Annachiara Marangoni, da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti), con una Lettera ad Antonio Sagredo di Giorgio Linguaglossa

Gif Polanski

Annachiara Marangoni, veronese, di formazione sanitaria e umanistico – pedagogica, dirige a Trento una struttura riabilitativa per giovani affetti da disturbo dello spettro autistico. Fa parte del movimento poetico Realismo Terminale (RT), fondato dal maestro Guido Oldani.  Già autrice nel 2013 delle raccolte poetiche Nerooro e nel 2019 Il corpo folle, collana I Gigli, editi da Montedit (Mi), ha pubblicato nel 2021 per l’editore Aletti una plaquette realistico terminale raccolta nel volume Enciclopedia dei Poeti Contemporanei. Presente nell’antologia RT Il gommone forato curata da T. Di Malta, editore Puntoacapo, 2022. Ha pubblicato per la rivista Atelier, diretta da Giuliano Ladolfi, per la rivista Amicando Semper, diretta da Enzo Santese. Per il direttore della rivista La Terrazza, ha curato l’introduzione di un gruppo di poesie di Guido Oldani. Ha pubblicato per la rivista internazionale Noria, diretta dal prof. Giovanni Dotoli, sul numero 5, 2023, un articolo dal titolo Autismo e realismo terminale. Per la rivista polacca Bezkres ha pubblicato numerosi testi poetici ed articoli, traduzioni e cura di Izabella Teresa Kostka. Presente nell’antologia italo – polacca “Inter Amicos (Dobrota, Polonia 2023), curata dalla poetessa Izabella Tereza Kostka, con una plaquette di poesie realistico terminali. Suoi testi poetici sono presenti in alcune pubblicazioni, volumi e riviste culturali.

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da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti)

Tempo nostrum

Smunto come un ombrellone chiuso
il nostro tempo di promesse spente
piantuma intorno al pianeta tutto
alberi di cuccagna consistenti.
Seduta all’ombra aspetto il pacco dono
scaffai Amazon già continentale
poi ho l’INPS che mi scrive sempre
vedo il dopo da un occhiale opaco.

Il gomitolo

L’odio è un gomitolo di lana
stringe come l’acqua fredda in un inverno.
E allora lo lavori a maglia
con gli aghi piantati sotto pelle
addosso è un’armatura arroventata
ti scioglie come dado dentro all’olio.
Ma ci si abitua a diventare ferro
anche la voce è come una ciabatta,
e l’anima nel barattolo di latta
è un fagiolo dimenticato dentro al fondo.

Il direttore

È un termometro il traffico dirige
che i ghiacciai senza la corrente
sono appesi come gocce al vento.
E la terra con le sue cornicette
è una colata credo, di mercurio
in mezzo ai denti, arsa con gli insetti.
Dio su in alto è il condizionatore
fa cascare frescura nei container
dove la calca è priva di pudore.

Disumale

Le facce sono treni al finestrino
sfrecciano fino a farne un volto uno.
Poi stesi in corridoio all’ospedale
la banda la fa un vecchio quando russa.
Gli arrivano coperte come burka
per scaldare il nessuno che sta sotto.
Ed ora il tempo si misura adesso
mentre di sete muore il giorno stesso.

Annachiara Marangoni

Annachiara Marangoni

Il bisturi

La croce è una sala operatoria
dai camici simili a un sudario,
l’anestesia, imballaggio del dolore
spala ore fuori dal quadrante.
Steso con il sesso fuori,
è uno spiedo con le penne sparse
e la fiducia la cardiamo a mano,
mezzo vivo, prossimo e lontano.

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Il barbone

Il sole è il lampione della strada
che gli fa da materasso, pressappoco.
E i quadri sono le facce dei passanti,
che ogni giorno scambia tra di loro
le pareti di vento pari a ferro,
fanno da perimetro alla gente
che gira alla larga, ma fa niente.

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Tempi storti

Seduti davanti a un telo bianco
scorrono i secondi accartocciati
delle vite di quelli come noi.
Come spilli scordati nel vestito
le manovre dei potenti sono guai
tutti cristi, tempi storti, siamo noi.

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Niente

C’è gente in questo arso continente
il cui ventre è un piatto vuoto,
la faccia da palloncino sgonfio
e sono in tanti a non avere niente
sulla bilancia pesano una piuma
impastati con la trasparenza
sono spiriti senza ricorrenza.

.

Legale ora

Spazzolata l’ora
come fa il tergicristallo con la pioggia
furto di buio, sottrazione d’oscurità
la sera è un mazzo di lampadine accese
palpebre schiuse come saracinesche
sono sorrisi in mezzo alla faccia.

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La fronte sullo specchio

Lo specchio stamattina
mi rimbalza un volto uguale a un’officina,
in cui le macchine sostano sdraiate
in attesa di essere aggiustate.
Una carezza asporta l’olio dalle dita
a ricordare le malattie subite,
un po’ tutti ci hanno messo mano
a rendermi gli occhi come lenti sopra il naso
che mirano al tutto da un puntino,
il mondo è meno grande del sogno di un bambino.

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Dash

Dopo il temporale litigammo
al deposito dei carrelli del super.
Ai ¾ di bianco della casa
apparivano i titoli di coda
di un’apologia atomica
ad oriente i riscatti
ad occidente i ricatti.
Offrimi un drink babysapiens.

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Carceri accaventiquattro

È agosto e si ribolle,
tra le sbarre incandescenti,
umani pressati aspettano gli sconti.
A decine le lenzuola stese sugli uscenti.
La bilancia li destina nella turca
lo stato dice non c’è spazio
e così la dignità è una Simmenthal
abbonata all’obitorio aperto accaventiquattro
ma fra tutti c’è chi se ne frega.

*

caro Antonio Sagredo,

è vero, tu hai per certi aspetti anticipato gli esiti della «nuova poesia», ti sei costruito un «linguaggio-soglia» che non abita in nessun-luogo. Voglio dire che il concetto di «soglia» è la negazione di quell’altro concetto di «viaggio» inteso come «ritorno» (nostos). La «soglia» è una intuizione più antica di quella di «ritorno», il «ritorno» per ecellenza è il viaggio di Ulisse nell’Odissea, mentre nella «soglia» ogni nostro movimento, ogni nostro peregrinare che avviene per mezzo di avatar, di sosia, di doppi… è soltanto irreale, virtuale, onirico. La poetry kitchen è fatta di «linguaggi soglia» che non comunicano niente di essente, ma comunicano ombre, ombre di ombre. Certo, mette disagio nei letterati abituati e costruiti nelle certezze (dell’io, del noi, del voi, di questo e di quello etc.) scoprire che ci possono essere linguaggi-soglia, linguaggi-di-ombre… che là, nei «linguaggi-soglia» c’è una ricchezza inusitata che loro non potrebbero mai neanche immaginare.
Detto con le parole di Lucio Tosi: “La poetry kitchen ha il merito di aver individuato la durata di ogni pensiero, il suo passare (nel vuoto, spazio e tempo), e nelle parole il loro morire”.
Detto con le parole di Marie Laure Colasson: “Sostare sulla soglia, fare una poesia della soglia significa accettare l’instabilità e la precarietà dello stare sulla soglia (né dentro né fuori)”.

L’idea dell’io come semplice modalità deriva dalla Faktizität di Heidegger, e quindi dalla sua ontologia, che individua nella modalità dell’esser-ci la sua matrice più profonda, unitamente alla dialettica proprio-improprio da cui emerge la centralità della modalità quale caratteristica del Dasein.
Da qui all’«ontologia modale» di Agamben e alla «ontologia modale» della «nuova poesia» c’è solo un passo.
La poesia del «realismo terminale» ruota pur sempre attorno all’epicentro dell’io, anch’essa è costruita in parte su un «linguaggio della soglia». È l’io che costruisce la geografia e la topografia di questa poesia «terminale», dunque, si tratta di una poesia che mantiene ancora un legame, seppur tenue e in via di decostruzione, con quella della tradizione. Fatto a meno dell’io, messo tra parentesi l’io, ecco che si entra in un nuovo «condominio linguistico»: se viene meno lo shifter (io) viene meno anche l’istanza di discorso che lo shifter apre e legittima. E si aprono le possibilità del «linguaggio della soglia»

(Giorgio Linguaglossa)

6 commenti

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6 risposte a “Annachiara Marangoni, da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti), con una Lettera ad Antonio Sagredo di Giorgio Linguaglossa

  1. giorgio linguaglossa
    3 dicembre 2021 alle 8:30

    Il modello di totalità che si è solidificato nelle democrazie depoliticizzate dell’Occidente ha liquidato la stessa idea di critica

    Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice dis/valenza: da un lato spinge a forzare la ratio per trovare gli aggiustamenti filosofici e politici ai problemi, dall’altro, implica l’arroganza dei pensatori e dei legislatori del mondo ad essere irriguardosi verso la particolarità e ossequiosi verso il Tutto. la totalità così concepita è una eccellente ipoacusia e una ottima ipovisività, rende ciechi gli occhi e ottuse le orecchie degli aspiranti capi totalitari. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo, con Agamben, «biopolitica», in cui il singolo corrisponde al Tutto da aspirante all’assoggettamento, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita» del Tutto. E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato e falso, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio e l’auto dominio del singolo attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri in pro del Tutto e delle sue malie.

    Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis.

    I prodotti dell’attività immaginativa ricadono sulla immaginazione

    (realismo terminale, poetry kitchen o altro dispositivo poietico terminale) ricadono sulle attività produttive mediante il loro reimpiego per mezzo della tecnica. Il ruolo dell’immaginazione nell’epoca del digitale è cambiato, e questo cambiamento investe anche la poesia, il romanzo, la fiction e le arti figurative.

    Scrive Adorno:

    «Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
    Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

    E nella Dialettica negativa:

    «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2

    La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

    «l’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

    La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.3

    1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
    2 Ibid., p. 167.
    3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28.

    3 dicembre 2021 alle 8:33

    sul concetto di parallasse

    È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

    The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

    * Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

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  2. Ad esempio, il cannocchiale

    L’avvento del cannocchiale ha favorito la trasformazione delle conoscenze sul mondo e sull’universo, e di conseguenza del modo in cui gli esseri umani immaginavano il mondo – e questo fin dai tempi antichi. Prendiamo un altro esempio, di quando l’inespugnabilità di Alessandria d’Egitto era affidata ad una torre-cannocchiale che consentiva di avvistare l’arrivo di navi nemiche con un giorno di anticipo al fine di predisporre in anticipo l’assetto difensivo.

    Nell’esempio riportato appare lampante che l’attività immaginativa comporta una ricaduta funzionale all’utilizzo di strumenti della tecnica. Così, il cannocchiale, pensato per vedere cose lontane, diventa uno strumento dell’immaginazione. L’invenzione del cannocchiale a opera di olandesi o addirittura ancor prima di un italiano, o la riscoperta e ricostruzione del cannocchiale da parte di Galileo, non è che un episodio, il salto di qualità è che Galileo abbia pensato di orientare il cannocchiale verso la luna, usandolo come strumento scientifico.

    È stato Einstein che ha detto che Galileo non ha inventato il cannocchiale ma un nuovo impiego di quello strumento che fino ad allora era inimmaginabile. Ciò implica un nuovo collegamento tra l’immaginazione e uno strumento tecnico. L’attività immaginativa, qui, è legata a una modalità di tipo metaoperazionale: realizzare un telescopio a partire da un cannocchiale – già in sé uno strumento destinato all’osservazione scientifica – è una metaoperazionalità sul piano dell’immaginazione. A partire dal cannocchiale Galileo inventa un altro strumento: il telescopio, che apre a nuove funzioni e a nuovi orizzonti di possibilità: l’immaginazione ha orientato l’uso di uno strumento disponibile (il cannocchiale) per realizzare un altro strumento che non c’era (il telescopio) destinato all’osservazione dell’universo. In analogia a ciò, un nuovo dispositivo estetico non è altro che una attività dell’immaginazione qui di tipo metaoperazionale non finalizzata ad una immediata utilità, quanto piuttosto a dispiegare un orizzonte di figuralità possibili.

    Il ruolo della immaginazione nell’epoca del digitale, senza rendercene conto, ha già cambiato il nostro modo di vedere e di guardare, e di leggere. Istintivamente guardiamo un film mediante l’assimilazione inconscia della tecnica nel suo montaggio. Il montaggio svolge un ruolo fondamentale nel sollecitare l’immaginario e le aspettative di uno spettatore che sta guardando un film. Analogamente anche in poesia, nel romanzo e nelle arti figurative, e anche nell’architettura il nuovo immaginario è un prodotto della rivoluzione della tecnica, al tempo stesso la rivoluzione della tecnica viene favorita dal cambiamento del paradigma dell’immaginario. Si tratta di un rapporto dialettico tra due attori: l’immaginario e la tecnica.

    Sul montaggio

    Il montaggio richiede di comporre la sequenza come una pellicola cinematografica; una sequenza non è costituita soltanto di immagini o solo di spazi pieni, ma soprattutto di vuoti, di spaziature, di amnesie, di lapsus, di interferenze, di rumori di fondo, di non detti, di sfondi laterali latenti che delimitano il susseguirsi delgi enunciati e delle icone. Il lavoro di montaggio va fatto esattamente in quello spazio della percezione che possiede contemporaneamente il compito di separare e unire, di isolare e ricomporre. Quello spazio Warburg lo chiamava «Denkraum», lo spazio tra un pensiero e l’altro, lo spazio dell’intervallo che si configura proprio a partire da quegli spazi vuoti che attendono di essere connessi.

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  3. A me sembra il manifesto del Realismo Terminale un mucchio di banalità, tranne forse l’idea del mutamento antropologico dovuto agli oggetti (invece che alla natura). Ma è un pensiero semplice, una constatazione, invece forse dietro si nasconde un sentimento di nostalgia per come eravamo. L’acrobatico avvitamento per evitare l’elegia è opera del maestro Guido Oldani al quale non manca l’ironia dei contadini, e quelli non li smuove nessuno.
    Le poesie sembrano casette a schiera – mi ricordano l’Adriano Spatola, sebbene questi fosse incomparabilmente più sofisticato dell’Oldani, e le tematiche “politiche” d’altra fattura.

    Anche leggendo le poesie qui di Annachiara Marangoni, il forte richiamo alla semplicità. Le similitudini sono lasciate in purezza e non manca la rima. La lunghezza dei testi in perfetta simbiosi con le poesie di Guido Oldani. Non mi dispiace, ma perché chiamarlo in modo tanto drammatico, Realismo Terminale?

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  4. caro Lucio,

    realismo terminale va declinato al minuscolo. Guido Oldani, il suo scopritore, è stato il primo poeta che osasse fare una poesia che sfiora il banale, lui ha preso atto che siamo immersi fino al collo in una montagna di banalità. E la banalità è quel quid che corrobora la poesia del realismo terminale come anche la poesia kitchen di cui tu sei un fine interprete.

    Doveva essere il secolo breve. Le guerre dovevano durare il tempo di un lampo. C’era ancora un orizzonte. Si pensava che l’umanità prima o poi sarebbe stata redenta. E invece il secolo non smette mai di finire. I conflitti si spostano, mutano, si verificano in ogni parte della Terra, si smaterializzano, scompaiono, ricompaiono, sembrano specchi per le allodole, e invece sono specchi ustori. E l’orizzonte non si è avvicinato nemmeno di un passo, anzi, sembra essersi allontanato (questa questione dell’orizzonte mi sembra una cosa davvero seria!), Edipo è stato sostituito da Vivian Lamarque e dagli influencer, il Principe di Salina è stato sostituito dal commissario Ingravallo e il Presidente del Consiglio Draghi dalla Meloni con i suoi accalappiacani, con il che l’essere si allontana indefinitamente e l’Esserci non sa più che pesci prendere, non abbiamo più un linguaggio poetico con cui trattare questi argomenti, e così il linguaggio poetico rischia di andarsene a ramengo. Per cambiare di segno a questa fine che si trascina senza mai finire occorre individuare degli indizi (le prove le stiamo cercando). Siamo così giunti all’ultima spiaggia, siamo nel campo dell’Ereignis come rapporto dei rapporti o relazione delle relazioni, o relazione indiziaria. Ogni differenzialità e relazionalità, per quanto pure, sono, per Agamben, già da sempre inscritte nel pensiero occidentale – almeno a partire da Aristotele. Resta però il fatto che Aristotele è stato sostituito con il ministro Sangiuliano e dal valletto Sgarbi. Resta il fatto che alla poesia oggi non resta altro che avere a che fare con gli sgarbi e gli sgorbi.
    La poesia di Annachiara Marangoni va alla ricerca di questi minimi indizi, è una poesia indiziaria, nei suoi momenti più riusciti è uno sguardo dal di fuori, rivela l’alterità irriducibile della poesia e l’estraneità e l’intramontabilità del mondo, il mondo non tramonta mai, semmai è l’uomo a tramontare e a periclitare, sembra essere proprio qui, proprio nella forma della destituzione di ogni relazione e di ogni relatività, che si snoda, dalla forma-di-vita all’«ontologia modale», ci dice Giorgio Agamben, quella «ontologia modale» che ci rende liberi come uccellini nel bosco, che ci sottrae alla «terra» heideggeriana e ci getta nella terra di nessuno di nessuna ontologia, ovvero, di una «ontologia del pressappoco» :

    Il sole è il lampione della strada
    che gli fa da materasso, pressappoco.

    La poesia della Marangoni riesce bene quando scivola e sorvola appena di un attimo sopra il banale.

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  5. mi riallaccio alle considerazioni di Vincenzo Petronelli su questa poesia di Raffaele Ciccarone che mi trovano concorde:

    Raffaele Ciccarone
    18 settembre 2023 alle 14:51

    Cara Scintilla
    (Il cantico delle farfalle ottura le canne dell’organo)

    Sarebbe la verticale che allunga la scia delle farfalle
    amplificando l’eco della frescura nella mentuccia
    non c’è l’abbaglio del treno a suscitare tremore
    visto l’apericena consumata in galleria

    un equilibrio disarticolato il sibilo di sottesi fischi
    allarga la visuale dell’amarena ora che il criceto
    tra l’ossigeno e l’ossido di carbonio stenta
    veleggia tra le montagne russe motu proprio

    Vista la risposta dell’AI all’angolo acuto
    l’accento sprizza scintille e non è detta la piena
    comprensione della ChatGPT una volta
    che il distributore dispensi la tazzina se manca il caffè

    fu Cassandra a elargire le tessere magnetiche
    per accedere alla mostra della tela di Penelope
    prima che Ulisse arrivasse a Itaca per la mostra
    con tutti i Proci per assistere all’inaugurazione

    nelle waiting list sfioriscono i ciclamini
    Annibale rifiuta di portare a Roma i fiori quando
    Il telescopio segnala solo orme di dinosauri
    e la luna fa il bagno al largo delle isole Tremiti

    (S. Stantibus)

    come si può vedere ci sono dei parallelismi, delle concordanze e delle ricordanze evidenti tra la poesia della Marangoni e quella di Ciccarone, entrambe sono fondate sulla «similitudine rovesciata» (che è il cardine sul quale è impiantata la poesia del realismo terminale) e sulla «procedura serendipica» che la Marangoni adotta in modo del tutto naturale, quasi direi con inconsapevolezza della forza dirompente di questa procedura, mentre invece Ciccarone la adotta come il momentum centrale del suo modo di scrivere poesia. C’è da dire che per fare della serendipità a nulla vale l’intenzione, la volontà, il precetto quanto invece occorre porsi sulla barra tra il Significante e il significato “S/s” e lasciarsi andare, lasciarsi oscillare in quella «soglia» indicata dalla barratura. Cosa facile a dirsi ma non facile a farsi.

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  6. Come commentavo nell’intervento, che credo sia quello a cui tu fai riferimento, caro Giorgio, il procedimento serendipico del nostro Raffaele – ed in questo caso anche di Annachiara Marangoni, che saluto con piacere – è caratterizzato da una componente che in effetti è tipica della serendipità, vale a dire dall’intercettazione quasi casuale – ma in questo caso mi piace maggiormente dire, pre-analitica – di nessi, scoperte, approfondimenti che ampliano la prospettiva rispetto all’itinerario inizialmente prefissato dall’autore.
    Naturalmente, l’abilità del poeta o in genere dell’intellettuale dev’essere quella di capitalizzare tali folgorazioni, illuminazioni per evolvere la propria scrittura verso un abbattimento degli steccati ontologici della poesia sclerotizzata dei decenni scorsi, facendone il perno di partenza per a ricerca di un nuovo paradigma: il che è sicuramente (perché ne stiamo seguendo l’evoluzione) il percorso seguito da Raffaele e che spero valga anche per Annachiara Marangoni che attendiamo a nuove, future, prove.
    Un caro saluto a tutti.

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