
il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo
Giorgio Linguaglossa
Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:
«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1
Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta, in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, de-coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio nel linguaggio, è Figura del presente, Figura dell’assente. La impossibilità del linguaggio e del linguaggio poetico in particolare ad ospitare tutto il dolore del mondo de-coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.
Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.
Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.
1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521
Giuseppe Gallo
Giorgio Linguaglossa, riportando una riflessione di Carlo Sini:
«L’aura sta al limite della figura, segnandone la relazione al profondo, cioè alla sua provenienza, innanzi tutto, ma anche alla sua destinazione futura.» ben definisce le atmosfere caratteristiche della poesia di Maria Borio. Sulla stessa linea le puntualizzazioni di Gino Rago. Quello che a me colpisce è la consequenzialità logica e formale dei concetti che si allineano nella versificazione… riporto come esempio l’ultima Trasparenza:
Il mare è davanti. La luce della mattina si sgrana,
ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.
i frutti cadono, ci attraversano i pensieri,
si depositano sopra le ossa e i pensieri si gonfiano
in alto resistenti nell’aria di fine estate, sfere dove
le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi
fissandosi dentro la luce mentre mare e terra
raffreddano. Inaspettatamente possiamo diventare
freddi appoggiati su onde e nuvole fredde.
Intorno il posto adesso è trasparente.
Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.
in mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:
si accoppiano e i frutti cadono, dicono
cosa siamo, come ci siamo immaginati.
È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro
– essere la prospettiva fragile e forte
per chi ci ha abitato, chi ci abita.
A me appare sempre più difficile accettare un periodare in cui l’ordine del materiale linguistico è coordinato dall’io. Non so a voi. E non vale per questi distici nemmeno quanto afferma Giorgio Linguaglossa nell’ultimo intervento:
“Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.”
Il perché è presto detto: “Lo spazio bianco” in cui si “istituisce visivamente il nulla” io non riesco a coglierlo. Per il resto la poesia di Maria Borio mi sembra un ritorno, robusto ed intenso, all’indagine, inesauribile, di chi abita ancora dentro di noi e di chi è stato sfollato.
Zona gaming 11
Vado a vivere nel nulla
dove chi parla non ha ospiti da esibire.
Il cielo s’apre. Entrano alberi. E nubi.
Escono rondini, sciamano aeroplani.
-Devo sapere, Joe! Devo sapere!
-Lo faccia, Ben! Lo faccia! C’è un segno!
O un sogno. A qualche chilometro di parvenza.
A qualche ora posteriore alla disfania.
Zona gaming
Anche i fiori spazzatura.
Vado a vivere nel nulla
Dove Dio bacia se stesso.
Nella Camera Oscura delle congiunzioni elettriche.
E delle sconnessioni magnetiche.
Eccoci. Siete impazienti. Ansiosi del rimosso.
Dentro le ragnatele delle pagine.
Zona gaming
Spazzatura anche il filo spinato.
-Devo sapere sapere, Ben! Devo sapere!
-Lo faccia, Joe! Lo faccia! C’è un sogno!
Segno della polvere spianata
dopo il timore della vertigine.
I metalinguaggi delle trasgressioni.
I riflessi del pubblico e del privato.
I codici della nostra sublimazione,
la semantica della follia…
Zona gaming
…segni del tempo e viceversa

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
Giorgio Linguaglossa
Sono d’accordo con te caro Giuseppe Gallo,
la poesia di Maria Borio appare situarsi nella zona di trapasso dall’io al noi e dall’io alla terza persona singolare. È vero, è ancora l’io il governatore di questa «zona optica», ma è un «io» che si indebolisce, che sbiadisce… tra poco di quell’io non rimarrà più niente, nient’altro che nuvole e polvere, il mondo reale sfumerà nell’indistinto. A quel punto, la crisi della poesia della Borio avrà raggiunto il punto di non ritorno, infatti l’autrice non pensa ancora il bianco della pagina che circonda il distico come ad uno spazio vuoto, uno spazio del nulla, ma come un complemento della scrittura e sua prosecuzione. La mia riflessione sul distico voleva essere una riflessione generale, sugli esiti cui conduce la ricerca approfondita sul distico. E qui il problema emerge in tutta la sua complessità: «Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?». Dinanzi alla abissalità di questa domanda, faccio un modesto passo indietro: io non so «quale poesia scrivere», la sto cercando, certo che non potrà riepilogare le orme del recente passato, quella è ancora una poesia della «colonna sonora», una poesia del «pieno», una poesia che evoca il «pieno» dal «non-pieno», che evoca il «pieno» dal «vuoto», una poesia della «ontologia negativa» che vuole evocare il «pieno» dal «non pieno». Io penso invece che occorra dimorare stabilmente in una ontologia positiva, una poesia che abiti stabilmente il «nulla» e che nomini il «nulla» mediante le sue «Figure», le sue «Maschere».
Le «Maschere» sono nient’altro che dei simulacri che attendono i personaggi della nostra alterità.
Corre l’obbligo, dopo la fine del novecento e della poesia modernista europea, porsi due domande terribili:
Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
Quale è il compito della poesia dinanzi a questo evento epocale?
Allora, apparirà chiaro che quella simbiosi chimica delle parole che avviene attraverso il tempo e le temporalità può eventuarsi mediante un processo di metaforizzazioni: dalla cosa all’immagine mentale e da questa alla parola. La metaforizzazione ci porta «fuori» dal discorso ordinario, quello dell’epoca e dei suoi linguaggi di settore. Questo esser «fuori» è un attributo fondamentale dell’esser «altro» del linguaggio della poesia, altrimenti sarebbe «dentro», e precipiterebbe nei linguaggi di nicchia e di settore dell’evo mediatico.
L’epoca della metafisica compiuta è quella che richiede una filosofia ermeneutica e un’arte ermeneutica, che è un altro modo di porre la questione dell’«ermeneutica [come] forma della dissoluzione dell’essere».1]
L’esercizio della memoria si dà soltanto sul presupposto della perdita della memoria. L’esercizio della memoria è l’esercizio della nostra mortalità.
1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985 p. 164 Continua a leggere
Poesie di Giuseppe Talia, Roberto Bertoldo, Gino Rago, Mauro Pierno – La nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico – Dimorare nella ontologia debole implica la costruzione di una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica. Il naufragio del linguaggio – Dialoghi e Commenti
porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica,
Giuseppe Talia
Parto per un viaggio.
Volo con una Musa Low Cost.
Destinazione l’immaginazione.
Un’applicazione ferma. Dove siamo?
Nel trittico del cane. Io, Es e Sé.
Nell’alternativo concept tra pianeti nani;
nella perduta via degli anelli planetari;
nel viaticum della storia allucinata.
Una toccata e fuga fugace.
Un pacchetto, una combinazione
sul planisfero di misura in misura.
Un raid in moto su Marte.
Una foto condivisa su Android.
Villaggi globali di misere capanne.
Un campo di guerra, d’ogive e di speranza.
Un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo
di una qualsivoglia Venere o a stritolare ossa
Di bimbi-bambù. In ogni cosa che finisce
e inizia nel Mar Morto come un profugo.
.
Roberto Bertoldo
A tutte le donne che non ho potuto amare
dedico la miseria delle mie poesie
cosicché non abbiamo rimpianti –
le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero,
astratte, negli archivi della notte, sfibrati tuoni
della tempesta che mi ha reso l’amore
una querelle infinita. E ora raccontate
la povertà del mio cuore senza sapere lo stupro
che ha screziato di gabbia la pelle di un bimbo,
senza sapere del sole tramortito nelle mie vene.
.
Gino Rago
21ma Lettera a E. L.
[Dismatriati]
cara Madame Hanska,
ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.
Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,
getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.
Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna
perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.
Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…
ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere
dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,
quelle sì molto più interessanti della mega creazione.
(** È Giorgio Linguaglossa)
da sx Giorgio Linguaglossa, Antonella Zagaroli, Roma, pub di San Lorenzo, 1998 – Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi
Commento di Giorgio Linguaglossa
Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.
Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.
Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.
«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.
*
Gino Rago
11 agosto 2018 Continua a leggere →
21 commenti
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