Archivi del mese: dicembre 2016

Mario M. Gabriele POESIE SUL TEMA DELL’AUTENTICITA’ – IN VIAGGIO CON GODOT – DUE POESIE da La porte étroite (2016)  E DUE POESIE INEDITE La poesia ologrammatica di Mario M. Gabriele – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – La nuova poesia e la nuova ontologia estetica

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it

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POESIE SUL TEMA DELL’AUTENTICITÀ

 Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa:

La poesia ologrammatica di Mario M. Gabriele. Un orizzonte posizionale di lettura del mondo degli eventi – La «nuova poesia» e la «nuova ontologia estetica»

La poesia di Mario Gabriele è atetica, non-apofantica, pluritonica, varioritmica. Non dichiara se questo o quello è vero o falso, autentico o disautentico. Parte dall’assunto che i contrari sono il riflesso di una «non-presenza», di un Altro, di un Ologramma che non ha senso dire se sia vero o falso, autentico o disautentico. Esso è lì come Inganno e Reale.

«Nella lingua non ci sono termini positivi, ma solo differenze», scriveva Saussure. È dal rapporto sincronico tra i vari termini, nel loro gioco differenziale, che si genera l’identità di una significazione. E la poesia di Mario Gabriele, nel suo scetticismo integrale, prende atto di questo gioco neutro delle differenze. Fa una poesia delle differenze e degli scarti. È il suo modo di costruire per «frammenti» e per «ologrammi».

Heidegger nella sua opera In cammino verso il linguaggio, scrive: «Il Dire originario è il modo in cui l’Ereignis [l’evento] parla: modo non tanto come maniera, quanto piuttosto come melos, come il canto che dice cantando». Heidegger postula un «Dire originario», ma noi sappiamo che esso esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato. Il filosofo tedesco non dice che le Muse sono nove e che il loro canto è «discorde», per cui ciascuna di esse canta un proprio canto incomprensibile alle altre. Oggi noi sappiamo che dietro quel «Dire originario» non c’è nulla, non c’è una struttura originaria se non in qualcosa di simile alla onda gravitazionale di fondo dell’universo che ha avuto inizio all’atto del big bang. Non c’è alcun dire originario al quale il canto degli aedi ritorna. Non c’è nessun canto e basta. Ci sono una molteplicità di canti dacché i poeti sono stati deprivati di quella antica relazione privilegiata che li univa al dire originario…

La «traccia», scrive Emmanuel Lévinas, è «un passato che non è mai stato presente», cioè la dimensione di un Altro che non si è mai presentata ne potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: «con l’alterità dell'”inconscio” abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati – passati o a venire – ma con un “passato” che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui “avvenire” non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente» (in “La diffèrance“). Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».

Diciamo subito che le poesie di Mario Gabriele vivono come costellazione di frammenti, citazioni, entità subatomiche,  che costituiscono un orizzonte posizionale di lettura del mondo degli eventi. La citazione è un «frammento», ma «frammento» sta qui a significare una nozione analoga a quella di «traccia». Se c’è un ordine o un disordine del senso, è la traccia, il frammento, la citazione che possono condurci in prossimità di esso; l’ordine del senso della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica, non corrisponde affatto alla verità delle cose, esso è semplicemente falso. È proprio la «traccia», la «citazione», il «frammento» che ce lo dicono, al di là di essi c’è la «non-presenza», un ordine sostitutivo della metafisica tradizionale basata sulla «presenza dell’essere», e quindi del senso delle cose. La poesia di Gabriele non pone in dubbio il principio di Severino di «immediatezza e incontraddittorietà dell’essere», nel pensiero poetico di Gabriele c’è una indagine sull’esistenza, ci sono atomi traccianti la loro direzionalità, c’è una tracciabilità di minutissimi «frammenti» che non conducono in alcun luogo; o meglio, conducono alla certezza che ciò che credevamo «incontraddittorio» e «immediato» si rivela essere proditoriamente contraddittorio, mediato e mediatizzato, e che il nostro universo è un gigantesco ologramma tessuto di tracce instabili, probabilistiche, aleatorie, irreali… Siamo qui in presenza di una poesia altamente inquietante, che mette in discussione tutte le nostre residuali certezze.

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Nella poesia di Mario Gabriele siamo in presenza della «non-presenza», ciò che è diventato assente in quanto non è mai stato presente; il carattere logocentrico della metafisica viene svelato per quello che è: una condizione limitata alla «presenza» delle «cose». Ma, se le cose non sono presenti, e forse non sono altro che parte di un gigantesco ologramma, ecco che  il «frammento» si incarica di svelare che il loro «essere» altro non è che degli ologrammi proiettati sulla pagina bidimensionale dell’apparenza. I «frammenti» sono detonazioni. Viene qui un’altra conseguenza da questa impostazione: la impresentabilità di ogni poesia che crede di abitare stabilmente nel posto occupato dalle «cose». Ne deriva che la coscienza non è altro che la traccia «visibile» dell’inconscio, della «non presenza». Ed è proprio questa la funzione del «frammento», quella di rendere visibile l’orma mnestica della traccia quale assolutizzazione di una «non-presenza».  Questa filosofia del «frammento» è pensabile soltanto entro le coordinate di uno scetticismo assoluto circa le virtù taumaturgiche di una fenomenologia dello Spirito e del Reale la cui metafisica tradizionale viene ad essere ribaltata di sana pianta. Con un gioco heideggeriano di parole direi che il «frammento» è uno Spiegel im Spiegel (Specchio nello Specchio), è la modalità dell’essere immaginario dell’esserci, rivela la mancanza di qualsiasi Fondamento, di qualsiasi Struttura Originaria, ovvero, la non-presenza di ciò che non è mai stato presente, che è già la traccia di un apparire, dell’apparire del «vuoto».

Con le parole di Derrida: «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».

Una tale «logica del supplemento» o della «traccia», che noi chiamiamo «frammento» è quindi il concetto fondamentale della «nuova poesia», non più fondata sull’essere dell’ontologia novecentesca che considerava il metro e il verso come unità quantitative stabili e che partiva dal presupposto che è possibile dire «ciò che c’è» con il linguaggio della continuità, ma una ontologia estetica fondata sull’essere di ciò che non è presente e non è mai stato presente, sull’assente. Il distinguo è di fondamentale importanza: ne deriva che non possiamo dire nulla circa il suo «essere», che non c’è un linguaggio corrispondente a quell’«essere», e che al massimo c’è un linguaggio come sostituzione, traslato di quell’«essere» che, comunque, resta lontanissimo, irraggiungibile. Il «frammento» della «nuova poesia» rivela questo: la traccia di ciò che non c’è, che non si presenta né può mai presentarsi nel mondo dei realia. L’antica ontologia dominata da sempre dal principio di identità viene ad essere sostituita da una ontologia fondata su una differenzialità originaria, sullo scarto, sulla cesura, sulla censura. Essa corrisponde alla forma indecidibile del «né…né…», del tertium datur con cui viene scardinata la razionalità metafìsica fondata sui princìpi di non contraddizione e del terzo escluso.

Mario M. Gabriele

 IN VIAGGIO CON GODOT

1
CANTOS

Un Ermitage con combine-paintings
di Rauschenberg
e un guardiano al limite degli anni
dove chi va oltre non lascia traccia;
-tanto vale restare qui,-
disse Alicia che temeva il cambio di stagione.

Non è stato facile lasciare la casa in via delle Dalie.
Giose è rimasto con Benedetta in Guysterland *
e con le piccole gocce di lacrime amare.
Quando non è nel Vermont
manda romances and poems.
Non basta un dollaro per incontrare la Bella Carnap
fatta di pelle di capra e zoccoli d’oro.

Sweeney ha oltrepassato il confine,
lasciando un Frammento di prologo
dopo aver salutato per sempre Mrs.Turner.
Abbiamo trovato serpenti nel giardino.
Una sofferenza l’ha patita la farfalla
prima di volare sul concerto
per pianoforte e orchestra di Richter.

Kafka uscì distrutto nel Processo.
Ci fu chi riferì su l’Assassinio nella Cattedrale
ma i vecchi del borgo giocavano a poker
senza fare nomi.

Donna Evelina piantò le orchidee nel giardino.
Lucy mi volle con sé a vedere l’erba sotto la pietra.
Un abate ci invitò a salvare l’anima.
-La città – disse, -è un luogo proibito
e l’azzurro è il centro dell’iride.-
Un cappellino di velluto rosso
accolse le lacrime dal cielo
come un’acquasantiera.
Alle nostre panchine tornammo
a spargere semi,
germogliando e appassendo dentro casa.

A piedi nudi ci avviammo
in un bosco di prataioli notturni.
Il freddo ci lasciò contriti,
non indietreggiò davanti ai rami
abbattuti dalla neve.
Non sapeva che da lì, a breve,
sarebbero venute le idi di marzo.

Fernandez non conosceva Caroline in Sickness.
-Buenos dias, Senior. Siamo turisti,
veniamo dal Sud per vedere Guernica
e il Ritratto con Maternità
su fondo bianco di Francoise Gilot
e dei suoi due bambini. Ne sa qualcosa?-
-Yo no tengo mucha idea de cuáles son los lugares:
más interesantes de esta zona pero me han hablado
del Teatro National-.

Sulla Swiss Air leggemmo i racconti ginevrini
e la Salamandra di Octavio Paz.
Si fa colazione insieme, questa mattina, Miriam,
dopo il saccheggio dei sogni.
La notte è ancora cuscino e coperta.
Oh, Principessa, qui davvero comincia il count down!
La stanza accumula fumi, si ridesta al mattino.
Tutto si rallegra in un Buon giorno Madame.
La terra è un braciere. Non vale discuterne ancora.
Già le cose, come sono, ci spezzano le dita.
Non c’è porto sicuro dove andare.
Aspettiamo ancora un miracolo
da Nostra Signora di Guadalupe.
Ora siamo in due a sognare una gita
non prima aver chiuso il giardino,
ritoccato il viso a Marybloom,
così non può dire che la giovinezza è sparita.

Ancora una volta l’anno è passato.
La pioggia rivuole le sue note da pianoforte.
Una musica dal sottoscala saliva al cielo.
Natalie Cole cantava: Unforgettable.
Ora i miei morti sono quelli che non ricordo.
Gli altri, figuranti nella memoria,
vivono in orizzonti stretti,
se ne stanno in silenzio, nel giardino di Klingsor.

*Giose Rimanelli, professore di letteratura italiana e comparata all’università di Stato di New York ad Albany.Scrive in italiano e in inglese. Ha pubblicato numerose opere tra cui il romanzo “Tiro al piccione” Mondadori (1953), da cui fu tratto anche un film.

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Ci sono miracoli che non vedi.
Le lancette a mezzanotte.
Ti fermi e guardi il mondo scorrere.
Piccoli prodigi portano le ore.
I giorni di febbraio sempre più corti e amari.
E poi uno gli vien da dire perché siamo qui.
A Vienna Sigmund trovò la via.
Le mazurke d’Europa.
Sempre viaggi nei giorni dell’anno.
Fuori di casa, qualcosa verrà:
cadeau o memorie d’amore.

La pittrice Veronica Asmund
ricorda i colori di De Kooning.
L’unica cosa che piaceva a nonna Eliodora
era un collier etoile de Paris,
ma quando venne l’ora di uscire dal ghetto
volle leggere Lady Lazarus,
prima di inoltrarsi nel bosco
di ortiche e rose di maggio.

Lucy, attenta agli oroscopi,
seguiva il segno del Capricorno.
Per due mesi raccogliemmo gambi d’avena.
Marisa aprì le imposte,
donò la vecchia Singer a una ragazza del borgo.
-Resterete qui con la polvere della terra-
sentenziò una voce.

La notte ha mille ragioni per celare i segreti.
Tornammo al passato,
alle strette del cuore di Lady Caudilla
e a tutte le preghiere nel Coventry House.
Pensa tu, a ritrovarci domani
nel giardino delle mimose!
3
La nebbia che vedesti
celava i portali di Villa San Giovanni.
Fissarti stava nel potere dell’iride,
arrossata dai pollini d’aprile.
Più del passato ti inasprisce ora
il turbinio del vento.
Si va sui binari,
colmi d’erba e di sterpaglia.
Ha ragione Marcus
quando dice che il tempo non ha più spiagge.

Arrivi anche tu a questa riva,
né io so condurti al vecchio faro.
La tempesta ha lasciato ruderi
sull’isola di Crusoe.
Pochi anni e non so più come salvarti
dalla voce che ti chiama.

Veronica mi guardò
invitandomi ad un cocktail party.
Parlò di Madhvan Muni e di Balarama.
Non dissi nulla, attento ai labrador.
Lei lasciò la torcia. Tornò il buio.
-Seguimi- gridò. E fu tutto un tacito andare
con le cose del bivacco.
-Non abbreviare il tuo viaggio-,
farfugliò la sensitiva
con la carta dell’impiccato.
C’erano nella garconniére
una custodia con sette spade,
uno spartito di Handel,
due o tre coppe di Jack Daniels.
-Anche lei è della confraternita?-,
chiese la bionda norvegese.
Judith non sapeva che rispondere.
Il giorno dopo ci fu un viaggio allo scoperto
e una lezione alla Bernard School.
A sera, Padre Stone preparava Giselle
per le nozze di settembre.
Questo lo può dire, Signor Brandberg,
se prendendo il largo ci sono ancora
piranha e squali.
La signorina Elliot rifece il letto,
cacciò i sette peccati capitali.
Non si sa più nulla di tutta la polvere caduta.

4
In te convergono le luci della sera
ignote a chi si fece estraneo
alle feste di fine anno.

Non di gridi s’affolla la tua gola
ma di parole dove principio e fine
s’alternano nell’universo
e il tempo non ha pietà per il quadrifoglio.
Fu un anno fa che mi donasti giacinti per la prima volta,
dopo gli allarmi delle sirene,
giusto il tempo per mutare il grido delle rondini
in un silenzio di clausura.

Cleveland era lontana.
Cronwell lesse il libro di Rut
citando i passi della promessa e dell’alleanza.

Nel Kunsthistorisches Museum
brillava il Peccato Originale di Hugo van der Goes.
A Parigi il croupier cambiava il gioco delle carte.
Beckett aspettava il Finale di partita.
Il salto del soriano lasciò intatte le centurie sul divano.
Il nostro mondo si era frantumato.
5

Un’orchestra senza archi e violini.
-Ma che musica è ?-disse Beethoven,
cercando la sinfonia in Re minore.
-E’un funeral blues-, rispose zia Molly,
-uno di quelli che suonano i niggers
nel quartiere di Queens.-

Le funivie da tempo sono in standby.
Questo viaggio non era da farsi.
Così stasera restiamo da Nancy
a sentire le canzoni dello squallore.
L’uomo che annaffia le primule
ha tradito i ragazzi di padre Mingus.

La signora Timberlane, prima di lasciare ogni cosa,
ha pensato anche a Benny
finito il Dominus Vobiscum.

La bella di marzo è tornata.
Ladra di notte, la luna ha celato la faccia.
La zattera al largo imbarca acqua.
Dal fronte del porto nessuno segnala avarie.
Ho una love story con il mondo, Kandy,
anche se domani tornano stormi d’uccelli e di locuste,
e non potrò più regalare bouquet alla ragazza del pub.

Isotta Borromeo mi scrive, air way,
di essere sola nella casa a tre piani,
con veduta sul mare e garages a New York.
Sul terrazzo ha piantato orchidee
–così- dice, -non avrò più bisogno dei giardinieri
e l’estate sarà lunga a sfiorire.-
Ci sono, è vero, distanze incolmabili.
Tenere viva una storia
è come andare sulla collina
a sentire musica d’angeli.
Così, almeno, non affonda la barca
con le stelle di mare.

*

A casa di Morrison si concluse il Patto.
Furono messi all’asta il Bene e il Male.
I frati della Congrega
si sparpagliarono per il mondo
passando per le Cinque Terre,
portando via bachi da seta
e cinque haiku di Matsuo Basho.
Nella settima strada di New York
un coro cantava Happy Birthday.
Tutti i morti uscirono dal tunnel
fermandosi chi nei pub,
che nelle vecchie camere da letto.

Questa mattina siamo stati nel giardino di Klingsor
a vedere come stanno le cose.
L’ingresso era chiuso.
La chiave gettata nel pozzo.
Ida da tempo non stava più bene.
Un signore andava in giro chiedendo money
per l’Africa World..
Il profeta deve aver fatto paura.
-Lascerete qui pelle e ossa e le ritroverete domani
quando finirà la tempesta.- sentenziò senza repliche.
Francoise de Mulier non ce la fa più
a reggere l’amore di Arnold.
La vita è tutto questo?-
-Un po’ di più, un po’ di meno, ma è così.-
– E che altro?. Non so dire!-
Uno, due, tre colpi d’asta batté il direttore d’orchestra
sul concerto dei Pink Floid.
Uno dopo l’altro lasciamo ogni giorno
gli anelli di nozze sui tavolini al confine.
Scandisce di nuovo il suo tocco il Big Ben.
Sono riapparsi i fantasmi della Senna.

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Giovanni Boine (1887-1917) POESIE SCELTE La punta dell’iceberg a cura di Chiara Catapano

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Mi viene in mente un’eccellente antologia poetica (Poeti italiani del Novecento, Mondadori, 1978) a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in cui chi volesse farsi un’idea del panorama poetico italiano durante tutto il Secolo breve, troverebbe grande soddisfazione. Qui davvero è distillato il succo del nostro ‘900, qui davvero si attraversano città e paesi d’Italia e la poesia ti si mostra con cristallina chiarezza. Qui anche Giovanni Boine ha un suo posticino: pagine 415-419. E non è poco, se teniamo presente che nella maggior parte delle antologie scolastiche e non di Giovanni Boine non v’è traccia alcuna. Mengaldo nella sua nota all’autore ci ricorda che “si avrebbe torto a concentrare” sulla produzione poetica dei Frantumi “l’interesse critico, come si è pure fatto di recente: altrettanto e più rappresentative del loro autore, e delle sue spesso irrisolte tensioni, sono infatti la prosa morale, ad esempio, di Esperienza religiosa, quella convulsamente psicologica del romanzo Il peccato, o la critica intensa e così spesso acuta di Plausi e botte”. Mengaldo in questa sua introduzione rende un gran servizio e al Boine, e ai lettori: riabilita dopo decenni d’ingiusto oblio gli scritti boiniani nel panorama della più alta tradizione letteraria italiana. Carlo Bo farà passare ancora un ventennio per giungere alle stesse conclusioni. Mengaldo ci avverte che quanto stiamo per leggere è solo la punta dell’iceberg.

Chi partisse a conoscere Boine dalla produzione poetica dei Frantumi, com’è capitato anche a me, si troverebbe in grande imbarazzo, piuttosto sconcertato e certo confuso, perché vedrebbe aperta davanti a sé una strada che – contestualizzata agli anni in cui apparve – risulta chiaramente non ancora battuta. Un sentiero vergine e ricco di nuove specie, che vorremmo sapere dove porta senonché ecco! termina bruscamente e in mezzo ad intricatissima vegetazione, con la morte dell’autore. Mappe per uscirne Boine, per quanto incomplete, ce le ha lasciate: tutta quella produzione sommersa fino a pochi anni fa, fatta di lettere, saggi, articoli e diari.

Giovanni Boine nasce a Finale Marina, in Liguria, nel 1887. Vive l’ambiante della provincia e, spesso in polemica con gli amici della rivista fiorentina la Voce, rivendica la sua appartenenza a un ambiente culturale marginale ma vivo, spesso più lucido nei giudizi e nelle intenzioni, come vuole dimostrare partecipando attivamente alla rivista di Mario Novaro, la Riviera ligure. Rivista questa senza programmi, e stiamo già registrando la prima bizzarria, nell’epoca dell’impegno e degli “–ismi” serpeggianti tra gli intellettuali italiani all’alba della I Guerra Mondiale. Ma proprio questo piace a Boine: libertà di dire, disomogeneità dei testi, ampio respiro di contro al cappio dell’asservimento a qualsivoglia programma. Partecipò anche alla Voce di Prezzolini, ma sempre in polemica e pronto all’affondo dinnanzi alle virate alla dove va il vento, eccessivamente utilitaristiche della compagine fiorentina (“Chi è d’accordo mandi formale adesione per lettera, chi no buona notte”). Ma certo è alla Riviera ligure che Boine affidò i suoi testi senza mai doversi preoccupare di epurazioni e scontri ideologici. Nella rivista di Novaro, Boine prenderà in mano la rubrica Plausi e botte: pagina di recensioni “con gli umori” dei libri contemporanei in uscita. Claudio Magris ha sottolineato a tal proposito lo spessore di questa sua produzione, indicando in essa più un libro di letteratura che sulla letteratura. Le recensioni sono 87, e Boine dà giù più di botte che di plausi, senza peli sulla lingua e senza risparmiare stoccate anche agli amici (e soprattutto a loro, poiché a loro teneva e non sopportava i rammollimenti letterari di chi si sentiva già in cattedra) come Soffici e Papini, quando percepiva in loro una piega al ribasso, un intorpidimento che non ammetteva negli uomini d’ingegno. Apertamente divertenti le critiche a libri che non meritavano molta attenzione; oppure volutamente polemiche per “buttarla un po’ in caciara” altre. Ma non vanno dimenticati gli articoli, ampi, di lucida presenza e coscienza letteraria, dedicati a poeti allora sconosciuti che Boine veicolò (per primo scoprì, mi vien da dire) come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli.

giovanni-boineC’è pure nella sua produzione il romanzo. Anzi, si può affermare che Giovanni Boine fu l’antesignano del romanzo novecentesco, anticipando Italo Svevo e il suo Zeno. Giancarlo Vigorelli ci ricorda che James Joyce, mentre a Trieste scriveva l’Ulisse, teneva sul comodino Il peccato. Non è un particolare irrilevante, e va collegato all’aspra polemica con Benedetto Croce, alle cui teorie Boine opponeva la propria “estetica della simultaneità”. Scrive Boine a proposito del suo romanzo Il peccato: “L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia”. La vita, questa la chiave in fondo di ogni sua pagina: la vita e la regola, la vita e il canone, la vita e la tradizione. La vita e la storia. E l’intreccio tra l’una e le altre, il groviglio doloroso la cui soluzione per alcuni è la fede, per altri la legge. Ma Boine, che non riesce ad esaurirsi in nessuna delle due dimensioni, sentirà per tutta le sua breve esistenza la tensione tra i due poli, separati ma non distinti. E non sappiamo quale soluzione avrebbe potuto tentare, se una ne avesse infine tentata; siamo al punto di partenza, nello sconcerto e persi in un sentiero d’intricatissima vegetazione.

Giovanissimo, intesse un breve ma intenso scambio epistolare con Unamuno  (dicembre 1906 – marzo 1908) del quale tradusse il saggio “Inteligencia y bondad” e recensì “Vida de Don Quijote y Sancho”, “Soledad” e “Plenidud de Plenitudes”. Era quello il periodo modernista di Boine, della rivista “Rinnovamento”, della lettura di Tyrell e von Hügel, dell’enciclica “Pascendi dominici gregis” (8 settembre 1907) e delle scomuniche, della ricerca attiva e partecipata al rinnovamento spirituale inteso nella sua dimensione comunitaria, prima del ripiegamento verso una dimensione intima e soggettiva della fede, come la descriverà nel suo saggio “Esperienza religiosa”.

Giovanni Boine non si lascia afferrare da poche righe, benché, se vogliamo, il suo pensiero di fondo, meglio il suo rovello, è sempre presente e dichiarato. È scrittore che non si esaurisce, l’opaca patina del tempo non ne offusca la lingua e lo stile. C’è da dire che quanto scrisse fu sempre vissuto, e se esercizio letterario vi fu (sappiamo per certo che le sue liriche non furono, come a volte afferma, scritte di getto, ma subirono il cesello di accurate revisioni perché rientrassero in una forma musicale perfetta) fu esercizio di muscoli interiori: esercizio, si può dire, di fede. Boine richiede a tutti uno sforzo superiore, pretende nel lettore la scintilla dell’intelligenza, che significa approfondimento ma pure capacità di illuminare le cose attraverso l’ironia. Richiede tempo, non lo si consuma in pochi attimi. Non è lettura-fast food.

Per questo, a mio avviso, ancora più importante riscoprirlo ora, in un’epoca di estremo spaesamento, crisi dei costumi, imbarbarimento con un portone aperto verso possibili futuri che richiedono capacità di ragionamento, approfondimento, inventiva e profondissima umanità.

Giovanni Boine si ammalò di tisi negli anni del liceo, a Milano, e non vide il chiudersi della guerra; la malattia lo costrinse all’inoperosità, all’indigenza e ad una morte precoce. Morì il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio.

A breve uscirà per la Fondazione del Museo della Storia di Trento, a cura del prof. Andrea Aveto, della sottoscritta e dello scrittore Claudio Di Scalzo, la riedizione dei suoi “Discorsi militari”, dalla prima edizione come approvata e voluta dallo scrittore.

A chi desiderasse conoscere l’autore e le sue opere mi sento di consigliare un inizio dal ricchissimo epistolario (G. Boine, Carteggio, 5 volumi, a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Roma, Edizioni di Storia della Letteratura) arricchito di recente dal prof. Andrea Aveto (Giovanni Boine – Adelaide Coari, Carteggio 1915 – 1917, Città del Silenzio, 2014), attraverso il quale è possibile ricostruire l’uomo e il suo tempo, quasi respirarlo e viverlo. Ed anzi di cuore io mi auguro che presto il piccolo cimitero di Porto Maurizio possa conoscere nuovi amici che, senza enfasi retoriche, desiderino posare un fiore sulla sua lapide.

Quanto segue è solo un breve assaggio della ricca produzione di prosa poetica boininana, raccolta sotto il titolo di Frantumi, qui assieme a due estratti (uno commosso, l’altro polemico-umoristico) da Plausi e botte. Ancora per certi tratti controversa è, in alcuni punti, la scelta editoriale della produzione poetica: Boine morì lasciando incomplete le sue carte e il suo primo curatore, l’amico Mario Novaro, scelse spesso con molta libertà tra i quaderni e diari dello scrittore cosa dare alla stampa. Sappiamo che lo stesso titolo Frantumi è una scelta postuma, e che Boine mai progettò un libro in tal senso.

Ciò nulla toglie all’estrema novità e forza di questa voce che continua a levarsi netta e distinta, benché spesso ignorata, di un autore che usa la carta come pentagramma e affila le parole sulla propria esperienza interiore, perché, per dirla alla Boine, di cos’altro si può parlare se non di se stessi.

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BISBIGLIO E VESPERO

– E che vuoi dire? È tutto detto ormai. – Andiamo accanto per la sera queti, zitti, come in una culla di bontà.

– Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

– Perché, se dici, è un po’ un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto ripunge il tormento.

– Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione… Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

– E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride infine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio.

– Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo agli uomini. – Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire!

– E dunque ormai che vuoi tu dire? È detto tutto. – Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

***

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

– Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.

– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

***gif-vulcano-e-citta

A TAGLIARE GLI ORMEGGI

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.

Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –

***

PROSETTE QUASI SERENE

Pignolo al mio lucarino

– Il lucarino che ora gli parlo nella sua gabbiuzza appesa, e spia coll’occhio di spillo così malizioso se ho fra dita il pignolo, quando dentro lo chiusi che fu un ottobre al tempo del passo e lo comprai da quell’uomo che lo fa di mestiere: li porta giù la mattina a dozzine in uno scatolone di tela;

– tu dicevi che ci sta bene colla sua scagliola da un canto, e dall’altro, proprio adatto a per lui, il coppettino bianco dell’acqua. Ma gonfiò a pallottola le piume arruffate sullo stecchino ritto della sua zampina, e stette per molto così… come assonnato sulla cannuzza a mezz’aria. Pareva ci facesse il broncio o si dovesse morire. Così tu non ci badavi più e te lo eri scordato.

– … Ma la mattina che poi si destò: su giù, su giù, il becco tra ferro e ferro a tutti i ferri lo ficcava un attimo! Innanzi indietro, a passi a voli, in ansia di febbre… parevano sbarre di galera.

– L’occhio fisso era grande come l’occhio umano; tutto cupo il corpo: su giù (cinque passi ha una cella, non di più!) non diceva nulla, cercava un varco.

– Era così chiuso, così nero il suo sonno la sera, monco-ravvolto! Pigliava forza, duro, per il suo cammino. Il domani non diceva nulla: su giù su giù, su giù… Quando immobile come in corruccio si rincantucciava, quel vagabondo così disperato, d’improvviso bocconi lungo la via, mi tornava la sua macchia sparsa, un braccio innanzi teso, e lo sgomento…

– Tu ogni giorno, perché non cantava mai, dicevi: “apriamogli!” Però io, non potevo più: – zitto gli davo lattughe, senza spiegarti. – Piano piano, allora cercò la verdura tenera che geme, e poi la lucertola del suo capino la tuffava ciuff! nell’acqua lustra: tutt’intorno se ne fa rugiada. Cominciò, anche, fra sé quei gorgheggi sotto voce e lunghi che parevano discorsi a qualcuno … e s’acquietò.

– Tutto il giorno lo passa ora sulla scagliola d’oro, e, la pula, stringe l’occhietto e la scartoccia svelto. La cannuzza liscia a mezzaria è come una frasca alta di olmo; lo spazio quadro, un cielo. Sta lì… salta là, frulla qui; che deve fare? i suoi ciccì ci gargarizza, tristi o lieti e guarda il vuoto.

– Quando improvviso batte l’ali in vertigine e si giù, su giù ricomincia, e su giù su giù ci s’affanna come se ricordasse, tu allora dici: “ma che ha? par pazzo!” Io gli sto attento, con non so che ansia… – Ma il suo piacere anche lì ce l’ha: cerca il pignolo che a volte gli mostro; mi chiama mi fa festa, corre incontro ansioso. E quando gli incastri tra i ferruzzi dritti la ciliegia gonfia, allora ci si affonda pronto con occhi di ghiotte risa.

***

VEGGO AL DI LA’

– Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

– Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

– Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

– in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

– Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

– Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti e veggo per lustro smeraldo, allora, al di là.

– Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

– Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

– Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

***

FRAMMENTI

1
Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: “Buonasera!”
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2
Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso d’ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’esser con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: “Non so chi tu sia!” Amico, in verità, non so chi tu sia…

3
Mi fermi per via chiamandomi per nome, col mio nome d’ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4
Tepido letto del nome, sicura casa d’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle lontane gioie: nave sul mare, zattera di naufraghi.
Ma l’oggi è, via, com’una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.

5
Tu resti saldo-piantato nell’ieri, specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

(…)

9
Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena il mattino su, faticoso, mi issa dalla nube varia del sogno, mia madre dice piano: “Giovanni!” alla porta socchiusa; e, quasi, io sono di nuovo.

10
Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. – Tra lo sbigottimento dell’oggi e l’ieri vissuto ho messo a ponte il mio nome.

(…)

25
Il mio nome è Oggi e la mia via si chiama Smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio, e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

(…)

30
S’io godo della mia gioia e dico “così ogni mia ora!” ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto come una nebbia da una nera palude.

31
E vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia “promessa”.

32
Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi, che bastò il giro d’un giorno!

da PLAUSI E BOTTE

  1. [Clemente Rebora, Frammenti lirici, ed. Libreria della Voce, 1913]

(…)

E poiché ho accennato di canzoni dantesche, dirò ch’io respiro in questa nuova poesia non so che di vigorosamente antico nel sentire e nel ritmo, nello strappo, nel piglio meravigliosamente robusto della frase, nell’interiore leoninità della mossa; (in questo suo vittorioso tormento fra la tremenda vastità del cosmo ed il dolore dell’effimera umanità,) dirò ch’io vi respiro qualcosa di nostro, di tradizionalmente, di virilmente e complessamente italiano, com’è italiana la lirica di Dante, di Michelangelo, di Campanella e di Bruno, (com’è italiano Leopardi.) E ch’io, anche qui, non oserò mai come i dominiddio della critica si permetton di fare, o chiudere o aprire l’avvenire a nessuno, perché l’intimo degli uomini si strafotte delle previsioni dei critici e vivaddio di ogni previsione. (Perché io dico con certezza: qui ciclopicamente vive, qui si dibatte, come un maglio, come un rosso ferro che strida e che suoni – che si lamenti tinnulo – in una fucina, un cuore, e non so affatto, non voglio sapere qual forma qual iridata incandescenza nuova sarà per pigliare all’ansito nuovo del nascosto mantice, quale ispirazione ispirerà il suo futuro canto); ma segno qui, mi vien voglia di segnar qui per parecchia di codesta poesia un anno durante inosservata, (per ciò che è e dentro quasi per echi vi posso auscultare, traudire, intuire,) mi vien voglia di segnar commosso qui la parola GRANDE.

  1. (…)

“Egregio Signore,

Le invio con questa un plico di stampe (raccomandato); il mio nome è già comparso sulla “Riviera” una volta quale dedica a una delle liriche di Giannotto Bastianelli ecc. vedi R. L. 1 Novembre 1915. Con la speranza d’averla accontentata aspetto una risposta relativa all’eventuale pubblicazione della lirica speditale. Con ossequio Piazza Pitti 10 ecc. P. S. Del mio libro àn già benevolmente parlato in giornali e riviste, Paolo Buzzi, Titta Rosa, Emilio Settimelli, Remo Chiti, F. Meriano, Enrico Pessina, L’Iniziativa, ecc.”

Ah Signor Franchi (Raffaello Piazza Pitti 10) davvero lei ci ha messi in un bell’impiccio! E come diamine si fa ora, con tutti codesti nomi? Perché a noi viceversa queste sue faccende qua e là seminate per sti fogli così autorevoli d’ogni parte d’Italia, ci ricordan niente più di quelle caccarelle tonde e secche, di capra e pecora, su pei sentieri qui dietro in campagna, che stan lì tra’ sassi una qui due là quasi nere come una sementa spersa. I bimbi cittadini talvolta quando salgono si riempiono le tasche od anche le provano un po’ in bocca, come se fossero gustose bacche; e, giusto, lì accanto ci trovi spesso quei buffi maggiolini stercorari che contro puntateci le uncinose gambettine dal di dietro, su su faticano, spingono a ritroso, gamberi di terra ferma, così curiosamente! Ma bacche puah! non sono e subito si sputano; e sementa manco. Germogliare non germogliano, o se germoglian che mai si posson germogliare? sempre e sempre, nient’altro mai che aride caccarelluzze di capra.

Concludendo: onorati siamo che si riterrebbe, di alla Riviera collaborare onorato, e ci piace che la segua e proprio, infine le piaccia. Certo Pickwick, Forca, Fuoco, Iniziativa ecc. fan tutti insieme davvero una lodevole e nobile Eco della più propriamente italiana coltura e consideriamo dunque lei che dentro così rispettosamente v’è accolta quasi diremmo uno specimen ovverosia campione di essa medesima. Ci duole il cuore sa, Signor Franchi Raffaello! (…)

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Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.

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Chiara Catapano UN POEMA: Alìmono con un Appunto dell’autrice e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Parla ad un’ombra. Dentro di lui il mare ha corroso ogni cosa.
Non esiste destino che possa alloggiare nell’immobile gesto del tempo
Come in questa mia casa

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca. Collaborazioni recenti: Fondazione Museo storico del Trentino: assieme al dott. Andrea Aveto dell’Università di Genova e allo scrittore Claudio Di Scalzo: riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine, nell’ambito di uno studio sull’autore portorino. Per Thauma edizioni: ha curato l’edizione di “Per metà del cielo”, della poetessa slovena Miljana Cunta (trad. Michele Obit). Per l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL – Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas, rivista “Anthropos” numero di febbraio 2015, l’articolo: “Sopra la rappresentazione transmoderna del sé”.

http://www.anthropos-editorial.com/DETALLE/LA-CONDICION-TRANSMODERNA.-ROSA-MARIARODRIGUEZ-MAGDA-RA241 L’attività prevalente e continuativa (da ottobre 2012), consiste nella direzione, accanto allo scrittore Claudio Di Scalzo, della rivista d’autore on-line Olandese Volante (www.olandesevolante.com); al cui interno, oltre alla pubblicazione di testi letterari in poesia e prosa dei direttori e di alcuni collaboratori, vengono curati autori e maestri in modo “transmoderno”, come la rivista attesta nel sottotitolo:“Transmoderno, arti, pensosità, letterature.”

Con Giulio Perrone esce a giugno 2011 la sua prima raccolta “Apice stretto” in “Verso libero- antologia poetica a cinque voci” con prefazione di Letizia Leone. +A ottobre 2011 esce la sua raccolta “La fame” edita da Thauma Edizioni. A novembre 2013 pubblica la raccolta “La graziosa vita” (Thauma edizioni) dialogo sulla tomba di Giovanni Boine, uscita sotto l’eteronimo di Rina Rètis – opera dedicata allo scrittore portorino.

Ha collaborato fino al 2013 con l’associazione culturale “Thauma” di Pesaro, per la cui casa editrice è stata curatrice. Ha curato per il Comune di Bolzano, assieme alla regista Katia Assuntini un cortometraggio nell’ambito di un progetto d’integrazione delle giovani ragazze immigrate: in particolare ha coordinato il lavoro di traduzione per una giovane poetessa pakistana. Cortometraggio poetico basato sul poemetto inedito “Alìmono”, in collaborazione con gli artisti pugliesi Iula Marzulli, Marianna Fumai (RecMovie) e Gaetano Speranza: prima proiezione il 26 dicembre 2016 al Lecce Film Fest.

Collabora con la compagnia teatrale Fierascena, fondata dall’attrice e regista Elisa Menon. Sue poesie e prose poetiche sono apparse in riviste, siti e blog letterari- Catalogo della mostra personale di Jara Marzulli (http://www.jaramarzulli.it/) Come bocca di pesce i pensieri”; “Di là dal bosco”, ed. Le voci della Luna, 2012; Le voci della Luna, rivista: n. 55 “L’inutile bellezza, il senso di colpa nella poesia di Maria Barbara Tosatti”, marzo 2013; n. 56 “L’artista primordiale, omaggio a Odysseas Elytis”, luglio 2013.

“A Topolò, questa dolce sera…”, e “Oggi a Udine è risorto un poeta” apparsi sul sito ufficiale del poeta Gian Giacomo Menon, voluto e curato dal giornalista Cesare Sartori. http://www.giangiacomomenon.it/testimonianze/oggi-udine-e-risorto-un-poeta/ Intervista sul sito “World War I Bridges”, http://www.worldwarone.it/2015/12/rediscovering-italian-intellectualsnew.html?m=1 “Giovanni Boine: la punta dell’iceberg”, nel blog di Alberto Cellotto, LibrobreveHa presentato nell’ambito del FestivalTrieste Poesia” la raccolta “La graziosa vita”, presso lo storico caffè San Marco. Presentazione-intervista con Michele Obit, presso il Festival internazionale “Stazione Topolò”, luglio 2014.

 

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Appunto di Chiara Catapano

Alìmono

 Maria Nefèli, la nuvola, il fàntasma, vaga tra Oxòpetra e Itaca. Accompagna le voci dei cento e cento ritorni, gli echi nelle vuote case, di chi scoprì, partendo, di non essersi mai allontanato.

Quale inganno, e chi ingannò, in fondo?

Elena fu sostituita da un fiato modellato da Era, per confondere i Greci; e Ulisse, giunto in patria dopo più di cent’anni scorge, attraverso la solitudine, la propria giovinezza ormai inutile. Mai mai siamo partiti, nessuno di noi.

Maria Nefèli è fuoco, il Logos di Eraclito. E nel suo specchio, nelle profondità da lei indicate (nel suo condensarsi fiato nel fiato del mito), tornano a vivere Elena, Medea, Ulisse; si intersecano alla mia biografia come aghi che ricamino un percorso. Questo percorso io indico a chi mi ascolterà. Non sarà giusto o sbagliato, o non completamente giusto o sbagliato: vuole essere una misura con la quale attingere, ognuno a suo modo, dal proprio specchio.

«Viaggio (la Grecia per me è una condizione dello spirito, come racconta Elytis) rivissuto attraverso il mito. Ho “adottato” Maria Nefeli, personaggio e alter ego di Elytis nel suo poema omonimo, a mo’ di Beatrice per i personaggi che si intersecano nel poemetto».

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Dovrò presto fare i conti con quanto fa pendere la bilancia Oltre i confini estremi della misura

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Heidegger nella sua opera In cammino verso il linguaggio (1957), scrive: «Il Dire originario è il modo in cui l’Ereignis [l’evento] parla: modo non tanto come maniera, quanto piuttosto come melos, come il canto che dice cantando». Heidegger postula un «Dire originario», ma noi sappiamo, dopo Derrida che esso può esistere soltanto come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato. Il filosofo tedesco non dice che le Muse sono nove e che il loro canto è «discorde», e che ciascuna di esse canta un proprio canto incomprensibile alle altre. Oggi noi sappiamo che dietro quel «Dire originario» non c’è nulla, non c’è una struttura originaria se non in qualcosa di simile alla onda gravitazionale di fondo dell’universo che ha avuto inizio all’atto del big bang. Non c’è alcun dire originario al quale il canto degli aedi ritorna. Non c’è nessun canto e basta. Ci sono una molteplicità di canti dacché i poeti sono stati deprivati di quella antica relazione privilegiata che li univa al «Dire originario»…

La «traccia», scrive Emmanuel Lévinas, è «un passato che non è mai stato presente», cioè la dimensione di un Altro che non si è mai presentata né potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: «con l’alterità dell'”inconscio” abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati – passati o a venire – ma con un “passato” che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui “avvenire” non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente».1 Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».

La scrittura poetica di Chiara Catapano è questa ricerca di un «Dire originario», è una «traccia» o «frammento-specchio» di altre scritture, di altre «storie» omeriche, di un passato che è stato un presente, di un «presente» non vissuto se non per indiretta esperienza, attraverso la narrazione di altre «storie». Storie su storie che si intersecano e si corrispondono; una «traccia» di «storie» che proviene da un «non-luogo»: la grecità, che si è dispersa nei secoli, che proviene dal periechon (infinito) dello Spirito, dall’infinito del «sacro» per depositarsi, come una polvere invisibile, nella «traccia-specchio» del presente assoluto, o ablativo dei nostri giorni. «Storie» come simulacri, simulacri come «storie», l’«io» che si è dissolto nelle svariate «storie» e nei numerosi personaggi («Che m’importa: mi chiamino Elena o Ulisse. Io già lì non son stato!»).

C’è in Chiara Catapano il richiamo esplicito alla poesia epica di Elytis, la consapevolezza che «nella pausa tra il gesto e la parola vive l’eternità». Parole grandi che la Catapano pronuncia con la tranquilla consapevolezza di chi ha della poesia un concetto di alta nobiltà denominativa, la «chiara» cognizione che occorra ritrovare il coraggio di una dizione forte, alta, impegnativa, lontana mille miglia marine dalle poetiche acriliche del minimalismo, che occorra ricostruire una tradizione poetica, quella italiana, ormai esausta ed esangue. «Siamo vivi per puro caso», scrive la Catapano. Ed è questo il senso profondo del «frammento simbolico» che è il senso profondo della operazione poetica della poetessa e  che noi ci sforziamo di veicolare nelle pagine di questa rivista. Un «frammento» in rovina, è ovviamente questo poema di Chiara Catapano («A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita»).

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A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita

I

A giudicare da come vanno le cose lungo la dorsale della vita,
Dovrò presto fare i conti con quanto fa pendere la bilancia
Oltre i confini estremi della misura.
Quando morirò vorrei leggessero Elytis al mio capezzale:
Nessun Cristo migliore della sua Maria Nefèli potrebbe ungermi la fronte
Prima che il nero mi raggiunga con l’ultimo respiro.
Accompagnatemi a Oxòpetra e abbandonatemi distesa sulla roccia
Come un frutto di mare aperto.
Lasciate che mi dissipi l’aria e non siano i vermi giù in profondità a svezzarmi:
Sia la natura a pedinarmi e, in segreto, mi assolva
Benché – anche per un sol giorno – avrò creduto che concretezza è male.
Basterebbe levarsi di torno l’opinione come gli abiti la sera:
Invece stiamo ancora a implorare l’un l’altro approvazione
Per il modo in cui mordiamo il frutto appena spiccato.

Non esiste religione che non comprenda in segreto violazione
Nelle segrete stanze della fede.

Ho chiuso gli occhi come per un miracolo.
Era gennaio e dentro l’estate già s’apre un varco:
Il mio errore sta nell’imporre un tempo unico alle cose
Ed io viverci male, col ritmo del rammendo.
In silenzio l’uomo raccoglie dalla bianca roccia piante selvatiche,
E il poeta dà loro un nome:
E nella pausa tra il gesto e la parola vive l’eternità iterata mille e mille volte,
Finché anche l’oro dell’icona non avrà rivelato il tuo stesso volto dipinto da Dio
Sulla tavola nel legno della croce.

Finiamola qui. Voglio abbandonare la paura al crocevia
Dove con mani leggere accetterò la soma della Sfinge
E i quesiti che valgono anche quando ormai tutto è svelato.
Tebe è chiusa in un morbo d’ignoranza, nessun assedio abbastanza definitivo
Per abbattere le mura ed espugnare la città affamata.

Siamo vivi per puro caso: divinità luminosa liofilizzata in equazioni
O deposta con velluti e porpora nel più remoto dei remoti cieli,
Porterai sempre il nostro nome.

Cerchiamo comprensione,
Per non doverci assumere la responsabilità di noi stessi.

II
Abbandoniamo i ricordi lì dove possano germogliare
Anemoni nella cui bocca s’aprono cori d’angelo.
Ho visto ciò che non sorge e tramonta se non negli occhi del poeta
E quella visione s’è stretta intorno,
È divenuta muta rampicante del mio vivere: la mia poesia.
Non esiste dialogo più acceso di quello tra due corpi,
Sia esso di carne ed ossa
O stelle, o di quello stupore che dà una montagna
Che s’alza dal mare.
A Nea Skiòni per la prima volta ho capito il senso dell’ethos
Speso con tanta saggezza ai bordi frastagliati dell’akrochoriò.
I pomeriggi ricoprono le terre col profumo di tchài tu vunù.
Ricordo S., che parlava a quel vecchio alla fermata del bus
E i suoi grossi sacchi di iuta parevano offerte per antichi dei.
Ma l’infinito s’è perso alle porte di Salonicco, quand’ero ancora bambina,
E ricomporlo in pochi giorni di gioia così viva
Mi è difficile come credere che tutto questo un giorno finirà.

Ad avere importanza è il movimento, il movimento parallelo dell’anima:

Lo storpio nostro desiderare offeso dalle schiere dei sani.
Quando, nella sabbia, m’è bastato sprofondare il piede
Fino a raggiungerne l’intimità che pareva nudo di donna
Le stagioni seguivano il respiro e l’amore era disperso dal meltèmi
Che durava a lungo, e tutto assieme lo legava al paesaggio.
Qui intorno giunge squillante il colore azzurro, i gialli,
I blu cobalto e il blu di Ioulìta e la bianca folgore di una barca sul mare.
Davanti a tutto questo, tremante, mi sono coperta il capo
E senza esitare ho pregato in una lingua che non conoscevo
Fino a quando non mi ha pronunciata: occhi capelli sangue
Per insegnarmi che umile è chi chiede d’essere pregato.
Questa è l’offerta, il sacrificio richiesto da Dio per abitarci.

III

Ora dimmi: a quale Nazione credere,
Perché e dove l’io prigioniero sale
Scortato dall’esercito d’Alessandro verso il suo Oriente.
Questa fotografia, precisa come un frutto, e dolce
Mi ritrae un pomeriggio di molti anni fa, alle porte di Màdaba:
Vado più lontano con la penna e pochi fogli sotto il braccio
Ma credo che in quei luoghi qualcuno abbia seppellito la mia seconda anima.
Quegli arabi sulla porta di San Giorgio mi guardano
Come chi comprenda meglio il gesto che la persona:
Non ho creduto fosse un luogo di culto fino a quando
Alcuni giovani ortodossi non sono entrati a pregare:
Osservai a lungo i mosaici di Terrasanta discorrere con Sefèris
Sui luoghi della Fede.

Confidami di quale polpa siamo fatti, a quale occasione rispondiamo?
Mentre fuori è un altro me tutto distinto, in cui m’appresto a vivere.
Sono partita alla volta di Tiberiade
Con la certezza d’essere estranea a ogni cosa;
Poi laggiù, quell’azzurro torbido dentro la calura
M’ha suggerito una pena tanto antica, ch’io non fui capace di rinnegare
Per tre volte il mio essere cristiana.
L’occhio si spinge più lontano dello spirito
Così verso l’interno si ribaltava la vista
E uno scavo memorabile mi prese gli anni che stavano nascendo.

Questa è stata la mia cattività tra le coste del Mediterraneo,
Con il giallo degli agrumi che saluta il viandante e ne tramuta i pensieri in oro.
Ho imparato dalle notti brevi e stellate la purificazione
Che t’affila sulla pelle la tagliente verginità degli antichi:
Ma tutto questo ha un prezzo che, insieme, i frammenti d’Ossirinco han colato
Nel nero di poche sillabe tramandate dentro il movimento
Che chiamiamo: storia.

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Abbandoniamo i ricordi lì dove possano germogliare

IV

Perdona giovane barbara creatura, se pronunciare il tuo nome
Ancora mi crea sconforto: perdona la nostra bianca disperazione d’uomini.
Danza sull’amara lingua delle lettere, M-E-D-E-A
senza sforzo l’approssimarsi del dolore.
È come rompersi di guscio deglutito nel becco-pellicano
La tua ombra sul mio capo.
Da questi lidi, partire e tornare sempre da stranieri
Corrompe la natura tua non meno di quella del falco
Che nuota nella luce sopra le nostre teste.
Medea, fil di voce piegato come pallida guancia sulla spalla dell’amato
Perduto,
E sulle carni dei teneri figli,
Andati anch’essi come navigli senza timoniere.

Per come vanno le cose nel solco della vita,
Per come vi si conficcano, eterne:
A questo non troverai rimedio in nessuna religione.
Il tuo corpo è il ciborio che andavi cercando, gli schiavi da liberare i sensi
Prostrati sotto veli di dubbi.
Ci hanno ascoltati tutti gli dei del poeta,
Ascoltati ed esauditi eppure
Brancoliamo esauste nello stesso buio:
Tu ed io, Medea, scortate dalle falangi d’Alessandro
Il cuore afflitto come terra dopo il temporale.
Non comprendiamo il perché certi giorni di così cupa disperazione.

V

Varcate infine le porte di Morea,
Lasciati alle spalle i miti per la solida terra,
Ritrovai il poeta steso sopra una roccia, le braccia aperte
E palpebre rovesciate da cui scaturiscono cieli.
‘Ho ricevuto un battesimo di fuoco, cavato a forza
Dall’anima stessa delle cose’, mi disse in un alito.
Vacillai sotto il peso di quella verità.
L’anima nostra, distillato sapiente della più grande,
S’agita e ruggisce sotto la sferza del vento, nei freschi arcipelaghi.
Metti il piede fuori da questa fusoliera di siccità e pascoli,
Tra le schiume perla dell’Egeo.
Sono scudi le montagne d’Epiro, la lunga cresta di Negroponte
Con le sue poche valli:
Questo il miracolo più grande, che dentro i nostri mari
Sono cresciute isole, e promontori spezzati
Che hanno sfamato senza sosta popoli sobri e aperti, con profumi d’alloro e menta,
Ma questi popoli ci sono cresciuti dentro, perché l’osceno del mondo altro
Non li costringesse all’estinzione.

Occhio come calce la cui luce s’accende se s’accende il cielo:
La tua vista ha polpastrelli che mi auscultano
Senza ferocia.
Un giorno, ricordo, lo sguardo puntato nel sole dell’akrochoriò,
La Calcidica pronunciò il mio nome ed era l’elenco
Di tutte le cose cadute nella mia bocca aperta:
Vi fu una silenziosa rivoluzione, che dura.

Il paesaggio cresciuto dentro il respiro,
Allevato come s’alleva un tenero agnello
Ha raggiunto con i suoi denti le ossa.
Come dire che ancora e ancora protrae la sua furia Prometeo
Per l’ingiusta punizione.
Tra sonno e veglia e viceversa, s’accende e consuma
Come fuoco il nostro vegliare.
In quel pertugio offuscato è la nostra rinascita
Fuori da ogni impropria manifestazione di fede
Fuori dal tempo che chiede l’obolo al sogno,
Fuori dalla recisione.

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VI

Allora entrai nella mia casa vuota.

Torna Ulisse dopo cent’anni.
Torna alla sua casa vuota dove morti son tutti:
Morto Telemaco, intonaco d’infiniti viaggi in cerca del padre,
Morta Penelope appesa al legno dell’attesa-croce-telaio;
Morti i Proci e nessuno ricorda più tirannia o l’odore di schiavitù.
Morto anche il fido Eumeo ed Argo, che mai più rivedrà il suo padrone.
Cent’anni, egli ancora fresco gagliardo: nessuno ad attenderlo, nessuno
Che infine imparò ad addomesticare la morte.

Sono di vento le stanze: la luce gli scuce le palpebre.
Dietro i gradini imperlati di notti antiche, la nostra memoria;
Dietro i vagiti di statue corrotte come bambini alla guerra,
Lì sorge la nostra dimora. Mia gioventù…
Non sono solo, sotto l’arco dell’uscio: con me cupi trafficanti di schiavi
Stringono in pugno qualche piuma di palpitante cutrettola,
E i loro palmi graffiano al cuore la viva mia porta.
Mie stanze.
Una sordità puerile incide latte sui capezzoli ad Artemide;
Un’età che vale quanto una vita intera, affilata falce dell’incomprensione.
Ecco, vedo avanzare Maria Nefèli, fiocco di neve che sposta l’equilibrio del mondo.
Questa sorte mi son tirato in grembo e filo e fuso
Perché vi sia chi un giorno recida ogni mia conoscenza.
Così Maria Nefèli dispiega sulle sue gambe le minute ali della cutrettola.

Parla ad un’ombra. Dentro di lui il mare ha corroso ogni cosa.
Non esiste destino che possa alloggiare nell’immobile gesto del tempo
Come in questa mia casa.
Questo rifugio, non porta neppure ricordo di guerra.
Ah, non poter morire! Mentre ogni cosa cara ci viene a mancare.
La casa come chiusa palpebra, trema.
Quale l’oscurità nell’assenza?
Qualcuno ha acceso dei ceri nelle stanze disabitate,
Attende lo schiudersi minimo, un’inflorescenza
Dopo tanto vagare.
Ecco la prima radice dell’uomo, suggerisce Maria Nefèli:
La prima radice è di sale.
A questa altre seguono, e come solide dita agguantano
Della terra resurrezione.

VII

Così credete vera l’illusione?

A Màdaba il sole che si levava fu sparo
E noi di nulla ci accorgemmo.
Colombe s’alzarono alte, le loro pallide ali che meglio comprendono
Quant’è tremendo il silenzio di un dio.
Ci crebbe dentro non so quale disagio:
A te, ch’eri di là, la tua stirpe chiusa dentro mantelli
Attraversava chissà quante volte il deserto
Per approdare a questo sogno indomabile.
Dimmi, quale il senso?
A me, straniera ovunque anche qui non meno che a casa,
Con San Giorgio anche qui
Che uccide il drago anche qui
Ovunque io vada il drago del sogno non muore.
Anche qui.
Eppure…

Occhi bolliti nella paura, ma era la febbre del sogno:
Quanti crebbero intorno a quel sogno, si torsero presto le mani.
Ulisse preme forte sul petto un pezzo di carta bagnata,
Ricorda i compagni d’un tempo e gli affetti
Tutti caduti (che importa se a casa o in battaglia)
E me che, portandolo presto alle labbra,
Avevo adorato il mio cielo.
Il segreto sotto il mio naso:
A che serviva partire, farsi belli in mezzo alla guerra?
Cerulee piovono lettere magre distorte, cadaveri sotto le mura di Troia.
Nel sogno -urla Ulisse- ho creduto di vedere un po’ meglio,
E tu Maria Nefèli, dov’eri?

VIII

Si comunica qualcosa per mezzo di un’azione.

La tua fodera dura d’uomo, quella la sfilò via il tempo.
Con queste parole Elena parla: ànthropos, m’appella.
Vennero poi le stagioni ma ci sfiorarono appena le tempie;
Ci mancava distacco, allora avremmo potuto capire,
Capire e amare.
(Inutili favole, non crederò a una tua sola parola)
Eppure com’era bello il sogno! Com’era bianco, chiaro il suo petto.

Salute a te, casta Elena! Salute alla tua perfezione.
Intatta, conchiglia mai aperta.
A Creta anch’io ero alito, anch’io
Profanazione d’ombra e di nome.
Tu e l’idolo cantate con mille voci di cicala, innalzate sul mare color del vino;
Poco importa se sopra il cuscino mescolate al sogno il sudore,
Poco importa…
Era l’11 agosto del 1999, ci regalarono degli occhialini,
Ci chiamarono fuori, all’aperto, studenti e insegnanti;
Tra Gàllos e Panorama, ognuno teneva in mano l’occhiale,
Si strozzò improvvisa la luce, mancò la sua forma un istante.
Il sole era solo più esangue ma gelo levò dalle tombe.
Chiesi a qualcuno dov’eran finiti i suoi suoni
(Svaniti anch’essi assieme alla luce, rispose).
Si ultimò sotto i nostri occhi, è certo
Un’azione.

IX

e dove andare
girando per paesi stranieri, come pietra rotonda?

Dove andare, che poi uno sull’altro t’investono
I sogni.
Ho usato anch’io simulacri, sempre: me ne accorgo non ora
Non prima. Ma nel dolore, sì:
Esso t’intaglia più della gioia.
Le città attraversate tutte s’incendiano, stanotte:
Che m’importa: mi chiamino Elena o Ulisse. Io già lì non son stato!
A casa, anni e anni sono rimasto con l’ancora al collo:
I volti tutti s’agitano sotto le palpebre.
Credo, credevo d’agire. Più fermo ero del solido mare.

Perdona: la memoria travalica.
Tracima nel vuoto, stasera: è il mio bene senza difese.
Ricordo luoghi e visi irraggiungibili: percorsi…
Maria Nefèli, levigata reminiscenza, mio ciottolo antico:
Il tempo barattato alla vita non torna, non torna…
Soffoco… Odio la mia posizione! Lo scudo, la spada, per cosa?
Vagar nelle stanze convinto di possedere un assedio?
Ed essere invece posseduto dal tempo.
Perdona, perdona…
Non son momenti questi per piangersi addosso,
Né per stringerti forte, sentire caldi i tuoi seni,
Legare alle mie le dita della tua mano e pregare
Che gli dei tutti sappiano quale destino… Ma che importa, ora.
Tu non ascolti, Maria, mio ciottolo;
Come schiuma di mare ti lavorano i venti di questa mia casa.
Guardo gli anni passati, li guardo avanzare:
Essi precedono, Maria! Ah l’avessimo capito all’inizio!
Invece a noi tocca sempre partir dalla fine!
A noi tocca iniziar dalla fine.

X

Quanto ai bambini, nasceranno già sradicati.

Guardai lontano, il precipizio della mia anima,
Colonne ioniche l’attraversano: brillavano
Nell’inquieto barbaglio di sole.
Fu quando il fresco della mattina entrò nel respiro
Allora compresi. Compresi, e amai.
Cercai il ritorno come tutti, ma fu un po’ più mio,
Perché in me si agitavano in viola le ombre del sogno.

Elena intanto, da parte a parte mi trafiggeva
Con la sua sorte di donna due volte rubata.
Non esiste al mondo altro uomo capace d’amare così
Il suo triste destino.
Anche per lei è la casa, le pietre che rotolan cupe
Dentro il giardino.
Anche per te sono le stanze, schiava d’Egitto, morbida creatura di fiato:
Entrambe andrò proteggendo altri cent’anni
Perché la morte, se ancora non m’ha conquistato,
È già avvenuta.

Rèthimno aperta vena:
Vi scorgo le forze vane di tutta la Grecia.
E il contagio infelice rapprende sopra il mio corpo
Miliardi di piccoli fiordi di rabbia.
Ebbra estate, ebbro strascico.
C’è un uomo ad ogni alba che suona l’ud sotto le nostre finestre.
Vedo e non vedo, sono cieca sotto la luce,
Finisco per affilarmi di dentro un coltello.
Maria Nefèli, vapore e oro sull’avorio dei giorni,
Sporgevi dalla violenza, dall’imprecisione.

gif-lago-al-tramonto

Torna Ulisse dopo cent’anni.
Torna alla sua casa vuota dove morti son tutti

XI

Non venni a Troia, ero solo un fantasma

E pure con parole, nulla, da nessuna parte,
Da cima a fondo: nulla.
Crebbi convinta di crescere ma ferma a ritroso nel tempo
Dunque avanzavo.
Da cima a fondo, legato a un filo
Mani e piedi da capo a piedi,
E sottosopra:
Ecco il destino osservato alle mie latitudini.
E poi il Nòtos che soffia, tutta mi spogliava
Del nome.

Sotto le unghie quell’onda, accenno appena profondità:
L’irrisorio lo tengo celato
Quel tanto che basta a salvarci.
Salvàti, il sogno s’è sciolto,
E dagli occhi che stringi come pietre nella mia mano
Parla antica l’icona che fui.
Elena… sussurri gorgogliando all’orecchio:
Gravida di vento rispondo per simboli.
Mia vita mortale, mio sogno!
Scortecciata presenza che cola sua resina ai piedi.

Fantasma, vuota forma
Sostanza senza spigoli o impronte:
A quale appartengo, a quale i lutti e i dolori?
Perché in due finzioni sprofondo
E non dentro un’unica polla cui ceder l’immagine
Infine disciolta.
Lubrificata parola, adatta al fluido mio dire:
Ogni spicchio di corpo comanda all’altra da me.

Il tempo scandito dal corpo è tempo di guerra,
Mia cara.
Giambi furiosi s’inarcano sopra le ciglia
Con schianti parole risuonano il muto mio dire;
Paziente, costante avanza col suo esercito piano
La vuota assonanza che detta non detta mi riempie.

Mi ha pronunciata sul filo tagliante della ragione,
Spolpata e recisa:
Proferita in soffio di dolore-cristallo,
Fuso vetro in bottega d’Olimpo
Un dio raddoppiò la mia sorte.
Mai mai a Troia io venni,
Quanto avvenne fu per un’ombra.
XII

Anche il mare a loro sarà muto.

Sarà muto bianco sale
Deserto inapprodabile, futile virgulto
Vezzo:
Sul niente edificato.

Gerico fiorisce anche in estate,
Dove schiere d’angeli s’ammassano sopra capitelli
Sugli archi antichi, su fregi deposti dai secoli;
Da Sodoma allungano il passo
Spossati con Orfeo nel voto segreto,
Anch’essi statue, anch’essi svuotate ombre
Se non innanzi ma altrove volgessero gli occhi.
Un angelo più grande, mentre il mare si contrae
Prese a mischiare la terra:
Tuonò il giudizio in viso alle città maledette,
Tuonò, con l’ala aperta come cucchiaio
Estrasse il suolo alla propria sede.
Sottosopra: ciò che sopra sotto e viceversa,
Il sotto sopra, ogni angolo di mondo
Qui sradicò e a noi restituì il suo contrario.

Occhi enormi, come sentenze
Bianche pupille adagiate su ruvida pietra.
Morto anche il mare; ogni singolo gesto
Fatica invece a perire.
Neppure l’onda amara risuona
L’eco a terra piano risuona.

Poco più oltre, fuori da questo recinto
Dove tutto asciutto oscurato anche il cuore
Pare nodo estirpato, ecco
Il mare diviene sospiro;
Si zittiscono le trombe in grembo a Gerico
Tesi all’ascolto angeli separano il nero dall’ombra
Cospargono sale sulle ferite dell’anima.
XIII

Liotrìvi

Su quegli occhi avrei potuto scrivere in qualsiasi momento,
Dicevo.
Mentivo, perché vi si poteva accedere solo restandovi appesi
Come ad un amo.

Sono gli anni in cui dal deserto si alzano nuvole e fango
E sussultano con la piccola vena del polso
Gli ombrosi muti arcipelaghi:
Oh! Calarsi nel pozzo degli occhi, in quel sereno perfetto
Celeste d’icona.
La Chòra non esiste se non quando l’invochi
Stretto abbaglio del cielo da cui fuoriesce
Come figlia d’un raggio disperso.
Un luogo che si gonfia d’acqua, bianco e salato:
Qui un santo ha deposto due occhi schiusi come un’offerta,
E dentro vi cala tutte le offese del mondo!
Sono gli occhi del Cristo venuti a galla dai secoli,
Emersi sbattuti con forza contro appuntite scogliere.

Il vento cambia volto a tutti
Tranne a Lui, che in lenta decrescita assorbe
Le metamorfosi.
La Chòra battuta da raffiche orrende,
E due occhi fermi come spade l’arretrano
Timorosi, pur timorosi nel desiderio.
XIV

Alla dea dagli occhi azzurri disse intanto Telemaco,
Accostando la testa alla sua perché non udissero gli altri

Perché lenta si spande la voce, e dolce
Se desiderio di casa ci prende.
Canta ogni cosa in noi, come asse di nave scricchiola l’anima;
E canta battuta dall’onda.
Siamo ormai lontani da tutto, guarda le luci della città:
Intorno è un mare oscuro, denso sonno di memorie smarrite
Lungo la via che gli avi percorsero a ritroso, fino a noi.
Nel nostro setaccio raccolgono i giorni,
E quanto ci resta è quanto infine stringiamo.
Non Scilla e non Cariddi, non mostri di terra o marini;
Io più ancora temo il ritorno, sciabordio ruvido contro lo scafo
Che significa diminuzione del tragico,
Dimezzare il verbo a mezzo avvenire.
Ma è lì che punta la nostra rotta,
Verso il comando sicuro, verso cuori cucinati
In solide stanze di marmo.

Rincorrevamo il vento, e poi ancora
Le bianche creste rincorrevamo;
La testa coperta di spruzzi, casa era la meta.
Però io mai mossi il piede fuori da Itaca rigogliosa,
Mai venni alle porte di Ilio.

 

 

 

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UNA POESIA INEDITA di Steven Grieco Rathgeb “Felice notte O Bon” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “«Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto”; “La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato”

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

Steven Grieco Epang-Palast la Montagna degli Immortali

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo…

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di | 24 dicembre 2016 · 8:04

Gerda Stevenson: Poesie scelte di una poetessa scozzese Traduzione a cura di Laura Maniero

pittura-incognito

Gerda Stevenson è scrittrice, attrice, regista, cantante e poeta. Si è formata presso la Royal Academy of Dramatic Art, a Londra, vincendo il Vanburgh Award. Ha lavorato, e tuttora lavora instancabilmente per il teatro, la radio, la televisione e il cinema, nel Regno Unito e all’estero. Le sue opere sono apparse in numerose riviste e antologie, tra le quali: Edinburgh Review, Gutter, The Scotsman, The Herald, New Writing Scotland, Chapman, Cencrastus, The Eildon Tree, Spectrum, Parnassus Poetry in Review (New York), Cleave (Two Ravens Press), Southlight, Cork Literary Review.

Nella sua carriera ha ottenuto numerose riconoscenze e titoli. Ha vinto il Premio BAFTA come miglior attrice per il suo ruolo di Margaret Tait nel film Blue Black Permanent. Nel 2011 ha ricevuto la nomina dall’LPTW (League of Professional Theatre Women, New York), per il premio internazionale Rosamond Gilder/Martha Coigney. Ha ricevuto due volte la nomina per il premio CATS (Critics Awards for Theatre in Scotland). Il suo pezzo teatrale in lingua scozzese, Federer Versus Murray, è stato ampiamente applaudito e nel 2011 ha ottenuto il podio come ‘Best Scottish Contribution to Drama’. Nel marzo 2012, il testo dell’opera teatrale è stato pubblicato dalla prestigiosa rivista letteraria newyorkese Salmagundi.

Nel 2013, la sua poesia in lingua scozzese, Hame-Comin, ha vinto il premio YES in occasione dell’Arts Festival Poetry Challenge.  Nello stesso anno, Gerda Stevenson ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie If This Were Real (Smokestack Books).

Proveniente da una famiglia di musicisti – il padre era il famoso compositore Ronald Stevenson, la sorella Savourna è una delle migliori arpiste scozzesi e la nipote Anna-Wendy è una violinista di straordinaria sensibilità – Gerda Stevenson ha pubblicato nel 2014 il CD Night Touches Day con le sue canzoni e composizioni in lingua inglese e scozzese, ricevendo la nomina di cantante scozzese dell’anno per la MG Alba Scots Trad Music Awards.

Nel 2014, la Saltire Society l’ha nominata una delle ‘Outstanding Women’ della Scozia.  Gerda sta ora lavorando alla sua seconda raccolta di poesie.

Pittura Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

INTRODUZIONE SULL’OPERA DI GERDA STEVENSON IF THIS WERE REAL, Smokestack Books, 2013

If This Were Real è la prima raccolta di poesie dell’autrice scozzese Gerda Stevenson, pubblicata nel 2013 da Smokestack Books, piccola casa editrice inglese, tra le più rispettabili e vivaci nel panorama editoriale inglese a occuparsi di poesia.

La raccolta è intrisa di musica: rime danzanti, versi cadenzati, a tratti soavi, a tratti gioiosi o severi; un lamento che sfuma in una ninna nanna. L’autrice canta di farfalle, di bacche bianche, del vento della brughiera, di colline, delle rose di Sarajevo, di cimiteri, dell’Eden perduto dell’infanzia. Le dolci amicizie, il tempo aspro, tombe anonime, la Bosnia, l’Iraq, la Siria, i Pirenei, la Scozia, tutto ciò per la Stevenson diventa tema poetico.

If This Were Real è stata definita come una sorta di autobiografia in versi. Il lettore viene trasportato in un turbinio di esperienze di vita familiare, di bellezze naturali, di meraviglie e orrori, di eventi storici in un passato lontano o molto più recente, nella terra nativa dell’autrice, la Scozia, fino a superarne i confini.

L’esperienza della Stevenson come attrice, scrittrice di canzoni e cantante è evidente nella struttura ritmica e sonora delle sue poesie. “Quelle della Stevenson sono poesie che richiedono, non solo di essere lette, ma di essere recitate”, riporta la recensione di Smokestack Books.

Giudizi della stampa sulla prima raccolta di poesie di Gerda Stevenson, If This Were Real, Smokestack Books, 2013

“The best of the new in contemporary Scottish poetry – not to be missed”.

“Il meglio del nuovo nella poesia scozzese contemporanea. Da non perdere”.

Ron Butlin, Sunday Herald, December 2013

“Stevenson’s talent as an actress brings a quality to her readings [of her poems] which is quite brilliant. There is no gap between the essence of the poem and the delivery, which is immediate and intense”.

“Il talento scenico della Stevenson si riflette nella lettura [delle sue poesie] e il risultato è straordinario. Non c’è distacco tra l’essenza della poesia e la sua fruizione, che è immediata e intensa”.

Pagina web di Atkinson-Pryce Bookshop Events, 5 Settembre 2013

“This is Stevenson’s first full-length collection and it arrives with a considerable weight of expectation. […]If This Were Real is described as an autobiography in verse and it brings to life a journey that is personal and political, intense and wide-ranging. Stevenson’s way is compassionate, defiant and honest. […]Stevenson’s lines are clean, clear, musical. The inherent fallibilities and sad frailties of humankind and nature alike are explored with an edgy panache”.

“Si tratta della prima raccolta completa della Stevenson e la sua pubblicazione è molto attesa. If This Were Real viene descritta come un’autobiografia in versi che racconta un viaggio personale, politico, intenso, vario. La Stevenson ha uno stile compassionevole, ribelle, onesto. […]I suoi versi sono puliti, chiari, musicali. Le fragilità della natura e del genere umano vengono esplorate con audace eleganza.

Kevin MacNeil, ASLS magazine, The Bottle Imp, 2014

“Brings a fresh eye and a wise head to familiar Scottish themes”.

“Tratta temi scozzesi familiari con occhi nuovi e con una mente saggia”.

Tribune Magazine, July 2013

“[…] depth, humanity, music. Love poems in the widest sense”.

[…] profondità, umanità, musica. Poesie d’amore nel senso più ampio.

The Eildon Tree Magazine, 2013

Seconda raccolta di poesia di Gerda Stevenson:

L’autrice scozzese Gerda Stevenson sta ora lavorando alla sua seconda raccolta di poesie. L’opera è in fase di stesura e, al momento, non se ne conosce il titolo. Alcune scritte in inglese, altre in scozzese, le 50 poesie della raccolta saranno ritratti di donne scozzesi che nel corso dei secoli hanno contribuito in modo straordinario alla storia e alla cultura della Scozia, non vedendosi però mai pienamente riconosciuto il merito dovuto, proprio per il fatto di essere donne.

gerda-stevenson-image

gerda-stevenson

I AM THE ESPERANCE
commemorating the Upper Clyde Shipbuilders’ work-in

I am the Esperance, I sail in your wake,
canvas unfurled, bellied with hope
as you pour into Glasgow Green –
we are your chorus, my sisters and I,
your creation, a fleet of belief, heading back to the Clyde
from the seven seas: veteran Hikitia, floating crane,
the only one of her kind in the world, she’s home again
from Wellington; and Empire Nan, our stout tug;
Delta Queen – her great stern wheel churns the foam
as she steams in from the Mississippi; and bold Akasha,
laden with memories of the Nile; we shimmer for you,
our riggings clink, our funnels boom to your cry:
“The Right To Work, Not a Yard Will Close,
Not a Man Down the Road,” your banners and flags
like waves before us, drawing us home in one great tide,
Umoja’s here, her name bearing our purpose today –
unity – a gleam on her prow; Moonstone and Seva,
who well as any know all about salvage –
and there’s Uhuru, named for freedom,
Uhuru, Uhuru, my sister Uhuru, sailing with me
in your wake, my canvas unfurled, freighted with hope,
as wave upon wave, you surge into Glasgow Green.

IO SONO LA ESPERANCE
In ricordo dell’autogestione dell’Upper Clyde Shipbuilders

Io sono la Esperance, navigo sulla vostra scia,
le vele spiegate, nel ventre la speranza,
mentre voi affluite nel Glasgow Green –
siamo il vostro coro, io e le mie sorelle,
vostra creazione, una flotta di fiducia, di ritorno al Clyde
dai sette mari: la veterana Hikitia, gru galleggiante,
unica al mondo nel suo genere, è di nuovo a casa
da Wellington; e la Empire Nan, il nostro tozzo rimorchiatore,
la Delta Queen – la sua grande ruota sciaborda a poppa la schiuma
mentre avanza tra gli sbuffi sul Mississippi; e l’audace Akasha,
carica di memorie dal Nilo; scintilliamo per voi,
con le sartie cigolanti e i fumaioli roboanti al vostro grido:
‘Diritto Al Lavoro, No alla Chiusura dei Cantieri,
Non Resta A Casa Nessuno’, i vostri vessilli e striscioni
come onde dinanzi a noi, ci sospingono a casa in una grande marea,
qui c’è la Umoja, il suo nome riassume il nostro intento odierno –
unità – un luccichio a prua; la Moonstone e la Seva,
nessuna come loro sa tutto sui recuperi –
e lì c’è Uhuru, il cui nome sta per libertà,
Uhuru, Uhuru, mia sorella Uhuru, naviga con me
sulla vostra scia, le mie vele spiegate, un carico di speranza,
mentre voi vi riversate nel Glasgow Green, onda dopo onda.

.
Gardening with Galina

Every word we’ve planted,
you and I, has been
so slow to grow,
each a seed bedded deep
in your mind’s loam.
In the silence, we’ve waited,
as the seasons change, and meantime
learned that hands can speak;
until, at last,
shoots of green sound reach
from roots through your throat’s reed,
leaves unfurl, spilling sunflowers from your lips:
dark seeds wreathed in gold for us to sow,
more and more golden words for us to grow.

Giardinaggio con Galina

Ogni parola che, io e te,
abbiamo piantato è cresciuta
con così grande lentezza:
ciascuna un seme riposto profondo,
nel terriccio della tua mente.
In silenzio, abbiamo atteso,
nel susseguirsi delle stagioni, e nel frattempo
appreso che le mani sanno parlare;
finché, alla fine,
germogli di suoni acerbi s’estendono
dalle radici fino all’ancia della tua gola,
le foglie s’aprono, i girasoli traboccano dalle tue labbra:
semi scuri intrecciati d’oro per noi da piantare,
ancora e ancora parole dorate per noi da coltivare.

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Sgathach
(warrior queen of legend, and martial arts teacher, Isle of Skye)

I’m a shadow, only a murmur now,
on a scattered choir of tongues,
‘though sunlight still splinters the waves
through my crumbling castle’s arch,
like the knives I taught Cu Chulainn how to throw;
across the bay, the Cuillin still leaps from where the sun
once flung its spear, black crags clawing the sky
in ragged gabbro; the hazel woods of Tokavaig
still whisper the wisdom I gathered there to share
with my fledgling warriors. But my art has long
been lost – the way of patience, to balance anger
on a blade of grass in the machair’s wind,
and let it cool, till you grasp the devastation it might
have wrought; how many times, to no avail, I warned
Cu Chulainn that his rage would slay his own son:
“That temper of yours”, I told him, “will scorch a land
for many moons, where peace might have prevailed.
Hunt down your own fear first,” I said. “Feel the heat
of your breath on the bow-string as you pull, then
hold it, and take pause before you strike
the heart of what you do not need to kill.”

.
Sgathach
(leggendaria regina guerriera e maestra di arti marziali, Isola di Skye)

Sono un’ombra, solo un mormorio, ora,
in cori sparsi di lingue,
pur se ancora la luce del sole infrange le onde
nell’arco del mio castello in frantumi,
come i coltelli che io insegnavo a Cu Chulainn a scagliare;
oltre la baia, s’ergono ancora i Cuillin, là dove un tempo
il sole vibrò una lancia; rupi scure ch’artigliano il cielo
di gabbro lacero; a Tokavaig, i boschi di nocciolo
bisbigliano ancora la saggezza che qui radunavo e impartivo
ai miei guerrieri inesperti. Ma da tempo
la mia arte è perduta: la via della pazienza, che tiene l’ira
in equilibrio su un filo d’erba, al vento della piana,
a stemperare, finché si colga lo sfacelo
ch’avrebbe inflitto; quante volte invano ammonivo
Cu Chulainn che la sua furia avrebbe ammazzato suo figlio:
“Quella tua indole”, gli dicevo, “per molte lune
farà terra bruciata, là dove la pace avrebbe forse prevalso.
“Stana prima le tue paure”, dicevo. “Senti il calore del respiro
sulla corda dell’arco mentre scocchi il dardo, poi,
trattienilo, e attendi, prima di colpire
al cuore ciò che non serve uccidere”.

Horsehead Nebula Speaks
(in memoriam Williamina Paton Fleming, Scottish astronomer, 1857-1911.)

There I am, bucking my head below Orion’s belt,
free rein in that constellation’s fiery dust,
riding the stellar waves for millennia, unnoticed, till
a woman with eyes like burning stars takes one look,
has me harnessed, measured, catalogued, and tamed.
I’m proud to be groomed with such exquisite care
by one who can do it all – a maid, she was,
at the professor’s kitchen sink, until he saw
her quiet gift for seeing light with a precision
that far outstripped his Harvard team of men;

and then, the men come in. I’m claimed
as their discovery, and named: “Grim Reaper,”
“Black Knight of the chessboard,” they say,
failing to notice I’m a mare.
They make me want to leap
from this photographic plate,
leave it miraculously blank,
and take her with me,
my lady of the stars who found me first –
we’d race the heavens together,
gallop across light years, stream
through Zeta’s glittering rays, bareback,
all along the Hunter’s belt,
from Mintaka to Alnitak.

Parla la nebulosa Testa di Cavallo
(in memoria di Williamina Paton Fleming, astronoma scozzese, 1857-1911)

Eccomi qua, sotto la cintura di Orione a dimenare la testa,
al galoppo tra la polvere infuocata della mia costellazione;
per millenni ho cavalcato onde stellari, nell’ignoto, finché
una donna dagli occhi come stelle ardenti posa lo sguardo,
m’imbriglia, misura, cataloga e doma.
M’inorgoglisco, poiché a strigliarmi con tanta deliziosa cura
è qualcuno capace in tutto – una domestica, era lei,
all’acquaio, nella cucina del professore, finché lui s’accorse
della sua mite dote di scorgere la luce, con una precisione
che di molto superava i suoi uomini di Harvard;

e poi, s’intromettono gli uomini. Mi reclamano
come loro scoperta, e mi chiamano: “Cupo Mietitore”,
“Cavallo Nero degli scacchi”, dicono,
ma neppure notano che sono una giumenta.
Mi vien voglia di saltar giù
da questa piastra fotografica,
lasciandola per miracolo vuota,
per portarla con me,
la mia signora delle stelle, che per prima mi avvistò –
insieme gareggeremmo nel cielo,
galoppando negli anni luce, gettandoci
senza sella, tra i scintillanti raggi di Zeta,
lungo tutta la cintura del Cacciatore,
da Mintaka fino ad Alnitak.

Biobibliografia di Laura Maniero

Nel 2007 consegue la Laurea Triennale in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università degli Studi di Padova presentando la Tesi “L’ironia nella comunicazione: analisi del linguaggio, problematiche di traduzione e sottotitolaggio nel film Io e Annie di Woody Allen”.

A luglio 2010 consegue la Laurea Specialistica in Lingue e Letterature Europee, Americane e Postcoloniali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con la Tesi “An Investigation of Ben Jonson’s Epiceoene: The Construction of the Gendered Self”, ottenendo il massimo dei voti e la Lode. Collabora poi con una piccola casa editrice del veneziano in qualità di redattrice e traduttrice di testi (EN<>IT) per le riviste, in parte bilingui, di attualità, cultura, scienza e turismo, da essa pubblicate.

Nel 2015 consegue il Master in Traduzione di testi postcoloniali in lingua inglese: narrativa, poesia, teatro ed editoria, Università di Pisa.

Comincia poi una collaborazione con il Professore Marco Fazzini, docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e docente del Master all’Università di Pisa, poeta e traduttore, come traduttrice di una selezione di poesie postcoloniali in lingua inglese e scozzese.

Il lavoro di traduzione si focalizza principalmente sull’artista sudafricano Roger Lucey, di cui traduce alcune tra le sue numerose poem-songs, canzoni di protesta contro l’apartheid, tratte dal CD Now is the Time, e sulla poliedrica artista scozzese Gerda Stevenson, scrittrice, attrice, regista, cantante e poeta, di cui traduce alcune poesie della prima raccolta If This Were Real (Smokestack Books, 2013) e alcune canzoni del CD Night Touches Day, Gean Records 2014.

Ha poi tradotto alcuni testi di Sandeep Parmar, James Byrne, Steven Fowler. Le traduzioni sono state presentate in occasione di “Poetry Vicenza 2016”, rassegna di poesia contemporanea e musica curata da Marco Fazzini che ospita nella città di Vicenza poeti e musicisti provenienti da vari paesi del mondo. I testi tradotti sono stati presentati anche a “Incroci di Civiltà, Festival Internazionale di Letteratura a Venezia”, Università Ca’ Foscari di Venezia. 

Ha pubblicato alcune delle sue traduzioni dall’inglese e dallo scozzese nel testo “Poetry Vicenza 2016, rassegna di poesia contemporanea e musica”, a cura di Marco Fazzini, Diagosfera, Edizioni ETS, 2016.

La sua traduzione dell’intervista all’acquarellista Doug Lew è inclusa nel testo “Doug Lew, Watercolor on the Move, ventisette opere all’acquarello”, a cura di Marco Fazzini, Edizioni ETS 2015. Lavora come docente di corsi di lingua inglese e di italiano per stranieri con enti, tra i quali, Ascom di Padova e Venezia, Trinity House School of Languages, Università Popolare di Spinea. Dal 2016 collabora in modo continuativo con un’agenzia di traduzioni di Roma come traduttrice (dall’inglese e dal tedesco) di riviste Playmobil e Panini Magazines rivolte a lettori in età scolare.

Sempre per la stessa agenzia, ad Agosto e Settembre 2016, ha lavorato alla traduzione di un romanzo a fumetti dal titolo Enigma: The Imitation Game, sulla vita del genio matematico Alan Turing. La traduzione è in fase di pubblicazione. Uscirà a breve sotto il marchio IF (Idee editoriali Feltrinelli) o direttamente con Feltrinelli.

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COMUNICATO STAMPA LABORATORIO di POESIA PUBBLICO – Primo Incontro giovedì, 29 dicembre ore 18.30 Libreria L’Altracittà Roma, via Pavia, 106 tel fax 06 64465725 – Referente Silvia Dionisi laltracittaroma@gmail.com

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COMUNICATO STAMPA

presso la libreria L’Altracittà
Roma, via Pavia, 106
tel fax 06 64465725 – Referente Silvia Dionisi
laltracittaroma@gmail.com

LABORATORIO di POESIA PUBBLICO

Primo Incontro giovedì, 29 dicembre ore 18.30

I poeti della redazione romana della rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com invitano tutti i poeti e gli estimatori di poesia a partecipare all’Incontro di poesia che si terrà presso la libreria L’Altracittà, via Pavia, 106 di Roma, giovedì 29 dicembre, 2016, h. 18.30. Gli Incontri avranno cadenza bisettimanale, e avverranno sempre il giovedì alle ore 18.30 presso i locali della libreria o in altra Sede che verrà indicata.
Ciascun autore potrà leggere le proprie o altrui poesie, distribuirne copia agli altri partecipanti e esprimere il proprio pensiero critico, potrà proporre tematiche o autori sui quali dibattere liberamente. Inutile dire che gli incontri saranno finalizzati ad approfondire e a valorizzare la conoscenza e lo studio della «nuova poesia» in uno spirito di collaborazione costruttiva e di rispetto.

F.to Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Antonio Sagredo, Sabino Caronia, Edith Dzieduszycka, Luigi Celi, Giulia Perroni, Franco Di Carlo, Salvatore Martino

Scrive Alfonso Berardinelli:
«Quando sono finite le avanguardie novecentesche? In termini generali la risposta potrebbe essere ovvia: le avanguardie finiscono, come sapeva André Breton, quando si comincia a studiarle a scuola».1
«Molta giovane letteratura dopo il 1990 non si può neppure dire che sia postmoderno né che nasca dalla coscienza storica del passato novecentesco. Invece di scavalcare il Novecento, lo si ignora. Mentre la poesia resta a fare i conti con un pubblico che non legge e semmai ascolta, gran parte della nuova narrativa tende a entrare volentieri nel territorio un tempo proibito e disprezzato dell’intrattenimento. Non è vero che il romanzo sia tornato al naturalismo e al realismo. È che le strutture formali dominanti sono quelle del best seller, leggendo il quale i lettori devono avere l’impressione di capire fin dalle prime pagine che cosa vuole dire l’autore e perché lo dice.

Ma quando finisce? Forse con il decennio sessanta, o con il 1989 e il crollo dell’impero sovietico, o con gli attentati dell’11 settembre 2001. È stato il secolo della Modernità…Si può far cominciare il Novecento con L’interpretazione dei sogni di Freud, con il Manifesto futurista, con l’affondamento del Titanic, con la guerra del 1914-18 e con la rivoluzione bolscevica. È stato il secolo della Modernità… delle società di massa e della tecnologia? O piuttosto un secolo in sostanza manieristico e autopubblicitario nel quale tutto è avvenuto con i primi trent’anni e il resto è stato solo una lunga serie di revival, con una pioggia di neo-movimenti e di post-mode?
Dopo aver diffidato per circa un secolo della comunicazione, oggi la letteratura vorrebbe essere comunicazione di cose già comunicate. Questo senza dubbio vogliono gli editori. E questo spinge la letteratura verso la sua mutazione».2

A proposito di Casi critici – dal Postmoderno  alla mutazione, di Alfonso Berardinelli, vorrei citare direttamente l’autore al paragrafo «La poesia italiana alla fine del Novecento». Scrive il critico riferendosi al panorama della poesia italiana degli ultimi trenta anni del Novecento:

«Da un lato si è prodotta una crescente marginalità del genere letterario poesia, o più semplicemente una sua vera e propria “decadenza”, un suo svuotamento e impoverimento culturale: nessuno dei poeti più giovani ha acquistato un qualche rilievo sul piano intellettuale e critico. Dall’altro, questa situazione di marginalità ha provocato un rinchiudersi degli autori di poesia in un loro ghetto, in una specie di “riserva” o micro-comunità in cui la discussione e l’approfondimento intellettuale e critico non sembrano più costituire un interesse vitale e primario (…) Il fatto che per almeno vent’anni nessun poeta sia stato più un intellettuale, un critico, un saggista impegnato a riflettere sul senso di quello che faceva e sul contesto in cui lo faceva, ha contribuito a quella decadenza o indebolimento del genere letterario poesia a cui si è accennato. L’attività critica non è certo sparita, tutt’altro; ma ha assunto un carattere prevalentemente amministrativo e pubblicitario, cioè non propriamente critico. È il caso delle schede d’accompagnamento editoriale (in forma di quarta di copertina o anche di recensione) quasi sempre così impeccabilmente eseguite, così suggestive, eppure così autoreferenziali, per cui si ha l’impressione che il linguaggio critico descriva oggetti testuali più immaginari e ipotetici che realmente esistenti. C’è appunto la descrizione, manca però il giudizio: il che, come si può capire, compromette anche il valore della descrizione, perché più o meno le stesse cose potrebbero essere dette (e di fatto vengono dette) tanto di un libro eccellente che di uno illeggibile, e tutto, così, sfuma nell’irreale». «Essendo diventate, come si è detto, piuttosto sporadiche, o poco attendibili e poco impegnate, o sostanzialmente ed evidentemente promozionali (editoriali, amicali) le attività della critica, anche il maggiore o minore successo di questo o di quell’autore ha conservato a lungo qualcosa di casuale e di arbitrario… Nel periodo di tempo che stiamo considerando (dal 1975 in poi n.d.r.), come pure nel decennio precedente, molto spesso le capacità autopromozionali e la semplice tenacia con cui un autore di versi si è proposto agli editori e al pubblico hanno finito per farlo sembrare importante, imprescindibile, significativo. La funzione critica è stata in gran parte surrogata dalle scelte editoriali. E gli uffici stampa sono risultati più influenti di qualunque critico indipendente: sia perché la figura tradizionale o ideale del “critico indipendente” ha cominciato essa stessa a declinare, sia perché la poesia come genere letterario è diventata editorialmente e culturalmente marginale, i migliori critici se ne sono occupati sempre meno, un po’ con la mano sinistra…».

«Il fatto è che… sulle due generazioni di nuovi poeti esordienti dopo il ’75 hanno presto cominciato a incombere con la loro qualità letteraria e con la loro autorità storica una serie di poeti più anziani, che avevano avuto la fortuna di affacciarsi sulla scena letteraria in situazioni meno confuse e affollate».3

Dopo questa citazione, ci sembra che ci sia molta carne al fuoco della riflessione. Il Novecento è finito da più di tre lustri e ancora non si intravede all’orizzonte la «nuova poesia». O forse sta sorgendo e nessuno se ne è accorto. Chi vuole partecipare alla nostra riflessione collettiva sarà il benvenuto e ne discuteremo.

Arrivederci al 29 dicembre.

1 A Berardinelli Casi critici Dal postmoderno alla mutazione Quodlibet, 2007 p. 9
2 Ibidem p. 13

3 Ibidem p.306

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Ubaldo de Robertis 4 POESIE dalla Antologia Selected poems The Rings of the Universe Chelsea Editions, New York, 2016, traduzione di Adria Bernardi  con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 https://www.youtube.com/watch?v=v-YukDzlRFU

Ubaldo de Robertis, il poeta ricercatore chimico nucleare nato a Falerone nel 1942  si è spento l’11 maggio, all’età di 75 anni, a Pisa dove viveva. Aveva appena pubblicato una ampia Antologia bilingue, inglese italiano con Chelsea Editions, The Rings of the Universe, scelto con grande acutezza da Alfredo de Palchi che aveva letto le sue poesie proprio qui, su L’Ombra delle Parole, e nutriva profonda stima per il suo lavoro poetico.

La rivista ha sempre seguito con attenzione il lavoro poetico di Ubaldo De Robertis il quale era un attivo e appassionato nostro collaboratore, il poeta aveva dimostrato molto interesse alla piattaforma della nuova ontologia estetica. Ricordo che una volta gli inviai in lettura una mia poesia di 33 versi, Ubaldo con grande acutezza mi consigliò di sostituire 18 articoli indeterminativi con altrettanti articoli determinativi, mi scrisse che la poesia ne avrebbe guadagnato. Aveva ragione, cambiai ben 17 articoli indeterminativi e li sostituii con altrettanti determinativi. La poesia era perfetta. Ubaldo aveva intuito immediatamente le possibilità stilistiche che offriva la nuova piattaforma della NOE. Ed infatti negli ultimi tempi aveva riscritto le sue ultime poesie alla luce delle elaborazioni della poetica del «frammento». Era sempre partecipativo, seguiva con rigore e onestà intellettuale il lavoro della rivista con i suoi commenti sempre ispirati da una intelligenza superiore e una onestà intellettuale oggi rarissima. Oggi noi lo salutiamo con grande affetto perché è venuto a mancare un poeta di livello, un amico, un compagno di strada e un collaboratore di rarissima perspicacia e onestà. E ci piace ricordarlo in una sua immagine con la grafica di Lucio Mayoor Tosi. Arrivederci Ubaldo.

Onto DeRobertis

Ubaldo de Robertis, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie, tra cui l’Antologia di poesia italiana contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Mentre l’autore combatte una lunga battaglia in una corsia di ospedale, è uscito un volume, una vasta Antologia della produzione poetica di Ubaldo de Robertis con testi tratti dall’opera di esordio, Diomedee del 2008, fino alle poesie dell’ultima raccolta edita Parte del discorso (poetico), del 2014, per giungere agli inediti di questi ultimissimi anni che avevano già visto la luce nella rivista lombradelleparole.wordpress.com. Che dire? Questa Antologia ci rivela un poeta che ha iniziato a scrivere e a pubblicare già in età matura, con un bagaglio di esperienze extra letterarie, di chimico nucleare in possesso di una salda cultura scientifica, cosa da non sotto valutare quando leggiamo queste poesie.  Partito da una lirica rastremata e desublimata, de Robertis giunge ben presto ad una idea di poesia dall’ampio respiro poematico, con un verso ipertrofico, avvolgente, narrativo, in grado di accogliere quanti più oggetti e discorsi possibili.

Questa poesia di Ubaldo de Robertis non sarebbe stata possibile senza la lezione dell’ermetismo («risorgive parvenze») e quella di Tomas Tranströmer («argentei pesci dai quattro occhi sporgenti») e la lezione del verso libero del secondo Novecento italiano; ma quello che è più importante è che la poesia rivela una precisa cognizione dello spazio quadridimensionale là dove è posta, come un bel vaso fiorito, disutile e misteriosa. Ed è questo il fine di una poesia: mostrare al lettore quanto essa sia disutile e misteriosa, impiegando il linguaggio comune per andare oltre di esso, per un significato che nemmeno il poeta sa quale sia…

Scrive de Robertis, nella poesia “L’Universo e gli anelli”: «parto da una teoria cosmologica precisa quella dello “spazio ad anelli”, (di cui è ideatore l’amico Carlo Rovelli), che si contrappone alla teoria dello “spazio a stringhe” forse più accreditata e diffusa. Nella poesia tratto della relazione tra frequenza suono e colore e accenno a Kandinskij che si era occupato per molto tempo della relazione tra colori e musica».

Fatto è che l’autore si muove con disinvoltura dall’universo ad anelli alla scansione ottica quadridimensionale presente nella poesia «Il dipinto e la realtà», una vera e propria dichiarazione di poetica. «La figura virtuale rimanda all’esistente», proprio questa è la realtà, si chiede il poeta quasi stupito: la bellezza di «Thérese» che, vista di spalle, «Brilla, qui, in primo piano»; perché la bellezza non mostra mai il proprio volto ma lo lascia intuire, da una visione improvvisa, di scorcio. Il secondo piano è, paradossalmente, più visibile del primo, proprio in quanto nascosto, schermato. Nella raffigurazione Thérese, «vista di spalle», occupa il secondo piano in un universo costruito a piani, ad anelli sovrapposti. È lo sguardo dell’osservatore che fa parte del «reale». Lo sguardo è soltanto una delle componenti del «reale», e neanche tra le più importanti se ci liberiamo della concezione antropocentrica dell’universo. Ma è attraverso lo sguardo e seguendo il suo tragitto che noi possiamo ricostruire il percorso dello spazio virtuale di un’opera poetica. Una volta, venti anni fa, ho scritto in una prefazione: «Un nuovo sguardo è già una nuova idea. Le mutazioni del gusto già in sé sono nuove idee. Dal modo in cui usiamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo trarre un fascio di luce che illumina il nostro modo di utilizzare le parole, giacché le parole sono cose in senso fisico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili si trovano nel mondo per servire l’uomo. Noi possiamo vivere in un appartamento ammobiliato, oppure in un appartamento ricco di [nostre] suppellettili. La differenza è di vitale importanza». Questo è un pensiero che ho rubato ad Osip Mandel’stam, non è mio, ma l’ho fatto mio. E quindi è anche nostro.

Ecco, io quando leggo una poesia di un autore, la prima cosa che guardo è come ha posizionato le cose (le parole) all’interno del verso, a quale distanza, le corrispondenze verticali, orizzontali e quelle diagonali. Se noto della sciatteria, metto da parte il libro. Quello non è un poeta ma un letterato più o meno colto.

Una poesia è come una casa con dentro i mobili, i quadri, le mensole, le suppellettili. A volte scorgo una grande sciatteria, la sciatteria dell’ordine del discorso, quel discorso ordinato che hanno le maestrine o gli acculturati arroganti. Quella è la sciatteria peggiore. Una poesia può essere anche non riuscita, ma deve contenere i mobili al loro posto.
Ecco, io direi che nella poesia di Ubaldo de Robertis i mobili sono al loro posto, In posti diversi ma sono lì per essere utilizzati da chi vi abita, cioè l’uomo.

Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Jean Frédéric Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.

gif-novelLa costruzione ritmico sintattica di questa poesia è fatta in modo che essa stessa è una «cornice», è fatta a modo di una «cornice» che chiude il «quadro». È una particolare esemplificazione di come una poesia «chiude» uno spazio pittorico, ottico. Il testo inizia con il primo verso la funzione del quale è di attirare l’attenzione del lettore senza coinvolgerlo in una situazione personale ma cercando di stimolarlo a concentrare la sua attenzione su un fatto esterno, oggettivo: quel qualcosa che «brilla, qui, in primo piano». Un procedimento retorico che fa uso di indizi fluttuanti la cui efficienza si misura sull’apporto ingiuntivo sul soggetto della composizione: «Thèrese» è «vista di spalle». Dunque, il lettore, che sta davanti al quadro vede, ovviamente, Thèrese di spalle e può ammirare il suo lussuoso e sensuale vestimento:

«la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir»

Si noti l’estrema precisione di questi dettagli. Precisione che viene rafforzata dal verso seguente che chiama in causa un elemento non del quadro ma dell’osservatore: il suo «sguardo». Quindi, di nuovo, si ribaltano i piani tra l’oggetto e l’osservatore. Appunto, questo «sguardo» è «in direzione» di qualcosa d’altro («delle case, non degli alberi»). Adesso sappiamo che Thèrese è un soggetto del quadro che sta guardando fuori del quadro. E qui c’è un gioco di specchi, uno Spiegelspiel tra Thèrese e il quadro. A questo punto il poeta ci dà una informazione: il pittore è chiamato in causa con il suo nome: Jean Frédéric Bazille il quale «ritrae in secondo piano». Che cosa ritrae il pittore? Nient’altro che il «Dramma della quiete, della serenità». Continua a leggere

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Fëdor Ivanovič Tjutčev Ultimo amore Poesie in vita e in morte di Elena A. Denis’eva – a cura di Christoph Ferber, Traduzione di Christoph Ferber e Aurelio Buletti

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“Beato e fatale” chiamò Fedor Ivanovič Tjutčev (1803-1873), poeta russo fra i più importanti dell’Ottocento, il giorno in cui si innamorò di Elena Aleksandrovna Denis’eva, di ventitré anni più giovane di lui, e svegliò in lei una passione che fu – come l’autore ammette – più forte nell’amata che in lui. Tjutčev era un diplomatico, sposato, padre di quattro figlie adulte. Elena aveva frequentato l’esclusivo Istituto Smol’nyj per Nobili Fanciulle a San Pietroburgo ed era anche nipote dell’ispettrice. Il legame doveva diventare uno scandalo, che colpì la donna molto più che il poeta: la particolare tragicità della loro relazione è legata in buona parte, anche se non solo, proprio a questo squilibrio di sofferenza. Alcune delle circa venticinque poesie, nelle quali l’autore esamina questa sua più profonda relazione d’amore, diventano così un resoconto severo e passionale – e il poeta si addossa tutta la colpa. Immediatezza e sincerità di queste poesie, in parte apparse postume, l’ultima nel 1932, non sarebbero pensabili se l’autore non le avesse scritte per sé stesso ma per il pubblico dei lettori. È questo che maggiormente le distingue dai versi di altri poeti e assegna loro un posto nella storia della poesia amorosa russa che non solo è altissimo, ma anche unico.

Le poesie di questo “romanzo psicologico”, come fu definito spesso, sono qui riunite per la prima volta in lingua italiana.

(Christoph Ferber)

Poesie di Fedor Ivanovič Tjutčev

Sulla Neva

E una stella ancora gioca sopra la Neva
nella leggera schiuma delle onde
e ancora l’amore le affida
la sua segretissima barca.

La barca scivola fra schiuma e stella
come dentro in un sogno
e porta due fantasmi insieme a sé
lungo l’onda, lontano.

Porta bambini che in futile lentezza
sprecano il tempo della quiete notturna?
O due beate ombre
che se ne vanno dal mondo terrestre?

Tu, estesa come il mare,
meravigliosa-rigogliosa onda,
tuteli nel tuo spazio
il segreto di quell’umile barca.

Luglio 1850

*

Per quanto fiati il mezzogiorno afoso
dalla finestra aperta,
in questa camera tranquilla dove
tutto è calmo e scuro,

dove profumi vivi
si aggirano nell’ora del crepuscolo,
dolce crepuscolo del dormicchiare,
immergiti e riposa!

Qui un’inesauribile fontana
giorno e notte canta nell’angolo,
di rugiada invisibile cosparge
le tenebre incantate.

E nei chiarori della mezza luce
invasa già da segreta passione
aleggia il lieve sogno
del poeta innamorato.

Luglio 1850

 

Predestinazione

Ah! l’amore, l’amore! lo si dice
l’unione di due anime sorelle,
il loro accordarsi, la loro fusione,
il fatale fluire attorcigliate,
il loro inevitabile duello.
Tanto più dolce l’uno,
tanto più disuguale la lotta dei due cuori:
inevitabilmente, di sicuro,
ama e soffre il più tenero di più,
langue nella tristezza.
Senza più forza alla fine si spegne.

Prima metà 1851

*

Potresti biasimarmi, però non angustiarmi,
dei nostri due destini è il tuo più da invidiare,
il tuo amore per me è sincero e ardente,
io invece ti guardo con rabbia e gelosia.

Rimasto senza fede e misero stregone
in un mondo stregato creato da me stesso,
io riconosco arrossendo in me stesso
il morto simulacro dell’anima tua viva.

Prima metà 1851

*

Ho conosciuto occhi – quali occhi! –
e quanto li ho amati Dio lo sa:
magici come passioni notturne,
non ho potuto distoglierne l’anima.

E dentro quello sguardo inafferrabile
che svelava la vita denudandola
si percepiva una grande inquietudine
e la profondità della passione.

Era uno sguardo dal respiro triste,
fitto nell’ombra delle amate ciglia,
affaticato, pallido, dolcissimo,
intensamente sofferto, fatale.

Era uno sguardo che mai mi successe
d’incontrare – incantevoli momenti! –
senza sentire in me la commozione,
di averne meraviglia senza lacrime.

Prima metà 1851

*

Ultimo amore

Da vecchi amiamo con più tenerezza
e amando siamo più superstiziosi …
O splendi, splendi luce dell’addio,
dell’ultimo amore, del tramonto!

Metà del cielo l’ha avvolto l’ombra,
solo a occidente ancora qualche luce,
indugia, indugia, giorno serale,
dura ancora, dura, o incanto!

Certo avrò meno sangue nelle vene,
ma nel cuore non cala la dolcezza …
O tu, ultimo amore!
Beatitudine e disperazione.

Inizio 1854

*

Lei tutto il giorno avvolta nell’oblio
e già le ombre tutta la avvolgevano.
Cadeva una calda pioggia estiva,
frusciavano i suoi raggi nelle foglie.

E lentamente lei si risvegliava,
cominciava a ascoltare quel fruscio,
a lungo lo ascoltava – affascinata,
immersa in un pensiero consapevole.

Ed ecco, come dicendo a sé stessa,
cosciente del suo dire pronunciò
(io ero lì, annientato ma vivo):
“Oh, come ho amato tutto questo!”

………………………………………

Tu hai amato e così tanto amare
mai a nessuno era riuscito!
Sopravvivere, Dio, a tutto questo
senza che il cuore mi si strappi a pezzi!

Ottobre 1864

 

La bise si è calmata … Più leggera respira
l’azzurra onda delle acque ginevrine
e nuovamente la barca le solca
e vi scivola il cigno di bel nuovo.

Il sole è come estivo tutto il giorno,
variopinti gli alberi scintillano
e l’aria in un’amorevole onda
ne accarezza l’antica abbondanza.

E di là, in una calma regale,
dalla mattina, attorniata di nubi,
è rilucente la Montagna Bianca
come rivelazione non terrena.

Di tutto, qui, di tutta la sua pena
il cuore perderebbe la memoria
solo se là, nel paese natio,
una tomba di meno si contasse.

11 ottobre 1864

*

Ci sono nel campare mio straziato
ore e giornate più di altre crude
– giogo pesante, carico fatale –
ed il mio verso non le può esprimere.

Tutto muore ad un tratto – tenerezza
è vietata, tutto è vuoto e scuro,
non si libra il passato in ombra lieve
ma sotto terra come salma giace.

Ah, sopra, nella chiara realtà,
ma senza amore né raggi di sole,
lo stesso mondo c’è, disanimato,
ignaro ed immemore di lei.

Io, solitario, tristemente ottuso,
vorrei conoscermi e non ci riesco –
barca rotta portata via dall’onda
e senza nome su sponda selvaggia.

Dammi, o Signore, un soffrire ardente,
ravviva Tu la mia anima morta,
lei me l’hai presa, lasciami il ricordo,
la viva pena lasciami di lei.

Di lei che ha compiuto la sua opera
fino alla fine, in lotta disperata,
raggiante, a volte ardentemente amante
sfidando sia la gente che il destino.

Di lei che il suo destino non ha vinto
ma che da esso non s’è fatta abbattere,
che è riuscita fino alla fine
a soffrire, a pregare, a credere ed amare.

Fine marzo 1865

*

Sono quindici anni, oggi, amico,
dopo quel giorno beato e fatale
nel quale lei ha posto tutta l’anima
in me, donandomi tutta sé stessa.

E ora già da un anno, senza lamento e biasimo,
tutto avendo perduto, accetto il mio destino:
sarà fino alla fine del tutto solitario –
come solitario nella tomba sarò io.

15 luglio 1865

*

                                                              (in foto Christoph Ferber)

Alla vigilia dell’anniversario del 4 agosto 1864

Ecco che vado sulla strada lunga
nella luce tranquilla del crepuscolo …
Sento mancarmi le forze, sto male …
Ma tu mi vedi, cara mia amata?

Si fa sempre più scuro sulla terra,
se n’è andato l’ultimo bagliore …
È questo il mondo dove insieme fummo …
Ma tu mi vedi, caro mio angelo?

Domani, giorno di mesta preghiera,
avrò memoria di quel dì fatale.
Ma tu, angelo mio, ovunque sostino
le anime, mi vedi?

3 agosto 1865

fedor-tjutcev-copertina

Ediz Quaderni di Erba D’Arno

Un’altra volta sono ritornato
e ancora, come in un tempo passato,
guardo – che io sia ancora vivo? –
l’incanto delle acque della Neva.

Non c’è un bagliore nell’azzurro cielo
e tutto tace in un abbraccio pallido,
solo la luce chiara della luna
scivola sulla Neva pensierosa.

È in un sogno che mi appare questo
o guardo veramente, realmente
quello che con la medesima luna
l’un l’altro vivi guardavamo insieme?

Giugno 1868

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PER IL COMPLEANNO DI ANNA VENTURA, UNA POESIA INEDITA A memoria di spiaggia, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa a proposito della «chiacchiera» in T.S. Eliot

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

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 Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in…

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Flaminia Cruciani POESIE SCELTE da Semiotica del male (Campanotto, 2016), con un Appunto dell’Autrice e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Romana, Flaminia Cruciani, si è laureata in “Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico”, presso “Sapienza Università di Roma” sotto la guida del Prof. Matthiae, e ha poi conseguito il Dottorato di Ricerca in “Archeologia Orientale” nella stessa Università, con una tesi su “L’iconografia degli dei nella glittica paloesiriana”. Ha poi conseguito un Master di II livello in “Architettura per l’Archeologia – Archeologia per l’Architettura” per la valorizzazione del patrimonio culturale. Per lunghi anni ha partecipato alle annuali campagne di scavo a Ebla in Siria, in qualità di membro della “Missione archeologica italiana a Ebla”. Ha conseguito poi una seconda laurea in “Storia dell’arte” ed è esperta di iconografia e di Visual studies. Presso “Sapienza Università di Roma”, ha tenuto annualmente corsi sul rapporto tra l’iconografia e il testo nella tradizione mesopotamica. È autrice di pubblicazioni a carattere scientifico e consulente nell’ambito di diversi progetti archeologici dell’Università e del Comune di Roma. Si è specializzata, inoltre, in Discipline Analogiche, attraverso lo studio dell’Ipnosi Dinamica, della Comunicazione Analogica non Verbale e della Filosofia Analogica, conseguendo il titolo di Analogista. Ha inventato il Noli me tangere, uno strumento di aiuto fondato sulla metafora e sul potere evocativo delle immagini, in grado di favorire il processo di individuazione della persona. Nel 2008 ha pubblicato Sorso di notte potabile, ed. LietoColle, e Dentro, ed. Pulcinoelefante. Nel 2013 ha pubblicato Frammenti, ed. Pulcinoelefante. Lapidarium è uscito nel 2015 con l’editore Puntoacapo, mentre “Semiotica del male” è del 2016, ed. Campanotto. Suoi testi letterari sono presenti in numerose antologie, italiane e straniere. Ricordiamo la recente antologia 42 voci per la pace, ed. Nomos. Suoi testi poetici sono stati tradotti in spagnolo, rumeno, coreano e inglese.

Ha collaborato con la rivista Qui Libri e collabora con diverse testate giornalistiche. È stata selezionata fra i giovani poeti italiani contemporanei per il Bombardeo de Poemas sobre Milán, opera del collettivo cileno Casagrande. È  tra i fondatori e gli ideatori del Grand Tour Poetico, della Freccia della Poesia e del movimento culturale “Poetry and Discovery”.

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da un Appunto dell’Autrice: Risposta a Lévinas

 L’altro appare in me, non fuori di me e mi mette davanti a me stesso, a un senso anteriore comune dell’ente sull’essere, un’esteriorità che non fa appello né al potere né al possesso. I segni che racchiudono l’infinito si concentrano in un punto dell’universo che si chiama uomo e ne fanno un punto sterminato che contiene il bene e il male, come sponde della stessa acqua. Il suo volto nudo ci chiama alla santità, ci disarma, è la non violenza per eccellenza, irriducibile alla fenomenicità che esige una risposta: è il segno della sovranità dell’uomo sulla materia. Il volto riceve l’insegnamento dell’universo e supera incessantemente il tempo. Perché il volto dell’altro distrugge a ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che ci lascia e nella sua visione varchiamo la totalità. Ricordo il senso di estraneità che provai davanti al volto di mio padre che aveva appena lasciato la vita improvvisamente. L’espressione di quel viso sfuggito dalla natura, in cui le cose erano state dette, non era più attraversata dall’assoluto, lì non dimoravano più gli dèi.

Per questo quando l’uomo compie il male copre il volto, copre il segno irriducibile del suo rapporto con l’infinito, il segno di quella appartenenza gratuita all’universo. Se il volto inquadra l’universo, quando il male è compiuto, officiato e anche autorizzato, come nel caso del boia che taglia la testa, il volto viene coperto. L’uomo incappucciato si pone così fuori dal gioco, in una perdita d’identità, in cui interrompe quel rapporto di disvelamento dell’assoluto. Chi compie l’esecuzione? Non è più lui l’artefice. Il volto nudo dell’altro è il divino che parla dall’alto, non autorizza il male, lo scoraggia e pronuncia “non uccidere”. Ricordo lo sguardo pieno di paura degli uomini neri col volto coperto, entrati armati di notte nella mia casa, che mi chiedevano di non guardarli negli occhi. Certo non volevano essere riconosciuti, ma prima ancora non volevano riconoscere loro stessi e neppure l’annuncio del mio volto nudo, che suonava loro come una minaccia d’amore dalle profondità dall’altrove. Ricordo che mi chiesero perché non avessi paura. Ogni uomo è profeta e in lui arde il mito, che attende di essere riportato alla luce, e l’ininterrotta genealogia con l’infinito, dove in lui sono tutti gli uomini prima e dopo di lui, lui è tutti loro. Perché l’uomo è il testamento di dio. Se è attraverso il volto dell’altro che il divino si pronuncia, in una parola che è ascolto, e il suo è un suono creatore, il verbo, come ci insegnano le più antiche cosmogonie, il male è tutte quelle volte in cui il divino tace nell’uomo e s’interrompe l’infinito processo sonoro della creazione. Il male dunque è assenza di musica.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

tagliami la testa di argilla / schiuderò palpebre di paglia

Sono due versi della poesia di apertura del libro che bene indicano il modo di procedere delle fraseologie flaminiane nel loro presentarsi nella proposizione in forma di parallelismo e, caso più frequente, nelle forme accrescitive e additive che hanno l’effetto di tenere in compressione la versificazione fino al punto di farla erompere in uno o più punti con catacresi, iperbati e altri moduli accrescitivi degli enunciati. Al di sotto della imagery e degli enunciati si apre, o meglio, si disvela un universo traumatico di pulsioni rapsodiche in costante fibrillazione emozionale che parla «come refuso in bocca altrui» per un «diritto all’origine» che è stato dimidiato e spossessato. Quindi, ecco la parola detonante, altisonante: «L’umanità sprofonda sotto / il peso della sua sentenza spirituale» è detto all’inizio; al di sotto il «vuoto si cimenta in un assolo assordante». Questa è la cornice emotiva della poesia di Flaminia Cruciani: direi una poesia che sta al di sopra di appena un millimetro rispetto alle fluttuazioni emotive della sfera pulsionale. Una poesia sostanzialmente abreativa.

Un aspetto importante in questo tipo di poesia è la presenza del «tempo disarticolato», il che significa assenza di qualsiasi isocronismo e preponderanza del «tempo soggettivo» alla cui base c’è un momento moto-energetico pulsionale, un «lavoro speso» che contraddistingue la versificazione irregolare. Così, appare chiaro che i versi brevi e brevissimi, sia pure tenendo conto della soggettività del tempo pulsionale-frastico, hanno necessariamente un peso diseguale rispetto ai versi lunghi. Il ritmo delle proposizioni è uno dei fattori della dinamizzazione del verso libero in funzione delle «condensazioni» improvvise e delle articolazioni delle unità metriche variabili. La parola poetica nasce come irruzione simultanea di enunciati che introducono una complicazione e una deformazione della modalità enunciativa; sta qui la procedura compositiva fondata sugli elementi accrescitivi più che sugli elementi tonali.

Certi incipit sono enunciazioni dirette («La pistola puntata in testa»), che servono a creare il climax di attesa e di minacciosità tipica di questo tipo di poesia dove subentra di continuo il «tu», un interlocutore diretto che ha il «volto incappucciato», «nato in braccio a sua madre», e altre locuzioni accrescitive, tutte locuzioni edipiche «forti» che culminano in un climax di vero e proprio terrorismo metaforico («è la vendemmia dei girasoli all’inferno / il perdono è avverare l’aria»).

Il finale della poesia è la locuzione posta come titolo: «Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto», dall’inequivocabile spessore edipico-evangelico. Siamo arrivati dunque al punto: quella della poetessa romana è una poesia di origine edipica che ha alla base il rapporto con la figura paterna, con l’«incappucciato», colui che si cela il volto per non essere visto e riconosciuto. Semiotica del male è un libro che vuole colpire il lettore, che preferisce gli enunciati edittali. Libro intensamente voluto, avido, che rivela una autrice di rapace passionalità.

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flaminia cruciani foto di dino ignani-

Poesie di Flaminia Cruciani

GLI INNOMINATI

L’umanità sprofonda sotto
il peso della sua sentenza spirituale
nelle ferite inferte dalla menzogna,
banchi di nebbia
il mezzo dell’amore che ti portavi addosso
a confessione come un sacco
ti consumava il doppio di vita
un abbraccio di incertezza e fango
colmava il vuoto all’eternità.
Il vuoto si cimenta in un assolo assordante
colmo di ignoranza.
Ulcere sotto i miei piedi
procedo oltre il turno del mio dolore.
Il soffitto screpolato del mondo
crolla otto volte più pesante e brusco
tagliami la testa di argilla
schiuderò palpebre di paglia,
parlerò, d’accordo, demonio tentatore
racconterò in un canone breve
quella notte di novilunio durata anni
dirò lo sciagurato dente riposto
come refuso in bocca altrui
canterò le variazioni interrogative
che hanno accompagnato il diritto all’origine
intonerò piangendo l’urto delle virtù carnali
racconterò quelle stagioni silvestri
dagli innumerevoli petali
navigate senza albero maestro.
Vale appena un battito
e addormenterei il tempo ancora
lo incappuccerei alla spiacevole
circostanza dell’umanità posseduta
dall’equivoco nel suo apparato argenteo
riflessa su estremità di deliri irripetibili
periferie dell’umanità
riposte in illustri famiglie.

***

QUELLO CHE È MALE AI TUOI OCCHI IO L’HO FATTO

La pistola puntata in testa
mi chiedi di non guardarti in faccia
abbiamo scherzato
come il signore col servo.
Allora Tu sei sempre stata i miei occhi condannati
come una coda di cometa
e mentre mi inginocchio,
guardo il bracciolo della poltrona, penso
quanto ci metterò a tornare alla mia tenda con un colpo solo?
Coriandoli di carne come papaveri sul pavimento
la pace sarà radunata nella fortezza delle mie ossa
dispersa come sabbia in un numero di luce
e ogni cosa sarà posata in me.
Saprò il giorno tagliato d’invisibile
procurami un angelo per il mio grembo rotondo.
Poi penso a quel volto incappucciato come a un uomo
a lui che grida appena nato in braccio a sua madre
è la vendemmia dei girasoli all’inferno
il perdono è avverare l’aria.
In armature di padre in figlio
quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto.

flaminia-cruciani-dino-ignani

flaminia-cruciani foto di dino-ignani

Li avete visti?
Erano qui poco fa
non sono più gli stessi
scomparsi fra la folla
ripetevano “tu devi”.
Alle orecchie prostituite
dai presagi colpo su colpo
rimane un suono di petali
di calicicorpi compiuti
che la luce teme.
Non avevano volti
ma barili di calce
ostacoli di sete
tabernacoli in viaggio nel deserto.
Quanto è profonda la tua Itaca?
***
Nella prigione ad acquarello entra la luce
Gesù è in ginocchio a pregare verso la finestra
ma è di acquarello, fisso come un quadro.
Ho un senso di colpa dentro
è colpa mia se lui è in prigione
io l’ho relegato lì.
Ma lui non è arrabbiato con me
è in prigione perché quando c’era
non gli ho dato importanza
non l’ho riconosciuto.
***

Ortogonale a me stesso
come volessi infilare l’ago nella sua cruna.
Nel suolo inverosimile dei miei pensieri
la menzogna risplende in ogni verità
come un teschio a bagno in uno specchio
e non sai se andargli incontro o indietreggiare.
Immergo i piedi nello Stige
ascolto la parola dei morti.
Ognuno solleva la propria natura
in basso quanto vuole.
Ognuno vince la sconfitta che può.

***
E vidi un arcangelo ballare
contagiato dalla natura
scampanare la primavera
nello stesso ordine di
condanna dell’amore
sulla foresta di figli
dove il tempo è giovane
e va via senza salutare.

.
FRANCI

Ho ancora negli occhi
la piega del tuo ginocchio
quando prendevamo il sole
e la rovere d’oro dello stemma
che portavi al mignolo.
Quando guidavo come una pazza
per farti ridere andando in ospedale
tu dicevi “siamo invincibili” e avevo paura.
Mi hai telefonato per dirmi
che quello sarebbe stato
il tuo ultimo albero di Natale,
con la morte volevi punire
per sempre tua madre.
Ma lei ti ha reso ridicola
davanti a tutti per l’ultima volta
nel letto di morte con il vestito da sposa.
Ricordo che non ce la facevo
a guardarti mentre lei mi tirava.
Mi restano nel soppalco i tuoi diari
che non posso leggere
scritti con la calligrafia rotonda
e il male di frontiera
ricordi di noi ovunque.
La verità è che non riesco a scrivere di te,
che preferisco credere che non siamo mai state
che è stato tutto un incidente, anche conoscerci
su quella spiaggia in Thailandia
e vorrei scappare da questo
ultimo testo di questo doloroso libro.
Ora nelle profondità dei fondali
assecondi l’onda che amavi
diluita come non sei mai stata.

flaminia-cruciani-cover

Non sai a Sparta come si piangeva in silenzio
sulla somma degli antenati Dori
dai sepolcri affollati quando
si sposava un cielo inferiore
si malediva il padre e il suo
vangelo di bestemmie
screpolato dall’uso
ingoiati nel caos teologico
sporco di circo equestre.
Il cronometro scattava e si era già in ritardo
sull’addestramento guerriero
le catene da fissare con le
mani paralizzate dal freddo
per assaggiare la rovina di un miracolo
diventare forte come un esercito
una donna forte come un esercito
con l’orchidea schiacciata in pugno
a un passo dall’immortalità.
La pietà nucleare chiedevo
di poter piangere e gridare “riposo!”.
Avrei voluto una zattera di mandorle
ricoverarmi in un bacio.
Ma a portata di voce solo il silenzio
marciavo, la testa bassa
c’era un nemico da sconfiggere,
ero io.

.
***

INSHALLAH

Sono in un paese straniero
mi hanno catturata in un luogo dissestato dell’esistenza
mi interrogano al serraglio barbaro
delle domande impossibili
di come si traccia una lettera sconosciuta
di un alfabeto inesistente
mi chiedono di pronunciare
il centesimo nome di dio
se ho letto quel manoscritto mai scritto
se i demoni sono scappati dalle sue miniature
e so tenere fermo l’asse del fuoco
se so misurare la coppa del sole con il volto santo
e posso addomesticare il vento.
Devo convincerli come un mercante
che gli porterò quei frutti invisibili
che posseggo il vino che inebrierà dio.
Ma non so le regole
è come tirare a dadi l’esistenza
e poi decideranno in modo indiscriminato la mia sorte.
Chiedo ospitalità a quei volti, ma non sorridono
sono tamburi che battono a ridosso del sacrificio
e non lasciano scampo.
A quello prima di me
senza nessun motivo comprensibile
e in modo implacabile
hanno tagliato la testa in un colpo solo
affidandolo al battito eterno.
Io devo solo cavarmela e sperare.

***

Siete tutti traditori con le parole contate
avete piantato i coltelli nella mia schiena
voi che dovevate essere i migliori
mi avete sterminata nei vostri roghi di verbi
siate scomunicati dalla mia carne.
Siete tutti traditori con le mani levate
come Mosè quando Israele vinceva.
Vi siete impadroniti dei confini orientali dell’Impero
avete decapitato la mia statua
mentre marcavo il coraggio degli avversari
come vino antico bevuto da un’urna.
Siete tutti traditori con le parole contate
mi avete bruciata in un lembo dannato del vostro pianto.
Avresti mai detto che nell’edificio giusto dei miei occhi
avrei ospitato il vincolo apostata delle ossa
le catene di sangue rinnegate
destinate dal nome
franate premature in un sudario di sogni?
Non c’è più dio in quest’attesa ad afferrare battesimi.
L’arcangelo possente spalava la scena
lanciava in aria l’estremo delle vostre menzogne
ma la spremitura di esse in una mano
che al tatto obbediva e cresceva peso
e nell’altra il fulmineo impennarsi della sua fragranza
scandivano il contrappunto del tremendo.
Fa presto dio a venirli a prendere appena nati
dai loro troni di latte
annegali nella pazzia
impiccali verso il cielo
nelle piazze delle loro maledizioni sottovoce.
Dammi un’ora sola, l’ultima
per farmi il segno della croce sulle rovine di Sodoma
rovesciare i sacramenti sul mio cuore appagato
strappare il velo all’amore che non ho udito
sulle mani calde che non mi hanno accolto.
Fai leva sulla mia creatura
con l’elmo di Gerusalemme
ubriacami di sete
indosserò una bocca beata
che riderà anche di te.
Luciderò col Mandylion
la mia corazza eretica
ad arte la luciderò, che accechi
chi provi ancora a guardarci dentro.
Amen

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Rose Ausländer (1901-1988) POESIE SCELTE Patria madre parola a cura di Stefanie Golisch

 

Rose Ausländer

La Bucovina della nascita, l’America dell’emigrazione, la Romania del ritorno, la Germania dell’epilogo: in nessuna di queste terre Rose Ausländer (Czernowitz 1901 – Düsseldorf, 1988) riconosce la sua terra madre. Nel 1939 il suo primo volume di poesie, Der Regenbogen (L’arcobaleno), pubblicato per l’interessamento di Alfred Margul-Sperber. 

Nel 1941, per sfuggire alla deportazione, si rifugia con la madre nel ghetto di Czernowitz. Lì incontra Paul Celan, la cui amicizia avrà grande influsso sullo stile della Ausländer, che riuscirà finalmente a liberarsi del suo tono classicheggiante ed espressionista.

Nella primavera del 1944 l’armata rossa marcia su Czernowitz e Rose Ausländer lascia di nuovo il paese alla volta dell’America, si stabilisce a New York. Le vessazioni e la dura vita di quegli anni di conflitto e persecuzione antisemita hanno sortiscono un influsso molto negativo sulla vita pubblica e privata della poetessa che, delusa dalla storia e turbata nella psiche, prende a scrivere in lingua inglese per tornare al tedesco solo nel 1956, un anno prima di incontrare nuovamente Paul Celan, a Parigi.

Il suo secondo volume di poesie Blinder Sommer viene pubblicato nel 1965, questa volta con grande successo. Nel 1966 Rose Ausländer ritorna in Germania e, pur non conoscendo la lingua italiana, si reca più volte in Italia, in particolar modo a Venezia, che la affascina per la sua atmosfera.

È la lingua tedesca, quella che non ha mai abbandonato – anche se nel periodo vissuto a New York scrive in inglese – la sua vera casa nonostante la miseria, nonostante la persecuzione (è di famiglia ebrea), nonostante la malattia fisica e psichica che la colpisce presto e che negli ultimi anni della sua vita la costringe a letto.
Nonostante tutto, Rose Ausländer è la poeta della speranza che canta, a voce bassa, la vita in tutta la sua bellezza e terribilità. Disse di sé: Mi scrivo nel nulla. «Esso mi conserverà per sempre

pittura Paul Delvaux, Landscape with Lanterns, 1958

Paul Delvaux, Landscape with Lanterns, 1958

Bekenntnis

Ich bekenne mich

zur Erde und ihren
gefährlichen Geheimnissen

zu Regen Schnee
Baum und Berg

Zur mütterlichen mörderischen
Sonne zum Wasser und
seiner Flucht

zu Milch und Brot

zur Poesie
die das Märchen vom Menschen
spinnt

zum Menschen

bekenne ich mich

mit allen Worten
die mich erschaffen

Confessione

Confesso

la terra e i suoi
segreti pericolosi

pioggia neve
montagna albero

il sole materno assassino
l’acqua e
la sua fuga

latte e pane

la poesia
che ordisce la fiaba
dell’uomo

confesso

l’uomo

con tutte le parole
che mi creano

Versöhnung

Wieder ein Morgen
ohne Gespenster
im Tau funkelt der Regenbogen
als Zeichen der Versöhnung
Du darfst dich freuen
über den vollkommenen Bau der Rose
darfst dich im grünen Labyrinth
verlieren und wiederfinden
in klarerer Gestalt
Du darfst ein Mensch sein
arglos
Der Morgentraum erzählt dir
Märchen du darfst
die Dinge neu ordnen
Farben verteilen
und wieder
schön sagen
an diesem Morgen
du Schöpfer und Geschöpf

Riconciliazione

Ancora una mattina
senza spettri
nella rugiada scintilla l’arcobaleno
come segno di riconciliazione
Puoi gioire
della fattura perfetta della rosa,
puoi perderti nel verde labirinto
e ritrovarti
in una veste più chiara
Puoi essere umano
senza sospetto
Il sogno mattutino ti racconta
favole tu puoi
riordinare le cose
spargere colori
e dire ancora
bello
stamani
tu creatore e creato

Mutterland

Mein Vaterland ist tot
sie haben es begraben
im Feuer

Ich lebe
in meinem Mutterland
Wort

Patria madre

La mia patria è morta
l’hanno seppellita
nel fuoco

Io vivo
nella mia patria madre
parola

rose-auslander-1

rose-auslander

Nicht fertig werden

Die Herzschläge nicht zählen
Delphine tanzen lassen
Länder aufstöbern
aus Worten Welten rufen
horchen was Bach
zu sagen hat
Tolstoi bewundern
sich freuen
trauernd
höher leben
tiefer leben
noch und noch
nicht fertig werden

.
Non finire

Non contare i battiti del cuore
fare danzare i delfini
scoprire paesi
dalle parole chiamare mondi
ascoltare quello
che Bach ha da dire
ammirare Tolstoj
gioire
tristemente
vivere più in alto
vivere più in basso
ancora e ancora
non finire

.
Nachtzauber

Der Mond errötet
Kühle durchweht die Nacht
am Himmel
Zauberstrahlen aus Kristall

.
Ein Poem
besucht den Dichter

Ein stiller Gott
schenkt Schlaf
eine verirrte Lerche
singt im Traum
auch Fische singen mit
denn es ist Brauch
in solcher Nacht
Unmögliches zu tun

Magia notturna

La luna arrossisce
l’aria fresca attraversa la notte
nel cielo
raggi magici di cristallo

Una poesia
fa visita a un poeta

Un dio silenzioso
dona il sonno
una allodola smarrita
canta nel sogno
anche i pesci cantano insieme
perché si usa
fare cose impossibili
in una notte come questa

.
Noch bist du da

Wirf deine Angst
in die Luft
Bald
ist deine Zeit um
bald
wächst der Himmel
unter dem Gras
fallen deine Träume
ins Nirgends
Noch
duftet die Nelke
singt die Drossel
noch darfst du lieben
Worte verschenken
noch bist du da
Sei was du bist
Gib was du hast

.
Ancora ci sei

Butta la tua paura
nell’aria
Presto
il tuo tempo finirà
presto
il cielo crescerà
sotto l’erba
i tuoi sogni
cadranno nel nulla
Ancora
profuma il garofano
canta il tordo
ancora puoi amare
regalare parole
ancora ci sei
sii ciò che sei
dai ciò che hai

*

Neue Zeichen
brennen
am Firmament

doch

sie zu deuten
kommt kein Seher

und

meine Toten
schweigen tief

*

Nuovi segni
bruciano
al firmamento

ma

non c’è veggente
per interpretarli

e

i miei morti
tacciono profondamente

rose-auslander-una-poesia

Das Weißeste

Nicht Schnee

Weißer die Zeichen
die der Einsiedler
auf die Tafel der Einsamkeit
schreibt

Das Weißeste
Zeit

.
Il più bianco

Non la neve

Più bianchi i segni
che l’eremita
scrive sulla tavola
della solitudine

Il più bianco
il tempo

Wer

Wer wird sich meiner erinnern
wenn ich gehe

Nicht die Spatzen
die ich füttere
nicht die Pappeln
vor meinem Fenster
der Nordpark nicht
mein grüner Nachbar

Meine Freunde werden
ein Stündchen traurig sein
und mich vergessen

Ich werde ruhen
im Leib der Erde
sie wird mich verwandeln
und vergessen

Chi

Chi si ricorderà di me
quando me ne andrò

Non i passeri
che cibo
non i pioppi
davanti alla mia finestra
non il parco nord
mio verde vicino

I miei amici saranno
tristi per un’oretta
e mi dimenticheranno

Riposerò
nel grembo della terra
mi trasformerà
mi dimenticherà

Hoffnung II

Wer hofft
ist jung

Wer könnte atmen
ohne Hoffnung
daß auch in Zukunft
Rosen sich öffnen

ein Liebeswort
die Angst überlebt

.
Speranza II

Chi spera
è giovane

Chi potrebbe respirare
senza la speranza
che anche in futuro
le rose si apriranno

una parola d’amore
sopravvivrà la paura

rose_auslander-2

rose-auslander

Gib mir

Gib mir
den Blick
auf das Bild
unsrer Zeit

Gib mir
Worte
es nachzubilden

Worte
stark
wie der Atem
der Erde

.
Dammi

Dammi
lo sguardo
sull’immagine
del nostro tempo

Dammi
le parole
per riprodurlo

Parole
forti
come il respiro
della terra

.

Wo sich verbergen

Wo
wenn der Regen abspringt
von schmutzigen Ziegeln

wo
wenn der Damm reißt im
Gedächtnis und die
gestauten Wasser hervorbrechen

wo
sich verbergen

wenn sie dich anfallen
ungestüm
und sich verbünden mit
stürzenden Himmeln

.

Dove nascondersi

Dove
quando la pioggia
si stacca dalle tegole sporche

dove
quando la diga si rompe nella
memoria e le acque stivate
irrompono

dove
nascondersi

quando ti assaltano
impetuosi
e s’uniscono con
i cieli cadenti

rose-auslander

rose-auslander

Denn

Denn ich hab dir
nichts versprochen
nur den Docht für die Lampe
und das Kännchen Öl
für gedämpftes Licht
auf dem Tisch
mit den Blutflecken

Den Teppich
kann ich nicht weben
mit diesen Fäden aus Draht

Sag nicht Gute Nacht
die Nacht ist nicht gut
die fremde vergessliche Nacht

Poiché

Poiché non ti ho
promesso nulla
solo lo stoppino per la lampada
e il bricco d’olio
per una luce bassa
sul tavolo
macchiato di sangue

Non posso tessere
il tappeto
con questi fili di ferro

Non dire Buona notte
la notte non è buona
notte estranea senza memoria

Raum II

Noch ist Raum
für ein Gedicht

Noch ist das Gedicht
ein Raum

wo man atmen kann

Stanza II

Ancora c´è spazio
per una poesia

Ancora la poesia
è uno spazio

dove si può respirare

Weil

du ein Mensch bist

weil
ein Mensch eine Muschel ist
die manchmal tönt

weil
du in mir tönst
als wär ich eine Muschel

weil
wir uns kennen
ohne Namen und Samen

weil
das Wort Welle ist

weil
du Wort und Welle bist

weil
wir strömen

weil
wir manchmal
zusammenströmen

Wort Welle Muschel Mensch

.
Perché

tu sei un uomo

perché
un uomo è una conchiglia
che a volte suona

perché
tu suoni in me
come se fossi una conchiglia

perché
ci conosciamo
senza nome né seme

perché
la parola è onda

perché
tu sei parola e onda

perché
noi scorriamo

perché
a volte scorriamo
insieme

parola onda conchiglia uomo

Hoffnung IV

Mein
aus der Verzweiflung
geborenes Wort

aus der verzweifelten Hoffnung
daß Dichten
noch möglich sei

.
Speranza IV

La mia parola
nata dalla
disperazione

dalla disperata speranza
che è ancora possibile
fare poesia

.
Bukowina II

Landschaft die mich
erfand

wasserarmig
waldhaarig
die Heidelbeerhügel
honigschwarz

Viersprachig verbrüderte
Lieder
in entzweiter Zeit

Aufgelöst
strömen die Jahre
ans verflossene Ufer

.
Bukovina II

Paesaggio che mi
inventò

braccia di acqua
capelli di bosco
le colline di mirtilli
nere di miele

Canzoni fratelli
in quattro lingue
in tempi disuniti

Dissolti
scorrono gli anni
alla riva di una volta

.
Dichten

Sieben Höllen
durchwandern

Der Himmel sieht
es gern

geh sagt er
du hast nichts
zu verlieren

Fare poesia

Attraversare
sette inferni

Il cielo
è d’accordo

vai dice
non hai nulla
da perdere

.

stefanie-golisch

stefanie-golisch

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nove sue poesie sono presenti nella Antologia cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)

.

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Sabino Caronia OTTO POESIE INEDITE alla maniera di… con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e una Citazione di Alessandro Alfieri

foto-donna-macchina-e-scarpaSabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995).

Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).

Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal».

Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009), le raccolte poetiche Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) e La ferita del possibile (Rubbettino, 2016) .

 giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».1

Nel mondo disincantato anche la proposta di arte più feroce cade nella impostura del razionalismo globale che la vuole ammaestrata e ditirambica, mistica e soporifera, disincantata e perifrastica… È da qui che prende l’abbrivio la poesia carnascialesca e feroce di Sabino Caronia, peraltro cultore e autore di una poesia di idillici stati d’animo e di perifrasi amorose, vedi La ferita del possibile (Rubbettino, 2016). D’altro canto, per Adorno «la disartizzazione è immanente all’arte», «e questa discrepanza non è eliminabile mediante adattamento, la verità sta piuttosto nell’evidenziarla fino in fondo».2 La verità sta quindi nel ritracciare e riesumare i linguaggi già esperiti per evidenziarne, come nel caso in questione, la carica eversiva e scostumata. È quello che fa Sabino Caronia.

Caronia sa che il linguaggio è rappresentativo, instaura l’ordine del senso in luogo di quello dell’essere, inteso come pienezza chiusa, assoluta presenza. Ma allora, che sorta di rappresentazione è mai quella istituita da un significante così inteso?

Semplicemente, risponde Lacan, il significante (non) rappresenta nulla. O meglio, il significante rappresenta quel niente che il soggetto patisce una volta sottomesso alle leggi della parola. Un significante, in sé, non vuole nulla, cioè, non vuol dire nulla. E ancora: non esiste un in sé del significante, perché la significazione agisce nel coordinamento dei significanti tra loro.

L’unica differenza è che Lacan accorda al «soggetto» il posto evanescente del «significato», gli assegna il posto reso vacante oltre la barra, una volta introdotta cioè la scissione all’interno del segno linguistico. Ma se così stanno le cose allora il «soggetto» non è altro che quel nulla che il significante può rappresentare di volta in volta, quel significato che risulta, senza consistervi, dall’operazione differenziale della significazione.

La normalizzazione ha imposto in tutto l’Occidente un’arte, un romanzo e una poesia fattizia e fittizia, in una parola ideologica. Perché Sabino Caronia sa benissimo che c’è una ideologia del bel verso, una ideologia della bellezza, una ideologia per ogni cosa fungibile, e anche che una interiorità che si pretenda pura ha pure il suo loculo al banco dei pegni e il suo luogo nel mercato delle rigatterie; ecco perché Caronia impiega gli stessi stilemi e gli stessi mezzi dell’arte plebea, cafona e cafonesca di un Belli, ne risuscita il linguaggio feroce e imbelle, lo riaggiorna e lo reinventa. Incredibile ma vero, ormai i linguaggi si danno allo stato di frammenti significanti, sono dei corpi essiccati conservati in frigorifero che possono essere rivitalizzati con un buon magistero stilistico e un corredo stereofonico. È quello che fa Caronia.

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E poi c’è ancora qualcuno di noi che ancora non si capacita di questo stato della nostra civiltà, la quale si offre come un gigantesco ipermercato di frammenti, di universalia, e di fetenti e continua a pensare all’arte e alla poesia idealisticamente come ad un discorso immanente che ha un inizio e una fine, un’onda fonetica e altre bazzecole da libro Cuore. Caronia, il rarefatto poeta idillico, sa tutto ciò, lo dà per scontato, ha bisogno di rivolgersi ad un interlocutore concreto: il sottoscritto, il suo mentore, l’Alter Ego, per apostrofarlo in modo beffardo e ribaldesco: «A Giorgio Linguagro’, nun fà er cazzaccio»; il bello è che c’è presente anche il poeta Alfredo de Palchi, citato romanescamente così: «Sor De Palchi»; ed ecco le «settacce bbuggiarone» dei poeti sempre in conflitto e astio reciproco, ci sta il «monnaccio», «er croscione» [la croce che i fedeli portano in processione], l’invito a «Mostra li denti, caccia fora l’ogne». Insomma, c’è un’umanità lutulenta e facinorosa, quella dei poetastri da strapazzo, le poetine da gipsoteca e i poetini da talamo feriale…

Sabino Caronia rivela qui la sua magistrale capacità di metamorfosarsi e mimetizzarsi tra le catene significanti che costituiscono i linguaggi poetici in poeta idillico e in poeta belliano, a secondo delle circostanze. Anche questo rientra  tra le possibilità stilistiche del Post-moderno, questa camaleontica capacità di Sabino Caronia di sublimare e desublimare ad libitum i linguaggi artistici del tempo trascorso ridotti allo stato di frammenti significanti disartizzati e destrutturati.

SUL FRAMMENTO

di Alessandro Alfieri (nel saggio di cui a “Aperture” n. 28, 2012, scrive):

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.

Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.

1 T.W. Adorno Teoria estetica Einaudi, 1975 p. 85
2 Ibidem p.82

Er momoriale

A Giorgio Linguagro’, nun fà er cazzaccio,
svejete da dormì, brutto portrone,
Sor De Palchi t’ha ddato lo spadone
p’annà a rifà le bbucce a sto monnaccio.

Duncue, a tte, ffoco ar pezzo, arza quer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
serreje er tu Parnaso a catenaccio.

Mostra li denti, caccia fora l’ogne,
sfodera n’anatema eccezionale
da falli inverminì come carogne.

A n’omo come noi de carne e d’osso
te l’arivorti tutto, tale e cquale.
Coraggio, amico mio, taja ch’è rosso!

Na bona nova

Se sa, er sor Coso se la lega ar dito
ma mo, dice, se so pacificati.
Che casino! Ma mo’ tutto è finito,
mille scuse, e se so puro abbracciati.

Tra tante delusioni e fallimenti
sta bona nova proprio me consola.
Me dispiaceva ch’arestasse sola
sta pora fija a soffrì pene e stenti.

Dice, però, che prima de fa pace
l’amico nostro j’ha fatto l’esame
pe’ vede’ se sta donna era verace.

Dice che ne lo scritto è annata male
però va mormoranno quarche infame
che s’è sarvata co la prova orale.

Il Giubileo Vecchio

Rinfodera la spada
angelone mio bello
abbandona il castello
e va per la tua strada.

A compiere l’impresa,
Gloria in excelsis Deo,
c’è Santa Madre Chiesa
col Santo Giubileo.

Che giovani giulivi
sui prati a Tor Vergata,
quanti preservativi
e che bella scopata!

Piacere originale,
stato senza peccato!
Che fine ha fatto il male?
L’hanno sponsorizzato!

I miei amici

Dicono che il paese
dell’anima è l’assenza,
io ne ho fatto esperienza
e ne pago le spese.

Dicono che l’amore
ha un suo linguaggio muto
io stronzo ci ho creduto
e muoio di dolore.

Parlan d’amore fino,
d’amore alla lontana,
poi chiedono un pompino
alla prima puttana.

Se

Se veramente fossi
l’amore che tu ami
vorrei che fosse sempre,
che sempre fosse amore.

Ogni giorno sarebbe
il più bello dei giorni,
se veramente fossi
l’amore che tu ami.

Vorrei che fosse sempre,
che sempre fosse amore,
se veramente fossi,
ma sono quel che sono.

Perdono

A chi mi toglie tutto voglio ancora
regalare qualcosa, ultimo dono
che l’accompagni nel fatale andare
su questa terra e quindi oltre la vita.

Sento che sono vecchio e sono stanco
e che per me la fine è ormai vicina,
così, per debolezza, li perdono,
ma confido che Dio non li perdoni.

L’appuntamento

Tacita stella che di notte vai
sempre obbediente ai calcoli del cuore
dammi un appuntamento dove sai,
dove non c’è miseria né dolore.

Il vento ci porterà via

Nella mia breve notte il vento, ascolta,
corre all’appuntamento con le foglie.
Nella mia breve notte, messaggere
di lutto, in cielo passano le nubi.

A che serve un ricordo? Le tue mani
poni sulle mie mani innamorate
e col dolce calore delle labbra
scalda, ti prego, le mie labbra ancora.

Dietro quella finestra c’è la notte,
c’è la notte che passa e non ritorna.
Una notte e poi nulla, poi più nulla.
Domani il vento ci porterà via.

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi – Adam Vaccaro nota critica su Alfredo de Palchi: Dettami e Risorse del Paradigma (2006) con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

pittura-astratto49-digital-work-printed-on-canvas-130-x-100-cmAlfredo de Palchi, nato a Verona nel 1926, vive New York, dove dirige la Casa Editrice Chelsea Editions. Il suo lavoro poetico è raccolto in 8 libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; trad. inglese di I.L. Salomon, October House, New York, 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988); The Scorpion’s Dark Dance (trad. inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, California 1993); Anonymous Constellations (trad. inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California 1997, versione italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Minturno, 1998); Additive Aversions (trad. inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, California, 1999; Paradigma (Caramanica, Marina di Minturno, 2001). Paradigma, Tutte le poesie: 1947-2005, ripubblicato da Mimemis Hebenon, Milano, 2006; e Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, New York, I ed. 2013. nel 2016 pubblica in italiano Nihil (Stampa2009)

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Nota critica di Adam Vaccaro

Dettami e Risorse del Paradigma di de Palchi
Testo critico di Adam Vaccaro inserito nel volume antologico appena uscito, Passione Poesia, CFR Ed., Milano, novembre 2016

.

Due nomi subito connessi alla scrittura di Alfredo de Palchi: François Villon e Arthur Rimbaud. Del primo troviamo anche sentenze poste in esergo – la prima, Ce monde n’est qu’abusion. E di Rimbaud, richiamato pure in qualche testo, ricordo che sottolineava l’importanza del punto di partenza, umano o creativo, infernale o no. L’età adulta di de Palchi inizia nell’immediato dopoguerra in modo orribile, con anni di carcere e sevizie, per accuse di crimini poi risultate infondate. Impossibile immaginare sofferenze e segni inferti al Soggetto Storicoreale (SSR) in quel cupo recinto di spazio-tempo. Abbiamo però i versi che vennero graffiati, prima su muri ignobili e poi trascritti su carta dal Soggetto Scrivente (SS). Versi de La buia danza di scorpione (1947-1951), parzialmente in Sessioni con l’analista (1967), interamente in The Scorpion’s Dark Dance (California 1993) e infine in Tutte le poesie 1947-2005 di Paradigma (Mimesi-Hebenon 2006), cit. PT, e in Selected Poems 1947-2009 di Paradigm (Chelsea Ed., 2013), cit. PA.

Scelgo, non solo per il titolo, la poesia Paradigma del 1964, testo esemplificante una scrittura che, se molto ha cambiato lungo il suo percorso – inevitabilmente, se si concepisce la scrittura come traduzione di quanto sperimentato fuori dalla pagina – rimane costante nel nucleo profondo di stile, innervato nella ricerca di adiacenza e/o di coinvolgimento della totalità del SS. Questa composizione lo evidenzia con efficacia e forza straordinaria attraverso la tessitura di una catena di immagini e suoni del senso – in O/U, occhio-uovo-uomo-uragano –, che compongono una circolarità aperta, spiraliforme. Chi sa penetrare il reale distrugge le sovrastrutture false o superflue e apre, crea. La serpe è fatta simbolo e “mano stupenda”, “paradigma”, che congiunge alto e basso di sé (piede e mano) col suo occhio freddo, che però non cade in deliri (raziocinanti) di onnipotenza o sbocchi nichilisti, perché coinvolge il (pro)fondo fragile: scrigno ignoto di sacro e lingua che apre a re-azioni (da re di sé) vitali e biologiche, territorio mobile emozionale da cui può scaturire nuova energia e possibile rinascita. Una tensione antropologica e civile, ma lieve di ideologia.

È una poesia trasparente e complessa che non basta a se stessa, germinata da storia, geografia, esperienze di gioie e dolori, pensiero, amori, giudizio e carne, insomma dalla totalità e unicità del SSR, tradotta dal SS in una forma nuova-antica, voce di senso umano, anche quando questo sembra perso senza rimedio.
La modernità della scrittura depalchiana sta nel suo intreccio fenomenologico, che non ha soluzioni e ci chiede perciò la responsabilità di direfare, qui e ora, rovesciando la morte della vita imposta da orrori e poteri: “Fra le quattro ali di muro/ circolo straniero a pugno/ serrato…la parola è nella bocca dei forti”; “Concluso tra vilipendio/ e menzogne/…non so chi e cosa dovrebbe/ capitare a un figlio come me/ un quaderno di scritture per testimonianza” (PA, p.22); “mi mangio maturando e sulla pietra/ raspo per una vita dissimile” (PT, p.82); “Pane è pietra/ la sete pietra/ ho metri di pietra/ mordo la pietra”, ma “C’è in me dello spazio”, ”muro lustro d’aria”, “di me che sogno di uccidermi” (PA, p.24); “Il pezzo di pane mi nutre/ in una putredine di patria” (PT, p.71); “la collera della mia età è uno strappo/…entro me lacerato.” (PA, p.160);

“ciò che non vorrei apprendere o ammettere/ fra un miscuglio incongruo di oggetti/ di gente senza direzione/ che precisi i punti di ‘partenza ‘arrivo’/…formando…una roccia/ di collera nel ventre e vulnera/ la pera del cuore” (PT, p.192).

L’importanza dell’origine e dell’alveo costitutivo è, per de Palchi, L’Adige: “il principio/…con l’abbietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni”; “Mi dicono di origini/ sgomente in queste acque: qui sono erede/ figlio limpido – ed amo il fiume/ inevitabile” (Il principio, PA, p.4).

Ma il Sé non può dire di sé, se non viene oggettivato dall’Altro della Lingua, per cui è inevitabile il rischio di parole-suono appagate solo di se stesse e del fascino di intrecci di falsovero, che a volte oscurano la gioia di conoscere. Aiutano il Resto e le lingue del corpo: “Ti si offende…malmenato sulla cassa rovesciata/ e ti si sgozza l’intelligenza, mentre il sangue ti sballotta” (PT, p.82).

E se tra origine e corde in atto di falsità “Nessuna certezza/ dalla spiritualità arcaica del mare”, “conscia/ dell’inarrivabile bagliore” (PA, p.146), viene fatta fonte di vita la sua negazione, in una riversa clessidra di nuovo inizio: “Uovo che si lavora nella luce ovale/ nuovo adamo/ invigorisco nell’altrui simulazione”, seppure “anch’io sono, io/ mi credo” (PA, p.20).

Il punto fermo è che “In mano ho il seme/ nero del girasole –/so che la luce cala dietro/ l’inconscio…e ho questo seme/ da trapiantare” (PA, p.6), “Nel chiasso/ di germogli ed uccelle/…trebbie e cortili che alzano un fumo/ buono di letame”; “Estate/ frutto propizio seno biondo/ …calata di sensazioni// nel belato d’alberi…tutto scompiglia: il verde-/ verde” (PA, p.8); “Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana/ bellezza mi viene sui ginocchi//…la bruttura che possiede” (Carnevale d’esilio, PA, p.20).

foto-citta-grattacieli

.

Dunque, tra canto e orrori, “Ciminiere fabbriche/ del concime e dello zucchero/ barconi ghiaia e qualche gatto/ lanciato dal ponte/ snaturano questa lastra di fiume/ questo Adige” (PA, p.10); “tra convulsioni di case/ e agguati…mentre scoppiano argini e barconi/ nuoto” con i “miei pochi anni”, mentre “Ad ogni sputo d’arma scatto/ mi riparo dietro l’albero e rido/ isterico” (da Un’ossessione di mosche, PA, p.12); mentre “Una madre sradicata del ventre geme/ per il figlio/…al palo del telegrafo penzola con me/ afferrato alle gambe (PA, p.14), sognando di “Non più/ udire il tonfo dei crivellati nel grano/…negli incendi e bui guazzi/ nell’Adige// vedere un branco di vili osservare/ chi s’affloscia al muro” (PA, p.16); mentre “Al calpestio di crocifissi e crocifissi/ sputo secoli di vecchie pietre/…e sputo sui compagni che mi tradirono”. (PA, p.18)

La guerra e le sue ignominie sono l’inferno da cui il SSR cerca possibilità di risalite. Trovate nella donna, centralità solare e energia vitale che consente di proseguire, anche se immersa nelle stesse contraddizioni irresolubili dell’uomo, tra tensioni di infinito e deliri di potere dell’Io. Dunque donna non idealizzata o spiritualizzata, ma corpo materno e fraterno, simile e diverso, unica nostra possibile prateria di liberazione: “accoglimi nella bocca materna/ soffice, nutriente di liquidi/ sorgenti dal vasto terreno che poco si adegua/ alla pochezza di me imbrattato”; “la chimica della mia materia/ precipita nella tua che si rinnova” (PA, p. 220); “sei l’acqua dell’origine che sporge/ la tetta gonfia di maternità/…uguale al serpe ti assorbo intera/ e tu da madre terraquea/ chiami alla nascita il mio ritorno all’aurora/ del grembo, la dimora/…per lo spirito in frammenti (PA, p.320).

La poesia di de Palchi scuote la nostra identità lacerata da modernità e post-modernità, per riproporre tra tanta inconsistente poesia di carta la disperazione e l’orgoglio di un paradigma di senso e di utilità antropologica della propria parola. Sapendo che ogni segno-parola (verde, uovo, uomo, serpe…) è su un crinale di sensi polisemico, e siamo solo noi a declinarlo in positivo o in negativo.

Il canto della vita che esplode contro “il mostro del vivere in mezzo/ al verde brutale, acido/ / il silenzio nel silenzio del silenzio” (PA, p. 290); “Dichiara il sistema del silenzio,/ sporca la pagina con la goccia di letame, / che ogni crescita spunti” (PA, p.288); Giallo// rosso cinabro// arancione/ il verde malato dell’autunno che trasgredisce” (PA, p.292);; “ Che dire di noi/…con quattro gatti/ che appiattiti sul tavolo/ seguono lo scorrere della penna/ su questa carta;/ nei loro occhi noto la lucentezza/ di te, di tutte le donne/ – forse solo questo volevo dire” (PA, p.210); “Sei: anagramma, motore/ ricettacolo, luce”; “sono: anagramma, asso/ asmatico, virilità” (PA, p.184); “Concepire l’assoluto naufragio….niente in vista/ eccetto un puntiglio rozzo/ nella corrente non ortodossa –/ ma la forza dell’errore compulsivo/ mi afferma/ per la controcorrente che conferma statica/ la posizione finché la mia totalità/ si esaurisce contro quella immune forza” (PA, p.170), “e la serpe che si sguscia/ abbietta, umana” (PA, p.252).

L’azione della scrittura di de Palchi è su una corda sensibile e vitale, necessaria quanto più è conscia che “il mondo è un abuso”. La poesia si fa arma estrema contro tale abuso, che tende a uccidere in noi orizzonti di speranza. Morire vivi, senso di “Contro la mia morte” (Padova, 2007 e PA, p.376).

Paradigma

L’occhio della serpe è un qualsiasi dio –
uragano che scopre fondamenta
travi chiodi
e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciando al raso
il reale più fecondo

Questa la serpe bella fredda
testa piatta a triangolo a stemma
di religione – l’amo perché strisciando
sibila con sveltezza la lingua
sulla centrifugazione degli oggetti
e nell’occhio centra stolidamente
le emozioni di chi non sa reagire

Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda – il paradigma.

(1964)

giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaAppunto critico di Giorgio Linguaglossa

Quando mi capita di riflettere sulla poesia di Sessioni con l’analista (1967) e, in generale, sull’intera opera poetica del Nostro, mi convinco sempre di più che l’originalità della sua poesia è in quel girare incessantemente intorno al suo oggetto misterioso, alla sua «Cosa». È la forza segreta della poesia depalchiana. Anche in questi ultimi due lavori: Nihil (Stampa2009, 2016), e Estetica dell’equilibrio (inedito), si può notare che de Palchi è infinitamente libero nel suo discorso, libero di divagare, di allontanarsi dal tema del discorso e poi di ritornarvi, e di contraddirsi, libero da condizionamenti di scuole, da precetti, da mode, libero di non seguire nessun modello proposizionalistico del discorso poetico, nessun modello eufonico o cacofonico della neo-narratività poetica oggi purtroppo di moda; de Palchi non cerca la dissonanza per la dissonanza, non cerca una presunta originalità, non insegue mai effetti speciali sta sempre piantato con i piedi per terra in agguato e lancia i suoi acuminati strali contro l’«antropoide» delittuoso. C’è una fortissima carica impolitica e impoetica in questa sua furia iconoclastica che si ripercuote anche sull’ordine del discorso e sul «modello» poetico che lo sottende e lo sorregge. È un modo di fare poesia senza rete. È una nuova e diversa visione del Logos poetico. Direi una visione ontologica del fare poesia. Per tutti questi motivi indico de Palchi come un antesignano di un diverso modo di intendere in Italia il discorso poetico. Sì, forse c’è dell’anarchismo, c’è della impolitica in questo suo modo di procedere e di intendere le finalità del discorso poetico, ma qui siamo in presenza del più vigoroso sforzo fatto dalla poesia italiana del secondo Novecento e contemporanea di abbattere il modello proposizionale del discorso poetico che si è fatto in Italia e, anche, in Occidente in questi ultimi cinquanta anni. E questo a me è sufficiente per portare la poesia di de Palchi come un esempio di grande coraggio intellettuale.

Ecco la ragione per la quale io adotto la poesia di de Palchi ad avamposto (non utilizziamo più la parola avanguardia ormai destituita di senso nel mondo di oggi) di una diversa organizzazione frastica di un discorso poetico libero da schemi e da pregiudizi formalistici e di scuole.

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Alcuni paradigmi dell’opera poetica di Alfredo de Palchi – saggio di Antonella Zagaroli – Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni ricchi di creatività

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni come questo riproponendo un saggio di Antonella Zagaroli sull’opera e la personalità del poeta italiano che vive a New York

 Alfredo De Palchi potrebbe definirsi un crogiuolo di esperienze umane e artistiche, la sua poesia un unicum delle une e delle altre nonché una tantum nel panorama letterario italiano. È a mio avviso cioè una singolarità italiana che precede il pensiero occidentale contemporaneo e anche futuro.

La vita e l’espressione artistica si fondono in lui in modo indissolubile come è sempre avvenuto per ogni autentico artista spesso dai suoi contemporanei isolato, tenuto da parte perché non integrabile nella generalità che li accomuna. Sonia Raiziss sua sublime traduttrice e compagna di vita per un lungo periodo ebbe a precisarlo in modo molto netto: “With Alfredo De Palchi the poet is the man. What he has known, what is has lived, is what he writes(…) The poet is the sufferer and the experience is the metaphor closest to itself.

Lo sottolinea bene Luigi Fontanella all’inizio di uno dei tanti saggi che il poeta e professore universitario (anch’egli diviso fra Italia e Stati Uniti) dedica a De Palchi: “credo che in pochissimi poeti della Modernità il nesso vita/poesia sia stato così stretto, così immediato, così fatalmente necessario, come in quella di De Palchi.1

E dopo aver letto attentamente la sua opera tutta io direi che i “paradigmi” tradizionali non solo della poesia ma anche del pensiero e del comportamento soprattutto di un uomo occidentale non si addicono a De Palchi. Daniela Gioseffi lo definisce “non conformista”2, Roberto Bertoldo parla del “suo piglio unico e dell’assoluta novità di linguaggio che si faceva sentire già nei tardi anni quaranta”3. La lettura evolutiva delle sue poesie ci introducono in un viaggio temporale che arriva oltre la contemporaneità sia nei temi sia nei registri stilistici utilizzati.

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De Palchi è nella vita e nell’opera un paradigma, non a caso è il titolo che lui stesso ha dato al libro che raccoglie quasi tutta la sua produzione poetica, eccetto gli scritti dal 2004 in poi. Paradigma è un titolo plurisemantico, è sì il paradigma, il modello, l’esempio che l’autore si riconosce desiderando altresì che da tale presupposto si rivolga l’attenzione alla sua poesia, contemporaneamente io lo intendo nel significato di enunciazione delle forme fondamentali del verbo (Verbo e anche forma verbale l’aspetto che dà alla scrittura il movimento), dei temi da cui derivano tutti i tempi. Non sono certa che De Palchi abbia volutamente attribuito un tal senso plurimo a tutta la sua opera poetica, sono però convinta che anche da questo punto di vista dovrebbe cominciare ad essere esaminato il suo lavoro. Dovrebbero cominciare a studiare i temi e i tempi dell’opera depalchiana quei critici seri e ascoltati che hanno la possibilità di far raggiungere la sua poesia al maggior numero di lettori possibili.

La poesia di De Palchi affonda profondamente nelle radici, nell’essenza di ogni essere umano, è una poesia terrestre per i temi e sublime per l’anelito, il gusto, il desiderio che lascia dentro chi la legge facendolo sentire accomunato al poeta e anche meno solo. Non è questo il sentire che stimola da sempre la grande poesia?

I tempi dell’evoluzione di pensiero, di scrittura e di esperienza personale li srotola lo stesso autore ponendo puntigliosamente, direi, ogni data precisa dopo ogni poesia.

De Palchi, che già dalla fine degli anni ‘40 ha coniato il neologismo “scentrato”, è proprio uno di quegli artisti che si nutre del punto focale di sé stesso e da questo fa scaturire la sua poesia. Come dirò in seguito il neologismo ha un significato tutt’altro che schizoide. In polemica con coloro che hanno parlato di eccessivo autobiografismo nella sua opera vorrei rilevare che ogni artista potente è stato ed è per forza di cose autobiografico. Coincidono cioè in lui/lei il movimento ideale e concreto che caratterizza il personale stile di vita, le sue scelte e quanto esprime tramite e nella propria arte. A questo proposito mi piace spesso citare una grande pittrice Frida Khalo, a cui sono molto legata. La Khalo a chi le chiedeva perché dipingeva essenzialmente autoritratti rispondeva che era spesso sola e se stessa era la cosa che conosceva meglio. Questo il punto, si scrive, si dipinge, si compone musica, si progettano sculture e architetture, si dirigono film partendo dalle cose che più si conosce. Che poi queste diventino patrimonio comune dipende dalla ricerca severa delle modalità che ogni creatore dovrebbe proporsi per raggiungere al meglio ciò che lo muove nell’azione espressiva.

Credo non esistano creatori autentici scissi da se stessi, possono essere separati, isolati dal contesto sociale perché troppo avanti (nella storia della cultura tutta quasi sempre è accaduto) ma non dal loro centro personale. L’arte e la cultura prodotte nell’ottica della scissione, cioè “cosa faccio di me è cosa diversa da quello che realizzo”, possono vivere il fuoco fatuo del successo, della fama in vita, delle vittorie, ma appartengono più al potere. La cultura è stratificazione di scoperta continua, di ricerca instancabile nella quale si intravede, si intuisce la visione dell’insieme. Un artista autentico non parte dall’idea di canonizzarsi e quindi segue il canone formatosi nei secoli, un artista autentico segue la spinta interna e cerca di realizzarla al meglio se poi ciò accadrà in vita o meno dipende anche dalla sua fortuna individuale (di solito legata al carattere), ma anche dalle difficoltà concrete (come accade per i tanti creatori perseguitati dal potere durante tutta la loro esistenza in passato come nel presente) e soprattutto dal coraggio di scavare senza remore ciò che vuole profondamente e di restituirlo senza ambiguità agli altri. Entra così nel canone, nel flusso ondulatorio, cioè, in cui gli esseri viventi sono immersi sapendo che “ è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso.” 4 come scrive De Palchi.

A questo proposito nell’intervista che Bertoldo pone come preliminare della raccolta di saggi dedicati a De Palchi l’autore dice espressamente: “La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina” Il senso paradigmatico del verbo cui facevo riferimento sta proprio in questo saltellare delle parole, è lì il loro movimento.

Ho saltellato anch’io lungo questa mia prima analisi della sua poesia così variegata.

Il criterio che ho seguito è quello tematico (seguendo soprattutto ciò che mi è affine e per esperienza e per poetica) e non cronologico. La buia danza di scorpione e Un ricordo del 1945 li ho trattati non con grande approfondimento, certo non per disinteresse o perché a me poco attinenti, tutt’altro, soltanto perché molti critici sono partiti o hanno centrato la loro analisi proprio su questi due testi, evidenziandone sia l’importanza poetica rispetto a scritti di altri poeti coevi, sia la matrice profonda da cui deriva tutta la poesia depalchiana e io volevo differenziarmi nel mio primo contributo critico a De Palchi.

Ho deciso di affrontare la complessità della sua poesia secondo un criterio personalissimo, soffermarmi o su testi che sono stati affrontati dalla critica in modo forse troppo tradizionale, anche se profondo, come Sessioni con l’analista, o su tematiche ricorrenti in molte raccolte che ho tentato di ricomporre in un puzzle unitario: la desolazione e l’alienazione dell’individuo in tutto il novecento fino ai primi anni del nuovo millennio, la vita resa sacra dalla “terraqueità” della donna, dal sesso, l’incontro-scontro con l’ultimo lembo dell’essere terragni, ciò che forse ossessiona di più la contemporaneità, il rapporto con la Morte.

La poesia di De Palchi è composta dal sangue suo e di quanti sono stati coinvolti nelle sue esperienze ma è il sangue, la materia, la mente che ha scoperto dentro di sé, materia complessa che poi lo lega, collega a tutto il resto.

Sono
—– questo il punto / idea connettivo.
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza ¬¬- coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli e trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.

Parto da questa poesia proprio perché è la chiave del rapporto dell’autore con tutto ciò che lo circonda, una raggiunta consapevolezza esistenziale che ha inizio dagli anni della detenzione e poi dell’espatrio dall’Italia rivissuti e ricostruiti  interiormente e artisticamente nel poemetto Sessioni con l’analista pubblicato in Italia con Mondadori nel 1967 e finalista al premio Viareggio dello stesso anno. È fondamentale ricordarsi questa data per capire il passo in avanti di De Palchi come autore rispetto al contesto letterario italiano e non.

In Sessioni con l’analista egli entra nel racconto poetico del percorso di scandaglio interiore proprio della psicoterapia quando la cultura italiana era ancora in gran parte digiuna dell’importanza della conoscenza e dell’approfondimento personale base della crescita interiore e artistica. Anzi questo percorso è stato molto spesso snobbato dalla cultura letteraria italiana non soltanto degli anni sessanta e settanta ma anche successivamente.

E cosa fa letterariamente De Palchi nella sua opera, anticipando qualsiasi successivo tentativo simile?

Il testo è una sorta di nuovo percorso dantesco, prende forma dalla necessità di un uomo di 40 anni “nel mezzo del cammin” della vita per gli uomini e le donne del XX e XXI secolo, che ripercorre l’inferno e il purgatorio delle esperienze esterne e più intime affrontate senza inibizioni dall’uomo e dall’artista De Palchi. Una delle prime indicazione della cifra di questo autore è proprio il coraggio, la non necessità personale di affidarsi a comode finalità editoriali che seguano la moda del tempo.

Le poesie di Sessioni con l’analista, anticipatorie e più compatte di tanto sperimentalismo italiano, appartengono, a mio avviso, allo stesso fiume creativo innovativo di The sound and the fury di  W. Faulkner, di alcuni momenti dello Ulysses di J. Joyce. Come in quelle operazioni narrative nel poemetto di De Palchi vengono proposti stilemi linguistici consoni alla struttura evolutiva di una comunicazione interiore stravolta dal disagio emotivo. De Palchi percepisce dentro di sé una situazione intrapsichica che si diffonderà sempre più consapevolmente nelle persone più sensibili dal secondo dopoguerra in poi. Sono gli anni in cui l’essere umano, ancora immerso in un contesto frantumato che propaga schegge continue, quasi in modo esponenziale si rende conto dell’isolamento, dell’alienazione a stesso e  agli altri, all’altro. Per inciso la realtà attuale è impregnata di questo sentire nonostante il new deal degli ultimi 50 anni essenzialmente tecnologico e di facciata.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

Sessioni con l’analista per chi, come me, abbia avuto esperienze professionali e/o  personali di terapia (anche se De Palchi al momento della scrittura non ne aveva avute, come racconta in molte sue interviste) sa bene che l’accavallarsi di pensieri fra ricordi diversi e momenti presenti, la ricerca della parola che aiuti a dipanare i nodi che si aggrovigliano in colui/colei che si trova in uno stato di disagio esistenziale, di malessere continuo che lo blocca in ogni azione, è esattamente il momento in cui si arriva a chiedere un aiuto psicoterapeutico.

Così cominciano le Sessioni e De Palchi in 23 momenti riporta poeticamente tutta l’evoluzione linguistica propria del processo terapeutico.

La prima sessione comincia con “ – difficile – / dico ” e prosegue con una sorta di elenco di oggetti seguiti da un aggettivo “pietrificato / quanti milioni di anni? –”, questo è proprio lo stato d’animo iniziale di chi comincia un percorso di consapevolezza psicologica. Ogni paziente comincia con parole che esprimono lo stato di difficoltà in cui si trova. Ci si guarda intorno nella banalità quotidiana, ci si scopre rigidi, pietrificati. La volontà di chi è spinto a cercare un aiuto psicologico è proprio quella di muoversi dalla fissità, dallo stallo emotivo e fisico, dalla impossibilità di trovare modi di essere diversi da quelli che fanno star male. E la prima sessione continua con

“non so come, da quale mia geologica età
cominciare: estrarre il magma;
impossibile
cominciare il gergo inconcluso
attorcigliato…….”

Queste sono quasi esattamente le parole di chiunque comincia un iter di consapevolezza interiore. Fantastico l‘aggettivo “impossibile” voluto solitario nel bianco della pagina. Ogni paziente sente che ciò che vuole fare è difficile e va avanti si ferma e poi si dice e dice che è “impossibile” continuare. Il linguaggio dei pazienti in analisi si struttura in un andirivieni fra l’avere coraggio di proseguire per scoprire che si hanno altre possibilità per se stessi e che è proprio quel blocco “bianco….difficile….gelido” che non fa trasformare le parole in un “gergo udibile”.

La seconda sessione dispiega il paradosso dell’“ (incomunicazione) ” e del produrre “frammenti”, termina con un’altra parola preceduta dal prefisso inincompiutezza”. È tale parola la prima goccia dello scioglimento del “gelido” e compare qui anche un’altra chiave comunicativa di ogni paziente: “perché”. “Perché” torna più volte in tutte le 23 sessioni, come torna “la segretaria”, il personaggio pseudo interlocutore delle sessioni. “Perché” è indice del tormento, dell’ossessiva ricerca di una spiegazione che non viene data e che il paziente stesso non si dà.

Nella terza sessione il ghiaccio si è rotto e comincia la narrazione terapeutica dei fatti. Si parte dal passato più lontano, dall’infanzia: “ragazzo timido, chiuso” e poi, ad “esempio”, racconta un episodio chiave per la lettura della persona, l’uccisione non realizzata completamente di un coniglio. Analiticamente parlando il paziente comincia a svelare se stesso. “——- anni dopo il coniglio (dicembre 1944).

Nella ottava e nona sessione l’autore arriva al momento iniziale della consapevolezza: “oggi”, “—incomunicabile—-” entrambi isolati nella pagina bianca. È l’essere umano De Palchi che si svela e il poeta De Palchi evidenzia la significazione profonda col suo stile unico di parole isolate costituenti un unico verso e contenute da linee continue.

Nella nona il “che significa, devo sapere, poi…—–” all’ultimo verso crea la continuità dell’azione e il desiderio di sapere di più e in lui e nel lettore.

I frammenti degli episodi si collegano nella decima e undicesima sessione fino alla tredicesima con  “sesto senso” “attendo il sesto che unisce il tutto” “in unisono—–”,  il sesto senso dell’unicità in De Palchi fino alle opere successive è quello dell’incontro, della comunicazione, dell’unione con la donna.

Nella quindicesima i ripetuti “non capisco” e “non capisci” rivolti alla sua gatta analista ma anche a se stesso e poi “difficile capire” e “non capisci che una parte di me / è oltre la realtà (…)” indicano esattamente il momento terapeutico in cui il paziente inizia ad andare oltre le sue ossessioni e la propria immobilità. Sta finalmente accettandosi così com’è, nella difficoltà di comprendere tutto.

Da qui comincia a reinserirsi nel mondo anche se con “—–la testa ad uovo/ e il corpo a pesce—-

Nella diciottesima viene indicato quale può essere il legame fra i frammenti, “il libro” e arriva la dichiarazione: “la mia comunicazione è stabile—–”. La comunicazione stabile è dunque la scrittura e viene apertamente dichiarata anche al lettore.

La chiusura analitica inizia dalla diciannovesima sessione con i tre versi finali:

“non è ch’io voglia essere capito, nessuno
capisce nessuno: voglio me
in me stesso, il perché del tuo “perché”

Credo che ogni psicanalista o psicoterapeuta vorrebbe un tale consapevole paziente e ogni poeta vorrebbe far coincidere nelle parole scelte il sentire profondo suo che coincide con quello d’ogni essere umano, anche se De Palchi in molte sue interviste nega la volontà di partecipazione ai problemi degli altri esseri umani. Ma De Palchi nella sua esasperata autenticità conferma la chiave di ciò che lo lega agli altri e lo rende esemplare artista. Se si parte dal se stesso profondo, dal focus personale che crea il movimento in vita, non preoccupandosi mentalmente di voler arrivare agli altri, proprio allora ci si mette in comunicazione, anche nostro malgrado, con chi ci ha preceduto, ci seguirà o è a noi contemporaneo. De Palchi uomo non si proclama amante dell’umanità anche se la sua poesia propone situazioni, espressioni, sentimenti che coinvolgono l’umanità e non soltanto nelle poesie erotiche come più volte sottolineato da molti critici.

Dalla ventesima alla ventitreesima delle Sessioni con l’analista la consapevolezza entra anche nella storia di sé ricomposta:

(il barcone della ghiaia
nell’Adige: corpo
primordiale che mi narra:
lievita la scia in cui divento
una lisca
ex pesce——questo
paesaggio d’apocalisse
acqua
pietra
è crudezza essenziale
e il fiume / prima speranza/
non sente non
sa della mia naufraga esistenza
non sente
non sa dell’arcaico presente)——-

nella ventiduesima scrive:“non mi occorrono radici per sapermi / sentirmi esistere(…)”.

Nel corso dell’ultimo appuntamento con “l’analista” il lettore è indotto ad autoanalizzarsi  attraverso il poeta, i versi in essa contenuti, infatti, potrebbero costituire una lunga grande domanda-risposta per ognuno di noi davanti alla realtà interna ed esterna. E potremmo tutti dire alla fine del percorso “—-solo, incomunicato, incomunicabile—-”.

De Palchi non termina il suo inferno-purgatorio come Dante in una visione paradisiaca, ci riconduce nel mondo occidentale che dalla metà del novecento arriva fino al nuovo millennio. L’incomunicabilità, la solitudine, luoghi emotivi e fisici della poesia depalchiana, sono anche i paesaggi dell’attuale era globale, virtuale, in cui la comunicazione autentica e veritiera è ancora apparente anzi può spaventare se diventa trasparenza.

Trovo che l’atmosfera di molta parte della poesia di De Palchi è l’ideale proseguimento della The waste land di T. S. Eliot, a sua volta erede delle visioni di W. Blake e della concretezza marcia di A. Rimbaud. Con la rabbia di F. Villon, a lui molto caro e del quale si riconosce erede, De Palchi, non cercandolo fuori accademicamente ma esclusivamente attraverso l’esperienza personale entra nel mondo del “Thunder rolled by the rolling stars / Simulates triumphal cars/ Deployed costellated wars / Scorpion fights against Sun” eliottiano. Quasi presi a caso dalla rilettura di The waste land  in questi due versi ritroviamo due titoli delle opere di De Palchi, La buia danza di scorpione e Costellazione Anonima. Quest’ultima soprattutto e Reportage (New York 1957) riportano la mente alla prima parte di East Coker e alla seconda parte di Little Gidding dell’opera di Eliot. In Reportage De Palchi scrive:

“sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione dei colombi che piovono dalle finestre
(…)
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale”
(…)
si apre l’industria religiosa:
il mercato è saturo
non c’è spazio
troppa gente vi partecipa
per sociale prestigio
o paura di guerre:
prestigio
guerre
ottimi affari——e voci al megafono:”
In Costellazione Anonima torna quasi ossessiva tutta la polvere di Eliot:
“Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadavere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.”

La distruzione delle macerie del mondo creato dall’uomo ha già invaso e del tutto distrutto la natura:

“la sequenza di agitazioni distrugge
a catena le forme compatte:

la foglia arsa o verde
tarlata d’insetti sbilancia l’albero che oscilla
crostaceo o in torbo rigoglio all’aria”

(…)

scogli atolli continenti
in tumulto di uccelli e animali senza scampo
nelle nevi e siepi di orizzonti
dei gelidi groppi di abitati
arresi alla non-ragione”

In questi versi anche la musicalità è aspra, piena di suoni sonoramente duri usciti da una gola piena di dolore e rabbia. È una musicalità teutonica, ricorda la musica tedesca del settecento e del novecento ma che ha, altresì, alcune assonanze con la musica dodecafonia. Sì, gran parte della poesia di De Palchi non ha il ritmo delle sdolcinature linguistiche italiane, nonostante sia scritta in italiano. Anche questo rende singolare l’opera poetica di De Palchi.

La voce della desolazione, della rabbia, dell’impotenza nei confronti del potere che ha devastato l’uomo e la natura, assume a volte la forza di Urlo di Munch 5perché diventa l’urgenza di esistere comunque differenziandosi dal contesto o comunque tentando di rimanere appartato dallo sfacelo del mondo moderno. In che modo? Sempre “spostato di quel tanto” fino a descriversi con chiarezza dolente e non assuefatta nella poesia con l’esplicito riferimento al termine eliottiano:

Ho trovato questa analogia prima di aver letto quanto avevano magistralmente rilevato, anche se per momenti poetici diversi, sia Luigi Fontanella che Daniela Gioseffi. Riferendosi a La buia danza di scorpione Fontanella scrive: “Il “no/no/no” risuona come un Urlo (alla Munch) cosmico, rabbioso, che non vale solo per il poeta che ha avuto il coraggio di esprimerlo – ma è un Grido di rivolta per tutte quelle vittime della storia che ebbero a patire crudeli ingiustizie e disumane sofferenze(…) Un Urlo rivolto a tutti, “for all of us, swallowed by pragmatism or apathy, against man’s inhumanity to man- Gioseffi 1996

e più oltre,
vedo me, uomo

la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata

che in una stretta si uncina e sulla sabbia
flotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa”.

L’attributo “s-centrato” utilizzato per sé in tutta la sua opera sembra operare un tentativo di auto salvazione anche se ammette amaramente:

——-adottato dalla bruttura
e violenza ora
la collera della mia età è uno strappo
di vesti / è l’essenza
entro me lacerato.”

Ecco allora che l’opera nata con una Premessa scritta a Parigi nel 1953 posta ad invettiva e dichiarazione di visione del suo tempo 5] si trasforma in una galleria di visioni apocalittiche.

Altro punto cardine della poesia di Alfredo De Palchi è il rapporto col sacro e con l’idea cristica. La figura di Cristo per De Palchi è la matrice che si frammenta nella consistenza di un uomo. Cristo, vero e proprio perché umano, è nominato più e più volte nelle sua poesia fino al riconoscimento alla consacrazione di se stesso in lui.

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana—- la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo vino
“bevete, questo è il mio sangue”.

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino—simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;

I versi di questa poesia stigmatizzano il senso dell’esistenza stessa di De Palchi come uomo e come artista. Qui si esprime compiutamente anche da un punto di vista filosofico. Questa poesia è una dichiarazione quasi lapidaria di consapevolezza. L’essere umano cristico, uomo o donna che sia, è isolato dai suoi simili, da lui troppo distanti soprattutto per sensibilità. Perché è indubbiamente complesso, faticoso, soprattutto in un momento storico in cui tutto è delegato alla egoistica visibilità che illude di elevarsi a onnipotenti, scendere dentro se stessi fino a comprendere l’essenza che  rende vivi.

E De Palchi può scrivere tali versi proprio perché è passato dall’esperienza personale e poetica del guardarsi dentro: La buia danza di scorpione, Un ricordo del 1945, Sessioni con l’analista e guardarsi intorno con occhio “s/centrato“ di Costellazione Anonima, Reportage.

Ma per il poeta il sacro non è nella religione, che in alcuni momenti anzi si arrischia a sfidare, al contrario di molti poeti che invecchiando si sono avvicinati alla consolazione di una fede. De Palchi fino agli ultimi scritti del 2009 rimane legato alla religione della natura, della materia, ma non nel senso politico del termine.

Nel Preliminare a Paradigma scritto nel 1950 si succedono fonemi e sintagmi da nascita del mondo:

la genesi—-materia
rivolgimenti indurimenti centrifughi di polvere
gas il fuoco liquefa glaciali rocce
e ancora rassodamenti vapori
una goccia la genesi lunga nella goccia
(…)
genesi senza punto evoluzione senza punto
solo materia—–la nemesi

Nella poesia da cui trae il titolo dell’opera singola Paradigma, De Palchi utilizza un linguaggio quasi filosofico, ci riporta all’uovo primordiale, al senso della conoscenza insito nella metafora del serpente ma anche, forse, dell’ourobus dell’Opera alchemica.

l’occhio della serpe è un qualsiasi dio—-
(….) e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciano al raso
il reale più fecondo”
(…)
testa piatta a triangolo a stemma
di religione—-(…)
Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda—–il paradigma

I suoi versi qui, scritti nel 1964, ricordano l’atmosfera di un testo di difficile interpretazione, Favola di W. Goethe.
Fin dall’inizio e poi negli ultimi scritti il sacro di De Palchi si concretizza nella terra, nella donna come origine del tutto. La sua religione si propaga dentro e fuori il corpo femminile. Il percorso linguistico di Essenza Carnale, ad esempio, è costellato di parole che raccontano gestualità tratte dalla religione, anche se il poeta sembra riscrivere questa religione rendendola umana.

aprimi la cerniera, infila la mano
e come all’altare in ginocchio immergi
il viso acceso di sangue nella cesura
adescando abilmente il pesce simbolico a guizzare
nella cognizione della tua bocca che si affida
alla mia profezia:

la messa continua della mensa.”

L’amplesso e la congiunzione religiosa sono emblematiche in tutte le poesie degli anni 2000:

nella tua esistenza di Maddalena in amore
del mio risveglio in un corpo di Cristo” ;
“sono il tuo sacrificio l’agnello”.

Le sue donne carnali e ideali, intuite in profondità oltreché amate per la loro reale presenza, sono, a mio avviso, il tramite che lo conchiude e lo riconduce alla nascita. In questo senso la sua religione personale, nonostante sia uomo vissuto appieno e nel centro del novecento occidentale, lo può far avvicinare a idee e filosofie tipiche dell’oriente, dell’India soprattutto.

“potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo”;
“religione della tua fluttuazione,
sostenenza dell’ostia splendente sulla mia faccia”;
“avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale—-(…)
riempiti del tuo salvatore” ;
“uguale al serpe ti assorbo intera
e tu da madre terraquea
chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora
del grembo, la dimora
di ascendente devozione per lo spirito in frammenti.”

Qui la donna è sì concreta ma anche madre, forse la Grande Madre che contiene la natura e gli esseri umani e che lascia traccia di se stessa in modo più visibile nella femminilità.
Come non avere la sensazione dopo aver letto i versi precedenti che per De Palchi ogni donna reale, che può essere anche stata amata dal poeta, è poi trascesa proprio attraverso la sua carnalità? È trascesa ma non per essere angelicata, come avrebbe inteso un epigone della poesia petrarchesca di cui la poesia italiana ancor oggi rigurgita preferendo quello stile alla crudezza, a volte anche blasfema di Dante.
Con gli anni la visione della donna nella poesia di De Palchi è diventata l’ostia necessaria all’uomo per sentirsi più umano. Già nelle Viziose avversioni scritte fino al 1996 la sua idea della donna era chiara, “ogni oggetto inanimato o animato è donna,”, anche se spesso con immagini ambigue e negative. Successivamente la femminilità si amplifica diventa Essenza Carnale perché la compagna donna che De Palchi recita è il suo stesso femminile, la sua sensibilità stordita dalla morte del coniglio nel ricordo iniziale delle Sessioni con l’analista, poi da “il tonfo del gatto”, dal pudore che deflagra all’interno di se stesso “Spasimo scoppio / erompo sesso in aria / rimanendo zitto.”

La donna diventa l’anima sangue da ingurgitare, da lasciarsi ingurgitare per diventare più totale.
Questa è forse la chiave per comprendere i versi erotici depalchiani che non sono mai volgari nemmeno quando descrive amplessi e ricorre a parole vividamente comuni. Le sue costruzioni poetiche erotiche sono fiumi in piena di anima, sangue, cervello dell’uomo De Palchi.

Tremando entro la circonferenza dell’amplesso
esponi lo spirito acceso
a bocca che ansima; mi prendi nella sua cavità, vuoi
che la scopi e raggiunga
il profondo della sua gola; vuoi
che il tuo sesso sia scavato
quando dici “sfondami tutta, completami
—– il colloquio reciproco è il gioco
utile per invigorirti del tuo stesso assioma.

Mi piace citare a questo proposito quanto scrive il critico John Taylor, lettore e studioso acuto dell’opera di De Palchi: “De Palchi’s erotic vision nearly always goes beyond the corporal per se. Present in his erotic poems is a cosmic dimension, an experience of amorous union and the epiphanies of pleasure surely, but also a yearning for the primeval, the primordial, the ab-original.”7
Aspetto fondamentale per comprendere Foemina Tellus, l’ultima opera al momento pubblicata, è il rapporto di interscambiabilità fra donna e terra già presente in Essenza Carnale:

la luminescenza in evoluzione del sole scoperchia
e alimenta di energie le radici terragne
quanto la trasparenza coniugale della tua vena
con luminosità accecante mi contatta nutrendo la radice
concretamente buia——
séguita a custodire ogni
senso di sensualità che ci possiede insieme
nella derisione nella melma nella depurazione
ed infine nell’intimo sconvolgimento con la coscienza
di che si ha e di che si è;”.

Se ci si addentra nella lettura delle poesie di Essenza Carnale e poi di Foemina Tellus sembra di entrare in una galleria di quadri di Tiziano, di Courbet, anzi soprattutto di quest’ultimo. Come il corpo femminile indagato da Courbet possiede una componente erotica tanto marcata da scuotere la sensibilità della classe benpensante del suo tempo ma anche di ora (emblematico L’Origine du monde), così le poesie della passione amorosa depalchiana scuotono la morale ma anche l’abitudine dei critici perché mostrano l’essenza terrestre, lo scontro incontro sessuale non scissi ma integrati verso una ricercata spiritualità. Il sesso è rappresentato naturale, sublime e innocente, origine del desiderio della vita.

Averti come sei—-
lo straccio addosso con spigliatezza
e gioielli di avena
con il papavero che infuoca le spighe
attorno le forme collinari e le valli

qui oso fermarmi
sgolo di potenza
e tu mi raccogli nella ramaglia

o nel vorticare intorno
a quella vulva che ingoia
crescite e pianeti

e sprofonda il tremore terrestre
nell’ovulazione del tuo ventre.

In questa poesia ci sono i due passaggi concentrici della spiritualità di De Palchi: dalla terra, “i gioielli d’avena”, il papavero, le spighe, le colline e le valli, alla donna carnale che concentra su di sé il centro del mondo “o nel vorticare intorno / a quella vulva che ingoia / crescite e pianeti”,
e sprofonda il tremore terrestre / nell’ovulazione del tuo ventre.”
L’amplesso con la donna è la messa e la mensa e soltanto il maschio-uomo, consapevole della sua cristicità non fideistica, tramite questo rito può diventare parte di una religione tutta al femminile in cui continua a vivere la Grande Dea dal cui ventre nascono il mondo, le religioni.
In Foemina Tellus il poeta dispiega completamente il suo credo: “il leitmotiv mi accompagna al ventre / accogliente di Kundry: / vita terra spirito Cristo.”
Il verso “all’ape /del miele che sei”della poesia a pagina 49 sintetizza in modo unico una donna frutto essa stessa di quella terra espressa qui con la metafora dell’ape.
In questo libro le poesie più direttamente legate alle donne hanno anche un chiaro profilo di aspra ironia sempre presente in tutta l’opera di De Palchi.

Cane fedele

ti seguo con le infedeltà
mentali, corpo vivo
nel tuo sorretto dalla costola
che non ti ho dato

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In più mi sembra di scorgere qui una sorta di rifiuto ad aderire completamente al loro potere che coinvolge il suo desiderio.
L’ironia e la rabbia, la crudezza, non certo la rozzezza caratterizza la poesia di De Palchi e assume, infine, una connotazione evidente nei testi in cui il poeta si permette di dialogare con l’ultima grande femmina che attende uomini e donne, la Morte.
E qui intendo parlare proprio di dialogo nel senso etimologico greco del termine -parlare restando separati – e non di colloquio – parlare per cercare un punto in comune – termine con cui il poeta stesso aveva espresso il suo rapporto con la donna.
Una delle poesie di Foemina Tellus in cui viene dichiaratamente espressa la singolare cristicità della sua religione tanto carnale ma oramai proprio per la carnalità, quasi rabbiosa, è quella di pagina 51, una sorta di iscrizione tombale del calvario dell’uomo Cristo. Qui il poeta diventa il commosso soccorritore dell’agonia di Cristo “con la scodella ti lenisco / la lingua tra il rottame nella bocca(…)” e il crudele osservatore di donne Maddalene, “capre nere che espiano la trasgressione / per avere la passione / profana di essere.

La rabbia ha il linguaggio tipico di tutta la poesia di De Palchi ma è una rabbia che include una volontà di purificazione. Il verbo spurgare ritorna più volta nel libro: “per spurgare il seme reietto / e il salivare schifoso” a pagina 38 e “bestia umana (…)/ storia che spurga in rantolo” a pagina 51.
La stessa rabbia si indirizza poi, definitivamente, ad un mondo oltre, l’inferno costruito da De Palchi per tutti i suoi persecutori contenuti nella sezione Le déluge, e alla morte a cui dedica due sezioni del libro, Contro la mia morte I e Contro la mia morte II.
Il poeta si lega alla morte in assoluta privazione di sé e con gli stessi sentimenti che l’avevano visto in giovinezza gridare contro il mondo anche se spesso qui utilizza un autorevole armonioso sarcasmo.
Si rivolge alla “passionaria” con: “il mio corpo, per te / mai abbastanza freddo da leccare”; “hai ossi sgangherati / l’odio indifferente della falce / alle mie gambe rapidissime”; la vulva diventa “chiavica”e lui arriva a dirle “ma ti corteggio con la promessa / che nel lontano futuro sarò tuo”.
La morte è “ospite non gradito”eppure verso la fine la rabbia contro di lei sembra placarsi:

sono tutti defunti
davanti alla tua tenace bruttura
che dalle quinte opera
la potente libidine,
una brezza che ondeggia il vestito
tra le cosce e traccia il rilievo
della tomba sacrilega
che attrae
e mi distrae verso….”

Uomo e donna in tutta la poesia di de Palchi pur incontrandosi mettendo a nudo ogni particella del loro essere natura umana e animale dispiegano le loro peculiarità concrete ma difficilmente i particolari hanno a che fare con la specificità, direi con l‘unicità di una donna se non per ragioni di scrittura. Ogni donna per De Palchi rinnova l’incontro col suo eterno foeminino e in Foemina Tellus egli esprime il femminile maturo all’interno di un uomo maschio. Qui lo scontro, la lotta, la volontà di combattimento fra natura maschile e natura femminile si tramuta poi del tutto all’indirizzo della Morte.

Ma qual è l’origine di questo complesso paradigma De Palchi?
Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, di condividere corrispondenza, conversazioni a telefono, a qualche tavolo di ristorante, seduti in qualche salotto o passeggiando insieme e poi di diventarne amica. In queste occasioni Alfredo mi ha più volte ripetuto che “la poesia esce dalla realtà delle nostre prime intuizioni di famiglia”, che “occorre l‘immaginazione in poesia ma senza l‘esperienza delle varie vicissitudini la poesia è arida”. Io aggiungerei che l’artista autentico non si pone il problema di fare la storia della cultura, l’artista autentico sente profondamente ciò che fa, segue le proprie esperienze di vita non le predispone. È nel suo tempo ed è protagonista di se stesso. Più profondamente e intensamente sono avvertite le esperienze più la comunicazione verso gli altri non rientra nei limiti temporali della sua vita.
Per De Palchi, allora, non è possibile non ricordare e collegare la sua opera alla prigionia vissuta fra adolescenza e giovinezza, alla nascita da una donna nubile.
Le poesie dalla prigione contenute ne La buia danza di scorpione, sono poesie che toccano il nerbo vitale dell’esistenza umana.

Ogni donna abusata, stuprata fuori o all’interno della famiglia, ogni bambino lesionato da ferite fisiche e psichiche, ogni donna o uomo perseguitato per ragioni politiche, religiose o comunque di diversità all’interno dell’organizzazione sociale, non può non sentire suo il senso della ribellione e dell’impotenza con parole simili a quello scritte a vent‘anni da Alfredo De Palchi :

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi dell’intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

——-io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

Chiunque sia passato da una esperienza di segregazione causa l’abuso di potere degli altri o anche solo se l’avverte empaticamente in chi si trova in quella situazione, ha vivo il senso profondo di questi versi che definirei di nudità mente-corpo:

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato—-non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

È questo sentire che gli permette di auto considerarsi Villon redivivo, utilizzato a epigrafe di ogni opera poetica, “solo c’è luogo / nel cranio di Villon”.
De Palchi prigioniero: “Arso dalle azioni di chiunque (…)” impara che la vita “disfa la vita fruga / interpreta le ragioni forma e scombina / codici irrazionali”.
È qui e così che comincia la scrittura poetica e sul muro:

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione d’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

——-io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

alfredo-de-palchi-1

Cover della monografia di prossima pubblicazione sulla poesia e la personalità di Alfredo de Palchi a cura di Giorgio Linguaglossa

Mentre leggevo questi versi ho avvertito immediato il ricordo di altre parole di dolorosa impotenza, quelle del Nobel C. Kavafis nella poesia I muri “Senza riguardo senza pietà senza pudore / mi drizzarono contro grossi muri (…) / murato fuori dal mondo e non vi feci caso”8.
In cella l’isolamento, il sentirsi “s/centrato” rispetto alla comunità umana consente a De Palchi l’approfondimento interiore ed artistico.
I suoi scritti di prigionia parlano agli abusati ai violati di ogni epoca, il suo vocabolo s/centrarsi mi ricorda “lo sguardo estraneo” di cui ha parlato H. Muller la Nobel 2009. Anche quest’artista esule, violata di continuo nel privato attraverso i servizi segreti della sua nazione, accusata soltanto per la sua onestà di donna e artista, racconta di aver acquisito un modo di rivolgersi al mondo che sollecita a non considerare soltanto proprio degli artisti “una sorta di tecnica che distingue chi scrive da non scrive”9. Nello stesso poco più avanti precisa: “Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale” “Per me estraneo non è il contrario di noto è il contrario di familiare”. Lo sguardo estraneo “è un atteggiamento provocatorio” acquisito dalle situazioni dolorose e che presuppone uno stato di difesa continua.

Questo atteggiamento di difesa e provocazione è proprio, a mio avviso, l’atteggiamento di De Palchi uomo e artista.
De Palchi ha attraversato tutto il secondo novecento sia storico che letterario e ha vissuto in prima persona tutte le sue assurdità, offese, deliri. Le ha poi superate attraverso il vivere fuori dal luogo d’origine, in un mondo da lui scelto ma dentro il quale si è continuato a sentire s/centrato. Il suo sguardo in poesia è uno sguardo lancinante, estremo, lucido, sensuale, potentemente tagliente. C’è la spada e a momenti anche l’ambrosia nella sua poesia.
La sua sensibilità gli ha fatto approfondire ogni aspetto della vita, foglie, pietre, acque. Nata dal dolore e nel dolore De Palchi già in cella attraverso ore e ore di lettura e poi di scrittura ha trasformato la sua vita di fuori in un grande muro su cui incidere se stesso.

Vagabondo notturno nelle vie di Parigi quando arriva a New York, sua residenza definitiva, anche se inframmezzata da anni in Spagna e dalle frequenti visite in Italia, De Palchi entra nel pieno brusio, formicolio della consolidata moderna civiltà occidentale captando l’essenza materiale che lo circonda, l’atmosfera di alienazione, di confusione “Brulica la spiaggia / si condensa di cicche, fumetti / carta velina unta, ossi succhiati di pollo / mezzi panini bottiglie lattine/ centinaia di canestri vuoti”; “come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti”.
Nella vita e nella poetica egli ha ricostruito la propria seconda adolescenza murata viva e lo ha fatto attraverso l’aria, la terra, la donna. La sua poesia si è riempita degli incontri notturni con i clochard, con le bottiglie di plastica sulle spiagge, delle offese ai neri di New York, ma anche degli incontri con gli intellettuali milanesi degli anni ‘50 e ‘60.

De Palchi ha ricucito le cicatrici ancora oggi tipiche del mondo moderno, l’immigrazione, la detenzione, la difficoltà esistenziale di un mondo desolato e desolante sia personalmente che socialmente. È il mondo di un’umanità troppo maschilizzata nel suo modo di essere, maschilizzata come principio che purtroppo è diventato vivo anche in molte donne. Un’umanità che non dovrebbe più avere la necessità di violentare la donna e la terra ma di rientrare, immergersi in essa per ridestarsi rinnovata nel suo ventre. Esattamente il principio ispiratore della poesia di Essenza Carnale e in parte di Foemina Tellus. È l’acqua che comincia i suoi scritti, “l’Adige” che li accompagna in mille forme fino agli ultimi anni, è il pesce, i pesci, i molluschi nel quale si identifica, è l’acqua delle vagine femminili nella e con la quale gli sembra di poter rinascere.
De Palchi ha guardato e continua a guardare se stesso e il mondo tutto in disparte. Anche la scelta di utilizzare la lingua d’origine nonostante viva da più di cinquant’anni negli Stati Uniti è una scelta da eterno estraneo ovunque. In poesia continua a osservare, riflettere, elaborare da s/centrato rispetto al modus letterario italiano. Sì perché la nettezza naturale, il lindore scevro da intellettualismi, tipico di gran parte della poesia composta nell’Italia contemporanea concepita spesso con intenti autoreferenziali o peggio per logiche di potere culturale e politico, nascono anche dal vivere fuori da questi circoli. Il nostro “apolide anarchico” artista De Palchi ha vissuto così il destino comune di molti grandi poeti troppo a lungo dimenticati, evitati dalla diffusione editoriale come Dino Campana e Lorenzo Calogero, o famosi come Ungaretti, Quasimodo, Caproni, letti per anni e poi abbandonati senza amore preferendoli ai deserti poetici dei giorni nostri.

De Palchi ha una forza letteraria, un’etica e una poetica non espropriabile da nessuno. La forza artistica è intimamente connessa a quella che gli è derivata proprio da chi a lui ha dato la nascita e lo ha formato ai fili esistenziali fondamentali, alle radici della vita, sua madre.
Non può essere compreso appieno il suo rapporto col femminile, con la Donna, la terra, la religione di “un cristo” fra gli altri se non si risale come lui stesso ha detto “alle prime intuizioni in famiglia”.
La madre nubile di De Palchi (supportata da un nonno atipico per l’epoca) è colei che ha lottato contro la mentalità del tempo per tenerlo in vita fisicamente e che l’ha nutrito ad una scala di valori forse più appartenente al futuro che ai primi del novecento.

Vorrei concludere con le parole a me scritte da De Palchi in una delle prime lettere della nostra corrispondenza. Sono parole che confermano quella che chiamo la sua avanguardia mentale in tema femminile:

“La famiglia con il potere del capo famiglia si sta sgretolando per sparire. Rimarrà ancora per secoli in quelle nazioni primitive o medievali. Il capofamiglia, contadino, operaio, borghese o signorile si esprimeva, chiedeva il potere del comando, spesso con la frusta in mano; la donna con le chiavi degli armadi comandava in casa ma non poteva uscire, era considerata proprietà riservata, col trascorrere degli anni si trasformava in donna disamata, strega vecchia anzitempo e impotentemente cattiva verso i figli che tacitamente erano accusati di aver distrutto la sua giovinezza, la bellezza, il suo potere di donna. Le donne intelligenti amorose, capaci e con l’idea del potere femminile erano le cosiddette concubine, le mogli morganatiche, le bellezze dei salotti soprattutto letterari e quelle considerate puttane. Le donne oggi sono professioniste, hanno capacità professionali da farsi invidiare dagli uomini, hanno la bellezza folgorante ben in vista, non si nascondono, eppure, nonostante il progresso delle varie società, gli uomini le giudicano leggere se non puttane” .

(Gennaio, 2011)

1 Luigi Fontanella La parola transfuga 2003, 175
2 Alfredo De Palchi A Non Conformist Italian Poet in New York City (Contemporary Italian American Writing, 1999)
3 Alfredo De Palchi La potenza della poesia (Saggi a cura di Roberto Bertoldo Edizioni dell’Orso, 2008)
4 Le citazioni delle opere di De Palchi sono tratte da Paradigma (Mimesis-Ebenon 2006) e Foemina Tellus  (Edizioni Joker, maggio 2010).
5 Mi è piaciuta molto la citazione di Marina Cevtaeva che Gabriela Fantato pone all’inizio di un suo scritto sull’opera di De Palchi “la contemporaneità del poeta è in un certo numero di battiti del cuore al secondo, battiti che danno l’esatta pulsazione del secolo –fino alle sue malattie (…) nella consonanza – quasi fisica, fuori del significato –con il cuore dell’epoca” Per la poetessa russa il poeta non è “specchio” ma “scudo” del suo tempo, poiché è colui che dà “battaglia” agli anni, a meno che non sia mero “portavoce” di interessi particolari o di un gruppo politico (e non, aggiungerei io N.d.a), ma in questo caso non è un grande poeta. (Versi incisi nella pietra –Cfr. nota 3). 
“ATTRAVERSAMENTI” Progetto ideato e realizzato da Adam Vaccaro – Milanocosa, con la collaborazione di Gabriela Fantato – La Mosca di Milano
Antonella Zagaroli poetessa

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli è nata a Roma nel 1955. Opere letterarie: La maschera della Gioconda plaquette (1986) e libro (prefazione di Walter Pedullà Crocetti, Milano, 1988) che rispetto alla plaquette include anche i poemi Pi greco quinto e Coiffeur distratto; Il Re dei danzatori poema teatrale con musiche originali presentato a Roma e Provincia (1992); Terre d’anima, (1996); Come filigrana scomposta – racconto d’amore tango e poesia andato in scena a Roma nel 2001 e dopo la sua pubblicazione (2008) di nuovo a Roma e provincia; La volpe blu, prose poetiche e racconti (2002); Serrata a ventaglio (Roma, 2004); Quadernetto Dalìt saggio e reportage sul lavoro di volontariato fra gli intoccabili indiani poi tradotto in inglese col titolo Dalit Notebook Thoughts and Poems- An experience in India-, prefazione Vincent Arackal, attuale vescovo di Calicut India (2007; Venere Minima romanzo in versi e prosa (2009; Mindskin A selection of poems 1985-2010 con nota di Alfredo De Palchi e introduzione e traduzione di Anamaria Crowe Serrano (Chelsea Editions New York, 2011). Con Alfredo De Palchi il duetto poetico intitolato Intuire come possedere – Corrispondenza in versi (Italian Poetry Review volume VI, 2011 pubblicato nel 2013). In collaborazione con la fotografa Mariangela Rasi le raccolte La nostra Jera (Roma, 2010) e Trasparenze in vista di forma (Verona, 2013) nonché col pittore De Luca le istallazioni poetiche della breve raccolta Al di là d’ogni luce in mostra da Settembre a Dicembre 2012 a Pienza, da poco giorni riproposte in rete gratuitamente, con la Onyxebook, insieme a Serrata a Ventaglio. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia italiana a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura,, 2016).

In qualità di traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (Hebenon aprile-novembre 2010), la plaquette One Columbus leap, (Il balzo di Colombo) della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (Roma, 2012) e Hosanna – Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense (Trento, 2014). Le sue poesie sono apparse su riviste italiane, francesi, inglesi, americane e ultimamente anche su diversi blog italiani e stranieri. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook.

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DISCUSSIONE: VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA. UNA POESIA DI STEVEN GRIECO-RATHGEB COMMENTATA – UNA POESIA INEDITA DI LUCIO MAYOOR TOSI CON UN COMMENTO IMPOLITICO DI GIORGIO LINGUAGLOSSA E DUE REPLICHE DI GIUSEPPE TALIA

gif-fuochi-dartificiohttps://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/08/poesie-di-kjell-espmark-1992-il-tempo-interno-la-dis-locazione-e-il-frammento-poesie-tratte-da-quando-la-strada-gira1993-la-creazione-2016-traduzione-di-enrico-tiozzo-aracne-2016-prefazio/comment-page-1/#comment-16569

Roma, giovedì 15 dicembre 2016 ore 17.30 alla Biblioteca Nelson Mandela via La Spezia n. 21 Presentazione del libro di poesia (bilingue italiano / inglese) di Steven Grieco-Rathgeb: Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Intervengono Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa – sarà presente l’Autore

Commento alcuni versi di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb del 1993.

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.

In questo addio, sono tornato a casa.

(S. Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Prendiamo questo «frammento» di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb. C’è «la brezza» (che ritroviamo sia nella poesia di Tranströmer che in quella di Kjell Espmark), subito dopo incontriamo «una porta» (Quante «porte» ci sono nella poesia di Tranströmer!). La «porta» come luogo simbolico, limen divisorio tra un al di qua e un al di là, tra il familiare e l’estraneo; ma la porta è «spalancata». È dunque un invito ad andare oltre? Un invito ad oltrepassare la soglia? (ma la soglia di che cosa?), o è un monito minaccioso quello spalancarsi della porta che intimidisce… La poesia subito si interrompe, c’è un punto. Segue la dizione «Fitto fogliame». È un bosco dunque. Che cos’è il bosco? Che cosa rappresenta? Ricordo che un antico ideogramma cinese rappresenta la parola «essere» mediante un disegno stilizzato ai minimi termini che indica le foglie di un bosco. L’ideogramma cinese indica una equivalenza tra il «bosco» e l’«essere». E qui ci sovviene Ortega y Gasset che ci spiega come sono le foglie del bosco che impediscono allo sguardo di vedere attraverso il bosco, cioè il bosco chiude la visione dell’uomo il quale non può oltrepassarlo. La visione dell’uomo non può penetrare dentro la sostanza dell’essere, si deve fermare alla soglia delle foglie sempre più fitte. È questo il significato di questi primi due versi della poesia. Il terzo verso è fatto da una parola sola: «nessuno» può andare oltre quella soglia raffigurata dal «Fitto fogliame», quel «nessuno» siamo noi, è il poeta che non può spingersi oltre quelle colonne d’Ercole della propria interiorità profonda dove sostano i significati come grandi sommergibili affondati, perché in quell’oltre c’è l’ignoto che spaventa e sbigottisce. E quindi viene pronunciato l’«addio» a quel progetto irragionevole e prometeico di andare oltre il «Fitto fogliame». Bisogna rinunciare al progetto prometeico, «ritornare a casa».

È questa la poetica del «frammento» come oggi noi la intendiamo (molto diversa, caro Giuseppe Talia, dal frammentismo dei poeti de La Voce di De Robertis). Qui non si tratta di una mera capacità di interpuntare con il punto le unità frastiche, ma si tratta di una vera e propria immersione nel sottosuolo, in quel sotto suolo del sotto suolo dove dimorano gli oggetti profondi, anzi, per l’esattezza le «Cose» misteriose che, di tanto in tanto, affiorano in superficie e si vestono di parole e di immagini…

Ed ecco Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

 LUCIO MAYOOR TOSI UNA POESIA INEDITA CON UN COMMENTO IMPOLITICO DI Giorgio Linguaglossa

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/08/poesie-di-kjell-espmark-1992-il-tempo-interno-la-dis-locazione-e-il-frammento-poesie-tratte-da-quando-la-strada-gira1993-la-creazione-2016-traduzione-di-enrico-tiozzo-aracne-2016-prefazio/comment-page-1/#comment-16587

Lucio Mayoor Tosi

Altre velocità.

Scacchiera e blu elettrico sull’asteroide Pio XI°.
Pavimento di larghe piastrelle, chiaro, dove si balla.
Salirci è un attimo.
Oltre, nel buio:
un centro abitato, case e giardinetti. Il profilo di un bosco
– Filari d’alberi. Pubblico in platea, l’arrivo silenzioso
di un locomotore. La luna dietro, nascosta.
Qui e là, luci che si sono spente.
Nel vuoto.
Seduto accanto a un grande albero
il poeta scrive canzoni piene di sentimento
indeciso se trasferirsi al 1969 oppure nel sottosuolo.
Chiunque tu sia muoverai la bocca come un pesce nell’acquario.
Nessuno ti capirà.
(Un poeta assurdamente vicino
cancellerebbe tutte le strade praticabili.
Potrai salvarti solo spiccando un salto
sia quel che sia, fuori dal tempo)
Poter rubare qualche ostrica…

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Mi scrive Lucio Mayoor Tosi: «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto, senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Lucio Mayoor Tosi è forse il più conseguente esecutore testamentario di una poesia del «frammento» nel duplice senso che il senso abita il «frammento» e nel senso della frammentarietà del «frammento» stesso. È il suo personalissimo contributo alla poetica del «senso del frammento» che oggi alcuni poeti tentano di perseguire. Il problema che affronta Mayoor Tosi è che oggi l’«oggetto» si dà in forma di «frammento», e quindi il «frammento» è la chiave per entrare dentro l’«oggetto». È questa la grande novità di questa poesia. Adottando questo punto di vista, cambia tutto, cambia la stessa cognizione del metro e del verso. Cambia la natura del metro e del verso. Saranno il metro e il versus che dovranno piegarsi (sintatticamente, semanticamente) alle esigenze del «frammento», che adesso acquista una posizione centrale.

C’è in Mayoor Tosi la consapevolezza che l’aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre (“il tutto è il falso“) è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia hegeliana.
Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]. La poetica del «frammento» è la risposta più evidente e forte che la poesia italiana oggi dà alla Crisi della poesia e alle ideologie dominanti: ha consapevolezza che la poesia del «frammento» è una poesia del negativo, della negatività assoluta che confuta il «falso» e il «vuoto» della «totalità» che abita la poesia della riproposizione metrica. Mayoor Tosi sospetta fortemente che l’unità metrica è un falso, e la mette da parte, spezza il parallelismo della poesia della riproposizione metrica, lo frantuma, lo svuota di senso, mette la dinamite sotto l’ideologia della riproposizione metrica, ne mostra l’interno vuoto e posticcio, elimina i passaggi, gli enjambement, i legamenti tra un verso e l’altro e procede per «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto». È l’utopia del verso isolato e scisso dal «tutto», che impersona l’utopia contro l’ideologia. Lucio Mayoor Tosi vuole una poesia «senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Ecco i primi tre versi della poesia:

Scacchiera e blu elettrico sull’asteroide Pio XI°.
Pavimento di larghe piastrelle, chiaro, dove si balla.
Salirci è un attimo.

Qui è stato distrutto tutto, è stata dichiarata guerra ad ogni ipotesi di senso e di verosimiglianza che un concetto ideologico di poesia tardo novecentesca vorrebbe conculcarci. Qui siamo su di un «asteroide» con un «Pavimento di larghe piastrelle» «dove si balla». È incredibile con quanta naturalezza e facilità qui sia stata distrutta l’ideologia del senso della poesia della riproposizione metrica oggi dominante, «salirci è un attimo», scrive Mayoor Tosi.
Una proposizione di poetica chiara, forte, inequivoca.
Il «frammento» è concepito come particolare che esprime la negazione della totalità, l’espressione cioè di una totalità negativa. Il «frammento», dunque, non può essere che una micro totalità intensamente abitata dal negativo e dalla negazione. È una poesia che va dritta verso l’ignoto senza salvagente come un acrobata che volteggi senza rete di salvataggio.

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Scrive Marco Maurizi riprendendo una nota tesi di Adorno:

“Testi, che tentano apprensivamente di indicare senza interruzioni ogni passaggio, cadono perciò anche immancabilmente nella banalità e nella noia, che affetta non solo la concentrazione della lettura ma anche la loro stessa sostanza“. [1]

Adorno punta ad una contraddizione latente dell’idea di sistema. Un testo, infatti, in cui ogni passaggio concettuale venga oggettivato, una totalità in cui lo sviluppo dell’argomentazione fosse fissata in modo rigoroso, renderebbe superfluo il pensiero. Ecco che a partire da un rilievo puramente formale, l’ideale dell’esposizione continua di un contenuto, siamo giunti ad un dato contenutistico che – secondo Adorno – costituisce al tempo stesso il suo telos nascosto. Nell’ideale del suo pieno dispiegamento il sistema mostra che ciò che sembra appartenere alla mera “tecnica” spinge verso l’esautorazione del pensiero. Allo stesso tempo, tuttavia, l’esigenza sistematica muove verso la dissoluzione dell’oggetto, della sua natura opaca e altra rispetto al pensiero.

“La regola della completezza dei singoli passaggi pretende […] che l’oggetto si lasci esporre in un contesto deduttivo privo di fratture: una presupposizione della filosofia dell’Identità. […] La richiesta di continuità nel processo del pensiero tende ad assumere in modo pregiudiziale la chiusura nell’oggetto, l’armonia propria di questo. […] La concezione romantica del frammento come creazione incompiuta e tuttavia proseguente verso l’Infinito attraverso l’autoriflessione, propugnava [al contrario] un motivo anti-idealistico“. [2]

Scrive Marco Maurizi:

«Come il contenuto del pensiero anti-sistematico non può che esprimersi in forma frammentaria, così il frammento ha la propria ragion d’essere nell’espressione di questo contenuto critico. Il pensiero che sceglie la forma aperta e priva di potere del frammento è animato, dice Adorno, dalla denuncia del dominio sulla natura e sugli uomini: è solo in rapporto a questa perenne denuncia che il termine “negazione” assume un significato in Adorno e che dunque è possibile comprendere in che senso il frammento si faccia negazione della totalità. Negativo è sinonimo di critica, critica di un positivo secondo il concetto hegeliano della bestimmte Negation». [3]

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Il «soggetto», come sappiamo, è da sempre nel legame relazionale. Interloquisce con altri «soggetti» e dimora tra significato e significante, tra enunciazione ed enunciato, tra il rumore delle parole e il silenzio delle parole. Il soggetto si nasconde sempre, lo sappiamo, lo abbiamo appreso da Lacan; ma è nella logica del rimosso che questo avviene, ovvero, nello spazio politico della parola (anche poetica). La parola poetica obbedisce allo spazio politico? Quale legame c’è tra l’agorà del politico e il discorso poetico? La parola poetica, il logos poetico si dà soltanto nella rappresentazione di finzione? Per il discorso politico relazionale, il «Reale» è ciò che è irriducibile alla simbolizzazione, la sua è una verità alienata; invece, nel discorso poetico tutto viene ricondotto, in un modo o nell’altro, al processo della simbolizzazione (diretta o indiretta). Qualcosa torna sempre allo stesso posto, tende ad affiorare ma come in maschera, come un contenuto ideativo che si veste di parole. La «verità» si dà nel processo e nel tempo, tra rimozione e simbolizzazione, tra «io» e l’«Altro», imprendibile e imperdibile. Il luogo della rimozione non coincide con il luogo del tempo, entra in conflitto con esso e sprigiona le scintille della simbolizzazione. Il luogo della «verità» coincide così con il luogo della «perdita».

Il concetto di «orizzonte della parola» è analogo al concetto scientifico di «orizzonte degli eventi»; è l’apparire della parola che si dà come un «evento». Il rapporto fondamentale non passa quindi tra ciò che si dice e ciò che si tace come se fosse un gioco di abilità, da rethoricoeur, da prestigiatore, ma un «evento» che ha già in sé uno spazio di ombre significanti e di significati ormai non più attingibili e transitati nell’imbuto del tempo.

Nel tempo in cui la crisi è in crisi, non c’è più alcun luogo a cui appigliarsi se non al punto fermo che chi Parla è un Altro che introduce il suo discorso eterodiretto con il nostro egolabile.

[1] Th. W. Adorno, Minima moralia, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M 1978, IV, n. 50.
[2] Th. W. Adorno, Noten zur Literatur, in GS, cit., XI, p. 24.
[3] https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/06/claudio-borghi-riflessioni-sulla-poetica-del-frammento-e-del-tempo-interno-poesie-tratte-da-dentro-la-sfera-2014-con-un-commento-di-luigi-manzi/comment-page-1/#comment-16463

Giuseppe Talia

8 dicembre 2016 alle 22:57

 Accogliendo l’invito di A. M. Favetto, come anche di A. Sagredo (lupus in fabula o uno-dei-due) vorremmo riportare alcune notizie letterarie sul frammento che agevolmente abbiamo trovato su wikipedia (fonte da prendere con le dovute riserve), cercando, oltremodo, di applicare nello specifico la teoria del frammento ai versi dell’autore proposto, Kjell Espmark, come anche dell’unico esponente della poetica del frammento che al momento riconosciamo, Giorgio Linguaglossa.

( Di Sagredo, M. Mario Gabriele e Ubaldo de Robertis tratteremo più avanti. Degli altri aderenti al movimento che compaiono citati nella discussione non abbiamo elementi significativi da trattare).

Leggiamo su Wikipedia:

1) Il Frammentismo, o Poetica del frammento, è una tendenza letteraria sviluppatasi in Italia nei primi anni del Novecento.

2) incarna una concezione della letteratura legata alle dottrine irrazionaliste e decadenti

3) prevede la costruzione dell’opera letteraria non tramite un insieme organizzato di eventi e situazioni, ma tramite un mosaico di frammenti, di immagini, di episodi slegati fra loro.

Il punto uno dice chiaramente che il frammentismo si è sviluppato in Italia nei primi anni del Novecento. Ma, considerando la perfetta analisi di Sagredo, lo stesso ha interessato gran parte della letteratura così detta slava, anche se Sagredo sposta il baricentro del frammento sul piano prettamente linguistico e di critica, affermando: “Senza di esso non si riuscirebbero a comprendere le centinaia di analisi critiche, le quali non solo affrontarono i “frammenti contemporanei” (quelli cioè che si stavano svolgendo di pari passo alla evoluzione dei metodi critici per comprenderli), ma anche quelli dei secoli passati (non specificatamente russi, poiché gli esempi di poeti e scrittori stranieri servirono come esempio e stimolo ai critici russi e europei).”

Capiamo quindi che il frammento è utile a una certa critica e che esso è sempre esistito, “Il frammento nasce prima della comparsa dell’uomo”. (Sagredo, ibidem)

Il punto due dice che la poetica del frammento è legata alle dottrine irrazionaliste e decadenti. Ci piace pensare che Linguaglossa, in primis, appartenga all’irrazionalismo metafisico e non a quello radicale, visto il suo grande impegno per la poesia che egli critica e pratica da sempre. Anche l’irrazionalismo ontologico ben si addice al nostro Giorgio, perché, conoscendolo poco di persona, ma avendo letto con attenzione la sua vasta produzione, potremmo azzardare che dietro alcuni aspetti formali vi sono sicuramente altri interdipendenti (visto la poiesis ) con aspetti decisamente opposti. (decadentismo).

Il punto tre entra nel merito della produzione vera e propria. La scelta del frammento è conseguenza di una visione della vita confusa, parziale e soggettiva. Al soggettivo si contrappongono immagini in cui l’oggetto percepito dal soggetto si ferma (Silenzio. La pioggia infuria lassù. Espmark) (Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra. Linguaglossa) come quadri impressionisti, in un realismo en plen-air che nega l’importanza del soggetto a scapito del colore più che del disegno, dovuto, quest’ultimo a una forma tradizionale, mentre il frammento (come l’impressionismo) privilegia la libertà del verso.

Leggiamo ancora che il frammento si avvicina all’espressionismo, al lato emotivo della realtà (Abitavo presso una stella sul canale nero, Linguaglossa) (Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,, Espmark).

Leggiamo ancora che il frammentismo trova il suo più valido sostenitore nella rivista La Voce, durante il periodo di direzione da parte di Giuseppe De Robertis, e che esempi della poetica del frammento sono Slataper, Boine, Rebora, Sbarbaro. La poetica del frammento è presente in Montale fin dagli Ossi di Seppia, anche se un esempio lampante si trova nelle Occasioni con la poesia Keepsake, frammento e onomastica di pari passo, ma, inaspettatamente spunta Pascoli con Myricae (Urtava, come un povero alla porta/ il tramontano con brontolio roco) che a quanto pare incarna pienamente i tre punti sostanziali della poetica del frammento.

Di fronte a una tale schiera di nomi non possiamo che validare ogni aderenza al movimento. Il quale, forse, per ragioni di corsi e ricorsi storici, ritorna in questo inizio di secolo con l’aggiunta di poeti nordici, i quali probabilmente si sono nutriti con il latte della Sibilla Cumana.

Certamente non si deve cadere nel tranello esemplificativo che scrivere per frammenti sia spezzare il verso con interpunzioni tipo “Buio. Accendo la luce. La nebbia si dirada”, in quanto la Musa, a cui si deve grande rispetto, e ancor di più ai lettori-fruitori (intendo quelli navigati in poesia) non la si può raccontare con esemplificazioni, ritrosie o epigonismi.

Sagredo ha molte pregevoli qualità. Una delle sue dis-qualità precipue è quella di dare un colpo alla botte e una al cerchio. Non ce ne voglia, ma notiamo, noi osservatori che lo stimiamo, che spesso, nella sua assoluta ricerca, casca in contraddizioni. Ora, premettendo che la cifra di Sagredo è proprio la contraddizione, non in termini ma in assoluto, non capiamo come mai egli voglia associarsi a una corrente letteraria, il frammento, che non gli appartiene e che relegherebbe la sua opera in una nicchia, quando, invece, la libertà dei suoi versi e della sua grande cultura, sostanzialmente non appartengono a nessuna corrente che non sia la propria. Di frammento non ne vediamo traccia nella sua produzione, piuttosto “sangre e arena”, la biacca del teatro shakespeariano, l’innovazione, la fuoriuscita dopo l’auto-isolamento. Dov’è la poetica del frammento nelle sue opere? Ce lo spieghi. Ci porti esempi pratici e non teorici.

Mario M. Gabriele ci intenerisce, piacevolmente e, ricercando, dove possibile, la sua ricerca poetica dispiegata in anni di studio e di lavoro, troviamo una recente evoluzione nella poetica del frammento con risultati di sicura rilevanza, laddove egli inserisce nell’onomastica letteraria, quadri espressionistici ed episodi apparentemente slegati, con una attenzione verso i sentimenti e aspetti morali della vita (Il boia a destra, il giudice a sinistra).

Ubaldo de Robertis, che conosciamo bene per corrispondenza, appare l’autore più lontano dalla poetica del frammento. Egli è Poeta, per profondità e per implicazioni musicali, sostanzialmente tradizionale anche se nella sua forma- poesia si ravvisano delle spezzature frastiche che presupporrebbero forme ibride, ma che, se ascoltiamo bene, tendono alla ricerca del suono, del ritmo, con una rappresentazione unitaria, in termini di componimento.

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Giuseppe Talia

9 dicembre 2016 alle 15:46

Ho come l’impressione che si voglia percepire la discussione intorno alla poetica del frammento come a una diatriba fra sostenitori e oppositori, tra chi ne rileva la portata rivoluzionaria e chi si abbarbica su posizioni tradizionali, fino ad arrivare a toni inquietanti di avvertimento a “non disturbare il conducente”, a non intralciare il passo a chi ha maggiore mobilità, a trincerarsi dietro il silenzio, fino alle offese gratuite (non si accettano intimidazioni né insulti che vengono rispediti ai vari mittenti).

Premetto che personalmente non sono né favorevole né contrario alla poetica del frammento. Nella mia dissertazione ho indagato fatti storici, indizi, teorie, affermazioni, corredando il tutto con esempi di critica applicata (mi tolgo un sassolino dalla scarpa, dicendo che siamo capaci di fare critica costruttiva e applicativa, non solo a scrivere baggianate pseudo-ironiche), mettendo a confronto autori e versi.

La poetica del frammento è una delle tante forme di poesia. E’ nata in Italia nei primi anni del Novecento; ha avuto esponenti di rilievo; continua ad avere esponenti a tutt’oggi.

Semmai c’è da chiedersi come mai la poetica del frammento si sia sviluppata nel nord Europa a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento, anche se, leggendo con attenzione la prefazione di Giorgio Linguaglossa al libro di Espmark, non si può che essere d’accordo con l’analisi condotta (quando Giorgio Linguaglossa si trova in quello speciale stato di grazia…).

Nel mio intervento mettevo, però, in guardia chi, interessato all’applicazione della poetica del frammento, pensasse che la stessa si potesse risolvere con l’interpunzione, la frattura del verso, l’impressione e l’espressione, in quanto la frammentazione richiede, invece, un’analisi sociale, linguistica, morfosintattica, financo simmetrica, con le alterazioni spazio-temporali, le pause, gli agganci e/0 innesti, la dislocazione dell’oggetto in rapporto al soggetto, l’autobiografismo: il protagonista guarda, ricorda, dice, riporta. “Il protagonista dice semplicemente: «La apro» (la porta), con tutto quel che segue”, scrive G. Linguaglossa nella prefazione a Espmark.

Riguardo ai versi di Steven Grieco Rathgeb “Una brezza/la porta si è spalancata. Fitto fogliame,/nessuno,/la soglia non varcata./In questo addio, sono tornato a casa”, si può notare che la forma è quella del haiku, (e non è l’haiku un frammento?) tornerebbero anche le sillabe se si sistemassero i versi in modo diverso “Una Brezza/la porta si è spalancata/Fitto fogliame. L’autore però continua con una metonimia, “nessuno,/la soglia non varcata”, quasi a voler rafforzare il senso di smarrimento e sbigottimento per un evento imprevisto, misterioso in cui gli elementi della “natura” (impressionismo) colgono l’attimo. Potremmo trovare molte associazioni con la pittura impressionista, da Sisley a Monet da Guillaumin a Corot.

C’è una sterminata letteratura sul significato del bosco. Non sapevo che l’ideogramma cinese di bosco fosse equivalente a quello di “essere”, e questo mi conforta ricordando un test di sette domande attribuito a Freud sul bosco: 1) Ti trovi in un bosco. Come sono gli alberi? A) alti e fitti. B) Bassi e radi (…)

Concludo dicendo che i miei interventi sul tema non sono pensati per sminuire nessun autore indicato, nel rispetto per la ricerca e formazione di ognuno.

N. B. I versi di Tranströmer

“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero”,

ad ogni nuova lettura acquistano sempre più significati e connessioni e interconnessioni. Quasi un aforisma.
Leggevo qualche domenica fa sull’inserto Robinson di Repubblica come un verso della Szymborska sia diventato così popolare da essere ricordato da tanti, “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”.
Credo che il verso di Tranströmer, che Giorgio Linguaglossa ormai cita continuamente, abbia delle buone chances per diventare anch’esso popolare.

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9 dicembre 2016 alle 18:49

Caro Giuseppe,
quando ragioni intorno alla poesia si nota la tua perspicacia più che quando invece fai dell’ironia… Tu hai messo il dito sulla piaga, e ti chiedi acutamente:

«La poetica del frammento è una delle tante forme di poesia. E’ nata in Italia nei primi anni del Novecento; ha avuto esponenti di rilievo; continua ad avere esponenti a tutt’oggi.
Semmai c’è da chiedersi come mai la poetica del frammento si sia sviluppata nel nord Europa a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento».

L’interrogativo è d’obbligo… ma poi per tante ragioni, come tu hai ben descritto, la poesia per frammento è emigrata in Svezia e in Norvegia con un poeta come Rolf Jacobsen, mentre noi abbiamo avuto il fenomeno Cardarelli negli anni trenta e il neorealismo negli anni Cinquanta.
Come è potuto accadere questo gigantesco arretramento? Dal cui interrogativo ne scaturisce un altro tutto moderno: Questa lacuna stilistica quali effetti ha prodotto sulla poesia italiana del secondo Novecento e dei giorni nostri? È la cosiddetta poetica del «frammento» un tentativo di trovare una soluzione a questa grande lacuna?
Il problema è aperto. Ai poeti italiani la parola.

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POESIE di KJELL ESPMARK (1992) IL TEMPO INTERNO, LA DIS-LOCAZIONE AUTORIALE, LE VIE INDIRETTE, L’ESPERIENZA, IL VIAGGIO, LA CREAZIONE, IL FRAMMENTO – Poesie tratte da Quando la strada gira (1993), La creazione (2016) traduzione di Enrico Tiozzo, Aracne, 2016, Prefazione di Giorgio Linguaglossa

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Rispondo alle esternazioni pervenute da varie parti che hanno avuto a bersaglio, con toni di sufficienza, il «frammento» in poesia, mediante la mia prefazione al libro di uno dei più grandi poeti europei viventi, lo svedese Kjell Espmark (1930), pubblicato in Italia nella traduzione di Enrico Tiozzo, Aracne editrice, 2016

da Quando la strada gira Traduzione di Enrico Tiozzo, 1992 Ed. Bi.Bo

Inaspettatamente siamo di nuovo nel villaggio
fra case accennate e oche senza tempo
sotto rade lastre di cielo:
la tela è nuda fra le pennellate.

Che è successo?
Siamo stati per un attimo fuori della vita?
Come se un subito coltello da macellaio
con quattro esperti tagli
avesse diviso occhio, gola, cuore e sesso
da tutto ciò che è diretto a capofitto
giorno dopo giorno da nessuna parte
e li avesse riuniti ad un capitolo
per il quale siamo già passati.

Tutto come prima. Tranne la luce scatenata.
Come se la strada fosse strada per la prima volta:
Ogni odore è più forte, ogni colore più pieno –
il senza significato ci ha toccato.

Madame ci guarda indulgente
e mette in tavola dei pezzi di chèvre,
un sapore che fiorisce ampio
intinto nella cenere.

Cerco di ricordare. Presumo che il previo
capitolo ancora sia valido.
Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,
una voce e un profumo di caprifoglio
senza veramente ricordarli:
come se ci si fosse corsi incontro
a braccia aperte
e ci si trova ad abbracciare un estraneo.

Ciò che cerco nella memoria si tiene nascosto
come un mostro che viene dallo spazio.
Solo qualche schizzo di sangue fa la spia.

Ma certo siamo vissuti prima?
Dipende da ciò che s’intende per vita.
Sparsi bagliori di ricordi narrano
di un grandissimo paesaggio
con un gusto retroattivo di cenere.

Le lenzuola della camera d’albergo sembrano usate:
riconosciamo quella macchia
anche se non siamo mai stati qui prima.
Un posto logoro per l’inizio.
I polpastrelli cercano la tua bocca
e sentono crearsi le labbra.
La lingua crea una fossa sulla spalla.
Come quando un intaccato rituale
riceve in visita un dio sconosciuto
così diventa il nostro amore
amore per la prima volta.

*

Nuoto a qualche metro di profondità
in mezzo a un branco di pesci che a scossoni si gira.
Non è quaggiù
che usa cominciare la poesia?
Attesa, ombre, sfocato chiarore.
Di colpo vedo le navi lassù:
un quadro che dondola un po’;
ancora con molte fini possibili.
Due ruote di prua leggermente si toccano.
Gli equipaggi stanno ciascuno nella sua lingua
con la lancia accortamente alzata per il tiro.
Un giovinetto è appena caduto giù nel largo
tratto blu-turchese dove nuoto
con bracciate lentamente pietrificate.
Un uomo bruno lo tiene per il piede
mentre un altro con il remo
spinge giù la sua testa spumeggiante.
Aspettano i pesci rotondi fissi nello smalto.
S’irrigidisce secolo su secolo.
Illuminazioni

1.
Stavo davanti alla cattedrale di Lau,
ho aperto di un dito la porta,
preparato al bianco fresco della stanza
e sono impietrito. Forse era l’acustica
e le voci dei visitatori insieme con la fessura –
io non ho bisogno di spiegazioni.
Ma tutta la chiesa era una potente bocca
mormorante di voci di angeli.
Non c’era alcuna misericordia in quella musica-

2.
I bambini siedono uno di fronte all’altro,
stranamente bianchi
in una stanza bianca davanti a un pianoforte bianco.
È la nostra sala da pranzo e tuttavia non lo è.
I loro capelli sono così chiari che lo sguardo non li regge.
essi ridono quando bassi e acuti
inaspettatamente si accordano.
Anche la musica sembra bianca.
I bambini possono avere quindici o dodici anni.
Difficile decidere
perché non pesano niente
e l’immagine nega un contesto.
Ma c’è qualcosa di strano nella luce.
È troppo chiaro
anche per queste finestre alte.
Allora si vede come le carte bianche alle pareti
scuriscono nei bordi estremi, s’accartocciano
e fanno passare una fiamma, sempre più.

3.
Con il manico del mio ombrello che cola
batto sul sarcofago
e ti invito a uscire
dalla terza fila
nel sotto Escorial.
Silenzio. La pioggia infuria lassù.
Capisco che mi aspetti
nel tuo regale studio.
La scala serpeggia attraverso gli anni.
Il tuono si raccoglie prima della visita.

4.
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro
– il rumore è come quando si strappa un lenzuolo –
e l’odore di anni inibiti esce con la muffa.
Là dietro c’è una donna mummificata
in una stanza più piccola di un armadio.
I suoi occhi sono al di là di ogni conversazione,
la figura sfocata dalle tele di ragno.
Le labbra rugose sussurrano,
bianche di rabbia:
– Non potevi lasciarmi morire!

ttps://lombradelleparole.wordpress.com/2016/11/13/morton-feldman1926-1987-brani-scelti-neither-su-testo-di-samuel-beckett-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-16122

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Commento di Giorgio Linguaglossa

Quello che mi colpisce in queste due ultime poesie di Kjell Espmark pubblicate in Svezia nel 19992 e in traduzione italiana di Enrico Tiozzo nel 1993 (Ed. Bi.Bo Quando la strada gira), è lo spostamento autoriale. L’autore non corrisponde più al personaggio che narra. Nella poesia svedese da molti decenni, per la precisione dal finire degli anni Cinquanta, si è fatta una poesia dove si verifica la dis-locazione del soggetto. Poiché le cose non accadono per caso, occorre andare a vedere perché sono accadute. In particolare. E in effetti la poesia svedese dagli anni Sessanta ha privilegiato la dislocazione tematica, l’interpunzione frequente del verso libero, la dislocazione autoriale, la frammentazione della «forma-poesia», la adozione di una tematica esistenziale, gli «interni» stretti, etc.

E adesso passiamo al commento a braccio di queste due poesie. Nella prima poesia il protagonista è «il manico del mio ombrello», si ha qui una sineddoche, il soggetto è diventato una parte di un’altra parte più grande, ed il tempo della poesia ne è stato influenzato, anzi, direi che ne è stato determinato. Un grande ruolo viene svolto dalla metafora: la prima strofa è tutta piena di metafore, cioè di immagini simbolo che indicano qualcosa che sta fuori della poesia. È il fuori della poesia che è determinante. O meglio, è l’interno della poesia che reagisce al fuori con un di più di impenetrabilità, e questa impenetrabilità è, appunto, lo scrigno del tempo della poesia, una sorta di «tempo interno» che è regolato da un cronometro tutto diverso da quello che registra il «tempo esterno» alla poesia. Il lettore ha la percezione che questa collisione, questo attrito tra i due «tempi» è quello che genera la struttura della poesia, il suo metro libero, le sue pause, le sue riprese.

E in effetti, una caratteristica della migliore poesia svedese è quella della impenetrabilità di quello che io indico «tempo interno» della poesia, della sua struttura a chiocciola, ellittica, che converge verso l’interno. Una poesia priva di «chiusura», priva di lucchetto, che lascia lo spazio per un altro spazio. Infatti, l’ultimo verso della prima poesia suona:

Il tuono si raccoglie prima della visita
che tutto dice ma non chiude affatto.

La seconda poesia ha un inizio fulminante:

In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro.

Qui il tempo cronometrico della vita quotidiana viene squarciato da un momento, un istante privilegiato che indica la rottura della simmetria temporale per una violenta intromissione di un altro «tempo» durante il quale i protagonisti della poesia dichiarano di non essersi mai accorti della esistenza di una «porta». Il protagonista dice semplicemente: «La apro», con tutto quel che segue.
È un modo straordinario di introdurre il «tempo interno» nel tempo cronometrico che esiste là fuori, fuori della poesia.

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Prefazione a La creazione (Aracne,, 2016) di Giorgio Linguaglossa

Le città sono «cenere»; «cenere le città che sono state a lungo cenere», scrive Kjell Espmark.

Le parole di Espmark sanno di essere effimere, transeunti, fragili, entropiche. Le parole che vivono nel nostro mondo non possono che essere volatili. Il sostrato ontologico dell’Occidente del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di volatile i cui componenti appartengono alla categoria dei conglomerati, fatti di giustapposizioni e di emulsioni, di lavorati e di semilavorati, materiali che si offrono alla costruzione, alla auto-combustione e alla entropizzazione. Il Moderno del Dopo il Moderno è ragguagliabile a un gigantesco conglomerato di elementi aerei, fluttuanti, effimeri dal quale sembra sia scomparsa la forza di gravità. Le parole sembrano allentarsi e allontanarsi dal rigore sintattico, appaiono volatili, frante. Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo.

Nella poesia di Kjell Espmark ci trovi in trasparenza frasari che riecheggiano frasi un tempo già pronunciate, già scritte, magari nella Bibbia o in qualche cronaca dell’impero cinese. L’ingresso in questi grattacieli del fabbricato leggero, le novelle piramidi del nostro tempo, è fatto di effimero e di transeunte, di transitante nel Nihil, ponte di corda steso sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà.  Ecco, la poesia di Kjell Espmark ha la solidità e la leggerezza di un ponte di corda. L’ingresso, dicevo, in questo fabbricato di frasari nobili e non-nobili è un tortuoso cunicolo che ci porta all’interno del mistero dell’esistenza dell’uomo occidentale. Qui, ci si muove a tentoni, non si vede granché, non c’è luce, non si percepisce se la via scelta sia quella giusta, ma l’attraversamento di essa è per un poeta un obbligo non eludibile. Bisogna varcare quell’ingresso e inoltrarsi. La poesia di Kjell Espmark si propone questo compito. È un tragitto fra intervalli di buio durante i quali il tempo sembra sospeso, dove la «parola» si è volatilizzata, portandosi via con sé «una patria incompleta», ed è diventata invulnerabile al tempo che la vuole soccombente. Le «ombre» commerciano con i vivi. Ci sono molte «ombre» in queste poesie, e noi non sappiamo chi sia più vivo, se le «ombre» o i vivi:

Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –

Questo «passaggio» tra le «ombre» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco) – ma significa compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è impenetrabile, smarrita e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.

Va da sé che il poeta del Dopo il Moderno non può non tentare di percorrere tra le innumerevoli «vie indirette» quelle appunto che lo riconducono ad un rapporto stabile e duraturo con l’essere dell’esistenza, sommatoria di presenti, istantaneità che si hanno attraverso l’Erfahrung, l’esperienza. Ecco la ragione del «viaggio» nella «Creazione» di Kjell Espmark: il togliersi da una immediatezza per la deiezione in un’altra immediatezza. L’auto-costruzione dell’io altro non è che una auto combustione, un processo di produzione e consunzione di un io feticizzato, inservibile, inautentico. La vita vuole qualcosa che non può più in alcun modo dare, né il «viaggio» né alcun altro «passaggio» può riprodurre in alcun modo la pienezza di un «io» in perenne auto-produzione, in continuo dissolvimento. Di frequente, nella poesia moderna il feticismo della merce lo puoi cogliere nel feticismo dello stile come due gemelli siamesi, inestricabilmente condannati ad una medesima familiarità. In ogni piega della forma, in ogni suo minimo recesso, lo stile demotico reca il carnet della barbarie della cultura da cui proviene. Anche nello stile più alto e sublimato, quella barbarie vi ristagna e sordidamente vi serpeggia anche se non appare immediatamente evidente. La grandezza di Kjell Espmark è che mette in gioco la propria poesia per denunciare la cultura dalla quale essa proviene. Scrive Espmark: «Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta / vi racconta tutto questo».

Ecco come ho risposto sulla rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com a proposito della notazione di «freddezza» che alcuni lettori italiani hanno intravisto nei suoi versi: “Mi rendo conto che forse sarebbe il caso di approfondire che cosa vuol dire «emozione» in poesia. Sì, ci sono i poeti che si affidano alla facile emozione e poi ci sono i poeti che evitano con tutte le proprie forze di avvalersi dell’aiuto delle facili emozioni. Tra questi ultimi, in prima fila, c’è Kjell Espmark, uno dei maggiori poeti europei viventi senza alcun dubbio. Per quanto riguarda la «freddezza» della sua poesia (così come appare dalla magistrale traduzione di Enrico Tiozzo), ci sarebbe da fare un lunghissimo discorso che parte dalla freddezza della metafora tridimensionale di Mandel’štam, dalla freddezza del correlativo oggettivo di Eliot per giungere alla freddezza delle «immagini» di Tranströmer. La più grande poesia europea del Novecento passa di lì, attraverso la stretta cruna dell’ago della «freddezza»”.

foto-a-staircase-at-bauhaus-school-of-art-and-design-dessau-germanyIl dettato di Espmark ha la solidità di un manufatto antico, è uno stile erede di una civiltà poetica gloriosa dove vive un cuore di «cuoio raggrinzito», raffreddato, che «batte solo un colpo al minuto».

Per il viaggio verso il non-luogo dell’esistenza, Kjell Espmark adotta lo stile «alto demotico» dell’intellettuale occidentale che sente da vicino la terribilità degli eventi del mondo. Come se quegli eventi fossero privi di temporalità, e quindi di reale accadimento, eventi dove il ricordo è diventato problematico:

Ciò che ricordo è un portone scolpito del barocco
e una scala con le finestre dipinte – una scena
con la vergine e il suo incapace cavaliere.

Kjell Espmark proviene dalla fine del Novecento, dall’esaurimento della civiltà del modernismo ed è giunto ad un singolarissimo e felicissimo stile «alto demotico», che assomma icasticità e classicità, agile e sicuro, una scrittura tutta mentale fitta di nervi e di tendini, di inversioni e divagazioni, di pensieri e di retro pensieri; quasi uno stile da reportage nell’epoca della stagnazione in ambito svedese:

kjell-espmark-la-creazione-copEcco quanto scrive Paolo Ruffilli sul retro di copertina dell’edizione italiana L’altra vita (2003), il precedente libro di Espmark sempre a cura di Enrico Tiozzo:

“Il cielo «ruvidamente grigio» del Nord, «basso da piegare le ginocchia», le foreste di aceri e di frassini, le betulle, nebbie e pontili, le radure ghiacciate, i boschi brulli e il freddo «a nord del Nord»: le terre del settentrione e degli iperborei, aperte senza soluzione di continuità all’oltre, al doppio, all’antimateria. «Proprio vicino alle carte della Svezia / pende una carta sulla Svezia / stesse città e stessi lembi di laghi / stessi campi gialli e verdi / eppure un regno irraggiungibile che risplende» È il modo in cui si consuma l’Altra vita e dal quale siamo oscuramente attratti, perché «ci manca la vita che viviamo». L’incubo, l’allucinazione, il sogno sono i protagonisti della vicenda interiore che sola vince e abolisce il tempo e gli spazi reali, per sostituirli con quelli non meno reali e vivificanti della poesia. Non esiste più niente che la profonda assenza e «il profondo si libera dal profondo ed esiste». La poesia dà voce alle ombre di uomini rimasti impigliati con i loro nomi sulle pietre tombali, su una superficie di muro dove si aprono porte ma non ci sono stanze. Ed ecco riemergere in mezzo al terriccio, tra il verde dell’erba e del fogliame, nel fresco dell’acqua, tutte le figure finite nel buio e tenute in vita dalle parole dei vivi, tacendo le quali sbiadisce e rischia di svanire la loro presenza. Guai a cancellare le parole che hanno dato ai morti una vita oltre la vita e ai vivi una parte rivitalizzata dentro la memoria più grande. Le parole prendono per mano ogni anima vagante, non solo le anime delle persone illustri ma anche degli uomini comuni, negli squallidi locali delle case più modeste come nelle sale preziose della Biblioteca Reale, perché ovunque si leva una voce a chiedere: «Prestami un po’ di vita». La potente larvale poesia di Kjell Espmark ci testimonia con i suoi lunari riti che bisogna insegnare a parlare al silenzio stesso. È il nostro compito, il nostro scopo, la nostra scommessa per una vita nuova”.

Il problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa», così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente. È interessante andare a computare la topologia della poesia di Espmark; di solito si tratta di interni domestici ripresi per linee diagonali, sghembe e in scorcio; le storie esistenziali sono quelle della grande civiltà urbana delle società postindustriali; le vicende sono quelle del privato, quelle esistenziali, vicende sobriamente prosaiche di una prosaica vita borghese; non c’è nessuna metafisica indotta, ma un domesticità e una prosaicità dei toni e delle situazioni. Potremmo definire questa poesia di Espmark come una sobria e prosaica epopea dell’infelicità borghese del nostro tempo post-utopico. Emerge il ritratto di una società con Signore e Signori alla affannosa ricerca di un grammo di autenticità nell’inautenticità generale. Qui da noi nel secondo Novecento hanno tentato questa direzione di sviluppo della poesia Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhüller (1985) e Franco Fortini con Composita solvantur (1995), da diversi punti di vista e con opposte soluzioni, ma sempre all’interno di un concetto di resistenza ideologica alla società borghese, la dimensione esistenziale in sé era estranea a quei poeti come alla cultura italiana degli anni Settanta Ottanta. Per il resto, quella problematica esistenziale che balugina in Espmark, da noi è apparsa per fotogrammi e per lacerti, in modo balbuziente e intermittente, qua e là. Più chiaramente, quella problematica è presente nella poesia italiana del Novecento presso i poeti non allineati, in Alfredo De Palchi con Sessioni con l’analista (1967),  in Helle Busacca con la trilogia de I quanti del suicidio (1972); in chiave interiorizzata, in Stige di Maria Rosaria Madonna (1992); in chiave stilisticamente composta in Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996). Ma siamo già a metà degli anni Novanta. In ambito europeo è stato il tardo modernismo che ha insistito su questa problematica: Rolf Jacobsen con Silence afterwards (1965), Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) e, infine, Kjell Espmark con le poesie che vanno dal 1956 ai giorni nostri. Si tratta di un ampio spettro di poeti europei che hanno affondato il bisturi sulla condizione esistenziale dell’uomo occidentale del nostro tempo.

La poesia di Espmark ha la precisione di una fotografia asimmetrica, dove non c’è un baricentro, non c’è un equilibrio, ma disequilibrio, frantumi, frammentazioni. Dove ci sono segnali stradali, nebbie che si intersecano con fumi di ciminiere e gas di scarico delle automobili, dove lo spazio verticale è ripreso orizzontalmente. Il vero segreto dell’arte contemporanea è il disequilibrio… magari invisibile ma pervasivo, che si diffonde in tutte le direzioni, come micro fratture che minano dall’interno anche il materiale più resistente. Il disequilibrio, l’estraneità, il perturbante, l’unheimlich, il rimosso, l’inaudito, l’equivoco, la crisi esistenziale vista dal vivo dei personaggi fanno parte integrante della poesia di Espmark.

Abbiamo qui una poesia che ha nei suoi ingredienti di base quelle «cose» che, un poeta italiano, Lucio Mayoor Tosi ha chiamato con una brillante dizione il «fermo immagine», il «girare intorno all’oggetto», la frantumazione, la «fragmentation». Ed io aggiungerei, la sovrapposizione, l’entanglement delle immagini e dei frammenti. Il mondo globale ha prodotto e messo in circolo una miriade di frammenti incomunicabili. Quei frammenti siamo noi. Siamo frammenti de-simbolizzati. Siamo diventati Altro. Utilizzare e assimilare questi frammenti è un atto di vitale importanza non solo per la poesia ma anche per il romanzo. Infatti, ho fatto due nomi di romanzieri che hanno scritto romanzi a partire dalla raccolta di frammenti: Orhan Pamuk e Salman Rushdie. I poeti italiani sembrano alieni da questa impostazione delle problematiche del «poetico». Però, in questi ultimi anni del nuovo millennio sembra configurarsi una nuova sensibilità per la poesia che abbia il suo punto centrale nella problematica dell’esistenza. Non è un caso che questa problematica sia al centro delle riflessioni di questa rivista. Anche in Italia qualcosa sembra muoversi. Utilizzare i «frammenti» significa piegare la sintassi e la fonetica alla «natura» dei frammenti, cambiare il modo stesso di costruzione del verso libero modulato sull’antico calco endecasillabico, significa fare i conti con un nuovo concetto di «spazio» e di «tempo» metrico, significa la velocizzazione del lessico, e il suo rallentamento…

Nella poesia di Kjell Espmark troviamo le frasi sincopate, i repentini cambi di marcia, le impennate delle analogie, le perifrasi interrotte; i punti di vista si intrecciano e si accavallano; così i fermi immagine, le riprese etc., intendo dire che qui abbiamo qualcosa di nuovo come impianto di una struttura; una struttura in versi liberi che perde continuamente il proprio baricentro, che perde l’equilibrio, e che proprio grazie a questa continua perdita di equilibrio metrico e sintattico, paradossalmente, la poesia riesce a mantenersi in un assai precario e nuovo equilibrio. Ecco, questo è un esempio del modo di scrivere una poesia assolutamente moderna.

da La creazione di Kjell Espmark

Quando prendeste il largo
tra costellazioni spaventose
lasciandomi da questa parte del Giordano
portaste con voi una patria incompleta.

Divenni un mucchio di ossa abbandonate
rose da iene e avvoltoi
e rese lucide da vento e sabbia.
Ma i resti della gabbia toracica
trattennero ciò che il naufrago capì.

E ciò che veramente è io in me
non s’arrese. Questa tremula fiamma sperduta
ha vagato lungo vie polverose,
che non erano polvere né vie,
per cercare voi, i miei.

Volevo mettere la mia anziana parola
nei vostri sogni, senza destarvi. Sussurrare:
La creazione è ancora incompiuta.

*

Ed è in voi che spera.
Avverto come vi girate nel sonno
con mani che afferrano nell’aria vuota
come per difendersi.

Ma perché giacete in così tanti,
ammucchiati insieme disperatamente,
su una sorta di letti di assi sporche?
E perché siete così smunti?

Voglio spargere in voi ciò che ho capito,
come cerchi su un’acqua dormiente.
Ma perché l’acqua è così scura?
E perché trema senza sosta?

Arioso

Mi precipitai fuori, trasformata in fiamme
dalla biblioteca di Alessandria.
I nove rotoli di papiro in cui abitavo
ancora crepitanti di deluso amore,
mutarono in scintille e salienti schegge.
E morii per la seconda volta.

Frammenti di me rimasero come citazioni.
La mia parola per cielo s’impigliò in un dotto pedante –
Lui era fisso alla scrivania
Quando il blu di colpo divenne il blu profondo.
Un pronome usato in modo inusuale
stregò un grammatico. La parola
che scrisse se stessa in giallo e verde – uno scarabeo! –
aprì le sue elitre e si alzò
per portare il suo contesto attraverso i secoli.

Altri frammenti di ciò che era Saffo
rimasero come schegge sui passanti
per “richiamare chi a lungo amò”

*

Parole che bruciavano il vento: Che volevi da me
quando fui spaccata in due come un ciocco di legno,
“tremante di brama e con le ginocchia di colpo deboli”?

Sì, la mia ebbrezza era rimasta,
risparmiata da suo fratello il fuoco,
e trovò un rifugio da una donna sola
nel raggio verde di una lampada a olio,
mormorante nella sera tra stupiti tipulidi.
Lei scarabocchiava poesie su fogli strappati.
Alzava gli occhi al richiamo: Emily!
– un attimo indifesa.
Allora la mia vertigine entrò nella sua testa.
Il suono in ciò che erano le mie orecchie
prese posto in lei
e sudai nella sua pelle
al pensiero dell’amato.
Non capivo la sua lingua
e il dolore alle reni non era il mio.
Ma il suo brivido non chiedeva traduzione,
nemmeno il violento rossore
che si sentiva al fondo della gola.

La forza dei segni

Mi conoscete come Yan Zhenqing,
il maestro del pennello dritto.
Ma l’imperatore mi trovò altro uso.
Le rivolte allora squarciavano il regno.
I figli pugnalavano il loro padre
e le donne si sbudellavano come galline.
La realtà da noi ereditata cadde in pezzi.
Sì, la luna stessa fu ridotta in cenere.

Il mio valore durante la resistenza
mi aveva fatto diventare ministro.
Ma la mia aperta critica ai cortigiani corrotti
suscitò l’ira del primo consigliere.
Mi mandò a fare giustizia
del capo della rivoluzione Li Xili
pagando con la mia vita per l’oltraggio.

Ma Li voleva comprarmi. Si racconta
che accese un falò in giardino
minacciando di buttare un no nel fuoco.

*

E che io destai il suo rispetto
quando da me andai verso le fiamme.
La memoria vuole eradere ciò che davvero accadde.

Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta
vi racconta tutto questo.
Una pennellata comincia e finisce debolmente
come la donna che a lungo ho amato
ma il corpo del segno è d’un guerriero.
Solo così lo scritto è capace d’intervenire.

Ora ero al limite del mio filo d’erba curvantesi.
L’ultima notte nel tempio di Longxing
scrissi mentre aspettavo il boia.
Il diretto, oggettivo scritto
restituì alle parole saccheggiate il loro senso.
Costrinse la cenere a ridiventare luna,
riempì lo stagno perché vi si specchiasse
e ridiede al Buddha nel tempio le sue braccia.
Quelli che venenro per strangolarmi
furono atterriti dalla forza dei segni.

*

La mia seconda figlia fu la mia morte. Le dita
del medico riuscirono a grattare fuori la placenta
ma aveva la febbre dentro di sé.

Anche la mia missione era incompiuta.
Ma l’anno della morte il 1797
sotto il nome di Mary Wollstonecraft
non poté rimanere incontraddetto.
La Storia mi costrinse ad una lotta
con i poliziotti per le vie di Londra
più di un secolo dopo. E mi mise alla guida
della marcia delle donne nel parlamento
in una nuvola di schegge dalle porte sfondate.

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Requiem per un libro che non ci sarà: Vieni, parliamo, chi parla non è morto Lettere di Cristina Campo (1936-1972) a Alejandra Pizarnik (1936/1970) a cura di Stefanie Golisch

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Cristina Campo (1923-1977), scrittrice, poeta e traduttrice italiana. Unica figlia del compositore Guido Guerini. È vissuta a Bologna, Firenze e Roma. Compagna del filosofo Elémire Zolla. Nel 1977 muore a Roma in seguito ad un una congenita malformazione cardiaca all’età di 53 anni.

Disse di sé: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno».

Alejandra Pizarnik (1936-1972), poeta argentina. Figlia di immigrati ebrei russi. Dal 1960 al 1964 vive, studia e lavora a Parigi. Nel 1972 muore suicida a Buenos Aires all’età di 36 anni.

Disse di sé: «Scrivi poesie perché hai bisogno di un posto, dove essere quello che non sei».

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Presentazione a cura di Stefanie Golisch

Circa otto anni fa scoprii negli archivi della Princeton University (New Jersey) una raccolta di lettere di Cristina Campo alla poeta argentina Alejandra Pizarnik (1936-1972). Decisi quasi subito di tradurre queste lettere – scritte in francese, a mano – in italiano. Convinta di sfondare porte aperte cominciai la mia ricerca di una casa editrice e, naturalmente, degli eredi del lascito della Campo per chiedere il consenso per la pubblicazione.

Ma quell’impresa, avviata con entusiasmo e sicuramente una buona dose di ingenuità, ben presto si trasformò in una vera e propria odissea.

Non avevo messo in conto che, evidentemente, mi stavo per espormi in un campo – quello della Campo – in cui non c’è posto per chi viene da fuori un circolo ristretto di persone che si arroga di diffondere una immagine canonizzata della poeta.

Proprio in questi giorni ho ricevuto il definitivissimo NO alla pubblicazione presso la casa editrice Mimesis di Milano da parte della portavoce degli eredi.

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per la possibilità di pubblicare sul suo blog la mia prefazione e due lettere che lasciano intravedere i tratti di una amicizia epistolare intensa e tormentata che aggiungono nuove sfumature alla personalità di Cristina Campo.

Tentata vicinanza

Cristina Campo e Alejandra Pizarnik

Io non esisto se non nella massima angoscia. Sembra che la vita mi si comunichi soltanto a bastonate e in alcun altro modo. Se non ci fosse il dolore il mio mondo interiore non sarebbe diverso da quello di una qualsiasi ragazza che la mattina sbadiglia in autobus, vestita per una giornata in ufficio. Io posso parlare a pieno titolo del “dolore di essere viva”.

 Alejandra Pizarnik

Non Le accade di attendere pallido, col cuore in gola il suo passato, di piangere rabbiosamente il suo futuro? Non La prende l’impulso di dare tutto il suo sangue a ciò che ama e insieme quello di fuggire nel più lontano chissà dove, solo come il primo uomo, in un’aria di schiuma e di buona ventura? È una voglia di vivere tale da desiderare d’esser già morto.

cristina-campo

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Cristina Campo a Remo Fasani

Fu tramite l’edizione tedesca dei diari di Alejandra Pizarnik che scoprii il legame tra la poetessa argentina di origine ebrea e Cristina Campo.

Mi feci spedire il carteggio dagli archivi della Princeton University, dove viene custodito il lascito letterario della Pizarnik, Immediatamente intuii i tratti di una relazione molto intensa, ma altrettanto complessa e non priva di una forte tensione di fondo, la quale per un certo periodo doveva avere occupato uno spazio non indifferente nella vita di entrambe le poetesse. Anche se a causa della perdita delle lettere di Alejandra l’immagine della loro amicizia rimane univoca, nei suoi diari si trovano tuttavia alcuni commenti che permettono di intuire come lei vivesse l’incontro con quella donna che, sebbene in modo opposto, è alla sua stessa ricerca di una intensificazione massima della vita: l’una, buttandovisi senza riserve, l’altra ritirandosi successivamente in una sfera di pura spiritualità. Nella diversità si riconoscono: Cristina scopre in Alejandra la sua fisicità repressa, Alejandra in Cristina la sua spiritualità sommersa.

Due modi di essere nel mondo che si attraggono e si respingono, che si avvicinano e si distanziano di nuovo secondo le proprie leggi interiori.

Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, che vive volutamente al margine dell’ambiente letterario della sua epoca e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiace nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che vuole fare del suo corpo il corpo della poesia.

Due donne

 Cristina Campo.

Nata a Bologna nel 1923. Figlia unica. Famiglia borghese. Il padre, il compositore Guido Guerrini, è prima direttore del Conservatorio di Firenze, poi di Roma, la madre discende da una delle più importanti famiglie della città.

Un’esistenza privilegiata, segnata però da quella malattia – un difetto cardiaco, all’epoca inoperabile ‒ che le causerà la morte all’età di soli 54 anni. Non essendo in grado, per via della fragile salute, di frequentare le scuole pubbliche, la sua formazione avviene esclusivamente sotto la guida di insegnanti privati e tramite le più svariate letture.

Cristina è una divoratrice di libri, un’appassionata di lingue e letterature straniere: francese, tedesca, inglese e spagnola. Presto sviluppa un raffinatissimo gusto letterario che trova al margine della cultura ufficiale l’esclusivo e il bizzarro, ossia quell’altra verità, il cuore della sua produzione poetica e saggistica

Cristina Campo non ha alcuna intenzione di sfruttare la sua cultura ai fini pratici, non ha bisogno di essere amata dal grande pubblico, ed è intransigente per quanto riguarda la pubblicazione dei suoi testi. Possiede una innata libertà interiore che la protegge davanti alle tentazioni del pensiero comune.

Ipersensibile, fragilissima di salute, ma forte di animo e dotata di un carattere determinato ‒ così si potrebbe caratterizzare quella donna che Alejandra conosce nel 1962, tramite comuni amici, a Parigi. Lei, 26 anni, Cristina 39.

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Alejandra Pizarnik

 Il mito di Parigi, l’eldorado degli scrittori sudamericani dell’epoca: un sogno collettivo che rapisce intellettuali tra loro così diversi, come Julio Cortázar, Ottavio Paz, Hector Murena e molti altri.

Senza aver terminato gli studi letterari e artistici a Buenos Aires, nel marzo del 1960 Alejandra si era imbarcata per l’Europa. Sa che i cambiamenti geografici non modificano il paesaggio dell’anima, ma sente la necessità di prendere le distanze dai genitori, ebrei ucraini, emigrati in Argentina due anni prima della sua nascita, nel 1934.

A differenza della Campo che, per quanto lucida nell’analizzare i rapporti umani in generale, tende a idealizzare i suoi rapporti familiari, Alejandra è spietata.

Nel disastro della propria infanzia ‒ in che cosa esattamente consista è poco chiaro ‒ vede la principale causa del suo squilibrio psichico, del suo malessere nel mondo.

Non diversamente dalla Campo, anche lei cresce in circostanze assai privilegiate. Il padre, un commerciante di gioielli, permette alla famiglia una vita senza preoccupazioni economiche. Eppure Alejandra non si sente compresa, né dalla madre, che disapprova apertamente le sue ambizioni letterarie, né dal padre che nei suoi ricordi sembra una figura piuttosto sfuggente.

Nonostante le tensioni incessanti che, a quanto emerge dai diari, rendevano la convivenza in famiglia un inferno quotidiano, vivrà insieme a loro fino al 1968, quattro anni prima della sua morte: l’eterna figlia che attribuisce ai propri genitori la colpa per una vita che, nonostante il crescente riconoscimento letterario, non riesce a gestire e che la porterà al suicidio nel 1972.

Sono colei che mi cerca dove non sono.

Con queste parole Alejandra descrive nel diario l’angoscia del proprio vivere. Un’infelicità di fondo la separa dal mondo e le impedisce di costruire rapporti durevoli. Dall’altra parte tale radicalità nella sofferenza diviene la fonte della sua arte.  La contraddizione rimane.

L’8 febbraio 1958 annota nel diario: E’ come se mi avesse divorato un morto. Come se avessi nutrito il mio sangue con cenere. Come se la peste si fosse innamorata del mio destino. Come se la parola non fosse mai scappata dal mondo per trovare dimora in me.

Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che si riconoscono. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra.

Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono reciprocamente è la radicalità del vivere negli estremi.

Sempre in altissimo.

Sotto la soglia della massima intensità di ogni attimo di vita nulla vale.

Bisogna essere pronti a bruciare vivi.

Cristina Campo sublimerà i pericoli della sua natura intransigente nell’ideale della perfezione etica ed estetica mentre Alejandra cerca di resistere giorno dopo giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Poiché soltanto a chi non diserta e non si risparmia sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann ‒ wahre Sätze, frasi vere.

 Vieni, parliamo, chi parla non è morto

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Mia cara piccola Alejandra,

la Sua lettera  mi ha profondamente sconvolta. Mi ha raggiunto in un momento di tenebra totale (i medici lo chiamano nervous breakdown) che è ancora e sempre frutto di troppo lutto. La comprendo pressoché troppo dolorosamente.

Cosa Le posso dire? Creda nell’anima, nella Sua, se non può più credere in quella di Suo padre, impegni la Sua anima, se può, a ricomporre con amore la sua figura, la sua eredità, la sua più segreta perfezione. La impieghi a creare un legame più forte – o forse più flessibile, in ogni modo più sicuro – con Sua madre.  Queste perdite orribili, queste mutilazioni senza nome, sono delle occasioni di rinnovamento per tutto ciò che resta. Non bisogna perderle.

Non mi aveva mai parlato di Suo padre. Vedo dal tono, dalla descrizione, che Le assomigliava molto. Ed è una grande fortuna. Rispetti profondamente questa rassomiglianza, preghi per Suo padre, se non può altrimenti, assomigliandogli nel modo più puro. La totale dignità dei morti è la più grande lezione spirituale che essi possano dare ai viventi!

La penso incessantemente e vorrei esserLe accanto per aiutarLa ad affrontare i mille piccoli orrori momentanei che rendono così dure queste eterne sofferenze. Mi scriva, se può. Il mio silenzio di tutti questi mesi significava, in parte, la paura di parlarle in un linguaggio che l’avrebbe disorientata. Oramai, ahimè, credo però che Le sia diventato familiare. L’abbraccio insieme a Elémire, pregando per voi, tutti e tre.

Cristina

 Questa breve lettera è caratteristica dello stile e del tono che Cristina assume quando si rivolge all’amica. Siccome ne avverte l’estrema instabilità psichica, cerca di condividerne il percorso di vita, trasmettendole tutto ciò che a lei stessa è stato di conforto.

La relazione dell’individuo con la propria tradizione non solo è centrale in questo contesto, ma è un tema ricorrente nelle lettere e costitutivo del pensiero di Cristina Campo, che proprio in quegli anni si avviava alla conversione al cattolicesimo.

Nella religione trova una via d’uscita dalle aporie della modernità, che proprio a causa della perdita di tradizioni millenarie non è più in grado di trasmettere all’uomo un orientamento spirituale, un senso del suo esistere.

In Alejandra avverte il prototipo dell’individuo moderno che, abbandonato a sé in un vuoto di significato, non può che reagire manifestando dei disturbi psichici. In aperto confronto con il pensiero corrente, lei difende l’idea che un solido radicamento dell’uomo nelle proprie tradizioni culturali e religiose sia garanzia della salute mentale individuale e collettiva.

In una lettera non datata, probabilmente del 1964, scrive a proposito:

Lei mi diceva, quasi un anno fa – quanto tempo è trascorso dalla Sua prima lettera – che parole come religione, patria, famiglia “naturalmente” non avessero alcun senso per Lei. Può benissimo essere vero, ma non è affatto naturale. E’ solo tragico – e se il poeta accetta tutto ciò come naturale, questa è la fine, lontana o vicina, della sua stessa arte, perché il poeta, cioè l’aristocratico, ha la sua patria, la sua religione, la sua famiglia: ce l’ha, in ogni caso: la religione della parola, la patria della lingua, la famiglia dei morti meravigliosi e severi. E’ sorvegliato ovunque, controllato da un seguito implacabile, da un cerimoniale più duro e più puro di quello degli imperatori di Bisanzio. Se si sottomette da asceta a questa corte invisibile più tardi avrà, oltretutto, perfino la patria reale, la religione reale, la famiglia reale: è, in ogni caso, il passato, la tradizione ritrovata, l’infanzia trasfigurata nella rivelazione della morte. L’esperienza, infine, così com’è: “un’altra vita, irriconoscibile, solenne e perfetta”.

Per salvare Alejandra dalle devastazioni del Zeitgeist le consiglia i libri di Simone Weil, il Lord Chandos di Hofmannsthal, e la mette in contatto con persone che ritiene possano esercitare un’influenza positiva su di lei. In particolare in Simone Weil, la Campo vede la figura guida sui generis. Ma Alejandra si sente respinta dal rigorismo morale della Weil, anzi, la spietatezza del suo pensiero le fa paura. Il 28 aprile 1963 scrive: La paura che mi fa S. Weil è una paura come se si aspettasse per un tempo incerto in una stanza vuota (bianca). Forse perché ha abolito la fantasia, ossia l’arte, per instaurare al suo posto la morale (la giustizia, la virtù, la filantropia. (…) Questo significa che per me S.W. è la tentazione del salto dall’estetica all’etica. E, anche se sono cosciente di essere caotica, di venire dalle menzogne e dall’immaginazione (…) devo dire che la giustizia e la virtù non m’interessano affatto. In me c’è qualcuno che accetta il male e il disordine se essi sono le premesse di una bella poesia.

Infatti, le sue osservazioni riguardano direttamente un conflitto, forse irrisolto della Campo stessa, cioè quello tra la ricerca spirituale e quella letteraria.

A causa della perdita delle lettere di Alejandra, purtroppo non possiamo sapere se le due donne abbiano mai affrontato apertamente questo argomento. E’ comunque probabile che, come spesso avviene per le amicizie femminili, abbiano preferito evitare i dissensi, sottolineando invece le somiglianze reciproche. Tuttavia, nel suo diario Alejandra parla chiaramente del rapporto con Cristina. Soprattutto nel periodo tra il 1964 e il 1967 numerose annotazioni riguardanti il loro scambio epistolare provano che Alejandra viveva questa relazione in modo molto intenso, ma altrettanto conflittuale: Strana relazione con C.C.. Non è strana, ma semplicemente una ripetizione in più. Desidero che non mi scriva più, affinché io possa soffrire. Ossia: perché lei sappia che io soffro a causa del suo silenzio.

Con il passare del tempo sempre più spesso deplora una lontananza di fondo, che, dall’altra parte, Cristina pare non avvertire:

Lettera di C.C. La comprendo?

Devo e non devo scrivere a C.C.? Tanto, non comprenderebbe mai ciò che mi duole.

Lettera di Cristina. Mi fa paura. Come se mi avesse scritto un angelo.

Terribile dolore a causa della lettera di C.C. a I. e, al contempo, gioia, perché in verità sono io che,

nonostante tutto, sono fedele. (…) Ossessionata dalla lettera di C.C. (…) C.C. fu la mia interlocutrice interiore.

Nelle lettere di Cristina, sempre gentili e misurate, Alejandra ravvisa la natura sfuggente, intoccabile della sua interlocutrice: Ora non sono più arrabbiata con C.. Ciò che assolutamente non posso capire: perché non ho letto le sue lettere con uno sguardo più critico? Ma queste lettere non m’interessano. C. non esiste, se non soltanto nella fantasia, è un personaggio inventato che mi scambia per qualcun altro quando parla, perché dice delle cose che non mi aspettavo. Soprattutto non ho notato la sua freddezza. Comprende che Cristina, nonostante gli apprezzamenti rivolti alla sua scrittura, la considera comunque una scrittrice non ancora matura, bisognosa di una guida spirituale. Ma Alejandra pretende che il caos della sua vita venga preso sul serio.

Due mondi

Da una parte la ricerca dell’armonia, dall’altra la resa al caos.

Tra questi due modi di percepire l’arte e la vita non c’è corda che leghi. Non si può arrivare a un compromesso, ma solo all’accettazione di un’altra necessità, imparagonabile alla propria.

Il 19.9.1967 Alejandra scrive nel diario: Ieri sera ho raccontato a Silvina del mio scambio epistolare con Vittoria. Avevo la sensazione che le interessasse; e ancora di più: credo che abbia visto in esso qualcosa di straordinario. Indubbiamente lo è o lo era (non so come andrà avanti, non so se voglio o posso continuare). E’ strano, ma soltanto quando ne parlavo con lei, ho capito che la grandezza e l’intensità dell’incontro tra me e V. non è “scontato”. (…) Perché l’entrata di V. nella mia vita non mi ha mai sorpreso? Non solo non mi ha sorpreso, ma ho dimentico la sorpresa (o la non-sorpresa). Qualche giorno dopo aggiunge: Davvero, che libro si è dissolto in tutte quelle lettere che ho spedito o non spedito a C.C.? E nel dicembre del 1968 conclude: Credo che la mia corrispondenza con C.C. mi abbia dato molto, perché mi ha costretto di rivolgermi a lei in modo chiaro. E’, la chiarezza, una virtù? Non so quali siano le virtù. Io conosco soltanto desideri.

L’ultima lettera di Cristina a Alejandra invece è del febbraio 1970.

Comincia in modo leggero con dei pettegolezzi su comuni conoscenti per poi passare, come di consueto, ai consigli di lettura: Ma salviamoci da questi antri orribili, dalla paura che un rospo ci possa saltare sulla spalla. Ho qualcosa di molto urgente da dirLe: è necessario, è un imperativo, che legga i libri del Rabbi Abraham Joshua Heschel, un mistico di pura tradizione chassidica che ho conosciuto in circostanze straordinarie (era qui un anno fa). Credo che una grande ricchezza e una grande gioia L’attendano in queste pagine. (…) Credo che Rabbi H. sia uno dei 10 giusti sopravvissuti al disastro di Sodoma: quelli che, un giorno, si dovranno riunire dai quattro punti cardinali per salvare le tradizioni minacciate, poiché “tutte lo sono”. Fu lui a dirmi quest’ultima parola. (…) Ed è molto bello che parole molto simili io le abbia ricevute tante volte da Alejandra.

Parole concilianti, il tentativo di aiutare l’amica di uscire dal circolo vizioso dell’autodistruzione che però non la raggiungono più.

L’amicizia amorosa tra Cristina Campo e Alejandra Pizarnik non si rompe clamorosamente, ma sfocia nel silenzio. Come succede in casi di questo genere, l’attrazione irrefrenabile del proprio opposto è troppo seducente per essere respinta e troppo pesante per essere vissuta fino in fondo. Il breve periodo del loro contatto epistolare non ha cambiato il corso della vita né dell’una, né dell’altra. Entrambe indomabili, si sfiorano soltanto; poi, come delle comete smarrite, tornano nella propria orbita, per andare laddove devono andare.

Prima lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik

Martedì [gennaio/febbraio?] 1963

Mia carissima amica,

non so come chiederLe perdono per non aver ancora risposto da settimane alla lettera dove Lei mi parlava della sua angoscia e che mi aveva molto colpito. Raramente il cielo ci permette di realizzare in tempo il gesto che vorrebbe scaturire da noi come la voce stessa e che, nella sua perfetta gratuità, potrebbe? dare, talvolta, a coloro che si ama ciò che Simone Weil chiamava “un poco di energia supplementare”. Ci sono dei casi in cui la distanza è crudele. La mia mano che prende la Sua in questo momento direbbe quanto dolorosamente io senta il Suo stato d’animo, che la mia imperdonabile mancanza d’attenzione, all’inizio, mi aveva fatto credere meno drammatico. E saprebbe anche, senza altre parole, a che punto sono certa di Lei, a che punto credo nella Sua vittoria. Non ci sono tracce in Lei di questo polo interiore di sofferenza, o del male che risponde alla sofferenza o al male esteriore e senza il quale niente di increscioso per lo spirito possa verificarsi. Le sembrerà strano, ma attendo impazientemente che Lei parta per questo viaggio che La sgomenta.

Ci sono grandi mostri che attendono di diventare principi. Bisogna proseguire dritto, come la Bella, e sedersi alla loro tavola. Lei appartiene, più che ogni altra persona al mondo, alla razza della Belle. Possiede il grande coraggio, la grande pietà, “il sacro dono del ridere” ed è proprio la donna che vuole la rosa in inverno. Inoltre, se ora scrive poesie più lunghe, vuol dire che è diventata più forte (è una meravigliosa notizia che mi ha dato). Inoltre ‒ e so che ciò non Le è indifferente ‒ ora Lei si trova in un cerchio – o meglio in un quadrato – magico: 4 amici La circondano (ne avrà degli altri, credo, molti altri, ma mi piace pensare che questi 4 Le sono più vicini degli altri). Hector è mercuriale, Lei lo sa, psychopompe, se possibile, e la sua presenza, mentre stavate partendo da B[uenos]. A[aires] ci dà molta gioia.

Ma perché, cara Alejandra, non inviarmi le Sue poesie? È crudele sollecitare un poeta, ma è ancora un poco più crudele, annunciarmi la mia poesia, altre lunghe poesie, senza inviarmi un solo verso…. Ci sono dei Suoi versi che mi ossessionano. Uno: “Cuando yo muera, quien me lo va a decir?” Aquì Alejandra, todos son muertos y no toleran que se lo digan. Roma è una città dove, per non morire, anche senza vocazione, anche senza religione, bisogna vivere come i santi. ”Y pasar la noche con una espada en la mano”.

Non ho mai conosciuto un posto dove l’odio per tutto ciò che vive è talmente feroce, di una ferocia da scimmia e da pollo. Per esempio: ho appena ricevuto la nuova edizione italiana dei meravigliosi saggi di Gottfried Benn (un libro che Le appartiene, credo). L’editore si scusa nella copertina, per questa pubblicazione, parla del grande poeta, l’ultimo: “certamente né un maestro, né un modello”; eccetera. Vorrebbe essere perdonato per aver aperto a un vivente la porta del grande cimitero. (Lo stesso odio cieco circonda Zolla che vive come un monaco e non ha alcuno in patria).

Non dimentichi, Alejandra di mandarci al più presto il suo saggio su Macedonio Fernandez. Se dovessi dare un giudizio soltanto considerando alcuni passaggi della Sua lettera su “Cecilia”

(che Zolla mi ha letto al telefono la mattina stessa), infinite altre gioie ci attendono nei Suoi saggi. Non so nulla di M. Fernandez. Se non ricordo male, si tratta dell’ammirabile assente al quale Borges dedica il suo Hacedor (“quel libro che non gli sarebbe piaciuto”)?

Quanto a Borges, è accaduta una piccola magia. Avevo preparato per Lei questo pesante e noioso ritratto (Prix Formentor), tagliandogli la testa ed i piedi, stilizzandolo fino all’emaciazione. Stavo per spedirglielo quando, molto disgustata, trovo tra i miei vecchi quaderni un foglietto battuto a macchina (il che faccio raramente) e che non ricordavo di aver scritto. Questo foglietto s’intitola

“Omaggio a Borges”, ma non ha nessun rapporto con Borges che non sia analogico, perché non si tratta di lui, non parla di lui, ma di un bellissimo piccolo monumento alchemico, la porta magica, nascosta nel mezzo di uno squallido mercato romano che vicino alla stazione. È una porta cieca (che, del resto, non introduce in alcun luogo) ma sulla quale si trovano misteriose incisioni latine ed ebraiche, quali: “Quando i vostri neri corvi genereranno bianche colombe, potrete chiamarvi saggi.” ecc. (Ecco, di nuovo, la metamorfosi dei mostri!)

È questa paginetta che Le invierò (se non preferisce l’altra versione, quella accademica, per questa occasione così poco ufficiale). Io sarò occupata per 2 giorni alla correzione della Venice sauvée di S[imone] W[eil] che ho tradotto in italiano; poi copierò quel foglietto e lo riceverà, spero, al più tardi entro circa una settimana.

Come vede, Alejandra, la Sua presenza è causa di ogni sorta di fenomeni inquietanti.

L’atto stesso di scriverLe produce delle specie di cortocircuiti e questo non è una metafora, perché avevo appena cominciato a scrivere questa lettera quando un fulmine è caduto a due passi dalla casa (con mia grande gioia, perché attendevamo il temporale da ieri) e dopo qualche minuto un campanello ha cominciato a suonare da solo nel corridoio – nessuno alla porta, soltanto questo tintinnio allegro come un riso che mi ha donato una grande gioia. È durato circa 10 minuti, a tre riprese. Cosa ne dice?

Mia cara Alejandra, La stringo tra le mie braccia. Attendo le poesie. Grazie.

La Sua Cristina

Grazie per Commerce. Tutto ciò che fa è ben fatto. Hector [Murena] (che è molto arrabbiato perché, tutta occupata di Lei, non gli ho più scritto negli ultimi tempi, e altamente incoerente come tutti i maschi, perchè aggiunge: “che felicità sapere che Lei ha una corrispondenza con Alejandra”) mi ha consigliato di inviare un saggio a Papeles de Son Armadans.

Avrei così qualcosa che potrebbe leggere senza un orrendo dizionario. (Cosa pensa di Papeles? Ha già avuto una collaborazione? Crede che accetteranno questo saggio di una sconosciuta?) María Zambrano scriverà loro. Vedremo.

Penultima lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik

 Roma, febbraio 1970

Mia carissima,

la Sua deliziosa lettera su S[ilvina] O[campo] mi diverte infinitamente. Ho assistito a una specie di (molto strana) resurrezione dei morti, perchè conoscevo già questa storia a memoria: è, alla lettera, la storia della mia relazione (se si può dirlo) con Elsa Morante, la scrittrice (moglie di Moravia). Secondo la logica inflessibile dell’irrazionale, Wilcock, dopo aver lasciato S[ilvina].O[campo] a Buenos Aires dodici o quindici anni fa, è immediatamente passato al servizio di E[lsa].M.[orante] a Roma. Sia dall’una, sia dall’altra, ha scrupolosamente svolto il ruolo del gatto della strega, mirabilmente adatto a un certo tipo di omosessuale subdolo e sentimentale e fondamentalmente masochista (perfino se, come Wilcock, di estrema intelligenza).

Alla fine della storia il gatto è stato divorato dalla strega, della quale pensava di servirsi per raggiungere) i suoi fini occulti – non essendo abbastanza donna per esercitare lui stesso la vera stregoneria…

Quelli, come Lei e me, che si rifiutano ostinatamente di lasciarsi divorare, sono destinati all’amorevole odio, teneramente criminale della strega. Mi ha colpito la Sua giusta osservazione sulla causa ultima del furore di S.[ilvina] O.[campo]: la scoperta della tradizione giudaica. Ogni forma, anche relativa, di certezza – amore, poesia, solitudine ‒ che rendono una creatura inafferrabile, è intollerabile per i vampiri; cosa dire quindi della certezza delle certezze, delle sue radici spirituali? Mi ricordo lo sguardo di vera disperazione di questo tipo di gente quando, per esempio, rispondevo alle loro descrizioni tragiche e mistiche dell’“esperienza allucinogena” con una risata o con un “Povero mio…. oh, è una disgrazia troppo grande”, costernata e piena di dolce compassione. O quando, evocando (loro) delle fascinazioni irresistibili, indicavo come unica e sovrana (il che è verissimo) quella di una vecchia badessa benedettina di clausura… L’unica differenza notevole è che E[lsa] M[orante] non è più né charmant, né squisita ‒ se mai lo è stata.

S[ilvina] O[campo], fondamentalmente identica, ha comunque molta più classe. (Leggevo circa un mese fa in “Razòn y Fabula” una sua impeccabile e purulenta poesia “Anamnesis”, credo. Mi domandavo se qualche cosa potesse esprimere più profondamente la decadenza, perfino intellettuale di un epoca; ma, tutto sommato, E. M. non sarebbe riuscita a scrivere nulla di simile).

Ma salviamoci da questi antri orribili, dalla paura che un rospo ci possa saltare sulla spalla. Ho qualcosa di molto urgente da dirLe: è necessario, è un imperativo, che legga i libri del Rabbi Abraham Joshua Heschel, un mistico di pura tradizione chassidica che ho conosciuto in circostanze straordinarie (era qui un anno fa). Credo che una grande ricchezza e una grande gioia L’attendano in queste pagine. Qualche titolo (scrive in un inglese ammirevole: “Man is not alone”, “God in search of Man” e soprattutto un libricino “Sabbath”. Credo che l’editore sia sempre Farrar & Strauss di New York. La cosa straordinaria in Rabbi Heschel, così come dei racconti del Baal Schem, è che ognuno vi trova ciò che è destinato a lui. (Personalmente non trovo alcuna difficoltà a leggere Verbo laddove egli usa Torah, ma questo ha poca importanza. Ho appena scritto, tra parentesi, la prefazione all’edizione italiana di “Man is not alone”). Credo che Rabbi H. sia uno dei 10 giusti sopravvissuti al disastro di Sodoma: quelli che, un giorno, si dovranno riunire dai quattro punti cardinali per salvare le tradizioni minacciate, poiché “tutte lo sono”. Fu lui a dirmi quest’ultima parola, supplicandomi di scrivere sulla mia. Ed è molto bello che parole molto simili io le abbia ricevute tante volte da Alejandra.

L’abbraccio molto teneramente, mia cara, augurandoLe tutte le grazie

Sua Cristina

Sono incantata che Tentori abbia trovato spunti di riflessione nei Suoi piccoli libri: tra i quali lui preferisce, come me, con veemenza “Los trabajos y las noches”. Penso che nella sua antologia, che conterrà un numero molto ristretto di poeti, ci saranno almeno 10 o 12 poesie di Alejandra e questo mi incanta più di quanto Le possa dire.

(E il Suo lungo poema di 360 pagine? Era una promessa…)

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Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014.

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Claudio Borghi Riflessioni sulla poetica del «frammento» e del «tempo interno». Poesie tratte da Dentro la sfera (2014) con un Commento di Luigi Manzi

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Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016).  Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015).

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Riflessione di Claudio Borghi sul «Frammento»

La poetica del frammento e del tempo interno è un tentativo di superare l’impasse della stagnazione e della mancanza di ispirazione che blocca buona parte della poesia moderna. La ricerca di nuova linfa poetica procede con attenzione al progresso scientifico, in particolare della fisica teorica, dell’astrofisica e della cosmologia, e trova spunti nella riflessione di filosofi come Heidegger e Barthes, o di romanzieri quali Rushdie e Pamuk. L’intenzione è encomiabile, come ogni nuova esplorazione che porti una forma d’arte a indagare territori poco conosciuti e a tentare nuove sintesi e forme di scrittura. Una ricerca implica, tuttavia, perlomeno sapere o cosa si sta cercando o in quale direzione si sta cercando qualcosa che non si conosce ancora bene. Poiché la scienza è considerata un modello di riferimento e una fonte di ispirazione, provo a spiegare con un paio di esempi quali possibili rischi di interpretazione si corrono a sposarne le teorie e, altresì, quale ricchezza può nascere da una riflessione poetica sulla vertigine straniante dei fenomeni naturali.

Il primo esempio riguarda l’atomo, parte essenziale dell’edificio della materia. Nessuno ha mai osservato un atomo, ma abbiamo buone basi sperimentali e teoriche per concepirlo, in modo semplificato, senza cioè entrare nei meandri quantistici, come una sfera al cui centro sta un nucleo che contiene praticamente la totalità della massa, in cui stanno neutroni e protoni, intorno alla quale si muovono (poco importa qui se su orbite classiche o orbitali quantistici) i leggerissimi, impalpabili elettroni. Ora, la cosa sorprendente è che il diametro del nucleo è centomila volte più piccolo della distanza media tra gli elettroni e il nucleo e che tra nucleo ed elettroni c’è, quanto a materia, il vuoto. Questo significa che l’atomo è praticamente fatto di niente in termini di materia: è sede di interazioni nucleari (forte e debole, all’interno del nucleo) ed elettromagnetiche (tra elettroni e protoni), quindi di campi di forza, e sono in pratica questi campi che giustificano la struttura della materia, più che la materia stessa. Sono le interazioni la chiave della fisica, quindi le relazioni tra le particelle. Un’ingenua, statica immagine della realtà fisica come qualcosa di pieno è quindi fuorviante e sbagliata, per quanto sembri incredibile che un corpo sia in definitiva un vuoto strutturato grazie alle forze tra i costituenti elementari di cui è fatto.

Il secondo esempio riguarda i buchi neri, con chiaro riferimento all’ipotesi “Il frammento è un buco nero?”, contenuta nei commenti al post “Dialogo a più voci sui concetti di paradigma, nuova poesia, tempi interno, ecc.”. Non sto a ricostruire l’articolo di Rovelli, perché è lì a spiegare chiaramente, senza bisogno di commenti. Cosa c’è di problematico, qui? Il fatto che la relatività generale, da cui pure si deduce la previsione dell’esistenza dei buchi neri (che pare confermata grazie alla scoperta delle onde gravitazionali, ma io ci andrei sempre con grande cautela sulle verifiche sperimentali, specie quelle che vanno tutte nella stessa direzione), proprio in relazione alla struttura interna dei buchi neri cade tragicamente in errore. Rovelli lo dice quando parla di buchi bianchi e sembra che dica poca cosa. In realtà sta dicendo qualcosa di drammatico. Quando la materia entra in un buco nero, la teoria (non Einstein, ma chi l’ha sviluppata in seguito, in particolare negli anni sessanta, Hawking, Wheeler, ecc.) prevede che debba viaggiare verso il centro del buco nero. Il fatto è che, se questo accade, la teoria stessa impazzisce, in quanto nel centro del buco nero tutte le sue capacità di previsione crollano. Cosa possiamo pensare? Di tutto, si direbbe, vista la fioritura immaginifica e poetica di teorie su wormholes, universi paralleli e quant’altro. Oppure, dice la gravità quantistica, più ragionevolmente si dovrebbe pensare che il centro non viene raggiunto, si crea una sorta di enorme pressione quantistica che provoca un rimbalzo all’indietro per cui tutto quello che entra prima o poi dovrà uscire. In che forma? Di radiazione, di altra materia? Non lo sappiamo. Ebbene, cosa significa? Che una delle più grandi scoperte sperimentali degli ultimi decenni, quella delle onde gravitazionali, conferma una teoria (la relatività generale) che necessariamente è sbagliata, perché non consente di prevedere quello che accade nel centro di un buco nero, e non abbiamo a tutt’oggi teorie che ci consentano di fornire spiegazioni alterative convincenti.

Questi esempi significano una cosa molto semplice, che sto dicendo da qualche tempo nei miei articolati interventi sul blog: andiamoci piano con la scienza, in particolare quella che si fonda su congetture di così ampio respiro. Il mio invito a ritarare la mente sul mistero del cosmo e della psiche umana, oltre che sulla varietà stupefacente di creature che ci circondano, ha proprio questo significato: lasciamo la scienza ai suoi voli prometeici, alle sue ambizioni sovrumane, concentriamoci sul breve volo dell’io che davvero è fatto di tempo interno che si scandisce in istantanee di memoria, in frammenti sfuggenti e impalpabili. Questa ricerca, che si concentra sul dato ineludibile della creazione, esperita nella sua sostanza sensibile e percettiva, contiene un tesoro immenso di potenziale poesia, ben più ricco delle congetture sull’infinitamente piccolo o l’infinitamente grande, in cui la mente necessariamente si perde, non essendo, come scriveva Pascal, proporzionata per capire. La poesia dovrebbe tornare all’umanità, allo stupore dell’essere, alla dimensione che ci è concessa in quanto creature, al nostro ruolo nel cosmo e nei cicli del divenire, che è transitorio e inafferrabile, nonostante la mente ci illuda di poterci trascendere e trovare la legge che chiude in sé il mondo.

Un’ultima nota riguardo ai miei libri, in particolare Dentro la sfera, che della Trama vivente costituisce la premessa necessaria e fondamentale. Il libro è in pratica strutturato in due parti, la prima in versi, con qualche prosa, la seconda in prosa, con rari versi. La sfera è un’unità, di cui i due emisferi formano le parti complementari. Mi riferisco in breve alle sezioni in prosa, tessute con aforismi filosofici e lirici, strutture molecolari a loro volta tenute insieme da atomi-segmenti di intuizioni e illuminazioni, percorse da rapidi voli del pensiero che cattura immagini, idee, voragini abissali, percezioni di volatile apparenza, sullo sfondo del basso continuo di una disillusione amara e malinconica circa il senso del nostro essere parti di un tutto che non possiamo cogliere globale. Il libro è concepito come un non finito frammentario, quindi non come il riflesso emozionale di un infinito possibile, ma di una struttura umanamente imprendibile. Mi limito a fissare l’attenzione su una sezione per me espressivamente tra le più efficaci, Forma del tempo, in particolare allo stacco tra un frammento aforistico e la successiva, vertiginosa sintesi in versi:

Nell’intera forma viva che sotto il sole splende, non si cura il creatore di aver lasciato creature che si sfibrano e gridano il loro corpo che scolora: la forma intera sempre in qualche nuovo corpo rinasce, comunque nel complesso accesa brilla, ignorando che nelle anime si cela l’ombra e lo spavento, il dubbio sfila o sfugge come uno sfiato o l’acqua che si chiude sparendo in un tombino.

Dì ai rami e alle foglie che il senso è dentro,
immobile, chiuso nel verde invisibile
della linfa che risale la gravità, nel rigagnolo
che alla prim’ora lascia il suo segno sulle foglie,
e nella vertebra gigantesca del tempo,
nell’urlo primordiale che infuoca la voragine impaurita della sfera,
non nel pianto piegato
dell’albero intero,
costretto a subire il vento, e la pioggia vuota insensata delle ore.

Il libro è concepito come un itinerario della mente verso il Cerchio intelligente, la sezione finale. E il frammento ne è la naturale forma espressiva, un dire senza mai attingere il cuore della sostanza del pensiero, come nell’atomo il vuoto tra il nucleo e gli elettroni, o il centro inattingibile del buco nero, quella regione di smarrimento e straniamento che l’intelligenza non potrà mai colmare, ma in cui la poesia può trovare una ricchezza espressiva inestimabile.

Concludo con un’ultima citazione, tratta sempre dalla sezione Forma del tempo:

Non c’è calma: un frenetico cambiare, un’opera che ne genera un’altra, frammenti tenuti insieme da forze improbabili, lastre che sporgono una sull’altra poggiate avanzando sullo strapiombo, lische di materia che si sollevano per concedere alla vista il brivido di essere più avanti, in tappe successive di vuoto che avanzando dimenticano la propria origine: la stasi immutabile e senza tempo. La cupola emerge unica, perfetta, immobile. La città ne riceve beatitudine. Una calma diffusa si sparge come un uccello smarrito, confuso o impaurito dal suo stesso canto.

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Commento di Luigi Manzi a Dentro la sfera

Trovo Dentro la sfera ambizioso quanto coraggioso se rivado con la memoria ad altri grandi esempi del passato, compreso l’immenso De rerum natura. Debbo dirti che tu hai affrontato il tema con sicura maestria tecnica poiché hai saputo inseguire l’impeto e l’urgenza dell’ispirazione (nel tuo caso si deve parlare certamente di ispirazione) senza tentennamenti e senza neppure disperdere l’eco avvolgente che via via ti ha indotto alla scrittura. Il tuo è un esempio raro di ascolto visionario; proprio quando la poesia contemporanea sta attraversando il deserto dell’insignificanza fino all’aridità se non al singulto e infine all’afasia; per non dire alla ottusità dei sensi oltre che dell’intelligenza. Il minimalismo stilistico dell’odierna poesia – sponsorizzata dagli editori di levatura – si sovrappone alla penuria della fonte o ne maschera la siccità.

Trovo, in Dentro la sfera, quasi la fluida trascrizione di una energia cosmica che ci seduce non appena ne assecondiamo la danza e la finalità; ma che ci abbandona impietosamente quando ce ne allontaniamo con protervia intellettuale e provochiamo inerzia. Questo te lo dice un laico (e pagano) come me, senza nostalgie, che non cede ad altro se non alla ragione e ai sensi. La tua scrittura non ha punti d’attrito e non soffre d’artifici ma segue l’onda lunga e flessuosa delle visioni come in una armonica coreografia in cui i testi e i versi assumono proporzioni nello slancio vitale: esso stesso colmo di significati reconditi e di seduzioni.

(Luigi Manzi, 2014)

Poesie scelte da Dentro la sfera
Dalle sezioni in versi

La distensione delle ali (estratti)

Sono una strada i versi una strada in discesa
su cui scivolano presenze e si sentono andare
verso il limite del dire il limite semplice
di questo essere manifestato aperto fiorito.
Convinto di potere, di riuscire a vedere,
di avere la chiave, io: albero sempreverde,
foglia umida, nudo ramo annerito.

Attimo senza tempo, polvere di luce,
perla condensata, universo di materia ridotto a idea,
mi distendo in una forma di volo
verso i tuoi occhi di stella, unico vivo, solo
in tanto spazio allungo la mente
a carpire un significato eterno.

Cosa sento, cosa vedo, dove battono i tacchi
della mia danza? Sul mio confine –
sul tuo confine, mio Dio – mio
come è mio il viso come sono miei i figli
come è mia la malinconia dell’autunno
che irrora i giardini e ne impregna le foglie
acquarellando gli occhi sfumando le ciglia
riducendo a polvere ogni gesto ogni linea
di vento?

Un nero discendere di muro riscaldato dal sole –
la luce laterale bagna spiovendo gli alberi
e riempie anche me. Io mi lascio riempire mi sento
riempire fino ad essere colmo come se l’essere io
fosse un vaso – che tracima e subisce il non capire.
Vita fatta di sola mente, di contemplazione,
di memoria intermittente.
Mi confondo lasciandomi pensare, chiudo gli occhi,
immagino il mio cosmo che si svuota e vola,
entro (ma si può entrare?
e posso io entrare?) nel niente.

Sento il cuore, ma non serve. Non serve l’emozione,
il sentimento del diramarsi e abbracciare
se c’è un destino già scritto il cui nome
è divenire, se l’io è solo un punto
che raccoglie ed emana profumo, e la rondine
alta si spiana sulla casa, e i sogni rientrano
nella casa, e mi sento riscaldare vicino al camino
e di nuovo respiro, lentamente – di nuovo
mi sento bambino.

Mia madre si alza. Nel presente eterno
chiama a raccolta gli uccellini in piena mattina
ed è una creatura nuova che risplende – unica madre
di un unico figlio che la cerca e beve le sue parole
e si sente appagato dall’essere vivo
in quest’ora dal sapore sospeso – come l’essere
fosse foglia, e il corpo senza peso.
Ma io non conosco ciò che vedo,
mi lascio filtrare da ciò che penso,
come un pesce immerso in un oceano che lo avvolge
catturo l’essere come una presenza silenziosa,
il fondale su cui la mia ala atterra
e lievemente si posa.

[…]

Passato e futuro orbitano,
gravitano intorno all’io
spogliato dell’apparenza,
ridotto a semplice cuore.
Consegnato al pianto senza forma del nascere
affida al mondo il suo essere,
si svuota del calore del grembo eterno
che lo avvolge e lo protegge, prima chiuso nel sole
ora si dissolve, per sempre, nell’aria.

Un emanarsi istantaneo tremendo definitivo
come un colore che si diffonde sull’acqua,
un cuore divino costretto a sfogliarsi,
uno sfumare della materia in pensiero,
una rarefazione tendente al grigio,
una vitalità che diventa affanno,
un voler tornare all’ombra del bocciolo
che precede la dissoluzione: stordito dal volo
dell’essere-qui, vivo tra presenze che si sfanno.

Infanzia che ti strappi e rinasci
dai frantumi, dalle pieghe del tempo
e violenti la velina dei sensi,
sostanza di un’eternità di luce
giunta al tramonto, bagna di onde
la riva umida di questa sera,
ridiventa passeri e voci, e altalene
vicino al fosso, e profumo di erba fradicia,
ascolta questo intenebrarsi affondare,
questa ricerca di armonia nei flutti del tempo
che cancellano le forme vive –
la musica non ha più sapore ormai –
le foglie sono diventate scure, le case rosse
si sono riempite di vento –
come un filo lungo della luce mi sono perso
o forse solo disteso come una grande chioma,
ho catturato intera la mia forma di tempo
addormentata viva tra la nascita e la morte,
addormentata tra le braccia forti di un dio
che consola, gli occhi risvegliati
tra le sue mani, i capelli ancora neri, i bambini
affacciati al balcone
affidano al vuoto il loro sguardo incantato,
la mattina è serena il cielo tranquillo
la strada una pelle bianca toccata dal vento.

Forme nel marmo

Ferma la materia sul fondo del corpo
della visione senza peso,
l’albero fresco senza corteccia, la riva
senz’ombra, la tempera illimpidita
del pomeriggio calmo nell’ora lunga del campanile,
la luce del viso unica e veloce
emerge dai raggi teneri dell’acqua, istante
chiaro senza identità, senza nome,
onda sui sassi, atomo di suono leggero
salito a morire nella macchia alta del cielo.

Perché chiedere,
perché allungare le mani?
Il volto mi è sconosciuto: come posso dire
di possedere, di vedere,
al limite di conoscere
se la ventata di luce mi disperde le idee,
le forme di marmo del mio pensare
diventate polvere senza contorno?

L’orizzonte interrompe la cupola troppo alta
su cui il sole sommerso sparge dal profondo
gradazioni scure di colori che sfumano.

Il volo della terra tranquillo si disegna
traiettoria eterna intorno alla quiete centrale:
chiedo chiarezza se è possibile domandare
ma nessuno sente – la parola
ferma sul filo – l’uccello
la chiude nel suo corpo che pesante si solleva
e si spegne in distanza.

Nel tempo solo senza musica

Nel tempo solo senza musica, solo e senza musica
e luminoso il sole si corica sul letto viola
del lago, dove la conoscenza è evidenza
e indistinta la potenza diventa particolare
immedesimandosi in un movimento puro senza esistenza

le onde tutte della luce fasciano il pianeta
i corpi degli uccelli volano nell’atmosfera
la terra umida della notte
distesa si copre della grandezza manifestata del giorno

e non so come chiedere alle parole di piegarsi
sulle cose, come pensarle, come venire al bocciolo
dell’apparenza presente che si mostra
e si offre, del volto più puro che si alza
fino all’azzurro incontaminato

e azzurra è la potenza, e senza occhi

e tua la fronte che si immedesima ancora
nel nettare unico della vita,
quasi senza saperlo, nel flusso lavico
del calore senza luce delle idee

che diffondendosi come mille lune
opache gialle sbocciate come piccoli fiori
sembrano dire una nascita senza morte

e tua è la certezza, tua la forza

di vedere oltre il centro che si lascia conoscere
perché il senso non ha parola, e l’immagine vola
aprendosi a ventaglio da ogni minimo respiro

perché tua è la nascita, tua la forza

che pensa e dice, e il ventre di lucciola
segno ultimo del vivente acceso
ha il sapore di una canzone raccolta
nel minimo cuore dello spazio
impregnata della luce acquatica dell’altrove
la penna trascrive l’armonia lucida
di una filosofia nuova dell’incanto
il corpo enorme uscito dall’universo mare
scrosciando tutta l’acqua intorno
lasciando la sua presenza spaventosa di balena
formarsi dall’elemento informe come il senso dello spazio
dal centro-miracolo della vita-poesia…

foto-corde-di-ponte

(particolare del Ponte della Garbatella, Roma)

Dalle sezioni in prosa                      

 Quanto più sento la vicinanza del cielo senza confine, tanto più mi accorgo di essere concentrazione anonima di materia in un viso, in un organismo momentaneo che si porta in posti diversi senza muoversi. Il soggetto del viaggio non viaggia: semplice punto, si apre prima in forma di cuore, poi di mente che spiega complicando, per richiudersi infine nel luogo in cui si era aperto, lasciando i suoi petali avvolgere l’essenza vuota, incorporea, senza spazio, che si era scoperta viva. Il viaggio è fatto di istantanee, volti riflessi, fotografie senza memoria.

*                      

Se del corpo solo conosco la figura, della filosofia il contorno che non racchiude sostanza, in definitiva solo il fantasma, l’indice del libro che non ho mai finito, lo sguardo che la luce assapora, e l’ondulare chiaro delle frasche, il vociare dei bambini mescolato all’innocente modularsi dei passeri sulle chiome – se solo ho potuto inventare l’illusione di un mondo sconosciuto, inciso nel marmo pensante come un affresco improvvisato in un tepore infantile di un maggio ritrovato, magica consistenza, fuoco ravvivato, nome pulito, chioma che si sfalda nel correre del torrentino – solo posso rinverdire questo quadro che germina dal centro con forza imprevista – la novità del battito come una conoscenza ultima – monade viva che rinnova la visione riducendola al cerchio unico e inapprofondibile della rappresentazione.

*                      

Il tema tracciato, nel tondo enorme senza figura inscritto, ridotta a punto la potenza del dire, il nome dissolto – chiara apparenza – limpida apparizione, dettato senza errori, giorno! – la scienza intera lavata nel grande contenitore e lì dispersa come inchiostro nel mare: nomino e mi sollevo – dovrei dire parlo, ma la voce non suona: l’intelligenza per un attimo conquistata – poi  si apre l’uovo nell’altrove – l’identità decomposta moltiplicata si sfibra in mille grani.

*                      

Spunta qualcosa, per miracolo combinatorio o invenzione emerge e si dilata – da rami interiori germina – unico flusso illusorio, anonimo pulsare quieto, irraggiamento momentaneo o definitiva visione?

*                      

In queste pause bianche come fogli enormi non scritti libere sgorgano nuove forme, partenze impreviste di ritmo come mari da una conchiglia, luoghi di una rinascita definitiva, strade impercorribili o senza uscita. Dietro le spalle il sole freddo scende come un rivolo lungo la schiena. Migliaia di rondini nerissime salpano verso la terra promessa. Rintocca l’inverno, come fosse il primo.

*

La vita più sottile di una foglia, stelo capillare da cui l’esistente è sempre sul punto di staccarsi lasciando l’identità evaporare. La mente pulsante beve orbite, spazio, profondità accese in freddi abissi. In punta di suono i versi come coccinelle primaverili sbocciate sulla mano portano l’età al suo principio, ai primi battiti, quando l’unica porta aperta era quella sul giardino. Il pensiero gravita latitando, spaesandosi in nuvole fiorite, distanze leggere, prati.                               

*

 Liberato dalla necessità, vicino al cuore dello stormire – definitivamente reso all’intatto, fiorito nella circolarità che non si rinnova, nel vuoto del movimento dove l’immaginazione non riesce a creare, dove la scansione non è legata al ripetersi ciclico – dove non suona verso o nota, la mano sapiente traccia il cerchio perfetto e dentro, specchiata, l’immagine dell’Eterno – dove il flusso termina, le piante si fermano in potenza verde, il futuro è impensabile, l’onda non cade, il viale aperto all’inverosimile, la mano chiusa nella cattura che non fa male, il bacio rientrato nel bocciolo – il tema si apre come mai si era aperto, nel tempo – il fiume torna nel ghiaccio da cui tutto è scaturito – circondato da materia, invenzioni rapprese, oscurità timorose, guardo nel fondo senza peccato scendere la pietra – la mente raggelarsi al contatto, il fiore scaturire diffondersi fino a sbiancare tutta la sfera pensante. 

 *                      

 Al chiaro di una saggezza chiusa in una mano, nel vento purpureo di un principio indeciso di mattino, con voce provvisoria, senza tumulto, in un timore a tratti dolce, tra un respiro e l’altro –   l’aria entrata con il fiato della profondità raccolta – lo sguardo fisso sulla rosa particolare, forse coincidente con la rosa totale – come una storia senza conclusione sospesa – senza ragione la grazia di un grappolo di parole si corica sul tavolo piatto inconsistente della visione.

*                      

La sorgente accesa nel centro, cero che splende riscalda il formarsi dell’istante, la felicità consapevole del dire – dal principio di pura quiete discende un fioccare di luce senza suono: tra la superficie del pianeta e il confine dell’atmosfera senza necessità di canto le creature si rinnovano tra l’imbozzolarsi e il fiorire: farfalle a piene ali, striature primaverili, gocce iridate, schegge cristalline – occhi da sempre aperti.

*                      

 Sale un’amarezza sottile dal filo invisibile di una fiamma di candela. Il piatto arrossato dal calore lascia che la mente si bagni specchiandosi. Il tono assunto dalla stanza è lievemente inquieto, ma la sostanza musicale si percepisce evidente come lo spazio ne fosse imbevuto, penetrato, rinnovato da un’alterazione sonora della luce.

 *                       

 Nel pieno esatto, nel chiuso compatto, nel disegno che ha solo un dentro – nel punto senza moto, semplice centro, nudo, nuovo, senza nome – cristallo di sillabe senza continuità né senso – si insinua la voce a spostare accenti, a inventare, sicura di sé, padrona. Le linee nere intonate dei rami disegnano il perdersi senza fondo. L’acqua compone il tono franco acceso del mondo: una fuga di uccellini insieme terrorizzati dal battito: la mano toccando lo specchio àltera, lievemente in salire, la melodia inerte, in nascere, del cielo.

 *                      

 Affido questa intelligenza sensibile al soffio fresco della brezza che passa: la affido alla neutralità del tempo che la ingloba, al fatuo essere che senza pensiero chiude ogni cosa nel suo ventre inanimato: le individualità provvisorie, gli involucri biologici che le intrappolano, gli occhi aperti che cercano uno sboccio nell’altrove, i cuori spompati che bramano la dissoluzione nella dimenticanza, lo sfascio nella demenza, nello sfarfallio di note microscopiche come goccioline finissime di mercurio, molecole di intelligenza private dell’anima che le fascia in un corpo – ritaglio immemore, nuvola ferma irraggiungibile su sfondo azzurrissimo chiaro.

 *                      

 Batte alto il rumore delle persiane al vento che le percuote: il senso si compone, in un brivido si compone, le ali dell’attesa stazionano sul corpo intero del divenire, nel flusso inquieto delle forme la mente, forma repentinamente accesa, riassume in un’immagine il vuoto, fa che l’apparenza abbia un nome: filtra dai sensi un’impressione. Il senso è il disegno che sulla carta si imprime, chiostro di versi colorato, armonia illusoriamente percepita, serenità, bellezza sorridente di un velo notturno su un’acqua mai ferma. La musica si rapprende in una corolla insapore di versi, entra e si perde in un fazzoletto di melodia, entra e si perde la forma chiusa del tempo, il tempo della sfera, la sfera senza dimensione, il fiato stremato ansimante bagnato insieme spegne tutte le candele.

*                      

Nell’intera forma viva che sotto il sole splende, non si cura il creatore di aver lasciato creature che si sfibrano e gridano il loro corpo che scolora: la forma intera sempre in qualche nuovo corpo rinasce, comunque nel complesso accesa brilla, ignorando che nelle anime si cela l’ombra e lo spavento, il dubbio sfila o sfugge come uno sfiato o l’acqua che si chiude sparendo in un tombino.

*                                     

Ritirati nel verso netto e temprato, nel fiato che scema e cala, nel punto indiviso, non sciupare l’immagine, quella data, quella che invade, quella che originaria si imprime e non cede. Ritirati nel buio – nel fondo senza forma, nel pieno senza fine, nella nascita che da quel pieno riparte: nel sopravvivere della forza che si rinnova dopo la morte di un corpo: altri continuano ad accendersi, altrove, nell’unica fiamma del tempo che sempre nuova esca dà al pensiero.

 

*                      

 L’anima tesse ostinata il telaio – il bimbo da figlio si ramifica diventa uomo (solo il piano a dar luce e suono, nell’angolo alla finestra vicino) – oh canto delle immagini, radura vegetante! – il fumo risale la vallata si dona alle nuvole diventa nuvola che filtra la luce e la luce e l’ombra passano sui contorni dei monumenti e le case ne prendono atto e dicono il tempo – il tempo senza parti – l’arte cede come un ciclamino senza volto, acqua morta cerino spento la forma non ha più spazio ormai, si vuota la filosofia nella semplice immagine, nel cerchio intelligente senza corpo: solo guarda il sole da cui viene – e più non si addormenta.

*                      

 Fiducia sia, ingenua e meravigliosa, nella potenza trascolorante, nel fiato pensante, nella corona fatata del mattino che sbianca, nella parola definitiva, nel ritorno all’origine, nel dispiegarsi del come e del perché, nella storia indivisa, nel centro immobile irradiato senza divenire, nella distanza che più non sfiorisce non tramonta, nella primavera che gocciola sognata, nel fosso sottile che risale tra gli alberi acquerellati nel boschetto, a perdita di voce. Nel riverbero sereno amaro dell’intelligenza si illumina il telaio vivo, si scrive nuotando nel buio la sua faticosa rinata armonia.

 *                      

 Il canto che ha avuto sboccio si conclude malinconicamente sfiorendo – implodendo nel centro della visione. Indifferente alla necessità del divenire, un essere calmo dai mille volti. La mostruosità della vita ramificata tentacolare ha il solo senso del suo manifestarsi. Il pensiero è pioggia battente, le finestre occhi cigliati, un fiume d’ombra rinfresca e distende la melodia sincopata azzurra dell’estate afosa e torrida. Il giglio bianco chiama da lontano, ma la sua voce è senza suono. Ogni mente lo vuole vedere pensare immaginare. Una nuvola di moscerini fluttuando con altalena di suono di intensità sinuosamente modulata dal basso vortica in crescendo sul prato di recente verde. Oh come piano e lento si impone gigante il corpo della sostanza insonne e musicale del mondo! Nel cerchio che delimita il possibile, invade il torpore tiepido e vuoto della piazza. Il muro della meridiana non ha tempo. La parete è limpidissima. Ogni nome disabitato.

 

*                      

 

Oltre la sfera della grande immobile percezione riposa tutto l’invisibile o il visibile nascosto e inaccessibile. La mente emana, nello spazio della ragione matematica o della visione poetica, una rappresentazione che lascia cadere lieve nel suo alveo. Illudendosi di cristallizzare il flusso inarrestabile delle forme, consuma la sua linfa fino a diventar fibra dell’altrove. Il mondo si dissolve nel ghiaccio del cuore che sciogliendosi muore. Il mondo non ha tempo. Il tempo non ha misura.                                                                          

 bello città nel traffico

Dalla sezione “Lettere”

 Conosco ormai (o mi illudo?) il nucleo forte da cui nascono le immagini, ma perdo troppo spesso la concentrazione: ho la sensazione di aver finito il combustibile, di essere diventato una stella fredda. Ho passato anni a seminare idee e versi lungo la strada, come Pollicino. Adesso devo ricostruire il cammino: mi affido a momenti di forza ritrovata, brevi periodi in cui l’anima mi é restituita tutta insieme –  poi mi lascio cullare dalla musica che ho già generato, in vuoti di pura contemplazione. Mi restano tra le mani queste forme provvisorie, questi disegni cristallini della mente aperta alla luce, e l’angoscia di non riuscire a costruire il corpo finale del libro unico a cui tendo e dentro il quale voglio entrare. Ho sempre creduto che la sintesi di pensiero e forma sia fatta di (pochi) versi. Mi muovo illusoriamente verso questa saggezza estrema che mi sfugge in continuazione: la poesia che mi contenga tutto, la descrizione finale che sia perfetta coincidenza di pieno e vuoto: un entrare nel mare unico, nella sintesi di anima e corpo che è conquista e oblio insieme. Questa, la strada: immerso in intuizioni sospese tra lirismo e filosofia, nell’accendersi del pensiero sulla pagina, continuo a seminare. Fin quando? (…)

a Elia Malagò, 3 maggio 2000

  La poesia indaga il pensiero, la sua vitalità la sua innocenza il suo telaio esile come le ali di un insetto. La scrittura scaturisce dalla presenza allucinata di idee e parole, costanti immaginative di un volo che, negli anni, si è sempre più abbassato verso la terra, fino a chiudersi in cristalli filosofici e lirici. Il dato evidente è la ripetizione di parole luoghi e temi: le ali il tempo il sole la luce l’ombra la terra l’aria l’acqua il fuoco l’eterno gli uccelli le farfalle i fiori il cerchio la sfera il centro il pensiero la coscienza la mente l’anima l’io dio l’uno il mondo l’origine il bocciolo l’infanzia la madre i figli il battito il respiro il silenzio la polvere la voce il cristallo la struttura l’idea la memoria l’oblio il chiuso l’aperto l’emanazione la città la piazza la strada il marmo la quiete le foglie i rami il giardino le forme il divenire l’essere il vuoto sono presenze ossessive, strumenti dell’invenzione, chiavi di lettura del baratro splendente che si mostra ai sensi e alla mente. (…)

a Andrea Zanzotto, 2 dicembre 2009

Luigi Manzi sorrideLuigi Manzi è nato nel 1945. Vive a Roma. Ha esordito in Nuovi Argomenti nel 1969. Ha pubblicato le raccolte di poesia La luna suburbana (1986), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), Mele rosse (2004), Fuorivia (2013), con note introduttive di Dario Bellezza, Dante Maffia, Giò Ferri, Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Gian Piero Bona, Gezim Hajdari. E’ stato tradotto in varie lingue. E’ stato antologizzato in Rosa corrosa (2003) traduzione macedone di Maria Grazia Cvetkovska (pref. A. Giurcinova), Il muschio e la pietra (2004) traduzione albanese di Gezim Hajdari (pref. P. Matvejevich). Ha vinto vari premi letterari fra i quali il Premio Internazionale Eugenio Montale per l’edito, il premio Alfonso Gatto, il premio Franco Matacotta, il premio Guido Gozzano. Per l’haiku ha vinto il Chairman’s Prize Of the Organizing Committee nel The World Haiku Contest in occasione del Trecentesimo Anniversario di Okuno Hosomici e, appena recentemente, il Gran Prix Tsunenaga Hasekura riservato alle lingue europee e giapponese, in occasione del Quattrocentesimo Anniversario del viaggio per mare del samurai Tsunenaga Hasekura. Ha partecipato a festival internazionali e italiani, fra i quali il Festival Serate Poetiche di Struga 2001, in Macedonia, e il Festivaletteratura di Mantova. E’ presente in varie antologie, fra le quali Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970 – 2000, Garzanti 2001

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Steven Grieco-Rathgeb: Appunti per una difesa del «Frammento» – Il «Frammento» in una Poesia di Steven Grieco-Rathgeb da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

gif-novelSteven Grieco-Rathgeb

Voglio difendere qui a spada tratta la poesia per frammenti, per motivi che elenco di seguito. Ma prima vorrei anche dire che non mi metto in nessun modo in competizione con Linguaglossa, Gabriele, e altri, che usano il frammento in senso specifico, e in base a loro precisi studi teorici che hanno sviluppato negli anni, cosa che io non ho mai fatto in maniera metodica. Mi sento comunque, a modo mio, partecipe della stessa generica ricerca.

1° punto: Ho iniziato a scrivere poesie per frammenti nel 1970. Ho sempre usato questa forma quando il sentimento di ciò che desideravo esprimere lo richiedeva. Spesso evitavo ogni utilizzo del verbo “essere”, e anche i verbi più importanti li usavo solo in forma gerundiva (procedimento comunque normale nella lingua inglese), per dare più il senso dello “spezzettato”. Il mio stile non era allora e nemmeno oggi è riconducibile ad uno specifico indirizzo letterario, questo perché il mio passato linguistico fin troppo diversificato è stato foriero anche di isolamento. Forse per questo motivo scrivere per frammenti mi era più che naturale. Dalla poesia “Poem in March” del 1970:

The particles of dreams. Think me
their drumming that clusters the void.
Bustle of iridescent bits
transforming against the gate-vastness.
Summer thronged to death.
Climb! to the ganging! gates!
sick and silent. rushing upwards.

(…)

The gates behind, past the rain,
through the orchard, past the orchard,
body breathing striding rising

sun-struck metal, axe at stone;
steel in fisted brilliance
scattering out the chits of light

Nel corso degli anni ho scritto spesso usando questo modo, che io trovo in genere incredibilmente creativo e capace di spezzare ogni linearità temporale, quando è questo che vogliamo fare.

2° Punto: Ma comunque di cosa stiamo parlando? Il frammento è già inscritto come metodo stilistico in tutto il Wasteland di T. S. Eliot, da capo a coda! E’ LO STESSO ANDAMENTO DI QUESTO POEMETTO CHE È BASATO SUL FRAMMENTO. E c’è la chiarissima dichiarazione d’intenti, nel verso

These fragments I have shored against my ruins.

Cosa di più chiaro? Allora, che dice l’amico Salvatore Martino (che in ogni caso io stimo tantissimo)? Il verso citato è altresì sapiente ed elegante, e comunica un senso certamente di malinconia, di una civiltà smarrita, ma formula anche una vaga speranza nei due giambi finali, che ravvivano il pessimismo dei primi due piedi, che mi sembrano un amphibraco e un anapesto. (Anche se non ne sono assolutamente certo, il verso si potrebbe anche scansionare come pentametro giambico, ma avrebbe allora un ritmo troppo cadenzato, tipo musichetta.)

3° punto: Qui di seguito trascrivo alcuni dei miei pensieri sulla poesia per frammenti, così come li avevo annotati quattro anni fa quando abitavo in via Merulana (Roma):

12 gennaio 2012: nella tua poesia spezza quella linea di pensiero il cui unico pregio è avere un andamento “logico-consecutivo”: che ha bisogno di darsi certezze circa la sua capacità di formare appunto un discorso logico. E’ quello che abbiamo imparato alla scuola elementare, e che quando siamo diventati grandi è servito per comunicare con gli altri, per siglare contratti, fare affari e le diecimila altre cose della vita di ogni giorno: ma non necessariamente per la poesia. La frase narrativa o il verso in poesia, hanno invece bisogno di essere spezzati, perché possano oggi produrre una sorta di senso.
Ma queste sono “scoperte” di più di un secolo fa. Eppure, si rende necessario oggi “riscoprirle”.
Cosa dire del fatto che così tanta musica classica contemporanea oggi è impressionistica? Dopo Scelsi, Cage, Stockhausen, Xenakis e gli altri grandi della decostruzione del suono musicale, sembra che oggi i compositori non siano in grado di superare la barriera concettuale fra lo “sperimentalismo creativo” ed una espressione artistica più ricca e diversificata degli eventi umani e fenomenici che dicono il nostro contraddittorio mondo contemporaneo. Ed è proprio perché quella barriera non è stata superata, che così tanti compositori delle ultime generazioni sono ricaduti nella palude dell’ “impressionismo”. Abbiamo già figure somme di impressionsti, per es. Debussy e Skrjabin, questi epigoni non aggiungono niente a quella esperienza estetica di un secolo fa.
(E questo è forse uno dei motivi per cui la gente è tornata ad ascoltare solo Mozart e Beethoven.)

steven-grieco-28-nov-2016

Steven Grieco-Rathgeb

19 gennaio 2012: Se la durata temporale di un verso è “giusta”, “sufficiente”, allora il suo senso, che il poeta offre al fruitore, spezzerà tutti e preconcetti culturali che ne ostacolano la “giusta” fruizione. Il suo “sapore estetico” sarà pieno. (In cos’altro sta l’arte se non nel sapore estetico?)
Se questa condizione viene sostanzialmente soddisfatta, non ci saranno filtri che innescano la reazione del “già visto”, o “già sentito”: che fa sì che il fruitore fulmineamente pensi: “questa immagine la conosco già, questo concetto lo conosco già”. Perché è proprio questa falsa sensazione del “già conoscere” che innesca in lui una inevitabile svalutazione di quel senso, che a sua volta gli nega la fruizione completa del verso. Ne perde insomma la verginità. Soddisfatta questa condizione, l’immagine poetica avrà imparato la lezione della immagine cinematografica: la quale ci appare oggi essere la più “reale” in campo artistico: quella che interpone meno barriere, meno filtri, fra se stessa e la “realtà” esterna osservata ad occhio nudo. Ciò che la rende anche la più velocemente fruibile. (La poesia, liberatasi delle sue tante pastoie e incrostazioni “letterarie”, potrebbe anch’essa avere questa velocità di arrivo al fruitore.)

11 febbraio 2012: Ho fatto un sogno di Mani (Mani Kaul, regista indiano e mio amico dal 1979 fino alla sua morte nel 2011). Era nella mia stanza qui a Roma e parlava di arte, di espressione artistica. Parlava, ma in realtà dalla sua bocca uscivano frammenti di parole, frantumi visibili di una qualche sostanza solida, che allo stesso tempo erano pezzettini luccicanti di… nulla (infatti il suono non ha sostanza materiale.)
E queste schegge arrivavano ad altissima velocità, come urli, come shrapnel, a percuotere il foglio bianco di un mio quaderno, aperto, dove poi si incollavano, e perduravano.
Nel sogno mi era chiaro che arte è, almeno in questo senso, espressione verbale, e non importa quale sia il mezzo artistico impiegato per veicolarla: cinema, pittura, scultura, poesia, non fa nessuna differenza, rimane comunque un “dire”. E l’espressione artistica (da ex-pressus, spremuto) a quanto pare per uscire ha bisogno spesso di una forza, una energia, quasi una violenza.
Allora ho capito qualcosa della “frammentazione” del dire poetico, su cui ho pensato in questi giorni: perché quelle schegge luccicanti arrivavano in sequenza temporale, sì – ma raggiungevano il foglio bianco senza ordine apparente, e colpivano il foglio in diversi angoli, in zone diverse, in modo apparentemente aleatorio.
Sembra dunque che la ineludibile sequenza temporale di un prodotto artistico non produca necessariamente “ordine”, almeno non nel senso abituale della parola “ordine”.
La frammentazione del dire sembra contenere una profonda verità, una profonda riflessione sui nostri tempi.
(L’estrema compressione semantica usata da poeti come René Char o Samuel Beckett, non corrisponde necessariamente ad una poesia per frammenti, ma nemmeno è da essa così lontana.)

25 febbraio 2012: Una volta che si è capito che la maggior parte dei compositori classici contemporanei (gli Spettrali, Toshio Hosokawa, e quanti altri) sono in realtà degli impressionisti – mentre Scelsi non lo è affatto – allora è necessario riflettere sul perché di questo: e pensare che c’è grandissima differenza fra descrizione-imitazione artistica delle cose (ciò che in parte non piccola costituisce questo “impressionismo” di ultima generazione) e una narrazione artistica “esistenziale”: narrazione del senso delle cose come sono, e quindi del loro “profondo essere”: laddove il senso dell’evento è già inscritto nell’osservazione:

Hanno tagliato del giunco per un tetto.
Sulle canne dimenticate
cadono morbidi fiocchi di neve.

4° punto: Perché le frasi di una narrazione o i versi di una poesia possono avvantaggiarsi dell’andamento spezzato, o frammentato? Perché anche quando interiorizziamo un evento fenomenico esterno o interno, questo processo non ha andamento univoco e perfettamente scorrevole.
Mettiamo che io voglia descrivere un albero in fiore che ho appena intravisto di sfuggita in un cortile desueto una grigia mattina di primavera. “E’ primavera!” Tutto si riassume in una frase, certamente. Ma a ben vedere l’esperienza percettiva appena avuta è molto più complessa così come, lo sappiamo bene, il cervello è complesso assai, ed elabora tantissimi dati in un attimo di tempo.
Questo già lo sapevano uomini come Scelsi, Stockhausen o Xenakis: che prendevano un suono, lo ingigantivano per trovarvi al suo interno un intero universo sonoro.
Per tornare a noi: se studiamo bene (come il poeta deve senz’altro fare!) la nostra reazione psichica a quell’albero fiorito, ci renderemo conto che il processo di interiorizzazione non è affatto piano e lineare: la reazione emotiva ha determinato una scossa interiore, che chiamiamo “meraviglia” (“è primavera!”) e questo determina una ripetizione interna di 10, 100, 1,000 volte l’evento nello spazio di un attimo. Come il riverbero di luce. Solo quando è passata la meraviglia iniziale (quindi dopo qualche secondo), l’immagine dell’albero si assesta un po’ nella coscienza, e la nostra mente riprende la sua strada interminabile di interiorizzazione di nuovi eventi interni o esterni. Ma ancora durante tutta la nostra giornata, l’immagine dell’albero (o qualsiasi altra esperienza forte) si riaffaccerà in noi come “after-image”, “scia d’immagine”.
(E’ proprio questo, mi sembra, che molti compositori contemporanei non fanno: “imitano” impressionisticamente l’evento, invece di sondarne la profondità fenomenica.)

(Gli indiani vedono questo processo mentale che ho descritto sopra come un aspetto di कर्म, karma: il lavorio mentale che appropria, possiede, l’evento vissuto, e se lo porta dietro per tutta la vita come traccia psichica, e oltre, attraverso le esistenze.)

Concludendo questo mio contributo a L’Ombra delle parole: ecco una delle ragioni, almeno dal mio punto di vista, per cui la scrittura per frammenti può aiutare la poesia ad inserirsi in questo mondo: un mondo che nell’ultimo secolo ha enormemente esteso la gamma fra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, e anche le ricerche in campo neurologico; un mondo quindi che richiede una descrizione più approfondita, folgorante, e meno impressionistica, dell’evento.

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Il «Frammento» in una Poesia di Steven Grieco-Rathgeb da “Entrò in una perla” (Mimesis Hebenon, 2016) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/01/limmagine-nella-poesia-tra-il-mondo-di-avanscena-e-il-mondo-di-retroscena-nella-poesia-di-tomas-trastromer-e-la-teoria-dellunificazione-dei-modelli-di-simulaz/comment-page-1/#comment-16369

Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro».

Maurizio Ferraris: «La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione».1]

In questa sede mi occuperò di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb che tratta della vita dal punto di vista della vita, da un punto di vista esterno. La poesia inizia con una annotazione da diario: oggettiva e sintetica, quasi stenografica:

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

L’autore sembra non esserci. In tal modo, si attua una dis-locazione dell’autore il quale non è più presente all’interno della composizione, ma si trova in un altro luogo. La frequente apparizione di verbi all’infinito e in forma riflessiva rende evidente questo allontanamento dell’autore il quale è fuori scena. Tutto accade perché accade, come gli «stormi dei piccioni in volo», non c’è un perché circoscritto nella poesia, e neanche all’esterno della poesia. Anche il sogno di Meena della «madre morta», accade e, in quanto accadimento, ha significato. Il significato quindi è svincolato dall’autore e dalla stessa poesia. La poesia non reca il significato perché questo le preesiste («Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro»), e il poeta non fa che prenderne atto. Il significato è contenuto in un frammento di immagine, è tutto lì.

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

                                                                                             agli stormi di piccioni in volo

                                                                    agli aquiloni che danzano più su

                                             alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»

La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

(Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006)

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Si tratta dunque, dunque, di ripensare la vita umana al di là dell’essere-per-la-morte in cui l’aveva chiusa Heidegger: la nostra esistenza non può essere solo «empirico-condizionata» ma è anche metafisico-incondizionata, il discorso sull’essere non può ridursi all’essere ente umano. Sul ciglio delle riflessioni dell’ultimo Derrida, come nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb, si intravede, da lontano, la soglia della condizione post-umana che è il superamento, definitivo, della condizione postmoderna di Jean-François Lyotard. Un umano non più chiuso dentro il circolo dei suoi predicati in cui la dialogicità della coscienza non costituisce più soltanto un pretesto per pensarsi in opposizione all’altro da noi ma si pone in dialogo con tutti gli esseri della terra, animati e inanimati (vedi gli uccelli, gli aquiloni, la Gangori Bazaar della poesia di Steven Grieco, etc.). E questo significa, «gettare ponti tra le epoche»2] e tra gli uomini tra di loro.
La poesia segna la scomparsa «del primo significante», narra di un luogo dove è avvenuta una visione. La poesia si pone così «in prossimità assoluta con l’essere», o nelle sue vicinanze immediate, con un senso leggibile, che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione. Il modello di questo logos puro e naturale è, per Derrida, contemporaneo all’epoca teologica, «il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita» dice Derrida, come il verbo divino è parola assoluta di una soggettività creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, così il linguaggio della metafisica. La parola poetica di Steven Grieco-Rathgeb reca una traccia, è una parola onirica che guarda la vita dal punto di vista della vita. È un sogno, o meglio, un frammento infinitesimale di un sogno.

1] Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 301.
2] Maurizio Ferraris, Postille a Derrida, Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p. 215.

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L’IMMAGINE NELLA POESIA TRA «IL MONDO DI AVANSCENA» E «IL MONDO DI RETROSCENA» NELLA POESIA DI TOMAS TRASTRÖMER e la Teoria dell’Unificazione dei modelli di simulazione neurale del Fisico tedesco Burkhard Heim e il Paradigma olografico di Giorgio Linguaglossa – Filosofie del frammento di Alessandro Alfieri

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Giorgio Linguaglossa

Esiste un limite al di sotto del quale il nostro universo può funzionare? La risposta di Planck è “sì”: le lunghezze minime di tempo e le lunghezze minime di spazio secondo la teoria di Planck operano a livello subatomico e costituiscono il tessuto di quel vuoto superfluido che presupporrebbe l’esistenza dell’universo.

Ora, penso che dobbiamo supporre le “immagini”, ad esempio in poesia, come delle unità minime di tempo e di spazio configurabili in una certa cultura e, all’interno di essa, in una certa poetica.

La capacità di ricezione di un cervello è determinata da una informazione, ed è quindi limitata da abitudini e cliché culturali. Dobbiamo quindi fare uno sforzo per ampliare le nostre capacità di ricezione di immagini non convenzionali secondo la teoria dell’informazione.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/11/29/donatella-costantina-giancaspero-due-poesie-da-ma-da-un-presagio-dali-2015-il-disordine-degli-oggetti-tempo-interno-tempo-esterno-mondo-interno-mondo-esterno-istante-privilegiato-una-po/comment-page-1/#comment-16331

Facciamo un esempio: poniamo di essere degli osservatori di oggi posti in un futuro tra 100 anni e di leggere una poesia o di guardare un quadro che saranno creati 100 anni dopo di noi. Ecco che a quel punto noi non capiamo affatto nulla di ciò che leggiamo e che vediamo. Appunto perché non abbiamo vissuto la distanza di quei 100 anni. È un paradosso che ci può aiutare a capire che cosa succede con la questione della freccia del tempo. Se siamo qui a bordo della freccia del tempo, non possiamo essere anche là (sempre a bordo della freccia del tempo). Così la metafora e l’arte che viaggiano a bordo della freccia del tempo.

Leggiamo ad esempio due versi di Tomas Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

Abbiamo qui un chiarissimo esempio di come le «immagini di avanscena» della lingua di relazione: «Le posate d’argento», i «grandi sciami», «giù nel profondo», «l’Atlantico è nero» in essa lingua di relazione sono correlate ad un significato letterale, additano al referente, mentre le medesime immagini, nel «mondo di retroscena», additano ad una significazione simbolica che abita la zona profonda dell’inconscio, quella zona ad altissima densità metaforica e simbolica allo stato quantico in una situazione di altissima instabilità quantica. È qui che si forma la significazione complessa delle immagini del poeta svedese, nella tensione della distanza tra il profondo della significazione simbolica («il mondo di retroscena») e la superficie della significazione della lingua di relazione («il mondo di avanscena»).

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Pubblico qui alcuni stralci di un articolo di Sabato Scala, un ricercatore che ha studiato e teorizzato una Teoria dell’Unificazione dei modelli di simulazione neurale. In quest’ultimo ambito ha condotto ricerche e proposto una personale teoria dei processi cognitivi e immaginativi suggerendo, sulla base della teoria del Fisico tedesco Burkhard Heim e del paradigma olografico, la possibilità di adozione del suo nuovo modello neurale per la rappresentazione di qualunque processo fisico classico o quantistico.

Assumo, dallo scienziato, il concetto di “modello di retroscena” per comprendere il modo di funzionamento del nostro sistema neurale ma anche quello di una forma poesia che si muova secondo lo stesso concetto: tenendo presente un “mondo di retroscena” che sta dietro il mondo dei fenomeni quantistici e il concetto di “vuoto superfluido” che opererebbe secondo il modello neurale del cervello umano. Questa nuova prospettiva cambia tutto il modo di intendere le funzioni delle immagini nella poesia di Tranströmer e nella migliore poesia contemporanea. Le immagini rispondono sia ad un “mondo di retroscena” sia a quello di “avanscena”, si situano nel mezzo, entrano in comunicazione istantanea con entrambi questi mondi. La poesia resta come sospesa nel vuoto, nella dimensione di un vuoto superfluido.

«Sono ormai quotidiane le notizie su nuove prove scientifiche a favore dell’esistenza di un substrato causale e di un “mondo di retroscena” che sottende ai fenomeni quantistici.
Esiste, quindi, una sorta di tessuto sottostante che definisce il modo in cui la particella agirà una volta “osservata” attraverso lo strumento di misura.

Onda pilota di Bohm

Sparisce, quindi, la casualità assoluta connessa al collasso della funzione d’onda ovvero all’evento della “Misura” che determina un passaggio con caratteristiche casuali ed imprevedibili di una particella, dal mondo della meccanica dei quanti a quella classica.
Questo salto di qualità non rende, però, ancora chiara la direzione che stanno prendendo i ricercatori e la convergenza tra diversi studi e ricerche, che ha subito una particolare accelerazione proprio tra la fine del 2014 ed il 2015.
Il “Mondo di retroscena” di Prigogine e di Bohm, stà avanzando a sempre maggiore velocità, prendendo la nitida forma della reintroduzione di un mezzo di “trasmissione” dell’informazione a effetto istantaneo (come quello previsto dalla “onda pilota” di Bohm) sparito all’inizio del secolo scorso: l’Etere.
La forma con cui questo “scomodo intruso” è ritornata è quella degli studi sui superfluidi e sulla sempre più probabile natura fluida, o meglio “superfluida” del vuoto.
Alcuni lavori che ho già segnalato già in passato anche su Altrogiornale, e che oggi sono ancora assai poco conosciuti e studiati, figureranno tra pochi anni tra i “classici” della fisica come vere e proprie pietre miliari per uno storico e radicale cambio di paradigma.
Ve ne sono tanti e tutti assai recenti, ma tra questi mi piace citare, oggi, “Physical vacuum is a special superfluid medium” di Valeriy Sbitnevi, pubblicato il 13 maggio 2015 su “Selected Topics in Applications of Quantum Mechanics“.

Questo lavoro è intimamente collegato alla pubblicazione di “Scientific American” e all’esperimento che conferma la natura Bohmiana della quantistica.
In esso, infatti, Sbitnevi mostra come il modello “superfluidico” del vuoto, ed in particolare le equazioni di Navier-Stokes, che descrivono la dinamica macroscopica dei vortici e dei moti nel fluidi, siano una diversa forma matematica della interpretazione Bohmiana della MQ e della “onda pilota” .
In altre parole un Etere in forma di vuoto superfluido è, matematicamente, affine all’interpretazione di Bhom della equazione di Schroedinger.
Precisiamo ancora meglio il concetto perché non sfugga il salto di qualità che si stà compiendo.

Il Vuoto Superfluido e la interpretazione di Bhom coincidono e il “Mezzo” che consente di diffondere ovunque e istantaneamente l’informazione di correlazione che da vita ai fenomeni di entanglement quantistico.
I fenomeni della meccanica dei quanti sono, quindi, matematicamente ricavabili dalle equazioni che descrivono il modo vorticoso in un superfluido.
A questo rilevantissimo e naturale secondo passaggio si aggiunge il terzo ancora più rilevante sul quale mi sono soffermato sia nel nostro libro “La Fisica di Dio”, sia negli articoli divulgativi che ho pubblicato su Altrogiornale e che può essere compreso senza grande sforzo, sfogliando gli articoli relativi alle ricerche sperimentali sui superfluidi.
Alcuni lavori, sempre recenti, infatti propongono l’uso di un modello noto con nome di “Vetri di Spin”, e quindi del modello di Ising, ovvero di una estensione del modello neurale di John Hopfield, per modellare sostanze in stato superfluifo come l’Elio 3.
In particolare i Vetri di Spin e, di conseguenza un modello affine alle reti neurali di Hopfield, è adoperabile per descrivere matematicamente bene le dinamiche e i vortici in una sostanza superfluida.
Non ci vuole molto a comprendere che questi studi portano a ritenere che il passo tra una descrizione “NEURALE” dell’Elio 3 e quella NEURALE DEL VUOTO superfluido è brevissimo. In altre parole, il salto che attendevamo per riportare al centro un modello deterministico (seppure nei termini indicati da Bohm) connesso alla natura neurale del vuoto è alle porte.

Ma torniamo al modello proposto da Bohm.
Esso è intrinsecamente olografico, ovvero prevede che l’informazione sia distribuita in modo uniforme ovunque, in tal modo consente la “Istantaneità” della propagazione delle correlazioni attraverso una “onda pilota” e, con essa, l’istantaneità dei fenomeni di entanglement.
Karl Pribram, con le sue sperimentazioni sulla retina dei gatti, ha mostrato in laboratorio quanto era già stato reso noto dalla matematica delle reti neurali: il cervello opera in modo intrinsecamente olografico. A questo punto il cerchio si chiude.
Il modello olografico che Bohm cercava e che non era riuscito a trovare, è quello neurale di Hopfield, o se si vuole è il modello di Ising che descrive le dinamiche del vuoto superfluido.
Le conseguenze della scoperta che il vuoto e i meccanismi della gravità quantistica operano con le stesse leggi ed equazioni che governano il nostro cervello, appaiono straordinarie e fantascientifiche anche a una mente profana».

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di Alessandro Alfieri (nel saggio di cui a “Aperture” n. 28, 2012, scrive):

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.
Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.
[…]
(Per Walter Benjamin) il filosofo, o come era solito dire lui, lo “storico materialista”, il critico o anche l’artista, deve puntare il suo sguardo su oggetti apparentemente non degni di attenzione, deve farsi “pescatore di perle” per concentrarsi però sugli stracci, sugli elementi trascurati dagli accademismi ufficiali, sui frammenti dispersi e abbandonati ai margini delle strade e cacciati dalle teorie rigorose. Benjamin interpreta perciò frammenti, e il luogo privilegiato dove a dominare sono frammenti è proprio la metropoli moderna, con le vetrine dei suoi passages e le sue luci a gas, capaci di investire il passante con choc percettivi continui.

Le nostre metropoli, che proprio negli anni in cui scrive Benjamin stavano assumendo la fisionomia e l’assetto di quelle che sono diventate oggi, si caratterizzano per la velocizzazione inaudita dei ritmi di vita, dove a venire sacrificata è l’esperienza effettiva di ognuno di noi può fare del mondo, della realtà e dell’altro. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti, che alla “contemplazione” ha sostituito la “fruizione distratta” (…) Tale dimensione è in Benjamin sinonimo di rivoluzione: possibilità di riscatto da parte delle masse […]
In Benjamin distrazione e attività non sono in contraddizione: i fenomeni che sembrano costringere ciascuno, per volontà del capitalismo, all’omogeneizzazione e alla passività generalizzata, sono gli stessi che possono condurre l’uomo alla sua tanto sospirata rivincita e affermazione. I frammenti sono perciò da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto ovvero il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la struttura saggistica su determinati argomenti e autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, riferimenti, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico.
Qui assume un ruolo essenziale il concetto di “immagine dialettica” dominante proprio nei Passages; l’immagine dialettica, che si oppone all’epochè fenomenologica, vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione, anzi, è la stessa immagine che, affinché possa sopravvivere, pretende di essere messa in rapporto ad altro. È nell’immagine dialettica che temporalità ed eternità si fondono insieme, passato e presente si amalgamano:

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“Non è che il presente getti la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio”.1]

Cogliere nel turbinio incessante e frenetico della modernità dei momenti di stasi improvvisi, delle “epifanie di senso”, capaci di illuminare di una luce differente ciò che invece ci sfugge repentinamente nella vita quotidiana dominata dalle regole del consumo: questo è il compito del filosofo dialettico e del critico della cultura; fissare lo sguardo sui frammenti per farne delle immagini dialettiche che rivelino i processi che li hanno determinati, le loro intenzionalità profonde, i loro valori allegorici e le opportunità che da esse si sprigionano.
[…]
Ontologicamente, ed anche da un punto di vista logico-semantico, l’immagine può dire qualcosa, ha un senso e può comunicare con noi solo perché è da subito a contatto con altre immagini, in rapporto di identità o differenza con esse. D’altronde, è la conoscenza stessa che opera in questa maniera, affidandosi alla “relazione” e non alla “cosa in sé”. Per comprendere questo punto, torniamo a Nietzsche: “Le proprietà di una cosa sono effetti su altre ‘cose’; se si immagina di eliminare le altre ‘cose’, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’è una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna ‘cosa in sé’”.2]
L’immagine rinvia continuamente a ciò che è altro da sé, slitta il suo senso ad un’altra immagine che rimanda a sua volta ad altre innumerevoli immagini. In questo terreno multiforme e frammentato, in assenza di un punto centrale e statico, la riflessione è demandata continuamente al suo passo successivo; questo processo consente al pensiero di vivere, di non esaurirsi in una risposta conclusiva, e di tenersi aperto all’indeterminato.

1] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2007, p. 516
2] F. Nietzsche La volontà di potenza Bompiani, Milano, 2005, p. 308

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