la realtà oggettiva del linguaggio è una realtà coscrittiva
la lingua non esprime fenomeni psicologici,
non riflette ciò che il parlante vuole, immagina o pensa,
la lingua sta fra i singoli parlanti, come l’acqua fra i pesci del mare
È la condizione di Emergenza che determina la «rivoluzione»
È la condizione di Emergenza che determina il «nuovo politico»
È la condizione di Emergenza che determina la «nuova poiesis»
(Giorgio Linguaglossa)
Gino Rago è nato a Montegiordano (Cs) nel 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005), I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) . È presente nel libro di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2022 pubblica Storie di una pallottola e della gallina Nanin, è nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” ed è redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”
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Appunti intorno a una gallina Nanin e a una pallottola
di Marie Laure Colasson
Gino Rago con Storie di una pallottola e della gallina Nanin (Progetto Cultura, Roma, 2022) edifica una «anti-grammatica» di una «anti-avanguardia», la sola cosa oggi possibile ad un poeta che non voglia arrendersi ad un discorso di nicchia, da prigione dorata, e lo fa attraverso una ridefinizione del linguaggio poetico visto come un meccanismo di Escher teso a disarticolare le relazioni di tempo e spazio e la consequenzialità logica e unilineare nella narrazione a vantaggio di una «concezione figurativa del linguaggio poetico» la quale, smascherando la vulgata corrente della enigmaticità del mondo, la esplica, con Wittgenstein, all’evidenza della mera fatticità del mondo che il linguaggio ha solo la funzione di rappresentare mimeticamente. In questo modo, il poeta di Trebisacce opera alla stregua di un demiurgo che costruisce una propria anti-metafisica come pratica di letteralità del linguaggio e della sua condizione di prigionia che costringe il soggetto ad un perenne girare a vuoto; così operando Rago mette in piedi un macchinario celibe, smaschera, indirettamente e implicitamente, la prigione dorata della poesia elegiaca che crede ingenuamente di poter sopravvivere nell’epoca del Collasso del Simbolico e della Catastrofe permanente. In questo modo denuncia, indirettamente e implicitamente, l’illusione della narrativa del consenso cultural-mediatico che si nutre di narrazioni trolliste e usufritte funzionali alla conservazione dell’assoggettamento del soggetto e del suo linguaggio allo status quo permanente.
Soltanto la «forma-polittico»con l’impermanenza dei suoi costrutti e con i suoi meccanismi di distanziamento e di straniamento del discorso poetico attraverso tecniche retoriche d’interruzione, détournement, entanglement e peritropè, evidenzia lo stupore per un’impossibile uscita del linguaggio poetico dal linguaggio. E mostra che il Re è nudo. È lo stupore che guida le peripezie e le acrobazie della «gallina Nanin» e della «pallottola» nei loro andirivieni. La «poesia-polittico» di Gino Rago è un work in progress della fortune-telling book, un coacervo di bisbidis di quisquilie e di filosofemi, di pos-it, di appunti sul verso e sul recto di cartoline postali, di poscritti su attaches, di appunti smarriti e poi ritrovati, di calembour e di giochi di prestigio. Tutto ciò sull’altare desacralizzato di una «gallina» e di una «pallottola» sparata a casaccio dal commissario Ingravallo, che esce dal romanzo di Gadda e se ne va a zonzo a seminare discordia ed equivoci plurimi.
L’andatura apoplettica della «nuova poesia» è fatta di vacillamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro (ma dove?); un passo in avanti e due all’indietro. Si va per passi laterali, per tentativi, per scorciatoie, per smottamenti laterali, e ribaltamenti e ritrosie, per tracciamenti di sentieri che si rivelano Umwege e ritracciamenti all’indietro, di lato… È che non essendoci più una fondazione sulla quale fondare il discorso poetico, anch’esso se ne va ramengo, senza un mittente e senza un destinatario, contando unicamente sulla destinazione: si invia, si destina qualcosa a qualcuno pur sapendo che non giungerà nulla a nessuno, la destinazione è priva di destino, si vive alla giornata seguendo il Principio Postale, la spedizione della cartolina, delle cartoline.
La «forma polittico» è una sommatoria di cartoline, di invii, di rinvii, di post-it, di scripta improvvisati. Si tratta di un meccanismo di invii e di tracciati destinati allo sviamento e all’evitamento, dove il messaggio, che reca impresso il desiderio, la pulsione, non arriva mai a destinazione in quanto per definizione freudiana inibito alla meta, e il Principio di Piacere che ha prodotto il desiderio approda infine al Principio di Realtà. E così facendo perpetua il meccanismo di riproduzione del capitale del piacere non ottenuto mediante la riproduzione del piacere in piacere sublimato, piacere tras-posto, tras-ferito.
Il mondo è raffigurabile ma non rappresentabile sembra dirci Gino Rago se non attraverso una struttura polifrastica aperta che si snoda mediante continui cambi di passo e di direzione e veri e propri smash, attraverso cambi di ritmo, improvvise accelerazioni e susseguenti decelerazioni nella convinzione che il soggetto è un congegno molteplice e moltiplicato che conosce la moltiplicazione e la diversificazione continue. La «struttura a polittico» non può che ripetere la «struttura del Labirinto» e la «struttura del soggetto» ed è, di fatto, una struttura circolare che ci riporta sempre al punto di inizio. Una mera illusione.
La poesia kitchen è l’esempio più eclatante di una poesia rimasta senza parole. In realtà, il poeta di oggi non ha nulla da dire: nessun messaggio, niente di niente tranne la scatola vuota del vuoto che è l’io, quell’io che è la quintessenza della metafisica della volontà di potenza e del mondo come volontà e rappresentazione. Quella metafisica è giunta al capolinea. E con essa tutta l’argenteria e l’oreficeria della poesia della tradizione lirica. Quella argenteria, però, è oggi inservibile. Un poeta consapevole lo sa, non può non saperlo.
Poesie di Gino Rago
Marie Laure Colasson interpella la scultura: l’uccello Petty
posata sopra il comodino a destra del soggiorno
dell’appartamento in affitto sito in Roma, Circonvallazione Clodia n. 21
accanto ad un volantino color turchese
e una molletta per i panni.
L’uccello Petty:
«Egregio critico Linguaglossa,
la informo che
la “Bestia” di cui parla il Conte di Kevenhüller
l’ho catturata io, è un sedicente poeta elegiaco,
una vera canaglia,
le cui auto pubblicazioni oscillano fra lo “Specchio” Mondadori
e la collana bianca dell’Einaudi,
l’ho chiusa a chiave nella toilette dell’atelier di Piero Tevini
sito in questo stabile al piano quinto.
Resto in attesa dei 49 milioni di euro a suo tempo trafugati
dalla Lega lombarda di via Bellerio;
mi sto preparando
per la cerimonia della targa all’ex Presidente della Repubblica
Carlo Azelio Ciampi …
ma che è che non è la squadra omicidi del commissariato del dott. Ingravallo
ha manomesso il nome deturpandolo,
allora la sindaca dell’Urbe,
la Raggi,
ha reclamato essere stata oggetto di un complotto
ordito dalla Lega lombarda e da Fratelli d’Italia per detronizzarla
dalla carica di sindaco
e far decollare la candidatura della leghista Irene Pivetti
– l’ex Presidente della Camera dei deputati –
per le elezioni del sindaco di Roma Capitale
e così infliggere un colpo mortale ai 5Stelle.
Il Conte di Kevenhüller
ha già ordinato alla Tesoreria Generale della Banca d’Italia
di corrispondere 49 milioni di euro
a chi colpirà la “Bestia”,
somma che verrà corrisposta al Regio Cassiere
don Antonio Porta
per il tramite del direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani, 18.
Allora, accade che il pentastellato Lucio Mayoor Tosi
abbia contattato il filosofo Žižek
il quale ha appena affibbiato un ceffone in pieno viso
al segretario della Lega lombarda,
tale Salvini,
ben noto al commissariato del dott. Ingravallo
in quanto reo di aver baciato in pubblico il rosario
della Madonna Santissima Addolorata
dopo aver deglutito alcuni panini alla mortadella e alla porchetta di Ariccia,
pregandolo di risolvere a suo modo la questione.
Allora, Žižek
ha telegrafato al commissario Ingravallo
intimandogli di sortire fuori dal romanzo
di Carlo Emilio Gadda
e di assumere servizio presso il commissariato della Garbatella
in subordine al commissario Montalbano
il quale ha risolto il caso chiamando in servizio operativo
nientemeno che il filosofo Giorgio Agamben
il quale ha scritto una interpellanza al Presidente del Consiglio Mario Draghi
il quale a sua volta ha ordinato al Generale Figliuolo
di intercedere presso la Santa Sede per via della
Madonna Santissima Addolorata
baciata dal nominato Salvini sul pubblico palco del “Papeete”
quando i sondaggi lo davano al 34%
mentre il nominato chiedeva «pieni poteri» per poter risanare
l’Italia…
La storia non finisce qui, potrebbe continuare, ma noi la vogliamo
interrompere qui…».
Sarà quel che sarà, ai posteri l’ardua sentenza. Continua a leggere
Marie Laure Colasson, Polittico, cartoni sovrapposti su compensato 40×40 cm. 2021 – Il Polittico è il luogo più idoneo per costruire la dialettica tra gli impulsi della materia, gli impulsi dello stile e la struttura costrittiva, tanto vale per l’arte figurativa che per la poesia che per il romanzo, nel polittico la struttura di dominio entra in crisi, si sfrangia, si distribuisce in frammenti. La poiesis di oggi richiede il polittico plurilinguistico e pluristilistico, pena la sua ricaduta nella antica metafisica e nel monolinguismo.
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Resonance effect
di Francesco Paolo Intini
Davvero una curiosa sensazione trovarsi in una di queste macchine. Sembra la vendetta di qualcuno a cui hai offeso il cuore e che adesso ha l’occasione di dirti chi sei e sputarti in faccia l’evidenza di un ammasso di nervi e relais. La musica di segheria semina il panico tra talamo, ipotalamo e cervelletto. Assomiglia al distico persino un colpo di martello su una porta. Strida si susseguono a squittii. Ogni gruppo organizzato di suoni sembra mandato a delinquere per le strade del cervello o ad organizzare lo sciopero generale delle parole contro lo sfruttamento del significato. Da un usignolo ti aspetti la serenità di un nido su un pesco in fiore ma ricevi un colpo di pistola. È così che s’interferisce nei fatti altrui? Sembra che però funzioni a meraviglia. Inutile a questo punto protestare la propria innocenza, lo scopo nobile del ricercatore che interroga la natura è messo alla gogna da questo Robespierre in camice verde. Si ha la sensazione a tratti che la cuffia da palombaro intorno al cranio tiri fuori la lista dei nuclei di idrogeno tormentati in questi anni dal Torquemada, per svelare le loro intimità, le riunioni segrete, la capacità di adattarsi a tutte le circostanze, il sale della terra. Che ne hai fatto del carbonio? Speriamo che non mi chieda del platino? Non ho tracce di azoto e fosforo da molti anni e dunque almeno loro dovrebbero star zitti. Eh si, l’odore di resina versata mi riempie le narici di peccati contro l’umanissima tavola periodica e il passato è un macigno sulla testa di elementi calpestati in nome dell’ingenuità e del significato ultimo di questo abitare l’universo. Che peccato è tradurre l’universo in una lingua indistruttibile? Invoco l’autorità della pagina scritta col lavoro di mani e fuoco vivo, ma mi accorgo che i meriti adesso sono diventate colpe. Leonora vede il Monitore ritorcersi contro lo stesso dito che incoraggiò la penna. Una pace serena di parecchi secoli prende però piede adesso tra occhi e orecchie. I nervi cranici si sono messi d’accordo ed è bastata qualche scaramuccia per risolvere la questione. Metternich non è mai morto e ora minimizza tutto. Mai una Marengo, nessuna Austerlitz soltanto Waterloo e sant’Elena. Ma detta tra noi qual era in fondo? Diplopia che vuol dire? Che c’è un difetto nella visione. L’Io e il suo doppio alle spalle. Se guardi Caino non sei certo che Abele stia fuori dall’obiettivo , ma anche il poeta sguazza nel cuore di Faust. Un fiammeggiare di imprevedibilità circonda il Sole ed osservare non risolverà il mistero di essere osservati. Almeno per questa volta.
Poesie di Francesco Paolo Intini
Si affacciò come una ragazza curiosa
di uno stallone sopra la giumenta.
D’altro canto la Terra è calva
e nessuno sbuffo esce dalla marmitta.
L’NMR posò il becco e cominciò a mangiare.
Di geco il sapore in bocca.
Tutti all’inseguimento di Mengele. E Pasolini?
Dove sono i rimasugli del 68?
In qualche Bar c’è un messo dell’ottocento.
La caffettiera, poeta maudit, alza il vapore.
A quella marmaglia sopravvisse Robespierre.
Dove lo metti uno che non sa fare il dolce?
Una nuvola parla a nome di un’aquila.
Un dito solleva una questione interno all’uovo.
E dunque cosa nascerà da questi manufatti senza fondo?
Se la crema da barba vale un bombardamento
Al massimo avremo una diagnosi col casquè.
Tra le grondaie germogli di senecio.
E l’autunno? Urla di camoscio spinto in giù.
HIROO! QUEST’È
Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.
Fumare è una passione in tempi di Luna sorella.
Ottobre passò con le ciminiere appassite
Giurò di impastare un Lenin al secondo
Se non avesse visto la Tabella sul senecio.
Prometeo scostò le tendine del salotto
E fece un esperimento di entanglement
Le madame si arrabbiarono quando videro
Il diamante bruciare in Paradiso.
Sarebbe riapparso a fine corsa:
Amore di mamma su katana.
Una cardo vantò l’offerta formativa di una rosa
La questione finì davanti a una bella di notte
Solo perché da una tubetto di smeraldo
Spuntò il soldato Oneda, baionetta e ramarro.
Un gioiello riappare sempre dal lato kitsch
Talvolta il vestito appende il volto blu
Carbonio o Plutonio?
Quello vero ha barba e occhiali ma vota PCI
e lo fa ogni giorno e lo fa ogni volta che ha una donna
Ma il tema sopravvive all’inganno.
E l’imperatrice?
Un haiku al giorno:
chi vinse la pandemia?
Hirohito Yeah!
caro Franco Intini,
«I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», afferma Wittgenstein, delineando una ontologia materialistica.
Lo stare al mondo del soggetto si dispiega come linguaggio e attraverso il linguaggio.
Qualsiasi fenomeno che esuli dalla trasferibilità linguistica non ha alcuna valenza ontologica. Quando Wittgenstein parla di «mondo» si riferisce a un concatenarsi di fatti o stati di cose, che possono trovare immagine nel pensiero. «L’immagine logica dei fatti è il pensiero». Tuttavia, perché il pensiero operi correttamente è necessario che sia costituito come una proposizione dotata di senso, ovvero che abbia una funzione veritativa rispetto al mondo esterno.
L’alternativa a tutto quanto non è elaborabile come linguaggio della logica e del senso compiuto è il silenzio.
«Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere».
Dovremmo concludere che esiste solo ciò che è riducibile alla parola? Il filosofo austriaco, ben conscio della critica cui poteva andare incontro l’esasperazione del suo pensiero, prende le distanze dal «mistico». Il «mistico» è fuori dal linguaggio e quindi non può essere glossato. Ci sono però situazioni che, contrariamente a quanto fin qui asserito, rivendicano un preciso diritto di realtà, sebbene non ne sia possibile una fedele trasposizione linguistica. È il caso dei sentimenti, degli stati d’animo o di particolari vissuti. Di fronte a questi fenomeni – che sono cose diverse dai «fatti» che per Wittgenstein costituiscono il «mondo» – la parola si fa immediatamente personale e peculiare: non è più il mondo, ma il mio mondo. Il linguaggio è ridotto alla sua funzione di segno e diventa irriducibile la sua valenza logico-scientifica. Il «mistico», così come citato dallo stesso Wittgenstein, è linguaggio che non si lascia significare dal linguaggio.
In un certo senso, il «mistico» inteso in senso wittgensteiniano è il luogo della poetry kitchen che adotta la logica del linguaggio per andare oltre la logica del senso e del significato. La poetry kitchen ha una ben precisa funzione veritativa rispetto al mondo esterno, allarga il mondo esterno, ci fa vedere cose che prima non vedevamo.
Žižek afferma che l’ideologia «comporta che gli individui ‘non sappiano quello che fanno”»; che finché c’è, lacanianamente, il grande Altro, ovvero, l’ordine simbolico, scopo dell’ideologia è rendere gli uomini ingannabili e governabili; l’ideologia comporterebbe sempre un quantum di inganno, di cecità, un quantum di falsa coscienza. Vale a dire che la falsa coscienza è indispensabile affinché sorga e si stabilizzi una ideologia. E una ideologia è indispensabile affinché nasca uno stare nel mondo, un’etica e una estetica. La modalità kitchen è, a mio avviso, un atto di consapevolezza della cecità e della falsa coscienza nella quale siamo immersi. E questo è il punto a vantaggio della poetry kitchen rispetto alle modalità del senso e del sensorio che una poiesis illusoria e mimetica pone in essere in quanto dotate di una minore consapevolezza della falsa coscienza nella quale tutti i linguaggi sono attinti e del carattere illusorio di ogni algebra del senso e del sensorio.
Mimmo Pugliese ha scritto questi tre versi:
Gianna aveva un coccodrillo ed un dottore *
tacciono gamberi e ortiche
il canarino inala un analcolico
* Gianna (cit. Rino Gaetano,1978)
dove è evidente che il lessico della canzonetta (vedi Rino Gaetano) era molto avanzato mentre quello della coeva poesia italiana era semplicemente stazionario, nel senso che si era fermato nella stazione ferroviaria principale: il lessico di Bertolucci da una parte e quello di Raboni dall’altra.
Certo, ci sono delle ragioni ben precise che hanno causato la stazionarietà della poesia italiana dagli anni ottanta in poi, quelle ragioni le abbiamo esplicitate in più occasioni, è lì che la poesia italiana con il suo lessico, la sua lessicografia, la sua stilematica pseudo orfica e pseudo sperimentale si è sclerotizzata.
Mimmo Pugliese riparte da lì, da quella stazione dove i linguaggi poetici si sono fermati a prendere un caffè e poi hanno smarrito la strada del futuro. I linguaggi artistici sono sempre irrelati con il futuro più che con il passato, guardano al futuro, sono costretti a guardare al futuro, pena la auto nullificazione, la tautologia e il protagonismo dell’epigonismo.
Anche la poesia di Tiziana Antonilli si è mossa, dopo il suo libro Le stanze interiori (2018), che comunque segnavano un approdo sicuro, la poetessa di Campobasso aveva bisogno di inalare un po’ di ossigeno, di rinfrescare il suo lessico e il modo di disporlo sulla pagina, e c’è riuscita, segno evidente che la frequentazione dell’Ombra delle Parole dà i suoi frutti.
La modalità kitchen è, a mio avviso, un atto di consapevolezza della cecità e della falsa coscienza nella quale siamo immersi; innanzitutto, quando leggiamo una poesia, il suo lessico rivela immediatamente a quale mondo è imparentato. Quei significati di quel lessico si sono auto derubricati, oggi non significano nulla più che nulla. Quel senso e quel sensorio erano telefonati, erano già invalidi all’inizio. Occorre prenderne atto.
E questo è il punto a vantaggio della poetry kitchen rispetto alle modalità del senso e del sensorio che una poiesis illusoria e mimetica pone in essere in quanto quest’ultima è dotata di una minore consapevolezza del carattere illusorio di ogni algebra del senso e del sensorio.
Mimmo Pugliese
L’ultimo airone
Era l’ultimo airone
dopo sere di cenere
campane sul tavolo
eleggono torce votive
Online trasmettono il diluvio
il drive-in ha i menischi consunti
Qualcuno ha il lunedì al guinzaglio
gerani di fosforo
affollano lavatoi a pedali
I ripiani della libreria sono un fiume
una pietra a forma di toga
sopravanza le lucciole
il confine è un lampo
Guardi una foto un pò sfocata
improvviso il vento spalanca la porta
i pesci non rispondono
Nella baraonda del dopocena
capannelli di moscerini
radono al suolo l’emicrania
la notte è un brufolo
Fine
La luna raccoglie papaveri
in fondo allo stagno di sassi
quegli uomini erano stati soldati
Falene ubriache
sfondano specchi di ghiaccio
la strada è un rettangolo
La scuola turchese
è avvitata con chiodi di prugna
hanno scambiato l’ordine dei materassi
L’acqua ha una ruga in più
dalla cruna degli aghi
si intravede Kabul
Rocce arroventate
albe colpite alla schiena
dalle ali degli aerei
Il maniscalco parla al contrario
ha il becco dell’aquila
per cappello un mappamondo
Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione…
Fine
Sulla voce
Dispositivi poietici e dispositivi politici sono solidali, conflittuali, legati dalla dialettica dei distinti e degli opposti, hanno luogo nella medesima polis e presuppongono sempre una metafisica. L’articolazione originaria tra la Phoné (la voce che si toglie, viene meno e precipita nel negativo) e il Logos (il discorso articolato in un linguaggio), fonda la phoné come il negativo e il logos come positivo.
Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela una nuova metafisica. Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela la fine di una metafisica. Una nuova «voce» può sorgere soltanto dal perire della vecchia «voce» e della vecchia metafisica.
La dizione «voce senza linguaggio» significa questo emergere della voce nel e dal linguaggio, nel e dal linguaggio che sta emergendo. La «voce» è sempre alla ricerca del linguaggio più appropriato che possa ospitarla. Il linguaggio è la «casa» della «voce».
Quando la «voce» abbandona un linguaggio, ciò avviene perché quella «casa» è diventata inospitale: ci piove dai tetti, le finestre e le porte non chiudono bene alle intemperie e vi penetra il gelo d’inverno e la calura in estate. Allora, la «voce» deve abbandonare l’abitazione e si mette in viaggio alla ricerca di una nuova abitazione.
La poiesis è quell’ente per il quale ne va, nel suo esistere, del suo aver nome, del suo essere un fare nel linguaggio.
(Giorgio Linguaglosa)