Archivi del mese: novembre 2023

Tre Voci di Avatar Raffaele Ciccarone (Sic Stantibus) Francesco Paolo Intini (Gneo Gaius Fabius) Giorgio Linguaglossa (Germanico), Fate attenzione ai linguaggi, quando un linguaggio tramonta, un altro sopravviene e prende il posto di quello deperito. Il linguaggio belluino della Meloni fa da contraltare e coabita con il linguaggio bambinesco della poesia di Vivian Lamarque…

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Raffaele Ciccarone
Cara Scintilla

(Il cantico delle farfalle ottura le canne dell’organo)

Sarebbe la verticale che allunga la scia delle farfalle
amplificando l’eco della frescura nella mentuccia
non c’è l’abbaglio del treno a suscitare tremore
visto l’apericena consumata in galleria

un equilibrio disarticolato il sibilo di sottesi fischi
allarga la visuale dell’amarena ora che il criceto
tra l’ossigeno e l’ossido di carbonio stenta
veleggia tra le montagne russe motu proprio
Vista la risposta dell’AI all’angolo acuto

l’accento sprizza scintille e non è detta la piena
comprensione della ChatGPT una volta
che il distributore dispensi la tazzina se manca il caffè
fu Cassandra a elargire le tessere magnetiche

per accedere alla mostra della tela di Penelope
prima che Ulisse arrivasse a Itaca per la mostra
con tutti i Proci per assistere all’inaugurazione
nelle waiting list sfioriscono i ciclamini

Annibale rifiuta di portare a Roma i fiori quando
Il telescopio segnala solo orme di dinosauri
e la luna fa il bagno al largo delle isole Tremiti

(Sic Stantibus)

Francesco Paolo Intini

Caro Germanico

Di quale guerra si sia liberato non so dirti ma questo puledro che gira per l’astronave e vi entra ed esce, non vuole saperne di biada e acqua.
Non fa che intrufolarsi tra vecchi registri di bordo e libri di storia per digerirli prima di mangiarli.
Se gli metti sotto gli occhi il debito di una generazione su un’altra, sorride come un primo ministro al G20 infischiandosene e nitrendo
Il giovane Biden sembra partorito da una tempesta di antimateria.
Un pidocchio però lo tormenta nella criniera.
Antienergia o la coscienza di assomigliare ai fanciulli sotto tiro?
Forse solo il vecchio corteo confederale rimasto impigliato alla scala mobile che ritorna a Piazza del Popolo con le bandiere basse e meste dell’asino bastonato dal destino.
Certo è che se ne sentono gli slogan nel nitrito fanciullesco e sbarazzino.
Persino quando corre contro il sole illudendosi di raggiungerlo e giocare con un raggio o quando la pioggia di detriti gli trafigge gli occhi e scalpita, ha qualche sprazzo dell’antica forza con tanto di barba che gli cresce fluente e minacciosa sui secoli a venire.
Ah il Gibaud di metalmeccanici. Che meraviglia di fanciulli percorse le strade, compose poesie con rima baciata..carogne..fogne!
Sulle due sfere di cristallo si intravedono lampi di Carosello e ciglia robuste.
Come se il Dna lo avesse dotato di un repertorio di sketch pronti e inossidabili.
Smorfia e faccia storta di Totò all’occorrenza.
Baffetti e bombetta che si stampano all’improvviso sui denti appena lavati e uno scommettere su questo e quello del benessere alla carte che lo sveglia dal sonno e… il buco nella tasca non c’è più!
A stento devo ricordargli che è solo un cavallino e non può recitare in un stacchetto pubblicitario e fumare sigari cubani in tuba e pelliccia, senza destare sospetti e invidie e nemmeno in Miseria e Nobiltà, ma che se si tratta di un piatto di spaghetti si può rimediare alla meglio appena si arriva a Plutone.
Anche su un iceberg c’è sempre una fila di proletari e orsi neri che aspettano il loro secolo per staccarsi le catene dai piedi e pattinare sul ghiaccio, fare uno stage in una miniera di Litio o di Nickel e ricaricarsi lo stomaco a un distributore di corrente.
E’ il nostro?
Ma i giovani come si sa non sanno nulla di speranze di lungo corso e tutto vorrebbero mettere nel tritacarne dei loro recettori freschi e puliti.
Lui adesso è immobile, nella pancia finge di avere Odisseo e pochi audaci.
Sembra che partecipi al gioco di una bimba di un anno che lo cavalca dondolandosi di tanto in tanto.
Chissà se metterà a ferro e fuoco la sua stanza di cubi e bambole di Mulan e Cassandra o semplicemente uscirà all’improvviso a pattinare con Alina sgomitando nella Bellezza con un triplo flip, in senso inverso, questa volta e senza un missile che gli caschi tra i capelli.

(Gneo Gaius Fabius)

Giorgio Linguaglossa

Caro Gneo Gaius Fabius

Si narra che Kateřina Zoufalová, la moglie del poeta Antonio Sagredo, alzi il calice della discordia ogni qual volta il console Ripellino abbraccia il suo schiavo, il filosofo Callicle… quel sofista, per rabbonire il suo padrone, ha predetto lunga vita alla Repubblica a condizione che le farfalle – dice – volino più in alto delle meduse, il che è un falso truismo, come possono le farfalle, che vivono nell’aria, volare nel mare che è fatto di materia equorea? Aristotele cosa ne direbbe?

Si narra altresì che nell’ologramma n. 5ABWX 145.78 si vive la battaglia di Farsalo del 49 a.C, ma qui Pompeo sconfigge Cesare, ritorna a Roma e diventa dittatore con il favore del senato, ingaggia un esercito con il quale sconfigge l’invasione delle formiche a cavallo capitanate dal sarmata Ozerov
Si dicono tante cose, caro Gneo Fabius, la più esilarante è che in un altro ologramma il poeta Catullo le abbia suonate per bene all’elegiaco Mimnermo sull’ermo colle dinanzi alla finestra dalla quale era affacciato il sommo poeta di Recanati…

Ma tutte queste cose tu, lo so, le sai, ho così visitato un altro ologramma nel quale Cesare sta servendo come coppiere in un banchetto insieme ad altri prostituti disteso su un triclinio su un letto d’oro, con una veste dorata e rabescata… pensa che persino i suoi soldati l’hanno sbeffeggiato durante il trionfo gallico gridando: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare!». Che fo che non fo, ti spunta il vicepremier del consiglio, quel furfante, l’ostrogòtt Salvini, che alza un cartello con su scritto: «dò due Mattarella per mezzo Putoler!»

Nel metaverso si sta meglio, non hai a che fare con le mosche nocchiere o con i vandali di Vercingetorige… in un altro ologramma il commissario Montalbano arresta il poeta Valerio Magrelli, gli mette le manette ai polsi per aver emesso un sonoro peto nella piazza pubblica che fiancheggia il Ministero della Giustizia dell’Urbe, atto davvero sconsiderato e insolente

Tu dici che un pidocchio tormenta la criniera del giovane Biden? – non saprei dire, opino si tratti di una cimice o di una piattola gigante; infatti, in un ennesimo ologramma la piattola è diventata una mongolfiera riempita con l’anidride carbonica e il metano emessi dalle terga degli elefanti portati nell’Urbe da quel saccente di Scipione l’africano di ritorno dalla guerra del Donbass

Pensa tu che, alzo il naso e chi ti vedo?, vedo il poeta Lucio Tosi che solca il cielo con una astronave con su scritto “Mi sorrido gratis. E altre anomalie”, che altro non è che il titolo del suo libro d’esordio nell’agone poetico italico dato alle stampe nel novembre del 2023 per sabotare quegli ingenuotti della poetry kitchen capitanati dal poeta Vincenzo Petronelli

Fu allora che raccolsi da terra un pugno di mosche e le lanciai verso il cielo in segno di “Buon augurio”, dal titolo di una poesia del poeta italo-germanico Steven Grieco-Rathgeb, il quale, è notorio, sotto sotto parteggia per la poesia elegiaca e i suoi accoliti
(Germanico)

Noticine miserabili in margine ai grandi eventi

Il coordinatore del gruppo di psicologi e giuristi è Alessandro Amadori nel 2020 ha autopubblicato La guerra dei sessi, un libro in cui nega la violenza maschile e sostiene tesi cospirazioniste sul tentativo delle donne di dominare i maschi. Il suo punto di vista somiglia molto a quello reazionario e retrivo del generale Vannacci.

  1. Come è possibile che Alessandro Amadori sia stato scelto come consulente del governo?

2. Come è possibile che un ufficiale che sostiene tesi illiberali, contrastanti con i valori della Costituzione sia diventato generale dell’esercito italiano?

Fate attenzione ai linguaggi

Fate attenzione ai linguaggi, quando un linguaggio tramonta, un altro sopravviene e prende il posto di quello deperito. Il linguaggio belluino della Meloni fa da contraltare e coabita con il linguaggio bambinesco della poesia di Vivian Lamarque e con il linguaggio pacificatorio della “narratrice” che ha vinto l’ultimo Strega. E questi sono davvero un pessimo segnale dello stato di salute della società civile. Continua a leggere

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Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

Fabio dainotti cover

L’osservazione di Andy Warhol secondo cui in futuro ognuno godrebbe di un quarto d’ora di notorietà esprime un totale scetticismo nei confronti della possibilità di fare opere artistiche tali da restare come azioni significative per i contemporanei e i posteri. Siamo diventati tutti degli scettici integrali, dei lucidi paranoici, abitiamo la follia dello psicozoico senza rendercene conto.
Occorre quindi prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: «Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione». Il delirio, la derelizione, il soliloquio a voce alta o voce bassa, soprattutto se sistematizzato e messo in forma di lirica, vorrebbe dare una apparenza di ordine e di senso alle esperienze di caos. È che è diventato impensabile dare un ordine di senso al caos dei giorni nostri, ma Fabio Dainotti è un affezionato storyteller, un raccontatore di storie, lui non vuole mettere ordine al caos né indire una gara per un concorso pubblico in materia di una lingua pura, la sua poesia è spuria, invariabilmente legata al plot, al racconto magari sui morti o sui nati morti alla maniera di Giorgia Stecher, senza però che intervenga l’elegia. Dainotti è un poeta ormai eslege e ipocondriaco, ha messo nel cassetto degli agenti patogeni l’elegia considerandola come una indebita intromissione di un esigente creditore nell’ambito del nostro conto corrente. È possibile pensare, sulla scia di Lacan, che il soliloquio sia una salutare reazione che ha luogo quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, ovvero, quel significante-escluso, significante-Padrone a cui non corrisponde alcun significato. Ora, è che questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto. La perdita di autorevolezza e di senso del soggetto-autore non riguarda soltanto la letteratura, ma ogni forma d’arte e di presenza nell’esistenza, Dainotti è uno spigliato investigatore, sa che l’intromissione dell’io nel testo poetico deve essere ridotta al minimo presentabile, e si comporta di conseguenza, la riduce ad un piccolo io che se ne sta in un cantuccio e di lì osserva lo sbrogliarsi della matassa dell’esistenza.
Questo preambolo per dire che al di sotto di quest’ultimo libro di Fabio Dainotti c’è una situazione storica di disincanto, di dissoluzione, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni prototipiche del nostro tempo di crisi epocale. Le tematiche del libro sono le più varie; mi limito a citare i titoli di alcune poesie, per lo più composte da una sola parola (Grillo, Scarpine, Sconforto, Mareggiata, Pioggettina, Bimbo, Bimba, Alla Madre, In morte, Notturno, Rimorso, Viaggi, Pierrot, Burlesque, Bisticcio, Cattedrale, Lettera, Ricordi di scuola, Sera, Ars poetica, Effe, Abatino, Sara, San Marco, Il gatto, Fillide, Congedo, Piove, Sguardo, L’albergo dei morti, Miliardaria, Mattino milanese, Mattino vicentino, Novecento, Cane e padrone, Famiglia, Cimitero marino, Orario d’apertura etc.). Come si vede già dai titoli, risalta la nominazione blasé, svagata e disincantata del dettato poetico di Dainotti:

Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori, la vita celebra
i suoi trionfi, in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne ricorderà.

È il cane il più saggio tra gli umani di oggi. È l’aspetto grottesco quello che traspare tra le parole gentili del poeta di Cava de’ Tirreni. Ecco un altro esempio di poesia disillusa e disincantata:

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Ma dove sono i re e le regine
di cartapesta con le teste mozzate?
Prigionieri di polvere e incantesimi
negli abbaini pieni
e sogni infranti e di luna.

Dov’è re Ezio, prigioniero illustre,
dove la sua bionda carceriera?
e Federico, vento di Soave,
a quale porticina di convento
bussò, stanco di vivere e di regnare?

Son tutti morti, non c’è più nessuno.
L’erba è cresciuta e ora il vento la spinge
sulla collina.

Non ci saremmo mai imbattuti in questo genere di poesia, una sorta di neo-crepuscolarismo declassato e privo di elegia, se non vivessimo in un periodo di grande crisi economica, politica, sociale, e crisi del linguaggio poetico. Dainotti risponde alla crisi plurima con un linguaggio soliloquiale, limpido e disilluso di chi ha cessato di credere alle balsamiche virtù progressive della storia, malgrado tutto, e alle virtù benefiche dell’io plenipotenziario e penitenziario:

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Ciò che resta non è neanche più il non-senso, che sarebbe pur sempre una istanza plausibile, quanto l’indebolimento del senso fino alla esaustione, fino alla fine del senso stesso. Tutti quei valori di un tempo che ci appare lontano, d’improvviso oggi non valgono più nulla, sono caduti in disuso, sono stati, come si dice oggi con una brutta parola, rottamati. Fabio Dainotti ne prende nota nel suo taccuino post-lirico e si rivolge al lettore con il suo registro post-musicale medio, con il suo tono sornione, dimesso e auto ironico da neo-crepuscolare giunto in ritardo all’appuntamento con il treno dell’ipermoderno.
La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere.

(Giorgio Linguaglossa)

da L’albergo dei morti, manni, 2023

Famiglia

“Un treno lanciato nella notte”
ci aveva portato su al Nord,
io all’università; tu per lavoro,
con la tua valigia da emigrante.
Si parlava di temi difficili: la vita,
e la letteratura, si fumava;
intanto si viaggiava
verso un incerto destino.

Era, la solitudine, ghiacciata;
neppure il vino mi scaldava il cuore.
Scrivevo lettere d’amore,
ma senza il suono di una voce umana
la voce della mia amata lontana.

Indossai il mio abito elegante,
e presi il treno da Pavia a Milano;
ed eccomi in Piazza Tricolore,
dove mi porta il tram, scampanellando;
poi pochi passi ancora, caro amico,
e suono il campanello alla tua porta.

Viene tua madre, in vestaglia ancora,
e sono già le undici.
È lei che porta avanti la famiglia,
l’emigrazione al Nord e poi il lavoro
trovato a tutti i figli. Anche al marito:

a un tratto lo intravvedo
dietro una porta semichiusa,
vestito già da vigile;
parrebbe un generale,
se non fosse il sorriso bonario.

Poi c’è Filippo, il figlio donnaiolo;
rincasa tardi d’estate, apre il frigo,
afferra qualche cosa da mangiare
incurante di me; poi ti canzona
bonariamente e se ne va a dormire. Continua a leggere

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Steven Grieco Rathgeb, “Il Buon Augurio II”, La poesia con vista da remoto «Forse sei tu, in Italia, il più grande poeta modernista, oggi, dopo Zbigniew Herbert, capace di allargare lo sguardo dal privato alla geografia (Roma, Varsavia, Łodz, Berlino). Forse sei l’ultimo dei modernisti che poeta en plein air, come un novello impressionista che impieghi gli stilemi dell’espressionismo e del modernismo. Le tue poesie sono icone in movimento che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e la luce», a cura di Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Steven Grieco-Rathgeb è nato nel 1949 è un poeta bilingue che scrive in lingua inglese e italiana. Vive in Grecia, dove coltiva un piccolo lembo di terra. Ha pubblicato Maschere d’oro, poesie italiane nella collana Biblioteca Cominiana, dove il suo volume era affiancato da testi di Yves Bonnefoy, Francesco Tentori e Charles Tomlinson: Entrò in una perla, poesie inglesi in traduzione italiana, collana Hebenon, Mimesis, Udine 2016. È stato redattore della rivista letteraria internazionale L’Ombra delle Parole. Nel 2018 si trasferisce in Grecia dove abita su una piccolissima isola che puoi attraversare a piedi, Koronisia (Κορωνησίας), unita alla terraferma da una strada in mezzo al mar Mediterraneo lunga 25 chilometri, abitata da qualche pescatore e dai gabbiani e dagli uccelli di passo.

Steven_Grieco_Rathgeb_destroyed Warsaw

[Destroyed Warsaw]

.

caro Steven,

che altro è la tua poesia se non un pensiero poetico da remoto che medita sul tramonto della luce che avvolge tutte le cose? Sulla luce che lentamente si estingue? La tua poesia è sempre paesaggistica, è sempre en plein air, vuole chiamare il lettore dentro la luce e i suoi mille riverberi; e che cos’è questo se non il chiamare, da remoto, il lettore quale protagonista dentro il tramonto della luce? È in questo tramontante tramontare che la tua poesia si illumina (riceve la luce) e la proietta sul lettore (la irradia)… nella tua poesia i personaggi, i paesaggi, gli oggetti ricevono luce dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, diventano visibili e, nello stesso tempo, invisibili per un eccesso di luce, un eccesso di aria trasparente, di rifrangenze, di ultrasuoni. È una poesia in movimento, una colonna in movimento che chiama il movimento, e lo allontana per rifugiarsi nel rammendo del ricordo e delle icone in movimento. Prendi l’abbrivio con l’invocazione ad una deità, Zbigniew Herbert, il poeta che ha poetato «nei modi della complessità», e aggiungi «come Subbutaj e i suoi Mongoli». E allora eccoti a lavorare, come un fabbro ferraio, sulla piegatura dei verbi per rendere visibile il passaggio, il sentiero della luce, modulando le declinazioni dal gerundio al participio passato fino al condizionale:

Tu, Zbigniew, poeta, hai descritto questo
nei modi della complessità: come Subbutaj e i suoi Mongoli,
non giungendo, mai giunti, giungano sciamando
alle sponde del fiume Kálka.

Forse sei tu il più grande poeta modernista, oggi in Italia, dopo Zbigniew Herbert, capace di allargare lo sguardo passando dal privato alla geografia e alla storia attraverso i suoi luoghi (Eleusi, Mègara, Roma, Varsavia, Łodz, Berlino). Forse sei l’ultimo dei modernisti che poeta en plein air, come un novello impressionista che impieghi gli stilemi dell’espressionismo e del modernismo. Le tue poesie sono icone in movimento che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e l’onda di luce che avanza nello spazio tridimensionale. Ecco una tua tipica icona in movimento:

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

Che inizia con un passato remoto (andammo) da una data incerta (qualche giorno d’ottobre) attraverso un luogo incerto anch’esso, (a Varsavia) dove due personaggi sono diretti verso un luogo incerto e instabile perché sottoposto alla aleatorietà degli eventi.

Che cos’è l’Icona? Non è una pittura silenziosa dove la luce viene dal un altro Luogo?, un luogo immateriale e immortale? Ovviamente, la tua poesia en plein air, si riallaccia alla antichissima poetica delle icone bizantine, è una poesia da zoom paesaggistico, è un periscopio che scandaglia l’orizzonte, fotogramma dopo fotogramma, fotogrammi che prendono luce da un’altra dimensione, ricchi di aria e di vuoto, pieni di vento e di cartacce.

L’icona segna il punto di congiunzione tra la dottrina neoplatonica e la religione cristiana. Qui l’icona non è semplicemente la raffigurazione del trascendente, ma vera e propria incarnazione dell’ente supremo nella forma sensibile della storia degli uomini ricca di sangue e di sperpero. Si parla allora di epifania dell’essere supremo. In questo senso la mimesis platonica raggiunge la sua massima espressione. Questo carattere epifanico della verità di Dio non spetta allora solo al Verbo, alla parola, ma anche l’immagine, simbolo della luce divina, è manifestazione di Dio; possiamo addirittura affermare che l’arte dell’icona è poesia senza parola, messa in opera della verità in immagine silenziosa: ciò che la parola dice, l’immagine lo mostra silenziosamente.

È quindi sbagliato affermare che mentre nella cultura greca è la vista l’organo privilegiato per pensare il soprasensibile – basta pensare al significato delle parole fondamentali del pensiero platonico idea e eidos che rimandano a un vedere essenziale -, nella cultura cristiana il vedere diventa un ascoltare. Non a caso una delle immagini più ricorrente in tutta la tradizione cristiana è proprio quella della luce, intesa, appunto, come immediata epifania della verità: lo Spirito santo è sia Verbo che Luce. Nella visione teologica cristiana la luce è una promanazione (secondaria quindi) dello Spirito Santo. Questa metafora della luce come immediata percezione della verità non si esaurisce in una dimensione puramente religiosa, tra luce e verità c’è un filo conduttore comune, infatti, quando l’occhio percepisce gli oggetti, ciò che in realtà percepisce è la luce riflessa di essi. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela. È la luce che rende bello l’oggetto, permettendo a quest’ultimo di raggiungere il suo bene, la sua essenza.

La tua poesia ha bisogno dell’icona e del passato, è sempre immersa nel passato, dà forma al passato e lo trasfigura in statua di sale, statua di rifrangenze.

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

L’artista delle icone è colui che mediante la vita ascetica si svuota di tutti i desideri terreni per accogliere la luce trascendente trascrivendola su tela. Infatti, l’arte contemplativa si pone al centro della cosmologia dei Padri della chiesa: la visione dei lógoi archetipi, dei pensieri di Dio sugli esseri e sulle cose, costituisce una teologia visiva, una iconosofia. Ogni cosa possiede il suo lógos, la sua parola interiore, la sua determinazione strettamente legata all’essere concreto. Questo legame è posto dal fiat (l’imperativo “sia”) divino; esso è la corrispondenza adeguata e quindi trasparente tra forma e contenuto, il suo lógos; la loro intima compenetrazione, la loro coincidenza segreta si rivela in termini di luce e rivelano la bellezza. La bellezza della icona sta nella trascendenza e nell’immanenza divina. Quest’arte, tipicamente orientale della cristianità ortodossa, rappresenta la possibilità che il trascendente platonico possa rendersi visibile nel mondo mediante un processo ascetico di purificazione e di accoglimento del soprasensibile.

Ecco, tu metti l’immobilità dell’icona nella magmaticità della Storia. La bellezza delle tue icone in movimento sta in questo atto di immissione nella transustanziazione della storia. In questo ti riveli occidentale, figlio della cultura anglosassone e della lingua di Dante; riesci concreto ed astratto, dipingi le parole come un pittore espressionista e le moduli con la dolcezza delle sculture di Henry Moore. Così, riesci ad essere molto poco italiano e molto poco inglese e fai una poesia che per tua fortuna non ha niente a che vedere con i minimalismi della poesia italiana e inglese degli ultimi decenni a cui tu sei semplicemente, per tua fortuna, estraneo.

(Giorgio Linguaglossa, 19 novembre 2023)

Onto Steven Grieco

[Steven Grieco Rathgeb]

.

Il Buon Augurio II

I. Plac Zbawiciela

Questa primavera non fioriranno i salici bianchi al fiume.
Gli alberi volano e sono nudi.
Ma i loro sguardi a migliaia già volteggiano nell’aria,
spolverando lanugine ovunque,
sulla folla ed io, felicemente ignari,
a passeggio per le vie e le piazze di una Varsavia
che ogni spigolo allarga, ogni specchio incastra
nel cielo impetuoso di nubi.

Più si sdoppia immobile e non moltiplica, si perde.
Compiuta fra noi e noi, l’imperfetta identità.

E l’immagine è nera.

È qui che vengono a morire i blocchi della banchisa,
nell’animarsi d’infiorescenze solo riflesse nell’aria;
e il cimitero di petali di ghiaccio in crescita di anno in anno,
su in alto, dove la statua con gesto misericordioso,
indica la città rasa al suolo.
Ma ancora, e sopra i tetti, scivolando nel silenzio,
passano le sagome di iceberg, i colossi
nel loro transito a sud,
traditi talvolta dalla danza di un filo d’erba.

“Tutto era per sempre, fino a che non fu più.”
Aprile 2019, i fiori, la guerra da sempre terminata,
e ogni capitombolo nella notte sconfitto e imprigionato.

Questa nostra mattina di luce totale, di luce sbarrata
a se stessa, è primavera che non ha fine;

e nella porosità fattasi estrema, il travaso di pensiero
in ogni direzione, gli strabilianti progressi,
freno ad ogni capitombolo in nuovi precipizi.

I tuoi occhi, Kasya, tradiscono altri paesaggi.

“L’albero della vita ha maturato frutti molti,”
hai detto, quando tutti piangevano;
“ma noi non sappiamo dove dimori quest’albero;
né i frutti prima di cadere e dopo
a cosa siano serviti.”

La forza dei tuoi occhi rivela la brezza dei salici,
e tutto a noi sussurra il vero:
di anima e suono questo vibrare apre un varco,
un’origine; le tue labbra azzurre spalancano porte
sulla nostra casa ormai decaduta, miseria
e innocenza di brutte femmine e letti eunuchi
condivisi nell’ira, nell’inganno, nell’arroganza;
e fango, i piatti e le posate
lavati nel sangue di impietosi sradicamenti.

Tu riveli le migrazioni mai interrotte, da Łodz a Berlino
a tutt’oggi lo ieri verso il domani in marcia,
le donne avvolte negli scialli e i bambini in braccio.
Opera di industriali della carne surgelata,
che per “rischi asimmetrici, ambigui e irreversibili”,
hanno appeso i negazionisti per le pudenda
alla trave maestra della sala dei banchetti.

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

Steven-Grieco Rathgeb in celeste

II.

Tu, Zbigniew, poeta, hai descritto questo
nei modi della complessità: come Subbutaj e i suoi Mongoli,
non giungendo, mai giunti, giungano sciamando
alle sponde del fiume Kálka.

Di là, attraverso le prime brume del mattino,
le immagini della poesia materializzano ombre
di accampamenti, rumoreggiare di uomini e cavalli –
tutta la nostra modernità irrealizzabile.

“Senza bisogno di ignorare un dopo.”

Hai sparso, poeta, semi in campi mai arati.
Balzarono su erbacce nel tormento della fioritura.
Hai accolto me nel tuo secco disincanto,
prevedendo i luoghi dell’aggressione, i sicari
nelle ambasciate, il muto collasso della luce del giorno.

Io sono sceso sotto l’orizzonte, al bruno gioiello;
ho compiuto il viaggio remoto là dove
s’accendono mille lumi fra aggrovigliate radici
di giganti in alto in dialogo con il vento di stelle cadute.

Sotterraneo labirinto, non sarà di parole, hai detto:
di altro germinare, quando quelle lanterne, capovolgendosi,
spingeranno a significare molteplici futuri.

Vedo il tuo quanto il nostro tempo di sciagure rimosse;
lento avvicinarsi delle distanze;
sempre più incantato, più impotente a scindere l’Uno
nella distorsione dell’Altro, principe di pagliacci.

In quali modi, poeta, io giunga con te
alle sponde del fiume Kalka,
dove i salici getteranno ombre sugli accampamenti.

Steven Grieco Rathgeb profilo grigio

III.

Nelle nivee città della sintassi, sventolano bandiere
alle torri avare. Sventolano dure, inespugnabili.

Così le lingue monolitiche crollano di colpo:
“per non aver intravisto la sponda opposta.”

Il pensiero umano più ardito rasentava altri pianeti!
Ma quando ci girammo a guardare,
ogni sua offerta retroagiva nel gran specchio convesso,
della pece incandescente lanciata al cielo
le traiettorie tornavano giù
in squallido vivere, riproposto e riavvenuto.

In quale modo, allora – io mi scervellavo –
tutto ciò si replica, la bruttura si ripete?
È questo forse il luccichio della spada di false vittorie?
E davvero l’intelligenza ha fatto tanto scempio?
È proprio questo, questo, l’instancabile ripartire
che ripiega e sempre s’inverte?

Quanto visto annotai nello smisurato libro dell’Avvenire:
Rítsiana, 16 luglio: “il guazzabuglio s’irradia in alto
solo per ricadere orgoglioso sui propri sinistri.”

Ma certo, eccolo l’ipertempo, il nostro, l’agognato!
Immaginario così veloce, da sembrare fermo.
Può l’esperto aver sbagliato nel riporvi tanta fede?

Ha asserito: “Il fatto non è stato cieco; l’errore
è esatto: a chiare lettere riconferma
ciò che sappiamo: sintassi d’ogni questo che è quello,
ed inesausto, e reiterato.

Questa, Signori, l’inalterabilità delle Cose:
dove i fiori del salice riflessi voleranno
e tutto per sempre ricomincerà.”

“Calpestati e distrutti.”

Questa dunque la menzogna che ogni giorno io estirpo,
nell’intimo io disperdo? Che ricostruendo distruggo,
ingranaggio del mio stesso riconfermarmi?

Incredulo, alzai lo sguardo: lassù,
nell’occhio illuminato, furente, parvemi udire una voce
oltre il gran fracasso di trionfi, che mormorava:

“Fummo paralizzati dalla complessità che ci confrontava.”

Steven Grieco

IV.

Allora, e mosso da grave senso e urgente, in partenza
per Atene, 20 luglio, chiesi: “Tutto è scomparso?”
“Niente è apparso, – tornò l’eco del vento. –
Le tenebre sono quelle stesse opere.”

E ancora udii: “Calpestati e distrutti.
Elèusi e Mègara, le raffinerie sul mare. Sogna tuo,
se ami illuderti, l’orizzonte del pensiero metafisico.”

“Perché le opere sono le stesse tenebre.”

E guardai: là, oltre l’autostrada,
al largo, sposarsi d’isole e bracci di mare,
e Salamina, trasognata, dire a noi:

“Oggi non scompare più niente.”

“Siamo noi le tenebre delle stesse opere.”

E l’eco tornare, ritornando.

V.

Ancora guardai: conferivano nelle sale di consiglio
i vampiri, affiancati dai nipotini dell’URSS,
i cristo-muzhỳk risorti al saccheggio,
quelli che scoperchiano le colline
e oggi dichiarano l’incontestabile verità:
“gli ammassi di scorie liquide, i nostri Picasso e Mirò,
rivomitano senza numero il vostro ripetervi.

A noi, come a voi, non importa un fico secco.”

“Sappiatelo: Erebo generò la notte in tutto il mondo,
e in esso in cui appare.
Non scordate, voi. Sappiatelo, feccia di popoli.
Ecco perché Elèusi vi parrà per sempre trasognata,
e la nascita del pensiero-petrolio iridato sul mare.
Guardatevi attorno: Socrate, i misteri, l’oscurità,
abbiamo trasformato in luce quantificabile: camion,
ruspe giganti, verità. Prendetene nota. Stupite.”

Poi vidi il miracolo. Tutti loro, tramutati in angeli,
uscire dalle discariche rivomitando
il nostro indice e riepilogo mille volte ribadito,
spaziare per le lande disastrate salmodiando:

“Qui sorgeranno le polis verdi, il popolo
frusciante delle latifoglie e dei salici e dei prati
del mare, del verdissimo mare.”

Mentre dalle discariche ancora tornavano distorte
le loro parole: “Mai poté alcun disfacimento paralizzarci.”

VI.

Nivee bandiere in alto, aulica sintassi!
Collari di ferro, ingressi privi di varco; vie notturne
impercorribili, disseminate di trappole e tagliole.

“Ma lo sai, sento talvolta musica serpeggiare nei versi.
Poi subito scompare, quando la cerco.”

“Sei tu per caso?” – chiedo, senza aver risposta.

“È solo il vago ricombinarsi di suoni
nella tromba delle scale infinite.”

“Sì, certo. E provo e riprovo, ma non ricordo
come rotolano, torcendosi nelle onde, gli oceani.”

VII.

Allora balbettai, “Kasya, mia Musa!
Questi versi, questi utamákura, sono dunque
spezzoni luminescenti di un parlare in disfanie?”

E lei:
“Intessono, o mio Re, il vasto ordito del Presente.
Non i piccoli cieli, non paraninfi e poetastri!

Di là dalle vuote griglie di senso, fessure nostre distanze.

Nel mondo così più avanti e più indietro di te, solo
tu ne puoi dedurre, sognando, l’esistenza.”

Risposi: “Ma come farò? Stento a credere
che non strozzeremo i nostri migliori pensieri
con le nostre mani;
che ai filosofi e agli esperti ciarlatani non concederemo,
una volta ancora, di ruscellare determinismo
dai loro pozzi neri.”

“Non curartene, non aver brame. Sii ενέργια.
Fendi la cecità dell’eterno non-arrivo.

Le tenebre sono le stesse opere.”

Questo udii. O pensai di udire.

Non solo con i segni che chiamiamo scrittura!
Eppure tu, Zbigniew, utilizzando quegli stessi ghirigori
su fogli così bianchi,
esprimesti lo sbraitare degli stivali chiodati.

E rividi i volti spauriti, i volti camusi,
come fuggivano inutilmente
dal loro corpo, fuggivano dal nostro;
chi batteva il pugno, chi usciva brandendo fasci di vento,
ombre minacciose nell’efferatezza,
nel tormento e la solitudine
di questa danza del nichilismo che danza,
che danza.

(Aprile 2019)

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Il pensiero poetante, l’immaginario, 42 poeti a cura di Fabio Dainotti, Genesi, Torino, 2023, pp. 168 € 16,50 – Lettura di Giorgio Linguaglossa, Dove va la poesia? Mistero della fede.

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

Fabio Dainotti Il pensiero poetante cover

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

(Giorgio Linguaglossa)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Marina Petrillo,  Indice di immortalità, Ed. Prometheus, 2023  pp. 120  18, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, la «Cosa» inesprimibile della poesia petrilliana è, insieme, una meta e una origine, una linguisticità febbrile che si muove verso la prossimità dell’inesprimibile dove il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza olistica ed elitaria, intima e refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio

marina petrillo cover

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Nota di Lettura di Giorgio Linguaglossa

 Marina Petrillo dopo materia redenta del 2019, ci consegna un libro il cui testo è scandito in prosimetri: asindeti dell’ultra senso e dell’ultra sensorio e polisindeti di ciò che apre oltre il senso e oltre il significato in quella dimensione ultra mondana e trascendentale che è stato il sogno e la meta dei poeti orfici da Mallarmè ai giorni nostri. Un lavoro che ha del prometeico per la acuzie con la quale la poetessa romana ha attraversato il linguaggio poetico in direzione dell’ultra-senso e dell’ultra-significato. Il problema è, come sempre, la messa in questione della posizione della soggettività nel linguaggio.

 Marina Petrillo proviene dalla frequentazione della «nuova ontologia estetica» e di lì si è incamminata verso una poesia dell’ultrasensitivo e dell’ultrasenso, come dire che ci sono svariate possibilità di indirizzo e di ricerca, fermo restando che una nuova economia politica dell’Immaginario passa per la reintroduzione del Politico nell’Immaginario, o dalla sua estromissione, ma passa anche e soprattutto dalla estromissione del Privato dall’Immaginario, ciò comporta la de-territorializzazione del linguaggio poetico della tradizione e la ri-territorializzazione di quel linguaggio in un altro linguaggio poetico.

 C’è qualcosa nella soggettività che si configura, come ebbe a dire Sigmund Freud in relazione all’Es, nei termini di un «territorio straniero interno». Questo territorio scosceso è, per l’appunto, ciò in forza del quale è possibile definire la soggettività mediante la nozione di extimità, nella misura in cui con tale categoria non ci si riferisce esclusivamente al mondo interiore della soggettività e alla sfera dell’interiorità, quanto piuttosto a quell’ambivalenza radicale che attraversa, incidendola, l’intima esteriorità del soggetto a sé stesso. In ciò che usualmente intendiamo con «interiorità» c’è dunque uno spazio aperto, un vuoto che incide, che taglia, che genera una differenza incolmabile, una irriducibile estraneità che, paradossalmente, per quanto intima, de-cide inesorabilmente la soggettività. Questa intima esteriorità si configura come quel vuoto necessario, originario e generativo che consente il linguaggio e, di conseguenza, anche il linguaggio poetico.

 Il carattere per certi versi trascendentale dell’extimità della poesia petrilliana fa sì che essa, precedendo di diritto qualsiasi opposizione categoriale tra interno ed esterno, si configuri come quello spazio ultra-linguistico in cui ogni dualismo perde la propria sostanzialità e si presenta come un vuoto originario, vuoto causativo, limite trascendentale che sta al fondo di ogni soggettivazione. Se il soggetto petrilliano si genera dal suo vuoto, così intimo eppur esterno a sé stesso, il reale è ciò che serve a nominare tale intima esteriorità. Questo nucleo vuoto, per certi versi irrappresentabile, attorno al quale Lacan si è arrovellato fin nell’ultimissimo periodo della sua vita, si costituisce come quella totalità originaria sulla quale si sviluppano tutte le nodalità della soggettività per via del fatto che il reale è così profondamente intimo alla soggettività da essere invisibile, irrappresentabile e anche ingovernabile, come quella forma di cecità auto-indotta da chi osserva troppo da vicino gli oggetti, tanto da non poterne distinguere nitidamente tutte le sinuosità; il reale del soggetto è figurato da quell’intima esteriorità vuota al centro del soggetto stesso, che ne ostacola ogni sorta di dominio. Nella sua extimità lo statuto della «Cosa» è al di là di ogni linguisticità, oltre ogni sua possibile chiusura nel sistema della significazione.

 In tal senso, la «Cosa» inesprimibile della poesia petrilliana è, insieme, una meta e una origine, una linguisticità febbrile che si muove verso la prossimità dell’inesprimibile dove il reale si costituisce come quel registro di un’esperienza olistica ed elitaria intima e refrattaria all’ordine simbolico del linguaggio, definibile lacanianamente nei termini di uno spazio vuoto che buca ogni verbalizzazione, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un ordine linguistico di senso e di significato.

 È proprio in questa accezione che Lacan (1986), nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi si riferisce al Das ding e al suo «statuto» come a qualcosa che si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, come sostiene lo psicoanalista francese, che la «Cosa» è «quel che del reale patisce del significante», la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale nella sua totalità, il reale inassimilabile al senso, il reale primordiale) altro non è che la condizione di possibilità di un pieno (un pieno linguistico). Così come infatti il vuoto (linguistico) è la condizione necessaria del pieno, il fuori senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso.

 Ecco, dunque, il motivo per cui l’inesprimibile è la curvatura linguistica della poesia di Marina Petrillo in quanto manifestazione (impossibile) del simbolico; poesia che si costituisce in un paradossale regime di doppi e di scambi tra le parole, per agglutinazione e per separazione di parti del discorso, come ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale linguisticità dotata di senso e di significato.

 Per Marina Petrillo il reale non è rappresentabile, il reale non è la realtà. Il tessuto simbolico e immaginario della poesia petrilliana «deve» negare il registro del reale per giungere all’indicibile e all’ineffabile come ciò che massimamente irrompe nella trama dell’ordine linguistico e simbolico bucandone l’intreccio testuale, aprendone un varco verso l’ultra-senso e l’ultra-significato. È questo uno dei motivi per cui il simbolico è, per la poetessa romana, ciò che si situa al di fuori del senso e del significato e, in tal modo, riconduce il senso e il significato alla significazione trascendentale e oltre mondana sua propria.

[Marina Petrillo figure ]

Poesie da Indice di immortalità (2023)

La rosa che fiorisce incontro al nulla
Die Niemandsrose
genesi incurabile di fiori morenti
Ginestra senza nome essiccata al tributo
degli Dei inferi

Lava giacente su pendici detenebrate
dall’accecante vortice di luce suprema
scavata a margine del rosso carminio
rivivente in feste patronali

Croci simmetriche generate a dottrina
Tralasciate in sere odorose di ghirlande
Fascino suadente dell’indocile declino
Sibilato in lodi, del fruscio afone.
Si imprime come creante, il verso
Duella con i proseliti in triade sovrana
al monito

Interdizione in sottile sibilo
ferale al sommesso candore
della prima argilla creante l’essere animato
destituito tale, dall’incauto passaggio
ad altro status.

*

Un sommesso atonale lacera
l’ascolto di Musikanten

Un bemolle disserta sul candido
destino di un semitono

Sordità in ascesa nell’incauta
Secessione della dissonanza
e della consonanza.

Scale cromatiche discendono
su scale di Giacobbe, angeli

percorrono a ritroso i passi
in alchemico prolungarsi dei suoni
in sogno

Il paradigma del risveglio accade
Nuovo gene della contiguità con il divino

Le scale esatonali di Debussy
i madrigali di Carlo Gesualdo
sciamano preziosità accolte in conchiglie
di instabile entropia.

*

Appare a manto della sparsa Odissea del linguaggio
il tramortirsi ad onda corta, intendendo il seme
quale viatico di altra conoscenza
Idioma assiro-babilonese
o fenicio approdo tra ideogrammi
Travalicanti il detto.

Fummo scriba in schiavitù difforme
Addetti all’epilogo delle storie tutte
Sommessi carcerieri ei ego frammezzati
Comparse tragiche in cori dissimulanti
il Teatro dell’assurdo.

Giace ogni sbadiglio in tedio cosmico
sofferto in metropolis di anico ordine
Un mondo murale cementa saperi
Illudendo i propri asfittici principi in Logos.

Manifestano caos, i sigilli infranti
Logorroico impianto seriale
dove la non causalità incide solchi
e bambini giocano a campana.

Sotteso ad ogni salto, il cambio dell’abito
semantico, per cui non scioglie l’ossidiana
del sapere, ogni glifo, nevralgico all’osservatore.

Ammettere transito il filosofo a sua dismisura
mentre in anfore adagiate sui fondali
permane il senso dell’indescritto, ultimo poetare

Frastuono di lallazioni professate dalla sibilla celeste
Sussurrate da Emilio Villa in labirinti
sensoriali divelti a lemma.

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Le procedure della de-figurazione e della de-localizzazione nel linguaggio della nuova poesia kitchen, dopo la riscrittura post-moderna operata da Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, La resa dei conti stilistica del «poetico» è, dopo il novecento, rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione, che non potrà essere solo stilistica e vocabologica  ma dovrà andare molto più a fondo, dovrà investire nientemeno l’ontologia del linguaggio poetico, Poesie di Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 75x28 acrilico 2021

Marie Laure Colasson Strutture libere nello spazio, acrilico 75×28, 2021 
L’accadere della verità dell’opera d’arte è nient’altro che l’evento del suo accadere. L’accadimento è esso stesso verità, non come adeguazione e conformità di parola e cosa, ma come indice della difformità permanente che si insinua tra la parola e la cosa. La cosiddetta verità dell’opera d’arte tanto reclamizzata dal pensiero filosofico del novecento è nient’altro che difformità, differenza, divergenza.  L’arte come accadere della verità che significava nel novecento preannuncio dell’aprirsi di orizzonti storico-destinali o del chiudersi di orizzonti storico-destinali, è oggi diventata una mera funzione decorativa. L’arte non è più quell’evento inaugurale in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza delle singole umanità storiche. Le opere di poiesis sono oggi esperienze di shock tali da sovvertire l’ordine costituito dei significati consolidati dalla vita di relazione. L’ovvietà del mondo diventa non-ovvietà. Nuove forme storico-sociali di vita sono di solito introdotte da opere di poiesis che le hanno preannunciate. Le opere di poiesis dell’ipermoderno si configurano quindi come produzione di significati in condizioni di spaesamento permanente, di s-fondamento rispetto a sistemi stabiliti dei significati ossidati. Un tempo le opere di poiesis avevano senso soltanto se «aprivano», se preannunciavano nuove mondità, nuovi possibili modi di vita e forme di esistenza, altrimenti deperivano a cosità. Oggi va corretto quel concetto di «apertura», le opere di poiesis oggi hanno senso soltanto se «chiudono», se preannunciano la «chiusura» delle mondità, se «chiudono» i modi di vita e le forme di esistenza del presente e del passato, altrimenti deperiscono a cosità. (g.l.)

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Sulla de-figurazione

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una»

(Charles Baudelaire)

Nel suo Éloge du maquillage (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo artifex, ultima emanazione dell’ Homo Super Faber, o Super Sapiens.

La «defigurazione» è la procedura poetica tipica  adottata dalla «nuova poesia». Pensare lo «spazio poetico» oggi significa applicare ai testi la de-figurazione e la dis-locazione in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia globale e glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e logotecnici, sono caratterizzati dalla de-figurazione e dal disallineamento metrico, vale a dire dalla distassia e dalla dismetria.

È il linguaggio pubblicitario che impone al linguaggio poetico le sue regole, si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estetica non può fare a meno che ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima  misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.

La de-figurazione  è una procedura retorica che consente di prescrivere una «figura» linguistica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, introducendo nel testo proposizioni liberamente dis-locate, spostate, liberate dalla cogenza del referente, non appropriate quindi non corrispondenti al referente; ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal referente che corrisponde alla parola che non gli corrisponde; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della de-localizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro dalla  poesia di accademia dove l’espressione che mira al referente viene ad essere sostituita da enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva, appunto, referendaria. Così è avvenuto che il linguaggio referendario del poetico e del narrativo ha sostituito il referente.

La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite, globale e glocale, in cui agiscono vettori anche contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo, in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione; ci si muove nel quadro di smottamenti linguistici globali e glocali, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei, oggi una poesia europea che non  abbia qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni epigoniche.  Pensare ancora con le categorie della poesia del novecento: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi. La globalizzazione e la glocalizzazione sono processi macro storici che non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.

È impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico, è viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento: lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre: occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione dello spazio poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di orientare le categorie del pensiero poetico.

Quello che oggi occorre fare con urgenza è riprendere a riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, de-territorializzare il linguaggo poetico della tradizione del novecento e riterritorializzare il nuovo linguaggio poetico per una «nuova poesia» di là da venire, anche perché dopo la riscrittura post-moderna operata da Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna la resa dei conti stilistica del «poetico» è, dopo il novecento, rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione, che non potrà essere solo stilistica e vocabologica  ma dovrà andare molto più a fondo, dovrà investire nientemeno l’ontologia del linguaggio poetico.

Il pensiero logico-sequenziale nella nuova poesia kitchen è andato a farsi friggere.

Nella «nuova poesia» il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, è andato a farsi friggere, sembra essere stato in buona parte sostituito da un pensiero nello stesso tempo teppistico e multi-tasking. Se leggessimo con concentrazione una poesia di Francesco Paolo Intini, di Raffaele Ciccarone o di Marie Laure Colasson ci metteremmo a ridere, ci accorgeremmo che ci troviamo davanti ad una testualità multi-tasking, triggered, tigrata, non ammaestrata, una poesia pop-corn, una poesia pop-fast-food. Intini, Ciccarone e la Colasson sono i primi  primati, in Italia e, che io sappia anche in Europa, che facciano una pop-corn-poetry, che non sai se sia più ridanciana o auto derisoria o auto compromissoria, fatto sta che si tratta di una testualità che si deve leggere di sguincio, con l’occhio distratto, facendo zapping con lo sguardo. Come è possibile sostenere che il soggetto fondatore è indicibile (e quindi la parola è impronunciabile) e fare di questo indicibile il senso stesso del discorso poetico? Non si continua in tal modo a pensare a partire dagli stessi termini, ma invertiti? «La traccia dell’origine», in Derrida, funzionerà esattamente come un che di originario: esso si produce occultandosi e diventa effetto; lo spostamento qui è produzione. La non-adeguazione dell’originario a se stesso attraverso un logos dell’originario è d’altronde una vecchia idea del proposizionalismo della poesia elegiaca che è presente da Pascoli a Sanguineti post-Laborintus (1956) e arriva fino ai giorni nostri, poiché la ratio cognoscendi non può porre in primo luogo ciò che è realmente primo; di qui il ritorno all’origine, innato o a priori della poesia elegiaca, che non possiamo enucleare se non mediante uno scarto e un’eterna inadeguazione. È questo lo scotto che va pagato, lo scotto di una eterna «inadeguazione» del discorso poetico ad approssimarsi. Ma approssimarsi a che cosa?. Il discorso poetico è un voler dire, un atto di potenza e di rappresentazione, una possibilità che non si sa mai se si tradurrà in atto storico, reale, e quindi estetico. È il discorso sotteso alla «Muta» di Raffaello: lei ci parla meglio e con più chiarezza di quanto possano parlarci le più belle parole dei poeti classici; ma oggi, mi chiedo: è possibile raffigurare in parole (o tramite i colori) un soggetto che non può parlare? È dicibile l’indicibile? È rappresentabile l’irrappresentabile? È questo il paradosso nel quale si consuma la poesia maggioritaria che si fa in Italia, ma è soltanto in questo attrito, in questa collisione che la poesia vive e si accende. Ecco la ragione della elusione, della volatilità della parola poetica che il kitchen ammette alla ennesima potenza. Con concetti come quelli di «traccia» o di «differenza», si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa esserne il padrone. La «differenza» è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto incessantemente differito nel movimento del significante. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena infinita di significanti, in una rete che lo dispiega e, nello stesso tempo, lo allontana. Lacan dirà il celebre motto secondo cui «il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante», che consacra la scissione del soggetto da se stesso, come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo «porta-voce» e non «autore» in senso teologico. Lacan fa del soggetto questa «presenza assente», questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più segno, con un significante che si libera dal rapporto fisso col significato e si sposta dal suo luogo verso un altro luogo. Il soggetto è in questa traccia, velato in questo vulnus che si sposta, che pronuncia parole s-podestate, de-posizionate. Il soggetto è stabilito dal significante del segno che rimanda ad un altro segno, ad un altro significante. La poesia odierna fa un uso logologico dell’io: la semantica diventa una mantica, e la poesia diventa magia bianca, quando invece è magia nera, con tanto di mago Woland a certificarla. Così, l’io prende il piffero e diventa un pifferaio magico, e invece diventa altro da sé, avanza con la maschera dell’io ma è altro, stabilisce la propria identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. L’identità dell’io si realizza al prezzo della rimozione, di quella parte del «sottosuolo» che è «il sottosuolo del sottosuolo» per dirla con Emanuele Severino. In tal modo, risulta rimosso lo scarto retorico rispetto al sé, retorico perché l’identità è letterale più che figurata, quella letteralità che la posizione poetica maggioritaria propone, rientra nel circolo dell’io positivizzato e privatizzato. * J. Derrida, De la grammatologie, 1967 – trad it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1969, p. 69

(Giorgio Linguaglossa)

Struttura_dissipativa_acrilico 50x28, 2023

Marie Laure Colasson Strutture libere nello spazio, acrilico 50×28, 2023 

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Raffaele Ciccarone
10 novembre 2023 alle 0:04

Collisione con lo spazio a curvatura negativa

Fu la collisione con lo spazio a curvatura negativa
a spostare AEW World Championship mentre tutto
l’ologramma era a Dubai a fare il bagno

tutto l’amore riversato in una bacinella
ammalia Loredana amica del mago Woody
ora la TVS fa pagare certi servizi
ma teme punti di congelamento

tant’è che il progetto olografico
di S. Hawking si presenta sotto l’albero
di Natale per sciogliere le palle gialle limone

in tanti hanno disertato il reading di poesia
Kitchen tranne Filiberto assillato dal risentimento
quantico ora che il divano è ripulito

dopo l’ostentazione del raro incunabulo Beatrice
si ritira in clausura a Firenze per dedicarsi
alla pittura figurativa visto la vendita delle nuvole azzurre

Raffaele Ciccarone

Dalle proiezioni asimmetriche poi!

Dalle proiezioni asimmetriche eccetto
certi interrogativi istanti di sequenze Z+X=- 1
per CRO>100 che s’inerpica per svasate aggregazioni
quale cromatismo al momento? E poi?

Le news del mercato, il pane che sale per il sale! Sic!
tutto nello street shop vuoi scarti involontari di glucosio
guarda la sottotraccia arancione C12 H22 O11
magari sinonimo ma ora cosa fare, ora?

L’urgenza di un tempo superiore tale da aver
nuova visione del canto del canarino al teatro
ove Adalgisa a prescindere dal forfait
quella volta che Lucia Lammermoor di Donizetti

per il presunto sogno delle farfalle l’ufficio
investigativo memore di frontiere e degli assolo
l’Armando più di una volta ordunque
quanti e quali sospiri da dipanare se?

Di questo passo l’orizzonte pur rifritto
quale frontiera nella hall se tutto si consuma?
reggerà alla pressione iperbarica
con quella temperatura il conogelato?

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Draghi

Mario Draghi, il fuoriclasse che il Ct. dell’Italia tiene in tribuna

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Francesco Paolo Intini

Novembre

Capita a novembre di vedere zombi qua e là. Ogni volta che succede devo rincorrerli per la stanza, pulire il cloro che cola dalle mandibole e mettere varichina dove sbarcano.

Ologrammi credo che vivono in simbiosi con il passato e non gli fa specie che siano dei vermi a parlare nelle orbite degli occhi.

Uno di questi si fa chiamare stato, ma è indeciso quale delle tre facce mostrare.

Credo di averlo visto nella mia gioventù. Si aggirava da padrone per le scale e i ripiani delle torte, esibendo stalattiti d’idrogeno e stalagmiti di oganesson.

Adorava i crisantemi però e contava i petali per dire t’amo al vuoto di cui si circondava, tra un funerale e un tentativo di risalire l’albero della cuccagna.
Come un giorno possa scivolare sotto uno scheletro non è dato sapere ma il Re dei mesi ce la mette tutta per tirare fuori i campioni in gara.

Bene e male credo di aver letto. Chi non ricorda l’oratorio in cui trascorrevano le loro giornate a discorrere della creatio ex nihilo e cercare in tutti i modi di convincere il Sodio a bere acqua?

Imparavamo dai razzi di acetilene l’abc delle discussioni.
Nel dopo esperimenti c’era sempre una bandiera bucherellata su sui poggiare i piatti.

Così tra una Napoli repubblicana e un’altra borbonica spuntava il cardinale Ruffo a far da arbitro e fischiare per un fuori gioco la discesa agli inferi.

Ora che da un neo spunta un continente, si portano a guinzaglio gli ologrammi: lupi senza occhi, cervi con i cingoli, pecore che belano come draghi di Komodo.

Perché, mi chiedo, far bere ossigeno alle parole?
Se tuona un corvo dall’alto di un cipresso allieta una vipera che ride nella bocca. Continua a leggere

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La scrittura poetica invalsa oggi è una «ontologia della im-posizione», una «produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose. Mia impressione è che la poesia italiana di queste ultime decadi sia un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un genere di scrittura non retta da alcuna poetica, alcuna episteme. Una scrittura imbonitoria. Una scrittura da obitorio. Poesie di Antonio Sagredo e degli Avatar di Alfonso Cataldi, Tiziana Antonilli, Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini

macchia gialla 50x50, acrilico, 2023

Marie Laure Colasson, macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023

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La scrittura poetica invalsa oggi è una «ontologia della im-posizione», una «produzione di significati», un atto di im-posizione del linguaggio alle cose.

Invece la posizione del «poetico» dovrebbe essere un ritrarsi dal linguaggio condiviso, una distanziazione, un passo indietro un attimo prima che la parola ci raggiunga dall’esterno, con la sua dote di «im-posizione», di Gestell avrebbe detto Heidegger.

Se procediamo verso il linguaggio con attese, ideologemi, posiziocentrismi, con «im-posizioni», con Gestell, quel linguaggio ci imporrà le sue regole di condotta e le sue scelte, verrà inficiato dalla «im-posizione» dei linguaggi che provengono dal mondo della utilitarietà, delle condotte, delle pratiche, da ciò che è redditizio, dagli interessi in competizione, dall’interesse dell’io alla propria auto conservazione e alla propria auto im-posizione.

Il problema ha molte sfaccettature e non riducibile in poche battute, ma certamente l’ideologema referendario delle narrazioni e della poesia dell’io (vedi  il successo del sotto genere diaristico) che impera nel mondo delle società tele-mediatiche non aiuta a pensare in poesia e a scrivere in un linguaggio poetico critico. L’io ha bisogno dei linguaggi dell’utilitarietà, della comunicazione, della im-posizione, non può farne a meno pena la sua implosione comunicativa. L’io è una macchina infernale che lavora sempre per la propria autotutela, per i progetti di auto organizzazione, non può fare altrimenti, è un epifenomeno delle ideologie utilitaristiche che imperversano nel mondo e non può sfuggire alla ontologia della im-posizione.

La totalità della poesia che si fa oggi nell’Occidente mediamente acculturato, anche tra i poeti più «accreditati» dalle istituzioni accademiche, non è che un epifenomeno dei linguaggi mediatici: scrittura utilitaria, impositiva, progettata per la comunicazione, quella che più volte ho chiamato scrittura assertoria, suasoria, incantatoria che è l’altra faccia della medaglia di una scrittura definitoria, scrittura da risultato, che parla con un linguaggio suasorio, giustificato, giustificatorio.

Qualcuno ha chiesto: «Che cosa intende per linguaggio giustificatorio»? Ecco la mia risposta: con l’espressione «linguaggio giustificatorio» intendo la posizione del «poeta referendario» che si pone in un angolino del «mondo» e di lì si interroga e interroga leopardianamente  il «creato» o il Sé alla ricerca di un «senso» che giustifichi la propria auto imposizione. Ebbene, questa è una finzione e una ipocrisia, una posizione imbonitoria, auto assolutoria in quanto si assume un Gestell, un podio, e ci si mette in posa, in alto, sullo zoccolo, proprio come una statua, e di lì si sciorinano pensieri meditabondi, efflorescenze di egotismi. La poesia che si fa oggi è ricchissima di tali «poeti» che sono di moda e vengono amministrati dagli uffici stampa degli editori.1

Qualche tempo fa un autore mi ha scritto che non «condivide affatto il [mio] giudizio apocalittico» «sulla morte della poesia italiana», che invece godrebbe, a suo dire, di «ottima salute». Al di là dei convincimenti personali sull’argomento, tutti legittimi e tutti opinabili, ho argomentato che la poesia di questi ultimi decenni è stata fatta per esigenze privatistiche, psicologiche, per ragioni encomiastiche, di status symbol, per personalismi, per posiziocentrismo, senza  progetto culturale e consapevolezza storico culturale delle criticità della poesia del novecento e del post-novecento. Mia impressione è che la poesia italiana di queste ultime decadi sia un genere di scrittura privatistica priva di valore culturale, un genere di scrittura non retta da alcuna poetica, alcuna episteme. Una scrittura imbonitoria. Una scrittura da obitorio.

(Giorgio Linguaglossa)

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 1 Un nome per tutti: Franco Arminio, incomparabile nell’adamismo della sua positura auto assolutoria dalla quale sciorina incensamenti alla pacificazione, buonismi e banalismi in grande quantità.

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Antonio Sagredo

da La gorgiera e il delirio, (2020)

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterrò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

(luglio 2015)

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Marie Laure Colasson
1 novembre 2023 alle 19:01

caro Gaius Gallus,

come intuisco, vivi nel nulla (anche tu) dove la materia è inerte,
il mio spazio invece è ovunque, dunque, nulle part.

In conseguenza, il conteggio dei morti abolisce totalmente la punteggiatura… le margherite, mi hanno detto, fioriscono solo al buio in Arabia Saudita e vanno a manifestare insieme alle stelle filanti.

Ti dirò che sono sospesa tra il bianco e il nero su una altalena, come nel film “Lo sceicco bianco” di Fellini, con qualche pennellata di rosso paesaggistico multitasking e giallo smart.

Certi capi di stato, mi hanno detto, si sono convertiti in droni per andare all’inferno, però l’inferno, mi hanno sempre detto, è qui sulla terra.

Per fortuna né tu né io lo abitiamo.
Nessuno è profeta nel proprio colore.

(Scintilla)

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  • Nulle part est un endroit … Una conferenza danzata in cui Nach mostra in scena la storia e i movimenti del krumping, dirompente danza urbana nata nei sobborghi di Los Angeles come forma di protesta della comunità afro-americana. La coreografa mette il suo corpo al servizio del racconto personale che l’ha fatta innamorare della disciplina, restituendoci uno spettacolo affascinate, intenso e viscerale. (Creazione e interpretazione: Nach – Regia: Vincent Hoppe)

Francesco Paolo Intini
1 novembre 2023

Caro Germanico,

finalmente sono a casa.
Peccato però che l’albero della Libertà sia stato divelto dalle truppe sanfediste. Ora è accartocciato su sé stesso come il gigante alle porte di New York alla fine del Pianeta delle scimmie mentre il Re Cerbero caccia tranquillo tra le sue forche e le sue mannaie.

E dunque temo proprio di trovarmi nella pellicola di quel film. Per giunta qualcuno ha provato a vestirlo da sanculotto ma ahimè un tagliaerba gli ha moncato le gambe prima che potesse sedersi da qualche parte e mostrare il pendolo dei fatti che ora vanno avanti e poco dopo ritornano indietro.

Che vita mi aspetta? Dipende da questo cielo che si scioglie riempiendo di fanghiglia putrida e radioattiva ogni istante che intenda battere la sua ora.

Pur tuttavia scenderò da cavallo e fonderò una colonia. I miei figli costruiranno alberi di celluloide, respireranno acetone e si batteranno per ogni millimetro di colonna sonora.

I terrestri sanno queste cose. Sono salvi dal disastro per l’illusione di poter sopravvivere in sotterranei degni di topi campagnoli. Mi chiedo altresì come sia potuto accadere che dei corpi si siano svestiti di carne e ossa e abbiano rimediato le parole di un regista o peggio, quelle di un poeta per poter esistere.

I fatti dunque hanno la stessa natura del sonoro e puzzano dello stesso urlo in cui si risolve la pellicola.

Eserciti di emoticon armati fino ai denti scorrazzano nel deserto di piante e animali.
Mastini della realtà, tutti uguali, liberi finalmente di abbaiare e mordere questo o quell’antilope e sbranarla fino all’ultimo villo.

Non pensare però che tutto finisca in questo modo. Nel nuovo mondo non finisce proprio nulla. Monconi di terre rare si uniscono a strofe per farne chip, cloro pianta coltelli verdi sulla città, lune di fosforo bianco accompagnano i bambini nel tornare a casa, persino tori incornano toreri in strofe dolenti, serpi e tecnezio bollente affollano Wall Street cercando carbonio per raffreddare il ventre.

E’ nella natura della pellicola l’impossibilità di isolare una molecola di viver male.

La materia prima non manca al coraggio e il capriolo che rifugge il caos lascia orme sulla calce viva.

Al capitano di ventura non chiedere come snidi queste figure dai loro miseri nascondigli. Abbrutito dal compito non prova alcuna avversione contro la nausea.

Ah il Walalla attende le faccine che condensano il piacere e il dispiacere, un rossore di mela da masticare nel giorno della certezza ma per il momento siamo tutti esposti a pioggia e sodio che hanno cessato di reagire concedendosi all’infangare.

(Gneo Fabius)

Marie Laure Colasson

2 novembre 2023 alle 20,00

caro Fabius,

finalmente anch’io sono a casa, mi sono fatta i bigodini, ho dismesso il rossetto e mi sono messa comoda sul divano, i fatti, caro Fabius, non so cosa siano, hanno la stessa natura del trauma e puzzano di aglio…

Perché hai scritto che la valutazione dei manoscritti è una pratica oncologica?, io penso invece che sia una pratica da obitorio essendo la letteratura tutta una attività di natura medico legale.
Lo so, il dover pronunciare diagnosi infauste è penoso, ogni volta. È terribile.

Tutta la colpa è di Aristotele che nella “Poetica” ha istituito il (CEF) Controllo Elettronico della Felicità, da allora le cose sono andate di male in peggio.

Lo sai?, i watussi che sono andati sulla spiaggia a fare il bagno con i nani hanno sviluppato una orticaria di origine radioattiva che porta in breve al decesso con pustole fritte e piattole arroganti.
Se Sartre fosse vivo avrebbe oggetti degni di studio da par suo, però Picasso sa dove mettere i piedi, al limite, c’è una fessura nella tela della “Les Demoiselles d’Avignon”, lì ci starebbero bene, al caldo, negli stivali di feltro

Chissà quanti I like e retwitter avrebbe il filosofo!
Sai, sono indecisa se inviarti una faccina con gli occhiali o un’altra con la parrucca, nell’indecisione ti lascio perché devo fare la doccia…

«La scelta se inviare una bomba al tecnezio, al boezio o al polibio sono argomenti da non sottovalutare affatto – ha dichiarato Xi -, un bombardamento del Donbass produrrebbe hightech, ciniglia e vapore acqueo…»
La reazione del Cremlino non si è fatta attendere: il portavoce Dmitri Peskov con la camicia sbottonata si è presentato ai microfoni dicendo di preferire les gauloises imbottite di molibdeno ai ciclamini di campo…

Con una musichetta in bemolle si è presentato l’Avatar del Linguaglossa presso l’abitazione della pittrice Marie Laure Colasson, in Circonvallazione Clodia 21, il quale si è limitato a manifestare, con un lessico diplomatico, il proprio dissenso…

(Scintilla) Continua a leggere

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Poesie kitchen di Nunzia Binetti: “Il La è Bemolle. Così si presentò l’avatar. Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso/ La musica si interruppe, l’avatar assunse un tono perentorio,/ sfilò per tutto il corridoio…” – e Giorgio Linguaglossa: “Il mago Woland si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus anti placca quando accadde un fatto bizzarro: la confezione di borotalco posta sul mobiletto del bagno cadde sul pavimento a piastrelle senza essere stata determinata da alcun evento preliminare


La macchia gialla su verde, 20x20, acrilico 2023

(Marie Laure Colasson, macchia gialla acrilico, 25×25, 2023)

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Poesia di Giorgio Linguaglossa

Il mago Woland si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus anti placca quando accadde un fatto bizzarro: la confezione di borotalco posta sul mobiletto del bagno cadde sul pavimento a piastrelle senza essere stata determinata da alcun evento preliminare.

Il Grande Collisore di Adroni ha prodotto un Megapositrone che interagisce con i nostri pensieri cinquecentomila anni luce prima di essere stati pensati.

Navighiamo all’interno del metabolismo di un ologramma che ha previsto la nostra esistenza.

Il fisico teorico Juan Maldacena ha dimostrato anni fa che l’ipotesi olografica reggeva per un tipo di spazio teoretico chiamato spazio anti de Sitter. A differenza dello spazio del nostro universo, che su scala cosmica è relativamente piatto, lo spazio anti de Sitter ha una curvatura interna che ricorda una sella.

Gli spazi anti-De-Sitter, che sono molto lontani dalla nostra esperienza, sono a curvatura negativa, il che significa, per esempio, che un oggetto che si muove in linea retta finisce per ritornare al punto di partenza.

È come se il nostro mondo tridimensionale + il tempo fosse all’interno di quattro specchi che riflettono il tutto.

Con il gigantesco puntatore laser Holometer puoi bucare l’universo e sbucare nell’universo negativo mentre ti stai grattando il naso.

Il reale emette un rumore. Ed esso è la prova della sua esistenza.

Per la legge dei quanti di Planck, più piccoli di un fotone alcuni trilioni di trilioni di volte, quel rumore è equivalente al reale, ovvero, è il reale. 1 : p : forma a doppia goccia (simile al simbolo di infinito) • 2 : d : forma a quattro lobi (simile a due simboli di infinito sovrapposti) . 3 : f : forma a otto lobi.

Sovrapponendo un infinito sull’altro non abbiamo due infiniti ma sempre un solo infinito, asserì il mago Woland, che così chiuse la questione.

Esattamente come avviene nella nuova concezione dell’ontologia estetica dove dieci o centomila infiniti sovrapposti danno luogo ad un solo infinito.

Commento

Come avviene per il battito delle ali di una farfalla che determina un uragano a centinaia di migliaia di chilometri o di anni luce di distanza, nella composizione di Giorgio Linguaglossa l’abbrivio del Tutto è dato da un evento minimissimo (o minimassimo): «la confezione di borotalco posta sul mobiletto del bagno cadde sul pavimento a piastrelle senza essere stata determinata da alcun evento preliminare».

La composizione è scritta con il linguaggio tipico delle riviste scientifiche, la poesia ha fatto a meno di tutto l’armamentario retorico di una tradizione millenaria, adesso la poesia è diventata prosa scientifica (o finta prosa scientifica, il che fa lo stesso), né più né meno, è diventata la dimostrazione di un teorema. Ma quello in esame è un teorema davvero bizzarro che contempla un «Grande Collisore di Adroni» che «ha prodotto un Megapositrone che interagisce con i nostri pensieri cinquecentomila anni luce prima di essere stati pensati».

La conseguenza logica che ne deriva è in realtà un salto logico di inaudita fantasy: «Navighiamo all’interno del metabolismo di un ologramma che ha previsto la nostra esistenza.»

Vero o non vero, verificabile o falsificabile non ha importanza, il teorema si presenta ricco di spunti interessantissimi, esso ci dice che la nostra esistenza può verificarsi soltanto in quanto essa è stata prevista «cinquecentomila anni luce prima di essere stati pensati». Una ipotesi strabiliante, chi può metterla in dubbio? Chi la può verificare tramite esperimento? – Tutta la composizione, mescidando ipotesi scientifiche ardite e fake news, intende dimostrare qualcosa che non possiamo dimostrare mediante la semplice consecutio logica degli argomenti scientifici, ragion per cui l’autore è costretto a far ricorso alla immaginazione, alla fantasy per poter raggiungere una Evidenza.

E l’Evidenza è che «Il reale emette un rumore. Ed esso è la prova della sua esistenza.» Detto così, ci troviamo dinanzi alla inversione dell’onere della prova: è il «rumore» che decide della esistenza o no del nostro «reale», quindi anche di noi stessi che siamo dentro il «reale». Di qui la ulteriore asserzione paradossale: «Navighiamo all’interno del metabolismo di un ologramma che ha previsto la nostra esistenza.». Così, di paradosso in paradosso, da iperbole a iperbole la composizione rivela la propria architettura probabilistica e fantasmatica. Il «reale» non è altro che un prodotto fantastico-fantasmatico e noi stessi forse siamo dei fantasmi che abitano un universo fantasmato. E la riprova di ciò è l’asserzione che segue: «Con il gigantesco puntatore laser Holometer puoi bucare l’universo e sbucare nell’universo negativo mentre ti stai grattando il naso». Ergo, è una asserzione ben verificabile e infatti verificata dalla scienza di oggi, ma il risultato è strabiliante e fantasmatico, prodotto di una iperbole di una immaginazione s-regolata.

Il kitchen altro non è che una modalità di intendere l’impiego del linguaggio. In questa composizione la capacità fantasmatico-simbolica dei ragionamenti posti in essere produce un «reale» probabilistico e fantasmatico che potrebbe accadere o che potrebbe essere accaduto, o che magari sta accadendo mentre prendiamo il caffè, chissà. È che viviamo in un universo bizzarro che si produce in esibizioni bizzarre e inverosimili.
E tutto questo è kitchen, puramente kitchen.
Anche il finale messo in bocca al mago Woland è qualcosa per cui le nostre cognizioni matematiche e scientifiche non possono soccorrerci:

«Sovrapponendo un infinito sull’altro non abbiamo due infiniti ma sempre un solo infinito, asserì il mago Woland, che così chiuse la questione.»

La deduzione di Linguaglossa è esemplare perché serissima e derisoria insieme:

«Esattamente come avviene nella nuova concezione dell’ontologia estetica dove dieci o centomila infiniti sovrapposti danno luogo ad un solo infinito.»

E tutto questo è kitchen, puramente kitchen.

(Marie Laure Colasson)

La macchia rossa acrilico 20x20, 2023

Marie Laure Colasson, macchia rossa, acrilico, 25×25, 2023

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Una poesia di Nunzia Binetti

«Il La è Bemolle». Così si presentò l’avatar.
Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso

La musica si interruppe, l’avatar assunse tono perentorio,
sfilò per tutto il corridoio…

«Errore, delitto preterintenzionale !» replicai.
«No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità», rispose.

Lady Tristezza emerse da un mare di suoni,
sirena per finta. Frammenti di sughero poi vennero a galla.

Commento

Quello che nella poesia della tradizione è il momento epifanico, ovvero, una istantanea reazione emotiva, nella nuova fenomenologia del poetico, ovvero, nella poetry kitchen, diventa uno spazio linguistico abitato da linguaggi significanti estranei e conflittuali. La parola è oggi diventata incomunicazionale. L’avvento della linguisticità delle emittenti mediatiche ha mutato radicalmente l’ontologia poetica; oggi a ragione si può parlare di una ontologia linguistica della caducità metastabile, i linguaggi sono diventati instabili e meta stabili; il momento kitchen, come si vede bene nella poesia di Nunzia Binetti, è il discorso dell’Estraneo o, come recita l’autrice, di «Avatar» che parlano ciascuno un proprio idioletto, un linguaggio privatistico e non-comunicazionale. Sono gli Avatar che prendono possesso del discorso poetico. L’io ne resta diviso, scisso, dis-locato: «Così si presentò l’avatar./ Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso»; personaggi sconosciuti prendono la parola, discutono, discettano tra di loro e con il lettore; all’improvviso, veniamo deiettati in un’altra dimensione («La musica si interruppe»), e l’Avatar prende posizione, prende la parola. Ecco il momento diegetico-mimetico: «l’avatar assunse un tono perentorio,/ sfilò per tutto il corridoio…»; il momento mimetico parla mediante un io lateralizzato, de-funzionalizzato: («Errore, delitto preterintenzionale!»); interviene un Avatar femminile che pronuncia parole «fuori senso»: «No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità». Subito dopo si cambia fotogramma: interviene un terzo personaggio: «Lady Tristezza emerse da un mare di suoni,/ sirena per finta. Frammenti di sughero poi vennero a galla». Lady Tristezza è un terzo personaggio-Avatar che parla o forse è ancora il precedente Avatar che prende la parola?. Il testo non lo dice, rimane nel dubbio, un alone di incertezza si estende a tutta la composizione: la poesia è o non è?, è un reale o è un irreale? E il lettore non può fare a meno di chiedersi: siamo ancora nel campo del reale o ci troviamo in un’altra dimensione?.
Nunzia Binetti sa che non ha senso parlare di «reale», e la soggettività non è mai «autentica», è sempre impura, contaminata, fin dall’inizio impregnata di impersonale, perché solo la lingua pubblica (cioè di nessuno, arbitraria e pre-soggettiva), le offre i dispositivi grammaticali per formare l’“io”. Lacan ha scritto: «Lalangue sert à de toutes autres choses qu’à la communication». In conformità a questa impostazione, il pre-individuale precede la soggettività, ergo la lingua del pre-individuale e del trans-individuale è più vera di quella della soggettività, ecco la ragione della modalità kitchen: posizionarsi e direzionarsi verso il pre-individuale e il trans-individuale del linguaggio poetico è la via prescelta dalla poesia della nuova fenomenologia del linguaggio poetico.

(Giorgio Linguaglossa)

Nunzia Binetti è nata a Barletta in Puglia, dopo il Liceo classico e studi in medicina ha intrapreso quelli di Lettere moderne e Beni Culturali laureandosi presso l’Università degli studi di Foggia con una tesi sulla Poesia contemporanea femminile in Puglia. È impegnata nel sociale e in particolare nella promozione delle donne nelle Arti e Affari (già presidente della Fidapa BPW. sezione di Barletta e già membro della task force twinning BPW International).  Cofondatrice del “Comitato della Dante Alighieri Barletta” è anche membro del Consiglio Direttivo. Ha recensito e prefato raccolte poetiche di autori  e pubblicato articoli letterari su “Vivicentro Notizie Rassegna Stampa” e su “Versante Ripido”, in web. Sue poesie sono presenti in molte antologie poetiche (Campanotto Editore), (ED.Giulio  Perrone –Roma), ( LietoColle) e nelle antologie: Fil Rouge (CFR editore) e Il ricatto del Pane (CFR Edizioni ). Nel 2010 ha esordito con la Silloge In Ampia Solitudine (CFR – Editore) e nel 2014 ha dato alle stampe la raccolta Di Rovescio (CFR .Editore), tradotta anche in francese nel 2017 da Roberto Cucinato, pubblicata in Francia e depositata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.  La rivista serba “Bibliozona” (della Biblioteca Nazionale di Nis) ha pubblicato una sua poesia in lingua serba. È stata recensita nelle Riviste letterarie: Capoverso (Ed. Orizzonti Meridionali), I fiori del male (Ibiskos Ed.), dal quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”, dalla Gazzetta di Verona” e, in web, nella rivista on line lombradelleparole.wordpress.com. Nel gennaio 2019 ha pubblicato la raccolta poetica Il Tempo del Male (Terra d’ulivi edizioni).

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Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re, Roma), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce, Roma). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore delle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023 nonché dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), del saggio L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista on line lombradelleparole.wordpress.com  con la quale insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito letterario del Collasso del Simbolico, di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo di oggi.
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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022,  Poetry kitchen 2023, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2023) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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