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Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock – The Love Song of J. Alfred Prufrock – L’esistenzialismo del nuovo modernismo, da Eliot a Kjell Espmark, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e la nuova poesia. Commenti di Donatella Giancaspero e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa
28 agosto 2018

In una Danimarca travolta dalla peste e sprofondata nella disperazione torna dalle crociate il nobile cavaliere Antonius Block. Al suo arrivo sulla spiaggia trova ad attenderlo la Morte, che ha scelto proprio quel momento per portarlo con sé. Il cavaliere decide di sfidarla a scacchi: inizia una partita che sarà giocata nel corso di vari incontri, mentre Antonius e lo scudiero Jöns attraversano la Danimarca e incontrano molte persone, pronte a espiare con dure punizioni i propri peccati o a godere senza freni degli ultimi istanti. Il cavaliere s’imbatte anche in una famiglia di saltimbanchi, che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda, uniti dall’amore e dal rispetto reciproco… [sinossi]

Quando l’agnello aprì il settimo sigillo,
nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora
e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio
e furono loro date sette trombe.
[Apocalisse, 8, I]

Mi chiedo spesso, quando leggo una poesia o un romanzo italiani, a quale film della odierna filmografia italiana possa ragguagliarli e non trovo, ahimè, nulla, nulla cui possa ragguagliare quelle storie che ho letto. E allora, penso che qualche domanda dovremmo porcela, dovremmo chiederci perché l’odierna filmografia italiana è ricchissima di barzellette e di storie stereotipate raccontate con un linguaggio filmico stereotipato. Quando invece leggo una poesia di Kjell Espmark vedo in filigrana il grande cinema di Bergman. Non a caso. Forse, mi chiedo, la poesia italiana degli ultimi decenni non presenta nulla di importante? Di importante da poter interessare un regista? – Ricordo una frase di Milosz il quale commentando le poesie di Eliot dice che non si potrebbero comprendere i Film di Antonioni se non tenessimo conto di certe atmosfere de La terra desolata (1922) di Eliot. L’affermazione di Milosz mi colpì molto e cominciai a chiedermi se la poesia italiana che stiamo facendo, la nuova ontologia estetica, un giorno possa ispirare la regia di un regista del futuro. Io penso di sì, la nuova ontologia estetica richiede fortemente una nuova fenomenologia filmica per essere compresa. Ecco dunque che siamo arrivati al punto: una nuova estetica poetica richiede sempre l’accompagnamento delle arti sorelle: la filmografia, l’arte figurativa, la scultura, la musica di ricerca, la danza… Se leggiamo queste poesie di Kjell Espmark, autore svedese ormai novantaduenne non possiamo non pensare a certe atmosfere dei film di Bergman.

Mi ha colpito molto il titolo di uno dei libri di poesia di Espmark: «Lo spazio interiore». Ecco, qui siamo all’interno di una concettualità che vorrei fosse la nostra casa comune, nostra dico della nuova ontologia estetica: creare spazi, creare tempi, moltiplicare gli spazi e i tempi, demoltiplicare le immagini, defondamentalizzare la costruzione sintattica, defondamentalizzare la colonna sonora della forma-poesia: eliminare il più possibile i verbi (che il più delle volte sono dei sostituti del nome), eliminare le soggettività (vuole e inutili) dell’io, raccontare sì ma senza l’ausilio scontato della ipostasi dell’io come collante e centro di tutte le cose. Dobbiamo porre in primo piano quando scriviamo una poesia, lo «spazio interno» e il «tempo interno», tutto il resto è secondario…

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer
Donatella Giancaspero
28 agosto 2018

A proposito di T. S. Eliot, Czesław Miłosz scrisse esattamente questo:

«Certe scene dei film di Fellini e di Antonioni sembrano la traduzione di una poesia, spesso di una poesia di Eliot: basti citare la stanza dell’intellettuale ne la Dolce Vita di Fellini, che sembra tratta da “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” (In the room the women come and go / Talking of Michelangelo); e poco importa che autore o regista abbiano preso in prestito il tema direttamente o indirettamente. In tal modo anche le persone più digiune di poesia finiscono per riceverla, in forma facilitata, dal teatro o dal cinema…».

Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (The Love Song of J. Alfred Prufrock) non è una poesia d’amore, né tanto meno un canto d’amore. Fu composto da Eliot tra il 1910 e il 1911 con il titolo Prufrock tra le donne, ma pubblicato per la prima volta solo nel 1917 nella raccolta Prufrock and Other Observations, dedicata all’amico Jean Verdenal, ucciso nel 1915 nella spedizione anglofrancese dei Dardanelli.
È scritto in forma di monologo drammatico. Il personaggio è una controfigura del poeta e dell’intellettuale in genere, è una “maschera” narrante. Nel soliloquio, questa si esprime liberamente come se il proprio parlare fosse rivolto soltanto a se stessa. In tale discorrere solitario i pensieri emergono e si strutturano senza obbedire alle esigenze di compiutezza proprie di un racconto; essi piuttosto vengono regolati nel loro concatenarsi dal flusso variabile ed imprevedibile delle emozioni.

Come epigrafe alla poesia, Eliot ha posto alcuni versi di Dante tratti dalla Commedia, che narrano dell’incontro tra Dante e Guido da Montefeltro, condannato all’ottavo cerchio dell’Inferno.

È interessante notare come questa poesia di T. S. Eliot abbia ispirato, nel 1967, al regista e sceneggiatore Nico D’Alessandria, la realizzazione di un mediometraggio sperimentale, nel quale le immagini scorrono deviate, accompagnate dalla recitazione del testo e da suoni distorti. La voce narrante è di Carmelo Bene, le musiche di Luciano Berio.

*

S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse.

Ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.

Allora andiamo, tu ed io,
Quando la sera si stende contro il cielo
Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;
Andiamo, per certe strade semideserte,
Mormoranti ricoveri
Di notti senza riposo in alberghi di passo a poco prezzo
E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche;
Strade che si succedono come un tedioso argomento
Con l’insidioso proposito
Di condurti a domande che opprimono…
Oh, non chiedere «Cosa?»
Andiamo a fare la nostra visita.

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri,
Il fumo giallo che strofina il suo muso contro i vetri
Lambì con la sua lingua gli angoli della sera,
Indugiò sulle pozze stagnanti negli scoli,
Lasciò che gli cadesse sulla schiena la fuliggine che cade dai camini,
Scivolò sul terrazzo, spiccò un balzo improvviso,
E vedendo che era una soffice sera d’ottobre
S’arricciolò attorno alla casa, e si assopì.

E di sicuro ci sarà tempo
Per il fumo giallo che scivola lungo la strada
Strofinando la schiena contro i vetri;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutte le opere e i giorni delle mani
Che sollevano e lasciano cadere una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un tè col pane abbrustolito

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

E di sicuro ci sarà tempo
Di chiedere, «Posso osare?» e, «Posso osare?»
Tempo di volgere il capo e scendere la scala,
Con una zona calva in mezzo ai miei capelli –
(Diranno: «Come diventano radi i suoi capelli!»)
Con il mio abito per la mattina, con il colletto solido che arriva fino al mento, Con la cravatta ricca e modesta, ma asseríta da un semplice spillo –
(Diranno: «Come gli son diventate sottili le gambe e le braccia!»)
Oserò
Turbare l’universo?
In un attimo solo c’è tempo
Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà

Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte: –
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci che muoiono con un morente declino
Sotto la musica giunta da una stanza più lontana.
Così, come potrei rischiare?
E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti –
Gli occhi che ti fissano in una frase formulata,
E quando sono formulato, appuntato a uno spillo,
Quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
Come potrei allora cominciare
A sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini? .
Come potrei rischiare?
E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte –
Le braccia ingioiellate e bianche e nude
(Ma alla luce di una lampada avvilite da una leggera peluria bruna!)
E’ il profumo che viene da un vestito
Che mi fa divagare a questo modo?
Braccia appoggiate a un tavolo, o avvolte in uno scialle.
Potrei rischiare, allora?-
Come potrei cominciare?

. . . . . . . . . . . .

Direi, ho camminato al crepuscolo per strade strette
Ed ho osservato il fumo che sale dalle pipe
D’uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre?…

Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi

. . . . . . . . . . . . .

E il pomeriggio, la sera, dorme così tranquillamente!
Lisciata da lunghe dita,
Addormentata… stanca… o gioca a fare la malata,
Sdraiata sul pavimento, qui fra te e me.
Potrei, dopo il tè e le paste e i gelati,
Aver la forza di forzare il momento alla sua crisi?
Ma sebbene abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,

Sebbene abbia visto il mio capo (che comincia un po’ a perdere i capelli)
Portato su un vassoio,
lo non sono un profeta – e non ha molta importanza;
Ho visto vacillare il momento della mia grandezza,
E ho visto l’eterno Lacchè reggere il mio soprabito ghignando,
E a farla breve, ne ho avuto paura.

E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata e il tè,
E fra la porcellana e qualche chiacchiera
Fra te e me, ne sarebbe valsa la pena
D’affrontare il problema sorridendo,
Di comprimere tutto l’universo in una palla
E di farlo rotolare verso una domanda che opprime,
Di dire: « lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto » –
Se una, mettendole un cuscino accanto al capo,
Dicesse: «Non è per niente questo che volevo dire.
Non è questo, per niente.»
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Ne sarebbe valsa la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia,
Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento
E questo, e tante altre cose? –
E’ impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se una lanterna magica proiettasse il disegno dei nervi su uno schermo:
Ne sarebbe valsa la pena
Se una, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,
E volgendosi verso la finestra, dicesse:
«Non è per niente questo,
Non è per niente questo che volevo dire.»

. . . . . . . . . . .

No! lo non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo;
Io sono un cortigiano, sono uno
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due,
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo,
Deferente, felice di mostrarsi utile,
Prudente, cauto, meticoloso;
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
Talvolta, in verità, quasi ridicolo –
E quasi, a volte, il Buffone.

Divento vecchio… divento vecchio…
Porterò i pantaloni arrotolati in fondo.

Dividerò i miei capelli sulla nuca? Avrò il coraggio di mangiare una pesca?
Porterò pantaloni di flanella bianca, e camminerò sulla spiaggia.
Ho udito le sirene cantare l’una all’altra.

Non credo che canteranno per me.

Le ho viste al largo cavalcare l’onde
Pettinare la candida chioma dell’onde risospinte:
Quando il vento rigonfia l’acqua bianca e nera.

Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare
Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune
Finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo.

*

Let us go then, you and I,
When the evening is spread out against the sky
Like a patient etherized upon a table;
Let us go, through certain half-deserted streets,
The muttering retreats
Of restless nights in one-night cheap hotels
And sawdust restaurants with oyster-shells:
Streets that follow like a tedious argument
Of insidious intent
To lead you to an overwhelming question …
Oh, do not ask, “What is it?”
Let us go and make our visit.

In the room the women come and go
Talking of Michelangelo.

The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,
The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes,
Licked its tongue into the corners of the evening,
Lingered upon the pools that stand in drains,
Let fall upon its back the soot that falls from chimneys,
Slipped by the terrace, made a sudden leap,
And seeing that it was a soft October night,
Curled once about the house, and fell asleep.

And indeed there will be time
For the yellow smoke that slides along the street,
Rubbing its back upon the window-panes;
There will be time, there will be time
To prepare a face to meet the faces that you meet;
There will be time to murder and create,
And time for all the works and days of hands
That lift and drop a question on your plate;
Time for you and time for me,
And time yet for a hundred indecisions,
And for a hundred visions and revisions,
Before the taking of a toast and tea.

In the room the women come and go
Talking of Michelangelo.

And indeed there will be time
To wonder, “Do I dare?” and, “Do I dare?”
Time to turn back and descend the stair,
With a bald spot in the middle of my hair —
(They will say: “How his hair is growing thin!”)
My morning coat, my collar mounting firmly to the chin,
My necktie rich and modest, but asserted by a simple pin —
(They will say: “But how his arms and legs are thin!”)
Do I dare
Disturb the universe?
In a minute there is time
For decisions and revisions which a minute will reverse.

For I have known them all already, known them all:
Have known the evenings, mornings, afternoons,
I have measured out my life with coffee spoons;
I know the voices dying with a dying fall
Beneath the music from a farther room.
So how should I presume?

And I have known the eyes already, known them all—
The eyes that fix you in a formulated phrase,
And when I am formulated, sprawling on a pin,
When I am pinned and wriggling on the wall,
Then how should I begin
To spit out all the butt-ends of my days and ways?
And how should I presume?

And I have known the arms already, known them all—
Arms that are braceleted and white and bare
(But in the lamplight, downed with light brown hair!)
Is it perfume from a dress
That makes me so digress?
Arms that lie along a table, or wrap about a shawl.
And should I then presume?
And how should I begin?

Shall I say, I have gone at dusk through narrow streets
And watched the smoke that rises from the pipes
Of lonely men in shirt-sleeves, leaning out of windows? …

I should have been a pair of ragged claws
Scuttling across the floors of silent seas.

And the afternoon, the evening, sleeps so peacefully!
Smoothed by long fingers,
Asleep … tired … or it malingers,
Stretched on the floor, here beside you and me.
Should I, after tea and cakes and ices,
Have the strength to force the moment to its crisis?
But though I have wept and fasted, wept and prayed,
Though I have seen my head (grown slightly bald) brought in upon a platter,
I am no prophet — and here’s no great matter;
I have seen the moment of my greatness flicker,
And I have seen the eternal Footman hold my coat, and snicker,
And in short, I was afraid.

And would it have been worth it, after all,
After the cups, the marmalade, the tea,
Among the porcelain, among some talk of you and me,
Would it have been worth while,
To have bitten off the matter with a smile,
To have squeezed the universe into a ball
To roll it towards some overwhelming question,
To say: “I am Lazarus, come from the dead,
Come back to tell you all, I shall tell you all”—
If one, settling a pillow by her head
Should say: “That is not what I meant at all;
That is not it, at all.”

And would it have been worth it, after all,
Would it have been worth while,
After the sunsets and the dooryards and the sprinkled streets,
After the novels, after the teacups, after the skirts that trail along the floor—
And this, and so much more?—
It is impossible to say just what I mean!
But as if a magic lantern threw the nerves in patterns on a screen:
Would it have been worth while
If one, settling a pillow or throwing off a shawl,
And turning toward the window, should say:
“That is not it at all,
That is not what I meant, at all.”

No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two,
Advise the prince; no doubt, an easy tool,
Deferential, glad to be of use,
Politic, cautious, and meticulous;
Full of high sentence, but a bit obtuse;
At times, indeed, almost ridiculous—
Almost, at times, the Fool.

I grow old … I grow old …
I shall wear the bottoms of my trousers rolled.

Shall I part my hair behind? Do I dare to eat a peach?
I shall wear white flannel trousers, and walk upon the beach.
I have heard the mermaids singing, each to each.

I do not think that they will sing to me.

I have seen them riding seaward on the waves
Combing the white hair of the waves blown back
When the wind blows the water white and black.
We have lingered in the chambers of the sea
By sea-girls wreathed with seaweed red and brown
Till human voices wake us, and we drown.

Giorgio Linguaglossa

Mediometraggio di Nico D’Alessandria, musiche di Luciano Berio, voce narrante Carmelo Bene. 1967

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Donatella Costantina Giancaspero, Lettura critica di alcune poesie di Kjell Espmark, da La creazione, Roma, Aracne Editrice 2017, traduzione di Enrico Tiozzo

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

foto Jason Langer [Lei è dunque stata un’altra per otto anni/ senza saperlo]

Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.

Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.

Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.

Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.

All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer.

In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.

Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro Via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.

Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che si trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa è del 2017, libri pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.

(Donatella Costantina Giancaspero)

Foto Death Mask by Jason Langer

Si guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

Da Lo spazio interiore (2014)

La tradita: solo un contorno senza forza

Lei è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne pendolanti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
Il prezzo per la calma di tutti splendente come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Si guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Lei vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero.
Infine siede sul pavimento del bagno
del tutto messa a nudo. Nulla è rimasto degli otto anni.
Solo il sapore di metallo in bocca.
Dovete restituirmi i miei anni!
I bambini se la cavano, inaspettatamente adulti, imbarazzati
dalla retorica, da questi resti di disperazione
che nemmeno ha parole proprie.
E gli occhi dei vicini nelle maioliche del bagno!
Lei siede avvolta intorno al suo vuoto doloroso.
Cerca di proteggere la sua povertà con la schiena contro tutti quelli che hanno saputo. Continua a leggere

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Kjell Espmark, POESIE SCELTE da “Quando la strada gira” (1993), “Illuminazioni” e da “Lo spazio interiore” (2014) – “La tradita: solo un contorno senza forza”, “A fianco del suo banco c’è il banco”. Traduzione di Enrico Tiozzo, con una Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Kjell Espmark (1930) è tra i maggiori scrittori svedesi della sua generazione. La prima pubblicazione di poesia avviene nel 1956. È anche saggista, romanziere e drammaturgo, ha al suo attivo una sessantina di volumi che gli sono valsi la cattedra di Letterature comparate all’Università di Stoccolma, la cooptazione nell’Accademia di Svezia – dove ha ricoperto per un lungo periodo l’incarico di presidente della commissione Nobel – e una grande quantità di premi nazionali e internazionali. fra le opere più note ritroviamo libri come Vintergata (2007), Det enda nödvändiga – Dikter 1956-2009 (2010) e la sua autobiografia, dello stesso anno, I ricordi mentono, tradotto e pubblicato in Italia nel 2014. Con Aracne ha pubblicato il romanzo L’oblio. Sempre con Aracne ha pubblicato Lo spazio interiore, opera con la quale ha vinto il Premio Letterario Camaiore 2015 – Sezione Internazionale.

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Nota critica di Giorgio Linguaglossa

Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale. Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhuller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967), in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972) ; in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione umana dell’uomo occidentale del nostro tempo. Presentiamo qui una scelta delle poesie del poeta svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo, lasciando alle poesie la diretta suggestione di quanto abbiamo appena abbozzato.

foto segnali stradaliPossiamo paragonare la poesia di Espmark ad una fotografia asimmetrica, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio… magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.

Abbiamo bisogno di una poesia che abbia nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante definizione il “fermo immagine”, il “girare intorno all’oggetto”, la frantumazione, la «fragmentation»; ed io aggiungerei, la sovrapposizione e l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». Però, in questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi.
Utilizzare i “frammenti” significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di “spazio” e di “tempo” metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…

kjell espmarkLeggiamo questa poesia dello svedese Kjell Espmark nella traduzione di Enrico Tiozzo. Me l’ha mandata il grande traduttore dallo svedese. Leggiamola. E osserviamo le frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista che si intrecciano e si accavallano, i fermi immagine, le riprese etc.
Voglio dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura, una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.

Ella è dunque stata un’altra per otto anni
senza saperlo.
Ogni giorno c’è stato un equivoco.
Si aggrappa al lavandino. La stanza da bagno vira di bordo.
L’inaudito non è nel guardare all’improvviso
in un entusiasmo inflessibile come quello degli insetti.
L’inaudito è vedere un pomeriggio
scambiati otto anni della propria vita.
I figli l’hanno saputo. E sono stati risparmiati. Questo amore
è appartenuto a tutta la cerchia dei conoscenti
una comunanza piena di antenne vaganti.
Solo lei ne è rimasta fuori.
II prezzo per la calma di tutti splendenti come maggiolini
è la sua esistenza falsificata.
Ella guarda il volto trasparente nello specchio.
È del tutto estraneo.
Le mani che diventano bianche intorno al lavandino
non più del suo proprio biancore
non sono sue. Lei non può trattenersi.
E vomita tutti i ricordi menzogneri:
questo volto semichiaro su di lei
sciolto in desiderio e assicurazioni
la sua repentina giovinezza – una gita sulla neve e risate
questi momenti maturi nel cerchio di luce del tavolo da pranzo
quando la voce di lui rendeva reale l’appartamento.
Ella vomita tutta questa vita falsa
queste giornate dal tanfo di gusci di gambero. Continua a leggere

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