci raccattati qua e là
.

Avenarius tirò una cordicella

Il silenzio si accostò al tavolo
sopra il quale oscillava un lampadario di cristalli.

Avenarius tirò una cordicella, un misterioso campanellino squillò
e il tendaggio si aprì lentamente…

Una musichetta dolciastra come di carillon.
Degli specchi con le cornici dorate brillavano nella penombra.

[…]

«Qualcuno rumoreggia e sferraglia dietro il sipario del teatro;
incastro di motori, di ruote dentate,

rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi
trapezoidali».

Disse proprio queste parole. Rimasi sbalordito
per la loro sconsideratezza.

Poi, chiese le ultime notizie sul meteo, sul pianeta terra
e sulla fiducia posta dall’opposizione in Parlamento..

Un pagliaccio con nacchere, un cappello rosso alla tirolese e dei nani
orribilmente agghindati saltellavano lì intorno.

[…]

La signorina Morphina accenna un passo di danza,
si sporge dal davanzale della finestra

del suo appartamento a Cannaregio. Acqua verdastra di canale.
Odore di zolfo e di aspirine.

K. introduce la mano destra nel guanto di velluto nero
e la mano sinistra in un guanto di velluto bianco.

«Anfragen, Spruche, Blumen… von Fremden und Freunden…
Besucher sitzen, verdammt…

im Besuchersessel, erzahlen…»*
Studio di un interno:

Un manichino femminile con un microvestito color metallo
e autoreggenti rosse colto in una ragnatela di lattice

su sfondo di perplex nero e luci fotofobiche, una stampelliera con delle stampelle
in vista e vestiti appesi.

[…]

K. si sedette lì, nel sotoportego, ordinò un’ombra, giocò con la tovaglia,
cincischiò con l’indice rivolto in alto:

«Se sarà un viaggio che sia un viaggio lungo
un viaggio vero dal quale non si torna».1

«Siamo soli, finalmente, Signor poeta, il mondo,
questo metro cubo compresso,

tra un attimo scomparirà…»

* [Domande, massime, fiori di amici e sconosciuti
visitatori siedono, condannati…

sulla sedia dei visitatori, raccontano…]

1] versi di Zbigniew Herbert da L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 a cura di Francesca Fornari, Adelphi, 2016

Foto manichino con vestiti su stampelle

Un manichino femminile con un microvestito color metallo
e autoreggenti rosse colto in una ragnatela di lattice
su sfondo di perplex nero e luci fotofobiche, una stampelliera con delle stampelle
in vista e vestiti appesi.

Alfonso Cataldi

A margine, il nascituro

La curva ha in serbo un pettegolezzo sul nascituro
concepito a margine di un’accelerazione.

La narcosi è in letargo, l’habitat-type sogna di calare il jolly.
Rubik pubblicizza la sua faccia tosta.

Giacomo lancia una macchinina del wwf contro la TV
Il Super Attach cola e corrode il disimpegno.

La delegazione degli esteti indovina il capofila
nella mischia lo sfoggio d’aria avvampa il fotogramma.

Sotto coperta chi assorbe l’enfasi dell’apertura?
In vista del traguardo l’unghiata graffia le comparse e chiude il conto on-line.

«Dopo cena sporcarsi le mani su un pannello svuota-famiglia
fantasia concorrente. Per cambiare programma.»

Giorgio Linguaglossa

Dobbiamo ringraziare il Nulla (Nichts) che ci ha graziosamente concesso questo soggiorno terminale nell’orizzonte dell’essere.

Come dice Heidegger: «La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica.»

Ma noi, obietto al filosofo, non poniamo nessuna domanda al niente, noi ci limitiamo a prenderne atto, ad accettare, come tra due parentesi tonde, che qualcosa aleggi come tra due parentesi graffe all’interno di un grande mare dell’immobilità assente che sta al di là del Nulla e lo contiene e lo sdogana, per così dire.

E come non poniamo domande, non ci attendiamo alcuna risposta. E questo è la nostra posizione metafisica sul nostro essere metafisici, poiché l’esistenza è già in sé metafisica e noi non possiamo sfuggire in alcun modo al nostro essere animali (pardon, esseri) metafisici.

Mi è stato chiesto: «ma come si fa a pensare al nulla?».

Credo che sia errato partire da lì, dal pensiero che pensa il nulla, per il semplice fatto che il nulla non è pensabile. Non possiamo dire nulla intorno al nulla perché esso sfugge al pensiero, è questa la impasse della metafisica che vuole pensare il nulla. «Das Nichts nichtet», il nulla nullifica e, nullificando, crea essere. Noi siamo nient’altro che il prodotto, la combustione del Nichts.
Possiamo però pensare al nulla a partire da una cosa, non abbiamo altro scampo che aggirare la questione del nulla e partire dal pensiero di una cosa. Perché il nulla è dentro la cosa, non fuori.

Mi è stato anche obiettato: «ma come fai a pensare all’impensato partendo dal pensato?».

Ecco, anche qui penso che sia errato voler pensare all’impensato partendo dal pensato. Se parto dal pensato ricadrò sempre nel pensato, in un altro pensato. Un altro errore è quello di voler fare una equivalenza: nulla = impensato. Altro errore. Per indicare il nulla devo per forza di cose nominare una cosa, non ho (non abbiamo) altra possibilità che nominare le cose. Non possiamo sfuggire alle cose.
Così, quando scrivo nella mia poesia:

Il silenzio si accostò al tavolo
sopra il quale oscillava un lampadario di cristalli.

Avenarius tirò una cordicella, un misterioso campanellino squillò
e il tendaggio si aprì lentamente…

Una musichetta dolciastra come di carillon.
Degli specchi con le cornici dorate brillavano nella penombra.

è ovvio che io qui stia tentando la rappresentazione del nulla per la via indiretta, nominando cose e azioni e personaggi che fanno qualcosa. Non avrei altra possibilità che comportarmi in questo modo, cercare di nominare le cose, ma è che le cose vanno nominate in un certo modo, è il modus linguistico che determina l’essere delle cose, le chiama alla visibilità linguistica. Chiamare alla visibilità linguistica le cose, questo è fondamentale, chiamarle in modo che esse facciano intendere che galleggiano sul nulla. E questo lo si può fare cancellando la significazione ordinaria dagli enunciati. Ogni proposizione istituisce un teatro, una situazione, una questità di cose che non ha alcun referente con il mondo reale del realismo rappresentativo. È visibilmente assurdo e ultroneo che il signor Avenarius tiri una cordicella proprio nel momento in cui il silenzio si accosta al tavolo. Che relazione ci può essere tra il modus del silenzio e il modus del tavolo? Ecco, questo è il punto, c’è una relazione tra cose diverse e disparate, anzi, ci sono molteplici relazioni ma non più del tipo realistico mimetico della poesia del novecento ma di tipo nuovo, ultroneo, non referenziale. Possiamo dire che le cose nominate equivalgono al pensato e tutto ciò che non viene nominato equivale al nulla che aleggia e insiste intorno alle cose. Il nulla è tutto ciò che sfugge alla significazione. È il nulla, la consapevolezza del nulla che costituisce il motore della composizione. E tutta la composizione sembra come galleggiare sulla membrana del nulla.

Se l’impensato è ciò che il pensiero non riesce a pensare, ne deriva che esso è quel quid che sta fuori del pensato e del nominato, e quindi se partiamo dall’impensato tutta la composizione ruoterà attorno all’asse dell’impensato piuttosto che all’asse del pensato. La novità del punto di vista non è di poco conto, è una novità rivoluzionaria perché cambia le carte in tavola e il modo di impiegarle, cambia le regole della significazione. Il che non è poco.

Perché noi siamo irriflessivamente sempre dominati dal pensiero rappresentativo e referenziale in ogni momento della nostra vita quotidiana, anche quando scriviamo una poesia siamo succubi di questa impostazione irriflessa. La difficoltà è qui, nel ribaltare questa posizione irriflessa, questa prigione. È questo il tentativo che sta facendo la nuova ontologia estetica, partire dalla cosa pensata per andare verso l’impensato del nulla senza cadere nel non-senso, che, in sé corrisponde al modo di impostare il discorso poetico alla maniera convenzionale rappresentativa, referenziale e mimetica. Partire dall’impensato significa partire dal non ancora pensato (non dal non-pensiero), sarà l’impensato che dirige il nostro sguardo, sarà l’impensato che ci costringerà a costruire il discorso poetico in modo che non corrisponda più al pensato, cioè al referenziato. Il risultato sarà una poesia finalmente liberata dal referente frutto di convenzione.

Non si tratterà di pensare in anticipo ciò che verrà pensato poi in un secondo momento. Si tratterà di un nominare-pensare non più mimetico e rappresentativo ma a-mimetico e a-rappresentativo, non più dipendente dalla scala referenziale.

Plotino ricorre ad una analogia: come per l’occhio la materia di ogni cosa visibile è l’oscurità, così l’anima, una volta cancellate le qualità delle cose (che sono della stessa sostanza della luce), diventa capace di determinare ciò che rimane. L’anima si fa simile all’occhio quando ci si trova nel buio. L’anima vede veramente soltanto quando c’è l’oscurità.

In un certo senso pensare all’impensato è analogo al vedere le cose nell’oscurità. Soltanto nell’oscurità si possono vedere le cose in un modo diverso.

Mauro Pierno

Soltanto forma.
La firma sottintesa della cariatide.

La statua vuota un contrappeso
all’esordio di un unico gigante. Voce del verbo porgere.

L’attesa dell’approvazione.
Quante carte uguali sulla parete

gli stessi strati di colore, la stessa orma
di stupore. Un lavoro perso nella ripartenza.

La macchia, se preferite le marce.
Attenti a sinistr! Un burrone enorme.

Oggi citofonare Ventura.

Giuseppe Talìa

Stamani stavo leggendo un saggio di un accademico nostrano, gli Uccelli di Aristofane, e subito una lucina si è accesa in me, la luce di un ricordo. Così sono andato a ricercare il libro di poesie di Linguaglossa, Uccelli, edito da Scettro del Re, Roma, 1992.
Non avendo il libro, ho ricercato su internet e, guarda casso, mi sono imbattuto in una poesia della silloge Uccelli che magicamente mi ha riportato al testo postato dallo Stesso in questa pagina, Avenarius tirò una cordicella.

Il mio primo pensiero fu: non si scrive che una cosa sola. Nel senso che l’impronta del poeta una volta impressa non cambia di misura, cambia di direzione. Prende altre strade, altri sentieri. Con il risultato, però, che trova sul cammino, gli stessi soggetti e gli stessi oggetti. Come quel cane che si morde la coda.

E qual è, dunque, la differenza tra un sentiero e l’altro?

Il testo di “Avenarius tirò una cordicella” presenta diversi e interessanti Holzwege, frutto di una unione sapiente di diversi percorsi “scampoli e stracci raccattati qua e là”. Ma, in nuce già Uccelli apriva le scene del teatro della vita, teatro dell’assurdo e del nonsenso : “Il retro dell’inferno è fitto di quisquilie”; “Il teatro dell’inferno è gremito di voci oscure”; e ancora, “mostro”, “demone” che condiscono un io fin troppo presente sul cammino della riabilitazione.
In Avenarius tirò una cordicella, il patchwork è impreziosito da schizzi (ruote dentate, rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi trapezoidali), come da screzi (Un pagliaccio con nacchere, un cappello rosso alla tirolese e dei nani orribilmente agghindati saltellavano lì intorno), da informazioni, Anfragen, da reclami, da fiori… da estranei come da amici, insomma materiale di risulta, o come egli stesso ama dire, da spazzatura.

Anche la spazzatura richiede intelligenza e savoir faire.

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La Grande Narrazione, La voce è la presenza del linguaggio nel linguaggio, è Figura del presente, Figura dell’assente, Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie, Il Distico, La Nuova Poesia, Poesie di Giuseppe Gallo, Giorgio Stella, Gino Rago, Maria Borio

Gif La porta si apre

il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo

Giorgio Linguaglossa

Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta, in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, de-coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio nel linguaggio, è Figura del presente, Figura dell’assente. La impossibilità del linguaggio e del linguaggio poetico in particolare ad ospitare tutto il dolore del mondo de-coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.

Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.

L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.

Il distico istituisce visivamente il nulla.

Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.

1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa, riportando una riflessione di Carlo Sini:

«L’aura sta al limite della figura, segnandone la relazione al profondo, cioè alla sua provenienza, innanzi tutto, ma anche alla sua destinazione futura.» ben definisce le atmosfere caratteristiche della poesia di Maria Borio. Sulla stessa linea le puntualizzazioni di Gino Rago. Quello che a me colpisce è la consequenzialità logica e formale dei concetti che si allineano nella versificazione… riporto come esempio l’ultima Trasparenza:

Il mare è davanti. La luce della mattina si sgrana,
ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.

i frutti cadono, ci attraversano i pensieri,
si depositano sopra le ossa e i pensieri si gonfiano

in alto resistenti nell’aria di fine estate, sfere dove
le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi

fissandosi dentro la luce mentre mare e terra
raffreddano. Inaspettatamente possiamo diventare

freddi appoggiati su onde e nuvole fredde.
Intorno il posto adesso è trasparente.

Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.
in mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:

si accoppiano e i frutti cadono, dicono
cosa siamo, come ci siamo immaginati.

È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro
– essere la prospettiva fragile e forte

per chi ci ha abitato, chi ci abita.

A me appare sempre più difficile accettare un periodare in cui l’ordine del materiale linguistico è coordinato dall’io. Non so a voi. E non vale per questi distici nemmeno quanto afferma Giorgio Linguaglossa nell’ultimo intervento:

“Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.”

Il perché è presto detto: “Lo spazio bianco” in cui si “istituisce visivamente il nulla” io non riesco a coglierlo. Per il resto la poesia di Maria Borio mi sembra un ritorno, robusto ed intenso, all’indagine, inesauribile, di chi abita ancora dentro di noi e di chi è stato sfollato.

Zona gaming 11

Vado a vivere nel nulla
dove chi parla non ha ospiti da esibire.

Il cielo s’apre. Entrano alberi. E nubi.
Escono rondini, sciamano aeroplani.

-Devo sapere, Joe! Devo sapere!
-Lo faccia, Ben! Lo faccia! C’è un segno!

O un sogno. A qualche chilometro di parvenza.
A qualche ora posteriore alla disfania.

Zona gaming
Anche i fiori spazzatura.

Vado a vivere nel nulla
Dove Dio bacia se stesso.

Nella Camera Oscura delle congiunzioni elettriche.
E delle sconnessioni magnetiche.

Eccoci. Siete impazienti. Ansiosi del rimosso.
Dentro le ragnatele delle pagine.

Zona gaming
Spazzatura anche il filo spinato.

-Devo sapere sapere, Ben! Devo sapere!
-Lo faccia, Joe! Lo faccia! C’è un sogno!

Segno della polvere spianata
dopo il timore della vertigine.

I metalinguaggi delle trasgressioni.
I riflessi del pubblico e del privato.

I codici della nostra sublimazione,
la semantica della follia…

Zona gaming
…segni del tempo e viceversa

Gif porta girevole

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Giorgio Linguaglossa

Sono d’accordo con te caro Giuseppe Gallo,

la poesia di Maria Borio appare situarsi nella zona di trapasso dall’io al noi e dall’io alla terza persona singolare. È vero, è ancora l’io il governatore di questa «zona optica», ma è un «io» che si indebolisce, che sbiadisce… tra poco di quell’io non rimarrà più niente, nient’altro che nuvole e polvere, il mondo reale sfumerà nell’indistinto. A quel punto, la crisi della poesia della Borio avrà raggiunto il punto di non ritorno, infatti l’autrice non pensa ancora il bianco della pagina che circonda il distico come ad uno spazio vuoto, uno spazio del nulla, ma come un complemento della scrittura e sua prosecuzione. La mia riflessione sul distico voleva essere una riflessione generale, sugli esiti cui conduce la ricerca approfondita sul distico. E qui il problema emerge in tutta la sua complessità: «Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?». Dinanzi alla abissalità di questa domanda, faccio un modesto passo indietro: io non so «quale poesia scrivere», la sto cercando, certo che non potrà riepilogare le orme del recente passato, quella è ancora una poesia della «colonna sonora», una poesia del «pieno», una poesia che evoca il «pieno» dal «non-pieno», che evoca il «pieno» dal «vuoto», una poesia della «ontologia negativa» che vuole evocare il «pieno» dal «non pieno». Io penso invece che occorra dimorare stabilmente in una ontologia positiva, una poesia che abiti stabilmente il «nulla» e che nomini il «nulla» mediante le sue «Figure», le sue «Maschere».

Le «Maschere» sono nient’altro che dei simulacri che attendono i personaggi della nostra alterità.

Corre l’obbligo, dopo la fine del novecento e della poesia modernista europea, porsi due domande terribili:

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Quale è il compito della poesia dinanzi a questo evento epocale?

Allora, apparirà chiaro che quella simbiosi chimica delle parole che avviene attraverso il tempo e le temporalità può eventuarsi mediante un processo di metaforizzazioni: dalla cosa all’immagine mentale e da questa alla parola. La metaforizzazione ci porta «fuori» dal discorso ordinario, quello dell’epoca e dei suoi linguaggi di settore. Questo esser «fuori» è un attributo fondamentale dell’esser «altro» del linguaggio della poesia, altrimenti sarebbe «dentro», e precipiterebbe nei linguaggi di nicchia e di settore dell’evo mediatico.

L’epoca della metafisica compiuta è quella che richiede una filosofia ermeneutica e un’arte ermeneutica, che è un altro modo di porre la questione dell’«ermeneutica [come] forma della dissoluzione dell’essere».1]

L’esercizio della memoria si dà soltanto sul presupposto della perdita della memoria. L’esercizio della memoria è l’esercizio della nostra mortalità.

1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985 p. 164 Continua a leggere

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La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci, Il paradosso della forma-poesia del polittico, Il capovolgimento, la peritropè, il salto sono le categorie dominanti del polittico, Poesie di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Riflessioni di Maurizio Ferraris, Giorgio Linguaglossa

Gif Un corazon para ti

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci

Gino Rago

Giorgio Linguaglossa porta Stige. Tutte le poesie a Maria Rosaria Madonna

Museum Theautrum. Dimensione atemporale della Estetica.
Eusebio:«L’elegia mai si farà inno …»

Nebbie sulla laguna. In Venedig in un sotoportego
Milaure Colasson pensa di essere al Bolshoi.

Sulle punte danza Il-lago-dei-cigni sull’alluminio di un tavolino.
Giorgio Linguaglossa e un marxista-leninista bevono un’ombra.

Una voce o un fiato: «Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi..». Tchaikovsky su una gondola

Piante. Carriaggi. Alberi senza rami. Frammenti di città.
Fumi dai fiumi. Persone. Immagini di piogge nella pioggia.

Materia redenta. Marina Petrillo. Lo choc di Baudelaire.
Nell’onda d’urto del tempo fra il vecchio e il nuovo

« Involve lo Spazio in azzurrità». Autoannientamento
Dell’ Arte. Il nulla che annienta sé stesso.
[…]
Cabaret Voltaire. 2016. Zurigo.
La signora Hennings e la signora Leconte

Cantano in francese e in danese.
Un’orchestra di balalaiche. Danze russe.

Tristan Tzara legge il manifesto dadaista.
[…]
La stampa di una foto di Degas
Vicino a un grande specchio.

Nella foto di Degas si vede Mallarmé.
E’ in piedi contro il muro. Renoir è sul sofà.

Nello specchio Lo stesso Degas
E la moglie di Mallarmé con sua figlia.

Paul Valery entra dopo lo scatto.
Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:

«Il prezzo di questa opera d’arte?»
Nove lampade a gas

E un istante di completa immobilità.
Donatella Giancaspero fotagrafa

La foto di Degas.
Pone sulla stessa linea di mira mente, occhi e cuore.

Trattiene il fiato e scatta.
Nella stampa della foto di Degas

Donatella ha messo tutto.
I libri. I viaggi. Gli amori.

Gli appuntamenti mancati. Le promesse mantenute.
Un lampo al magnesio. Una vita in frantumi.
[…]
Nell’entanglement quantistico
L’azione su un atomo entangled si riverbera sugli altri…

In un polittico poetico in distici entanglati
L’atto su un verso si propaga su altri versi.

Uno sciame di protoni di rubidio.
[…]
«Amleto è morto …»
Ne dà l’annuncio Lorenzo Pompeo dall’Ungheria.

Ma da Cracovia Lorenzo invia a Giorgio Linguaglossa
versi di Ewa Lipska tradotti in italiano.

Virna Lisi e Marlene Dietrich entrano con Kafka
nello studio di Sabino Caronia,

Tre ombre nella consolazione della sera.
Faber Nostrum canta Il Bombarolo…
[…]
Pino Gallo arringa da Roma la Fata Morgana,
Sotto gli affacci di Scilla il mare si fa di olive acerbe.

Pino Talìa porta un Mattia Preti
Da Taverna a Firenze. Botticelli si inchina.

Francesca Dono da Biffi regala bergamotti,
Davanti alla Scala tutti si mettono in fila…

Una poesia di Mauro Pierno sul Corriere della Sera.
[…]
Visioni mistiche a san Francesco a Ripa.
Marina Petrillo davanti a Ludovica Albertoni.

Marmo. Drappeggio. Diaspro. La beata in estasi.
Verso l’altare della cappella

Marina abita parole d’amore.
Un raggio di sole sul marmo.

Le visioni. La tela di Gaulli. La finestra.
Bansky-street-artist: « How the Troian War Ended

I don’t Remember…
Edited by Giorgio Linguaglossa»

Letizia Leone a Mario Gabriele:
«Chelsae Editions. Miracolo.

Bellissima la cover di copertina»
[…]
Toscanini posa la bacchetta:
«A questo punto muore Liù.

Turandot finisce qui. Pekino è a lutto.
Il cancro alla gola ha ucciso il Maestro».

Creatura che crea nella luce sul mare
Marina Petrillo va incontro a Puccini.

Giorgio Linguaglossa commenta
La lettera scarlatta a Mario Gabriele

e a Lucio Mayoor Tosi. Giorgio Agamben:
«L’uomo di gusto nella dialettica della lacerazione..»

Ready-made. La compagna di Duchamp usa un Rembrandt
come tavolo da stiro.
[…]
Edith Dzieduszycka parla di Michele. Traduce in italiano
Le lacerazioni di Marie Laure Colasson.

Maria Rosaria Madonna scrive lettere a Kavafis,
Non sosta mai dove i treni si fermano.

Al centro della Marketplatz
Giorgio Linguaglossa le porta tutte le poesie

In un trolley che sulla ghiaia d’un prato fa scintille.
Roland Barthes parla da solo nella chambre claire:

«Operator. Spectrum. Spectator. Studium. Punctum.
Cerco mia madre nel portacipria d’avorio»

Edith Dzieduszycka cerca la sua
In una boccetta di cristallo intagliato.

(9 luglio 2019)

Giorgio Linguaglossa

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci, Il capovolgimento, la peritropè e il salto sono le categorie dominanti del polittico

Il luogo dei personaggi e delle situazioni indicate dalla poesia di Gino Rago è un particolare mix di «questità», di ciò che è qui ed ora, di ciò che figura nel presente (Edith Dzieduszycka, Marie Laure Colasson, Marketplatz, Giorgio Linguaglossa, Roland Barthes, Stige. Tutte le poesie, chambre claire, Maria Rosaria Madonna, Kavafis etc.). Tutto ciò configura il possibile come pensabile vero. E all’inverso, ciò che può essere pensato e detto è anche possibile, perché l’ontologia positiva è ciò che si dice, e il possibile, anch’esso può esser detto e, in quanto detto è quindi possibile, è una figura dell’esistente sub specie del possibile. Come dire che è tutto vero nel suo attuale esser-presente, in quanto l’attualità è tutto quel che si fa avanti nel presente, e anche quel che si fa indietro dal presente, come «altro» rispetto a quel che è dato nel presente. L’attualmente esistente è il presente, l’esistere qui ed ora come indicazione di qualcosa che sarebbe potuto essere presente in altra guisa in luogo di quel che ora si dà.

Nel polittico la predicazione della possibilità allarga il campo d’azione dell’esser-questo in quanto coincidente con il non-essere-questo in quanto ricadente nella possibilità che ciò accada. La più radicale delle contraddizioni equivale perciò alla possibilità che le cose stiano in altro modo e in altra guisa da come si offrono alla apparenza del senso comune, per cui il possibile sarebbe questo esser-così e il questo non-essere-così, in quanto quello che decide è l’essere presente nel presente come figura del presente, nell’attualmente presente, e l’essere del passato nel presente come figura del presente, nell’attualmente presente.

Il venire alla manifestatività dell’esserci di un questo equivale alla predicazione di una infinità di possibili «questi» di mondi «altri» rispetto a cui l’attualmente esistente è soltanto una delle possibili modalità del manifestarsi. In ciò risiede il paradosso della forma-poesia del polittico la cui pensabilità stessa ci conduce da subito alla forma paradossale secondo cui tutto il pensabile è esistente al pari di ciò che è esistente nel presente come figura del presente.
L’esserci delle cose è il loro non-esserci se non nella manifestatività del presente, onde ne deriva che il non-esserci gode dello stesso accredito dell’esserci (equivalenza dell’esserci con un «altro da se stesso»).

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci in ciò che è detto e per come è detto, non c’è nessun mistero che non sia solubile nella manifestatività dell’esserci nel presente; la forma polittico implica il negare e l’affermare la questità delle cose, la forma della presenza di ciò che è presente e la forma della possibilità della presenza, implica la incondizionatezza del condizionato, la inclusione dell’escluso nell’orizzonte destinale della manifestatività in ossequio al principio del: ciò che c’è è ciò che si dice, e ciò che si dice è ciò che c’è. Nel polittico ciò che si manifesta nella forma del possibile equivale a dire ciò che si manifesta nella forma non contraddittoria di ciò che esiste nel presente. Il capovolgimento, la peritropè e il salto saranno le categorie dominanti questa forma d’esistenza che perviene al presente come figura del presente, in quanto gli accadimenti accadono in quanto predicabili e, quindi, immaginabili, possibili.

Lucio Mayoor Tosi
Nessun nome.

«Ora non posso. Mi viene a prendere l’autobus parlante. Ho già
il Crocifisso alle pareti. Barbara non c’é. Lo ripeterò sempre».

Nessun nome da ricordare. Nessuno abbastanza famoso, o sono io
senza memoria? Angelino dice. Marta. Mi fa una pugnetta.

E’ l’orizzonte. Le marmotte ne sono ammirate. L’opaco viandante
e le carrozzelle; prima, quando mancavano. Babele di stracci

e mascolina. Maschile di “Patria”. Prime gazzose. Ah, bianco
spinami il cuore! Abbiamo ancora da cominciare. Continua a leggere

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Si va verso la costruzione della forma poesia a polittico: Poesie di Marie Laure Colasson, Carlo Livia, Giorgio Stella, Francesco Paolo Intini, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Anche il multiverso è ragguagliabile a una costruzione a polittico, La questione del finito e dell’infinito nella nuova poesia

Gif Donna di cuori

«Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito»

Intorno alla costruzione della forma-poesia a «polittico»

La costruzione a «polittico» è un assemblaggio di «finiti». Ogni immagine, ogni personaggio, ogni icona è un «finito». «Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito». Parlare e pensare quindi la poesia come «colonna sonora» di significati e di significanti, di «composizione chiusa» o «aperta» è, dal punto di vista del «polittico», un non senso; quella è stata la poesia del novecento, che si è chiuso in un brusio generalizzato e insignificante, un rumore di fondo postruista. Sembrerà ovvio dire che per afferrare la «nuova poesia» occorrono nuove categorie, ed è quello che sta cercando di fare la nuova ontologia estetica. Andiamo alla ricerca delle nuove categorie del pensare ermeneutico.

Il problema è: parlare e pensare la forma poesia come collezione e collazione di «finiti». Considerare una parola, un nome, una immagine come figurazione di un «finito». Finora invece la poesia ha considerato il «nome» (cioè il «finito») all’interno di una colonna sonora che lo portava con sé, lo faceva viaggiare dentro la carlinga del discorso sintattico semantico unidirezionale. Ma, è ovvio che questa è una convenzione, un patto di solidarietà tra il lettore e un emittente, secondo il quale il ricevente accoglie il «nome» come facente parte di un discorso tenuto da un io plenipotenziario che sta sul podio e stabilisce le gerarchie dei significati e dei significanti. Questo, detto in breve.

Ebbene, la nuova ontologia estetica infrange questa convenzione pattizia, ci dice che quella convenzione non è più in vigore e che la nuova poesia ne farà a meno. Penso che sia legittimo. Nessuno ci potrà negare la facoltà di pensare e operare in costanza di caducazione di questa convenzione.

Se non si comprende questo assunto di base, non si comprende nulla della «nuova poesia» NOE, e si continua ad operare secondo quel rispettabilissimo patto che è stato in vigore nell’era copernicana dell’io governatore che arriva dall’inizio del Novecento con il deflagrare delle avanguardie fino ai giorni nostri postremi ed epigonici.

Adesso, con l’ontologia positiva, ne siamo fuori. La poesia dell’ontologia negativa di Heidegger ha dato risultati brillanti ma, quella ontologia fa parte ormai del passato, un passato glorioso, ma passato.

Il «finito», ogni volta che lo nominiamo, è già nell’«in-finito». E già qui siamo fuori della ontologia negativa, siamo entrati in un altro demanio concettuale. Il discorso poetico richiede la predicazione del «finito», una predicazione che non avrà mai fine e che pone stabilmente il «finito» nell’«infinito». Se riusciamo a pensare il discorso poetico in questi termini, non potremo mai più fare poesia come lo si è fatto nella tradizione poetica occidentale.
Sono stato chiaro?

E con questo penso di aver risposto in qualche modo ad Antonio Sacco che mi chiedeva lumi sulla NOE, il tempo, interno, il tempo esterno, lo spazio, la tridimensionalità, la quadri dimensionalità, la disfania, la diafania etc.

Il «non dicibile» abita la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito. Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica ad esempio della poesia di Mario M. Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi.

Nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tra-dizione filosofica occidentale.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

[Milaure Colasson (Marie Laure), nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie].

Le miroir jaloux
De leurs ébats
Comme chante Oscar
Se brise
En mille éclatements

Au travers des paupières
L’écume des jours
Sa bouche ouverte
Un naufrage

Sur quatre couches
De tulle superposées
Un magma savamment coloré
Aéré de plages vides
Renato peint sa magie inventée

Autour de la table
En haute voltige excelle le protagonisme
Chacun se conjugue
À la premiére personne
Exister à tout prix

Les cris stridents des mouettes
À ciel ouvert
Semblent menacer la ville
Putréfaction

“ et moi et moi et moi
Et des millions de petits chinois “
Chantait Jacques Dutronc
La suite en devenir.

*

Le specchio geloso
Dei loro trasporti
Come canta Oscar
S’infrange
In mille frammentazioni

Attraverso le palpebre
La schiuma dei giorni
La sua bocca aperta
Un naufragio

Su quattro strati
Di tulle sovrapposti
Un magma sapientemente colorato
Alleggerito da spiagge vuote
Renato dipinge la sua magia inventata

Volteggia alla grande
intorno al tavolo ed eccelle
il protagonismo
Ognuno si coniuga alla prima persona
Esistere ad ogni costo

Le grida stridenti dei gabbiani
A cielo aperto
Sembrano minacciare la città
Putrefazione

“… e io e io e io
E dei milioni di piccoli cinesi…”
Cantava Jacques Dutronc
Il seguito in divenire.

(trad. di Edith Dzieduszycka)

Carlo Livia

Cenere

È grigio eterno. La macchina dura, malata al posto del cielo. La furia di metallo al posto di Dio. Mia madre si affanna a salire, lasciando un solco di pena. I morti prendono alloggio nella pausa, fitta di pugnali femminili.

L’Essere si lacera sul fondale scosceso. Grida: fuori dallo specchio! C’è l’orfano che uccide. La rosa inesorabile fuggita dal duomo. Che non ricordo più.

Affilate le colpe del deserto. Dice il profeta vestito di arida pace. Col vento della scure come preghiera. Il padre intoccabile. Il suo sonno nero. Ritratto in lacrime che oscura le marine.

L’estranea col peccato entra ed esce dal sogno. La musica dell’amata diventa verticale. Mi chiede l’ombra delle navate. O il viale dei quindici anni. Nella gabbia delle chitarre, con l’embrione infelice.

Sono nel terzo silenzio. Senza promessa. Una vecchia macchina fruga nel mio cuore. Per addormentarmi nel lunario rosa. Passa un morbo triste. L’angelo che non mi ama.

Carne rosea e riccioli d’oro. L’apparenza viziosa. Si accartoccia subito al vento degli ulivi. Dall’alto non ci vedono. Troppo nudi nel ripostiglio. Col lume votivo che piange nel millennio.

Senza bambini. La giostra desolata.

Aspettando il tuono

Entro nello sguardo della bambina. La sua tristezza mi dissolve. L‘anima resta sola. Mi prende per mano e mi porta nel bosco. E’ Il corpo dell’antica Signora. Cresce e s’inazzurra. Dalla sua testa si staccano tre grandi uccelli. Sono orfani. Pregano il quadro vacillante.

Ho ucciso una favola di fonti. Lascia che risorga in me – dice il fiume. Fuggo nel cielo malato, con l’amante in pena. La notte sacramentale mi avvolge, travestita da eclissi contagiosa. La danza dei pianeti piange rugiada di fanciulla.

Il cielo dimagrito per le nozze. Dai più lontani luoghi di sepoltura, al ripostiglio dell’Enigma. L’algebra defunta nell’estasi d’alabastro. Il profumo della Dea langue sugli spalti. L’angelo implacabile è la sposa. Perduta nell’immenso tabernacolo.

Porta un sogno verde sulle spalle. Non sa quanto pesa. Mettilo giù – le dice il cielo. E’ un’arpa folle d’amore. Mi abbraccia nella pioggia nuda. Triste di non essere qui. Con l’addio che cambia forma ad ogni vento.

La donna che amo nasconde in sé il segreto. Cammina davanti a me nella pioggia triste, circondata dagli angeli sterminatori. Non mi consentono di raggiungerla, minacciandomi con le lingue infuocate.

Seguo la processione dell’aborto infelice. Il branco mi attraversa per copulare con la reliquia. Perdendo la vita entro nel cerchio di luce. E’ la radura boschiva da cui nasce l’apparenza. La statua senza testa decreta il mio destino: uno stuolo di manichini che parlano ma non capiscono. In fondo la foresta di sogni senza sguardi.

Dal cielo malato cadono estasi di corallo. Il ragno che inghiotte la notte fa infuriare le ombre. L’addio è troppo timido per abbracciare la sua particola. La curva paranoica cresce inglobando terribili sagrestani.

Un suicidio disadorno oscilla nella cella. Un tentacolo dell’enigma esce dal confessionale. L’eclissi contaminata si confonde col roveto ardente. L’angelo sigillato rovescia la clessidra. Nella città appena risorta preparano il giudizio.

Giorgio Stella

Il Conte Beppe Salvia è a cena con la
Marchesa Amelia Rosselli…

Entrambi hanno deciso di tenere
le finestre aperte per volarci per primo

ma tra Salò e Bètlemme il miele rosso
del piccione da caccia ha il tappo in

bocca… Guarda bene di non poter volare
male la lingua che ha dovuto rinnegare

tra le rovine del panforte e altre
lucurnie del proprio paese –

– all’altro capo dello stesso –
è rotta la macchinetta delle foto

per il censimento del primo dell’anno
mille quando la Florida fu invasa da Cuba

ed Hernry Miller si chiedeva se Tropico del
cancro fosse superiore a Tropico del capricorno:

Una veggenza in piena regola come
Il Tallone di ferro di London o Sotto il Vulcano

cantava: ‘strano il destino, arde la terra mentre un
fiume è in piena’

ma al nono piano del civico 27. di Centocelle
alle 17 del pomeriggio, morte nel pomeriggio,

la vecchia ballerina impartiva lezioni di danza
a giovani ragazze che aspettavano i genitori…

dal vetro pare che l’anziana donna parli da
sola e che all’orologio non sia stata

cambiata apposta la batteria in maniera
tale che la retta stabilita sia saldata

per la festa d’OGNI SANTI.

(Roma,1 luglio, circa le 11.00 del 1, luglio, 2019)

.

Giuseppe Talìa

L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
E lava il mondo nottetempo, dice Celan.

In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
E Kant, di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.

Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.

Spesa settimanale: un po’ populista un po’ liberista.
Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.

Grammi di differenza. La psicologia giustifica:
Nuova esperienza, porta pazienza contano i residui

Del vissuto: la buccia, la polpa e il seme, la tridimensionalità
Del frutto. Quel che è fratto è fratto dice A. L. Lohman. Attrice.

Lucio Mayoor Tosi

In tempo

– Cosa si dovrebbe mai trovare nel nulla,
se proprio lì ogni cosa sparisce. Che vai cercando?

Seguì un concerto di dromedari. Le vacche
avevano da ridire. Eravamo capitati in un gorgo di tempo.

– Se invece che il nulla, covassi l’ambizione di poterlo
attraversare. Magari a costo di restarci secco…

E il nulla fu: lo sferragliare del tram (Primavera, nel segno
di Botticelli), l’alpino tosato, e tutte quelle… parole,

come essere in convento. A pochi metri dal mare, gente
che va su e giù per le scale mobili. – Che esista anche

un nulla virtuale? – Sarebbe il benvenuto. Nulla lo spaventa.
Il nulla è sia qui che lì.  Tiene in vita le cose, le sostiene.

– Nel nulla-spazio si muore. Nel tempo dimensionale,
è pieno di tamerici in fiore. La freccia è ormai scoccata. Continua a leggere

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L’impiego del polittico nelle poesie di Mario M. Gabriele e Giorgio Linguaglossa. Poesie, Commenti di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Nunzia Binetti

Foto selfie e foto varie

Leggiamo due poesie inedite di Mario M. Gabriele da Registro di bordo di prossima pubblicazione con Progetto Cultura di Roma:

Mario M. Gabriele

1

Centrum Palace: Hotel notturno
ci si arrivava in ogni ora del giorno e della notte.

Denise cercava la malinconia di Molière
tra le letterature straniere nella hall.

A Giulia dicemmo di stare alla larga dalle Epifanie
e dai giorni di Palmira.

Nel bonheur du your rimasero i fogli A 4-80
e un pamphlet mai finito.

Ludmilla ama le carezze.
Questa è una città che non ha cuore.

-Cara Evelyn, sto scrivendo un albero genealogico,
ma non ho molti punti di riferimento.

So che mio nonno e i suoi fratelli emigrarono negli Stati Uniti
vivendo chi a Waterbury e chi a Boston.

Se puoi aiutarmi a trovare altri nomi e indirizzi
scrivimi al 98 Copper Lantern Drive- U.S.A.-.

Passarono i trasmigranti dell’aldilà
riconoscendo la via, il numero civico, gli abbaini.

Da tempo sono fuori onda
oltre i tuberi,oltre i vasi di terracotta.

Al Berliner Ensemble tornò Brecht
con musica di Klaus Maria Brandauer.

Una pesante leggerezza si adagiò sul divano
con la psicostasia riportata da Forbes.

2

Convegno alle 20 di sera in Alba Chiara
con i primi workshops.

Weber parlò a lungo degli organismi astratti
e delle idiosincrasie puntando su una nuova Metafisica.

C’erano appunti di Extensions del mese di maggio.
Uno si fece avanti leggendo My Story.

Kriss portò le foto del Muro di Berlino
facendo il meglio di Bresson.

C’è chi ricordò i due Peiniger del III Reich
a caccia del soldato Charlie.

Ha smesso di piovere. Usciamo all’aperto.
Non ci sono le condizioni di attendere l’azzurro.

Prendiamo lo snowboard
per arrivare a Piazza dei Miracoli .

Attacco di venti gelidi dai Balcani
mentre gustiamo infusi di zenzero e curcuma.

L’aeroporto era chiuso.
Ricevo la tua foto con la casa e il barbeque.

Bussano alla porta. -Conrad, vedi chi è?-.
-Nessuno, Signore, sono i cardini che non reggono-.

-Si ricorda di me? Sono Giuditta, la governante dei Conti Mineo,
che prendeva il treno Berlino-Milano.

Erano anni imprevedibili.
Non sembrano che le cose siano cambiate da allora.

-Preferisco lo stile gabardine,-disse ancora Giuditta,
-fino a quando ne ha voglia Nostro Signore di Acapulco-.

Giorgio Linguaglossa

La poesia-polittico io la vedrei come un work in progress della fortune-telling book, un coacervo di bisbidis di quisquilie e di filosofemi, di post-it, di appunti sul recto di cartoline postali, di poscritti su attaches, di appunti persi e poi ritrovati.

«Ciò che preferisco nella cartolina, è che non si sa ciò che è davanti o ciò che sta dietro, qui o là, vicino o lontano, il Platone o il Socrate, recto o verso. Né ciò che importa di più, l’immagine o il testo, e nel testo, il messaggio, la legenda, o l’indirizzo. Qui, nella mia apocalisse da cartolina, ci sono dei nomi propri. S. e p., sull’immagine, e la reversibilità si scatena, diventa folle – te l’avevo detto, la folle sei tu – a legare. Tu travisi in anticipo tutto quello che dico, non ci capisci niente, ma allora niente, niente del tutto, o proprio tutto, che annulli subito, ed io non posso più smettere di parlare.

Si è sbagliato o non so cosa, questo Matthew Paris, sbagliato di nome come di cappello, piazzando quello di Socrate sulla testa di Platone, e viceversa? Sopra i loro cappelli, piuttosto, piatto o puntuto, come un ombrello. In questa immagine c’è qualcosa della gag. Cinema muto, si sono scambiati l’ombrello, il segretario ha preso quello del padrone, il più grande, tu hai sottolineato la maiuscola dell’uno la minuscola dell’altro sormontata ancora da un piccolo punto sulla p. Ne consegue un intrigo di lungo metraggio. Sono sicuro di non capirci niente di questa iconografia, ma ciò non contraddice in me la certezza di aver sempre saputo ciò che essa segretamente racconta (qualche cosa come la nostra storia, almeno, un’enorme sequenza dalla quale la nostra storia può essere dedotta), ciò che capita e che capita di sapere. Un giorno cercherò quel che c’è successo in questo fortune-telling book del XIII, e quando saremo soli, ciò che ci aspetta.
[…]
il racconto letterario è un’elaborazione secondaria e, perciò, una Einkleidung, si tratta della sua parola, una veste formale, un rivestimento, il travestimento di un sogno tipico, del suo contenuto originario e infantile. Il racconto dissimula o maschera la nudità dello Stoff. Come tutti i racconti, come tutte le elaborazioni secondarie, esso vela una nudità.
Ora qual è la natura della nudità che in tal modo ricopre? È la natura della nudità: lo stesso sogno di nudità ed il suo affetto essenziale, il pudore. Poiché la natura della nudità così velata/disvelata è che la nudità non appartiene alla natura e che possiede la propria verità nel pudore.

Il tema nascosto de I vestiti nuovi dell’imperatore [fiaba di Andersen] è il tema nascosto. Ciò che l’Einkleidung formale, letterario, secondario vela e disvela, è il sogno di velamento/disvelamento, l’unità del velo (velamento/disvelamento), del travestimento e della messa a nudo. Tale unità si trova, in una struttura indemagliabile, messa in scena sotto la forma di una nudità e di una veste invisibili, di un tessuto visibili per gli uni, invisibile per gli altri, nudità allo stesso tempo apparente ed esibita. La medesima stoffa nasconde e mostra lo Stoff onirico, vale a dire anche la verità di ciò che è presente senza velo.»1

Se penso a certe figure della mia poesia: il re di Denari, il re di Spade, l’Otto di spade, il Cavaliere di Coppe, Madame Hanska, etc.; se penso a certi ritorni di figure di interni di certe poesie di Donatella Giancaspero o certi personaggi parlanti della poesia di Mario Gabriele che si ritrovano e si rincorrono da un libro all’altro non posso non pensare che tutte queste figure non siano altro che Einkleidung, travisamenti, travestimenti, maschere di una nudità preesistente, di una nudità primaria, della scena primaria, che non può essere descritta o rappresentata se non mediante sempre nuovi travestimenti, travisamenti, maschere, sostituzioni. Si ha qui una vera e propria ipotiposi della messa in scena della nudità primaria fatta con i trucchi di scena propri della messa in scena letteraria. E se questo aspetto è centrale in tutta la nuova ontologia estetica, una ragione dovrà pur esserci.

La verità del testo o il testo della verità? Questo è il problema. Qual è lo statuto di verità che si propone la nuova ontologia estetica? Penso che è da questo statuto di verità della NOE che dipenderà il tipo di scrittura ipoveritativa del discorso poetico. La posta in gioco qui è molto alta, è nientemeno che lo statuto di verità del discorso poetico non più fondato su alcuna manifestazione epifanica o semantica del linguaggio, ma sul suo fondo veritativo, sul fondo veritativo che la psicanalisi freudiana chiama la «scena primaria».

«A voler distinguere la scienza dalla finzione, si sarà infine ricorso al criterio della verità. E a domandarsi “che cos’è la verità”, si tornerà molto presto, al di là dei turni dell’adeguazione o dell’homoiosis, al valore di disvelamento, di rivelazione, di messa a nudo di ciò che è, come è, nel suo essere. Chi pretenderà da allora in poi che I vestiti non mettano in scena la verità stessa? la possibilità del vero come messa a nudo? e messa a nudo del re, del maestro, del padre, dei soggetti? E se l’imbarazzo della messa a nudo avesse qualche cosa a che vedere con la donna o con la castrazione, la figura del re interpreterebbe in questo caso tutti i ruoli.
Una “letteratura” può, dunque, produrre, mettere in scena e davanti a qualcosa come la verità. È dunque più potente della verità di cui è capace. Una “letteratura” simile si lascia leggere, interrogare, anzi decifrare a partire da schemi psicoanalitici che siano di competenza di ciò che essa produce da sé? La messa a nudo della messa a nudo, come la propone Freud, la messa a nudo del motivo della nudità così come sarebbe secondariamente elaborato o mascherato (eingekleidet) dal racconto di Andersen…».2

1] J. Derrida, op. cit. p. 39
2] Ibidem p. 414

*
Acutamente Lucio Mayoor Tosi dice che con il distico sembra che i versi vengano ad «incasellarsi», ed è vero, penso che il distico imponga, inconsciamente e consciamente una ferrea disciplina all’autore; richieda un cambio di passo (ecco perché ho inserito le immagini di gambe femminili che camminano con una andatura elegante e ritmica). Ecco il punto: il passo e il cambio di passo. Una poesia che non abbia in sé questo «passo» e questo «cambio di passo», è una poesia polifrastica generica come se ne legge a miliardi di esemplari. È il passo che detta il ritmo, e il ritmo detta il tipo di versificazione, non viceversa.
Prima viene il «soggetto polittico», bisogna lavorare sul «soggetto molteplice e moltiplicato», e solo in un secondo momento si potrà adire alla «poesia polittico», se è vero che la crisi del logos è la crisi del soggetto, è da qui che bisogna ripartire, è questo il luogo su cui occorre lavorare.
Per quanto riguarda il «polittico», poiché qualcuno sussurra che si tratti di un espediente di carattere sperimentale, dico questo: che ha completamente frainteso la ragione profonda del «polittico», cosa difficilissima a farsi, molto ma molto più agevole è fare una filastrocca basata sull’io e sulle sue ubbie; lì tutto è facile, basta mettere in riga qualche battuta di spirito… ma questa non è, ovviamente, poesia, sono chiacchiere. Continua a leggere

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