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Dalla storicità forte di Rimbaud alla storicità debole di oggi, Cosa ci resta di  Rimbaud? Una stagione all’inferno a cura di Carmelo Pistillo, testo francese a fronte, La Vita Felice, 2020, Francesca Dono, Good morning, acrilico, nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Francesca Dono good mornig, acrilico a secco su carta 2020

Francesca Dono, good morning, acrilico a secco su carta, 2020

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.»

Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.

Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di fare una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte» pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo ha bene illustrato il pezzo di Lucio Mayoor Tosi citato all’inizio.

Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò comporta una presa di consapevolezza che quella metafisica non è più utilizzabile, che dobbiamo andare al fondo della crisi di quella metafisica per poterla abbandonare nella sua interezza. Soltanto abbandonandola in piena consapevolezza possiamo alleggerirci e andare oltre, oltre il novecento. Noi possiamo soltanto raccogliere quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, ma con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con queste «cose» che noi dobbiamo edificare.

Arthur Rimbaud

Rimbaud, foto di Marie Laure Colasson

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi per poterlo meglio ricordare. Forse oggi non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.

La guerra franco-prussiana e la rivoluzione della Comune di Parigi nel 1871 sono lo sfondo e il fondamento della poesia di Rimbaud. Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti, che la Rivoluzione del 1789 è la più grande sciagura della Francia, che i comunardi sono dei pazzi furiosi;  predica il ritorno alla monarchia cattolica e legittimista. I litigi tra i due innamorati sono sempre più violenti. Paul e Arthur, per noia, fanno un gioco: coprono due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, poi si colpiscono finché non esce sangue. Dopo fanno l’amore. Verlaine, è posseduto dal pentimento, Rimbaud gli grida che è un gesuita infame e ipocrita; Verlaine gli chiede di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli risponde con atroci bestemmie; Verlaine lo accusa di essere un comunardo incendiario e un sostenitore del suffragio universale… alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portasse il loro vagabondaggio esistenziale. 

La tradizione come distinzione  di Tradition e Ueberlieferung (trasmissione) si è interrotta, Rimbaud è il primo poeta ad avvertire il peso di questo evento. La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore. A mio avviso, è qualcosa di più di un «guasto», qualcosa di diverso: siamo entrati tutti in un «nuovo orizzonte di eventi», in una condizione di «storicità indebolita», di «consapevolezza indebolita», di un ulteriore «indebolimento dell’essere». Con le parole di Heidegger: l’essere è «ciò di cui non ne resta più nulla», in cui, nella scia di un pensiero post-metafisico, non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto.  La «distruzione dell’ontologia» ha inizio nell’ottocento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo.

Cosa ci resta oggi di un poeta come Rimbaud?, Carmelo Pistillo in questo suo denso volume tratteggia la vicenda umana e poetica del poeta di Charleville come segue.

(Giorgio Linguaglossa)

Rimbaud

“Lascia l’Europa perché all’Europa oppone un modello di umanità allo stato selvaggio, così come in quello stesso periodo farà Gauguin. Ad Aden, sogna Harar, che è la Svizzera africana. Ad Harar, sogna Zanzibar o Panama o, semplicemente, di «andare a trafficare nell’ignoto» (Olivier Clément). I suoi viaggi ricordano, seppur in modo rovesciato, i voyages de découvertes intrapresi da Hegel alla scoperta della fenomenologia. Per il francese, però, il percorso si svolge in senso inverso. È l’occasione per sopravvivere senza la poesia. Un bene dell’anima di cui ha perso la memoria e di cui farà a meno. La poesia verrà sostituita con il mestiere. L’adolescente rapito dagli incantesimi sarà letteralmente scalzato dall’uomo che lavora. Rinuncia dunque a inventare una nuova lingua ma impara e approfondisce le lingue legate al suo mestiere. Studia le scienze applicate. Durante il periodo africano chiede alla famiglia di spedirgli decine di opere (manuali da carradore e da scalpellino, da vetraio e da fabbro; trattati di trigonometria e di meccanica, di idrografia e di meteorologia; opere sulle ferrovie e sulle lingue locali, ecc.) a testimonianza di un distacco radicale dalla poesia a favore della non-poesia. Ha bisogno di tenere i piedi ben piantati in terra. Il mestiere che svolge non consente distrazioni. La sua produzione poetica dura dunque pochissimi anni. All’età di ventun anni ha già detto tutto. Ciò che doveva scrivere l’ha già scritto. La sua poesia entra sovranamente nel silenzio dell’aria. Solo il silenzio è grande, dice Vigny, tutto il resto è debolezza. Ed è forse proprio questo silenzio sul proprio passato a fornire a Rimbaud la giusta energia per affrontare una vita nuova in mezzo a pericoli e continui rovesci di fortuna. 24 Dopo numerose traversie e marce sfiancanti, si stabilisce in Africa, dove svolgerà con impegno e serietà vari mestieri, fino all’ultimo di stimato mercante d’armi per il negus Menelik. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che sia stato anche trafficante di schiavi anche se di questa attività non esistono prove certe. Con una gamba in cancrena, dopo dodici anni di assenza, rientra precipitosamente in Francia, per la precisione all’ospedale di Marsiglia, dove gli viene amputato l’arto. È il 1891, anno della sua morte. Ha 37 anni come van Gogh, morto suicida nel 1890 in una fossa di letame.» Continua a leggere

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Carlo Livia, L’Amore ai tempi del Mistero – Breve excursus sulla poesia europea del Surrealismo. Testi di Gerardo Diego, Paul Celan, Federico Garcia Lorca,Vitezval Nezval, 

 

foto ombre sfuggenti

Ma femme à la chevelure de feu de bois/ Aux pensées d’éclairs de chaleur

Se l’essenza, l’archè e il telos dell’essere sfuggono ad ogni esaustiva rappresentazione e predicazione d’ordine concettuale, la sua dimensione trascendente resta inviolabile e inesperibile, ogni operazione semantica di tipo tradizionale che, negandone il mistero insondabile, la costringe abusivamente entro codici simbolici eteronomi e falsificanti, diventa una violenta mistificazione ideologica, che inevitabilmente si traduce in paradigmi normativi, etici e assiologici proditoriamente strumentali ad asservire e sfruttare a beneficio del potere culturale, economico e politico al potere.

Questo spiega perché tutte le rivoluzioni artistiche di maggiore portata etica ed estetica siano state tenacemente osteggiate dai regimi totalitari e liberticidi, come è avvenuto con il surrealismo, anarchico e marxista, da parte dell’Italia fascista, in cui l’avanguardia fu rappresentata solo dal futurismo, schierato col fascismo, entusiasta del potere tecnico-militarista, e rappresentato, almeno in poesia, da autori decisamente mediocri.

Le personalità più ricche e autonome, come Montale, Quasimodo, Luzi, Gatto, Bigongiari, ecc. non ebbero altra scelta che l’estrema introspezione e involuzione semantica dell’ermetismo, diversamente articolata a ripercorrere solitarie e scoscese traiettorie per riappropriarsi della dimensione della libertà e integrità morale ed espressiva.

All’origine della rivoluzione surrealista, auspicata da giovani reduci dalla carneficina della grande guerra, c’è un capovolgimento della gerarchia di valori e istanze che configurano e strutturano le dinamiche della psiche: aderendo all’indagine di Freud, in seguito radicalizzata da Lacan che, a differenza del primo, fu loro sodale e fiancheggiatore, viene drasticamente ridimensionata la funzione normativa dell’istanza morale e razionale, a favore dell’energia emozionale ed affettiva, che costituisce l’insostituibile linfa vitale della realtà psichica, la sua essenza più autentica, insostituibile. Arginarla, inibirla e modellarla secondo dogmi e codici alienanti produce patologie, sofferenza e disfunzioni, individuali e sociali, ma è in ultima istanza illusorio, perché l’io cosciente, razionale e morale, è prodotto di procedure e paradigmi culturali relativi e contingenti, è un mosaico instabile e aleatorio di atti linguistici eteronomi e sovente contradditori e paralizzanti. La natura autentica, profonda e vitale del soggetto psichico è libido, eros, desir, tensione verso l’altro da sé, che nei surrealisti, eredi dell’ignita ansia dissolutrice di Rimbaud e Lautreamont, si manifesta come ebbrezza estatica, dionisiaca, ribelle e dissolutrice di norme e valori etici ed estetici falsi, abusivi, obsoleti e fossilizzati.

Rivoluzionario e anarchico, antidogmatico e anticlericale, Andrè Breton, fondatore e capofila del movimento, individua nell’eros – inteso in forma antimetafisica e nicciana, come desiderio fisico, corporeo, privo di sublimazioni mistiche e agapiche, l’elemento di relazione essenziale di ogni realtà fisica e psichica, capace di ricucire le lacerazioni inflitte all’ego, alle classi sociali e alle pratiche estetiche dalle norme alienanti e criminali della morale borghese; il desiderio, l’immaginazione, l’amore, la bellezza femminile, la libertà, la poesia sono gli strumenti per creare una nuova dialettica anti-idealistica, per riunire sogno e realtà, nella surrealtà, e in alleanza alla rivoluzione marxista, creare una nuova umanità, finalmente libera da ogni schiavitù morale ed economica.

L’Union libre, una delle sue poesie più celebri, è quasi un manifesto poetico della sua visione dell’eros come dimensione liberatoria e salvifica, del suo rivoluzionario dispositivo linguistico, fondato su una metafora composta di elementi volutamente e violentemente incongrui e semanticamente incompatibili, che forzatamente accostati producono una deflagrazione emotiva ed espressiva capace di rigenerare la visione della realtà: “Le parole non comunicano più, fanno l’amore“. In particolare in questa straordinaria celebrazione delle diverse parti del corpo femminile, ispirata dalla sua seconda moglie, Jacqueline Lamba, una splendida spogliarellista, famosa per un numero in cui si immergeva nuda in una vasca d’acqua dalle pareti trasparenti, la corrispondenza tra il corpo della donna e l’emozione che suscita nel poeta è affidata ad un codice sommerso, dinamico, inafferrabile, le immagini proliferano in significati incontrollabili e tracimanti l’uno sull’altro.

Foto uomo tigre

Aux yeux de niveau d’eau de niveau d’air de terre et de feu.

Ma femme à la chevelure de feu de bois
Aux pensées d’éclairs de chaleur
A la taille de sablier
Ma femme à la taille de loutre entre les dents du tigre
Ma femme à la bouche de cocarde et de bouquet d’étoiles de dernière grandeur
Aux dents d’empreintes de souris blanche sur la terre blanche
A la langue d’ambre et de verre frottés
Ma femme à la langue d’hostie poignardée
A la langue de poupée qui ouvre et ferme les yeux
A la langue de pierre incroyable
Ma femme aux cils de bâtons d’écriture d’enfant
Aux sourcils de bord de nid d’hirondelle
Ma femme aux tempes d’ardoise de toit de serre
Et de buée aux vitres
Ma femme aux épaules de champagne
Et de fontaine à têtes de dauphins sous la glace
Ma femme aux poignets d’allumettes
Ma femme aux doigts de hasard et d’as de coeur
Aux doigts de foin coupé
Ma femme aux aisselles de martre et de fênes
De nuit de la Saint-Jean
De troène et de nid de scalares
Aux bras d’écume de mer et d’écluse
Et de mélange du blé et du moulin
Ma femme aux jambes de fusée
Aux mouvements d’horlogerie et de désespoir
Ma femme aux mollets de moelle de sureau
Ma femme aux pieds d’initiales
Aux pieds de trousseaux de clés aux pieds de calfats qui boivent
Ma femme au cou d’orge imperlé
Ma femme à la gorge de Val d’or
De rendez-vous dans le lit même du torrent
Aux seins de nuit
Ma femme aux seins de taupinière marine
Ma femme aux seins de creuset du rubis
Aux seins de spectre de la rose sous la rosée
Ma femme au ventre de dépliement d’éventail des jours
Au ventre de griffe géante
Ma femme au dos d’oiseau qui fuit vertical
Au dos de vif-argent
Au dos de lumière
A la nuque de pierre roulée et de craie mouillée
Et de chute d’un verre dans lequel on vient de boire
Ma femme aux hanches de nacelle
Aux hanches de lustre et de pennes de flèche
Et de tiges de plumes de paon blanc
De balance insensible
Ma femme aux fesses de grès et d’amiante
Ma femme aux fesses de dos de cygne
Ma femme aux fesses de printemps
Au sexe de glaïeul
Ma femme au sexe de placer et d’ornithorynque
Ma femme au sexe d’algue et de bonbons anciens
Ma femme au sexe de miroir
Ma femme aux yeux pleins de larmes
Aux yeux de panoplie violette et d’aiguille aimantée
Ma femme aux yeux de savane
Ma femme aux yeux d’eau pour boire en prison
Ma femme aux yeux de bois toujours sous la hache
Aux yeux de niveau d’eau de niveau d’air de terre et de feu. Continua a leggere

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Un confronto tra lo spazio espressivo integrale di Sandro Penna, tipico del realismo lirico novecentesco e una strofa di Tomas Tranströmer del 1954 Poesie di Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, J. Haddad, Francesca Dono, – Commenti

Gif metro

La vita… è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba

 

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Foto uomo tigre

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer

Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.

Leggiamo quest’altra strofa:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

Mario Gabriele In viaggio con Godot cover 1

Carlo Livia

13 novembre 2017 alle 12.59

Caro Giorgio, condivido metodo e fine della tua analisi comparata, e anche aver scelto Penna come esemplare di maggior risultanza icastica di un atteggiamento espressivo ancora fatalmente imbrigliato nei vincoli della vecchia onto-logia, cioè di un rapporto pensiero-essere che non può svincolarsi dalle tradizionali codificazioni mimetiche, che presuppongono non solo isomorfismo, ma subordinazione del pensiero- linguaggio ai (presunti) immutabili caratteri e confini del reale. Che tra logica e ontologia regni totale eteronomia è inconfutabilmente acquisito dalla riflessione dell’analitica del linguaggio (Frege, Wittgenstein, ecc.); ciò ha avuto importanti riflessi anche nella riformulazione estetica, etica, assiologica, di strumenti e destini creativi, culturali e antropologici.

In passato abbiamo spesso polemizzato, come ricorderai, soprattutto perché non condividevo la tua faziosità e le tue furiose stroncature, per me eccessive, ma devo riconoscere che mi sbagliavo: si tratta effettivamente di farsi protagonisti di una svolta epocale, che passa anche per l’arte e la letteratura, la sua funzione, la sua analisi critica, il suo contributo all’evoluzione di configurazioni psichiche e prassi culturali e sociali.
Il pensiero poetico (dove l’essere, attraverso il linguaggio, accade, sorge alla luce) ha da sempre un funzione insostituibile nel rinnovare e liberare da codici, norme e ideologie fossilizzate e violente; non è casuale l’ossessiva volontà, da parte di tutti i totalitarismi (compreso quello consumistico-tecnologico in cui sopravviviamo emarginati, nascosti nell’…ombra!) di perseguitare e sterminare i poeti.

C’è un solo particolare da cui dissento, che la svolta sia stata compiuta dall’opera di Tranströmer, che è certamente, anche perché psicologo del profondo, uno dei più consapevoli esegeti delle nuove dinamiche intrapsichiche e delle mutazioni linguistiche che le determinano e descrivono: Ma Rimbaud ha fatto qualcosa di simile un secolo prima:

Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante
e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque
e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono,
nel loro silenzio atrocemente agitato…

(Da Illuminazioni)
Per non parlare dei paesaggi onirici e deliranti dei surrealisti, specialmente francesi e spagnoli:

”A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove piange la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate…

(F. G. Lorca da Piccolo valzer viennese, L. Cohen ne ha fatto una versione inglese in musica)

Foto in Subway 50 years

Entrammo. Un’unica enorme sala,/ silenziosa e vuota

Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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ALFREDO DE PALCHI, POESIE, “La buia danza di scorpione (1947-1951) ” Commento di Giorgio Linguaglossa  – Lo scorpione, simbolo psicanalitico del pene malsano che infetta e distrugge invece di fecondare e dare vita”; “simboli materni della vita placentale e uterina che collidono e sfibrillano con i simboli paterni”; “un universo simbolico violento e sterile, che porta morte e sterilità”; “Il primo poeta che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia”

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010). Nel 2016 esce Nihil (Stampa2009) con prefazione di Maurizio Cucchi.

Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

scorpione uomoCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa su “La buia danza di scorpione”

La struttura metrica di questo poemetto poggia su un metro irregolare, cacofonico, spezzato e incidentato, irto di spigoli acustici e semantici. Non c’è alcuna gerarchia compositiva. La gerarchia è sempre opera della coscienza stilistica. A livello dell’inconscio non si dà mai alcuna gerarchia, tutto è affidato alla improvvisazione di una «esperienza profonda» che riemerge, a sprazzi, alla coscienza. Affiora, dalla antichità dell’inconscio, il «fiume», il femminile «Adige». Emergono l’«argine», i «margini burroni», la «colomba», lo «zucchero», «la madre», il «girasole», le «uccelle», «il seno biondo» simboli materni della vita placentale e uterina che collidono e sfibrillano con i simboli paterni: il «seme», lo «sputo», l’«arma», il «gallo», «il palo del telegrafo», il «becco», etc. – Su tutti e tutto aleggia la maledizione dello «scorpione» che inscena «la buia danza» di morte, di sortilegio e di sacrilegio. Lo scorpione rappresenta la degenerazione del mondo, simbolo psicanalitico del pene malsano che infetta e distrugge invece di fecondare e dare vita. Il ragno è una figura maschile che costruisce il «ragnatelo» « il ragnatelo blocca l’incertezza»); l’«incertezza» di cui si parla è una sintomatica e paradigmatica confessione della situazione di sospensione della azione simbolica che dovrebbe sistemare la grave ingiuria dell’essere venuto al mondo mediante un atto di soppressione del Totem. Ma il Totem è sempre là. È invulnerabile in quanto assente. È invulnerabile in quanto ritorna. Ha la stoffa del fantasma. Come ogni Totem si nasconde nei ricettacoli, negli angoli più remoti. È invincibile. Il coito che dà la vita è vissuto così: «A boati il vento mi cozza nella cella». Si profila un universo simbolico violento e sterile, che porta morte e sterilità. Il discendente è appeso alla «incertezza» della sua nascita e immagina di stare immerso nelle «acque» del fiume placentale:

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido — ed amo il fiume
inevitabile

Il destino del giovane de Palchi è presto detto: «ho questo seme / da trapiantare». Il giovane poeta si assume il compito di assicurare il tramandamento delle generazioni, di rigenerare e tramandare il «seme» paterno in altri «fiumi» producendo l’immortalità della progenie. Sono sogni, fantasticherie ad occhi aperti del giovanissimo de Palchi. La sua poesia si nutre a piene mani di queste fantasticherie, la cui funzione è quella di rendere abitabile il mondo e la coscienza al servizio dell’io incerto che si sta per affacciare al mondo della storia. Il giovanissimo de Palchi fantastica di una rigenerazione che avverrà, e fantasticando, tra un onirismo e l’altro, scrive queste poesie che vivono di sussulti e di frammenti, di insurrezioni e di insubordinazioni alla maestà del Totem e della storia. La raccolta termina con un abbandono estatico dell’io al «fiume» della femminilità agognata e amata, alla femminilità della vita placentale dove le contraddizioni e gli orrori della storia vengono sopite e dimenticate: «Nella desertica vastità delle acque».

Il frammento si nutre di tempo e di nostalgia; l’attesa è il suo metronomo, la sua miccia di innesco; ma, una volta innescata seguirà la detonazione, lo scoppio. La nostalgia si muove a ritroso nel tempo verso il Principio, il Principio del tutto. E non è un caso che la raccolta di de Palchi inizi appunto con un «Principio» di tutte le cose, il big bang, con l’inseminazione dell’ovulo. Da qui si diparte il «Principio» del male e la degenerazione della storia. Ecco la poesia di apertura:

IL PRINCIPIO

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

È ben visibile, a livello molecolare della scrittura, la matrice edipica che traccia questo quadro inconscio che darà luogo ad una trasfigurazione simbolica tra le più suggestive del Novecento poetico italiano.

*

scorpioneIl primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo De Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967, che però non ricomprende le poesie scritte, dal 1947 al 1951, nelle celle dei penitenziari di Procida e di Civitavecchia dove fu rinchiuso il giovanissimo poeta con l’accusa infamante di omicidio per il quale fu condannato, con un processo farsa, in primo grado, all’ergastolo. Una traumatizzante esperienza che gli detterà la prima forma frammentaria della poesia italiana del secondo Novecento. Sessioni con l’analista (1947-1966), la seconda opera in ordine cronologico di de Palchi, che verrà pubblicata ad opera di Sereni con la Mondadori nel 1967, priva però della prima raccolta, La buia danza di scorpione (1947-1951), che venne stralciata per volontà dell’autore e pubblicata negli Stati Uniti con Xenox Books nel 1993.

«Cominciati in prigione a vent’anni – scrive de Palchi in una nota alla edizione americana del 1993 – questi testi di compatte immagini rivivono in quattro sezioni: l’agonia dell’adolescenza, della guerra, della detenzione, allora attuale, e dell’idea del suicidio. Ringrazio profondamente l’amico prigioniero poeta Ennio Contini per avermi istigato a scrivere, a leggere e a produrre».

In quegli anni di disperata scrittura, dal 1947 al 1951, De Palchi scriverà La buia danza di Scorpione, il primo e più compiuto esempio di disseminazione del linguaggio poetico e di frammentazione della forma-poesia.

Dopo di quella data la poesia italiana non procederà più in quella direzione. E le ragioni sono varie. Le riassumo qui. La poesia italiana del dopoguerra si impegnerà, da un lato nella riforma che avvieranno: Vittorio Sereni, con Gli strumenti umani (1965), Giovanni Raboni con Le case della Vetra (Poesie 1951-1964) pubblicata nel 1965 e Giovanni Giudici con La vita in versi (1965); dall’altro, lo sperimentalismo di derivazione neoavanguardista e l’esperienza della rivista “Officina” di Pasolini, Roversi e Leonetti. In sintesi, l’obiettivo cui miravano queste riformulazioni del linguaggio poetico era quello di assimilare ed esaurire l’esperienza del post-ermetismo mettendolo fuori gioco, formulando nuove tematiche urbane, un lessico prossimo al parlato, toni bassi, narratività, istanze civili, presa di distanza dalla connotazione e preferenza per un linguaggio denotativo e referenziale. L’impresa, almeno in parte, riesce. Il post-ermetismo viene messo fuori gioco. E questo è un merito indiscusso che riuscirà utile per riparametrare la poesia italiana verso parametri linguistici più consoni all’uditorio della nuova civiltà di massa che si profila all’orizzonte. Si tratta comunque di impostazioni debitrici di un concetto di poesia che obbedisce ad una idea lineare della struttura poetica che si può compendiare nella formula: discontinuità-continuità-rottura in rapporto ad un modello canonico legiferante di matrice lineare che si presuppone in vigore.

scorpione qÈ ovvio che non poteva essere questa la strada intrapresa dal giovanissimo De Palchi, il quale, chiuso nei reclusori di Procida e Civitavecchia, costruisce una poesia, come si dice oggi, «corporale»; costruisce la forma-poesia del frammentismo emotivo molto lontana dai paradigmi stilistici dominanti in quegli anni. Si tratta di una poesia che viene scritta in diretta, durante una esperienza traumatica, la reclusione, che si prolungherà per ben sei anni; una poesia che sortisce fuori in maniera vulcanica e terremotata dalla viva percezione della clausura ingiusta. È una parola che nasce già scheggiata e ferita, che ricorre al ricordo del «fiume» della adolescenza quale contraltare al presente che il giovanissimo poeta vede senza via di uscita.

Oggi la questione si pone e si ripropone, non più al modo del frammentismo emotivo del primo progenitore Alfredo de Palchi che pubblicherà in Italia il suo primo straordinario libretto nel 2001 in una raccolta della sua produzione poetica dal titolo esemplificativo di Paradigma. Le poesie qui riportate appartengono alla primissima raccolta La buia danza di scorpione, con quelle sue caratteristiche verticalizzazioni e intensificazioni liriche ed emotive, ma al modo di un frammentismo simbolico e iconico, di una forma poematica che echeggiava Villon e Rimbaud in sede di poesia modernista, con elementi rivissuti e rivitalizzati attraverso l’esperienza personalissima e traumatica della detenzione.

Dicevo che il riconoscimento di un progenitore della poesia del frammento emotivo che oggi alcuni autori fanno in Italia, si pone in modo impellente, perché dopo il grande successo del minimalismo romano-milanese di questi ultimi tre, quattro decenni, si avverte nei poeti più dotati che hanno attraversato quell’esperienza, l’esigenza di voltare drasticamente pagina. In molti poeti si avverte il bisogno di una inversione di tendenza. Sono i poeti della mia generazione o giù di lì quelli che si interrogano e scrivono una poesia che intende perseguire l’obiettivo di una riformulazione in chiave iconica e post-simbolica della forma-poesia. C’è in atto un risveglio, almeno da parte dei poeti che hanno una età che va dai cinquanta anni ai sessanta in su. Dei più giovani, non saprei dire, mi sembra che ristagnino nelle forme poesia ben obliterate, cercano di andare sull’usato sicuro.

alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Alfredo De Palchi Poesie “La buia danza di scorpione”

La buia danza di scorpione
(Procida/Civitavecchia, primavera 1947 – primavera 1951)

                                                                Ce monde n’est qu’abusion

                                                                              François Villon

IL PRINCIPIO

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

***

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido — ed amo il fiume
inevitabile
in cui l’intrigo del mio tempo
si accomoda

osservo nel fondo rotolare l’isola
verso il nulla
l’età muta calore
il vespaio del gorgo
e l’uno vuole il perché dell’altro:
tu sempre uguale, io
dissennato

***

Al palo del telegrafo orecchio il ronzio
il sortire incandescente da quando
le origini estreme
provocano la terra
percepisco
accensioni e dovunque mi sparga
chiasso d’inizio odo

***

In mano ho il seme
nero di girasole —
so che la luce cala dietro
l’inconscio / ma altre nebule
avanzano
e ho questo seme
da trapiantare
come unico dei sistemi
sconosciuti

***

Primavera
è una colomba
che pilucca i semi della noia e urta
la soglia
— mai mi abbandono
alla sua ingordigia o mi abituo
alla vanità ma
la volubilità che m’incanta allunga
il becco sui semi della noia

***

Nel chiasso
di germogli ed uccelle
la porta spalanca la corsa
in gara col baccano del gallo
sotto la tettoia di zinco

e m’incontra l’argine con l’officina
trebbie e cortili che alzano un fumo
buono di letame
— la pista mi svela
lo scompiglio e odo
una punta di luce scalfirmi gli occhi

***

Estate
frutto propizio seno biondo
d’una calata di sensazioni

nel belato d’alberi la luce astringente
urta
tutto scompiglia: il verde-
verde
il cielo-cielo e il rombo . . .

 

Ciminiere fabbriche
del concime e dello zucchero
barconi di ghiaia e qualche gatto
lanciato dal ponte
snaturano questa lastra di fiume
questo Adige

***

scorpiones-05

Vortica una fanfara
di zanzare nel crepuscolo
e la giostra del mondo
una fiera di ritagli di luce
— io, incerto
giro il vertiginoso cuore impestato
di zanzare

***

Con piedi cercatori
pesanti più che ali d’inverno
vado incontro alla luce

ho gli occhi pesti come
dopo l’incendio terrestre
la notte
la volontà di vedere quello che d’abitudine
si dimentica

***

Il lepidottero barcolla ai vetri —
mi alzo dai fogli dove sono
insicuro ed apro la finestra

fuori di sé insiste a frenarsi
squama alla luce — io fuori di senno
persisto la buia danza
di scorpione

***
scorpione x.

UN’OSSESSIONE DI MOSCHE

Si abbatte il pugno
sul totale formicolio
della natura — è
sofferenza questo gesto
sulla vorace indifesa
degli insetti e
di me

***

Contratto tra convulsioni di case
e agguati
osservo un passaggio di autocarri

e mentre scoppiano argini e barconi
nuoto verso rive ascoltate
— lo sforzo
mi guasta ad ogni bracciata
e i miei pochi anni nuotano con astuzia
di pesci ai fianchi

***

Ad ogni sputo d’arma scatto
mi riparo dietro l’albero e rido
isterico
alla bocca che sbava
un’ossessione di mosche

***

Una madre sradicata del ventre geme
per il figlio:
occhi sbucciati
infiammato groppo di lingua
al palo del telegrafo penzola con me
afferrato alle gambe

***

Dopo l’ultima raffica
il subentrare della calma orrenda
un prete esce pazzo dal fosso
con uno straccio di cristo
impalato

***

Non più
udire il tonfo dei crivellati nel grano
urli di vecchie bocche e di bestie
negli incendi e bui guazzi
nell’Adige

vedere un branco di vili osservare
chi s’affloscia al muro
il camion che di botto lascia al lampione
chi fa le boccacce con eloquente
groppo di lingua

***

Al limite del paese le vie
come antenne dilungano
racchiudono il boato e l’angoscia di uomini
che spiandosi in giacche succinte
di precauzione
vilmente si evitano

***

Al richiamo del gallo non evito
la piazza irosa
che inventa leggi — presto
un falso fazzoletto rosso
anche ai miei 18 anni

***

scorpione-in-nero_91-9763

 

.

Appigliata alle spalle la colomba
annunzia la condanna
odore del diluvio
e l’albero di fuoco
sbracia i rami
strillanti nel cielo basso di fango
lo spavento dell’uccella difforma
l’innocenza che non si rifugia nell’arca

***

Già nel cantiere il muratore rimbastisce la casa
con mattone e mattone

all’uscio batte le nocche la madre

risponde con radici d’acciaio rovesciate il ponte
— e chi è che passa
sugli argini della disfatta ribaltando i reticolati

***

Al calpestio di crocifissi e crocifissi
sputo secoli di vecchie pietre
strade canicolari
il pungente sterco di cavalli immusoniti
in siepi di siccità

(al gomito dell’Adige allora crescevo
di indovinazioni rumori d’altre città)

e sputo sui compagni che mi tradirono
e in me chi forse mi ricorda

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

.
Nel giorno della disfatta cerco la verità

sono il campo vinto
ragazzo armato di ferite

il suolo calpestato
idolo d’argilla

il pane della discordia
la trave nell’occhio

la fionda che punta il mondo
scroscio d’oro del gallo

nel giorno della disfatta trovo la verità

CARNEVALE D’ESILIO

Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana
bellezza mi viene sui ginocchi

le chiedo dell’afflizione e mi offre
la gioia che rifiuto

ancora aspetto
la bruttura che possiede

***

L’incubo si srotola
sbiscia nel frullare delle piante
dal soffitto
dal muro circolare che imprigiona la luce
essudata d’un olio buio —
non decifro le pagine bibliche
inerti all’occhio che matura
la notte / pelaghi di sonno via
mi portano: margini burroni,
mi muovo lento
la distanza è nera e i passi
sono balzi al rallento mentre le braccia
annaspano . . .

***

Uovo che si lavora nella luce ovale
nuovo adamo
invigorisco nell’altrui simulazione
e quindi anch’io implacabile finzione

anch’io sono, io
mi credo
altri osserva che non sono —
com’è possibile
se sulla croce di tutti ulcerata
mi svuoto le gote
se circondato non c’è chi
mi disseti
solo chi impreca

***

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi della intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

— io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

***

A boati il vento mi cozza nella cella
dove sono intracciabile —
la mia mano di sepolto
è uguale a quella d’altri che altrove
si tentano uniscono e separano
non lasciando una traccia
qui
l’indifferenza livella tutti

***

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato — non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

***

Concluso fra pareti vilipendio
e menzogne
mi sfinisco per quello che succede
mai — non so
non so chi e cosa dovrebbe
capitare: un figlio come me
un quaderno di scritture per testimonianza
un’arma che mi geli
o una migliore conflagrazione
***

Alfredo de Palchi periodo francese

Alfredo de Palchi periodo francese

scorpione il record di Kanchana regina degli scorpioni

Kanchana regina degli scorpioni

Il mio tempo tra muri infetti
è un ricordo di spighe rovinato dagli uccisi
ancora in fuga
— il suolo li sigilla in cedimenti
di ruggine —
e dall’occhio che indaga laconico

***

Che cogliere dalle disfatte
se tutte le malattie
le vivo — ferro e paglia
m’induriscono la faccia inquadrata
dalle sbarre crescenti

si apra il cancello
la città nella conca schiuma di luci

***

Pane è pietra
la sete pietra
ho metri di pietra
mordo la pietra

chiedo acqua
— mi si impone sete
voglio luce
mi si impone ombra
calce viva che rosica le mani occupate
a scacciare l’oscurità

la luce è dispensata
quanto l’acqua di cisterna

‘vivo! è bello vivere’
mi sorreggo
ma i ghigni intorno mi ghermiscono

***

Età cruda
fame cruda
una gamella al giorno di ceci col baco
e un pane benzoino

sbadiglio per la fame
mi piego in pena
e vivo di notizie che raccontano quella secca
il suo scheletro nelle baracche
appigliata alle reti elettriche

***

Il pezzo di pane mi nutre
in una putredine di patria
e traffico di truffatori
— il pane
sa di petrolio
lo mastico con bucce di limone
raccolte nelle immondizie

***

alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

.

All’alba morchia — morchia
di caffè con sale
eiaculazioni
c’è chi va e chi viene — si esce al cancello
per indovinare
‘piove?’
non piove
mezzogiorno stagna la monotonia
la puzza del bugliolo
il giornale che tarma
la giornata: consuete notizie

***

Qui
carnevale d’esilio
e bestemmie — fuori
di mortaretti
‘che maschera sono’
non sono eguale
‘che maschera porto’
sono eguale
cristo impostore, riconoscimi
esercita pietà
sono il dannato

***

Il cubicolo è un forno che trasuda
l’umore di me alle prese con la forza
e l’atto di scontare un vivere
ingombro di spurgo
— cosa serve aggiustare
il perché delle menzogne
l’immensità della pena più grande
di me in questi dintorni
se oltre l’incubo
non so altra percezione

***

Arso dalle azioni di chiunque
annoto i crimini —
pure qui la vita
disfa la vita fruga
interpreta le ragioni forma e scombina
codici irrazionali
e benché annusi una ricordanza d’uomo
nelle piaghe ripugnanti e menti
carbonizzate dall’odio
non concepisco un lazzaro o un cristo
deforme

***

Importunato dalle pazienze i dubbi
l’ambiguità
mi guasta le cellule il vostro microbo
di pace finta — questa larva dilegua
se dissento
se vulnerabile all’insidia biascico
parole vere
se rumino l’attesa di chi
di che
di me stesso

***

La palma lingueggia
lingueggia la pioggia lustrando i crani
semi della prossima sventura
che in agguato già lingueggia prostituta

***

Giorgio Linguaglossa Alfredo De_Palchi serata 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Poter combaciare la notte con la palma
che alza un sapore verde
ma il tarlo d’uomo rode

‘non c’è angolo dove nascondersi’

al mio intrico si intìma
una lunga indifesa
un maturare incerto
— solo c’è luogo
nel cranio di Villon
e sotto la palma che a lingue corrosive
spula la luce demente di Nerval
nello sguardo narcotico

***

Dalla palma nel cortile la civetta stride
per il topo che sono — un fetore
di bugliolo m’incrosta la gola
e l’impeto della notte
mi spacca la mente

(mi scaglio nel breve passato
mi tolgo le scarpe
ai fossi strappo le canne per soffiarvi
una bolla di mondo . . .
e sogno splendidi anarchici)

***

Anch’io incrudelito dall’usanza
da studi sulla rana sul granchio
scosciati vivi
al tavolo della scienza sviscero
ogni forma di vita per concepire quello
che ci definisce: arma sangue —
imito il dio del verbo
onoro la sua opera

***

La nudezza dei pozzi mi secca
il corpo fisso alla branda
e assopisco nelle mie forti
braccia umane

***

Aggiusto lo sguardo riconto gli anni
anni ingannati pentiti regalati
alla famelica babilonia

se il domani fosse certo potrei forse
sostenere il morso
in me che segregato non indovino quale
luce mi darà vigore —
intanto in questo cubicolo
mi mangio maturando e sulla pietra
raspo per una vita dissimile

***

Una scatola
batteriologica un tubo di provini
chimici e da qui si comincia il nuovo:

uomo ovoidale
tutto testa calva
e privo delle decadenze
che si conosce dai testi di storia

si cominci — ogni azione ogni cosa
andrà per il meglio se arriveremo in tempo
a non interromperci di scatto
con qualcosa che . . .

***

Anni verdi rivengono
ora che pesano le pietre / ogni anno
una pietra nel mare sottostante e non so
ch’io sia — a bracciate mi spiego
io maldestro nuotatore

(erano bianche le strade
andavo per sentieri allagati da orti
liquidi di sole e contro i pali
del telegrafo sibilava la fionda)

ma un pugno stupendo di nocche mi resta
ora che anni di granito pesano
e alla forza rozza che ha odio soccombo
pelle mente verbo

***

La tarda lingua della viltà e precauzione
non impedisce alla mia età ostile
di rivedere l’Adige
e di mozzare il guaire di tutti
totale insulto
con i denti aguzzi che schizzano veleno
qui e dove non ho altro da dire che
Ce monde n’est qu’abusion
scorpione q

IL MURO LUSTRO D’ARIA

C’è in me dello spazio
usurpabile — cerchio
o cono che sia . . .

solo so che nella vertigine
il ragnatelo blocca l’incertezza

***

Il fiore selvaggio delle tenebre
mi scotta sulla fronte
e mentre indietreggia ed impiccolisce
e dilegua
ingoio rospi / questi omuncoli da circo —
è ora di rinunciare il fuoco per le tenebre

Una mosca adolescente bruisce
sulla gamella calda di zuppa
annunziando l’infezione
e gira l’orlo come sulle labbra
di me che sogno di uccidermi

***

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione dell’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

— io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

***

Nella desertica vastità delle acque

scorpione la regina dello scorpione thailandia

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  Alfonso Berardinelli “AVVISO AL FATTO: SE LA COLLANA DI POESIE MONDADORI CHIUDE È PERCHÉ NON CI SONO PIÙ POETI PUBBLICABILI”  “Se Lo Specchio chiude, insomma, qualche ragione c’è” – con un Commento di Giorgio Linguaglossa: “siamo arrivati allo stadio zero della poesia”;

la Poesia è nuda

la Poesia è nuda

da Il Foglio 15 luglio 2015

Che succede? Il Fatto quotidiano è un giornale a cui piace mettere lo stile cinico al servizio dell’etica pubblica. Quando parla di poesia, però, si intenerisce. In un articolo di Pietrangelo Buttafuoco (9 luglio 2015), che ne riprendeva uno di Alessandro Zaccuri uscito in precedenza su Avvenire, si parla di licenziamento (scandaloso?) del dirigente Antonio Riccardi dalla Mondadori, nonché della paventata chiusura della più famosa collana italiana di poesia, denominata Lo Specchio. Sì, proprio quella in cui noi liceali di mezzo secolo fa leggevamo Ungaretti, Montale, i lirici greci e Catullo tradotto da Quasimodo, e più tardi Auden e Paul Celan, Zanzotto, Giudici, Ted Hughes, Denise Levertov, Iosif Brodskij…

 Che Lo Specchio abbia avuto grandi meriti lo si sa, lo si dovrebbe sapere. Ma è anche abbastanza risaputo che da venti o trent’anni le sue scelte poetiche italiane sono molto o troppo discutibili, fino a privare la collana del suo antico prestigio.
Il titolo dato all’articolo di Buttafuoco invece che allarmare fa un po’ ridere: “Che Mondadori è se rinuncia alla poesia?”. Non è che la Mondadori rinunci ora alla poesia, ci aveva già rinunciato da tempo, infilando nella sua collana una crescente zavorra di poeti “cosiddetti”…

 No, mi sto sbagliando. Di poeti da pubblicare in Italia non ce ne sono poi molti. O meglio, ce n’è un tale mostruoso e informe numero che il difetto, ormai, non può essere imputato a questa o quella collana (anche se…!). Il difetto è nel fatto che si creino collane di poesia, dedicate, intendo, esclusivamente alla poesia. Meglio sarebbe mescolare poesia e prosa. Una volta aperta una collana di poesia bisogna poi riempirla. Con che cosa? Con quello che c’è.

 Di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta. Non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita le grandi, medie e minime collane che esistono. E’ ovvio, è inevitabile che si pubblichi semplicemente quello che c’è, procedendo secondo ben noti opportunismi (tanto la critica di poesia beve tutto oppure tace): prima viene l’amico, poi l’amico dell’amico, poi quello che si mette al tuo servizio, prima ancora quello che ha potere, o quello che insiste e non demorde, quello che se non lo pubblichi si inalbera, quello che poi te la farà pagare, quello che minaccia il suicidio…

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Che la poesia non abbia mercato (se non eccezionalmente) dovrebbe essere un dato acquisito da ogni editore che conosca l’abc del suo mestiere. E’ così vero che mezzo secolo fa un poeta non ingenuo come il tedesco Enzensberger, in uno dei suoi fondamentali saggi, teorizzò la poesia come “antimerce”. Una tale teoria non era nata allora e non doveva essere presa troppo alla leggera: perché messa in mani stupide, diventa una teoria stupida. Quando Enzensberger parlò di poesia come antimerce erano anni in cui il mercato veniva visto come una bestia nera da ogni scrittore che si rispettasse e che volesse essere accolto negli esclusivi circoli di élite.

 Negli anni Sessanta ormai quella teoria aveva cominciato però a invecchiare: invece che come un fatto editoriale, la non facile vendibilità della poesia fu intesa come un programma letterario e diventò illeggibilità: poesia scritta per non essere letta, un vuoto riempito di parole. Solo che fra invendibilità e illeggibilità c’è una differenza. E’ la differenza che la neoavanguardia, per esistere come eterna provocazione, doveva fare finta di non capire. Il poeta tedesco aveva parlato di antimerce per mettere le mani avanti, ma scrisse le sue opere poetiche distinguendo bene fra il loro “valore d’uso” (possibilità di leggerle) e “valore di scambio” (vendibilità). Enzensberger in effetti è uno dei poeti europei più leggibili di fine Novecento.

Qui sorge un problema. Cosa vuol dire essere leggibili? Rimbaud e Mallarmé non è facile leggerli, ma non sono certo illeggibili. Richiedono un’intensificazione, una focalizzazione dell’atto di leggere. Chiedono di essere riletti. Invece leggere o rileggere molta poesia delle neoavanguardie è impossibile perché è inutile. Leggi e non sai che cosa c’è da leggere. Rileggi e non fai nessun passo avanti. Se nella rilettura non succede niente di nuovo e di fruttuoso, questa esperienza diventa retroattiva: dimostra che anche leggere è stato inutile.

 Accanto all’articolo di Buttafuoco, il Fatto pubblica un’intervista ad Andrea Cortellessa, il quale si occupa anche della evidente impreparazione del professor Asor Rosa in materia di letteratura attuale (vedi il suo “Scrittori e popolo / Scrittori e massa”). Questa impreparazione (oltre a moventi di cortigianeria editoriale) porta Asor Rosa a occuparsi quasi esclusivamente di autori Einaudi, casa editrice alla quale lo vediamo aggrappato da decenni con tutte le sue forze. Ma Cortellessa condivide con il professore un’idea che a me pare bizzarra, o che più precisamente è una fede: la poesia, poiché non ha mercato, sarebbe secondo loro migliore e più onesta della narrativa. Macché, non è così. E’ mediamente peggio della narrativa, proprio perché non ha mercato, non ha lettori. E un’arte senza pubblico (come la pittura) marcisce su se stessa, si autodistrugge immaginandosi libera e incontaminata. Per scrivere un romanzo o anche un mediocre romanzetto ci vuole un minimo di tecnica artigianale. Per scrivere il novanta per cento delle poesie italiane che circolano oggi, perfino antologizzate e commentate dai nuovi accademici, non ci vuole nessuna qualità, se non forse un po’ di specifica astuzia, dato che risultano essere niente e non si capisce, letteralmente non si capisce, come abbiano trovato qualcuno disposto a scriverle.

 Se Lo Specchio Mondadori chiude, insomma, qualche ragione c’è.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa, 2010

Commento di Giorgio Linguaglossa

È ovvio che condivido in pieno il giudizio di Alfonso Berardinelli, mi sembra ineccepibile. Mi sembra ineccepibile la valutazione di Berardinelli secondo il quale negli ultimi 30 anni le scelte editoriali dello Specchio siano state «quantomeno discutibili», e lo sono state, a mio avviso, perché non si è fatta più ricerca dei testi migliori, si è preferito rinunciare a ricerche lunghe e laboriose per preferire la scorciatoia della pubblicazione degli “amici” e dei sodali. Di questo passo, l’appiattimento qualitativo ha finito per deteriorare tutto il comparto della «poesia» e i lettori (intendo per lettori quei coraggiosi che acquistavano libri di poesia) si sono assottigliati fino a scomparire del tutto.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa, 2008

Non voglio fare una facile polemica, anzi il mio cordoglio è vero e sincero, per una collana (lo Specchio) che probabilmente chiuderà per assenza di utenti, ma è pur vero che quando un manager fallisce lo si cambia, questo almeno è il metodo adottato nei sistemi a economia capitalistica, può darsi che un altro manager-poeta riesca dove il precedente aveva fallito, e quindi è naturale che la proprietà editoriale cambi strategia e uomini. E non avrei nulla da eccepire neanche se la proprietà editoriale decidesse di sopprimere la collana un tempo prestigiosa de Lo Specchio se considerasse ormai il comparto in perdita irrimediabile. Una azienda in perdita e un prodotto privo di utenti, sono una contraddizione in termini.

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

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Umberto Eco IL REALISMO MINIMO. IL DIBATTITO SULLA FINE DEL POSTMODERNO: NON TUTTO È INTERPRETAZIONE

da: La Repubblica  11 marzo 2012

Il testo di Umberto Eco che qui riproduciamo integralmente è stato scritto in occasione di un convegno a New York che si è tenuto a novembre 2011 sul tema “postmoderno e neorealismo” organizzato da Maurizio Ferraris a cui hanno partecipato filosofi e studiosi internazionali con posizioni diverse sul tema. Il testo è ora pubblicato sul numero di marzo di Alfabeta2 che da molti mesi ospita interventi su questo tema. Il testo di Eco spiega la posizione del “realismo negativo” che si può riassumere nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata.

Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985.

So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d’Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità.

umberto eco4In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell’uno o dell’altro polo di questa dialettica, dall’idealismo magico al relativismo (benché quest’ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei ad espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, l’eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall’Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero.

Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo.

Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell’ambito delle teorie dell’architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale).

umberto eco5L’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto Continua a leggere

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