Archivi del mese: Maggio 2014

Poesie di Gabriella Sica AUTOANTOLOGIA (1986-2011)

Gabriella Sica, foto di Giovanni Giovannetti

gabriella sica Le lacrime delle cose  Gabriella Sica, originaria della Tuscia e romana d’adozione, è una delle presenze più attente e costanti della poesia italiana contemporanea fin dalla fine degli anni Settanta. Negli anni Ottanta ha diretto “Prato pagano”, dove ha esordito o pubblicato una nuova generazione di autori. Suoi libri in versi: La famosa vita (1986, Premio Poesia Brutium-Tropea), Vicolo del Bologna (1992, finalista-vincitore Premio San Pellegrino), Poesie bambine (1997), Poesie familiari (2001, Premio Internazionale Poesia Camaiore, finalista-vincitore al Premio Metauro e al Premio Frascati) e Le lacrime delle cose (2009, Premio Garessio-Riccì, Premio Poesia Alghero Donna, finalista-vincitore al Premio Arenzano-Lucia Rodacanachi e al  Premio Internazionale Dessì). Suoi libri in prosa: Scuola di ballo (1988, Premio Lerici-Golfo dei Poeti), È nato un bimbo (1990), La parola ritrovata Ultime tendenze della poesia italiana (1995), Scrivere in versi Metrica e poesia (1996, 2001 e 2013, in terza edizione rivista e aggiornata), Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi (2000) e infine Emily e le Altre. Con 56 poesie di Emily Dickinson (2010). Sue opere in video su Ungaretti, Montale, Pasolini, Saba, Penna e Caproni sono state prodotte da Rai Educational, con la regia di Gianni Barcelloni, e le prime tre pubblicate in videocassetta (2000 e 2001). Sue poesie sono state tradotte in spagnolo, francese, inglese, rumeno, croato e turco. Un’autobiografia, Gabriella Sica. La sua biografia in immagini, è uscita sul n. 41 di “Steve” (2011) leggibile ora nel sito ufficiale: www.gabriellasica.com. Contatti tramite il sito o su facebook.

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

da La famosa vita, 1986
L’oro

Mendicando rincorro un viso
allegro il cenno di una mano
e una maglietta che scantona
come l’oro del mondo intero.
Sodalizio

La camera era accanto al cielo
vicino alla porta uno scaffale
in mezzo il tavolo dove scriveva

di fianco alla finestra c’era il letto
dove preso d’amore di rado
il suo gatto piombava.

 

Il fuoco

Bruciasse almeno la mia vita
accesa da faville di passione
o da un rossore appena…

In silenzio senza brividi di fuoco
lenta mi consumo e ancora viva.

L’invito

Sono io sola non un amico con me
ma levo il bicchiere e invito il sole
poi l’ombra di fronte noi siamo tre.

 

gabriella sica foto di Dino Ignani

gabriella sica foto di Dino Ignani

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sogno

In una cameretta in alto
giaceva abbandonata poi
scendeva lenta nella strada
a cercare avida su un viso
un lampo vivido di luce
o di sogno forse…

 

La mia pace

Infelice siedo su uno scalino
in piazza ma appari tu improvviso
spavaldo come nessuno quest’anno
e io rifiato dopo tanto affanno.

gabriella sica Vicolo del Bologna

 

 

 

 

 

 

 

da Vicolo del Bologna, 1992

I
Erano di una freschezza antica
i fili dei bucati bianchi
un miracolo il sole così caldo
e perfino il ronzìo di un’ape.

Stava al balcone tra rossi gerani
e l’odore di salvia e prezzemolo
senza avere profondi pensieri.

Ricordava della passata notte
la sua bocca le labbra piene
e i capelli sulla fronte
II
La gioia della gente l’attirava
in un caffè aperto a chiacchierare
nelle rumorose e calde serate estive.

Tornava tardi nella sua stanza vuota
in quel corridoio familiare
che un vicolo era del paradiso.
III
Girò la curva e laggiù apparve
in fondo al vicolo umido e scuro
vigoroso e con la grazia del sole.

Lei respirò profondamente e lenta
tra i gerani piegata sul balcone
pensando a come renderlo immortale. Continua a leggere

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IL DIALOGO TRA JORGE LUIS BORGES E ERNESTO SABATO REALIZZATO DA ORLANDO BARONE NEL 1975 – Inedito, tradotto da Giorgio Linguaglossa

buenos aires skyline

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Non ci può essere migliore dono della trascrizione di questo discorso che Orlando Barone ha eseguito in un lontanissimo 15 marzo 1975, con il quale si chiude la serie di incontri tra i due scrittori tenutisi nella città di Buenos Aires. Il dialogo è una meditazione sullo statuto del sogno e dell’arte.  Sia Sabato che Borges attraversano i grandi topoi dell’umanità: malinconia, ricordi, follia e, naturalmente, la morte.

 Di cosa si parlerà oggi?  Non so, forse si può suggerire un argomento.  Tuttavia, essi stanno già parlando senza aspettare.  Grave sonora la voce di Sabato. Ovattata e debole quella di Borges.
 Chiudo gli occhi e senza rendermene conto immagino un teatro di fronte al palco.  C’è una città e sullo sfondo  molte città, Borges e Sabato le stanno contemplando (Borges le ricorda).

 

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Borges
Mentre vivevo negli Stati Uniti. UU. UU.  (Sei mesi in Texas), sapevo che nello stesso condominio dove ho vissuto, ciascuna abitazione aveva caratteristiche che differivano l’una dall’altra.  Tuttavia, se qui se si fanno cinque appartamenti, sono tutti uguali.  Perché gli architetti soffrono di monotonia. E in Svizzera, a Ginevra, non ho mai visto due  edifici uguali.  Ma a Buenos Aires se si bendano gli occhi a una persona, si potrebbe sapere se sta più o meno vicino al centro, ma niente di più. A Ginevra (25 anni ho vissuto lì) non ricordo due edifici uguali.  Lì c’è diversità, non come la tradizione spagnola di mele e scacchiera. Nella nostra città è un’eccezione un luogo chiamato Five Corners, per esempio, e anche i nomi delle strade sono le stesse a Buenos Aires e in tutte le città dell’interno.  In ogni città c’è una strada San Martin, in un’altra Belgrano, ecc. Questa cattiva abitudine di mettere i nomi delle persone che viene dal francese è un errore. Non mi ricordo ci sia in Inghilterra una via chiamata via Shakespeare.  Questa distinzione è accettabile per quattro o cinque uomini eminenti.  E questo che dice molto poco alla nostra immaginazione, è in contraddizione con il fatto che l’Argentina è attualmente uno dei paesi dove si fa la migliore letteratura fantastica. Altrove in America quello che si scrive sono romanzi di costumi o di argomenti di carattere sociale, ma romanzi di pura fantasia penso che si facciano quasi esclusivamente qui o magari in Messico. Mi rallegra che la gente non si accontenta della sola testimonianza, perché altrimenti la letteratura diventa giornalismo.

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(Sabato  ascolta e  scrive qualcosa su carta. Borges ha monologato con entusiasmo, come gli piace, sapendo che lo si ascolta con la certezza che molte delle cose che ha detto saranno considerate o discusse con Sabato. Ma non ha ancora finito. Una piccola pausa di Borges e poi una annotazione sulla realtà).

 Ma qual è la realtà?  Che cosa è la realtà?  E il sogno non è la realtà?  Che tema interessante da trattare, no?  La notte scorsa ho sognato molto. Stavo lavorando fino a tardi a correggere due libri: uno di poesie e altre storie di quest’anno.  Beh, almeno è qualcosa che mi giustifica per continuare a vivere … (Ora è calato il silenzio. Non è triste, ma riflessivo e non tralascia di volgere gli occhi verso il luogo dove sta Sabato. Scorre un tempo durante il quale i due prendono una pausa. Lancio in tralice un’occhiata al pezzo di carta dove Sabato ha scritto e leggo fugacemente: massificazione,  letteratura, identificazione e altre parole che non riesco a decifrare).

 

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Sabato
Sono molto interessato al problema del sogno, ma prima vorrei dire qualcosa sulle città,  (Borges muove la mano in segno di assenso e ride, con franchezza). Già, non ridere, ti chiedo di farmi finire, perché so che alla prima occasione mi vuoi confutare. (Borges nega con la testa, sorridendo.) Per ora, non credo che sia un problema di immaginazione da parte loro e di mancanza di immaginazione da parte degli spagnoli.  Se fosse così, non si spiega perché gli svizzeri che non hanno sprecato gli edifici non hanno invece inventato il Chisciotte. (Borges vuole interrompere, ma Sabato gli ricorda la Promessa, e poi accetta Borges sorridente, ma senza occultare la sua ansia). Offriamo questo paradosso: architettura monotona, ma una delle migliori letterature fantastiche.

Ciò dimostra che se si ripetono i nomi delle strade, ci deve essere qualche altro motivo.  Cominciamo perché in ogni grande città moderna tende a dominare l’identificazione.  Sono costruite in un tempo nel quale la tecnica massifica le cose dell’arte, gli oggetti e i costumi.  E finisce per fare delle città identiche e astratte identità. Tu mi dici che negli Stati Uniti hai trovato una casa molto particolare. Ma deve essere in un angolo molto riposto, perché è precisamente il paese della massificazione.

borges

borges

Borges
Beh, non accade nei piccoli centri, ci sono radici, tradizioni. . . . .

sabato 3Sabato
È proprio perché  le piccole e antiche città conservano determinati attributi concreti e caratteristici.  Questo accade non solo nelle città inglesi ma anche in Spagna, nelle piccole città.  Anche a Madrid, ricordo dei nomi di strade come “Dei coltellai” e così via.  Quanto a noi, Borges, tieni in conto come qui ci fossero civiltà ricche e potenti prima della conquista, e le città sono state costruite sul nulla, o da quel tipo di metafora che è il deserto. Così hanno fatto queste città monotone e reticolate.  In ogni caso, forse questo ha i suoi vantaggi o contribuito ad alcune caratteristiche non trascurabili.  Tu sai che le tre grandi religioni occidentali sono sorte nel deserto.  E qui il nostro contadino, il nostro gaucho, è diventato ritirato e tranquillo, con uno spirito malinconico e religioso tra quelle vaste solitudini. Chissà se non si debba cercare qui la prima radice di questa nostra propensione alla letteratura fantastica.  E su quei deserti queste megalopoli crescono, come Buenos Aires, dove tutto sembra uguale.  Una sorta di labirinto. (Borges è inquieto e la parola labirinto finisce per entusiasmarlo, e dice che questa idea gli sembra buona).

 Borges (semi scherzoso)
Ma ho pensato che i labirinti fossero una creazione dei Greci!

Sabato
Ma non dovrebbe essere casuale che tu che non sei greco hai scritto molto sui labirinti.

Borges
Il mio è più di un plagio (ride).

Sabato
Sì, ma si plagia ciò che si sente, quello che ci necessita.  Inoltre, tutto è plagio e nulla, rigorosamente, lo è. Perché ognuno mette il proprio spirito, la propria tonalità.

borges 5Borges
Accetto l’impossibilità del plagio. Se Menard scrive il Chisciotte, non riscrive il Chisciotte ma un’opera del XX secolo.  A Cervantes, tuttavia, non sarebbe mai venuto in mente di prendere un precedente lavoro e ricrearlo.

Sabato
Non ne sono sicuro. Shakespeare ha ripreso molte storie.

Borges
Ho una storia personale che è fuori di questo argomento, ma vorrei raccontarla … (La sua voce vacilla un po ‘, ma Sabato lo incita a proseguire). Si riferisce a mia madre, che sta per morire … e il giorno prima mi ha detto qualcosa, non è divertente, certo, ma è divertente perché parte da una donna prostrata quasi paralitica, che ha chiesto a Dio come ultimo favore di consentirle di muovere un poco la mano destra.  Lei mi ha detto, quando ero accanto al letto, “Sono troppo vecchia, Dio è ancora più vecchio, quindi è naturale che si dimentica di tutto. Quando mi ha dato il biglietto di andata si è dimenticato di darmi quello del ritorno … Ed eccomi qui, a 98 anni. “(Borges abbozza una sorta di sorriso mentre agita fortemente il bastone. Io e Sabato ci guardiamo impressionati. Forse perché l’aneddoto grava sull’ambiente e comincia a parlare di morte e del valore che  alcuni hanno per affrontarla. Quasi affascinato involontariamente mi inserisco nel dialogo, e ricordo come in un film avevo visto dei vecchi che in qualche parte in Oriente, li portano a morire da soli lontano dalle loro famiglie. Segue un altro silenzi,o fino a che è Borges che parla).

borges 4Borges
In alcuni luoghi li lasciano nella neve i vecchi dove muoiono senza dolore.  E poi c’è una storia di Jack London in cui il bambino porta suo padre a morire e lo abbandona sperando in quel tipo di sogno.  Penso che se mi dicessero che devo morire stanotte e che non ci sarà alcun dolore fisico rimarrei tranquillo e non farei nulla di diverso da quello che faccio ogni giorno.

sabato 2Sabato
Divertente, molto è stato scritto circa l’uomo condannato a morte come un essere eccezionale … Ma se siamo tutti condannati e tu sei già morto … Ed è indifferente la quantità di anni in cui si vive.  Che cosa significa questo per l’eternità?  E a proposito della lunghezza di una vita, mi sembra che si possa fare un lavoro straordinario: qualcosa con il tempo come Swift ha fatto per le dimensioni spaziali.  Modificando le scale assisteremmo a scene grottesche. Un uomo che ha vissuto un giorno, per esempio, per lui un’ora, sarebbe importantissima.  Invece della Guerra di 30 anni, per esempio, la guerra delle 14 ore … (Borges annuisce).

Borges
Swift … sul punto di morire, pazzo, in quella grande casa di Dublino, ripeteva: “Io sono quello che sono” … C’è qualcosa, un’essenza …

sabato 5Sabato
Ho sempre amato alla follia.  Diverse volte sono andato in quella soffitta dove è morto Van Gogh. Anche la casa di Holderlin.  Che cosa sappiamo della follia?  Chi sa se ciò che abbiamo fatto finora è semplicemente sopravvalutare la sanità mentale, che spesso è semplice mediocrità?  Chi lo sa, Borges. E i sogni, che sono la cosa più profonda che abbiamo, a che servono se non sono folli?

Borges
Avevo trovato un libro inglese del XVII secolo e mi sono detto che era molto bello avere scoperto il libro, ma poi ho pensato che se stavo sognando l’altro giorno non avrei avuto la possibilità di trovarlo. Allora ho detto, metto il libro in un luogo sicuro, e lo misi in un cassetto in biblioteca.  Così  sarei stato in grado di individuarlo quando mi fossi svegliato.

 Sabato (con lieve ironia)
Un sogno borgesiano.

Borges
Vorrei chiedere una cosa, Sabato, qualcosa che accade a mio nipote e a me, ma io non so se capita a tutti. Ad esempio, sto per addormentarmi e comincio a sognare.  Ma so che sono a letto e che  in un minuto o due finirò per addormentarmi.  Ma so che sto sognando.  Mio nipote mi ha detto che a lui accade lo stesso.  Io non so se capita così a tutti.

Sabato
No, ciò accade solo in coloro che portano il cognome Borges.

Borges
Una volta ho sognato che cercavo di leggere manoscritti indecifrabili.  Ero preoccupato e mi sono svegliato il giorno dopo e i manoscritti mi hanno tenuto compagnia per qualche minuto, anche se sapevo che era un incubo.

 (Sabato tace, scarabocchiando qualcosa su un foglio sul tavolo, fissando il volto di Borges).

borges 3Borges
Coleridge ha detto che la differenza è che durante la veglia le nostre emozioni sono causate dalle impressioni.  Ma che nell’incubo si comincia a sentire l’angoscia e quindi si ha la tendenza a pensare.

Sabato
Penso che sia scientista. (Borges lo riconosce) Comunque, l’uomo che sogna è un grande poeta e quando si sveglia torna ad essere  un povero uomo.  In generale, almeno.

Borges
Una persona che sogna è sia il teatro, attore, autore e decorato. (Sabato annuisce).

Barone
Ma perché i sogni sono così spesso angoscianti?  Più angosciosi che felici?

Sabato
Perché non hanno via d’uscita.  Arte e sogno hanno un principio comune, a mio parere. Ma nell’arte c’è una uscita, nel sogno no. L’artista si immerge, in un primo momento, nel mondo dell’inconscio, che è quello della notte, e che in ciò si apparenta al dormire. Ma poi torna nel mondo di fuori, è il momento dell’espressione.  Questo è quando l’uomo si libera. Nel sogno tutto resta dentro.

borges 1Borges
Vedo che Sabato è uno specialista dei sogni.

Sabato
Tutti lo sono.

Borges (Ironico)
Ma so di persone così sfortunate che non hanno mai sognato.

Sabato
È quello che credono.  Noi tutti sogniamo, quasi tutto il tempo.  Ci sono stati alcuni esperimenti. Si fa addormentare una persona.  Quando  inizia a sognare, e ciò lo si sa tramite l’elettroencefalogramma, la si sveglia. Poi la si fa dormire di nuovo, e la si sveglia di nuovo quando i sogni cominciano. Dicono che ciò ha portato quella persona sull’orlo della follia.  Ciò dimostra che il sonno serve a non impazzire nella vita quotidiana.  Penso che l’arte è lo stesso, che l’arte è per la comunità ciò che il sogno è per l’individuo. Essa può contribuire a salvare la comunità dalla follia. E questo sarebbe la grande missione dell’arte.

Borges
Nel Viaggio intellettuale, Groussac dice che è raro per noi essere più o meno sani di mente, considerando che passiamo una buona parte del tempo nel mondo illogico dei sogni.

Sabato
Non vedo perché Groussac si sorprende: è per questo motivo che possiamo rimanere sani di mente.

Barone
E il pazzo, poi cosa sarebbe?

Sabato
Un individuo che sogna ad occhi aperti.  Gli accessi di follia devono essere come gli incubi della veglia.

Barone
E l’artista, non è anche lui sull’orlo della follia?

borges 7

Sabato
Direi, piuttosto, che è all’inizio.  Il punto di partenza dell’arte è l’inconscio, la notte. Ma l’artista torna sempre alla notte: alla follia, ai mostri dominanti delle loro opere d’arte.  Il folle però non ritorna.  Forse è  questa la ragione della riverenza della società per artisti e anche pubblicamente.  Altrimenti sarebbe strano e inspiegabile. I personaggi di Shakespeare, Shakespeare cioè, assassinano, tradiscono, torturano, stuprano, si suicidi, impazziscono.  Per molto meno in società si otterrebbe la galera o il manicomio. Bizzarro, non è vero?  L’unica spiegazione è che, anche in modo cosciente, i sospetti criminali folli  ci preservano da tutti i crimini e dalla follia.  Quanto a coloro che non possono essere Shakespeare, sognino di notte.

Borges
Ti dirò un sogno che ho usato in una storia.  Ma posso plagiare, no? ( sorride).  Sogno che mi  incontro con una persona.  Questa persona ha una mano dentro la manica.  Gli parlo. Gli faccio notare che è molto tempo che non ci vediamo.  E lui dice: “Sì, ho cambiato molto.”  Poi tira fuori la mano dalla manica e vede che in realtà è un artiglio… Ma tutto questo è stato preparato fin dall’inizio, credo. La sensazione di orrore che sento di vedere che invece di una mano ha un artiglio, me l’aspettavo dall’inizio del sonno.  Intuivo che la mano  non era una mano. (Restiamo ensierosi. Dopo un po’ mi chiedo a Sabato perché non ci racconta un sogno).

Sabato
Nel complesso, i miei sogni non possono essere raccontati. No sé contarlos. Non li so raccontare. Alcuni sono scritti.

 (Intanto accade un dialogo confuso, parole sovrapposte, che non si riescono a decifrare e  parole disordinate per l’ ansia, l’entusiasmo e la voglia. Finché poi ecco un argomento affascinante. Magia, divinazione, la credenza nei fatti soprannaturali).

Borges
Un mio amico, un uomo di città, il dottor Nestor Ibarra, ansiosamente chiesto un mandriano: E ‘vero che si ritiene che ci sono persone che al chiaro di luna il sabato sera a prendono la forma di un lupo?  L’altro uomo di campo poi gli dice intanto .. non crederci, amico, queste cose sono favole. (Risate) Così il mandriano, primitivo e ignorante e non crede e il mio amico della città, invece ha molta voglia di credere.

Sabato
Tuttavia, Borges, sono nato in una cittadina di campagna e vi posso assicurare che là si crede nei lupi mannari, la vedova, il maiale, la cattiva luce, il malocchio e tutta una serie di eventi soprannaturali presenti in tutto il mondo da parte di chi ignora che cos’è un logaritmo.  E a volte, ancor più quando ci sono troppi logaritmi.

(Borges, che è un credente, mormora qualcosa come “Wow, questo è strano.” Il suo gesto è divertente).

sabato 1Sabato
L’uomo è un essere fatto di dualità: il sonno e la veglia, la follia e sanità mentale, ecc.  E nello spirito dell’uomo c’è una lotta tra forze antagoniste, e quando una di queste forze sembra vincere, le altre cedono e, infine, aumentano con maggiore forza.  Guarda, Borges, quello che è successo in Europa in pieno auge dell’enciclopedismo, quando lo spirito illuminato ha cominciato a ridere dei sogni dei miti e della magia. Allo stesso tempo, non nonostante ma a causa di ciò  si verifica il maggior focolaio di occultismo d’Europa. Società occulte, esoterici come Claude de Saint-Martin e Fabre d’Olivet, spostati come Cagliostro, mistici come Swedenborg… .  .

Borges
Ebbene, nel XVIII secolo fecero apparizione antichissime società che non esistevano il giorno prima.

sabatoSabato
Sì, ma che esistevano secoli fa, quando l’uomo non era ancora stata dissociato dalla scienza e dalla ragione.  Quando la ragione volle ignorare le Furie, quando i filosofi dell’Illuminismo li cacciarono fuori dalla porta, a calci, tra risate, esse rientrano dalla finestra.  Non solo con la magia, anche con il romanzo, che è un fenomeno moderno.  Le Furie sono invincibili.  Si noti che in questo paese dove il razionalismo è diventato una piaga è emerso la più grande emergenza di indemoniati, dal maresciallo Gilles de Rais a Genet, al marchese de Sade.

Borges
Perché la Francia è la ragione. Pero, ¿qué es la razón? Ma cos’è la ragione? La ragione è per esempio il simbolismo? ¿Es Le Blois? È Le Blois?

Sabato
Non ho detto che la Francia è la ragione, ho detto che ha  cercato di esserlo. Certo non credo in quel motto comune della ragione: esprit de mesure. Nitidi esempi dello spirito misurato Rabelais o la Rivoluzione francese …

Borges
Voglio dire che almeno ha avuto due tradizioni.

Sabato
Certo, ce ne sono sempre due. La dualità è tipica dell’uomo, la dualità antagonista.

Borges
Stavo pensando che è un tipico scrittore spagnolo.

Sabato
Barocco, tumultuoso, senza misura. Ciò conferma la dualità.

Borges
Potremmo inventare qualcosa d’altro: che si può scrivere la storia della letteratura basata sulla logica (sorride) e non su mere circostanze geografiche.  Poi Rabelais sarebbe spagnolo e non francese.  Mio padre diceva che quello che conta non è la nascita, ma la generazione a cui si appartiene, come risultato di una vita o di lavoro. Claro, si es que estas cosas tienen importancia. Naturalmente, se queste cose sono importanti…. .

Sabato
Tornando al tema, penso che l’esasperazione di una civiltà tecnica comporta il risorgimento delle potenze  magiche.  Questo è evidente anche nelle cose come minore come il commercio degli oroscopi. Sono fatti privi della minima serietà, ma rivelano una necessità profonda per la gente.

Borges
Non so chi mi ha detto che gli oroscopi li facevano gli amanuensi e colui che li leggeva era il maestro.

Sabato
Seriamente credo negli oroscopi, se fatti correttamente.  Xul Solar fece gli oroscopi per i miei due figli e per molti anni ho resistito a conoscerli.  Ho sempre avuto paura del futuro, perché nel futuro, tra le altre cose, c’è la morte.

Borges
Che, hai paura della morte?

Sabato
La parola esatta sarebbe tristezza.  Trovo molto triste morire.

calvino e J.L. Borges

calvino e J.L. Borges

Borges
Penso che  come non si può essere tristi di non aver visto la guerra di Troia, non vedere più questo mondo può essere triste, giusto? In Inghilterra c’è una superstizione popolare che dice che non sapremo che siamo morti, fino a quando non vediamo che lo specchio non riflette noi.  Non vedo lo specchio. (Il volto di Sabato assume una vaga tristezza. In fondo, il sole di mezzogiorno attraversa una striscia di polvere).

Sabato
Quando morì Xul, Lita, sua moglie è morta, ha insistito più di una volta per vedere questi studi sui miei ragazzi.  Non ho mai voluto vederli, ma Matilde sì.  Sapete che sono state soddisfatte?

 Borges (con stupore)
E come sono?  Cosa prefiguravano?

 Sabato (con una voce intima, quasi verso l’interno)
Un intreccio misterioso di fortuna e disdetta.  Questo, Borges, questo.

Borges debolmente e stringe il bicchiere  e lo porta alle labbra. Sabato se reclina aun más en su silla. Sabato si appoggia sempre di più allo schienale della sedia. Io giochicchio con il ghiaccio che colpisce il vetro della mia tazza. Non riesco a spiegare questa sensazione di silenzio tra Borges e Sabato.  Cosa penseranno adesso? Quali immagini, storie di fantasmi che non si confesseranno? Riconosco che la mia letteratura è povera per descrivere il silenzio.  Ma è questo: due uomini che si piegano e si  avvolgono e ritornano alla propria solitudine.

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SULLA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI: L’ESTETICA DELLA DENUNCIA   – Commento di Antonio Sagredo. Parte III

Selfie Jean Aurenche, Marie Berthe Aurenche and Max Ernst

da Alfredo De Palchi Paradigm. New and Selected Poems 1947-2009 Chelsea Editions 2013

Orecchio il silenzio di quella sedia
con la mattina cigolante di gabbiani attorno la guglia,
e già il passo delle tribù
occupa tanto spazio tra i muri di questo deposito
abissale di spiriti e di pietra calcarea
dove in ginocchio dal peso delle colpe
ti divoro la verticale spoliazione di barbara
con l’intenzione di uscirne illeso
alleggerito dalla benedizione del portale

Che significato incontra la mia casa desertica di ossa
travolta da malignità occulte
e che mentre vi cala dentro si macera di tremori
per l’abisso lucido della triangolazione –
incontro il tuo viso di perpetua, illuminante
perch’io possa significarmi il rito
della simbologia carnale.

È dubbia la sicurezza di fronte a tanta omertà –
il caleidoscopio sonoro tra le pietre
e le vetrate che illustrano donne biblicamente erotiche
assicura che il compimento fruibile è perfetto nella fossa,
barbara di muschi.

(1999)

Andy-Warhol-painting

Andy-Warhol-painting

 

La chiarezza delle acque mi rigenera
puro nel fiume che dalla cima del tuo capo
sorge a zampilli a gorghi a rivoli veloci,
ramificandosi in tributari di pendii e di braccia
che crocifissi in attesa;
e nel suo letto di ciottoli sabbie e curve ti leviga
le mammelle a fioriture di gigli acquatici,
cedevoli nella piana acquifera che freme fino alle anche scarne,
arrivando a estuare spalancato all’ambra
delle tue riviere imponenti – l’Adige
è il tuo corpo sinuosamente asciutto, potente,
vortice che accoglie la mia bocca di sete.

warhol_marilyn

warhol_marilyn

 

Potessi scatenarti nella camicia da notte i fianchi prensili
con la lontananza che si espande a un tuo universo
di allergie e di capelli seralmente selvatici – sai,
voglio sedurti con la mente
centrata sul triangolo vivacemente muschiato
che mi aspira dentro la costellazione nera;
sono il fiato che scotta il taglio rosso
la verticalità vertiginosa; sono la lingua
che flessibilmente accede per le cosce guizzanti
come carpe nel fondale di melma dove fa luce la fica,
per le gambe che si disegnano ad arco
scendendo ai piedi intensi di febbre.
Potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo distante
l’entusiasmo, e ancora leccarti là
e là, fino a bocca sazia o consumata.

(gennaio, 2000)

Madonna_ft__Andy_Warhol_by_Coralulu

Madonna ft  Andy Warhol by Coralulu

Le tempie scoppiano di tensione
infusa nell’abbraccio diffuso con l’ombra lungo
il panorama appena acerbo del tuo corpo
e una ruga fertile di sangue macchia
lo sguardo di un sorriso che decifra con efficacia
il mio, stupefatto nel tono percettibile
della tua grazia e del sapore che sorgono dall’estuario
sorgente Dimmi, il soliloquio
m’infligge tra le tue cosce telluriche,
manifestando le colline turgide dell’oriente
inconscio del fiume che discende da una lontananza
oltre le spalle cresciute di timpani
per rinascere proprio dalla foce: e da qui
mi slabbro seguendo ogni curva ogni linea
della tua esile forma che si plasma nella dimensione
di uno spirito unito,
religione della tua fluttuazione,
sostenenza dell’ostia splendente sulla mia faccia
divenuta se stessa; consuma
la mia forza, fammi consumare le labbra
spaccate nella tracia verticale

(1 febbraio, 2000)

Foto Il vichingo

Sono il dilemma
che oltraggia la veste monacale usata dalla mente,
e per il tuo corpo incolume
sono lo sposo della mensa
adorato ogni notte in ginocchio presso
il letto spogliato quanto te;
la veste intatta ad un chiodo a poco a poco si chiazza
di unguenti spalmati sulle piaghe dell’intimo punire
mentre tenti di fermare la mano surreale che ti accende
e ti invischia nella sua potenza.
La finestra della cella è chiusa, l’uscio sbarrato,
i muri calcinati assorbono le urla mute;
e tu, monacale, divarichi le carni ustionate,
e con la bocca saturnina piena di lingua che serpeggia lucifera
avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale – prendimi come vuoi,
in tutte le bocche gonfie di rosa, turgide di passione,
riempiti del tuo salvatore.

(4 febbraio, 2000)

 

*

Quanto usufruire dello spasimo che ci scuote,
e le mani si cercano nelle nebbie
sotterranee di fili di voci travolgenti,
che mi spinge a te vedova nera di un evento
che tormenta nelle braccia il tormento
quando si è soli nelle proprie braccia.
Guardami dimmi, è così per te, trafissa nell’astruso
esplodere di parole vocali insensate,
udite con tenerezza mentre ciascuno percepisce
penetrando l’immagine che l’una ha dell’altro,
e generate nel suo terreno seminabile a onde assiderato
con fioriture sotto un coltre di polvere;
io sono chi tu cerchi, sono
il giogo felice che trovi per le colline infertili,
le miniere di sale, le pianure e le vie disertate
che stringono il domicilio semispento;
parlami con il tuo sesso alla gola,
urlami dentro che sei chi mi offre il proprio terreno
vivacemente di acque colline pianure e foreste chiare;
tu sai, la distanza uccide.

(5 febbraio, 2000)

La poesia di Alfredo De Palchi è una poesia amorosa, che sia la Musa una prostituta o una santa o una normale donna gli è indifferente, resta ed è comunque impregnata d’amore fin dai suoi primissimi versi (il femminino lo tallona!).  Quando invece la colpa era già un contrappasso – pulsante tortura – alla  sua esistenza – si sommava anche la colpa di aver ucciso un/il nulla,  e questo lo perseguita per moltissimi anni, lo marchia, senza che ci sia nessuna macchia, irreversibilmente… E come tutto questo mi fa pensare alla finta impiccagione di Dostoevskij (con quale accusa e quale colpa? : era solo lo scherzo spietato del potere! La colpa come estrema ed unica finzione!) che per poco non lo fece davvero impazzire, lui… lo scrittore per eccellenza che di pazzie umane se ne intendeva anche troppo… aveva rischiato per davvero di divenire, proprio lui, pazzo!… l’artista dell’inumano e del disumano! Ma vi è una consolazione:

                                                  accoglimi nella bocca materna
                                                  soffice, nutriente di liquidi

 ed è il primo verso di una poesia che m’accoglie solidale col poeta, non si può non partecipare alla preghiera : accoglimi… ricevimi…  una supplica d’amore che trascende il sesso…

annuso come un cane
ammalato e lecco le origini
…………….

– sono qui per l’arrivo di una incorrotta
 
Come appunto, il Femminino Eterno!  E forse Justine? Continua a leggere

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Dino Segre, in arte Pitigrilli – repêchage di Marco Onofrio

  pitigrilli 1Ce ne sono di scrittori dimenticati da riscoprire! Soprattutto quelli su cui pende un pregiudizio infamante che impedisce – come una deterrenza ideologica a cui soltanto pochi coraggiosi hanno la forza di resistere – una valutazione seria e serena delle opere (ovvero, ciò che resta e unicamente dovrebbe contare di un autore), a prescindere dalle vicende biografiche e politiche. Uno dei casi più evidenti di rimozione pregiudiziale dalla storia letteraria del Novecento è quello di Pitigrilli. I motivi? Politici anzitutto: il camaleontico trasformismo che ne impregnò opinioni, scelte e atteggiamenti, con annesse fasi di fiancheggiamento del regime e – addirittura – attività di delatore a servizio dell’Ovra. Letterari, in secondo luogo, legati alla dimensione smaccatamente popolare e, di conseguenza, allo straordinario successo delle sue opere e/o iniziative editoriali (è noto quanto la fortuna commerciale di un autore possa renderlo inviso o, per lo meno, sospetto di mediocrità).

Non gli si poteva “perdonare”, insomma, che fosse uno scrittore di consumo, che vendesse di ogni libro decine di migliaia di copie, e che – avendo il fiuto sopraffino per i gusti del pubblico – tutto ciò che toccasse diventava oro. Tra i critici capaci di spingersi oltre gli steccati, per rileggere a nuove condizioni la vastissima opera (oltre cinquanta volumi) dello scrittore torinese di origine ebraica, si annovera anche il nome eccellente di Umberto Eco.Oltre ad Eco, di Pitigrilli si sono occupati, fra gli altri, Enzo Magrì e Maurizio Bonfiglio. Magrì è autore della biografia Pitigrilli. Un italiano vero.

pitigrilli

pitigrilli

Pitigrilli appare come un autore torrenziale di articoli e romanzi “politicamente scorretti”, libertari, insubordinati. Anche per questo si ritrovò tutti contro – cattolici, marxisti, fascisti – giacché per tutti aveva in serbo una mossa spiazzante, e la capacità di rendersi inafferrabile e oltranzista, di non lasciarsi facilmente incasellare, anche percorrendo – se necessario – sentieri tra loro inconciliabili, rivendicando cioè la facoltà “creativa” di smentirsi, di contraddirsi, restando peraltro fedele alla propria natura di flâneur. Un artista impertinente, disinvolto, anticonformista, scanzonato, ironico, surreale. La sua è la penna acuta e affilata di uno scettico che si diverte ad osservare la società italiana, retriva e bacchettona, demistificandone – con lo sberleffo della leggerezza – le pompeggianti retoriche e le endemiche viltà. Si pensi, ad esempio, alle cronache che redasse, per il quotidiano romano “L’Epoca”, sull’impresa fiumana di d’Annunzio, decostruendo la sacralità eroica della spedizione e del Vate condottiero, e definendo Fiume “città asiatica” (non quindi rivendicabile dal popolo italiano: pare che per questo d’Annunzio, già infastidito da certe punzecchiature, finì per sfidarlo a duello – ma Pitigrilli non raccolse). E dire che, di d’Annunzio, avrebbe la fluida, spregiudicata capacità di “marpione” dell’immaginario e, dunque, di operatore dell’industria culturale, di rabdomante dei gusti del pubblico, di infallibile interprete e creatore di miti e sogni! Ma non riesce a prendersi sul serio come il Vate: dubita delle possibilità di riscatto dell’uomo e rifiuta un’idea seriosa, sacerdotale, catartica della letteratura. Scrive nell’editoriale del fortunatissimo periodico “Le Grandi Firme” (da lui fondato nel luglio 1924): «La letteratura non ha funzione depuratrice, e noi non siamo missionari chiamati a convertire il traviato lettore, né trappisti che ogni quarto d’ora lo riconducano a meditare sulla morte inevitabile. Escluderemo tutto ciò che può avere anche un vago sapore politico. I letterati che fanno della politica sono uggiosi e incompetenti come i politici che fanno della letteratura».

 pitigrilli 1 Il fatto è che, come d’Annunzio – sebbene non ai suoi livelli di spettacolarità –, Pitigrilli conduce una vita brillante, salottiera, dispendiosa; è dunque molto interessato al successo, cioè alle potenzialità di rendita economica della sua attività di scrittore e pubblicista. Per conquistare i favori del grande pubblico occorre essere fatui, leggeri, divertenti: cercare le vie del disimpegno. La gente vuole sognare ad occhi aperti sulle storie piccanti, vuole cioè che lo scrittore sappia soddisfare, osando a nome di tutti, il comune desiderio del proibito? Ecco i romanzi “scandalosi” (come La cintura di castità, Cocaina, Oltraggio al pudore, La vergine a 18 carati, Le amanti) grazie a cui, vendendo caterve di copie, Pitigrilli assurge a mito per i borghesi degli anni Venti e Trenta. E la fama acquisita di “pornografo” non fa che contribuire al successo dei suoi libri. Pitigrilli viene preso di mira da una magistratura benpensante come il Paese che rappresenta (lui si difende così: «Non sono un disgregatore della morale. Sono il fotografo della morale disgregata»): giornali autorevoli come “Il Popolo d’Italia” e “Il Regime Fascista” avviano contro Pitigrilli una campagna denigratoria, accusandolo di essere un sovversivo, uno “sporcaccione”, un “pozzo nero”, un maniaco sessuale, un cocainomane. Il pubblico reagisce con interesse viepiù morboso, e Pitigrilli diventa lo scrittore più letto d’Italia. Nel 1926, peraltro, viene assolto dall’accusa di oltraggio al pudore.

 pitigrilli Benito_MussoliniMa il successo dipende anche dalla estrema leggibilità dei suoi libri, vale a dire: storie avvincenti, scritte con stile gradevole. Pitigrilli sa come arrivare al cuore del lettore, come colpirlo, come avvincerlo. Boutades, eleganti giochi di parole, aforismi arguti e dissacranti, umorismo surreale, e un vero e proprio “culto” del paradosso. È uno scrittore agile e versatile, che sa dare il meglio sia con la misura fulminante dell’elzeviro sia con quella più distesa del romanzo. La sua pagina fluisce leggera e veloce, ma questa capacità di offrirsi al consumo non le impedisce di “suonare” con intelligenza, sempre interessante e a suo modo profonda. Per avere uno specimen del suo stile (ma anche dell’immagine che tiene a dare di sé, e – ritenendolo fededegno – del modo disinvolto, libero e fatuo che aveva di comportarsi nella vita), si legga, tratto dalla bellissima autobiografia Pitigrilli parla di Pitigrilli, questo passo gustoso, legato agli anni romani delle sue cronache: «Fra un viaggio e l’altro rimanevo a Roma: i lauri del Palatino, i riflessi dorati dei palazzi di travertino, il “dolce far niente” – come dicono i romanzieri francesi – per via Veneto, le lunghe serate nei caffè. Il caffè-bevanda non è un veleno. Sono un veleno i tavolini dei caffè. Qualcuno ha scritto che il caffè è quel locale dove si va tutte le sere, giurando che quella sarà l’ultima. Un giorno il direttore dell’“Epoca” mi disse: “Vada al Lyceum femminile. Il senatore Morello tiene una conferenza sulle bellezze di Roma”. Mancavano cinque minuti alle cinque. “Prenda una carrozzella” – aggiunse. Io presi la carrozzella e, invece di farmi portare al Lyceum femminile, feci una passeggiata di un’ora al Foro, al Gianicolo, al Pincio. Rientrato in redazione feci il racconto della conferenza, passando in rivista tutte le bellezze di Roma che avevo viste e di cui probabilmente quel signore doveva aver fatto l’elenco. Ci vuole una bella impudenza, io pensavo, per parlare, a Roma, delle bellezze di Roma. Però non lo scrissi. Scrissi invece una pagina di elogi al fine conferenziere, e diedi il nome delle signore intellettuali che erano fra il pubblico. La cosa non mi fu difficile, perché erano sempre le stesse. L’articolo ebbe un successo sbalorditivo, perché all’ultimo momento il conferenziere si era sentito male e la conferenza era stata rinviata di un mese».

  Uno scrittore italiano del Novecento al quale Pitigrilli potrebbe essere utilmente accostato – sia pure a diverse spanne di distanza per qualità di opere e peso intellettuale – è Curzio Malaparte. Si pensi all’atteggiamento camaleontico e opportunistico di entrambi verso la politica. Un capitolo a parte va riservato al rapporto di Pitigrilli con il Fascismo. A un iniziale dissenso, condito di oltraggi e contumelie (fra l’altro, definisce la camicia nera un abito “da sicario” e si augura che una “pallottola benefica” tolga di mezzo Mussolini), subentra una progressiva infatuazione proprio per il Duce, che nel ’24 lo ha conquistato definendolo “scrittore europeo”: Pitigrilli affronta il processo per oltraggio al pudore invocandolo quale “vendicatore della giustizia e della verità”. Poi, nel ’38, gli chiede con “devota gratitudine” di essere preservato dalle leggi razziali. Sono anni feroci, durante i quali Pitigrilli si è cucito addosso l’infamia del delatore per conto dell’Ovra: è per mezzo delle sue “soffiate”, avendo egli frequentato da doppiogiochista gli ambienti della sinistra torinese, che vengono arrestati, fra gli altri, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Carlo Levi, Massimo Mila, Vittorio Foa. Nel settembre 1939 viene scaricato anche dall’Ovra, successivamente arrestato e inviato al confino, ad Uscio, in Liguria. Ma ancora, nel ’43, si rivolge al Duce con deferenza e toni encomiastici, appellandosi al suo genio che “avvolge l’universo”:

Roma, 18 marzo XXI

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

  Duce,

questa fu la mia casa.

Ho perso tutto. I mobili, oggetti d’arte, libri, lettere, appunti. Non ho più una fotografia di mio padre, del mio cane, delle donne che mi hanno amareggiato la vita per dieci anni o me l’hanno profumata per un’ora.

Voi sapete che non sono uno scrittore immorale. Il mio ‘Esperimento di Pott’ Vi è piaciuto.

Voi sapete che non sono ebreo, sebbene una pratica congelata negli archivi affermi questa infondata inesattezza.

Non posso lavorare né in cinematografia né nel giornalismo. Il ministero della Cultura Popolare mi vieta, con una sorveglianza feroce, di vendere cinque lire di fosforo.

L’Eccellenza vostra è inflessibile nel punire i colpevoli, ma è altrettanto rigida nel ristabilire la giustizia. Il vostro genio avvolge l’universo, ma il vostro cuore si curva sulle piccole miserie. Per questo Vi si esalta e Vi si ama.

Concedetemi, Duce, un colloquio di qualche minuto, mi guarderete negli occhi e vedrete che non sono indegno del vostro sguardo.

Vi ringrazio della Vostra benevolenza.

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INTERVISTA CONVERSAZIONE CON GEZIM HAJDARI a cura di Anita Pinzi Un’ode all’esilio  www.Warscapes.com

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Gezim Hajdari, Foto di Piero Pomponi

dalla intervista a  Gëzim Hajdari di Anita Pinzi apparsa nel 2013 in http://www.warscapes.com/conversation/ode-exile

I met Gëzim Hajdari on a cold day in January 2013, in Frosinone, a medium-sized province in Ciociaria about eighty kilometers south of Rome. He waited for me at the gate of his building and walked me up to his home, a few ample and bright rooms full of books, pictures, images and objects mapping the multicultural trajectory of the poet’s life and work. It was lunchtime and he welcomed me with pasta and a local recipe for tomato sauce (one which adds onion to the tomato, he pointed out), together with salad, cheese, red wine, and fruit – a monastic lunch as he would describe it. We then moved to his studio which overlooks a green, sun-splashed panorama of layered hills, vineyards and fig trees; good reasons to stay, and good ground on which to host, if not to replant, his uprooted poetry.

Gëzim Hajdari is acknowledged and prized as the major poet in the multi-voiced panorama of Italian literature of migration. Born in 1957 in the central Albanian city of Lushnjë, Hajdari left the country in 1992 for Italy, where he still lives today as a self-exile. His numerous poetry collections are published in bilingual editions. They are the products of his particular bilingual creative process, which consists of a parallel writing in both Italian and Albanian, in a constant linguistic migration between them, a simultaneous translation and recreation of one language into the other. Ombra di Cane (Dog Shadow, 1993), Antologia della pioggia (Anthology of Rain, 2000), Stigmate (Stigmata, 2002), Spine nere (Black Thorns, 2004), Poema dell’esilio (Poem of the Exile, 2007), Corpo Presente (Present Body, 2011) and his latest work Nûr: Eresia e Besa (Nûr: Heresy and Besa, 2012) can be counted among his major works. His works have received praise from noted Italian literary critics and numerous literary prizes, among them the Montale prize for Italian poetry (1997), one of the country’s most prestigious accolades.

Hajdari’s poetry is mostly autobiographical. On one hand it is strongly linked to the oral lyrical Albanian tradition and its mythical conventions and figures, such as the Kanûn honor code and its Besa oath, the predatory spirits known as Xhin and the demi-goddesses known as Zàna. At the same time, though, it is also a historical poetry, delving as it does into the tragedies of past Albanian events in a constant search for a lost human and intellectual ethics.

Exile is the major cipher of Hajdari’s poetry, an exile which stems from his opposition to the Albanian political and cultural status quo both before and since the fall of Enver Hoxha’s communist regime, and which has evolved into an existential feeling of isolation and displacement. Poema dell’esilio, published in 2005 and again in 2007 in an extended version, is the work that most thoroughly unfolds the multilayered meaning of the poet’s exile. This ongoing pamphlet of 325 five-line stanzas sheds light on social, cultural, ethical and political aspects of Albanian society, and on its historical tragedies and political crimes. A selection of stanzas is translated into English at the end of this conversation.

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

Anita Pinzi: I wanted to discuss your exile in its multiple forms: as a political consequence, as an existential mark, and as a literary theme characterizing all your literature, in particular your work Poema dell’esilio (Poem of Exile). As you remark in many of the verses of that work, in Albania, your native land, you have been threatened with death, attacked and – once in Italy – accused by your fellow Albanian citizens of interpreting the role of the exile in order to catch the attention of the West. At the same time, literary critics on your work – mostly Italians – tend to read your exile as an existential and intellectual condition, which would make of you an exiled even before your migration to Italy. How do you define your exile?

Gëzim Hajdari: Thank you for your interest in my work. My exile was born from a historical and political condition and originated in Albania. I was among the founders of the democratic and republican parties – opposition parties – of my city, Lushnje. I was elected General Secretary to the province by the republicans of my city, therefore I participated in the political elections in 1992 as a candidate to the parliament. In that occasion I was defeated by the political and cultural mafia of the former Stalinist regime of Enver Hoxha. For that and for denouncing openly – by giving first and last names – both Hoxha’s crimes and the intersections between mafia and politics of post-communism after the fall of the regime in ’91, I have been attacked and threatened with death. Because I didn’t accept political and cultural compromises, I had to leave my Albania and flee to the West.

Since then, this exile has not stopped, it’s made of many exiles, and it has many shades. Whether yesterday I denounced the injustice and the tragedy of my people during Hoxha’s Stalinist dictatorship, now I denounce the political corruption, along with the cultural and editorial politics both in Albania and Italy. I despise the publishing industry that publishes books like shoes, that constructs books in the editing rooms. I fight for a true, honest and ethical literature, one that recovers the musical, epical and civil sense of the word. This is just an example to show how my exile has thousands of forms, thousands of mouths and eyes, how it is made of many exiles. As I write in my poems, I’m exiled into the exile, and always will be. It’s a personal rebellion, a symbolic and very significant one.

AP: Poema dell’esilio is the privileged ground where your denunciations find articulation. It is a complex text, one which makes the autobiographical account its pivotal element to investigate the political, cultural and social history of Albania since the ‘40s to the present day. One of the epigraphs to the text is taken from Yiannis Ritsos, Greek poet, leftist activist and great figure of the Greek resistance during World War II. “Yet – who knows – there, where somebody resists, hopeless / it’s maybe there, that human history begins, as we call it, / and the beauty of humanity!” (Poema 9) Is your Poema a text that combines the evident accusation with a less open vein of resistance? What is its value and intention?

faslli_gezim hajdariGH: Sure, my Poema dell’esilio is a text of denunciation, of accusation and resistance. Besides that work, soon in Italy the volume Il “genocidio”della poesia albanese” (The Genocide of Albanian Poetry) will be published. It is a choral story denouncing the massacre of poets from 1920 to 1989, in Albania, but also in the Soviet Union, China, Poland, Romania, Kosovo and Serbia. These are two works traversing Albanian history and mirroring the past and present of the country. They tell the hidden reality of the country, what has happened during the Stalinist regime and during the post-communist governments of Fatos Nano and Sali Berisha. They tell the Albanian tragedy, of the tortures, and of the prisons. They give the names of those who condemned, convicted and shot my colleagues along with a large part of the Albanian population. Enver Hoxha’s regime ruled from 1944 to 1990. During that period 40,000 people were condemned, 10,000 were shot. Two hundred intellectuals, among them poets, writers, filmmakers and musicians, have been convicted, shot or hanged. 10,000 children were sent to jail, as were almost 6,000 women, including those coming from other countries and who, during the ‘60s, had married Albanian men abroad during studies or travels. Both Poema and Il “genocidio” denounce this reality, one that has remained hidden. Poema in particular is an open work, published twice already. I’m now working on the extended third version of it. It’s a very significant form of personal resistance to the Albanian political and cultural status quo; this is because, as a poet, I have a great responsibility towards readers and future generations. There are no leftist or rightist poets; there are only good or bad poets. A true poet lives outside of any hierarchy, doesn’t accept compromises and exchange of favors, he always tells the truth and he is always intellectually honest in front of the blank page. A poet writes for those who will come, as the ancients wrote for us. A good poet must become the spokesperson of their people, and must choose the people as their own interlocutor, in order to contribute to the historical and civil life. True art is always a counter-power, a form of resistance, because it’s responsible in front of history and the world(s).

AP: The accusations in Poema raise national political, cultural, social and humanitarian questions, while depicting Albania in its relations with the world. A sharp feeling of belonging to the European culture emerges from your poetry, as well as the need to make Albania visible to the political and cultural world after the long isolation of the nation during the communist regime. The need for a dialogue with Europe, so often called for, seems to constitute a political, social and cultural hope for the country. The Stabilization and Association Agreement with the European Union was signed in 2006, entered into force in 2009, and the process of integration is moving forward. Do you see Europe as the hope for a change in Albania?

GH: I don’t deny hope; somebody who critiques and denounces is somebody who loves. My relationship with my motherland is made of hate and love, which is an articulation of opposites characterizing much of the world literature. We don’t have to lose our hope. I myself don’t lose it; quite the opposite, I have plenty. Whoever critiques a country also loves it, and a country that accepts critiques shows its democracy. From this point of view the political, social, cultural and spiritual reality of the country leaves much to be desired. Why? Because twenty years have passed since the fall of the regime and the Albanian parliament has never recognized the terror of Hoxha’s dictatorship as a crime against humanity. Post-communist Albania continues to hide the dossiers. Ten thousand people were shot during the communist terror and it’s not known where their remains are. We don’t know why they were condemned – there were no trials – and who gave the orders. The public administration, the political parties and the entire political, economic, social and cultural life of the country is still in the hands of the functionaries of the old regime. Material goods have not been returned to the former owners, and there is not even a law to compensate people dispossessed of their properties, while a state of right is based on private property. There is no healing in Albania; wounds are still open.

My strong position and my love-hate for Albania were born from all that. We must address those issues if we want to talk about hope. We have to reaffirm justice, otherwise no new democratic and pluralist path can be forged. We cannot create a better future and we cannot educate future generations if we don’t face the historical truth of the country. Albania must come to terms with its past through a profound and serious self-criticism, as Germany – a civil country – has done. The process of integration in Europe can help with that; it can lead the country to face its crimes. So far, however, we don’t see results.

AP: Your exile, due to your firm position against this historical-political situation in Albania, is nevertheless a cipher that detaches your writing from the national particularities and puts it in communication with the international literature of other exiles. Among your books I see Dante, Salman Rushdie, Nazim Hikmet. Do you identify with a tradition of exiled writers who inspire you, to whom you feel close in terms of style, experience, sorrow, and denunciation? Or do you rather, as you provocatively write in one of your verses, “hate the race of exiled poets”? (Poema 51)

GH: Certainly the exilic literary tradition is a great one. T.S. Eliot would say that we all are exiles because all of us, for different reasons, have been banished from a land, from a language, from a culture, from our borders. It’s a perennial existential condition, characterizing humanity since forever. A poet like me belongs to the exilic literary tradition. Exiles live inside the human sorrow. This is also the tradition of the Western culture. A poet writes for future generations, for eternity and for humankind. Why does a poet feel always an exile? Because he dreams of a better society, a more human one, based on social justice, on fraternity between peoples and cultures. Good poets always make themselves the intermediaries between cultures. That’s why my work is a continuation of others’ works; it begins where my predecessors left off. I harbor immense esteem for exilic poets, who are symbols of the cultures of the worlds, who inspired and continue to inspire entire generations to a better life – a more pacific, human and tolerant one. They teach everybody how to be exiles and migrants, in order to share future and destiny.

AP: In Poema dell’esilo the Albanian Fan Noli is the exile who makes Albania participate in the international literature of exile. Expatriate to the United States, Noli is a culturally and politically central figure to the construction of Albanian national identity and of the nation itself, becoming prime minister in 1924. Writer, politician, historian, founder of the Albanian Orthodox Church, just to mention a few of the fields where he left a mark, Noli emerges from your pages as a direct predecessor to your intellectual and political engagement.

gezim hajdari

gezim hajdari

GH: Fan Noli is the first president of the democratic Albania, he is a great man of culture and politics, a great visionary and a great modern figure, a brilliant linguist and reader. Student at Harvard, translator of the great European classics such as Baudelaire, Cervantes and Shakespeare, he is one of the most brilliant minds of 20th Century Europe. He was a politician, historian, linguist, translator, critic, and musicologist. He is one of the founding fathers of modern Albania. He becomes a priest in order to serve the cause of the nation when Albania finds itself in the obscurantism of the puppet king Zog. Exiled in the United States, he becomes the organizer of the Albanian diaspora in New York City and Boston, and that diaspora preserves the Albanian memory while shaping the national culture. Those men would represent Albania in Europe, men full of ideals and desire for a free, modern, and civil Albania. They certainly are exemplary figures to me. The history of Albanian poetry and literature has always been done by exiles, dissidents and migrants, by the so-called enemies of the nation, and by traitors that Albanian has always devoured as Medea did in ancient Greece. Albania is a stepmother to its intellectuals, who are banished and forced to live outside the borders of their language.

AP: The Albanian diaspora of the 1930s, to which Noli belongs, was followed by another diaspora, during the 1990s, as a consequence of the fall of the Communist regime. Many Albanian writers emigrated in the last twenty years, moving to Italy, Europe and the US. What is your real and affective relationship to the community of Albanian writers in the world? Do you feel alone in your denunciation of national crimes?

GH: Obviously after the fall of the regime my fellow citizens had the opportunity to migrate, to travel, to cross different worlds, to live other realities. And this is certainly a continuation of the diasporic Albanian literature. There are young writers who have written novels and collections, and so much the better: they are important voices, they are needed. I don’t feel I have much to share with many of them, either in terms of style or politics. Nonetheless, each of us brings his own imprint and leaves his own mark on contemporary literature. Then time will select, promote and historicize.

AP: I would like to move the attention from the Albanian diaspora to those intellectuals who did not leave Albania. This is because a large part of the invective in your Poema dell’esilio addresses them, many of whom wrote first in support of the dictatorship and then became supporters of the new system. What is the intellectuals’ role vis-à-vis the Albanian national culture?

GH: The intellectual who criticizes, who denounces and refuses to undergo compromises, who doesn’t belong to the court, is still considered a traitor, an enemy of Albania. This kind of intellectual is obscured, cynically ignored, and condemned to silence. Where in the past independent intellectuals were condemned and sent to prison, today another form of condemnation is in place: the moral one, the silent one. And therefore we leave, and it’s better that way; in the end, if the world advanced it is because people – intellectuals and citizens – fought in the name of a greater ethics. We should all be in exile. This is the right historical and political moment to go into exile – not just in Albania, but in many parts of the world. It’s a good historical moment to choose to protest, to oppose the many inhuman social systems, and to live in a state of intellectual ethics. When the latter is lacking, the way is paved for corruption and malpractice. In Albania, many men of culture became slaves to the court of power. Of course, there are critical voices there too, but they have their hands tied because all the newspapers and means of information are linked to the political clans.

AP: Did they agree to a compromise?

GH: Yes, because taking a position as I did has a great cost. No one can be that degree of rebel and work for the government’s newspapers and means of communication. I don’t know any other Albanian colleague of mine who paid as I paid for having said the truth as I said it. My position is not heroism, but as I already said, it is for a sense of responsibility towards the future, otherwise it would not make sense.

AP: When you talk about intellectuals, you mean academic researchers too, is that right? What is the role of universities in the investigation of historical and political responsibilities?

gezim hajdari

gezim hajdari

GH: Well, it will take at least thirty years! Deans and professors in Albanian universities are all connected to political parties, either as militants, or as friends or partners of politicians and their mafia connections! It’s useless to deny that, we have to say things as they are! Albanian universities are the most corrupted in the world; degrees are sold and bought like potatoes! This has been the case for Renzo Bossi, son of Umberto Bossi (former-president of the Italian political party Lega Nord), who last year bought his degree in Tirana, from the Kristal University! In Albania, corruption reigns. Everything has to be redone from scratch. A lack of global perspective, a lack of knowledge of European traditions, a lack of ethics and intellectual honesty are the root cause of the Albanian chaos and confusion.

AP: Your critique doesn’t spare the Albanian people, who don’t seem to be critical of the political situation, but rather appear dazzled by new consumerism and new forms of moneymaking. At the same time, many passages of your poetry prove to be very empathic with the humiliated, the offended, and the migrant people. What is your relationship to the Albanian people?

GH: I write for the people! Not for the readers, but for the people. I write not to be believed, but to talk to the future generations. I’m the last heir of a descent of rhapsodies from the North of Albanian and their epic tradition. The people conserved the Albanian spirit. And my Albania is neither the present one, nor Enver Hoxha’s communist one; it is rather the ancient Arbëria. I sing of a mythical Albania, the one of the great fathers of the Albanian rebirth, the great poets and mystical figures, the besa and legends, the great oral lyric tradition. This is the Albania that lives in me, which I constructed in me and in my work. I gave it a shape, a soul, a face, and a spirit. The people is all of those things.

AP: The mythical reconstruction becomes increasingly evident, and reaches its peak in your last work Nûr; Eresia e Besa. It must be clarified though that your return to the mythical Albania is not a distance from the historical reality; it is rather an epic traversing of the nation’s political and social history.

Gezim Haidari

Gezim Haidari

GH: Absolutely! All my experience is a clear example of that. My life is an intense social, political, and intellectual crossing. I graduated first in Albanian language and literature, then in modern literature from the university La Sapienza of Rome, and I never received a scholarship. I worked as a laborer for twelve years both in Albania and Italy. I have done all kind of jobs. I chose political engagement as one of the founders of the democratic and republican parties in Albania. I was the general secretary of the party, and candidate to the parliament in the political elections in ‘92. I was a journalist. I’m a translator of the oral Albanian tradition into Italian, as well as the poetic Italian tradition into Albanian. I reconstruct the Albanian historical and cultural memory through Poema dell’esilio, and Il “genocidio”della poesia Albanese, along with a forthcoming volume collecting 1,300 slogans used by the communist party to articulate its propaganda and its terror. Soon I will publish a collection of poems of the kurbèti.(i) My life and my work cross all these dimensions and the reconstruction of the mythical Albania has its origin in this multi-part ground. My work is a human encyclopedia, where any reader in the world can find himself. My work is a surgery of the Albanian society, and my Albania symbolizes the many ‘Albanias’ in the world. I speak to the West as a man from the Balkans, while the majority of my colleagues fall into the trap of writing in the style of the host country. I try instead to blend the great tradition of the Balkans with the traditions of 20th Century Europe. My work wants to traverse many worlds, to speak with them, and to teach everybody how to be errant and migrant in order to share a future and a destiny.

AP: Going into the structure of Poema dell’esilio, the narration proceeds in free verses while the construction of the five-line stanzas is strict. All stanzas close with a verse that I would name the “anaphor of the exile.” This last verse gives a reason for your exile and always addresses a plural audience; those whom you call “my friends.” Who are they? And how do they interact with the text?

GH: “My friends” are those who share the mission contained in the poem; those who follow and support me; those who listen to my voice and share my rage, my preoccupation and my exile. They are those who fight with me because they are guided by the same ideals. And they also are those who will come, the future generations. “My friends” interact with the poet’s narrating voice, thanks to some single verse interposed between the five-verse stanzas. This is the chorus, like in ancient Greece, it is a collective voice, the people speaking. Few poets write epic poems because it’s a difficult genre, which requires deep ethics and universal values, great inner human resources. Moreover, it’s difficult to keep the readers’ attention for its entire length. A great commitment is required to write epic poems, and it becomes almost a life.

AP: In Poema you make a sad and painful prediction: when Albania will read this book, “beasts” will tear you to pieces. How was this work in particular, and your poetry in general, received by the Albanian intellectual and political world?

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

Faslli Haliti con Gezim Hajdari e Jozef Radi

GH: My works have been ignored in Albania, they have never been presented, even though I am the major Albanian poet alive and among the most important contemporary poets. In a time span of almost fifty years I was never invited to present my work, to promote it, and not even for a simple reading of it. That happened because I didn’t accept compromises, and I denounced the widespread corruption in the country. The political and cultural mafia of Tirana cynically ignored me. I don’t have interlocutors in Albania. My interlocutors will be the migrants and other Albanians to come, because in Albania even the readers are indoctrinated, educated according to the models of the realist socialism. Moreover, they are taken by the fever of accumulation of wealth. They are readers without readings, without cultural crossings, to whom my work remains incomprehensible.

AP: What is the duty of poetry?

GH: My poetry wants to be bursting, an epic, tragic, and dramatic poetry. Words must use all their power. I come from a long epic tradition in the North of Albania. My ancestors were singers of rhapsody and produced a vast cultural patrimony. One of the missions or battles is to give back life to the words, recovering the epic and the music that modern poetry has lost in as it has become so minimalist. Modern poetry sings of small phobias, of little angels, the moon making-up, the garden fence, the door phone. It’s a sterile, stuttering, academic poetry, which says nothing. They are not poets, but writers of poems. On this matter our paths separate. I call them eunuchs, castrates, poets closed off in their small studios, who look at the world through their glasses, who don’t have anything to say, sedentary poets, employees passing themselves off as poets, exchanging favors and literary prizes. In the past writers like Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni, and Cesare Pavese were the editors of the big publishing houses. Now we have these little employees, who condition the literary life, the literary prizes. They damage the Italian cultural life, creating confusion, denigrating true literary values, and isolating the official Italian literature from new voices. A poet must make of his own poetry a human encyclopedia, he must encounter new readers across the world, and sing of each vibration of the self. As Horace would say, a poet who doesn’t drink wine cannot write beautiful poems. I drink the wine of life.

AP: Poema dell’esilio often uses images of outraged corporality: the mutilated bodies of the regime opponents, the gaunt suffering body of the poet, the dead bodies of the migrants crossing the marine borders, the body of the nation raped by the savage construction industry. The body is an overarching theme to all your poetry. In your collection Corpo presente (Present Body), the body appears like the only place of identity. What does the body become in a condition of exile, of your exile?

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

GH: My body is a collective body, a people-body, an exiled and wandering body. My body has a thousand forms, a thousand eyes, a thousand mouths. It sings and vibrates, it dies in order to be born again in many other lives. It’s a body that becomes lute and word. It becomes a mystery. In this exile my body is my country and my identity, my motherland, my Albania. I am Albania and I am the world because everything lives in me. As I say in my poetry, every day I build a new homeland in which I die and come back to life. And even language becomes a homeland, a double language in my case. My poetry inhabits the space of a constant linguistic migration between Italian and Albanian. This is the only way to defeat the rhetoric of a chauvinist nationalism. When we violently underline our roots we end up putting ourselves against the others. This doesn’t mean that I deny the value of belonging! I am Albanian. However these are boundaries that exist in order to be overstepped the very moment we put them in place. We must be always guests, travelers in the footsteps of Abraham more than Ulysses. We must be Gilgamesh, who more than 2,900 years ago, obsessed with the meaning of existence and of life and death, set off and traveled the world.

AP: You just mentioned the value of language as a homeland, and this ties in to your particular bilingualism that you discussed on other occasions. The essay collection Poesia dell’esilio: saggi su Gëzim Hajdari edited by Andrea Gazzoni extensively analyses your double writing in Italian and Albanian. What you have never discussed is the value of translation in your experience of exiled intellectual. Translation is progressively having more space in your production.

GH: We fall in love with languages like we do with people. I’m a polygamous poet. I’m in love with two languages, Albanian and Italian, and I contemporaneously write in both on them. Italian is a great language, which I adore because it gave me its musicality. Albanian is a sour language, made of tragic and dramatic sounds. It is majestic and rocky, extremely beautiful, full of sounds, which make the learning of other languages very easy. The destiny and fatality of the Albanian tradition – a country constantly at war – are transported into the Italian language, which nourishes my poetry with its musicality, and softens the verses to create a harmonious whole. Then translation: translation is part of my multiform intellectual mission, namely my poetry, my books of travels to the Asian South-East and conflict-torn Africa, my lessons in universities across the world, my essays, my interviews, my correspondence of 20,000 letters with intellectuals, and my contribution to the construction of a small school in the South of Uganda. I translate Italian literature into Albanian and Albanian literature into Italian, as I’m doing with the poems of kurbèt and as I did with the poems of the nizàmii.(ii) Besides that, I deal with the poetic Philippine tradition, translating Gémino Abad’s works from English into Italian. With the help of an Arabic translator, I worked on the work of Abu al-Qassim al-Shabbi, the major Tunisian poet. Translation means to share something with others, and means participating in the building of a more just, more humane and more tolerant society. Through translation, cultures and peoples engage in a dialogue; the center moves towards the periphery and vice versa. Translation breaks free from Western domination, and its desire for intellectual leadership. Moreover, in this century, which is the century of the exile, civil death reigns everywhere. Safety comes from men and women who don’t accept compromises, and who choose to denounce crimes. The West is made of flat and painless countries, where nothing more is there to be said. Their mission is expired. Safety and renovation, both in poetry and human existence, come from abroad, from those worlds that preserve oral traditions. Africa, South America, and the Balkans are the worlds, which will bring some freshness to the Western societies and their literatures.

AP: Your experience in Italy has not been an easy one. You encountered housing and job-related difficulties, and time was needed to be recognized as an intellectual. What is your Italian story, which is now turning twenty?

Gezim Hajdari_1GH: Italy is a great civilization in a small nation, Dostoevsky would say. It’s a civilization which was the midpoint of the world, but which is not making history anymore. Italy is a country that feeds itself with its own past, its own history, a country imprisoned in its own body. Other European countries make relevant positions available to people of different nationalities, something that in Italy is not happening yet. That means missing the vision of the future. Italy is a difficult place for intellectuals, too, because there are no economic benefits or scholarships to study abroad for them. My colleagues in Germany, England, and Canada have many more possibilities. Despite that, all my investment is in Italy. I write in Italian, my editors and the scholars studying my work are Italian, even when I am working or researching abroad. Italy was a chance for me, but not by chance. Now I consider migrating again, to France this time, to Paris. France is the country where my work is studied the most, after Italy, and where I give lessons and attend conferences.

AP: A verse in Poema dell’esilio renders the image of you getting old in exile. Is a return to Albania possible? Under what conditions?

GH: It’s Albania that has to come back to me. I’m already in Albania. I am Albania and its poet. My true homeland is my language and my body. A poet lives the dimension of death every day. Poets were born to die abroad. There is no going back, only a departure. Ulysses goes back, I don’t. To return is to die. We must be perennial travelers. Condemnation and exile is what creates the word. To return means death, provincialism, and myopia. We only leave, there is no return.

An extract from Poema dell’esilio/Poema e mërgimit. 
Translation by Valbona Ajdari and Anita Pinzi

I have contributed to the fall of the Albanian dictatorship
and to the democratic reconstruction of the homeland
in aspiration to freedom and its beauty, but the victor was yesterday’s nomenklatura, which is smeared with blood and state crimes.
This is why I am in exile, my friends.
After the tragic fall of Democracy,
I was obliged to abandon my homeland on a rainy night
without a proper handshake or a goodbye,
so with a lurking shadow of death, I fled.
This is why I am lost in exile, my friends.
“Alas, djemtë e shqipes,(1) thousands are fleeing!  We are in woe of your fate! Woe for you!”
My only fault has been to not compromise,
because I denounce criminal abuses of the old regime,
as well as those of the new regime of B.(2),
in the local and national press.
This is why I am happy in exile, my friends.
B. sold the wealth of the nation, or better yet, the people’s wealth, to traffickers and the mafia in exchange for little money
and the ordering of a disposal of any record of these
shameful acts, openly legalizing theft and dismemberment of the homeland.
This is why I adore exile, my friends.
Former President Alia,(3) in 1991, approved the law of 7501 which distributes the land to Albanian farmers, according to the number of family members per household.
B. revived this controversial law under Alia, dispersing land and property rights to random villagers, while former landowners were left with nothing.
This is why I survive in exile, my friends.
N.’s(4) and B.’s governments allowed secret foreign prisons on Albanian territory, where foreign agents tortured foreign citizens, violating human rights.
Similar prisons were later found in Kosovo. In Albania lie the most gruesome secrets of modern day Europe. Tirana’s political criminals are not to be trusted!
This is why I cannot exile from exile, my friends.
Ultimately, it was America and England that fostered the birth of Hoxha’s dictatorship in my homeland, as archival documents prove.
These so-called allies, attached at the hips, also helped divide Albanian territory into zones of influence, for Albanians easily bend over when they are told.
This is why I correspond with exile, my friends.
Albania sent her troops to Iraq, only to lose them in a dirty war.
It is those who create the “Saddams” of the world, who also arm them and trade with them, but then turn around and claim to the rest of us that they are awful dictators! To justify these claims, they create conflicts amongst their people and cry “democracy” for the world!
This is why I feel the bell rings in exile, my friends.
Only F. Lubonja(5) has publicly criticized the dirty war in Iraq and B. Mustafaj(6) has expressed concern over the parliament’s refinancing connection to the mission of the Albanian troops in Baghdad. But no one has listened to either. Their voices fell on deaf ears. What can we expect from a people that for sixteen years has had no running water, no bread, no electricity, and remains fearful to protest?
This is why I reflect in exile, my friends.
Many speak about opening the dossiers of Tirana’s politicians.
But who will open them? The very ones who created them?
Democrats and socialists have opened and closed these dossiers to their liking, leaving a few of them as bait for blackmail.
This is why I reprove in exile, my friends.
What is to be said about the Washington based radio station “Voice Of America” interviewing only devout followers and infantry members of Enver’s dictatorship, but never the likes of Kasëm Trebeshina(7)? Unbelievable! This is another piece of the Albanian mystery. The executioners under Hoxha’s dictatorship later became the victims of execution.
This is why I doubt in exile, my friends.
The past does not interest anyone; neither justice, nor the government. My fellow citizens, it’s as though the past horror of Spaç and Burrel(8) have never happened. Nothing is honored.
Our youth must know about these crimes committed against humanity, and how they can contribute to the formation of a democratic state with civil rights intact.
This is why I never forget in exile, my friends.

It is not his [Hoxha’s] work that made him a pseudo-sanctuary, but rather, the lure of a tyrant. Albanians, after a dictator’s death, cannot live without tyrants. L. Myftiu, F. Lubonja, K. Miftari, E. Tase, P. Kolevica, A. Klosi, I. Jubica, R. Elsie, A. Dule, S. Fetiu, H. Ibrahimi are all aware of a sickening love for Enverian tyranny. Albanian people will give their lives to tyranny!

This is why I am alarmed in exile, my friends.
Not to mention Musine Kokalari who spent twenty years in prison and twenty more in a concentration camp.
Miss Kokalari left Rome in the 1930’s, where she graduated from “La Sapienza,” to help her country. She was a writer and founder of the Socio-Democratic Party.
This prominent woman of Albania was captured and jailed by the claws of tyranny.
This is why I see beyond in exile, my friends.
Kokalari died alone in a concentration camp. Ill, she was denied admission to the hospital, and labeled an “enemy of the state!” The law prohibited anyone to help Musine.
They buried her with a blood-stained fertilizer cart. When her relatives exhumed her, they found her hands and feet tied with barbed wire. Musine Kokalari committed no crime, only the crime of love for culture.
This is why I decided to trade my homeland for exile, my friends.
I recall something in 1997: some criminals from Lushnje entered the cafes of the city holding the head of a young man in their hands. Kicking it back and forth, they would open the mouth and pour grappa in it, laughing!
I shall never forget the face of that severed head, as I imagined it my own, where to this day my skin crawls at the thought.
This is why I migrate from exile to exile, my friends.
“Who will execute our sons përmatanë?(9) Who shall wash their bodies for the last time?”
In Albania, 120 public factories, from the 1970’s to the present, use radioactive material that endangers the lives of its citizens. Imported food and beverages are never inspected.
My fellow citizens still living in Albania are swollen;
their ill-health is due to harmful hormonally induced food.
This is why I dig trenches in exile, my friends.

Alas, my Albania! A harsh fate awaits you. Horrific scenes take place, using your martyred body as its stage.

My country engaged in a civil war with a division between the north and the south. Only a government of national unity could save it! The only future for you is this:
A great family member of the European Union.
This is why I correspond from exile, my friends.
Tragedy has plagued my people, Jeremiah!
I never would have imagined that one day, I too, would experience the tragedy of your fate!
How ironic is my fate, having to spend my days in exile,
locked up in an empty room.
This is why I count the raindrops in exile, my friends.
Prepare the pillory of shame, raise the gallows, burn the stakes, stone me to death. I am ready for lynching. I am in your hands.
Laws exist because of you. Jailers, open my door cell!
Oppressors, punish me!
This is why exile does not forgive me, my friends!
Endnotes:

(i) Kurbèt are Albanian migrants. The Kurbèt poetic tradition includes the lyrics of the arbërèshë (Ethnic Albanians in Italy, who emigrated to the south of the country during the 16th Century). The recurrent themes are the forced separation from the land of their ancestors, the journey across the sea, and the distance from and nostalgia for the lost motherland.
(ii) Hajdari, G. I canti del nizàm. Nardò (BA): Besa Editrice, 2012. Nizàm refers to the oral lyrics of the mothers, sisters and wives of the Albanian soldiers who fought in defense of the Ottoman Empire.
(1) Sons of Albania
(2) Sali Ram Berisha, President of Albania from 1992 to 1997 and Albanian prime minister since 2005.
(3) Ramiz Tafë Alia, last communist leader, designated as successor to dictator Enver Hoxha. He was head of state from 1982 to 1992.
(4) Fatos Thanas Nano, founder and leader of the Albanian Socialist party, several times in office as Prime Minister of Albania.
(5) Fatos Lubonja, Albanian writer and dissident, he was arrested for his critique to Hoxha’s regime, and released after seventeen years of prison, in 1991. He edits the literary journal Përpjekja (Endeavour) in Tirana.
(6) Besnik Bajram Mustafaj, Albanian writer and diplomat, former Albanian ambassador to France. He served as foreign minister from 2005 to 2007 when he resigned for his disagreement with Prime Minister Sali Berisha.
(7) Kasëm Trebeshina, Albanian writer and dissident, he was proclaimed by the regime as a madman and jailed for seventeen years. Since 1997 he has lived in Istanbul.
(8) The two worst Albanian prisons, where political prisoners were jailed.
(9) On the other side, across the Adriatic Sea.

Anita Pinzi is a Ph.D. candidate in Comparative Literature and Italian Studies at the Graduate Center of the City University of New York (CUNY). She deals with Migration Literature, Bilingualism, Postcolonialism, Mediterranean Studies, and Theory of the Body. She teaches Italian Language and Literature at Hunter College and Queens College in NYC. She is writing her dissertation on Contemporary Albanian-Italian Literature. 
Valbona Ajdari is currently a senior at Hunter College, City University of New York pursuing a Bachelor’s of Fine Arts degree with a focus in Filmmaking. Her maininterests lie in writing and directing. Valbona is presently working on a short film project entitled, “My Axiom”, which she has written and will also direct.

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Emanuel Carnevali CINQUE POESIE E SCRITTI CRITICI SCELTI a cura di Flavio Almerighi

Andy Warhol_Marilyn 1967 serigrafia su carta pezzo unico fuori edzione cm91x91

Andy Warhol_Marilyn 1967 serigrafia su carta pezzo unico fuori edzione cm91x91

andy warhols jackie kennedy 1964

andy warhols jackie kennedy 1964

Emanuel Carnevali nasce a Firenze il 4 dicembre 1897 e morì a Bazzano (BO) l’11 gennaio 1942.
Ebbe il destino di un poète maudit: dopo una difficile infanzia trascorsa in parte in collegio, e in parte nella nuova famiglia che il padre si era fatto a Bologna, risposandosi dopo la morte della madre di Emanuel, partì appena sedicenne per gli Stati Uniti, che dovevano diventare, il luogo simbolico della sua vita e della sua letteratura. Passò attraverso numerosi e umili mestieri, finché lo si ritrova nella cerchia degli scrittori americani di punta in quegli anni. Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon lo accolsero come uno dei loro, con ammirazione e insieme sconcerto dinanzi a questo difficile e imprendibile personaggio, e inclusero subito testi suoi nelle loro celebri antologie e riviste. Carnevali scriveva in inglese, la sua unica lingua era quella dell’esilio imparata a orecchio, e portava così nella poesia americana un soffio selvatico, di cui fu avvertita la novità. Nel 1922 fu colpito da encefalite e dovette tornare in Italia. Trascorse in un ospedale vicino a Bologna gli ultimi anni della sua vita, e lì ancora lo raggiungevano le lettere dei suoi amici americani. Morì nel 1942 a Bazzano, in provincia di Bologna.

alfredo de palchi drake-hotel-di-park-avenue

Andy Warhol_Marilyn 1967 serigrafia su carta pezzo unico fuori edzione cm91x91

da Emanuel Carnevali Il primo dio – Poesie scelte – Racconti e scritti critici Adelphi, 1978 pp. 434 € 30

Scrive Robert McAlmon, in una testimonianza resa nel 1968, che quello che più lo attirava di Emanuel Carnevali era il fatto che «era puramente italiano, e come tale privo di qualsiasi scrupolo ipocrita per la “morale”, l’ “anima” e la “coscienza”. Se era senza un soldo e rubava a un amico libri di valore per venderli e comrparsi da mangiare e da bere, lo faceva senza rimorsi». In un’altra testimonianza, William Carlos Williams ricorda questo: «McAlmon pubblicò il libro di Em[anuel], che nessuno ricorda più, uno dei migliori esempi di – di che cosa? Di un libro, un libro che è tutto di un uomo, un uomo giovane, superbamente vivo. Condannato. Quando penso a ciò che si pubblica e si legge e si loda e, regolarmente, si premia, mentre un libro così resta sepolto sotto un mucchio di cadaveri, giuro di non voler più avere successo, sono disgustato, tornano le vecchie tentazioni. Che cos’altro può fare un libro per un uomo?»

alfredo de palchi dei grattacieli nel bosco

Andy Warhol_Marilyn 1967 serigrafia su carta pezzo unico fuori edzione cm91x91

“sono un vagabondo e semino parole da un buco della tasca…”

 “Credevo che per i poeti fosse venuto il tempo della peste, il tempo della fine: la fine dei canti, delle odi, dei poemi, di tutte le vecchie, ammuffite sciocchezze. Per i poeti che, come passeri disperati, lasciavano i loro escrementi dappertutto. Ero nauseato dai cuori delicati che i poeti ostentano sul palmo delle mani, insanguinati trofei della loro guerra con la vita, ch’essi si portano dietro lungo le autostrade e le scorciatoie dell’esistenza, gridando: “Aiuto, aiuto!” con la bocca sanguinante, benché sappiano benissimo che nessuno li ascolterà”.

carnevali copertina il primo dio

Certe cose ci puntano contro il dito e ridono

Certe cose
si nascondono agli occhi della gente
e si odono
piangere sommessamente.
Certe cose cadono dal cielo:
cose nere informi, mostri
della notte e terrore
dei giorni.
Certe cose sembrano essere state predisposte
da Dio e dal Diavolo.
Certe cose sembrano nate in un abisso
e cresciute nelle tenebre.
Certe cose portano l’immagine della bontà
come se il fuoco
ve l’avesse scolpita in bassorilievo.
Certe cose ridono fino a divenire teschi
e poi continuano a ridere.
Certe cose sono come alberi di pesco,
portano a lungo frutti verdi.
Certe cose sono come il vino che uno beve
soltanto per ubriacarsi.
Certe cose colpiscono
il cuore come un colpo di gong,
così che poi risuona a lungo.
Certe cose schiacciano il cuore come se fosse
uno scarafaggio.
Ed è orribile, come spiaccicare
uno scarafaggio.
Certe cose sono come il fulmine:
possono essere guidate
anche se pericolose.
Certe cose sono come pensieri dal piede pesante,
hanno il piede pesante anche se abitano il cielo.
Certe cose sono come le aquile.
Vivono in alto –
possono benissimo dimenticare la valle.
Certe cose sono come il terremoto:
utilizzano tutte le nostre paure.
Certe cose sono come la Bellezza che è morta da tempo:
solo l’acqua profonda del pozzo può lavarle e destarle.

emanuel carnevali

emanuel carnevali

Bugie colorate

Le case in lunga fila
hanno facce arse dal vento, rosse:
bare di immobile aria
lo guardo ottuso, bidiota,
ammiccano al vento che soffia
un insulto gioioso sulle loro facce…
Vecchie zitelle
che inghiottono con dignità il loro odio
guardando l’andatura provocante
di donne giovani, alte, con le gonne svolazzanti.
Hanno facce arse dal vento, rosse,
tentano con dignità
di sorridere
una bugia rossa
per un attimo
in lunga fila
mentre soffia il vento.
Gli uomini vestono in blu, nero e grigio,
i tre colori del cielo.
Odio, amore e bontà si accalcano
nello spazio di una giacca
abbottonata con grazia.
Il cielo guarderà giù
dolcemente
e chiederà a questi uomini come e perché:
e le minuscole, indaffarate cose
che stanno sotto una giacca
nasconderanno il loro disappunto
e strisceranno via
con i loro abiti blu, neri e grigi…
Bugia tricolore
per tradire l’innocente, grande cielo
che guarda gentile…
Oh, l’intrusione turberebbe
i petti degli uomini
che strisciano via
corazzati di bugie nere e blu e grigie.

emanuel carnevali

emanuel carnevali

Quand’è passato

Io pensavo fosse una lunga gita in barca
su un lago tranquillo: intorno i salici piangenti
lasciavano cadere nell’acqua le chiome, e fra quelle chiome,
i raggi che il sole andandosene, aveva dimenticato. Ma ora
che è passato, so che era un fiume travolgente e fragoroso,
che distruggeva tutto, tutto. Nell’anima non mi è restato che
un cespuglio, che oscilla e ondeggia al vento come i capelli di
una strega, che sibila, che maledice il vento come il braccio
spaventoso di una strega, ed è ricordo. Continua a leggere

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UNA POESIA INEDITA di Giorgio Linguaglossa Distretto n. 27, DUE POESIE INEDITE di Francesca Diano “L’esclusa”, “Sulla tomba di Igor Stravinskij”, DUE POESIE INEDITE di Antonio Sagredo “Viaggio a Herat-Vesania”, QUATRO POESIE di Annamaria De Pietro “Prosopopee” (2002), POESIA INEDITA di Rossella Seller “Di ritorno da Auschwitz” – SUL TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (STIGE o ACHERONTE)

arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

 Arnold Böcklin (1827-1901) dipinse diverse versioni del quadro fra il 1880 e il 1886. L’opera fu estremamente popolare all’inizio del XX secolo e affascinò personaggi come Sigmund Freud, Lenin, George Clemanceau, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio. Adolf Hitler ne possedeva una versione originale, acquistata nel 1936.
Tutte le versioni del dipinto raffigurano un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura. Una piccola barca a remi, condotta da una persona a poppa, si sta avvicinando all’isola. A prua ci sono una figura vestita di bianco e una bara bianca ornata di festoni. L’isolotto è dominato da un bosco fitto di cipressi, associati da lunga tradizione con i cimiteri e il lutto, circondato da rupi scoscese. Nella roccia sono presenti quelli che sembrano essere portali sepolcrali. L’impressione complessiva è quella di uno spettacolo di desolazione immerso in un’atmosfera di mistero.

Arnold Böcklin non ha fornito alcuna spiegazione pubblica circa il significato del suo dipinto, anche se l’ha descritto come «un’immagine onirica: essa deve produrre un tale silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura». Il titolo, che gli è stato dato dal mercante d’arte Fritz Gurlitt nel 1883, non è stato specificato da Böcklin, anche se deriva da una frase scritta in una lettera inviata nel1880 ad Alexander Günther, che aveva commissionato l’opera. Non conoscendo la storia delle prime versioni del dipinto, molti critici d’arte hanno interpretato il vogatore come una rappresentazione di Caronte, che nella mitologia greca conduceva le anime agli inferi. L’acqua è quindi il fiume Stige o l’Acheronte, e il passeggero vestito di bianco un’anima recentemente scomparsa in transito verso l’aldilà.

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga.
L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi.
Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

h. bosch Inferno

h. bosch Inferno

Giorgio Linguaglossa

Distretto n. 27

Torrette blindate, buio, riflettori, fasci di luce accecante…
rotoli di filo spinato…

I premorienti della cicatrice chiamata Terra
guadagnarono gli stabilimenti dei dormienti,

fitti, assiepati, immersi in un sonno plumbeo…
I copulatori del sonno…

Gendarmi col berretto verde li sospingono con il calcio dei fucili,
li chiamano ad uno ad uno, in correità,

verificano i documenti, dividono i vivi
dai morti, i morienti dai morituri, i plagiari dagli irridenti.

Li dividono dalla vita ultima, dai falsi reggimenti,
dalle ultime fondamenta…

dai fondali lutei le statue bianche venute
dalla cicatrice chiamata Terra

si dichiarano prigionieri del sonno…
una schiera di condannati…

Chiesi al gendarme: «… la direzione per il mare»,
ma non ottenni risposta…

I maledetti cantano alleluia, chiedono la grazia
assiepati nel refettorio del dolore eterno.

Erano anime ormai, nient’altro che anime…

All’improvviso, il ronzio d’un elicottero, dall’alto.
un altoparlante ci chiama per nome.

I defraudati dal dolore, gli analgesici del sonno,
una schiera di malnati, di malvissuti.

Portano vivande borotalco… «mangiatene – dissero –
e diventerete eterni»,

ma noi svoltammo nell’aria vetrosa del mattino
dietro il muro perimetrale.

C’era un sole accecante. Luce, luce.
Ma era già tardi… le statue con le spalle al muro,

I bendati, i malvissuti fuggivano in direzioni molteplici,
dicevano dei respingimenti, degli accorgimenti…

apparivano spaesati, inquieti…

Versione di origine

Diramazioni incorniciate dalle torrette blindate si diradavano nel buio.
E noi di qua dalle cancellate di filo spinato: i fortificati,

gli indigenti, i premorienti della cicatrice chiamata terra;
fitti e assiepati gli uni agli altri, guadagnammo infine gli stabilimenti dei dormienti.

(Erano costoro immersi in un sonno plumbeo).
I gendarmi li chiamavano «i copulatori del sonno».

I morienti furono sospinti con il calcio dei fucili,
assiepati e addossati gli uni agli altri.

Li chiamarono, ad uno ad uno, in correità, verificarono i loro documenti,
distinguevano i vivi dai morti, i morienti dai morituri,

i premorienti, gli irridenti, i plagiari,
proclamarono i responsi ai condannati e li divelsero dalla vita ultima,

dai falsi reggimenti, dalle ultime fondamenta,
dagli ultimi tentati stabilimenti.

Dai fondali lutei del fiume emersero le statue bianche
venute dalla cicatrice chiamata terra,

dichiararono che erano stati prigionieri del sonno,
che nulla era più come prima,

e che dopo il prima non ci sarebbe stato un dopo.
Una schiera di comandati a gettone si faceva avanti nella ressa.

Un gendarme guidava la dissoluzione dei lapidati dal sonno.
Chiesi al gendarme: «È un inizio o una fine?», ma non ottenni risposta;

intanto i maledetti cantavano alleluia e si battevano il petto
come appestati che chiedessero la grazia mentre si assiepavano

nel refettorio del dolore eterno…
ma erano anime ormai, nient’altro che anime.

«La risposta se c’è – dissero – è nei ripostigli della memoria».

All’improvviso, il ronzio d’un motore d’elicottero giunse dall’alto:
un tip tap incontinente, un bip, un tric insistente…

dall’alto, dagli altoparlanti una voce ci chiamava per nome
ad uno ad uno.

I defraudati dal dolore, gli analgesici del sonno si fecero avanti
tra la schiera dei malnati e dei malvissuti;

una folla di cimiteriali malviventi vennero a noi portandoci
vivande borotalco… «mangiatene – dissero – e diventerete eterni»,

ma noi svoltammo nell’aria vetrosa del mattino dietro l’angolo del muro perimetrale.
C’era il sole eterno, accecante. Luce, luce.

I gendarmi officiarono il rito dell’iniziazione, ma era già tardi,
le statue bianche stavano con le spalle al muro, gli occhi bendati;

i malvissuti fuggivano in direzioni molteplici, dicevano
parole distanti, parlavano dei respingimenti,

degli accorgimenti, dei trucchi… ed apparivano
spaesati, inquieti…

(2014)

Linguaglossa H. Bosch Le tentazioni di sant'antonio particolare

H. Bosch Le tentazioni di sant’antonio particolare

Francesca Diano

L’esclusa

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.

Ero povera – di quella povertà che non ammette
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.
Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono come il delirio di un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.

La vostra rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece – me viva ancora.
Non vi perdono la disperazione
La vostra elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.

Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace. Continua a leggere

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NOVE POESIE INEDITE (1958-1960) di Arsenij Tarkovskij (1907-1989), traduzione di Donata De Bartolomeo

Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij nasce nel 1907 a Elizavetgrad, oggi Kirovograd, in Ucraina. È all’ambiente familiare che Arsenij deve l’amore per la letteratura e le lingue – il padre è poliglotta e autore di racconti e saggi – come anche la conoscenza del pensiero di Grigorij Skovoroda. Nella seconda metà degli anni Venti frequenta i Corsi Superiori Statali di Letteratura e scrive corsivi su «Il fischio», rivista dei ferrovieri, a cui collaborano anche Bulgakov, Olesa, Kataev, Il’f e Petrov. Tra il ’29 e il ’30 inizia a scrivere poesie e drammi in versi per la radio sovietica, ma nel ’32, accusato di misticismo, è costretto ad interrompere la sua collaborazione. Nello stesso anno nasce il figlio Andrej. Inizia a tradurre poesie dal turkmeno, ebraico, arabo, georgiano, armeno. Nel dicembre ’43, dopo essere stato insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in guerra, è ferito gravemente e gli viene amputata una gamba. Nel ’46 viene rifiutata l’edizione del suo primo libro in quanto i suoi versi vengono ritenuti ‘nocivi e pericolosi’. Solo nel ’62 esce il primo volume di poesie:Neve imminente, cui seguiranno nel ’66 Alla terra ciò che è terreno, nel ’69 Il messaggero, nel ’74 Poesie, nel ’78Le montagne incantate, nel 1980 Giornata d’inverno, nel 1982 Opere scelte. Poesie. Poemi. Traduzioni. (1929-1979), nel 1983 Poesie di vari anni. Nel 1986 muore in Francia il figlio Andrej. Nel 1987 esce Dalla giovinezza alla vecchiaia, titolo deciso dalla casa editrice contro il volere dell’autore, e Essere se stesso. Muore a Mosca il 27 maggio ’89.

Le sue opere pubblicate finora in Italia in volume sono: Poesie scelte, Milano, Scheiwiller, ’89. Poesie e racconti, Pescara, Edizioni Tracce, ’91. Poesie scelte, Roma, Edizioni Scettro del Re, ’92. Costantinopoli. Prose varie. Lettere, Milano, Scheiwiller, ’93.

Foto Arsenij Tarkovskij

Foto Arsenij Tarkovskij

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mia cara vita

Amo la vita ed ho paura di morire.
Se vedessero come mi contorco sotto la corrente
e mi piego, come una carpa nelle mani del pescatore
quando mi immedesimo nelle parole.

Ma non sono un pesce né un pescatore.
Ed io come angolo tra i viventi
assomiglio d’aspetto a Raskol’nikov .
Come un violino, tengo in mano la mia offesa.

Dilaniami – non cambierò in volto.
La vita è bella, soprattutto alla fine,
anche sotto la pioggia e senza una lira in tasca,
anche nel giorno del giudizio – con un ago in gola.

Ah, questo sogno! Mia cara vita, respira,
prendi i miei ultimi spiccioli,
non lasciare che mi butti a capofitto
nella sferica vastità del mondo.
(1958)

arsenij tarkovskij con il figlio andrej

arsenij tarkovskij con il figlio andrej

 

 

 

 

 

 

Sul nero di una casa incendiata
un’aquila respira nella steppa deserta.
Così, ecco cosa mi è tanto dolorosamente noto fin dall’infanzia:
la vista della Roma dei Cesari –
un’aquila gibbosa e né casa, né fumo…
Ma tu, mio cuore, sopporta anche questo.

(1958)

arsenij tarkovskij in casa

arsenij tarkovskij in casa

 

 

 

 

 

 

 

 

In mezzo al mondo

Io sono un uomo, io in mezzo al mondo,
dietro di me miriadi di infusori,
davanti a me miriadi di stelle.
Io caddi tra essi lungo disteso –
mare che unisce due rive,
ponte che unisce due universi.

Io sono Nestore, cronista del mesozoico,
sono il Geremia dei tempi futuri.
Tenendo in mano l’orologio e il calendario
mi appassionerò al futuro, come la Russia,
e maledirò il passato, come un povero zar.

Io so della morte più cose dei morti,
io tra le rive la cosa più viva.
E – dio mio! – una farfalla
come una fanciulla, ride sopra di me
come uno straccetto di seta gialla.

(1958)

arsenij 10

 

 

 

 

 

 

Kore
Quando io l’eterno distacco
berrò d’un fiato, come mercurio ghiacciato,
non andare via ma dammi la mano
e accompagnami nell’ultimo viaggio.

Fermati sulla soglia della morte
fino all’oscurità, come un raggio diurno,
resta con me ancora un po’almeno a tre arscin sopra di me.

La terribile bocca della regina Kore
ci dà il benvenuto con un sorriso
e mettono l’anima a nudo gli sguardi
dei suoi ciechi, lugubri occhi.
(1958)

fotogramma del film nostalghia

 

 

 

 

 

T. O. – T.

Serale, benedetta
dalle ali grigio-azzurre luce!
Come da una tomba
ti seguo con lo sguardo.

Ringrazio per ogni
sorso di viva acqua,
da te donato
nei momenti dell’estrema sete.

Per ogni movimento
delle tue mani fresche,
per il fatto che consolazione
non troverò attorno.

Perché tu, andando via,
ti porti la speranza
e la stoffa del tuo vestito
è di vento e di pioggia.

(1958)


arsenij 6

 

 

 

 

 

 

Ricordavo città che non ci sono più
e la cosa strana è che esistevano prima
nelle castagne e nelle candele, nell’abituccio di una ragazza
con la partenza festiva delle linee e dei vagoni,

nella città verde, dove regnava un poeta
sulla collezione botanica, nella speranza
di accendere nell’ignorante il fuoco d’Italia
e celebrare i rosei borghesucci al tramonto della vita.

Nella scriteriata giovinezza ci sembrano capisaldi
il tempo e la società ma dopo la testa gira
così selvaggiamente, quando si leverà il sacro
semplice coraggio dinanzi all’urlo fau-due
e l’essenza non sta nell’oro delle sale di parata e nelle stanze da letto
ma nelle povere gobbe e nelle piccole buche delle macerie.
(1958)

Arsenij Tarkovskij

Il vento

La mia anima si rattristò di notte.

Ma io amavo l’oscurità fatta a pezzi,
sferzata dal vento
e le stelle che brillano d’estate
sui giardini bagnati di settembre,
come farfalle dagli occhi ciechi
e sull’untuoso fiume zigano
il ponte oscillante e la donna col fazzoletto
che scendeva dalle spalle sulla lenta acqua
e queste mani, come innanzi ad una sciagura.

E sembra che lei sia viva,
viva come prima ma le sue parole
dalle umide elle adesso non esprimevano
né felicità né desideri né dolori
ed il pensiero non le collegava più
come usava al mondo tra i viventi.

Le parole ardevano come candele al vento
e si spegnevano come se sulle sue spalle si stendesse
tutto il dolore di tutti i tempi. Noi camminavamo vicini
ma questo dolore come assenzio della terra
lei già non sfiorava più con i piedi
e a me sembrava più viva.

Un tempo aveva un nome.

Il vento di settembre sulla mia casa
si precipiterà –
a volte sferraglia nelle serrature
a volte mi sfiora i capelli con le mani.

(1959)

Arsenij 7

 

 

 

 

 

 

 

 

Il manoscritto

Ad Anna Achmatova

Ho finito il libro ed ho detto basta
non posso più rileggere il manoscritto.
Il mio destino si è bruciato tra le righe
mentre l’anima cambiava rivestimento.

Così il figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle
così il sale dei mari e la polvere delle strade terrestri
benedice e maledice il profeta,
che da solo camminava sugli angeli.

Io sono quello che ha vissuto al suo tempo
ma non ero io. Io il più giovane della famiglia
degli uomini e degli uccelli, io ho amato insieme a tutti

e non abbandonerò il banchetto dei viventi –
diretto sigillo del loro onore familiare,
diretto vocabolario dei legami di radice.

(1960)

arsenij tarkovskij

arsenij tarkovskij

 

 

 

 

 

 

Cose terrene

Quand’anche il mio destino avesse voluto
che io giacessi nella culla degli dei,
la nutrice celeste mi avrebbe allevato
col sacro latte delle nuvole

e sarei divenuto il dio di un ruscello
o di un giardino –
ma io sono un uomo, non ho bisogno dell’immortalità:
è terribile un destino non terreno.

Grazie perché il sorriso non ha contratto le mie labbra
sotto il sale ed il fiele della terra.
Ebbene, addio, olimpico violino,
non deridermi, non decantarmi.

(1960)

 

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     Sergej Aleksandrovič Esenin (1895-1925) “versi osceni”  Inediti a cura di Donata De Bartolomeo – “L’uomo nero”

sergej esenin e isadora duncan

sergej esenin e isadora duncan

Commento e traduzione di Donata De Bartolomeo

Sergej Aleksandrovič Esenin nasce il 3 ottobre 1895 a Konstantinovo (oggi Esenino), nella regione di Rjazan (Russia); figlio unico di genitori contadini, è l’esponente più importante della cosiddetta scuola dei “poeti contadini”. Nei suoi versi traspare il mondo rurale della Russia di inizio Novecento: le sue parole esaltano le bellezze della campagna, l’amore verso il regno animale, ma anche gli eccessi della sua vita (Esenin fu alcolista e frequentatore di bordelli).

Cresciuto con i nonni, inizia a scrivere poesie già all’età di nove anni. Nel 1912 si trasferisce a Mosca dove si guadagna da vivere lavorando come correttore di bozze presso una casa editrice. A San Pietroburgo diviene noto nei circoli di letteratura. È grazie a Alexander Blok che viene promossa le sua carriera di poeta. Nel 1915 pubblica “Radunica”, il suo primo libro di poesie, subito seguito da “Rito per il morto” (1916). In breve diviene uno dei poeti più popolari di quegli anni.

La bellezza di Esenin è del tutto fuori del comune; bisessuale, cerca appoggio nella prima parte della sua vita presso uomini influenti, mentre nella seconda parte la sua preferenza andrà verso il sesso femminile. Dotato di una personalità romantica Esenin s’innamora di frequente, tanto che arriverà a sposarsi per ben cinque volte.

sergej esenin con amica

sergej esenin con amica

 Si sposa per la prima volta nel 1913 con Anna Izrjadnova, collega di lavoro presso la casa editrice, dalla quale ha il figlio Yuri (poi arrestato durante le grandi purghe staliniste e morto in un gulag nel 1937). Nel periodo 1916-1917 Sergej Esenin viene arruolato, ma poco dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, la Russia esce dalla prima guerra mondiale. Credendo che la rivoluzione avrebbe comportato una vita migliore, Esenin la sostiene, ma ben presto si disillude arrivando persino a criticare il governo bolscevico (di questo periodo è la poesia “L’ottobre severo mi ha ingannato”).

Nell’agosto 1917 Esenin sposa l’attrice Zinaida Raikh. Da lei ha una figlia, Tatjana, ed un figlio, Konstantin.Nel settembre del 1918 fonda una propria casa editrice chiamata “Compagnia lavorativa moscovita degli artisti della parola”.

sergej esenin con isadora duncan

sergej esenin con isadora duncan

Conosce Isadora Duncan, già allora famosa ballerina; l’incontro sarà determinante per le sue ispirazioni poetiche. La sua relazione con lei (di 17 anni più anziana) è molto tormentata e difficile, nonché ricca di stravaganze: clamoroso fu l’episodio in cui a Parigi i due furono cacciati da un albergo perché Isadora ballava nuda, mentre Esenin recitava versi. Unitisi in matrimonio il 2 maggio 1922 (lei, bisessuale con preferenza per le donne, conosceva solo poche parole di russo: il matrimonio era per entrambi una mossa pubblicitaria), si separano l’anno successivo.

Torna a Mosca e sposa l’attrice Augusta Miklaevskaja.Negli ultimi due anni della sua vita Sergej Esenin vive tra gli eccessi, spesso ubriaco; ma questo periodo di disperazione personale è anche il periodo in cui crea alcune delle sue poesie più belle e note.

sergej-esenin

sergej-esenin

 Nella primavera del 1925 sposa la sua quinta moglie, Sofia Andreevna Tolstaja, nipote di Lev Tolstoj. La donna cerca di aiutarlo, ma Esenin non riesce ad evitare un esaurimento nervoso: entra in un ospedale psichiatrico dove resta per un mese. Viene dimesso per il Natale: due giorni dopo si taglia un polso e scrive con il suo stesso sangue la sua ultima poesia, che rappresenta il suo addio al mondo; persona violenta e aggressiva capace allo stesso tempo di grande sensibilità, Sergej Esenin muore suicida il giorno dopo, il 27 dicembre 1925, all’età di 30 anni: mentre si trovava nella stanza di un albergo a San Pietroburgo, se ne va impiccandosi alle tubazioni dell’impianto di riscaldamento. Esiste ancora oggi il mistero per il quale alcuni pensano che il suicidio sia stato una montatura; secondo una interpretazione Esenin sarebbe stato indotto al suicidio da agenti del GPU.

*

 sergej esenin in spiaggia

Su di sé Esenin annotava molto precisamente: “Girava una brutta fama, che sono un volgare e un amante degli scandali”. Questa affermazione corrispondeva alla realtà, poiché il poeta nel delirio dell’ubriacatura amava divertire il pubblico con componimenti dal contenuto assai scabroso.

Secondo i ricordi di testimoni oculari, Esenin praticamente non scriveva mai i versi osceni, essi nascevano in lui spontaneamente e subito li dimenticava. Di sicuro deve la paternità ad Esenin la breve quartina ” Il putrido autunno è ormai giunto”, che lesse una volta ai suoi amici, che erano già belli sbronzi. In seguito i versi alati andarono “a spasso” tra il popolo e subirono anche alcuni cambiamenti. Tuttavia le frasi “gli uccelli hanno smesso di beccare la merda” e “che cazzo di tempo…”, furono creati dallo stesso poeta.

Esenin aveva molti simili e contingenti componimenti. Per esempio, si attribuiscono a lui i versi “Non essere triste, caro, e non lamentarti”, nei quali il poeta manda i suoi nemici all’indirizzo a tutti noto, prevenendo il loro desiderio di mandare laggiù lo stesso Esenin.

sergej esenin con la pipa

sergej esenin con la pipa

 

Versi osceni di Sergej Esenin

Canta, canta. Sulla dannata chitarra
le tue dita danzano in semicerchio.
Potessi annegare in questa orgia,
mio ultimo, unico amico…

Non guardare i suoi polsi
e la seta che le scende dalle spalle.
Ho cercato in questa donna la felicità
ma per caso ho trovato la rovina.

Io non sapevo che l’amore è contagio,
non sapevo che l’amore è peste.
Lei si è avvicinata con sguardo ammaliatore
ed ha fatto uscire di testa il teppista.

Canta, amico mio. Portami di nuovo
al nostro antico, burrascoso inizio.
Che baci pure un altro
questa giovane, bella carogna.

Ah, lascia stare. Non la rimprovero.
Ah, lascia stare, non la maledico,
fa che sia io a cantare di me stesso
sotto questa corda di basso.

Scorre la rosea cupola dei giorni miei.
Nel cuore un sacco di sogni dorati.
Ne ho palpate parecchie di ragazzette
e parecchie donne ho stretto negli angoli.

Si! Questa è l’amara verità terrena,
ho spiato con occhi di bambino:
leccano a turno i cani
la cagna che perde il suo umore.

E allora di che ingelosirsi.
E allora perché soffrire così.
La nostra vita è fatta di lenzuola e letto.
La nostra vita è fatta di baci nell’amplesso.

Canta, canta! Nel fatidico aprirsi
di queste braccia c’è una fatale sventura.
Sai che ti dico? Mandiamoli a …
Io, amico mio, non morirò mai

Il vento soffia dal sud
e la luna si è alzata,
che ti succede, puttanella,
non sei venuta di notte?

Non sei venuta di notte,
non sei comparsa di giorno.
Pensi che ci stiamo facendo una sega?
No! Ci stiamo trombando delle altre!

*

Non essere triste, caro, e non lamentarti,
tieni la vita per le briglie come fosse un cavallo,
mandali tutti ad uno ad uno a fan…,
che non ti ci mandino loro!

*

Avessi una donna – bianca, bianca
ma che differenza fa,
la spingerei con forza contro un albero
e in culo, in culo, in culo.

(NdT: Grazie di cuore a Kamila Gayazeva senza la cui preziosa collaborazione questa traduzione non sarebbe stata possibile).

 

sergej esenin carmelo bene interpreta l'uomo nero

sergej esenin carmelo bene interpreta l’uomo nero

L’uomo nero (1925)

Amico mio, amico mio,
sono molto molto malato.
Io stesso non so da dove mi venga questo male.
Se sia il vento che sibila
sul campo vuoto e deserto,
forse, come a settembre al boschetto,
è l’alcool che sgretola il cervello.
La mia testa sventola le orecchie,
come fa un uccello con le ali.
La mia testa non è più capace
di ciondolarsi sul collo.
Un uomo nero,
nero, nero,
un uomo nero
si siede sul mio letto,
un uomo nero
non mi lascia dormire per tutta la notte.
L’uomo nero
scorre il dito su un libro turpe
e, con canto nasale sopra di me,
come un monaco su un morto,
mi legge la vita
di un certo mascalzone e furfante,
cacciando nell’anima angoscia e paura.
L’uomo nero
nero, nero…
“Ascolta, ascolta, –
mi farfuglia, –
nel libro ci sono molti bellissimi
pensieri e progetti.
Quest’uomo
viveva nel paese
dei più repellenti
teppisti e ciarlatani.
In dicembre in quel paese
la neve è pura fino al demonio,
e le bufere mettono in moto
i più allegri filatoi.
Quell’uomo era un avventuriero,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta,
anche se piccola,
afferrava la sua forza,
e una certa donna,
che aveva quarant’anni e passa,
lui la chiamava la puttanella
e la sua amata”.
“La felicità – diceva,-

sergej esenin nella bara

sergej esenin nella bara

 

 

 

 

 

 

 

è destrezza di mente e mani.
Tutte le anime maldestre
sono note per la loro infelicità.
Non importa,
se molti tormenti
sono frutto di gesti
tortuosi e menzogneri.
Nelle tempeste, nei temporali,
nella gelida vita,
nelle perdite gravi
e quando sei triste,
apparire sorridente e semplice –
è l’arte più sublime del mondo”.
“Uomo nero!
Non osare questo!
Tu non sei in servizio
come un palombaro.
Che m’importa della vita
di un poeta scandaloso.
Per favore, a qualcun altro
leggi e racconta”.
L’uomo nero
mi guarda fisso.
e gli occhi si tingono
di un vomito azzurro,
quasi volesse dirmi,
che io sono delinquente e ladro,
che in modo svergognato e impudente
ha derubato qualcuno.

Amico mio, amico mio
sono molto molto malato.
Io stesso, non so da dove mi venga questo male.
forse è il vento che sibila
sul campo vuoto e deserto,
forse, come a settembre al boschetto,
è l’alcool che sgretola il cervello.
Notte di gelo…
La pace al bivio è silenziosa
sto solo alla finestra,
non aspetto né amico né ospite
tutta la pianura è ricoperta
di una calce friabile e molle,
e gli alberi, come cavalieri,
sono a raduno nel nostro giardino.
Da qualche parte piange
un uccello notturno malefico.
I cavalieri di legno
seminano un rumore di zoccoli.
Ecco di nuovo questa cosa nera
che siede sulla mia poltrona,
solleva un po’ il suo cilindro
e incurante butta all’indietro le falde del pastrano.
“Ascolta, ascolta! –
mi fa con voce sgradevole, guardandomi in faccia,
ancora più vicino
ancora più vicino mi si inchina. –
non avevo mai visto che qualche
delinquente
in modo così inutile e sciocco
soffrire d’insonnia.
Ah, forse mi sono sbagliato!
Perché adesso c’è la luna.
Di che cosa ancora ha bisogno
questo piccolo mondo mezzo addormentato?
Forse, con le sue grosse cosce
“lei” verrà di nascosto,
e tu le leggerai
la tua fiacca lirica ormai sfiatata?
Ah, io amo i poeti!
gente divertente.
In loro trovo sempre
una storia famigliare al cuore,
come quella di una studentessa piena di brufoli
e di un mostro dai lunghi capelli
che le parla dei cosmi,
tutto bramoso di desiderio sessuale.
Non so, non ricordo,
in un villaggio,
forse, in quel di Kaluga,
o forse, in quel di Rjazan’,
viveva un ragazzo
in una semplice famiglia contadina,
con i capelli gialli,
con gli occhi azzurri…
Ed ecco che divenne adulto,
e per giunta poeta,
anche se piccola
afferrava la sua forza,
e una certa donna,
che aveva quarant’anni e passa
lui la chiamava bambina cattiva,
e la sua amata”.
“Uomo nero!
Tu sei un pessimo ospite.
Questa fama di te
da molto tempo corre in giro”.
Sono furibondo, fuori di me,
e vola il mio bastone
giusto addirittura contro il suo muso,
alla radice del naso

sergej esenin sul letto di morte

sergej esenin sul letto di morte

La luna è morta,
azzurreggia alla finestra l’alba.
Ah tu, notte!
Che m’hai combinato, notte?
Me ne sto in piedi qui col mio cilindro.
Non c’è nessuno con me.
Sono solo…
Con uno specchio in frantumi…

S. Esenin Poesie e poemetti Rizzoli Bur 2000 a cura di E. Bazzarelli

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Vladislav Chodasevič (1886-1939) OTTO POESIE SCELTE – Parte I – a cura di Paolo Statuti

da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti

Vladislav Chodasevič  disegno

Vladislav Chodasevič disegno

 

Vladislav Chodasevič Studio per costume teatrale 1921

Vladislav Chodasevič Studio per costume teatrale 1921

Vladislav Chodasevič è sepolto nel cimitero di Billancourt, presso Parigi, il poeta che Maksim Gorkij considerava “il migliore che vanti la Russia moderna”. Vladislav Felicianovič Chodasevič, di origine polacca, era nato a Mosca il 29 maggio 1886. Nel 1922 lasciò la Russia per sempre, e dal 1925 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1939, visse costantemente a Parigi.

I suoi primi quattro volumetti di poesie furono pubblicati in Russia:Giovinezza nel 1908, La casetta felice nel 1914, Per la via del grano nel 1920 e La pesante lira nel 1922. I versi da lui scritti all’estero, e riassunti col titolo La notte europea, entrarono a far parte della sua raccolta del 1927. L’ultimo decennio di vita di Chodasevič fu più dedicato alla critica e alle rievocazioni letterarie, che alla poesia. Non ebbe mai altri guadagni che quelli derivatigli dalla sua attività letteraria, visse sempre negli stenti, cadde spesso gravemente ammalato, ma ebbe amici cari e fedeli tra letterati e poeti, lettori e ammiratori, che non cessarono mai di amarlo.

Scriveva Gumilёv nel 1914, commentando la seconda raccolta di versi La casetta felice: “Non è possibile abituarsi né alla sua fantasia, né alle sue intonazioni – egli ci si presenta inaspettato, con nuove avvincenti parole, e non si trattiene a lungo, lasciando dietro di sé un piacevole inappagamento e il desiderio di un nuovo incontro”.

Vladislav Chodasevič  copertina libro Per i loro tratti chiari e precisi e per l’immediata efficacia, i versi di Chodasevič incantano anche il lettore più “impoetico”. La loro forma classica è impeccabile, semplice, elegante. La sua concezione della vita è ironica e tragica al tempo stesso. Dalla sua poesia emerge con insistenza l’eterno tema dell’anima immortale e degli ostacoli che le frappongono la materia e la squallida banalità della vita. E’ un continuo alternarsi di estasi metafisiche e di minute inquadrature prosaiche, d’immersioni ed emersioni, di cadute negli abissi dell’esistenza e di slanci mistici.

Scrive R. Poggioli nel suo libro Il fiore del verso russo: “Uno dei procedimenti più cari a Chodasevič è proprio quello di assegnare una grandezza precaria a provvisoria a oggetti meschini o anche di ridurre le cose grandi alle dimensioni di quelli o al loro livello, ed è questo gioco fra il sublime e il minuscolo che gli permette di comprendere l’umanità di ogni oggetto e le lacrime delle cose”. A.M. Ripellino ha messo in risalto il lato “mordace e velenoso” della poesia di Chodasevič, il suo “mondo uggioso e grottesco, nel quale si aggirano personaggi meschini, idioti e mostri dall’apparenza fantomatica”, sottolineando inoltre il pessimismo del poeta, il clima di scherno, l’atmosfera grigia che aleggia nei suoi versi.

Vladislav Chodasevič Studio per costume teatrale 1921

Vladislav Chodasevič Studio per costume teatrale 1921

 E’ vero: Chodasevič è un poeta spaesato in tanto squallore che lo circonda, ma mi sembra che il suo pessimismo, la sua tragedia trovino una via d’uscita, e la sua salvezza sia nel tono serio e pacato della sua poesia, nella sua attitudine a contemplare con un certo distacco i misteri dell’anima e dell’esistenza; la sua è un’ironia assai spesso feroce e maligna, ma sovente è anche serena, ricca di un humour leggero e immediato. La sua rabbia non lo fa tonare, ma lo spinge a riflettere, a partecipare delle altrui miserie, a sorridere lievemente subito dopo aver pianto.

In una lettera del 1 ottobre 1923 Gorkij scriveva al poeta: “I vostri versi An Mariechen sono belli e penetranti. Non so dire di più, ma aggiungerò soltanto che essi suscitano nell’anima il freddo sibilo della bufera di neve” e nello stesso tempo sono irresistibilmente umani”. Mi sembra che questo suggestivo giudizio di Gorkij possa essere la giusta insegna sull’incantato “bazar” del poeta Chodasevič. (Paolo Statuti)

Vladislav Chodasevič

Vladislav Chodasevič

 

 

 

 

 

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Meriggio

Come il viale è quieto, chiaro, assonnato!
Colta dal vento la sabbia vola via
E l’erba sfiora come un soffice pettine…
Con quale gioia or vengo in questo luogo
E a lungo siedo, semiassopito.
Mi piace, quasi svagato, ascoltare
Ora il riso, ora il pianto dei bimbi, e dietro un cerchio
La loro ritmica corsa sul sentiero. Che bello!
Che frastuono, così eterno e veritiero,
Come di pioggia, di risacca o di vento.
Nessuno mi conosce. Qui sono un semplice
Passante, un cittadino, un “signore”
In pastrano marrone e bombetta,
Niente di speciale. Ecco, una signorina
Mi si siede accanto con un libro aperto.
Un marmocchio col secchiello e la paletta
Si accoccola ai miei piedi. Imbronciato,
Si rigira nella sabbia, ed io così enorme
Mi sembro per questa vicinanza,
Che rammento,
Quando io stesso sedevo presso la colonna
Leonina a Venezia. Su questa creaturina,
Sulla testa nel berrettino verde,
Io mi ergo come pesante pietra
Secolare, sopravvissuta a molti
Uomini e regni, tradimenti ed eroismi.
E il marmocchio con zelo riempie
Di sabbia il secchiello e, presolo, me lo versa
Sui piedi, sulle scarpe…Che bello!
E leggero nel cuore io rivedo
Il cocente meriggio veneziano,
Il leone alato librarsi su di me
Immobile con il libro aperto tra le zampe.
E sopra il leone, rosea e tondeggiante,
Fuggire una nuvoletta. E più in alto, più in alto –
L’azzurro denso e cupo, e in esso scivolare
Minuscole, ma fiammeggianti stelle.
Ora esse ardono sul viale,
Sul marmocchio e su di me. Follemente
I loro raggi lottano coi raggi del sole…
Il vento
Inesauribile fruscia con le ondate di sabbia,
Sfoglia il libro della signorina. E ciò che odo,
Da non so qual prodigio è trasfigurato,
Così tenacemente s’imprime nel cuore,
Che più non mi servon né pensieri né parole,
Ed è come se mi specchiassi
In me stesso.
E a tal punto seduce la viva linfa dell’anima,
Che, come Narciso, io dalla sponda terrena
Mi strappo e volo là, dove sono solo,
Nel mio primevo mondo natìo,
Faccia a faccia con me stesso, smarrito un giorno –
Ed ora ritrovato…E da lontano
Mi giunge la voce della signorina: “Mi scusi,
Che ore sono?”
1918

Vladislav Chodasevič  copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il pane

Oggi in cucina c’è una luce che abbaglia.
Col grembiule, cosparsa di farina,
Di tutte le Mignon tu sei la più bella
Con la tua bellezza genuina.
Ti svolazzano intorno coi cestini,
Con il bricco del latte e le fascine,
Spiumandosi le ali, i cherubini…
Tra le nubi, dalle colline
Prorompe la luce, e sulle pentole oziose
Come fasci di strali batte il giorno.
Sfacendosi somiglia a pallide rose
La legna che arde nel forno.
E i densi getti del futuro filone
Nel vaso d’argilla un angelo versa,
Giurandoci che son veri, come il sole,
L’amore, il lavoro e la terra.

1918

Vladislav Chodasevič

Vladislav Chodasevič

Il vizio e la morte

Vizio e morte. Quale tentazione,
E quante gioie in una parola godo!
Vizio e morte pungono allo stesso modo,
E sfuggirà il loro pungiglione
Solo colui che serberà nella coscienza
La segreta chiave di un’altra esistenza.

1921

 

 

Elegia

Del giardino Kronverkskij le fronde
Stormiscono ai venti rugghianti.
L’anima la sua gioia effonde.
Non le servono conforto e incanti.
Con occhi ardenti e temerari
Guarda i suoi millenni passati,
E vola con le sue grandi ali
Lungo sciami fuoco-alati.
Là tutto è sconfinato e canoro,
E ciascuno ha un’arpa in mano,
Come nubi, gli spiriti tra loro
Parlano un idioma dolce e arcano.
La mia esiliata con esultanza
Entra nella dimora cara
E la sua orgogliosa uguaglianza
Ai tremendi fratelli dichiara.
E mai più oramai le servirà
Chi sotto la pioggia che sferza
Nel giardino Kronverkskij qua e là
Si trascina con la sua pochezza.
E non coglie il mio povero udito,
Né la mente inerte e banale,
Qual spirito essa sarà in paradiso,
O nel tetro abisso infernale.

1921

Vladislav Chodasevič

Vladislav Chodasevič

 

*

Oltrepassa, oltresalta,
Oltrevola, oltre – ciò che vuoi –
Ma liberati: come sasso dalla fionda,
Come stella, caduta nella notte…
Ti sei smarrito – adesso cerca…
Dio sa che cosa borbotti,
Cercando le lenti o le chiavi.
1922

 

 

 

An Mariechen

Stai lì attaccata come una ventosa,
A servir birra dietro il banco.
Ci vuole una ragazza più briosa, –
Tu sei malata e il tuo volto è bianco.
Con quella rosa enorme sopra il petto
Che nessuno ancora ha mai baciato –
Mentre un serto funebre, anche il più gretto,
Sarebbe ornamento più indicato.
E’ così bello, così imperituro
Morire ancor prima di peccare.
Ma i tuoi cari ti troveran sicuro
Qualcuno che ti porti all’altare

Un uomo cosiddetto benpensante,
Una persona come si deve –
Sarà un fardello inutile e pesante
Per la tua vita debole e breve.

Meglio sarebbe – ignara e sorridente –
Solo a pensarci un fremito avverto –
Abbandonarti in preda a un malvivente
In un boschetto buio e deserto.

Meglio – in pochi istanti, senza illusioni –
Conoscer la vergogna e la morte,
E i due sfaceli, le due deflorazioni
Non separare da una stessa sorte.

Giacere in terra – l’abito sgualcito –
Sola, in quel bosco di betulla,
Un coltello nel seno illividito.
Nel tuo seno ancora di fanciulla.

1923

Vladislav Chodasevič  pagina di una poesia

Vladislav Chodasevič pagina di una poesia

Povere rime

Per quattro soldi tutta la settimana
Deperire, affannarsi e trepidare,
Ogni sabato con la moglie befana
Su un boccale abbracciati sonnecchiare,

La domenica sull’erba non più verde
Recarsi in treno, stender la coperta,
E di nuovo assopirsi e testardamente
Trovare che tutto questo diverta,

E trascinarsi indietro nella dimora
La coperta, la moglie e la giacca,
E non sferrare mai, alla buon’ora,
Alla coperta e al mondo un pugno in faccia, –
Oh, in una tale legge senza scampo,
In una tal ferrea rassegnazione,
oh, le bollicine possono soltanto
Salire sempre in alto nel sifone.

1926

Vladislav Chodasevič  con la moglie Nina Berberova

Vladislav Chodasevič con la moglie Nina Berberova

Ballata

Siedo nella mia stanza rotonda,
Siedo, dall’alto rischiarato.
Guardo il sole da venti candele
Lassù nel cielo intonacato.

Intorno – come me rischiarati,
Il tavolo, i lisi divani.
Siedo – e nello sgomento non so più
Dove posare le mie mani.

Sui vetri silenzioso fiorisce
Un gelido bianco palmeto.
Nel taschino del gilè martella
L’orologio il suo toc inquieto.

Oh, della mia vita senza scampo
Inerte, misera povertà!
A chi confidare come io sento
Per me e per queste cose pietà?

Ed ecco comincio ad oscillare,
Tenendo serrati i ginocchi,
E a un tratto in versi a parlare prendo
Con me stesso, chiudendo gli occhi.

Sconnessi, appassionati discorsi!
Discorsi senza alcun costrutto,
Ma i suoni son più veri del senso,
La parola – più forte di tutto.

E musica, musica, musica
Al mio canto si avvince,
E sottile, sottile, sottile
Una lama allor mi trafigge.

Io emergo al di sopra di me stesso,
Mi erigo sulla morta esistenza,
I piedi nella fiamma nascosta,
La fronte negli astri scorrenti.

E vedo con occhi smisurati –
Con occhi, forse, di serpente –
Come il canto selvaggio ascoltano
Le mie tristi cose da niente.

E a un fluido ritmico vortice
Tutta la stanza si abbandona,
E qualcuno la pesante lira
Attraverso il vento mi dona.

E non c’è più il cielo intonacato
E il sole da venti candele:
Su nere rocce levigate
Orfeo poggia i piedi lieve.

1921

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INTERVISTA A DEREK WALCOTT (1930-2017) di Franco Romanò su Tradizione, le Avanguardie e il Modernismo – TRE POESIE – La poesia è più difficile da corrompere perché tende a espellere il poeta corrotto; La condizione in cui mi trovo è quella dell’innocenza; non ho amato mai troppo il verso lungo, o diciamo troppo lungo, alla Whitman per intenderci, o anche alla Ginsberg; Il ruolo del poeta è proprio quello di rendere consapevoli del destino tragico.

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derek walcott

ERA IL POETA dei confini, dei versi meticci. Diceva di stare “tra la Grecia e il pantheon africano”. Derek Walcott è morto all’età di 87 anni , il 17 marzo 2017, nella sua abitazione sull’isola caraibica di Santa Lucia, dove era nato il 23 gennaio 1930, nella città di Castries. Era cresciuto in quella piccola isola vulcanica, sentendosi sempre un essere di frontiera, un meticcio dagli occhi verdi, “né abbastanza nero, né abbastanza povero”.

 Fino al 1992, quando gli venne conferito il Nobel per la letteratura, il nome di Derek Walcott circolava in Italia soltanto tra uno sparuto e ristretto gruppo di specialisti di letteratura caraibica. Strano destino per un poeta il cui esordio risaliva al 1948, con 25 Poems, e che per più di vent’anni è stato al centro di un profondo rinnovamento della scena teatrale di lingua inglese, in primo luogo come autore di numerose pièce (su tutte Ti-Jean e i suoi fratelli, Sogno sul monte della Scimmia o la giovanile Henri Christophe, dedicata all’omonimo leader rivoluzionario haitiano) e poi come fondatore e direttore del Trinidad Theatre Workshop. Nato nell’isola di Santa Lucia nel gennaio 1930, docente a Harvard, Walcott è oggi un nome meglio conosciuto al grande pubblico, che in questi anni ne ha apprezzato sia l’opera poetica – dall’antologia Mappa del nuovo mondo, fino all’epico Omeros o Prima luce, tutti da Adelphi – sia la sua inesausta vena di lettore-viaggiatore e la presenza costante che lo ha visto spesso impegnato in reading e letture.

Pubblicata la prima volta sulla rivista Poiesis nel 2002 e di recente su diepicanuova.blogspot.it

walcott

Franco Romanò:

Signor Walcott, in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘II sole 24 ore’ lei affermava che solo gli artisti mediocri hanno paura di avere dei maestri. Vorrei cominciare da questo perché il Novecento europeo è stato il secolo dell’originalità a tutti i costi…

DEREK WALCOTT:

Può precisare meglio a quale periodo e a quali autori si riferisce?

FR

Penso a tutto ciò che è avvenuto negli ultimi dieci anni dell’800 e i primi venti del ‘900 in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e poi penso a movimenti come ‘Dada’ e a quello che ne seguì anche in termini di imitazione…

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

DW

Sì, capisco… Vorrei cominciare da una frase di Joseph Brodskji, quando disse: “Perché è necessario avere un ventesimo secolo quando c’è già stato il diciannovesimo?”

E’ un’osservazione molto brillante perché in termini di intelligenza dei tempi e di arguzia gli scrittori del diciannovesimo secolo che avevano concepito l’idea dell’emergere della città (nel senso mercantile, borghese o artigiano del termine) come soggetto in sé, avevano raggiunto una scala di valore molto elevata; parlo dello spirito cittadino che esiste in Balzac o in Dickens. Questa consapevolezza della città raggiunse le sue punte più elevate con la fine del secolo e questo ci dà la misura della solidità del diciannovesimo secolo. Forse quanto sto dicendo potrà sembrare il discorso di un uomo anziano, ma io credo che molti dei movimenti venuti dopo siano stati vittime di una certa petulanza, dell’invidia e dell’ambizione rispetto a questa grandezza. Si può anche comprendere perché se si è coscienti del valore degli autori che ho citato in precedenza, oppure della forza dell’architettura compositiva di un Baudelaire, uno scrittore o un gruppo di scrittori che danno vita a un movimento capiranno che è un po’ arduo competere con lui, avranno la tentazione di dire non facciamo questo non è importante, facciamo altro…E’ cosi che cominciano le avanguardie. Prendiamo ‘dada’ per esempio. Se io li accusassi di essere un movimento ingenuo, infantile e naif, che crede nel senso del nonsenso, loro sarebbero stati i primi a darmi ragione; ma anche ammettendolo questo non fa venire meno il fatto che infantili erano e restano.

Nel dire ciò, però, non intendo affermare che l’artista sia un essere sublime; anzi, sono questi movimenti che pure affermando esattamente l’opposto portano alla stessa conclusione perché anche l’idiozia in un certo senso è sublime. C’è una bella differenza fra l’idiozia di una certa avanguardia e la semplicità, prendiamo, di un Blake, oppure la semplicità e persino la chiarezza di un Verlaine.

boris pasternak

boris pasternak

Insomma l’avanguardia ha tutti i difetti di qualcosa di giovanile, di non maturo, un esperimento, anche se va detto che parole come sperimentare o esperimento non si possono circoscrivere a quei movimenti. Perciò quello che dico è che molti dei grandi poeti del novecento hanno un’eredità, guai a non riconoscere l’eredità dei grandi maestri, essa esiste eccome se esiste! Ma questo è stato ritenuto ridicolo, fuori moda, vecchio.

A questo proposito vorrei parlarle della mia esperienza di docente. Io insegno negli Stati Uniti e il concetto di insegnare la tradizione negli Usa non è un vero concetto e le assicuro che è molto complicato insegnare in una cultura che pensa che tutto ciò che esiste sia stato fatto ieri o l’altro ieri. Non hanno un’idea della storia… L’idea che bisogna avere cura dei maestri nel processo di apprendimento nelle arti, è stato molto minacciato durante il secolo scorso da molti fattori, anche molto lontani fra loro, incluso il cinema che insieme ad altro ha contribuito a trasformare l’artista in un performer, poesia inclusa. Insieme all’idea della performance è venuta avanti anche quella della competizione.

alfredo de Palchi

alfredo de Palchi

FR

A questo proposito le chiedo: il poeta a fronte di queste trasformazioni e insidie deve cercare di assecondarle o di resistervi secondo lei?

DW

Resistere? Vede è difficile farlo, gli scrittori, i romanzieri in particolare negli USA seguono quest’idea, si comportano come le star del cinema, lo scrittore è una persona pubblica. Si tratta di un’idea molto forte che però ha un’influenza negativa sul talento individuale dell’artista. Di buono c’è che, sebbene alcuni poeti siano inclini a seguire questo modello, la poesia è più difficile da corrompere perché tende a espellere il poeta corrotto.

Mandel'stam e la Achmatova

Mandel’stam e la Achmatova

FR

Ciò che trovo sorprendente nella sua poesia è la mescolanza fra uno scenario tipicamente caraibico e il continuo riferimento alla tradizione classica europea, greca, latina e non: Lucrezio, Dante, John Donne, tanto per fare alcuni nomi. Ho notato però che quanto più ci avviciniamo al secolo precedente, al ‘900, i vostri riferimenti sono quasi esclusivamente concentrati sui grandi russi: Achmatova, MandeI’stam. Come mai questa scelta e più in generale cosa rappresenta per lei il patrimonio classico della letteratura europea?

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

DW

Se leggo un libro di Pastemak, oppure, poniamo una traduzione dell’Odissea, la domanda terribile per me è: dove sono mentre leggo questo libro? Sono ai Caraibi, su una piccola isola, non c’è nulla intorno a me che possa evocare la storia: non ci sono rovine, non ci sono castelli, acquedotti ecc. Perciò, in quanto lettore, io mi trovo in una condizione molto elementare perché ho a che fare con gli elementi primari: il mare, l’aria, la natura, il vento. Questo è il mio contesto. La stampa non ha nulla a che vedere con il paesaggio che mi sta intorno.

Ma il senso della lettura è fortemente rafforzato dal fatto che mi trovo in una situazione dove dominano gli elementi. Per questa ragione non posso leggere con un senso della temporalità. Se si legge la stessa cosa in Italia, o a New York, essa entra immediatamente in un contesto, è un po’ come la parte di un ampio dizionario.

La condizione in cui mi trovo è quella dell’innocenza, che non è naturalmente ignoranza. Mi dico che sono fortunato per questo, perché ritengo che la lettura innocente, anche per un uomo della mia età, sia importante. In un certo senso leggere in questo modo porta molto vicino al processo stesso di formazione della poesia. In questo senso per innocenza non intendo il vuoto, il nulla, ma una disposizione a lasciarsi rinfrescare da ciò che si legge. Venendo più direttamente alla sua domanda, essere debitori verso i grandi autori del passato è per me naturale, mentre penso che per un artista europeo significhi anche portarsi sulle spalle un grande fardello; essere un pittore in Italia, per esempio, vuole dire portarsi un gran peso sulle spalle.

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Ciò che mi sorprese quando mi avvicinai le prime volte alla sua poesia era una certa mancanza di riferimenti ad altri autori del continente americano, sia del Nord sia del Sud. Per esempio, trovo che la natura sia molto importante nella vostra poesia e mi sono domandato spesso quale sia il suo rapporto, come lettore e anche come poeta, con Neruda, per esempio.

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Ovviamente quello che lei dice ha a che fare con la lingua. Se io fossi nato in una parte dei Caraibi di lingua spagnola, avrei certamente avuto un rapporto con quella letteratura. Il problema dei Caraibi è che le origini coloniali sono differenti; danesi, francesi, inglesi, spagnoli… Il temperamento delle diverse zone è molto diverso e questo è un valore grande; le Barbados sono molto inglesi, Guadalupe è molto francese. Quando sono entrato in contatto con scrittori latino-americani come Neruda oppure Gallego e altri ho riscontrato subito un’identità per quanto riguarda la storia, nel senso che abbiamo condiviso alcune esperienze: le grandi piantagioni, la schiavitù, per esempio. Per un certo periodo di tempo io sono passato attraverso la loro esperienza, posso dire di essere stato anche influenzato da Neruda, ma poi ho abbandonato quella strada perché c’era qualcosa di temperamentale che non mi si addice… Neruda per esempio può essere molto eccitante in un modo sbagliato per chi scrive in inglese perché l’enfasi nella pronuncia delle vocali spagnole non si addice alla lingua che uso come scrittore. Ci sono aspetti dello spagnolo che non mi piacciono: non amo per esempio il Lorca surrealista, così come il Gallego surrealista. Ecco, quando sento troppo la ridondanza dello spagnolo io divento molto inglese, non mi piace una certa pomposità. E’ una tipica reazione coloniale allo spagnolo e all’italiano. Naturalmente gli aspetti più duri di Lorca o di un Montale sono formidabili.                                                    ‘ .

walcott 4Per quanto riguarda il perché manchino riferimenti anche ai nord americani nella mia poesia, diciamo che non ho amato mai troppo il verso lungo, o diciamo troppo lungo, alla Whitman per intenderci, o anche alla Ginsberg; il metro è troppo spinto. Anche le teorie di coloro che sostengono l’espansione del verso facendola dipendere dal respiro, incluso lo stesso William Carlos Williams, mi sembra introducano una forzatura. C’è troppa teoria in questo modo di fare e non mi piace neppure l’opposto e cioè la contrazione eccessiva: volere a tutti i costi evitare il pentametro, coscientemente, mi sembra un esperimento: credo che i due estremi del verso troppo lungo o troppo corto vadano evitati.

walcott 1FR:

Il poeta deve stare bene attento a non lasciarsi invadere e deviare da teorie, da giudizi competitivi, da invidie e ambizioni, ma deve piuttosto cercare di pensare sempre che ciò che sta facendo non è per se stesso, ma per cercare qualcosa che il poeta crede esista e che si chiama poesia. E’ una strada lunga e bisogna stare attenti a non lasciarsi corrompere, vuol dire che bisogna credere nella moralità che il poema esprime direttamente in sé. In questo senso si può dire che vi è una forte approssimazione con l’umiltà del sentimento religioso, in altre parole in un certo modo il poeta è vicino al sacerdote, al prete, al monaco; in un altro senso il poeta deve rifiutare la pura conoscenza, l’eccessiva confidenza con le persone e le teorie sulla poesia. In ultima analisi quello che il poeta fa è creare il poema, questo è il suo compito ed è un compito arduo, prima di riuscire ad arrivare a questo occorre superare molti ostacoli terrificanti. Fare i conti con l’ibrido, con il maturare lento dell’opera nella testa… bisogna tornare al non sapere, all’ignoranza e questo è molto difficile da fare nel contesto contemporaneo dove ci sono molte teorie, molte reputazioni… vede quello che sta succedendo alla letteratura francese, per esempio…lì danno troppo ascolto ai critici, ai dibattiti universitari, alle parole dei dotti. Bisogna tornare a dire che la poesia è una sorta di miracolo cui si deve una devozione quasi religiosa. Probabilmente per lei Whitman è stato importante per il tono epico ed epico lirico della sua poesia….

walcott omeros copertinaDW

Sì, questo sì, mentre sono sospettoso della deliberata espansione del verso.

FR

L’attenzione per la metrica è costante nella sua poesia. Significa che siete riluttante e sospettoso nei confronti del verso libero?

DW

Ho scritto anche versi sillabici… In generale penso sia un problema che riguarda la personalità del poeta, però credo che ci debba essere il rispetto per certi limiti. Pensare, come le dicevo, di potere espandere o contrarre il verso artificialmente è un po’ egocentrico. Credo che occorra essere umili nei riguardi del verso. Quello che le dico può sembrare molto personale e persino privato ma proprio perché so di essere una persona ambiziosa, allora cerco di essere molto rispettoso dei limiti.

derek walcott pagina manoscritta

derek walcott pagina manoscritta

FR

Leggendo i suoi versi non vi è traccia, almeno superficialmente, di un’attenzione per la filosofia o la psicanalisi che per la cultura europea del secolo scorso sono stati due riferimenti quasi obbligati, anche per i poeti, insieme alle nuove scienze del linguaggio. Quale è il vostro atteggiamento nei confronti di queste discipline.

DW

Bene, lei mi scuserà se farò un paragone osceno nel rispondere a questa domanda. Fare poesia vuole dire entrare volontariamente in una prigione. In questa prigione si aggirano un sacco di teorie accademiche, c’è la semiotica e altro, la prima cosa da fare è preoccuparsi di non farsi inculare. Lei mi perdonerà, ma quello che voglio dire è che se uno sceglie di spendere la propria vita da

quaderno manoscritto di derek walcott

quaderno manoscritto di derek walcott

FR

Voi avete usato le parole sacerdote, religione; ma si possono sostituire queste parole con altre, tipo sciamano, divinità, sacro ecc?

DW

Vede, la parola sacerdote va per me usata in riferimento a William Wordsworth; a me piace dire sacerdote della natura perciò la devozione nei confronti della natura è ciò che io intendo quando uso la parola sacerdote e mi riferisco in primo luogo alla natura organica perché senza di essa nulla potrebbe esistere, l’ossigeno l’abbiamo dalla natura organica. Non importa quanto siano abili o famosi, ma ci sono scrittori che tendono a diventare cinici, è questo che rischiano quando si siedono alla scrivania e cominciano a scrivere poesie. Invece bisogna tornare a una innocenza radicale. Molti poeti sono complicati e sofisticati, ma proviamo ad andare al nocciolo della loro opera… Donne, Rimbaud, Auden, Eliot, Montale, quando arrivo al nucleo radiante della loro poesia io un po’ mi preoccupo.

walcott 2

derek walcott

FR

Voi avete detto sacerdote della natura e nella vostra poesia il rapporto con la natura è davvero essenziale. Ecco, cosa ne pensate di questo continuo forzare, da parte della scienza, i limiti naturali e di creare sempre più una seconda natura artificiale. Mi riferisco a tutto il problema delle biotecnologie, del transgenico ecc.

DW

Penso che si tratti di un’attitudine faustiana. Credo che occorra ritornare a provare la paura primordiale. Dobbiamo in un certo senso ritornare al rapporto con la divinità, con dio, accettare che vi sono dei limiti alla conoscenza umana. Le idee prometeiche o ulissiche, ciò che spinge a ripartire ancora una volta da casa per raggiungere altre mete… tutto questo è stato vero, fa parte della nostra storia, non può essere negato ma occorre avere la consapevolezza che quanto più si prosegue su questa strada tanto più tutto diventa più pericoloso. Si può andare avanti solo accettando il compiersi di un tragico destino…Tornando alla paura, tutto questo che le dico è vecchio quanto il mondo, l’ammonimento a non superare certi limiti è antico, ma si tratta di un atteggiamento opposto a quello della ricerca scientifica che richiede di andare sempre avanti, di superare le barriere. Andare avanti significa scoprire che nulla è intimo.

L’esplorazione della scienza in sé va bene, ma solo se si ha un’idea tragica di questo destino. Quello che voglio dire, in sostanza, è che se decido di compiere un certo passo devo assumermi la responsabilità di sapere che cosi facendo qualcosa di tragico potrebbe accadermi; se invece si va avanti senza assunzione di responsabilità, neppure nei confronti di se stessi, allora non va bene. E’ un atteggiamento antico anche questo… si dovrebbe sapere che non si diventa dio grazie a quella conoscenza: questo è un concetto basilare del mondo greco, ma anche del Medio Evo. Purtroppo siamo andati così avanti che stiamo perdendo quest’idea fondamentale e il potere dei poeti sta nella capacità di indicare questo destino tragico cui si va incontro. Questo non significa bloccare la ricerca scientifica ma fornire o tornare a fornire quel pensiero fondamentale che le dicevo, che l’idea di hybris, che è parte dell’idea di tragedia, dovrebbe essere investigata essa stessa.

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Mi sembra che piuttosto che la ricerca scientifica in sé voi siete preoccupato dell’ideologia di tipo ottimistico che si accompagna alla ricerca. E’ cosi?

DW

 Quello che voi dite è forse un po’ forzato. L’esperimento scientifico in sé non può essere giudicato in termini di moralità esterna a esso: da questo però scaturisce anche l’idea di potere fare qualsiasi cosa in nome della scienza. Quello che io affermo è che bisogna ritornare a una specie di formula medioevale che sappia contemplare la conservazione di certi aspetti dell’umanità. Il ruolo del poeta è proprio quello di rendere consapevoli del destino tragico. Quello che mi stupisce è che non c’è scrittura tragica intorno a questi temi, ciò che abbiamo è una specie di esaltazione superficiale, specialmente in opere teatrali o cinematogratìche: ciò che ci manca è la dimensione del tragico nel suo senso più alto. La scienza non può avere nessuna idea del tragico. E’ chiaro che se tutto viene misurato come esperimento diventa un bene clonare le pecore o addirittura gli esseri umani, ma io non sono affatto sicuro che la direzione della scienza debba essere questa… Capisco che dire ciò possa suonare ingenuo e persino stupido, ma è quel genere di stupidità che ci può salvare, quella paura che ti fa dire no, là non andarci, non fare questo ecc. I grandi poeti tragici in fondo hanno fatto ciò e io sono stupito che nonostante tutti gli orrori del ventesimo secolo noi abbiamo una mancanza di grandi scrittori tragici, non è forse strano questo?

walcott in occasione del premio nobel

derek walcott

FR

Sì, è strano, questo ha a che fare con il positivismo… con questa idea del progresso indefinito che è tipico della cultura occidentale…Torniamo a quello che lei diceva sul ritorno a una attitudine medioevale… A quei tempi era il sacerdote, uso anch’io questa parola nel senso in cui lei l’ha usata, a rappresentare questa idea del tragico, insieme ai grandi poeti. Il problema nostro è di domandarci chi possa farlo oggi: ancora i poeti voi dite, diciamo gli artisti in generale…

DW

Sulla parola arte e artisti non saprei, prenda la musica, è ottimistica in sé… Vediamo, le propongo un gioco accademico. Chi pensa lei abbia convogliato su di sé il senso del tragico nel 900; non dell’assurdo, non sto pensando a Beckett che trasforma il tragico in assurdo, così come altri del pensiero negativo, lonescu… Forse qualcuno c’è, Mandel’stam… e poi?

FR

Celan forse…

DW

 Sì però per Celan bisogna considerare che il suo punto di vista tragico dipende strettamente dalla sua esperienza… Domandiamoci per esempio perché non ci sono grandi tragici negli Stati Uniti: secondo me dipende dalla tecnica. Quando si pensa a un grande poeta americano si pensa subito a Whitman, che era un grande ottimista. Venendo a tempi più vicini, anche un Frost a me non pare rappresenti una forte idea del tragico. Questa del tragico è una questione che ossessionava anche Yeats. Il tragico, fra l’altro, ha a che fare con il suo opposto: nei grandi poeti tragici, al fondo c’è un nucleo di gioia. Bene, forse in questo senso la letteratura dei Caraibi ha qualcosa da dire, perché il senso del tragico ha al fondo qualcosa di gioioso, solo che questo si è trasformato spesso in una sorta di protesta nera e non stiamo parlando di questo ma di qualcosa che sa elevarsi a livello del terrifico e del sublime.

FR

E Kafka?

DW

Credo ci sia una differenza con quello che davvero raggiunge la sublimità della tragedia. Kafka, almeno quello che ho letto io, si è fermato anche lui a un certo punto.

FR

Nella Grecia antica la tragedia fu abolita, fu Pericle a farlo perché la tragedia non aveva soluzione, la catarsi, infatti, non lo è. Pericle disse che bisognava mettere fuori dalla polis un genere che non suggeriva soluzioni e lo disse in nome del governo della città e della sua stabilità. In un certo senso nella Grecia antica furono la politica e il controllo politico ad abolire la tragedia. Forse sta accadendo o è accaduto qualcosa di simile anche nel mondo contemporaneo occidentale.

DW

Sì, nei sistemi dittatoriali il cosiddetto bene comune detta delle regole molto restrittive, dice alle persone cosa è bene e cosa è male, mentre nella tragedia tutto fluttua, non c’è stasi. Sì forse c’è qualcosa di tragico nella legge dello stato, nella regola statuale. Il problema è che la legge dello stato viene obbedita, mentre non esiste più un potere diverso. Fra un dittatore e un buon papa scelgo quest’ultimo, sempre che non diventi un dittatore anche lui, perché se una religione diventa a sua volta autoritaria allora non va…

FR

Voi state dicendo che fra sentimento religioso e governo laico dello stato ci deve essere un certo bilanciamento di poteri… questo ai nostri tempi avviene forse soltanto nel mondo islamico, forse è in quel mondo che troviamo oggi un senso del tragico che qui manca.

DW

Sì, quello che lei tocca è un punto molto interessante.

Derek Walcott: tre poesie

Lontano dall’Africa

Un vento scompiglia la fulva pelliccia
Dell’Africa. Kikuyu, veloci come mosche,
Si saziano ai fiumi di sangue del veld.
Cadaveri giacciono sparsi in un paradiso.
Solo il verme colonnello del carcame, grida:
«Non sprecate compassione su questi morti separati!».
Le statistiche giustificano e gli studiosi colgono
I fondamenti della politica coloniale.
Che senso ha questo per il bimbo bianco squartato
nel suo letto?
Per selvaggi sacrificabili come Ebrei?

Trebbiati da battitori, i lunghi giunchi erompono
In una bianca polvere di ibis le cui grida
Hanno vorticato fin dall’alba della civiltà
Dal fiume riarso o dalla pianura brulicante di animali.
La violenza della bestia sulla bestia è intensa
Come legge naturale, ma l’uomo eretto
Cerca la propria divinità infliggendo dolore.
Deliranti come queste bestie turbate, le sue guerre
Danzano al suolo della tesa carcassa di un tamburo,
Mentre egli chiama coraggio persino quel nativo terrore
Della bianca pace contratta dai morti.

Di nuovo la brutale necessità si terge le mani
Sul tovagliolo di una causa sporca, di nuovo
Uno spreco della nostra compassione, come per la Spagna,
Il gorilla lotta con il superuomo.
Io, che sono avvelenato dal sangue di entrambi,
Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?
Io che ho maledetto
L’ufficiale ubriaco del governo britannico, come
sceglierò Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo?
Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?
Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo?
Come voltare le spalle all’Africa e vivere?

A wind is ruffling the tawny pelt
Of Africa. Kikuyu, quick as flies,
Batten upon the bloodstreams of the veldt.
Corposes are scattered through a paradise.
Only the worm, colonel of carrion, cries:
«Waste no conpassion on these separate dead!».
Statistics justify and scholars seize
The salients of colonial policy.
What is that to the white child hacked in bed?
To savages, expendable as Jews?

Threshed out by beaters, the long rushes break
In a white dust of ibises whose cries
Have wheeled since civilization’s dawn
From the parched river or beast-teeming plain.
The violence of best on beast is read
As natural law, but upright man
Seeks his divinity by inflicting pain.
Delirious as these worried beasts, his wars
Dance to the tightened carcass of a drum,
While he calls courage still that native dread
Of the white peace contracted by the dead.

Again brutish necessity wipes its hands
Upon the napkin of a dirty cause, again
A waste of our compassion, as with Spain,
The gorilla wrestles with the superman.
I who am poisoned with the blood of both,
Where shall I turn, divided to the vein?
I who have cursed
The drunken officer of British rule, how choose
Between this Africa and the English tongue I love?
Betray them both, or give back what they give?
How can I face such slaughter and be cool?
How can I turn from Africa and live?

[da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi]
A far cry from Africa

***

Il naufrago

L’occhio affamato divora la marina per un tozzo
di vela.

L’orizzonte la percorre all’infinito.

L’azione nutre la frenesia. Io giaccio,
veleggiando l’ombra nervata di una palma,
temendo il moltiplicarsi delle mie impronte.

Sabbia che vola, esile come fumo,
annoiata, sposta le sue dune.
La risacca si stanca dei suoi castelli come un bambino.

La verde vite salata con gialle bignonie,
una rete, attraversa lenta il nulla.
Nulla: la rabbia di cui è piena la testa del flebotomo.

Piaceri di un vecchio:
mattino: contemplativa evacuazione, rimirando
la foglia secca, progetto di natura.

Al sole, le feci del cane
s’incrostano, sbiancano come corallo.
Finiamo nella terra, dalla terra siamo cominciati.
Nelle nostre viscere, genesi.

Se ascolto posso udire il polipo al lavoro,
il silenzio infranto da due onde del mare.
Schiacciando un pidocchio marino, faccio schiantare il tuono.

Come un Dio, annullando la divinità, l’arte
e l’Io, abbandono
morte metafore: il cuore simile a foglia di mandorlo,

il cervello maturo che marcisce come una noce gialla
covando
la sua babele di pidocchi marini, flebotomi e bruchi,

quel vangelo della bottiglia verde, soffocato di sabbia,
con l’etichetta, una nave affondata,
serranti legni marini inchiodati e bianchi come la mano di un uomo.

The Castaway

The starved eye devours the seascape for the morsel
of a sail.

The horizon threads it infinitely.

Action breeds frenzy. I lie,
sailing the ribbed shadow of a palm,
afraid lest my own footprints multiply.

Blowing sand, thin as smoke,
bored, shifts its dunes.
The surf tires of its castles like a child.

The salt green vine with yellow trumpet-flower,
a net, inches across nothing.
Nothing: the rage with which the sandfly’s head is filled.

Pleasures of an old man:
morning: contemplative evacuation, considering
the dried leaf, nature’s plan.

In the sun, the dog’s feces
crusts, whitens like coral.
We end in earth, from earth began.
In our own entrails, genesis.

If I listen I can hear the polyp build,
the silence thwanged by two waves of the sea.
Cracking a sea-louse, I make thunder split.
Godlike, annihilating godhead, art
and self, I abandon
dead metaphors: the almond’s leaf-like heart,

the ripe brain rotting like a yellow nut
hatching
its babel of sea-lice, sandfly, and maggot,

that green wine bottle’s gospel choked with sand,
labelled, a wrecked ship,
clenched sea-wood nailed and white as a man’s hand.

[da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi]

***

Il negro rosso che ama il mare

Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.

I’m just a red nigger who love the sea,
I had a sound colonial education,
I have Dutch, nigger, and English in me,
and either I’m nobody, or I’m a nation

[da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi]

***

Mappa del nuovo Mondo

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All’orlo della pioggia, un vela.

Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un’intera razza.

La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.

Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell’Odissea.

[da Mappa del nuovo Mondo]

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Alfonso Berardinelli LA POESIA DEL NOVECENTO – DA RILEGGERE: SBARBARO, CAMPANA, REBORA I MODERNI con un Commento breve di Giorgio Linguaglossa

Riproponiamo questo breve appunto di Alfonso Berardinelli sulla poesia italiana pubblicato nel 2010 nella speranza che qualcuno tra i lettori voglia esprimere la propria opinione.

franco fortini 1(Avvenire, 22 gennaio 2011)pier paolo pasolini

Che cosa sappiamo e pensiamo, ormai, del­la poesia italiana del Novecento? L’argo­mento non sembra suscitare interesse. I dibattiti, le polemiche, gli scontri degli anni Ses­santa e Settanta appartengono a un’epoca remo­ta. Oggi sarebbero inimmaginabili. Sperimenta­lismo, avanguardia, impegno, formalismo sono termini fuori corso. La lingua degli ideologi di al­lora (Fortini, Pasolini, Sanguineti) è quasi intra­ducibile. Nelle università sulla poesia non si fan­no corsi, non si danno tesi di laurea: quando av­viene, si tratta di eccezioni. È perfino raro che si organizzi un convegno sulla poesia contempora­nea.

Eugenio Montale

Eugenio Montale

 Eppure qualcosa è avvenuto a Berlino per i­niziativa di Angelo Bolaffi, che dirige l’istitu­to italiano di cultura e si è impegnato in questi an­ni a spiegare ai tedeschi il Novecento italiano. Co­sì, alla fine, è arrivato il turno della poesia. A metà gennaio tre giorni di letture, conferenze, semina­ri sono stati dedicati alla nostra poesia dall’inizio del Novecento a oggi, con il coinvolgimento del­la Freie Universität e della Literaturwerkstatt. Par­tecipanti: Romano Luperini, Patrizia Cavalli, Giu­lio Ferroni, Antonella Anedda, Roberto Galaver­ni, Anna Maria Carpi, Patrizia Valduga, io stesso. Il laboratorio di traduzione è stato condotto da Theresia Prammer, Camilla Miglio e Piero Salabè.
I risultati? La poesia dell’intero Novecento an­drebbe riletta e anche sul presente non manca­no i disaccordi. Dell’ermetismo non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per il suo primo libro.

mario luziLuzi diventa interessante se letto accanto ai suoi coetanei Sereni, Caproni, Bertolucci: che secon­do alcuni superano i più giovani Pasolini e Zan­zotto. Il primato di Montale e Saba resta indi­scusso. Penna e Amelia Rosselli hanno influenzato più di ogni altro le giovani generazioni. Giovanni Giudici (vero erede di Gozzano e Saba) è quasi di­menticato. La neoavanguardia anni Sessanta è stata soprattutto una costruzione ideologica. Più che Marinetti (poeta-vate elettrizzato) i veri mo­derni sono stati Sbarbaro, Campana, Rebora. Quanto a me, ho definito il postmoderno «speri­mentalismo neoclassico».

Commento breve di Giorgio Linguaglossa

Per far fare un passo in avanti alla poesia italiana del nuovo secolo credo che occorra fare i conti con il più grande poeta del Novecento: Eugenio Montale, riprendere la lezione del modernismo europeo, superare la poesia scettico-cinica di Montale di Satura (1971) e considerare che nelle nuove condizioni della civiltà mediatica (una vera e propria rivoluzione) sia necessaria una riflessione sulle ragioni che oggi fanno apparire invecchiata la poesia di autori che cita Berardinelli in questo breve appunto: in primo luogo derubricare la poesia di Giovanni Giudici, troppo legata alla ideologia piccolo borghese degli anni Sessanta, e prendere le necessarie distanze da un poeta a mio avviso sopravvalutato come Sereni.

Al contrario di Mengaldo, io non considero un «capolavoro» il primo libro di Sereni, gli preferisco l’ultimo, Stella variabile del 1981 dove padroneggia meglio il registro medio-basso ed ha ormai assimilato l’abbassamento stilistico e lessicale delle sua poesia che aveva perseguito lungo quattro decenni di lavoro. Fu un risultato duraturo per la poesia italiana? Forse sì, e forse no. A breve termine sicuramente sì. La vittoria incontrastata di Sereni significò però l’abbandono di un’altra via che era stata tracciata e abbozzata dalla poesia di un Fortini il cui ultimo libro paradigmatico, Composita sovantur (1994), indicava almeno nelle intenzioni una diversa idea di sviluppo per la poesia italiana a venire. È stato un bene?, è stato un male?. Ai posteri l’ardua sentenza. Io ritengo che porre in questi termini la questione Sereni significa non voler vedere gli elementi irrisolti e di derivazione dal post-ermetismo che sono presenti come retaggio nella poesia di Sereni e che l’omissione di tale problematica non sia utile alla poesia italiana, tanto meno è utile la «deificazione» di un poeta e di un modo di fare poesia.

Considero inoltre la poesia di Clemente Rebora una operazione incompleta e insufficiente sotto il profilo della forma, ancora troppo mistica e poco formalizzata in uno stile. Si percepisce nella poesia di Rebora un avvicinamento ad uno stile proprio ma non uno stile compiuto.

Quanto alla esperienza della neoavanguardia e del successivo post-sperimentalismo, ritengo che sia stata una esperienza significativa e utile, e anche sotto certi aspetti inevitabile, da ricondurre a una forma di reazione alla poesia dei post-ermetici, utile almeno come campionario di possibilità linguistiche e stilistiche inespresse e non definite in uno stile riconoscibile che si è dissolto in una miriade di tentativi.

A mio avviso, siamo ancora al punto daccapo. Ci sono oggi però degli spunti e delle esperienze poetiche molto significative che vanno in direzione di una ricostruzione di una poesia che abbia le sue fondamenta sullo zoccolo duro della poesia del modernismo europeo.

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CORRISPONDENZA IN VERSI TRA ALFREDO DE PALCHI e ANTONELLA ZAGAROLI (fine 2010 e gennaio 2011) – Inediti Parte II. Con nota in calce di Giorgio Patrizi

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 Riceviamo e pubblichiamo questa inedita corrispondenza in versi tra due poeti risalente a un periodo antecedente il loro incontro. È un dialogo tra «ciechi», li divide l’Atlantico e li unisce il sottile filo di un discorso seduttivo-indagatorio. La «forma-poesia» diventa il luogo della erotesis, una forma retorica che introduce una recitazione,una finzione se vogliamo, un dire indiretto che procede a zig zag, non per la via più breve ma per quella più adiacente e tangente alla «cosa» di cui qui si discetta; è una tenzone, una scherma, o meglio, il luogo di una scherma, il luogo delle abilità nel maneggiamento del fioretto, con improvvisi assalti e repentini arretramenti. E la «forma-poesia» diventa il regolo, anzi, l’unico regolo entro il quale l’arte della scherma può brillare. (g.l.)

grattacieli-new-york

grattacieli-new-york

Antonella Zagaroli è presente nella critica e in diverse antologie di poesia contemporanea italiane, francesi, inglesi, americane. Ha pubblicato La maschera della Gioconda, Terre d’anima, La volpe blu, Serrata a ventaglio, il romanzo in versi Venere Minima, un’antologia tratta da alcune sue opere tradotta in inglese Mindskin A selection of poems 1985-2010 – Chelsea Editions New York, 2011; due testi teatrali rappresentati Il Re dei danzatori, Come filigrana scompostaracconto d’amore tango e poesia e in collaborazione con fotografi e pittori le raccolte La nostra Jera, Trasparenze in vista di forma e le Istallazioni poetiche in mostra da Settembre-Dicembre 2012 a Pienza. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook. Come traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (rivista Hebenon aprile-novembre 2010e la plaquette One Columbus leap, Il balzo di Colombo della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (2012), Hosanna- Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense. Specializzata in Poetry Therapy (USA), dal 1995 scrive articoli e testi specialistici sul senso psicologico dell’arte.

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

New York bank-of-america-tower

New York bank-of-america-tower

«L’originalità e l’indipendenza in campo poetico di Alfredo de Palchi (nato nel 1926) sono da tempo accertate. Come poeta italiano che vive negli Stati Uniti da più di cinquanta anni, che continua a scrivere esclusivamente in italiano, e le cui opere sono state in buona parte tradotte in inglese, de Palchi emerge per i suoi tersi e tesi versi svolti con sintattica audacia, per i salti semantici (ciò che richiama il concetto di Josif Brodskij di poesia che “accelera il pensiero”), e per l’auto-analisi mai sentimentale, con tonalità che vanno dal sarcasmo alla glorificazione dell’Eros. Gli argomenti poetici l’autore li trae dalla propria esperienza, e ciò vale in particolare per la produzione giovanile, che evoca il ragazzo povero e orfano del padre, le sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale e l’ingiusta carcerazione subita nel dopoguerra. Negli anni successivi, de Palchi lascia alle spalle le sofferenze del tempo di guerra, e volge invece lo sguardo al rapporto uomo-donna, esaltando il piacere sessuale. Si interessa anche alla scienza, in particolare alla biologia e alla geologia. Il modo preciso e nel contempo idiosincratico con cui il poeta introduce la scienza nella sua visione tragica del comportamento dell’uomo e in genere della condizione umana, già da solo lo distingue da altri poeti europei e americani suoi contemporanei. La produzione recente mette in scena la lotta del poeta con una figura che sembra rappresentare la morte. Una ricca scelta dell’opera poetica di Alfredo de Palchi con testo a fronte si trova in: ParadigmNew and Selected Poems 1947-2009 (Chelsea Editions, 2013). I lettori italiani possono consultare Paradigma: tutte le poesie 1947-2005 (Mimesis / Hebenon, 2006) e Foemina Tellus (Joker, 2010). Si veda anche la raccolta di saggi Una vita scommessa in poesia: Omaggio ad Alfredo de Palchi (edita da Luigi Fontanella, Gradiva Publications, 2011)». (John Taylor)

Alfredo De Palchi

Vuoi calma nella testa
e ti appaghi tramutando i frantumi
della bussola
in clessidra fuori vetro
che non conti il tempo del navigare
intorno alla marea

di notte ti leghi al collo
la solitudine e la paura
una catenella d’oro di salvataggio
per obliarti––non puoi
obliarti sotto un lenzuolo di seta.

notte 24 settembre 2010

Antonella Zagaroli Alfredo de Palchi, Venezia 2011

Antonella Zagaroli Alfredo de Palchi, Venezia 2011

Antonella Zagaroli

Ingoiata dalla tua sete
mi aggiro fra nervosi sussulti

giorno e notte. Capovolti
succhiamo forte l’attesa che evapora nell’affanno
verso il piacere della mente

allattiamo il nostro sonno solitario
dentro lenzuola di candido lino

mattina 25 settembre 2010

 

 

Alfredo De Palchi

Mammelle di lingue a riempire la bocca
il latte del cuore che pompa veloce
sotto la costola migliore

uncinato ai tuoi fianchi che fanno onde
non calo nel vuoto
estraggo emotive ricchezze di minerali
da ossee colline e valli
dalla schiena ai piedi
l’abbraccio delle cosce preme
alla mia gola
goccia per goccia. . .

mattina 25 settembre 2010

Andy Warhol

Andy Warhol

 

 

Antonella Zagaroli

Dove sono nelle foto appena arrivate?
Quale tempo è il mio?
Rimarrò gravida vedova bianca?

ore 12.15 25 settembre 2010

 

 

 

 

Alfredo De Palchi

Sei nella foto-pupilla
e nasci centimetro per centimetro

anni di attese
fino a questi giorni di misure

aspetto che il tempo si accomodi
sereno nella tua mente
io accolto
con spirito felice a seccare
fra l’erba del fosso
lungo l’asfalto che entra a Roma.

pomeriggio 25 settembre 2010

andy warhols jackie kennedy 1964

andy warhols jackie kennedy 1964

 

Antonella Zagaroli

Consola la minuscola allodola
vergine senza nome
a volte rondine e “nigger”
resa chiara da una mente senza piedi

ore 12.40 25 settembre 2010

 

 

 

 

Alfredo De Palchi

Non ha senso
consolare una rondine

come minuscola allodola
voli nei tuoi spazi
arrivi alle città diroccate
e nel tragitto ti accorgi che
helas, la chair est triste.

pomeriggio 25 settembre 2010 Continua a leggere

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SUL TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (Stige o Acheronte) – Quattro Poesie di Nazario Pardini

arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

Arnold Böcklin (1827-1901) dipinse diverse versioni del quadro fra il 1880 e il 1886. L’opera fu estremamente popolare all’inizio del XX secolo e affascinò personaggi come Sigmund Freud, Lenin, George Clemanceau, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio. Adolf Hitler ne possedeva una versione originale, acquistata nel 1936.

Tutte le versioni del dipinto raffigurano un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura. Una piccola barca a remi, condotta da una persona a poppa, si sta avvicinando all’isola. A prua ci sono una figura vestita di bianco e una bara bianca ornata di festoni. L’isolotto è dominato da un bosco fitto di cipressi, associati da lunga tradizione con i cimiteri e il lutto, circondato da rupi scoscese. Nella roccia sono presenti quelli che sembrano essere portali sepolcrali. L’impressione complessiva è quella di uno spettacolo di desolazione immerso in un’atmosfera di mistero.

nazario pardini ulisse 3 Arnold Böcklin non ha fornito alcuna spiegazione pubblica circa il significato del suo dipinto, anche se l’ha descritto come «un’immagine onirica: essa deve produrre un tale silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura». Il titolo, che gli è stato dato dal mercante d’arte Fritz Gurlitt nel 1883, non è stato specificato da Böcklin, anche se deriva da una frase scritta in una lettera inviata nel1880 ad Alexander Günther, che aveva commissionato l’opera. Non conoscendo la storia delle prime versioni del dipinto, molti critici d’arte hanno interpretato il vogatore come una rappresentazione di Caronte, che nella mitologia greca conduceva le anime agli inferi. L’acqua è quindi il fiume Stige o l’Acheronte, e il passeggero vestito di bianco un’anima recentemente scomparsa in transito verso l’aldilà.

Ulysses and the Sirens, mosaic, 3rd century AD Roman from Dougga/Thugga, Tunisia   Photo Credit: [ The Art Archive / Bardo Museum Tunis

Ulysses and the Sirens, mosaic, 3rd century AD Roman from Dougga/Thugga, Tunisia
Photo Credit: [ The Art Archive / Bardo Museum Tunis

 La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga.
L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi.
Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

 

 

Nazario Pardini

Nazario Pardini

Nazario Pardini

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

 

apollo e dafne

apollo e dafne

Il peso delle pietre

E ci portiamo dietro questo peso
di pietre graffite da nomi
di padri e di madri
volati all’azzurro.
Di pezzi di muro
tatuati da dita intrecciate di sogni
per dire: “Ti amo.”
Di gerle di sere
d’incontri d’amore
corrose da acide piogge di tempo.
Di sguardi di lava volati nel cielo
e tornati a pesare.
E di forza rocciosa
sgretolata da ore, da giorni
in pese parole
restate nell’animo
e poi andate a sostare.
Lo porterò con me oltre quel fiume
quel sacco di pietre aggrappato alle spalle.
Lo renderò leggero,
lo renderò una piuma,
per fargli guadare quel fiume,
per farlo volare.
L’abbraccerò con tutto il suo sapore
di terra coltrata, di verde di mare,
di luce di sole, di perse parole
per non farlo morire.

(Da I canti dell’assenza, inedito)

 

apollo e dafne

apollo e dafne

 Oltre quel muro

La notte
ai flebili lumi
e fra le stelle
belle le mie anime
sul prato al cimitero;
all’ora tarda,
quando i viventi
sono nei giacigli,
s’incontrano tra i tigli
ed i cipressi.
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l’odore di cera
e il fumo della notte,
tra l’esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l’agognato arrivo
vola di gioia.

Restano le anime
fino a notte fonda,
non odi parole di spiriti,
ma vedi l’aria che vibra,
l’aria che tocca le fronde,
le lievi foglie
alle soglie dei sepolcri.
La vita, la morte,
le corte strade,
le rade immagini dei viventi,
gli spenti visi del passato:
tutto è beato ora.

Il regno dei morti
vive di nuovo,
sorge alla penombra
e si anima nel tardi;
se guardi sotto l’ombre
dei cipressi,
i tramonti attendono l’oscuro,
il puro regno
oltre quel muro
dei nostri cimiteri.

(Da I simboli del mito, Pomezia 2013) Continua a leggere

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UNA POESIA DI GOTTFRIED BENN (1886-1956) “La bocca di una ragazza” – Commento di Walter Siti  

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L Edwin Kirchner autoritratto

L Edwin Kirchner autoritratto

da la Repubblica del 13 aprile 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Schőne Jugend
Der Mund eines Mädchens, das lange im Schilf gelegen hatte,
sah so angeknabbert aus.
Als man die Brust aufbrach, war die Speiserő hre so lő cherig.
Schließlich in einer Laube unter dem Zwerchfell
fand man ein Nest von jungen Ratten.
Ein kleines Schwesterchen lag tot.
Die andern lebten von Leber und Niere,
tranken das kalte Blut und hatten
hier eine schő ne Jugend verlebt.
Und schő n und schnell kam auch ihr Tod:
man warf sie allesamt ins Wasser.
Ach, wie die kleinen Schnauzen quietschten !

1912

 

Bella gioventù

 

La bocca di una ragazza, che era rimasta a lungo nel canneto,
appariva tutta rosicchiata.
Quando le venne aperto il petto, l’esofago era crivellato di buchi.
Si trovò infine in una pergola sotto il diaframma
un nido di giovani topi.
Una piccola sorellina era morta.
Gli altri vivevano di fegato e reni
bevevano il freddo sangue ed era
quella passata qui una bella gioventù.
E bella e rapida venne anche la loro morte:
furono gettati tutti insieme nell’acqua.
Ah, quei musini come squittivano !

(traduzione di Ferruccio Masini)

gottfried benn van goghgottfried benn quadro

La descrizione è di una crudezza quasi insopportabile: la bocca rosicchiata della ragazza stesa sul tavolo dell’obitorio, il petto squarciato e l’esofago fitto di lacerazioni. Poi, fonte di massima provocazione, cuore terroristico del testo, la nidiata di topi scoperta sotto il diaframma. Ribrezzo e sorpresa, anche se quel “rosicchiata” poteva servire da indizio. I topolini si nutrono di fegato e reni, e bevono il sangue che si è fissato nelle ipostasi del cadavere. Contrariamente a quel che si può pensare, la coagulazione del sangue è un processo attivo e quindi nei morti il sangue resta liquido; la descrizione è tecnica, fatta da qualcuno che se ne intende. Una femmina della nidiata è già morta. Il gioco tra morto e vivo è la struttura portante della poesia: c’è un corpo morto, quello della ragazza, che si fa contenitore di vita  –  i topolini trascorrono, in quel ricovero accogliente, una bella gioventù. In un testo così terribilmente letterale l’unica metafora forte (la “pergola” per indicare l’aggetto del diaframma che fa da riparo) suggerisce il rigoglio naturale del fogliame. Ma la morte, incarnata nella sorellina, giace accanto alla vita; e la bella gioventù finisce con una bella morte  –  il “shon und schnell” (coppia allitterante) tuffo nell’acqua; la ragazza nel canneto c’era rimasta a lungo, i topolini muoiono subito. Se per sottrarci all’orrore c’eravamo rifugiati nell’ottica dei topi, incuranti di ciò che li nutre e innocenti di ogni beffarda proiezione umana, è proprio da quell’innocuo punto di vista che arriva l’ultima stilettata: noi stessi siamo quei poveri musini squittenti, condannati a morte mentre escono da un cadavere.

Gottfried Benn 1918

Gottfried Benn 1918

Sono loro che vengono puniti per la profanazione, o è l’autore che si punisce (sadomasochisticamente) per la propria sarcastica crudeltà ? Quando Benn scrisse questa poesia aveva ventisei anni, e non era stato un poeta precoce; le poesie di Morgue (parola francese che indica l’obitorio) sono praticamente le sue prime. “Si avventarono tutte nello stesso momento”, così Benn in una pagina autobiografica, “prima di esse non esisteva nulla… alla fine restai vuoto, affamato, barcollante e me ne uscii in silenzio dal grande sfacelo”. A quel tempo era ufficiale medico a Berlin-Spandau; l’esperienza della dissezione anatomica diventa l’ordigno che fa esplodere una visione del mondo. Queste poesie sono uno sfogo, una liberazione dallo shock. Il “man” impersonale (“le si aprì il petto…si trovò”) racchiude un “ich”: in un’altra poesia della raccolta parla di un autista di birreria a cui qualcuno (forse per scherno) ha messo in bocca un fiorellino  –  “io”, scrive Benn, “devo averlo urtato asportando palato e lingua” e “io, ricucendo, glielo sistemai nell’addome”. Anche lì la vita, fragile, a contrasto col ripugnante ingombro del cadavere. E lo sberleffo, la stridula allegria.

gottfried benn

gottfried benn

Gottfried Benn nel suo studio

Gottfried Benn nel suo studio

Siamo agli inizi dell’espressionismo tedesco, di quella cattiveria splatter che intende smascherare l’ipocrita barbarie borghese e il putrido opportunismo socialdemocratico; esasperando la freddezza chirurgica dei veristi (in fondo pietosa e solidale), Benn arriva a un nichilismo che riduce l’uomo alla propria carne: “la corona della creazione, il maiale, l’uomo”. Da bravo figlio ribelle di un pastore protestante, i suoi cadaveri tagliati scientificamente sono una mostruosa e irridente palinodia della resurrezione dei corpi. Della ragazza, nel nostro testo, si mettono in evidenza la bocca e il petto, cioè i luoghi canonici dell’erotismo; il tavolo dell’obitorio come alcova e altare, da cui si origina la vita. Per una di quelle scelte che illuminano un destino, Benn deciderà di lavorare, per trent’anni, come specialista in malattie veneree; costretto a visitare ogni giorno “Dio rovesciato sui genitali come un copriformaggio”. Faccio fatica a considerare questa un’atroce poesia realistica: mi pare piuttosto un atto di misticismo rovesciato, una meditazione sui novissimi (cioè sulle realtà ultime della religione su cui affaticarsi laicamente). Un nero mistero con sacrificio finale. Non c’è regolarità metrica e l’unica rima (Ratten  –  hatten) è casuale; i tagli metrici sono determinati dall’oltranza stessa della visione, come se fosse necessario riprendere fiato dopo ogni sequenza. Continua a leggere

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Alfonso Berardinelli – Wisława Szymborska, LA POESIA DELL’APPARENTE LEGGEREZZA – DUE POESIE: “Possibilità” e “Conversazione con una pietra”

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

da Il Sole 24Ore – Domenica, 9 febbraio 2014

Wisława Szymborska (1923-2012). Nella sua apparente leggerezza c’è un’instancabile e passionale tenacia che ha la funzione fondamentale, igienica, di disintossicare da idee generali, idoli e miti.

Prima che ricevesse il Nobel, quando ancora non sapevo che Wisława Szymborska esisteva nella realtà, sentivo il bisogno di inventarla. Prima di leggere la sua poesia, credo di averla immaginata e sognata. Mi ero convinto, ancora confusamente, che il suo era un modo di scrivere poesie di cui in Italia avevamo bisogno. Non voglio dire con questo che non ci fossero da noi buoni e ottimi poeti. Avevamo senza dubbio una tradizione novecentesca che si era conclusa, o esaurita, con gli ultimi libri di Montale; con i caotici, improvvisati poemetti e poesie giornalistiche di Pasolini; con il manierismo virgiliano-lacaniano di Zanzotto; con la teologia negativa in epigrammi aforistici di Giorgio Caproni; con la polimorfica, satirico-patetica «vita in versi» di Giovanni Giudici. Si potrebbero aggiungere altri nomi: anzitutto Sandro Penna e Amelia Rosselli, molto amati, se non imitati, dagli anni Ottanta in poi.

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

Ma dopo? L’interruzione di continuità è stata evidente. Almeno a partire dalla mia generazione, entrata in scena intorno al 1975» si ricominciava più o meno da zero, dopo aver dato la poesia per finita. È quando all’improvviso la vitalità della poesia è stata riscoperta e continuamente riaffermata (anche con troppa fede, una fede sospetta) ci si è accorti che i poeti erano diventati veramente troppi. C’era dunque di che sognare, e io sognavo una poesia che somigliasse almeno un po’ a quella della Szymborska. So bene che augurarsi un particolare tipo di poesia è un peccato contro la natura dell’invenzione artistica, che è e deve restare imprevedibile. Sono nemico delle poetiche programmatiche. I programmi sono quasi sempre attraenti per definizione, ma il giudizio deve riguardare i fatti, i risultati, non le intenzioni. Cercherò tuttavia di spiegare perché il mio sogno della Szymborska nasceva, come tutti i sogni, per compensare i difetti di una certa realtà.

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

Qualunque lettore può notare nelle poesie della Szymborska una serie di caratteristiche che, messe insieme, la rendono inconfondibile. Ne elenco alcune: immaginazione sfrenata e occasioni di vita quotidiana; inclinazione umoristica e perfino comica; giochi di parole mai separati da giochi di idee e immagini; una dialettica della composizione che fa incontrare gli opposti e mette l’identico in contraddizione con se stesso; ironia e pathos che nascono l’uno dall’altro; estro e audacia intellettuali che coincidono con la perizia tecnica. Quasi tutte queste cose mancavano nella poesia italiana, o erano isolate l’una dall’altra e quindi non si rafforzavano a vicenda, restando spesso una semplice aspirazione. Abbiamo avuto per esempio un paio di poeti capaci di esibire uno stile di pensiero, senza che avessero davvero un pensiero a giustificare quella forma.

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

Detto questo, devo aggiungere una cauta precisazione, almeno una: è così, salvo eccezioni. Queste eccezioni si trovano recentemente soprattutto nella poesia scritta da donne, che però non definirei “femminile”, sia perché non rivendica diritti di genere né isola una tematica di esclusiva marca femminile; sia perché ha esattamente quelle caratteristiche che tradizionalmente, secondo una vecchia convenzione, venivano invece attribuite agli uomini: lucidità intellettuale, spregiudicatezza, coraggio, mancanza di sentimentalismo, distacco ironico, libertà di pensiero, energia espressiva e comunicativa, indipendenza da modelli. Il successo italiano della Szymborska è parallelo all’emergere da noi di un nuovo stile poetico del tutto privo di esoterismi e gergalismi poeticizzanti, privo di vaghe allusività, automatismi associativi, nebulosità semantica, indeterminatezza metrica.

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

 Chi voglia farsi un’idea di quello che dico, può cercare i libri di Patrizia Cavalli, Bianca Tarozzi, Anna Maria Carpi, Alba Donati, che hanno tutte pubblicato in questo ultimo anno. Nessuna di loro naturalmente imita la Szymborska. Di lei ha scritto la Donati che la sua poesia è carica «di enigmi e di prodigi, commuove e ci rende allegri, spinge alla meditazione e ci trascina in cielo come aquiloni».
Ogni poeta ha un suo metodo, ma il metodo della Szymborska appare sempre in primo piano. La sua tecnica, i procedimenti e i meccanismi con cui costruisce le sue poesie sono visibili, vengono esibiti. Non sono solo forma; o meglio sono la forma della cosa che viene detta e che di per sé forse neppure basterebbe. Se avessi il coraggio di fare un’ipotesi che non sono in grado di sostenere con nessuna prova, direi che in questo singolare metodo si incontrano le assurde meraviglie di Alice e la prassi conoscitiva della dialettica, quella di Marx e Engels, soprattutto di Engels, ma anche di Eraclito (il quale compare in una poesia). È possibile che del marxismo onestamente imparato in gioventù, alla Szymborska sia rimasto questo metodo dialettico che fa muovere, fa ballare le cose e ogni entità statica, convenzionale, autoritaria.

In una delle poesie contenute nel suo vero libro di esordio, Appello allo Yeti, del 1957, si leggono queste due strofe: «Nulla due volte accade / né accadrà. Per tal ragione / si nasce senza esperienza, / si muore senza assuefazione (…) Non c’è giorno che ritorni, / non due notti tutte uguali, / né due baci somiglianti, / né due sguardi tali e quali» (Nulla due volte).

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

 Che sia vero o no, è questa la cosa che l’autrice trova interessante. Se si è capace di notarla, la differenza non fa sentire la ripetizione. Szymborska nota più la prima che la seconda, se ne rallegra, ci si diverte, ne è ispirata. La sua arguzia la aiuta a non cadere nel generico. Va a cercare, o trova subito, la singolarità. Per questo non si annoia, non ci annoia. Nella vita comune, questa poesia afferra ciò che comune non è. Se niente si ripete davvero, tutto è ogni volta interessante e da non perdere.
Il singolare, famoso sorriso della Szymborska, che vediamo in tutte le sue foto, è un sorriso di divertimento e di sfida. Nella sua apparente leggerezza c’è un’instancabile e passionale tenacia. Sembra quasi che la sua poesia voglia avere una funzione. In realtà, ha solo quella, fondamentale, igienica, di disintossicare dalle idee generali che diventano idoli e miti quando le facciano vivere al di sopra delle circostanze. In un’intervista rilasciata a Francesco Groggi alla Repubblica», 7 aprile 2008*, alla domanda su quale ruolo può avere la poesia contro i miti contemporanei, la risposta della Szymborska è: «Un ruolo molto piccolo, quasi nullo. Ma bisogna credere in ciò che si fa». La poesia è una sfida alle idee generali e al gran mondo della storia. Richiede una fede personale che non ha quasi fondamento pubblico.

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

 È questa qualità intellettuale e dialettica, è il ritmo nella costruzione dei significati, che ha permesso alla Szymborska di resistere bene, meglio di altri autori, alla rischiosa avventura della traduzione. Si perde un po’ di musica, di allitterazioni, di omofonie eccitanti e comiche, ma il ritmo strutturale e il gioco concettuale rimangono illesi. Oltre alla musica verbale c’è una musica del pensiero.
C’è il ritmo dialettico della scoperta e dell’indagine mentale. Il mondo delle meraviglie è dunque qui, è il nostro. Si dilata e si contrae, dal cosmico al quotidiano, dalla preistoria all’attimo presente, purché si rovesci l’apparenza immediata e si sappia che c’è sempre altro da pensare, c’è sempre un «rovescio della medaglia». È uno «spasso» (così si intitola uno dei suoi libri) questo mondo singolare e plurale, maschio e femmina, presente e passato, realtà e possibilità, caldo e freddo, alto e basso. I modi e le forme della grammatica si mescolano con ciò che si legge nei libri di scienze, geografia, paleontologia e storia.

Divertimento, teatralità, acume dialettico, imprevedibili assurdità, devozione al dettaglio: tutte cose che auguravo alla poesia italiana. Nella stessa intervista che ho citato, la conclusione della Szymborska è questa: «La maggior parte delle persone non si dà la pena di pensare con la propria testa (o perché non può, o perché non vuole), e di conseguenza, è facilmente preda di suggestioni collettive. Qualcuno ha detto che le persone si istupidiscono all’ingrosso e rinsaviscono al dettaglio. Dunque amiamo e sosteniamo i casi al dettaglio».

[*Francesco Groggia, I paradossi della poesia, intervista con Wisława Szymborska «La Repubblica», 7 aprile 2008]

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Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa su tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d’altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti,
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

 

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

Conversazione con una pietra

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
– Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

(da “Sale” 1962)

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SUL  TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (STIGE o ACHERONTE) – Claudio Damiani “L’isola natante” da “Eroi” (2000) e altre due poesie 

arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

Isola di morti, versione originale

Isola di morti, versione originale

 Arnold Böcklin (1827-1901) dipinse diverse versioni del quadro fra il 1880 e il1886. L’opera fu estremamente popolare all’inizio del XX secolo e affascinò personaggi come Sigmund Freud, Lenin, George Clemanceau, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio. Adolf Hitler ne possedeva una versione originale, acquistata nel 1936.

Tutte le versioni del dipinto raffigurano un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura. Una piccola barca a remi, condotta da una persona a poppa, si sta avvicinando all’isola. A prua ci sono una figura vestita di bianco e una bara bianca ornata di festoni. L’isolotto è dominato da un bosco fitto di cipressi, associati da lunga tradizione con i cimiteri e il lutto, circondato da rupi scoscese. Nella roccia sono presenti quelli che sembrano essere portali sepolcrali. L’impressione complessiva è quella di uno spettacolo di desolazione immerso in un’atmosfera di mistero.

claudio damiani Sognando-Li-Po-Damiani_3 Arnold Böcklin non ha fornito alcuna spiegazione pubblica circa il significato del suo dipinto, anche se l’ha descritto come «un’immagine onirica: essa deve produrre un tale silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura». Il titolo, che gli è stato dato dal mercante d’arte Fritz Gurlitt nel 1883, non è stato specificato da Böcklin, anche se deriva da una frase scritta in una lettera inviata nel1880 ad Alexander Günther, che aveva commissionato l’opera. Non conoscendo la storia delle prime versioni del dipinto, molti critici d’arte hanno interpretato il vogatore come una rappresentazione di Caronte, che nella mitologia greca conduceva le anime agli inferi. L’acqua è quindi il fiume Stige o l’Acheronte, e il passeggero vestito di bianco un’anima recentemente scomparsa in transito verso l’aldilà.

claudio damiani

claudio damiani

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga.

L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi.

Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

claudio damiani Eroi Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall’infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006), Sognando Li Po (Marietti, 2008),  Il fico sulla fortezza (Fazi, 2012). Nel 2010 è uscita un’antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010 (Poesie, Fazi). Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (L’Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). E’ stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui principalmente inglese, spagnolo, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane e straniere.

 claudio damiani la miniera

 

 

 

 

L’isola natante

Mi sembrava che l’isola si muovesse,
mi voltai e vidi l’acqua scorrere
alle sue rive, navigava libera
in direzione nord – nord est.
Poi dopo un po’ mi sembrò che rallentasse
fino a che ebbe uno scatto
e cominciò a nuotare più veloce
cambiando direzione verso nord – nord ovest.
Non capivo quali erano le sue intenzioni
ma mi accorsi che c’era intorno a me molta gente.
Un signore con dei baffi bianchi
mi si avvicinò, e si presentò:
”Salve, sono Leone Damiani”.
Al sentire quelle parole mi slanciai verso di lui e l’abbracciai,
indi parlammo un po’, poi mi volle presentare
tutte le altre persone che mi si erano assiepate intorno.
“Questi – mi disse il nonno – sono tutti i tuoi morti;
alcuni delle ultime generazioni,
altri di generazioni più antiche, andando indietro nel tempo.
Io stringevo tante mani, e nonostante il nonno
mi spiegasse di ognuno la posizione nell’albero genealogico,
io non capivo niente e guardavo solo i visi
e le persone senza stare attento ai nomi.
Intanto era venuto buio e io dissi a mio nonno: “Poiché
non distinguo più le persone non sarebbe meglio rimandare
tutto a domani?”. Il nonno fece segno di sì
e mi condusse in disparte per un sentiero
che digradava verso il mare.
“Nonno – gli chiesi – com’è che l’isola, anziché star ferma,
si muove, come galleggiasse sull’acqua?”.
Ma il nonno stava a guardare dei passeri
che rissavano nella chioma di un pino
e non aveva sentito la mia domanda.
Guardando sulla riva mi sembrava che l’isola si fosse fermata.
“Vedi – disse – noi abbiamo tutti vissuto qui
prima che tu nascessi – e vedevo mio padre
che stava parlando con una persona in cima al sentiero –
tu sei venuto a visitarci in sogno
e adesso ci hai conosciuti tutti. L’isola non cammina,
è il tempo che si muove, e così nel tuo sogno
l’isola che si muove significa il tempo.
Quello che devi sapere è questo: questo tuo sogno è vero!
Noi siamo tutti uniti. Quando tu morirai
ci ritroverai tutti qui, ognuno che hai conosciuto
lo rivedrai uguale, e questa terra a te cara
la ritroverai intera. Tanto più l’avrai amata,
tanto più la ritroverai identica,
tanto più l’avrai sentita come tua patria,
tanto più sarai vicino ai padri”.
*

“Nonno – dissi – chi sono quelli là?”.
Nella valle vicina c’era una gran massa d’ombre
che distinguevo male nell’oscurità.
Rispose il nonno: “Sono persone capitate per caso,
non appartenenti a famiglie dell’isola,
per la gran parte turisti (ma anche pirati,
funzionari, insegnanti, perfino carcerati)
che si sono al punto innamorate di lei
da diventare suoi cittadini.
L’isola non li dimentica, e per questo sono tutti qui,
perché dei luoghi che abbiamo amato
e abbiamo sentito come nostra patria,
restiamo cittadini per sempre,
anche dopo la morte”.

(Da Eroi, Fazi, 2000)

claudio damiani foto di Dino Ignani

claudio damiani foto di Dino Ignani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è un’isola, dentro di lei una casa,
nella casa un tavolo, con dei cesti sopra,
si sente un suono come di telai,
fili, rocchetti, forbici,
tutto è ordinato,
ogni cosa è posata con cura
come per sempre,
si sente il canto di una donna,
nella stanza un focolare arde,
il fuoco è allegro e scoppietta acceso
ma non senti rumore,
senti invece il fruscio delle fronde
e l’odore dei cipressi,
il rumore lontano delle onde
nella sera che si avvicina.

*

La casa è vicino al mare
ma non lo vede.
C’è una strada bianca, la trovi sulla destra,
è bassa, a un solo piano,
c’è come un terrazzino sopraelevato
con dei barattoli di basilico
menta e altri odori.
La casa è malandata
ma non è abbandonata.
E’ tutto molto pulito.
Si sente l’odore del mare, anche il rumore.
In casa non c’è nessuno.
Cammini e vai avanti
vedi le foglie brillare,
senti il dondolio delle onde
e non ti vorresti allontanare,
vorresti restare in quel luogo per sempre
e farti cullare.

 

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Anna Andreevna Achmatova (1889-1966) CINQUE POESIE

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

 Anna Andreevna Gorenko nasce il 23 giugno 1889 a Bol’šòj Fontàn, un elegante suburbio di Odessa, terza di cinque figli. La famiglia, il padre ingegnere meccanico di marina, si trasferisce prima nei sobborghi di Pietroburgo, a Pavlovsk, e poi a Càrskoe Selò. A cinque anni parla perfettamente il francese, a dieci Anna supera una grave malattia, a undici scrive la sua prima poesia. Nel 1903 comincia la storia sentimentale con il poeta Nikolàj Gumilëv, maggiore tre anni di lei ed ex allievo di un insegnante ginnasiale di Anna – Innokentij Ànnenskij. Gumilëv è innamorato a tal punto da tentare il suicidio per superarne le resistenze. Nel 1905 i genitori si separano; Anna si trasferisce a Kiev. Qui, nel 1907, termina il liceo e si iscrive alla facoltà di Legge. Nel frattempo compone e quando manifesta il suo desiderio di pubblicare il padre le suggerisce di scegliersi uno pseudonimo letterario; la scelta ricade sul nome della bisnonna materna, Achmàtova. Nel 1910 Gumilëv sposa Anna, e l’anno seguente fonda con Gorodeckij lo “Cech Poetov”, la Corporazione dei Poeti, da cui prenderà vita il movimento Acmeista. La prima poesia di Anna è datata 1900, la prima pubblicata (sulla rivista parigina “Sirus”, edita da Gumilëv) 1907. La prima raccolta di versi, “Sera”, esce nel 1912.

marina cvetaeva

marina cvetaeva

Nello stesso anno viaggia a Parigi – dove conosce Amedeo Modigliani, che la ritrasse in numerosi disegni eseguiti a memoria di cui uno è conservato a S. Pietroburgo – in Italia: a Venezia, Genova, Padova, Bologna, Pisa e Firenze ; Anna è in attesa del suo unico figlio, Lev , mentre Gumilë v è assente, impegnato in remoti viaggi di esplorazione in Etiopia. La produzione poetica continua fervida negli anni seguenti: nel 1914 pubblica il secondo libro, “Rosario” ; con esso ottiene una vastissima popolarità. Nel 1917 esce “Stormo Bianco”, la sua terza raccolta di poesie. L’anno seguente divorzia da Gumilëv, partito volontario per il fronte; finisce un rapporto importante che segnerà per sempre la vita e la produzione della poetessa. Dopo il divorzio, Anna lavora alla biblioteca dell’Istituto di Agronomia, e nel 1918 sposa il poeta e assirologo Vladimir Šilejko, uomo patologicamente geloso e possessivo; questa unione termina nel 1921, anno di pubblicazione di “Piantaggine” e, a breve distanza, “Proprio sul mare” e “Anno Domini” (1922).

Mandel'stam e la Achmatova

Mandel’stam e la Achmatova

Gumilëv, che nel frattempo si era risposato, viene accusato di aver preso parte ad un complotto sovversivo monarchico e viene fucilato il 25 agosto 1921. L’Achmàtova era vista come ex-moglie di poeta controtivoluzionario; inoltre negli anni fra il 1917 ed il 1921 non si era espressa in alcun modo riguardo all’adesione alla Rivoluzione, pur scegliendo di non emigrare. Mentre la Rivoluzione avrebbe dovuto portare aria di rinnovamento nell’arte, un rinnovamento socialista, la produzione poetica achmatoviana rimane sostanzialmente la stessa. Anna si ritrova sola, in una Russia che non la condanna ufficialmente, ma comunque palesemente ostile in cui, fino al 1940 – anno di uscita della raccolta “Da sei libri” – non vengono più stampate o ristampate le sue opere.

anna achmatova

anna achmatova

Nel 1925 nasce una nuova infelice relazione con Nikolàj Punin, critico e studioso d’arte; la poetessa si trasferisce (a causa della crisi degli alloggi) alla casa della Fontanka a Leningrado, dove convive con lo studioso, la sua ex moglie e la figlia e Lev. La situazione familiare è innegabilmente difficile. Si ha infatti un’interruzione dell’attività poetica, che si protrae fino alla fine degli anni trenta. Ed è in questi anni, alla vigilia dell’apertura dei campi staliniani e delle deportazioni che Anna riprende a poetare, dopo la separazione da Punin, avvenuta nel 1938. L’Achmàtova raccoglie i versi per un’antologia di poesie scritte fra il 1924 e il 1941, “Il giunco” , che nella realtà non uscirà mai: il 13 marzo 1938 suo figlio viene arrestato e condannato a morte – condanna poi convertita in deportazione – causa (presunta) il cognome del padre. Anna si reca, come molte madri russe, al carcere delle Croci tutti i giorni, per avere notizie di Lev. Da qui nasce il poemetto “Requiem” , che le migliori amiche provvidero a memorizzare, certe dell’intolleranza del governo a quel genere di lirica.

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Alla vigilia della seconda guerra mondiale scrive “Nell’anno quaranta” . Nel 1941 incontra la poetessa Marina Cvetaeva . Il poemetto “Lungo tutta la Terra” risale a questo periodo. Nel 1941 la Germania invade la Russia. Stalin ricorre a tutti quei nomi che, da tempo in disgrazia, potevano tornare utili: la poetessa parla alla radio per riunire il popolo russo contro la minaccia hitleriana. Nel frattempo il nemico avanza; Anna viene evacuata, insieme con altri intellettuali, da Leningrado a Taskènt. Qui scrive “Luna allo zenit”. Il tema centrale della produzione poetica diviene la guerra, come “Il vento della guerra” . Compone anche “Elegie del Nord” (1942-43). Nel 1944 l’Achmàtova torna a Leningrado , nella casa della Fontanka. La composizione “Poema senza eroe” si delinea nel 1942, ma la sua lavorazione continuerà fino al 1962. Nello stesso anno il figlio Lev viene liberato perché costretto ad arruolarsi nell’Armata Rossa; raggiunse la madre alla fine della guerra. In questo periodo Anna riprende a pubblicare su diverse riviste. Lev verrà arrestato di nuovo nel 1949, e la risonanza di una breve relazione di Anna con il primo segretario dell’ambasciata inglese Isaiah Berlin (1945), resa pubblica dal giornalista Randolph Churchill (il figlio di Winston), insieme con l’arresto e l’esilio in Siberia di Punin e all’espulsione della poetessa dall’Unione degli scrittori Sovietici (risalgono a questo periodo le critiche Ždanoviane «di pessimismo nevrotico, misticismo e culto per il passato» (definizione di Ždanov), provocano in lei un periodo nero di isolamento, come è evidente in “Frantumi”. Nel 1950, terrorizzata dal pensiero che il figlio potesse essere ucciso, scrive – su consiglio di amici – quindici liriche dedicate a Stalin. Lev fu infatti risparmiato – molto probabilmente grazie a questo intervento – e venne liberato tre anni dopo la morte del dittatore, quando l’incubo finì.

Amedeo Modigliani, ritratto

Amedeo Modigliani, ritratto

 Nel 1964 la poetessa riceve il permesso di lasciare la Russia per venir insignita, in Sicilia, del premio “Etna – Taormina”. L’anno seguente presso l’università di Oxford riceve la laurea honoris causa. Le associazioni culturali russe la riabilitano come una dei massimi poeti sovietici del secolo; nel 1965 esce una nuova raccolta di poesie, “La corsa del tempo” che contiene fra l’altro le liriche degli ultimi anni e la prima parte del trittico “Poema senza eroe”. L’ultima produzione di Anna comprende un centinaio di liriche, sparse in frammenti , e i cicli “La rosa di macchia fiorisce” e “Un serto ai morti”. Anna Achmàtova muore di una crisi cardiaca a Domodedovo (Mosca), già sofferente di cuore, il 5 maggio 1966.

Dedica

da “Requiem” (1935-1940)

Davanti a questa pena piegano i monti,
non scorre il grande fiume,
ma sono saldi i lucchetti del carcere,
dietro di essi «le tane dell’ergastolo»
e un’angoscia mortale.
Per qualcuno alita fresco il vento,
per qualcuno si strugge il tramonto,
noi non sappiamo, siamo ovunque le stesse,
sentiamo solo stridori odiosi di chiavi
e pesanti passi di soldati.
Ci si levava come a una messa mattutina,
si andava per un’inselvatichita capitale,
lì ci si incontrava più inanimate dei morti;
il sole più occiduo e la Nevà più brumosa
ma da lontano canta sempre la speranza.
La sentenza… E subito sgorgano lacrime;
oramai separata da tutti,
come se dal cuore con dolore le strappassero la vita,
come se rozzamente la stendessero supina,
ma cammina… Vacilla… Sola…
Dove sono ora le amiche involontarie
dei miei due anni infernali?
Cosa scorgono nella tormenta siberiana,
cosa intravedono nel disco della luna?
A loro io mando il mio addio.

anna-achmatova

Dante

Il mio bel San Giovanni
Dante

Neppure dopo morto ritornò
nella sua vecchia Firenze.
Partendo non si volse indietro,
ed io a lui canto questo canto.
Fiaccole, notte, ultimo abbraccio,
oltre la soglia, selvaggio il grido del destino.
Le scagliò dall’inferno il suo anatema,
non la poté scordare in paradiso.
Ma scalzo, in panni da penitente
e cero acceso, non passò mai
per la sua Firenze agognata,
perfida, vile, attesa così a lungo… Continua a leggere

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Ivan Pozzoni da “Patroclo non deve morire” (2013) POESIE SCELTE – “Rubrica: La poesia della nuova generazione” con nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni

Ivan Pozzoni è nato a Monza nel 1976; si è laureato in diritto con una tesi sul filosofo ferrarese Mario Calderoni. Ha dedicato molti articoli a filosofi italiani dell’Ottocento e del Novecento e diversi contributi su etica e teoria del diritto del mondo antico; collabora con numerose riviste. Tra 2008 e 2012 ha curato i volumi: Grecità marginale e nascita della cultura occidentale (Limina Mentis), Cent’anni di Giovanni Vailati (Limina Mentis), I Milesii (Limina Mentis), Voci dall’Ottocento I II e III (Limina Mentis), Benedetto Croce (Limina Mentis), Voci dal Novecento I, II e III (Limina Mentis), Voci di filosofi italiani del Novecento (IF Press), La fortuna della Schola Pythagorica (Limina Mentis) e Pragmata. Per una ricostruzione storiografica dei Pragmatismi (IF Press); nel 2009 sono usciti i suoi: Il pragmatismo analitico italiano di Mario Calderoni (IF Press) e L’ontologia civica di Eraclito d’Efeso (Liminamentis); Carmina non dant damen, Villasanta, Limina Mentis Editrice, 2012 e Patroclo non deve morire (2013) È direttore culturale della Limina Mentis Editore; è direttore de L’arrivista – Quaderni democratici. In un’azienda della D. O. è logistico.

Patroclo non deve morire (def)

COCKTAIL MOLOTOV

«Riempire una bottiglia di benzina»
[Mi nutro di vita]
«Avvolgere uno straccio attorno al collo della bottiglia»
[Penso ad una soluzione]
«Bagnare di benzina lo straccio»
[Chiamo: nessuna risposta]
«Accendere l’innesco»
[L’animo indignato si infiamma]
«Spaccare la bottiglia tra le mani»
[La morte dell’artigianato]

Le istruzioni, viviamo ormai senza cartine, sono impresse a sangue
negli ostraka ateniesi, o su vasi dozzinali etruschi,
sui muri dei bordelli di Pompei, o negli intonaci delle celle di esicasti bizantini,
sulle lettere di cambio dei mercanti veneziani, o nelle trincee della Grande Guerra,
tramandandosi / tramandandoci di era in era, di millennio in millennio,
dai cantastorie aedici ai contastorie cibernetici,
e continuano a ustionar l’(in)umano, comburente e combustibile allo stesso tempo,
consumandolo nelle fiamme dell’incendio, inesauribile, dell’arte,
che brucia, spegnendoti, senza mai spegnersi.

le gambe in fila

 

 

 

 

 

RADIOBÀN

Siam caduti entrambi nella crisi, crisi doppiamente,
crisi del mondo occidentale e crisi del mondo occipitale,
messi sotto stress mortale da due transizioni transeunti
l’una dall’esterno verso il nostro schiacciamento, soffocamento,
e l’altra dall’interno, incontro alla nostra implosione,
minuscole schegge di acciaio, detritate, sbuffate via dai venti dell’est.

La tua voglia smisurata di sparire misura la mia ansia d’abbandono del posto fisso,
batti i chiodi nelle mie mani, messe a croce, con i tuoi scontri,
crash-test dei tuoi sogni da ragazza, contro il muro di una vita
che cammina troppo avanti, rottamandoti, rott-amandoci,
lo stesso muro, anche mio, visto dall’altro lato dell’oblò di un aereo che decolla,
che mi chiama ad essere, barone rosso, solo e senza paracadute.

Caos totale, sbalzi d’umore, attacchi di panico, angoscia, speranze improvvise,
ricadute, rialzate, ricadute, rialzate, ricadute, casino totale, baby, casino totale, tilt.
Non uccidiamoci, davvero, non uccidiamoci a vicenda:
io ho ancora la mia forza di sognare, riafferrandoti dal disincanto,
e tu di slanciare una mano alta, nel cielo, facendomi credere di riuscire
a tenermi in sospeso su un aereo in fiamme.
Non uccidiamoci: la vita è breve, e le ferite che non ci uccideranno,
ci faranno sopravvivere, e morire a stento.

C’è il cruccio tardo-moderno del rischio di innamorarsi o non innamorarsi?
A te rimarrà una strada dimenticata da tutti, su cui consumare i tacchi
delle scarpe che ti facevano male; a me resterà la bella storia da raccontare ai figli,
ai nipotini che non avrò mai, che sarà valsa la pena annientarli,
pur di cercare di averti al mio fianco.

[fine delle comunicazioni serali]

le gambe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I MIEI VERSI HANNO TITOLI DIFFICILI

La dimensione narcisistica dell’ego
spiazza ogni tentativo di scendere in piazza
schizza ogni abbozzo di mistico schizzo
condannando l’artista all’impiego,
salario fisso, a far da torcia, lungo la via Salaria
votandosi a mendicare voti, di casa editrice
in rivista, insinua la mania di esaurire un’inusitata collezione
di bollini di presenza da incollare a una tessera annonaria.

Il maestro A consiglia maggiore stringatezza,
il maestro B non teme vincoli d’estensione
il maestro C inneggia a maggior levigatezza
il maestro D chiede abrasione,
e, in mezzo, l’autore junior a barattare illibatezza
contro un warholiano quarto d’ora d’attenzione.

Scrivi sulle città in fiamme,
no, canta della società annacquata,
oh, infiamma di sesso i versi,
ehi, versati acqua nelle mutande,
metti su fogli bianchi A4
il contrario di ciò che ti chiedono i critici
o una critica di ciò che ti chiedono i contrari,
accetta l’omaggio di tutti, tutti sono maestri di tutto.

Tu resta, a vita, l’allievo d’un sogno distrutto.

le gambe ok
PENSIERI D’ARTISTA

Perché continuiamo a scrivere,
travolti dal rischio di non esser chiari
ai nostri vicini di casa, all’amico,
alla merciaia dell’angolo,
mai sazi di vergar lettere
controcorrente, come arabi,
lontani dalla linearità delle bollette
della luce, dello scontrino del barbiere,
d’un conto del solito ristorante cinese?

L’arte non resuscita i morti
dalle camere ardenti, o forse sì,
non sottrae i malati dalle celle
delle cliniche, o forse sì,
non ci sottrae dai risultati in ribasso
delle borse, o forse sì,
non ci trova collocazione stabile
nel mondo del lavoro, o forse sì.

L’arte è memoria, viscida sfera di contatto
con morti, malati, borse, lavoro,
con essa versano inchiostro e affanni
intere generazioni d’homo sapiens
in cerca di un capro espiatorio,
nell’intenzione, tutta artistica, di dar fastidio ai vivi,
non lasciandoli dormire.

Scrivere è sonnifero a doppio taglio,
con cui radere al suolo chi vuol vendersi al dettaglio.

gambe-delle-donne-indossano-i-tacchi-alti

SOGNO UN MONDO ALL’INCONTRARIO: LA LADRA D’ANTAN

Nonna Angela, classe 1936,
nata sotto l’auspicio del Frente Popular spagnolo, della dichiarazione dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana,
dell’impresa razzista di Jesse Owens alle Olimpiadi hitleriane, della sottoscrizione dell’Asse Roma – Berlino,
costretta a scartabellare cartellini prezzi ai supermercati Pam, salumi, no, mozzarella, no, aria, no, Continua a leggere

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Giuseppe Pedota da DOPO IL MODERNO (CFR, 2012) – A proposito del paradigma maggioritario

delitto tra i libri

delitto tra i libri

giuseppe pedota copertina Dopo il Moderno

Estratti dal libro Giuseppe Pedota Dopo il Moderno Saggi sulla poesia contemporanea (CFR, 2012) pp. 130 € 12

A proposito del paradigma maggioritario

Un noto economista ha scritto: «I falsi sono cloni (imperfetti?) dell’originale perché lo riciclano continuamente durante il processo produttivo… Il successo di libri e film come Il codice da Vinci illustra bene il bisogno di racconti della storia dell’arte e della religione riciclati e accessibili a tutti. In modo analogo, i romanzi bestseller di ambientazione storica soddisfano il desiderio dei lettori di consumare in fretta storia e cultura, come prodotti usa e getta che consentono l’evasione dalla prigione della realtà quotidiana. La cultura diventa un prodotto commerciale e la tecnologia moderna ne offre una versione romanzata, a buon mercato, nelle librerie degli aeroporti o nei supermercati, sui siti web o sul grande schermo. L’autenticità di un prodotto culturale unico e, quindi, non imitabile, tende a scomparire. E poi i prodotti autentici sono unici, quindi scarseggiano. Esattamente al contrario, ogni falso produce altri falsi, attraverso un eterno processo di riciclaggio».

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Analogamente, il linguaggio poetico maggioritario assume i caratteri del «falso» in quanto prodotto di «copia (imperfetta?) dell’originale»; al limite, una nuova «copia» viene accettata solo se «imita» l’originale, se si pone come una «copia» dell’originale. Se intendiamo «originale» come quella formula che trova corrispondenza immediata con il pubblico di massa (in tale accezione opere come Le mie poesie non cambieranno il mondo -1974, di Patrizia Cavalli e Ora serrata retinae -1980, di Valerio Magrelli sono  una esemplificazione impareggiabile di quanto andavo dicendo), qual è il migliore «originale» oggi disponibile? È ovvio, sono i poeti del «paradigma maggioritario», ovvero, del minimalismo i quali gradiscono la schiera infinita di «copie imperfette», che assicurano il marchio di fabbrica dell’«originale», e ne sono la riprova sul piano della produzione della cultura di massa. Credo che occorra cominciare a riflettere sul concetto di «copia di massa» di un prodotto culturale. Vorrei essere più preciso: le composizioni di Vivian Lamarque, di un Valerio Magrelli e di Patrizia Cavalli si presentano come «originali» di copie seriali,  di «copie (imperfette?)» di un originale perfetto che giace nelle propaggini subliminali di una cultura massmediatizzata standardizzata: sono dei cloni finti di una finta problematica che la loro poesia espone e teatralizza. Con tutta sincerità, quanta poesia non è altro che una «variante» degli «originali» presenti nel subliminale della cultura di massa? Occorre cominciare a chiederci: quanta poesia contemporanea è attenta al problema dello «stile» o al problema dell’«autenticità»?

Come scrive Vattimo: «Identificare la sfera dei media con l’estetico può certo suscitare qualche obiezione; ma non risulta tanto difficile ammettere una tale identificazione se si tiene conto che, oltre e più profondamente che distribuire informazione, i media producono consenso, instaurazione di un comune linguaggio nel sociale. Non sono mezzi per la massa, al servizio della massa; sono i mezzi della massa, nel senso che la costituiscono come tale, come sfera pubblica del consenso, dei gusti e del sentire comuni. Ora, questa funzione, che si usa chiamare, accentuandola negativamente, di organizzazione del consenso, è una  funzione squisitamente estetica…».[1]

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Lo stile da cattiva traduzione

Il dispregio della poesia del paradigma egemone verso ogni problema di «stile» viene a degradarsi in assunzione di una funzione servile: lo stile da cattiva traduzione di un Franco Buffoni o la scrittura di un «quotidiano» calendarizzato e reificato, da parte dei «quotidianisti», ridotto alla misura del cliché dell’intellettuale piccolo borghese in epoca di stagnazione economica: una sorta di spartana economia dei mezzi stilistici e degli strumenti lessicali con uno stile apparentemente democratico, uno stile da esportazione stilistica comune alla piccola borghesia stilistica dell’Unione Europea. Ma qui dovremmo porci il problema seguente: di quale cultura sia il prodotto il minimalismo romano-milanese. È bene dirlo senza impacci: l’esigenza della conservazione di quella cultura che ha rifiutato le «questioni metafisiche» porta inevitabilmente alla mitizzazione del quotidiano (per Wittgenstein è mitologico proprio il linguaggio degli oggetti) e alla instaurazione di una vera e propria ideologia degli oggetti. Personalmente,sono giunto alla drastica conclusione che lo stile è servente in quanto sottoposto alla cogenza di una legislazione immanente: la cultura di massa che, per sua essenza, richiede un paradigma dominante, che altro non è che il mondo delle merci secondo il modello standard della riconoscibilità.

edoardo sanguineti

edoardo sanguineti

Il «bello» stile, è lo stile delle merci, suo paradigma è una merce culturale cosmopolitica, eurotrasportabile

Il «bello» stile, è lo stile delle merci, suo paradigma è una merce culturale cosmopolitica, eurotrasportabile ed esportabile, tanto più leggibile, in quanto prodotto della barbarie della cultura che quel paradigma legittima e finanzia. Chi oggi tra i poeti contemporanei ha una qualche percezione di questo nesso problematico? Sia detto a chiare lettere: ciò che legittima il paradigma è il paradigma stesso. Può sembrare una tautologia ed invece si tratta di un vicolo cieco verso il progresso delle forme estetiche. Ma è anche vero che il paradigma che punta alla «perfezione» (e penso al decorativismo post-penniano della poesia di Elio Pecora o al quotidianismo psicanalitico di Vivian Lamarque) precipita in un buco nero senza fondo, precipita nell’imbuto della decorazione. Piuttosto che una costruzione il paradigma si rivela essere un vero e proprio buco nero, combustione, non più catena di rimandi da segno a segno ma catena di prigioni dorate che  rimandano alla propria riconoscibilità. Ma qui il problema si complica e non vorrei tediare oltre il lettore.

Angelo Maria Ripellino a Praga

Angelo Maria Ripellino a Praga

 Il minimalismo è un discorso che si configura come «copia» dell’«originale»

Che cos’è oggi il minimalismo? Il minimalismo è dunque un discorso che si configura come «copia» dell’«originale» che giace nel subliminale della cultura della massa mediatica. Oggi occorre invece porre con forza la definizione del principiale, senza il quale non si dà logos poetico. L’urgenza che muove oggi i poeti europei più sensibili è individuare una ragione della lirica nel punto cruciale della crisi della cultura da cui quella lirica proviene. Il pensiero borghese ha operato un distinguo pragmatico: alla filosofia il discorso assertorio e alla poesia il discorso suasorio. È stata la trappola del neopositivismo nella quale una grandissima parte della poesia europea è caduta per pigrizia intellettuale e per la mancanza di una filosofia dell’arte che pensasse, in sua vece, le condizioni con le quali l’arte del nostro tempo si è trovata a convivere.

tomas transtromer

tomas transtromer

La poesia del Dopo il Moderno

La poesia del Dopo il Moderno si è venuta così a configurare come interrogazione di un «originale» che essa stessa, implicitamente, porrebbe nell’atto del suo pronunciamento ma senza adeguata coscienza delle conseguenze e della portata che l’atto dell’interrogazione pone. La poesia del minimalismo non si chiede se esista un «originale», gli è sufficiente garanzia l’esistenza di una «copia» della «copia». Molta poesia contemporanea, per il suo essere acriticamente inconsapevole di un tale nesso problematico, perirebbe nel minimalismo acritico, accontentandosi di vivacchiare all’interno di una religione degli oggetti, e del suo contraltare: la religione del nuovo io, di un domandare retorico, vacuo, allusivo, consolatorio.

czeslaw milosz

czeslaw milosz

Il minimalismo è un discorso giustificatorio

Se il minimalismo è parametrato sul modello proposizionalistico di copia della copia e suppone già data la conclusione del modello «giustificatorio» del discorso poetico, la poesia che pensa i propri fondamentali non può non scandagliare la via della interrogazione radicale sulle cause ultime e più remote che governano la ragione stessa del logos poetico.

Il minimalismo è un discorso giustificatorio: si occupa di giustificare come vere un insieme di proposizioni che si reggono sulla semplice giustificabilità che lega le proposizioni le une alle altre, dove ciascuna è principio di un’altra, in una catena virtuale-infinita; si occupa di canonizzare, quale canone invariabile, un impiego «commerciale» dell’«attualità».

 

[1] Gianni Vattimo La fine della modernità Garzanti, Milano, 1985 p. 76

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Roberto Maggiani POESIE SCELTE da “La bellezza non si somma” (2014) con una nota di lettura di Giorgio Linguaglossa – “Rubrica: Gli Autori della Nuova Generazione”

roberto maggiani la bellezza non si somma copertina Roberto maggiani forme_e_informe (1)Roberto Maggiani è un autore della nuova generazione essendo nato nel 1968, l’anno che segnò lo sconvolgimento di una intera generazione e la ribellione giovanile. Il ’68 però, è noto, non ha prodotto risultati in poesia, la sua influenza si è piuttosto sedimentata a livello molecolare sociale e nello sperimentalismo nell’arte. Leggendo questo libro di Maggiani, sicuramente il suo lavoro più maturo, si ha la sensazione che quel ’68 sia diventato archeologia, e probabilmente questo è un bene. È una poesia ottica piuttosto che sonora, punta dritto sul denotatum, sul referente, è una poesia di fotogrammi narrativi a telecamera fissa ma non è il montaggio l’elemento determinante quanto la sequenza degli oggetti osservati dall’occhio; campeggia la visione nitida e neutra, di qui la sua narratività piana, tranquilla, la materia invece è sublime: «la bellezza» che «non si somma», le belle signore borghesi che si mettono il rossetto sulla spiaggia, lo «spazio confinato di una tazza nella sua ombra tonda», «il mattino… regno degli uccelli», con improvvise allusioni a «l’universo metastabile», alle «risonanze elettromagnetiche», alle «espansioni inflazionarie». Dicevo della materia sublime (la bellezza) trattata con un lessico sobrio, prosaicizzato, privo di svolazzi, preciso, nitido, che segue la misura della sintassi, il passo breve del respiro metrico con una attenzione costante alla precisione del referente anche mediante l’impiego di espressioni del linguaggio scientifico e di espressioni aforistiche che impegnano il lettore, lo obbligano a fermarsi, a riflettere sulle giunture del discorso, sugli snodi da un piano all’altro del linguaggio. (g.l.)

da “La bellezza non si somma” (Italic, 2013) pp. 66 € 12

roberto maggiani indicibile
Regni

I

Il mattino presto è il regno degli uccelli –
le sue evidenze sono
i volteggi rapidi delle rondini nel garrito
che s’espande e si contrae
e le prime arroganze nel gracchiare
dei corvi.

 

roberto maggiani

roberto maggiani

Fetish

I

Signore e signori si va in scena
interpreti principali sono i piedi
qui esposti
l’uno in fila in fondo ai lettini.
Correndo li si tocchi
oppure li si ammiri soltanto
e si desideri la loro forma
il giro dell’impronta
nel loro appiattirsi al suolo –
il tira e molla delle dita
le unghie
il bianco della pianta.

roberto maggiani

roberto maggiani

 

 

 

 

 

 

 

Dio

Ho imparato ad evocarti
dai colori e dalle forme delle cose.

Per riconoscere la tua presenza
mi bastano la soglia di una porta
sempre aperta su un patio
e una tenda
che nella brezza sappia danzare
lentamente.

Sei come un albero
che nella sua totale presenza
si assenta nell’abitudine
dello sguardo

Io invece sono come il mio gatto
che parla ai corvi lontani:
vedendoli piccoli
vorrebbe farne un boccone –
li prega di scendere
con versi inconsulti
non sapendo della loro grandezza.

Ti cerco instancabilmente
ed è solo per la nostalgia che ho di te
che scrivo poesie.

roberto_maggiani scienza aleatoria

 

 

 

 

 

 

 

 

La paura

È un qualunque mattino di serenità:
il sole alto sull’orizzonte marino
la nuvola bianchissima nell’azzurro subtropicale
la palma ondeggiante lungomare
il frastuono dell’onda sulle pietre.

Minuti sospesi
sul baratro dell’inesistenza –
ma noi di questo non ci preoccupiamo.
Nell’Universo dal vuoto metastabile
(potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro)
qualcuno si spaventa per una sirena
un incendio improvviso nel bosco
un forte vento.

La paura
è solo un momento in cui vediamo
riflessa nel mondo
la precarietà
della rete che ci sostiene.

roberto maggiani Angeli_in_volo
Nello spazio confinato di una tazza
nella sua ombra tonda – è la tua identità
il tuo evidente successo sul mondo:
la bellezza non sommabile del cosmo

 

 

 

 

 

roberto_maggiani_cielo indivisoStupore di un morto davanti alla vita

Credevo che non avvenisse altro
dopo di me
finisse il mondo
si fermasse – almeno
si congelasse… invece..
invece si rinnova –
continua –
per me irreale.

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Antonio Sagredo VERSI SULLA POETESSA MARIA ROSARIA MADONNA

Antonio SagredoAntonio Sagredo è poeta inedito in Italia, ha pubblicato due libri in Spagna con testo a fronte negli anni Novanta. Poeta inclassificabile e irreggimentabile Sagredo ha perseguito e inseguito in poesia un suo percorso assolutamente originale e singolare. Una sua Antologia in traduzione inglese con testo a fronte uscirà con Chelsea editions di New York e una in italiano è in preparazione per EdiLet di Roma.

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulla poesia di Maria Rosaria Madonna

Dopo l’alba sarò – qui, non so –
nudo da secoli nella pigra ossidiana?
-non so, qui – se dopo un profeta dirà:
non ci fu futuro, domani!

Circumnavigare liquido degli occhi.

Dopo l’alba – pietas, Maria!
Lacrimosa nel pentagramma muliebre,
ambivalente nella semenza – un oroscopo!
Non c’è bisogno di emblemi: quattro
è più di una morte trasparente.

Dopo la notte sarò – qui, non so –
pietre spazi sorgenti
– se, palma, ti ho dato, è un dono la –
catastrofe!
e nel ronzio – miele!

Dopo la notte – cruda, Maria! – sterile
il discernimento erutta come antrace,
e non so qui se l’unità trascina il tutto,
né se la linea fissa il punto
o il risopianto implume di una civetta.

Roma, 4-6 maggio 1991

antonio sagredo 1971

antonio sagredo 1971

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come un cane d’Alsazia raspavo a unghiate
pus cavo e marce ossa nelle sacre scritture,
l’abbaiare di megafoni flautolenti senza midolla,
gli incisivi corrosi da un cariato Verbo!

L’Angelus, scornato più di un carnefice bovino,
risonava di muggiti dagli altari a fittizi morituri,
orfano dell’ex-voto e nutrimento di infelici mercenari,
di parabole… tutte le moschee per non vivere!

A quando e come sarà reale il non dare se stessi
ai Cesari o agli Dei se non un altrove vivente agire
sul Nulla, un marcire a dismisura per una fede… icona
miserabile, implorante luce… quinta, o… chi muore?

E io chiusi gli occhi a Dio e alle mani il sangue Mio
e di Ipazia, a luminate letanie e vegliardi di creta,
e ai lampioni della Conoscenza una corona d’epitaffi!
Eresia, basta con l’Essere, sono stanco di subirlo!

Patiboli, ho incarnato la Compassione!… Non alla voce di un poeta
toccherà la lama di un nuovo avvento, ma al Dormiente non-nato
un solo vivere di ignominia, se non fingono gli specchi feriti
l’unto e noi, opachi in contumacia, destinati a una sconfitta!

Vermicino, 20 maggio 2009

Antonio Sagredo3

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(dal poema Oriana– 2010)

E pure così sognava i desideri dei Morti che sono ultramondani
e i sette chiodi della passione unti per una penetrazione spettrale,
l’Imperatore delle Sofferenze altrui!

Il falco… fermato d’un tratto dalla sua stessa statua,
marmo insipiente, vista implume…
venature orientali – incensi!

Il granchio romano spolpava e avvelenava la sua arte…
Maddalena, sono tuoi i sette pugnali!
Scòpati i tredici apostoli!

Oriana, ultima castellana, salutami le tue sorelle!
E altre, e altre ancora che il destino e la condanna
già conoscono – dal futuro!
Marina, Ipazia, Saffo, Emily, Gaspara Stampa!

Un sentiero di rame m’incerta il cammino.
Sono spine d’argento queste foglie d’ulivo.

Roma/Vermicino, 13/25/29 ottobre 2010

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CORRISPONDENZA IN VERSI TRA ALFREDO DE PALCHI e ANTONELLA ZAGAROLI (fine 2010 e gennaio 2011) – Inediti Parte I

alfredo de Palchi

alfredo de Palchi

New-York

New-York

 Riceviamo e pubblichiamo questa inedita corrispondenza in versi tra due poeti risalente a un periodo antecedente il loro incontro personale. È un dialogo tra «ciechi», li divide l’Atlantico e li unisce il sottile filo di un discorso seduttivo-indagatorio. La «forma-poesia» diventa il luogo della erotesis, una forma retorica che introduce una recitazione,una finzione se vogliamo, un dire indiretto che procede a zig zag, non per la via più breve ma per quella più adiacente e tangente alla «cosa» di cui qui si discetta; è una tenzone, una scherma, o meglio, il luogo di una scherma, il luogo delle abilità nel maneggiamento del fioretto, con improvvisi assalti e repentini arretramenti. E la «forma-poesia» diventa il regolo, anzi, l’unico regolo entro il quale l’arte della scherma può brillare. (Giorgio Linguaglossa)

antonella zagaroli

antonella zagaroli

 Antonella Zagaroli è presente nella critica e in diverse antologie di poesia contemporanea italiane, francesi, inglesi, americane. Ha pubblicato La maschera della Gioconda, Terre d’anima, La volpe blu, Serrata a ventaglio, il romanzo in versi Venere Minima, un’antologia tratta da alcune sue opere tradotta in inglese Mindskin A selection of poems 1985-2010 – Chelsea Editions New York, 2011; due testi teatrali rappresentati Il Re dei danzatori, Come filigrana scomposta – racconto d’amore tango e poesia e in collaborazione con fotografi e pittori le raccolte La nostra Jera, Trasparenze in vista di forma e le Istallazioni poetiche in mostra da Settembre-Dicembre 2012 a Pienza. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook. Come traduttrice ha pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (rivista Hebenon aprile-novembre 2010) e la plaquette One Columbus leap, Il balzo di Colombo della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (2012), Hosanna- Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense. Specializzata in Poetry Therapy (USA), dal 1995 scrive articoli e testi specialistici sul senso psicologico dell’arte.

Antonella Zagaroli Alfredo de Palchi 2011

Antonella Zagaroli Alfredo de Palchi 2011

 «L’originalità e l’indipendenza in campo poetico di Alfredo de Palchi (nato nel 1926) sono da tempo accertate. Come poeta italiano che vive negli Stati Uniti da più di cinquanta anni, che continua a scrivere esclusivamente in italiano, e le cui opere sono state in buona parte tradotte in inglese, de Palchi emerge per i suoi tersi e tesi versi svolti con sintattica audacia, per i salti semantici (ciò che richiama il concetto di Josif Brodskij di poesia che “accelera il pensiero”), e per l’auto-analisi mai sentimentale, con tonalità che vanno dal sarcasmo alla glorificazione dell’Eros. Gli argomenti poetici l’autore li trae dalla propria esperienza, e ciò vale in particolare per la produzione giovanile, che evoca il ragazzo povero e orfano del padre, le sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale e l’ingiusta carcerazione subita nel dopoguerra. Negli anni successivi, de Palchi lascia alle spalle le sofferenze del tempo di guerra, e volge invece lo sguardo al rapporto uomo-donna, esaltando il piacere sessuale. Si interessa anche alla scienza, in particolare alla biologia e alla geologia. Il modo preciso e nel contempo idiosincratico con cui il poeta introduce la scienza nella sua visione tragica del comportamento dell’uomo e in genere della condizione umana, già da solo lo distingue da altri poeti europei e americani suoi contemporanei. La produzione recente mette in scena la lotta del poeta con una figura che sembra rappresentare la morte. Una ricca scelta dell’opera poetica di Alfredo de Palchi con testo a fronte si trova in: Paradigm: New and Selected Poems 1947-2009 (Chelsea Editions, 2013). I lettori italiani possono consultare Paradigma: tutte le poesie 1947-2005 (Mimesis / Hebenon, 2006) e Foemina Tellus (Joker, 2010). Si veda anche la raccolta di saggi Una vita scommessa in poesia: Omaggio ad Alfredo de Palchi (edita da Luigi Fontanella, Gradiva Publications, 2011)». (John Taylor)

New York grattacieli nel bosco

New York grattacieli nel bosco

 

 

 

 

 

 

 

 

Alfredo De Palchi

Formi nella mente il paesaggio
vibrante di promesse e viaggi
per restaurare diaspore
e rovine

e ti svesti il grembo
per svestire a confronto la morte

che riappaia viva nel salino
fra i tuoi fianchi
con pienezza di sementi in cerchi
se dentro quel paesaggio d’acquitrino
getto un sasso.
26 luglio 2010

*
Mi appartiene lo spazio
del triangolo

in piedi o sdraiato
occupo la stessa misura––

le tracce del corpo
espongono gabbie di filo spinato

piedi diretti ai due angoli
testa slanciata alla punta

la mente completa la perfezione
piramidale del tuo universo.
6 agosto 2010

New York  hearst tower

New York hearst tower

Antonella Zagaroli

Città piene d’inumani
logorano
il mio corpo sfiancato
nella non menzogna,

a chi ha rotto catene e pregiudizi
solleticando la voglia nuda
di sconvenienza
offrono asilo e conforto

10 settembre 2010
*

Salgo e scendo

mi trasformo in bocciolo e ape
solare luna di vocabolifantasia
in continua rivoluzione

tu fai vibrare il centro
le sinapsi nelle curve degli anelli.

10 settembre 2010

New York bank-of-america-tower

New York bank-of-america-tower

Alfredo De Palchi

Sono quel fiume––
dal turbolento profondo di pietre
simulo gorghi placidi alla superficie

l’acqua
delle tue costole tributarie
mi accelera da monti e pendii

pietre rotolano si lisciano in sassi
la tua acqua
è l’estuario della mia acqua

già con sale
sangue e tritume
dell’infinito oceano che diventi.

25 agosto 2010

 

New York  drake-hotel-di-park-avenue

New York drake-hotel-di-park-avenue

Antonella Zagaroli

Bevo un olio speziato
dentro le tue parole fiume

alleviata nelle mie cicatrici

mi lascio andare all’immaginario
che ti rende a me vicino.

10 settembre 2010

 

 Alfredo De Palchi

Ti allevio il graffio
della nascita
affossandomi tra i perni
del tuo tronco arboreo
con fogliame frutti e fiori
per l’autunno

quando la bellezza si nasconde
per il mio palato migliore.

18 settembre 2010

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Antonella Zagaroli

 

Ti lascio affondare
negli argini della mia ovalità

La tua voragine ha la stessa sostanza
dall’alba al tramonto

18 settembre 2010 Continua a leggere

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Ambra Simeone da “Ho qualcosa da dirti” SEI QUASI-POESIE – Rubrica: La poesia della nuova generazione

Ambra Simeone Come John Fante copertina Ambra Simeone è nata a Gaeta nel 1982 e vive a Monza. Collabora con l’Associazione culturale “deComporre”; in poesia pubblica nel 2010 Lingue cattive (Giulio Perrone Editore, Roma) e nel 2013 la raccolta di racconti Come John Fante… prima di addormentarmi (deComporre edizioni). È co-direttore de Il Guastatore – Quaderni Neon-Avanguardisti. È presente nelle Antologie curata da Giampiero Neri (LietoColle) e da Giorgio Linguaglossa (EdiLet).

Trovo molto interessanti queste «quasi-poesie» di Ambra Simeone, per una semplice ragione: che non vogliono salire all’altare inarrivabile della Poesia con la maiuscola, per l’ironia e l’autoironia con le quali si propongono e per il valore di “discontinuità” (come direbbe Cesare Viviani) con cui si presentano rispetto alla Poesia laureata, quella dei modelli (se ce ne sono) egemoni o maggioritari. E poi ritengo che ogni nuova generazione debba trovare da sola la via verso un linguaggio autentico, che non faccia buon viso a cattivo gioco, che non finga di presentarsi come Poesia per antonomasia. E questo lo ritengo in sé un valore, cioè quello di presentarsi in modo nudo e crudo, priva di retorismi o di acrobazie balistiche. Senza contare il problema dell’a-capo, che Ambra Simeone liquida come un falso problema o come un problema ancora non risolto, che non sta a lei certo dover risolvere. In fin dei conti rimane il fatto che l’a-capo resta il problema dei problemi, quella linea divisoria tra poesia e prosa così sottile da essere quasi invisibile. (Giorgio Linguaglossa)

Ambra Simeone copertina Ho qualcosa da dirti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

c’ho una mia sorellina che non è davvero mia sorella

c’ho una sorellina piccola, che non è davvero mia sorella, è tanto per fare un esempio,
ha sedici anni e va alle superiori, e ora le sue insegnanti si pongono un problema,
quello che dicono sempre in tv, quando le intervistano, nei programmi intelligenti,
che sono quasi sempre sullo stesso canale, e poi sono intelligenti adesso, in confronto ad altri,
però forse non tanto in confronto a quelli di altri tempi, dove si chiedono una domanda,
che è preoccupante, cioè che è abbastanza un problema d’insegnamento,
se l’Aquila non è stata ristrutturata, se si vanno a chiedere fondi per l’arte italiana,
che non va bene se le dighe crollate anni fa, solo adesso si dice che si potevano evitare,
che non va bene, se certe industrie del sud, continuano a inquinare ancora oggi,
solo per dare lavoro agli operai, e non va bene se l’amore per l’arte, l’amore per l’ambiente,
l’amore per il paesaggio, non si diffondono più bene come una volta,
e che quindi potrebbe essere un problema della scuola, e la colpa non si sa di chi è,
se degli insegnanti o credono molto probabilmente della mia sorellina,
che non è davvero mia sorella, e forse sarà che non hanno insegnato tanto bene
agli alunni di cinquant’anni fa, e quindi perché non vanno a dirlo a loro?
ora lei vuole solo finire la scuola e andare via, che a farsi dare tutte le colpe,
non le sembra il caso, se poi non le hanno dato ancora nessuna chance e mai gliela daranno.

 

Ambra Simeone

Ambra Simeone

su facebook è ritornata la moda dei crocifissi

mi ricordo che qualche anno fa non si parlava d’altro che di crocifissi,
e si faceva così tanto che adesso, non so più poi come hanno risolto la cosa,
e un po’ di gente si chiedeva dove appendere sti crocifissi, se a casa, a scuola
o appesi al collo, e stava diventando un affare pubblico o privato,
perché forse c’era appena stata la prima, la seconda e la terza migrazione,
allora si era tutti impegnati a far capire a quelli che eravamo cattolici,
forse non si vedeva tanto in giro che c’erano ovunque chiese, madonne e santi?
no, non abbastanza, allora bisognava dirlo a tutti, e dopo non si parlava mai di diritti,
né dei loro, né dei nostri, ma solo dei crocifissi, che era più importante di tutto il resto,
che l’insegnamento era più bello, soprattutto perché ci sono i crocifissi in classe,
e che se uno è cattolico è perché ci sono quelli in giro, non per altro, quindi, come si fa?
dicevano, non è l’insegnamento che fa diventare buoni cristiani, solo i crocifissi,
e in realtà c’erano stati dei precedenti, così la pubblica istruzione imbarazzata,
che si fa? lo mettiamo, oppure no? alcuni sì, perché è la nostra identità,
altri no, che siamo atei, allora ho pensato che potrei anche non essere imparziale,
e mi scuso fin da subito, che essere sopra le parti, non so perché si dice così,
non si può dire casomai, essere in mezzo alle parti oppure sotto?
ma forse i ragazzi avrebbero bisogno di altre cose, appese in giro,
penne, libri, motivazione e in classe ci dovrebbero essere un po’ più di queste cose,
proprio adesso poi, solo perché c’è la quinta, la sesta e la settima migrazione,
potremmo anche evitare di ritornare a parlare dei crocifissi.

 

Ambra Simeone

Ambra Simeone

la fantasia è una grande risorsa

ecco quello che voglio dirvi, che noi siamo tutti un po’ dei fantasiosi,
e questa cosa è molto bella, e si nota soprattutto in questi strani periodi,
paese di sfiduciati, mammoni, pensionati, cassaintegrati, malpagati e stagisti,
così la fantasia prende il volo, per questo io penso che è una grande risorsa,
cioè mi leggo i commenti su facebook, perché non ho nulla da fare,
e tutti sono su facebook, e sarà perché anche loro non hanno nulla da fare,
e io sento l’importanza di essere fantasiosi, sopratutto quando si parla del lavoro,
così guardo nelle informazioni personali dei miei amici e dei miei conoscenti,
collaboratore presso poetessa e scrittrice, lavora presso se stesso, editor c/o scrittore,
lavora c/o general war, ufficio ricerche minerarie e perdite di tempo,
allevatrice di cenobiti presso Lemarchand’s box, lavora presso la via di casa mia,
figlio di famiglia lavora presso figlio di famiglia, lavora presso pensaci tu che io ho da fare,
lavora c/o ministero dell’istituzione te ne devi annà, lavora presso della sapienza e della pazienza,
lavora come collaboratore parlamentare presso camera dei deputati, questa sì che è bella,
e leggere queste cose qua, mi fa tanto piacere, allora è vero che abbiamo sconfitto la crisi,
e finalmente il lavoro ci sta, magari è gratis, così ce lo inventiamo un po’ tutti quanti,
ma almeno siamo abbastanza creativi e su questo nessuno può dirci niente,
allora ho deciso magari anche io me ne invento una nuova,
lavoro presso fantasia applicata al nulla. Continua a leggere

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Sul tema di Konstantinos Kavafis: “Aspettando i barbari” DUE POESIE INEDITE di Maria Rosaria Madonna ” Aspettando i barbari”

kavafis Gruppo-Storico-romano-Senatori

Gruppo-Storico-romano-Senatori

governo 1 salvini di maio

Konstantinos Kavafis

Aspettando i barbari

Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza?
Stanno per arrivare i Barbari oggi.
Perché un tale marasma al Senato?
Perché i Senatori restano senza legiferare?
È che i barbari arrivano oggi.
Che leggi voterebbero i Senatori?
Quando verranno, i Barbari faranno la legge.
Perché il nostro Imperatore, levatosi sin dall’aurora,
siede su un baldacchino alle porte della città,
solenne e con la corona in testa?
È che i Barbari arrivano oggi.
L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino fatto preparare una pergamena
che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.
Perché i nostri due consoli e i nostri pretori
sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perché si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?
È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.
Perché i nostri abili retori non perorano con la loro consueta eloquenza?
È che i Barbari arrivano oggi. Loro non apprezzano le belle frasi né i lunghi discorsi.
E perché, all’improvviso, questa inquietudine e questo sconvolgimento?
Come sono divenuti gravi i volti!
Perché le strade e le piazze si svuotano così in fretta
e perché rientrano tutti a casa con un’aria così triste?
È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari…
E ora, che sarà di noi senza Barbari?
Loro erano una soluzione.

(traduzione di Filippo Maria Pontani)

 

kavafis senato

senatori sul set

 

Maria Rosaria Madonna (1942 – 2002)

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale “Scettro del Re”. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. Presentiamo qui due poesie inedite sul noto tema kavafisiano dell’arrivo dei barbari. (Giorgio Linguaglossa)

 

Roma antica, plastico
Roma antica, plastico

  Sono arrivati i barbari

«Sono arrivati i barbari, Imperatore! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».

«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».

E che farà adesso l’Imperatore che i barbari
sono alle porte? Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono in Senato
con la bianca tunica e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli?
Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede l’Imperatore al funzionario dell’erario
«e qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede l’Imperatore al funzionario annonario
«e qual è la richiesta dei barbari?».

«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.

«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».

 

kavafis senatori sul set

senatori sul set

 Parlano la nostra stessa lingua i Galli?

Si sono riuniti in Senato il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie del Foro…
Qualcuno ha riaperto il tempio di Giano,
il tempio di Vesta è stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
corre voce che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e instabile
e un’aquila si sia posata sulla cupola del Pantheon
che sette corvi gracchiano sul frontone del Foro…
corrono voci discordi sulle bighe del vento
trainate da bizzosi cavalli al galoppo…
che il nostro esercito sia stato distrutto.

Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?

E adesso che siamo qui chiediamoci:
che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?

Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua?*

 *poesie di fine anni Novanta

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Mi meraviglia che queste due poesie di Madonna non abbiano riscosso alcun commento. Basta leggerle per renderci conto che siamo di fronte a due testi di inusitata potenza metaforica e allegorica. Il verso è sciolto, libero, ma come compresso entro una gabbia ferrata; è sufficiente annotare gli a-capo per rendersi conto degli impennamenti della voce monologante, delle riprese, delle ricariche. Sono poesie che potrebbero entrare tranquillamente in qualsiasi Antologia della poesia italiana del Novecento. Madonna riprende il tema dei Barbari di Kavafis e lo svolge in termini aggiornati ai nostri tempi. Madonna scrive queste poesie alla fine degli anni Novanta, e vede lontano, molto lontano, scorge il degrado del Paese, lo vede sprofondato nella più grande Crisi politica, morale ed estetica che abbia mai attraversato, ci dice che i Barbari sono arrivati, sono già qui. Che cosa chiedono i barbari?, chiedono i senatori nella prima poesia:

«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.

È semplice, non chiedono nulla perché essi hanno già vinto, non pongono condizioni perché la Città non più in condizioni di contrattare alcuna tregua o alcuna pace, deve solo arrendersi, arrendersi ai barbari. L’aspetto paradossale della poesia non è il contenuto della composizione ma la condizione storica, la cornice storica che ha reso inevitabile la resa totale: I barbari i quali «chiedono che si aprano le porte della città». I barbari Hanno già vinto. La decadenza è terminata. Essi hanno vinto. Ma chi sono questi barbari? È questo l’interrogativo base della seconda poesia. I cittadini si chiedono: «parlano la nostra stessa lingua?». Ecco il problema centrale. È la Lingua il collante di una nazione, è la Lingua la casa dell’essere. E questo sarà il tema, o meglio, l’interrogativo della seconda poesia. Qui si va al centro della questione: che lingua parla la tribù? Quale lingua si parla nella città e nell’Impero? Quale lingua parlano i barbari? (notare la raffinatissima autoironia: quale lingua parla il poeta in questa poesia?).

L’elemento determinante in questa seconda poesia è che la terza e la quarta strofa sono un accumulo di frasi interrogative che si sovrappongono in un crescendo drammatico-epico come non se ne è mai visto nella poesia italiana del Novecento. Madonna pone soltanto domande, alle quali non v’è che una sola risposta, ma quella risposta la dovrà dare il lettore, la dovrà fornire la Storia, è al di fuori delle possibilità espressive della poesia, al di fuori delle possibilità della Lingua. Ed ecco l’aspetto drammatico di questa poesia (dopo la quale non ci può essere che il silenzio): il poeta non abita più la Lingua, è stato scacciato dalla Lingua e non si può esprimere in altro modo che in un seguito paradossale, mostruoso di domande senza risposta.
Ma il paradosso nel paradosso è che i barbari parlano la nostra stessa lingua. Siamo noi i barbari.

E adesso che siamo qui chiediamoci:
che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?

Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua?»

 

 

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Intervista a Derek Walcott di Marco Dotti – “LA POESIA DEL QUOTIDIANO E DELL’ORDINARIO” E TRE POESIE

derek walcott in occasione del premio nobel

derek walcott in occasione del premio nobel nel 1992

derek walcott pagina manoscritta

derek walcott pagina manoscritta

da “Il Manifesto”, luglio 2008

Fino al 1992, quando gli venne conferito il Nobel per la letteratura, il nome di Derek Walcott circolava in Italia soltanto tra uno sparuto e ristretto gruppo di specialisti di letteratura caraibica. Strano destino per un poeta il cui esordio risaliva al 1948, con 25 Poems, e che per più di vent’anni è stato al centro di un profondo rinnovamento della scena teatrale di lingua inglese, in primo luogo come autore di numerose pièce (su tutte Ti-Jean e i suoi fratelli, Sogno sul monte della Scimmia o la giovanile Henri Christophe, dedicata all’omonimo leader rivoluzionario haitiano) e poi come fondatore e direttore del Trinidad Theatre Workshop. Nato nell’isola di Santa Lucia nel gennaio 1930, docente a Harvard, Walcott è oggi un nome meglio conosciuto al grande pubblico, che in questi anni ne ha apprezzato sia l’opera poetica – dall’antologia Mappa del nuovo mondo, fino all’epico Omeros o Prima luce, tutti da Adelphi – sia la sua inesausta vena di lettore-viaggiatore e la presenza costante che lo vede spesso impegnato in reading e letture.

walcott omeros copertina walcott mappa-del-nuovo-mondoC’è una frase di Joyce che spesso viene associata alla sua opera, quasi ne costituisse una delle chiavi di volta. La storia, scrive Joyce, «è l’incubo dal quale tento di svegliarmi». Quale è il suo rapporto con temi e tempi, spesso sfasati, della «storia»?

Joyce era irlandese e per gli irlandesi il legame con la storia è alquanto delicato. Lo stesso potremmo dire per chi proviene dai Caraibi. Esiste in effetti un parallelismo tra la storia dell’Irlanda e quella dei Caraibi. Un parallelismo comune originato alla dominazione inglese. Più che di oppressione, infatti, dovremmo probabilmente parlare di una dominazione dei Caraibi da parte dell’Inghilterra, e questo è già un primo problema da affrontare, anche in termini linguistici. Tornando alla frase di Joyce, c’è da rilevare che lui parla da due punti di vista. Parla come artista, ma parla anche come cittadino. Il punto chiave è proprio questo: che cosa ci si aspetta generalmente da uno scrittore irlandese? Che cosa ci si aspetta da uno scrittore caraibico? La risposta è semplice: ci si aspetta che ridia un senso alla storia del proprio paese, che fornisca un’altra versione dei fatti e ne riscriva la cronologia.
Walcott 3 Per un caraibico, il tema chiave di tutta la questione, quello che in sé probabilmente ne condensa molti altri, è ovviamente il tema della schiavitù. Forse per questa ragione, la storia è un «incubo», ma un incubo da cui non si può – né spesso si vuole – scappare. È comunque un peso che grava sullo scrittore irlandese, come su quello caraibico. Al pari di un altro peso: quello dell’attesa. Ritorna dunque la domanda del che cosa ci si aspetti da uno scrittore irlandese o da uno scrittore caraibico, in quali orizzonti di aspettative siano inscritti i loro lavori e la loro stessa presenza. Generalmente, però, non ci si aspetta altro che scrivano qualcosa contro l’oppressione inglese o della schiavitù. Cercare di scappare da tutto questo è come cercare di liberarsi della propria ombra, mentre ci si trova in pieno sole.
walcott 2La questione centrale per Joyce – ed è a questo proposito che spesso mi riferisco alle sue parole – non è tanto quella della responsabilità della scrittura nei riguardi della storia, ma quella di escogitare se possibile una via di fuga, una maniera di evadere dalle restrizioni che quella storia gli impone. Non si tratta di evadere dal passato, è una questione di libertà. Libertà di scrivere su un dato tema storico, ma anche possibilità di non scrivere su quel medesimo tema. Ma è molto, molto difficile… la storia non è solo questione di ciò che è passato, ma è anche un’esperienza del presente. È da questo presente che si cerca, spesso invano, di risvegliarsi come spesso invano si spera di risvegliarsi da un incubo.

quaderno manoscritto di derek walcott

quaderno manoscritto di derek walcott

 Nel poema «Tiepolo’s Hound» (Il levriero di Tiepolo, traduzione a cura di Andrea Molesini, Adelphi 2005, pp. 340, euro 22), la nozione di esilio assume sfumature diverse. Nella complessa trama del poema, al viaggio di Camille Pissarro che da Saint-Thomas – nelle Antille danesi in cui è nato – prende la via di Parigi, si contrappone la figura del capitano Alfred Dreyfus, che dalla Francia viene cacciato con accuse infamanti di alto tradimento, rinchiuso nell’Isola del Diavolo e condannato – come lei scrive – «al proprio paradiso». Quello dell’esilio è un tema molto presente nella sua opera, potremmo associarlo a un tentativo di risveglio da quell’incubo storico cui accennava prima?

Pissarro è nato nei Caraibi, ma da lì è partito per l’Europa. Se n’è andato volontariamente a Parigi per dipingere, là si trovavano i pittori che lo interessavano, là si faceva esperienza, c’erano mercanti e un mercato per l’arte, ma non è questo il punto della questione. Quello che mi sono chiesto è, per esempio, che cosa ne sarebbe stato di lui se fosse rimasto. Come sarebbe cambiato il suo modo di descrivere paesaggi? La sua tavolozza, quali colori avrebbe compreso? Oppure, rovesciando la questione: quanto di caraibico permane nella sua opera, incrostato sulla sua tavolozza, anche dopo la partenza per la Francia? Ricordiamoci che Camille Pissarro ha avuto un’influenza determinante su Cézanne e Gauguin con i suoi colori e la sua luce. Ma è una luce che viene dai Caraibi, una luce che si è portato addosso come fosse un deposito di conoscenza inestirpabile e che nel Levriero di Tiepolo occupa un posto centrale. Di contro Dreyfus, il «Giuda di Francia», è l’«altro», quello che non sceglie di muoversi, di andare, di viaggiare, ma viene espulso, non solo fisicamente da un paese, ma anche in termini di identità. Anche Pissarro, in quanto sefardita, conosceva le «ferite dell’identità». Ma la Francia, per Dreyfus, è fin dal principio come una terra a cui sa di non appartenere. Come ho scritto nel Levriero di Tiepolo: «Dreyfus fu condannato al proprio paradiso: i Caraibi, al largo della costa di Cayenne, sull’Isola del Diavolo, dove, se muore, muore nel mare e nel sole, una fine invidiabile».

walcott 1 Parte della critica inglese ha definito fin troppo «ordinario» questo lavoro. A tal proposito, lei ha ribattuto che l’ordinario, il consueto, ciò che in apparenza non eccede è precisamente «il miracolo», ossia l’eccezione assoluta. Ci può spiegare meglio questa sua definizione di «ordinario»? In effetti è un rimprovero che venne mosso dalla critica del tempo anche a Pissarro, considerato troppo radicale nella sua vita politica – è nota la sua professione di fede anarchica – e troppo accomodante in quella artistica.

Esistono pittori, così come esistono poeti, che traggono ispirazione da elementi del quotidiano e hanno quali soggetti le nature morte, gli oggetti di uso comune, le cose di tutti i giorni. Potremmo dire che guardano le cose e distillano arte attraverso il filtro della vita quotidiana. Chardin, Cézanne… abbiamo molti esempi. Anche per quanto riguarda Camille Pissarro potremmo, in effetti, sostenere la stessa cosa. Chiunque poteva vedere le cose che vedeva lui. Il paesaggio era lì, con la sua luce, i suoi colori, i suoi movimenti spesso impercettibili. Ma proprio nella capacità di cogliere movimenti e momenti all’apparenza scontati o impercettibili sta la sua grandezza. Una grandezza «ordinaria» o non piuttosto una capacità per nulla scontata di illuminazione poetica? La poesia come la pittura, o quanto di poetico c’è nella pittura e viceversa, non toccano forse e al tempo stesso innalzano il «luogo comune»? A questo ho voluto alludere in alcuni versi del Levriero di Tiepolo: «Se ho intonato le mie tinte a un eccesso retorico / non fu per ambizione ma per toccare il sublime, / per innalzare il luogo comune sino alla sacralità / di oggetti resi radiosi dal lento smalto del tempo». Attraverso la tecnica, pittorica o poetica, attraverso il linguaggio della poesia o dell’arte, si compie questa sottile trasfigurazione, dell’ordinario nello straordinario. Ma tutto è già lì, il miracolo è inscritto nella vita di tutti i giorni.

walcott copertina levriero In un suo scritto, recentemente apparso anche in Italia (Oltre l’ultimo cielo, Epoché, pp. 170, euro 14), il poeta palestinese Mahmud Darwish riserva alcune considerazioni interessanti al suo lavoro. Come dobbiamo considerare l’opera di Derek Walcott, si domanda Darwish? Un compimento della lingua inglese? Se è innegabile che Walcott, scrive Darwish, «abbia preziosamente arricchito quest’ultima, non per questo le è debitore della ricchezza della propria esperienza poetica. Egli non è il prodotto della lingua inglese, bensì una sorta di punto d’incontro di diverse culture, lingue, luoghi e tempi».

Il linguaggio, per un poeta, è questione di melodia personale, individuale. Perché scrivo in inglese? Io scrivo sì in lingua inglese, ma la melodia di quell’inglese, la sua accentazione, è caraibica. Potremmo anche dire che non scrivo in inglese, ma non cambierebbe nulla. Poeticamente, le lingue non sopravvivono allo stato neutro e asettico, allo standard a cui vorrebbero ridurle taluni accademici. Comunque è chiaro che il mio non è il linguaggio di un americano, di un australiano, di un canadese e, tanto meno, di un poeta del Regno Unito. C’è dunque da chiedersi che cosa sia questa lingua, trasfigurata e piegata in una melodia personale, attraverso un’inflessione caraibica particolare. È ancora inglese? Certo che sì, ma impariamo a considerare le lingue come forme e forze vive, che necessariamente fuoriescono dai dizionari.

walcott 4Questo può dirsi anche del francese. Anche se per molto tempo la poesia antillana francofona è stata considerata più una corruzione della lingua «madre», che un suo arricchimento. In fondo, le espressioni «petit-nègre» e «charabia» sono nate in forma dispregiativa, per qualificare il parlato dei neri delle colonie. Un po’ è come se questa matrice ideologica persistesse ancora oggi…

È inutile che le dica che questa che alcuni chiamavano, e altri si ostinano ancora a chiamare, «corruzione» della lingua, è in realtà la sua forma viva e vitale. Non a caso ha prodotto poeti e scrittori del rango di Aimé Césaire o Patrick Camoiseau. C’è però da osservare che i francesi partivano da un assunto di base: quello dell’incorruttibilità della loro lingua, che in realtà è un latino corrotto, un latino inutilmente complicato da «barbari» con il culto dei dimostrativi. Il creolo, se lo consideriamo da questo punto di vista – si badi, lo stesso punto di vista di quegli «accademici» – è un processo rovesciato di semplificazione del francese. Asciugando la lingua la riporta alla sua freschezza, non direi «originaria», ma di base. Il paradosso è che, proprio ponendosi nell’ottica degli accademici di Francia, la prospettiva viene rovesciata e le strutture elementari della lingua rivivono proprio attraverso quello che occhi corrotti chiamano «corruzione». Lo snobismo, anche in questo campo, non porta a nulla. Baudelaire e Rimbaud non storcerebbero di certo il naso dinanzi alla «corruzione» creola. Ma loro si interessavano realmente alla lingua e alla sua vita, comprendendone gli intimi, necessari sommovimenti. Il problema sono certi accademici, ma in fondo loro non toccano la lingua viva, non la colgono nelle sue strutture e dinamiche, vorrebbero rinchiuderla nelle teche e nei musei. E lì farla morire.

walcott

 

 

 

 

Epiloghi 

Le cose non esplodono,
sbiadiscono, svaniscono,

come il sole svanisce dalla pelle,
come la spuma s’insabbia rapida a riva,

anche il lampo fulmineo d’amore
non finisce in un tuono,

ma muore col suono
dei fiori che svaniscono come pelle

sotto la pomice umida,
ogni cosa cospira a questo

finché non si resta
col silenzio che avvolge la testa di Beethoven.

Endings

Things do not explode,
they fail, they fade,

as sunlight fades from the flesh,
as the foam drains quick in the sand, 

even love’s lightning flash
has no thunderous end,

it dies with the sound
off flowers fading like the flesh

from sweating pumice stone,
everything shapes this

till we are left
with the silence that surrounds Beethoven’s head.

walcott 5

 Notti nei giardini di Port of Spain

La notte, la nostra estate nera, semplifica i suoi odori
in un villaggio; assume l’impenetrabile

muschio del Negro, si fa segreta come sudore,
i suoi vicoli che odorano di ostriche sgusciate,

carboni d’arance auree, bracieri di meloni.
Commerci e tamburelli ne accrescono il calore.

Fiamme dell’inferno o il bordello: un’onda di facce
di marinai s’increspa su Park Street ed è andata

con la fosforescenza del mare, le boîtes de nuit
ammiccano come lucciole nei suoi capelli spessi.

Accecata dai fanali, sorda ai clacson dei tassisti,
solleva il volto dal bagliore volgare della pece

verso stelle bianche, come città, neon che abbagliano,
arsa dal desiderio di essere quella puttana che sarà.

 

Nights in the Gardens of Port of Spain

 

Night, our black summer, simplifies her smells
into a village; she assumes the impenetrable 

musk of the Negro, grows secret as sweat,
her alleys odorous with shucked oyster shells,

coals of gold oranges, braziers of melon.
Commerce and tambourines increase her heat.

Hellfire or the whorehouse: crossing Park Street,
a surf of sailors’ faces crests, is gone

with the sea’s phosphorescence; the boîtes de nuit
twinkle like fireflies in her thick hair.

Blinded by headlamps, deaf to taxi klaxons,
She lifts her face from the cheap, pitch-oil flare

towards white stars, like cities, flashing neon,
burning to be the bitch she will become.

As daylight breaks the Indian turns his tumbril
of hacked, beheaded coconuts towards home.
 
 
(traduzione di Matteo Campagnoli)

 

The time will come
when, with elation,
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror,
and each will smile at the other’s welcome,
and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you
all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,
the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.

All’alba, l’indiano volta verso casa il suo carretto
di noci di cocco decapitate con l’accetta.

 

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

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BESNIK MUSTAFAJ “LEGGENDA DELLA MIA NASCITA” LEGJENDA E LINDJES SIME (1976 – 1986) Antologia. Cura e traduzione di Gëzim Hajdari

Besnik Mustafaj Hoxa

Besnik Mustafaj “Leggenda della mia nascita” Legjenda e lindjes (1976 – 1986) Edizioni Ensemble, Roma, 2012 – A cura e traduzione in italiano di Gëzim Hajdari

Besnik Mustafaj è nato il 23 settembre del 1958 in Albania. Si è laureato in Lingua e Letteratura Francese all’università di Tirana e ha lavorato come professore, traduttore e giornalista. E’ tra i fondatori del Partito Democratico d’Albania; con Azem Hajdari organizzò la prima manifestazione democratica contro il regime comunista di Enver Hoxha. Ambasciatore in Francia dal 1992 al 1997, è stato Ministro degli Esteri dal 2005 al 2007, per poi dimettersi causa dissenso con il premier Berisha e dedicarsi definitivamente alla scrittura.
Tra i più importanti scrittori contemporanei albanesi, Mustafaj è autore di numerosi romanzi, saggi, raccolte e traduzioni. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue, ricevendo un largo consenso di critica. In Italia ha pubblicato Albania tra crimini e miraggi (Garzanti, 1993). Nel 1997 ha vinto il premio Méditerranée per il romanzo Daullja prej letre (Tamburo di carta).

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tirana

tirana

 La poesia di Mustafaj nasce nelle Bjeshkët e Nëmuna (Montagne Maledette), nel nord dell’Albania, nel pieno inverno della dittatura comunista albanese. Il giovane poeta delle Alpi entrerà molto presto in contatto con il mondo letterario pubblicando la prima raccolta in età giovanissima, a soli diciannove anni. Dopo gli studi superiori nella città natale, si trasferisce nella capitale per frequentare gli studi universitari di lingua e letteratura francese A quel tempo, Tirana, era la capitale della cultura del realismo socialista che alimentava la macchina del terrore rosso. Nel cuore del regime le vicende scorrevano come in una scena delle tragedie shakespeariane. Erano i tempi del famigerato del IV Plenum 1973 che colpì duramente la vita culturale. Nella grande città, il giovane poeta spaesato, viene preso dalla vita studentesca e dagli studi, osservando da lontano la vita culturale e gli ambienti letterari. Portava con sé un’aria di libertà, che le alpi avevano imposto alla sua stirpe fiera e guerriera di Tropojë, città natale. Vivendo al di fuori dei circoli dei poeti, ancora non si rende conto del meccanismo sanguinario e del terrore esercitato contro gli uomini di cultura e non solo.

Manifestazione a-Tirana 1990

Manifestazione a-Tirana 1990

 In quegli anni, la Lega degli Scrittori riprende la caccia alle streghe e iniziano processi inauditi contro scrittori e artisti che, secondo il regime, erano stati influenzati dall’“ideologia borghese” occidentale. Molti di loro furono arrestati e internati, oppure fucilati e le loro opere messe al bando. Numerosi furono anche quelli mandati nelle campagne per essere rieducati ideologicamente. ”Essendo fuori da tutto ciò che accadeva dentro le mura della censura, non conoscevo il senso della paura”, ricorderà, più tardi, il poeta Besnik. Questo lo aiutò a riflettere sui temi esistenziali della sua poesia e non limitandosi solo a quelli celebrativi imposti dal manifesto dell’arte di partito. Quando inizia a lavorare come giornalista presso il quotidiano del partito Zeri i popullit (La voce del popolo), il poeta si renderà conto di tutto quel che accadeva nei palazzi del potere.

Macchina della Polizia di Tirana

Macchina della Polizia di Tirana

 Ormai “il migrante” del nord era divenuto più maturo e più cosciente e cerca di resistere e difendersi, per non essere schiacciato dal peso dell’oppressione del regime. In queste condizioni riesce a sopravvivere la sua parola, pur all’interno dell’estetica di Stato; il che dimostra che il suo verso ha resistito ai tempi, anche dopo il crollo della dittatura e della letteratura declamatoria e demagogica del realismo socialista. E’ per questo che la sua opera ha un doppio valore: umano e letterario.
Il verso di Mustafaj sembra pacato a una prima lettura, epico come nei racconti degli antichi, senza grida né enfasi. Ma è solo un inganno, perché rileggendo con l’attenzione dovuta, si scopre che sotto l’essere del suo verbo abitano echi, suoni, ritmi interiori intensi che penetrano nella memoria del lettore accorto, rimanendovi per sempre. E’ un verso vero e vissuto profondamente, carico di umanità e di universalità. Mustafaj sa colloquiare con le cose, dando loro voce e volto, attraverso una prosa poetica che colpisce per la forza e per la bellezza antica ed ancestrale. A volte tumultuosa e carica dell’inquietudine quotidiana, la sua poesia si fa carico del dolore e della sofferenza dell’uomo, in attesa di un raggio di luce durante le notti nere, che sembrano non avere mai fine: “Non arriverà mai l’alba”. Fare il poeta nel cuore della dittatura più feroce del vecchio continente, in cui s’intrecciavano i vivi con i morti, poteva essere una scelta fortunata per i poeti di corte, ma pericolosa per gli ‘eretici’. Attraverso le metafore e simboli ambigui, i poeti tentavano di ricuperare la libertà quotidiana perduta. Chi ha osato spingersi oltre il limite proibito, fissato dalla censura, ha pagato con la propria vita, uccidendosi con la propria poesia.

Tirana squarebesnik mustafaj copertina Leggenda

Tirana square

 Il territorio poetico di Mustafaj è un territorio minacciato, abitato da streghe, notti nere, boschi oscuri, lupi mannari, sangue versato… Sono simboli negativi che, come presagi, preavvisano un lugubre destino per il poeta e per la poesia stessa. Scene makbethiane, in cui ognuno tenta, disperatamente, di difendersi e salvarsi, come dimostrano i versi «Nella casa costruita con gli alberi del bosco, / durante le notti nere, ti difesero dalle streghe». Per il poeta, la vita quotidiana ha perso il proprio senso, è per questo che ha deciso di vivere diversamente, trasformarsi in un sogno irreale, perché il presente emana solo gemiti. Non rimane altro che continuare a sperare, stringendosi l’uno all’ altro ed amarsi: «Come fanciulli, amore mio, / come fanciulli siamo noi». L’amore come anima del mondo; è la poesia stessa che sopravvive, sfidando qualsiasi oppressione e i recinti di filo spinato. Toccanti sono i versi dedicati alla propria donna, alla madre, che pur essendo assente, è sempre presente e accanto al proprio figlio, pronta a proteggerlo, insegnandogli le leggi antiche degli avi malsor (montanari).

Besnik Mustafaj

Besnik Mustafaj

 Immagini surreali percorrono il palcoscenico della sua poesia. Il poeta soffre, è inquieto, decide di affidare il suo segreto d’uomo al proprio corpo, scendendo nel profondo del suo io, aggrappandosi forte ai ricordi, al paese natale, alle sue leggende e ai suoi miti. L’unico patrimonio prezioso che dà un senso al suo esistere, per Mustafaj, diventa l’infanzia, fatta di pietre, di pugni di terra, di manti di neve, del respiro delle montagne; tutto questo per non morire come uomo. «Mia infanzia – sei una Rozafë* rinchiusa nelle fondamenta della nuova città. / Ma non hai lasciato fuori / delle mura / né la mano / né il seno / né gli occhi». E’ l’unico cordone che lo terrà in vita, d’ora in poi a Tirana, capitale del crimine.
Nella “nuova città staliniana”, egli e la sua parola soffrono, non si riconosceranno più e il poeta si sente come la Rozafa, murato vivo nelle sue mura, quindi in quelle della propria opera. E’ un gesto estremo, quello di scegliere di vivere, d’ora in poi, trasformando il suo corpo in versi. Allora, è questa la vera missione del poeta e della poesia stessa. Ma le notti buie ingombrano ovunque, schiacciando uomini e pensieri. Partecipe alla sofferenza del suo popolo e all’angoscia quotidiana del poeta, diventa anche la natura che lo circonda. Infatti, stanno per scoppiare fiumi e fulmini e la terra inclinata si regge alle braccia degli uomini, per non cadere nei propri abissi. Il sole pallido sulle alpi non riscalda più; tutto sta per congelarsi. Scene apocalittiche, in cui l’uomo e la natura si consolano disperatamente a vicenda. La paura e il terrore della dittatura albanese è presente e penetra dappertutto, persino nei grembi delle madri e dei bambini. «Figliolo mio /Da dove ti viene questa paura». Mentre i fiori, «/ donano ai vivi / odori morti». Si vive in un incubo perenne, in cui ognuno teme per la propria sorte.

Man mano che scorrono i versi di Mustafaj, davanti agli occhi

Besnik Mustafaj

Besnik Mustafaj

 del lettore, si affacciano immagini e situazioni sconvolgenti, per arrivare al culmine con “O corvi che mi divorate, oi, oi!”. Versi che rammentano i lamenti delle grandi tragedie antiche. Un’accusa al cielo aperto che sanguina. Al poeta non resta che uscire allo scoperto, questa volta tramite una poesia emblematica «Cammino per la mia strada». Una poesia blasfema per il tempo, pubblicata nella raccolta Volto di uomo 1987. Una sfida aperta al potere e alla sua ideologia culturale. I suoi versi suoneranno come un anatema contro l’oppressione e i suoi censori: «Cammino per la mia strada./[…]/ Il mantello non riesce ad essere la maschera del mio corpo / […] / Voi che mi conoscete, vi prego, se mi volete veramente, / non chiedetemi di essere sempre lo stesso!
E’ questa la leggenda della nascita del poeta e della sua poesia imponente, dai toni epici ed elegiaci, che assomigliano ad una “leggenda” vivente sorta nel gelido el lungo inverno della dittatura albanese.
G. H.

Scontri-a-Tirana 2001

Scontri-a-Tirana 2001

FATA

Tutto questo, grazie ai miei avi
che ti hanno insegnato ad amare la vita.
Nella casa costruita con gli alberi del bosco, durante le notti nere,
ti difesero dalle streghe.

Ti convinsero a stare qui, nella loro terra,
sul suolo scuro
quando in quel tempo
ogni cosa si rifletteva violentemente
sui vetri dei finti Palazzi e nei cieli.

Ti raccolsero dal nulla,
ti donarono il proprio caldo respiro d’uomo
e ti santificarono come donna.
E tutto questo, grazie a loro!

Altrimenti non ci saremmo mai incontrati
ed amati
e al posto del tuo nome,
ti avrei chiamata
Fata del mare e del cielo.

Besnik Mustafaj

Besnik Mustafaj

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MADRE

Vecchia madre, taciturna,
la tua vita, un andare e venire, sei sempre la stessa,
nell’aria d’intorno e nell’assenza,
nelle vene del sangue, nell’anima.

Sulle strade che percorro, siano esse minacciose o lontane,
ovunque io vada,
o cammini,
riconosco le tue orme
che mi guidano
e mi proteggono.

Se avverto il richiamo delle sirene,
sei tu ad affievolirmi l’udito,
rendi forti le mie braccia quando tiro con l’arco,
e mi rimproveri quando dimentico le leggi antiche
della mia stirpe.

Ulisse, mio fratello balcanico di tremila anni,
in segno di riconoscenza di fronte ad Atene,
pregasti davanti all’Olimpo vuoto.
Che peccato, non riuscisti a capire che fu tua madre,
che ti fece tornare a Itaca,
sei vissuto e morto senza posare neanche un fiore appassito
sulla sua tomba. Continua a leggere

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POESIE AD IMITAZIONE DELLO STILE DI EUGENIO DE SIGNORIBUS – “Diramazioni incorniciate dal precipizio si diradarono”. Con una nota esplicativa della redazione

bello

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

Per notizia dei lettori dico come sono andate le cose. Ho ricevuto, il 3 maggio 2014, via e-mail, da un certo Signor Lissa, le poesie che ho postato ad imitazione della poesia di Eugenio De Signoribus. Il Lissa mi chiedeva di postarle in modo che si credesse che fossero state scritte dall’Autore in argomento quando invece erano composizioni da lui scritte AD IMITAZIONE DELLA VERSIFICAZIONE di De Signoribus, e finiva con questo ragionamento:

«Vede, Signor Linguaglossa, quando uno stile è «FALSO» come quello di De Signoribus, ovvero, fatto a tavolino, con una impostazione di voce in falsetto, ortogonale, perpendicolare, e un preciso taglio del lessico (a metà tra il numinoso e il teologale), lo si può anche CLONARE, FALSIFICARE, perché intimamente FALSO, artefatto, posticcio, insincero. Per queste ragioni affermo anch’io che il suo stile è in sé un clone, un «FALSO», fabbricato a tavolino. Ecco la ragione per cui esso si presta così bene alla falsificazione e ai duplicati. È uno STILE LETTERARIO, come gran parte della poesia contemporanea, e può essere clonato in mille esemplari… anzi, addirittura, mi pregio di aver scritto UN FALSO che è MIGLIORE DELL’ORIGINALE».

Alberto Lissa

Dopo il primo momento di perplessità e una breve riflessione, ho ritenuto comunque doveroso da parte della Rivista di dover offrire ai lettori anche questa «riscrittura», o «clone», o «imitazione», fate voi, affinché ciascuno tragga liberamente le proprie conclusioni.

Giorgio Linguaglossa

bello 1

 

Uaxuctum1

.

Diramazioni incorniciate dalle torrette blindate
si diradavano nel buio.
Noi di qua dalle cancellate di filo spinato. Loro di là.
I fortificati, gli indigenti, i premorienti della cicatrice chiamata Terra.
Fitti e assiepati gli uni agli altri, guadagniamo infine
gli stabilimenti dei dormienti.
[Sono costoro immersi in un sonno plumbeo].
I gendarmi li chiamavano i «copulatori del sonno».
I morienti furono spinti con il calcio dei fucili,
assiepati e addossati gli uni agli altri al muro perimetrale.
Li chiamarono, ad uno ad uno, in correità.
Verificarono i loro documenti.
[Separano i vivi dai morti, i morienti dai morituri,
i premorienti, gli irridenti, i plagiari].
Proclamarono i responsi ai condannati e li divelsero dalla vita ultima,
dai falsi reggimenti, dalle ultime fondamenta,
dagli ultimi tentati stabilimenti.
[…]
Dai fondali lutei del fiume emersero le statue bianche
venute dalla cicatrice chiamata Terra.
Dichiararono che erano stati prigionieri del sonno,
che nulla sarebbe stato più come prima,
e che dopo il prima non ci sarebbe stato un dopo.
[Una schiera di malnati si fa avanti nella ressa.
Un gendarme guida la dissoluzione dei lapidati dal sonno].
Chiesi al gendarme: «È un inizio o una fine?»,
ma non ottenni risposta.
[Intanto, i maledetti cantano alleluia e si battono il petto
come appestati che chiedano la grazia. Si assiepano
nel refettorio del dolore eterno…]
Ma erano anime ormai, nient’altro che anime.
«La risposta se c’è è nei ripostigli della memoria»,
disse un malvissuto.
[…]
All’improvviso, il ronzio d’un motore d’elicottero
giunse dall’alto.
Un tip tap incontinente, un bip, un tric insistente…
Dall’alto. Dagli altoparlanti. Una voce ci chiama per nome.
Ad uno ad uno.
I defraudati dal dolore, gli analgesici del sonno, si fecero avanti
tra la schiera dei malnati e dei malvissuti.
Una folla di malmostosi vennero a noi portandoci
vivande borotalco, il cibo del cimitero.
«Mangiatene – dissero – e diventerete eterni».
Ma noi svoltammo nell’aria vetrosa del mattino
dietro l’angolo del muro perimetrale.
C’era il sole eterno. Accecante. Luce. Luce.
[…]
I gendarmi officiarono il rito dell’iniziazione,
ma era già tardi.
Le statue bianche stavano con le spalle al muro, gli occhi bendati.
I malvissuti fuggivano in direzioni molteplici. Dicevano
parole distanti. Parlavano dei respingimenti,
degli accorgimenti, dei trucchi… Ed apparivano
spaesati, inquieti…
 .
 1  Composizione musicale di Giacinto Scelsi su una città Maya distrutta per motivi religiosi.

 

 

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SUL TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (Stige o Acheronte) – Poesie inedite di Steven Grieco Rathgeb, 

onto Steven 1

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

 La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga.
L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi.
Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

Steven Grieco 2

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

 

 Steven Grieco

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Ha pubblicato, in autopubblicazione, nel 2002 Maschere d’oro (poesie italiane 1985-1996) e Nel caleidoscopio; indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com. Nel 2016 pubblica poesie in italiano e in inglese Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, Milano) e dieci sue poesie sono comprese nella antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

 

 

 

 

 

 

Era buio: feci per salutarti, cerimonioso,
come un tempo i poeti cinesi.
Tutto intorno i battiti, frullio d’ali
di un grande uccello iridescente
che si libera a poco a poco.

Lui aprì la porta appena, senza farsi notare,
poi tornò a sedere di là
Un soffio d’aria
appena spirò dalla porta socchiusa,
svelando il suo ascolto.

Sotto i colpi ripetuti il buio impallidì,
le acque si aprirono
tra Rodi e i massicci dell’Anatolia –
blu quell’orizzonte dove tu,
minuscolo nella distanza,
già ti trovavi, da tempo incamminato
come un viaggiatore.

Io, tu, Lui. Parole senza senso in questo
unico sforzo, questo istante sospeso.

Ammiccava la brezza, guardando nessuno.
Quel divincolarsi sempre più serrato, frenetico,
concluso infine da un botto lacerante.
Poi il congedo: ali chiare,
l’innalzarsi possente, senza lasciare alcun resto.
Silenziosamente, lui venne a chiudere la porta.
Frantumi e schegge

Onto Grieco

Steven Grieco Rathgeb grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

Non ho altro da dirti che questo per descriverti.
Con tutto quello che mi mostri
non riesco a sottrarti nulla.
Al contrario,
le certezze si fanno sgangherate,
sbattono nel vento le porte di vecchi ricordi,
i vicoli e sentieri nel mio pensiero
trasaliscono, poi tacciono.

Ritrovando la propria estraneità,
io torno in questo immaginare
che si compie altrimenti.

Così svanisce ogni ricerca,
la valigia cede metro per metro
il carico di lucenti cianfrusaglie.
Esperienze, comprensioni, illuminazioni:
come la ricchezza dell’avaro
tutto questo si riduce a un bisbiglio
dietro l’angolo.

Arnol Bocklin Isola_dei_Morti versione originale

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

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QUATTORDICI POESIE DI GIORGIA STECHER (1941-1996) da “Altre foto per album” (1996), con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Palermo inizi 900

Palermo inizi 900

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Della svizzera palermitana Giorgia Stecher scomparsa nel 1996 di cui ricordiamo Quale Nobel Bettina (Palermo, 1986), Album (Palermo, 1991), Altre foto per album (Roma, 1996), presentiamo qui quattordici poesie tratte dal suo ultimo libro. Ho scritto della sua poesia in Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) EdiLet, Roma, pp. 400 € 16:

«Abbiamo tutti gli elementi di disinteressata autenticità che fanno di un poeta un piccolo classico. Una poesia che interpreta la memoria attraverso la lettura di alcune vecchie fotografie di famiglia.
Libro compiuto, adulto, opera di un poeta giunto alla piena maturità, documento artistico e spirituale tipico di quella sensibilità di fine Novecento che ha trovato nel Manifesto della Nuova Poesia Metafisica (n. 7 «Poiesis», 1995) una significativa esemplificazione. Poesie nate da fotografie perdute e poi ritrovate; si badi, non poesie di “derivazione” ma recherche di un “tempo perduto”, ricostruito con la sensibilità postuma di un poeta che alla poesia chiede la ricostruzione di un mondo tramontato sotto l’obblivione dell’epoca tecnico-scientifica. Nella deriva del Tempo, Giorgia Stecher arresta e ricostruisce l’attimo e la temporalità, i destini individuali e collettivi. La verità si staglia non alla luce del sole ma alla luce del flash. Nell’epoca del telecomando e del televisore, è la foto ingiallita dal tempo che rivela il mondo». Con le parole della Stecher: «È accaduto che, dopo la pubblicazione del mio Album nel 1991, siano venute alla luce altre foto dimenticate nei cassetti e negli angoli più riposti della casa e della mente. È pure accaduto nel frattempo, che altri personaggi ed eventi abbiano richiesto, anzi reclamato, un flash per entrare a far parte della raccolta, accanto agli attori che avevano avuto la ventura di precederli. Questo nell’illusione di guadagnarsi così un diritto di sopravvivenza peraltro arduo se non improbabile ma ben consapevoli che in ogni caso ciò che non è scritto (o in qualche modo registrato) non esiste. Sono stati, come si vede, accontentati. Anche perché nell’Album c’erano, e ci sono ancora, numerose pagine vuote».

Palermo villa Scalea con il re d'Italia

Palermo villa Scalea con il re d’Italia

foto inizi 900 Palermo,

foto inizi 900 Palermo,

Si è parlato tanto e a dismisura del «parlato» e del «quotidiano» in questi ultimi 30 40 anni che si è finito col perdere il significato di quei vocaboli. Da un punto di vista generale, tutto è «parlato», e ci si è dimenticati del «chi parla» e per «che cosa» si parla e «per chi?». Così è passato in secondo piano che il poeta parla sempre a qualcuno (altrimenti lo si dovrebbe prendere per matto); anche quando non parla con nessuno, questo è sempre un qualcosa di oggettivo: dico il «nessuno», un qualcosa che esclude gli altri. Che la poesia italiana da Giovanni Giudici in giù si sia incamminata verso una strada sempre più stretta e asfittica è una tesi sulla quale io insisto da tempo; che occorresse un correttivo a questo cinetismo della poesia italiana è un fatto che i più accorti e acuti lo hanno notato da tempo… In questa accezione la rivalutazione di poeti che hanno operato («referenzialisti e realisti») negli anni Ottanta Novanta come Giorgia Stecher è una operazione assolutamente necessaria per tentare di contro bilanciare il cedimento ai linguaggi poetici «metallizzati» da sentimentalismi spurii e incongrui o da eccessi di «quotidiano», con tutto un effluvio di esternazioni e singulti dell’anima offesa e violata (giustamente sono state citate Mariangela Gualtieri e compagne di strada) con il tema del «patetico» messo in vetrina. Nulla di più estraneo della poesia di Giorgia Stecher rispetto alla teca del cuore delle autrici al femminile pubblicate in questi ultimi lustri a dismisura. Qualcuno ha anche detto, non a torto, che si è verificata in questi anni una «femminilizzazione» dei linguaggi poetici, ironicamente annotando il «patetico» di tali scritture, con l’eccezione degli ultimi libri della Valduga la quale sa utilizzare con astuzia trasgressione ed erotismo con una mescidanza di stilemi e di linguaggi di trapassate stagioni letterarie.

 il venerdì santo a Palermo gli incappucciati

il venerdì santo a Palermo gli incappucciati

Mario_De_Biasi__1954__stampa_d_epoca

Mario_De_Biasi__1954__stampa_d_epoca

Per tornare a Giorgia Stecher, a distanza di quasi venti anni dalla pubblicazione degli ultimi suoi due libri, Album (1991) e Altre foto per album (1996), non possiamo non notare la perfetta corrispondenza nello stile tra tasso di referenzialità (le fotografie ingiallite dal tempo) e indice di utilizzazione del «parlato» tutto innervato nel e sul referente. Non vedo traccia di patetismo in questa operazione della Stecher, è un linguaggio poetico che evita il facile e scontato riferimento ai linguaggi della piccola borghesia in via di definitiva mediatizzazione; anzi, la scelta del tema e la tematizzazione stilistica dei suoi due ultimi libri indirizzano la sua operazione verso una poesia senza interlocutore, priva cioè di agganci col sociale immediato e tantomeno con l’attualità, o con quello che si considerava (e forse anche oggi con gli opportuni distinguo) di «attualità». Oggi definirei felicemente anacronistica e inattuale la poesia della Stecher, un po’ come quella di Ripellino, di Helle Busacca, di Maria Rosaria Madonna, di Laura Canciani. Per questi motivi ritengo oggi essenziale la rilettura della poesia della Stecher per ricostruire e capire che cosa è avvenuto nella poesia italiana degli ultimi decenni del Novecento.

Confermo quanto riferito da Giuseppe Panetta circa la signorilità di Giorgia Stecher e il suo gusto irreprensibile per le persone della Commedia umana. Vi racconto un altro aneddoto che, forse, può gettare un fascio di luce sulla personalità di Giorgia. Un giorno nel 1996 venne da me e mi chiese di pubblicare un libro con lo Scettro del Re, (che poi ero io con la mia piccola casa editrice). Io le dissi: «ma Giorgia perché vuoi pubblicare con me che sono uno sconosciuto quando puoi rivolgerti ad editori più affermati?». E lei mi rispose: «Perché tu Giorgio sei un poeta che crede nella poesia». Non dimenticherò mai quella frase, che, all’epoca mi riempì di orgoglio. Io le proposi per il libro che poi uscì postumo “Altre foto per album”, una prefazione di Francesca Bernardini della Sapienza di Roma. Giorgia accettò. E cominciò una lunga attesa che la signora Bernardini si decidesse di scrivere la prefazione. Aspettammo SEI MESI. Un giorno ricevo la notizia che Giorgia era morta. Aveva un tumore alla fase terminale. Non me ne aveva mai parlato. Io andai su tutte le furie, presi carta e penna e scrissi due righe alla signora Bernardini, le scrissi che avevo affidato la prefazione ad un altro critico. Di qui, seppi in seguito, l’odio della Bernardini nei miei riguardi (odio che ricambio volentieri con il mio più ampio discredito).
Il libro andò in stampa e uscì postumo.
Ecco, questa era la signorilità di Giorgia Stecher. La signorilità dei poeti di razza.

(Giorgio Linguaglossa)

Sono sempre con me

Sono sempre con me
quelli che se ne andarono
inghiottiti dal gelo della notte!
Alcuni sedevano miti sulla soglia
guardando il dispiegarsi degli eventi
in recondite stanze architettati
Altri solcavano la vita
col passo trionfante distribuendo
fulmini e blandizie tutti
però credendo di avere nel forziere
una fetta cospicua di minieternità.
Un turbine li spazzò via uno ad uno
nel volgere di un giorno! Di loro
ben poco è rimasto
oltre la cineteca del ricordo
a cui ho accesso io sola
ed all’antologia delle canzoni
che zufolo nell’intento di evocarli.

Il bisnonno

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come il mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

La bisnonna

In un cassetto serbo ancora
i tuoi denti che non ho avuto
il coraggio di buttare da quando
una tua figlia me li diede quale
macabro dono a tuo ricordo.
Il diabete pare te li avesse
giocati e l’insistenza tua
nel non curarlo. Ti chiamavi Natala
(pensa che nome!) portavi una mantella
ricamata la tua saggezza dicevano
(ora chi più ne parla?) era nota.
Alla mia nonna a lei così sedentaria
pungesti i piedi con un ago sottile

la volta che si scostò dalla tua gonna!

Zia Carmela

Dunque Carmela amava Salvatore e Salvatore
Carmela ma i genitori opposero un diniego
grande quanto la palizzata alla marina.
Ma questa poi crollò col terremoto giammai
il diniego che li vide persi, persi e dispersi
in divergenti strade sepolti sotto le pietre
del rimpianto. Storie datate novecentosette
da noi lontane anni luce come del resto tu
nella tua posa la testa reclinata sulla spalla
gli occhi sgranati a chiedere ragione.

una via di Palermo

una via di Palermo

Nonna Teresa

Che dignitoso commiato il tuo
nonna Teresa, in pieno consapevole,
recitando preghiere tanto ch’ebbi
il coraggio di dirti: Quando
sarai lassù… (che ci salissi
non esisteva dubbio) “Sì pregherò
per te”. Eppure avevi trascorso
la vita senza muovere un dito
senza mai una battaglia; quell’unica
che affrontasti, la più dura, senza
battere ciglio la vincesti.

 

L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

 Nonno Franz

Mi chiedo spesso quale nodo di vento
abbia portato qui mio nonno
da Zurigo. Eppure trovò bene
in questa terra: intraprese commerci
sposò una del luogo visse ricco e ossequiato
con carrozze e livree fin quando
una sterzata della stella
lo mandò bruscamente ruzzoloni.
Da bravo zurighese affrontò con decoro
la caduta. A ricordo dei vecchi fasti
osservò fino in fondo l’etichetta
mantenne sempre a pranzo l’antipasto
mai domenica trascorse senza il dolce.

foto d'epoca

foto d’epoca

Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia,

Zia Angelina

Portavi sette calze una sull’altra,
a scopo mimetizzante pare
di inaccettate magrezze.
Inverosimili cose cucinavi
come i baccelli di fave
e altre delizie. Ma questi
e altri ancora furono i vezzi
di una vecchiaia triste (a cosa
mai non ci conducono gli anni!)
inimmaginabile, quanto diafana
dama al belvedere, sotto un cappello
di rose ti nascondevi dal sole.

Foto di mia Madre

Nella foto con sulla testa
un secchio capovolto (che moda
fu mai quella dei tuoi tempi!)
hai scritto: Qui sono scappata dal serraglio.
Ma intorno non si sospettano leoni
né tracce d’altre fiere. Da un’altra
gabbia invece poi fuggisti e fu
una gara tra galline e galli
per gridare allo scandalo inaudito.
La tua incuranza fu la loro pena
perché non c’è di peggio per i polli
che di veder fuggire un prigioniero.

Palermo via-Roma-1900

Palermo via-Roma-1900

Foto di Nonno Peppino con Orologio

Accanto al letto tengo
ancora il tuo Roskopf che
settant’anni fa comprasti
a Boston. Certo non posso dire
che adesso segni il mio tempo
(fa un baccano d’inferno, la sua
giornata a me sembra più corta)
ma se gli do la corda lui
riparte spedito come in quel
giorno del quarantanove in cui
lo raccolsi sopra la consolle,
da te dimenticato per altro
appuntamento ormai partito.

stecher foto d'epoca di nudo

Palermo inizi 900

Foto di gruppo con zia Nata

Questa mi pare sia del trentanove:
Aldo bambino ha una smorfia
sul viso per il sole, io sono gongolante
per avere trovato non so dove l’involucro
luccicante di un cioccolatino;
Dietro tu e le altre zie – le adulte –
col vento che vi corre tra i capelli
e sullo sfondo naturalmente il mare
con una grande nave che pazienti aspettammo
si disponesse dentro l’obiettivo.

Con Luciana al Mare

Abbiamo costumi uguali di cretonne
a bolle bianche sopra un fondo rosso
però i colori li sappiamo noi
perché la foto mica li rivela. Io
magra come un chiodo tu opulenta
strizziamo gli occhi, siamo contro sole.
S’intravedono appena dietro di noi
le baracchette bianche che ospitarono
i nostri giorni da favola quelli che
a ricordarli ci riportano in mente
la bicicletta i balli le canzoni
gli sguardi dei ragazzi per te sola.

Foto di Maria Nicosia con altre Amiche

Siamo venute bene in questa luce
tra gli angeli scolpiti e le colombe
sulla coppa d’opale che comprammo
ad Assisi un’estate. Rosa che canta
Mimma che dipinge Ida che sta in Duetto
dentro un libro io che declamo Prenditi
la casa. Tu la regista che con occhio
amorevole ci assembla ci suona al pianoforte
The Man I Love ci porge il liquorino
della sosta tra un viaggio e l’altro
tra una fuga e un ritorno alla sua riva.

foto d'epoca

foto d’epoca

Foto della poetessa Maria Costa sulla Riviera Paradiso

Vieni fuori da un’acqua turbinosa
mentre soffia il grecale alla marina.
Porti ricci di mare nei capelli
e attorno alle tue vesti guizzano pesci.
Che fantastiche storie ci racconti
di trombe d’aria, di lontri, di feluche,
di mastri calafati, pesci spada, di naufragi
e ritorni fortunosi. Così anche noi smemorati
d’incanti torniamo alle magie di questa riva
che ci riporti intatta ripopolata di barche
e di sirene. Non dev’essere scherzo del destino
se il luogo privilegiato che t’accoglie
è chiamato da sempre Paradiso.

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Boris Pasternak (1890-1960) QUATTORDICI POESIE tradotte da Paolo Statuti

 

Boris Pasternak Pasternak Boris Leonidovič (Mosca 1890 – Peredelkino, Mosca, 1960). Vicino ai futuristi, esordì con le poesie Bliznec v tučach (“Il gemello nelle nuvole”, 1914), imponendosi presto come il più interessante lirico russo della sua generazione. Il suo primo racconto pubblicato fu Detstvo Ljuvers (1922; trad. it. L’infanzia di Ženja Ljuvers, 1960), lavorò poi segretamente al celebre romanzo Doktor Živago (pubbl. in trad. it., Il dottor Živago, nel 1957, e nell’originale russo negli Stati Uniti nel 1961), affresco della storia russa vista attraverso le tormentate vicende di un intellettuale.

 pasternak 9Figlio di un noto pittore e di una pianista di talento, dopo studî di musica, diritto e filosofia (seguì i corsi di H. Cohen a Marburgo) si avvicinò al gruppo futurista “Centrifuga”, esordendo come poeta sotto il segno dello sperimentalismo linguistico nella già citata raccolta Bliznec v tučach. Dopo la raccolta Poverch barerov (“Oltre le barriere”, 1917) s’impose con i versi di Sestra moja žizn′ (“Mia sorella la vita”, 1922). La sua vocazione di poeta denso ed ermetico, originalissimo nella descrizione della natura, fu confermata da Temy i variacii (“Temi e variazioni”, 1923), mentre meno felici sono i poemi di carattere narrativo ed epico (Devjatsot pjatyj god “L’anno 1905”, 1927; Spektorskij, 1931), nei quali P. tentò la via di un impegno ideologico estraneo alla sua più autentica ispirazione. Nel frattempo aveva pubblicato il primo racconto, il già citato Detstvo Ljuvers, poi compreso nella raccolta Rasskazy (“Racconti”, 1925). In Ochrannaja gramota (1931; trad. it. Il salvacondotto), insolita autobiografia ricca di riflessioni teoriche e filosofiche, rievocò gli incontri con gli scrittori e gli artisti che più influirono sulla sua formazione (Rilke, Skrjabin, Majakovskij).

Pasternak 10A disagio nel clima di sempre più rigido controllo ideologico, dopo il volume di liriche Vtoroe roždenie (“Seconda nascita”, 1932) P. si dedicò per alcuni anni alla traduzione (da Shakespeare, Goethe, von Kleist, poeti georgiani), tornando a pubblicare proprî versi durante la guerra (Na rannich poezdach “Sui treni del mattino”, 1943; Zemnoj prostor “La vastità terrestre”, 1945). Negli anni successivi lavorò segretamente al romanzo Doktor Živago. Scritto in una prosa lirica di grande suggestione, il romanzo valse a P. un’immediata notorietà in Occidente, ma le polemiche e gli attacchi cui fu sottoposto in URSS costrinsero lo scrittore a rifiutare il premio Nobel assegnatogli nel 1958. Nello stesso anno comparvero in Occidente Avtobiografičeskij očerk (“Saggio autobiografico”) e le poesie di Kogda razguljaetsja (“Quando rasserena”), entrambi tradotti in it. in Autobiografia e nuovi versi (1958). Oltre a numerose edizioni dei suoi versi (Poesie, 1957; Tutti i poemi, 1969), in  Italia sono comparse varie raccolte di suoi racconti (Disamore e altri racconti, 1976), saggi (La reazione di Wassermann, 1970; Quintessenza, 1990) e lettere (Lettere agli amici georgiani, 1976; Lettere, 1983); è del 2009 La nostra vita, antologia a cura di L. Avirovic degli scritti di Boris, del fratello minore Aleksandr e del figlio dello scrittore, Evgenij (questi ultimi inediti), in cui è magistralmente tratteggiata la storia di una  famiglia aristocratica sullo sfondo della Russia prebolscevica.

 da Boris Pasternak 30 Poesie testo russo a fronte traduzione di Paolo Statuti CFR, Piateda 2014 € 10

“Dov’è colui che fino in fondo ha capito Pasternak?…  Egli è segretezza, allegoria, cifrario…” (Marina Cvetaeva)

“La poesia è quell’altezza che supera tutte le gloriose Alpi, e che si trova nell’erba, sotto i piedi, cosicché occorre soltanto chinarsi per vederla e coglierla.” (Boris Pasternak)

Pasternak-Picture-Quotes

Definizione della poesia

E’ il fischio sparso all’improvviso,
Il crepitìo dei ghiaccioli,
La notte che gela la foglia,
Il duello di due usignoli.

E’ il pisello inselvatichito,
Il pianto del cielo nei baccelli,
Figaro dai leggii e dai flauti
Che sulle aiole cade a granelli.

E’ tutto ciò che alla notte importa
Trovare nei fondali profondi,
E una stella portare nel vivaio
Sui palmi bagnati e tremebondi.

Più piatta d’una tavola è l’afa,
Il firmamento è sommerso di ontano,
Alle stelle si addice ridere,
Ma l’universo è sordo e lontano.

(1917)

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Tu sei nel vento che con un rametto
Prova – il coro degli uccelli canterà?
E’ inzuppato come un passerotto
Il frutice di lillà!

Le gocce hanno il peso dei fermagli,
E il giardino abbaglia sempre più,
Spruzzato, grondante
Un milione di lacrime blu.

Dalla mia ansia nutrito
E da parte tua spinato,
Con mormorii e profumi,
Questa notte il giardino è rinato.

Tutta la notte un tictac alla finestra,
Sulle persiane un battito accanito.
Ad un tratto un rancido alito
E’ corso attraverso il vestito.
Destato dal magico elenco
Di quei tempi e pseudonimi,
Il giardino abbraccia questo giorno
Con gli occhi degli anemoni.

(1917)

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Amleto

Cessa il brusìo. Sono sulla scena.
Alla porta appoggiato,
Colgo in un’eco lontana
Ciò che mi sarà dato.

Su di me l’oscurità è stesa
Con mille binocoli a fuoco.
Allontana da me, Abba Padre,
Questo calice, ti invoco.

Amo il tuo proposito ostinato
E accetto di fare questa parte.
Ma ora va in scena un altro dramma,
E questa volta mettimi in disparte.

Ma sono state decise le azioni,
E finirà il cammino, non c’è scampo.
Sono solo, tutto è nell’ipocrisia.
Vivere non è attraversare un campo.

(1946) (da: Il Dottor Zhivago)

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Primavera

Io dalla strada, dove i pioppi sono sorpresi,
Dove la distanza teme e una casa è insicura,
Dove l’aria è azzurra, come l’involto dei panni
Di chi è uscito da una casa di cura.

Dove la sera è vuota, come un racconto sospeso,
Lasciato da una stella senza prosecuzione
Per lo stupore di mille occhi chiassosi,
Senza fondo e privi di espressione.

(1918)

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In ogni cosa io voglio arrivare
Alla parte essenziale.
Nel lavoro, nella strada da fare,
Nel cruccio che il cuore assale.

All’essenza dei passati momenti,
Alle ragioni primiere,
Al midollo, fino ai fondamenti,
Alle radici più vere.

Senza sosta il filo percepire
Degli eventi e dei fati,
Vivere, pensare, amare, sentire,
Gioire d’incontri svelati.

Oh, se io soltanto potessi,
Anche se solo per metà,
Scriverei almeno otto versi
Sulla passione, in profondità.

Sui peccati, sulle violazioni,
Corse, inseguimenti vani,
Sorprese e impreviste azioni,
Sui gomiti, sulle mani.

Tutte le sue leggi stabilirei,
I suoi principi capitali,
E dei suoi nomi ripeterei
Le loro iniziali.

Pianterei i versi come giardini.
Con ansia e tremore
In fila e tra loro vicini –
In essi i tigli in fiore.

Nei versi metterei respiri di rose,
E respiri di ginestra,
Prati, fieno, notti rugiadose,
E i rombi della tempesta.

Così Chopin una volta ha messo
Nei suoi studi-portento
Di boschi e tombe l’alito sommesso,
I sospiri del vento.
Della vittoria così conquistata
Gioco e tormento indifeso –
La corda fortemente tirata
Dell’arco teso.

(1956) Continua a leggere

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Marisa Papa Ruggiero  POESIE SCELTE “Di volo e di lava” (2013) Con una nota di poetica dell’autrice

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero copertina di voloda Marisa Papa Ruggiero   Di volo e di lava  puntoacapo (2013) pp. 90 € 10

Marisa Papa Ruggiero vive a Napoli dove ha svolto attività didattica e artistica. È attiva sia sul fronte della poesia, sia su quello della verbo-visualità, con partecipazione a mostre e a raccolte antologiche. Dal 1991 decorrono le sue pubblicazioni di poesia in volume con: Terra emersa, Napoli, collana L’assedio della poesia; Limite interdetto, Salerno-Roma, Ripostes,1993; Origine inversa, Napoli, Alfredo Guida, 1995; Campo giroscopico, con prefazione di Michele Sovente, Quarto– Napoli, Riccardi, 1998; Persephonia, con nota critica di Mario Lunetta, Lecce,  Pietro Manni, 2001; Oblique ubiquità, in Locus solus, Riccardi 2003; Passaggi di confine, con prefazione di M. Fresa, Salerno, L’arca felice, 20011;  Di volo e di lava, prefazione di G. Pontiggia – Alessandria,  Puntoacapo, 2013. Tra i lavori in prosa : Le verità bugiarde, e alcuni libri d’artista.   E’ presente, con testi poetici e critici in riviste italiane ed estere, in blog letterari, in raccolte antologiche (ultima è: alter ego. poeti al Mann – ed. arte,m). Ha partecipato come redattrice alla fondazione di alcune riviste napoletane di ricerca letteraria: Oltranza, edita da Guida e Risvolti edita da Riccardi. Per quest’ultima ha curato nei primi dieci numeri la sezione Interviste dedicata a noti artisti visivi e a poeti dell’area sperimentale. Attualmente è redattrice della rivista di poesia: Levania.  Recapiti dell’autrice:Via E. Suarez, 21 – 80129 Napoli.   E mail: marisapaparuggiero@libero.it

 *

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

giorgio de chirico interno metafisico con nudo

giorgio de chirico interno metafisico con nudo

«Dico subito che la scrittura poetica per me è un’arte molto visiva. Il modo con cui sento di comunicare le immagini, voglio dire la organizzazione figurale sulla pagina, diventa prioritario rispetto alla informazione comunicativa; ho sempre amato l’arte del calibrare il gioco degli spazi seguendo una necessità insediatasi chissà quando nella mia struttura; da qui, la scansione: segm. verb. – respiro; ed anche: linea frastica – unità verbale – sospensione; e ancora: ripresa distanziata di un nuovo segm. verb. strutturato secondo una ragione intrinsecamente tonale (temporale) e non narrativa, e così via. Il bisogno di ottenere senso stipato all’eccesso con mezzi misuratissimi, (da non intendersi necessariamente povertà di mezzi espressivi), un po’ come avviene sul tavolo di un architetto, (se penso per es. a mio figlio), ma io ragiono così: se nel caso di un progetto architettonico sono in gioco i soldi degli altri, che comunque non vanno sprecati;  qui (in poesia) entrano in ballo tra l’altro, il tempo degli altri, la pazienza, la noia degli altri, mai raccomandati, tutte cose di cui non siamo proprietari. Questo per dire che se è difficile che uno possa cambiare fondamentalmente una impostazione di pensiero (la scrittura poetica è la risultanza di una catena di stati mentali, di sperimentazioni, di ricerca ostinata nel corso di un processo lento, non disponibile a concedere spazio a improvvisazioni, a manierismi, a ghirigori e ricalchi di ritorno sulla pagina, ecc.) è sicuramente disponibile a  ibridarne la “purezza” in senso di maggiore ampiezza, di maggiore “plasticità”… e in questa prospettiva mi trovo con il tuo invito a rendere più espansa, più “corposa” la mia scrittura.

invito Firenze Ma non credo che accoglierei mai una poesia confessionale, come non credo che la poesia debba raccontare. Se si va sul notiziario, si rischia l’ingorgo, io sono del parere che si dovrebbe smetterla di ritenere che la poesia si fa coi mattoni, tu che dici? Bastano gocce, perle, mi piacerebbe se si facessero solo piccole cose rare, di quelle che se lette non si dimenticano. Forse l’arte non sta nel largheggiare, ma nel contenere… é bella la tua definizione: “le parole come tessere dinamiche” per dire i magnetismi, l’energia compressa in grado di trasmettere senso… E il contenuto? mi si potrebbe obiettare. direi che ne è compreso, quando succede che una poesia funziona è proprio perché quella “nota” è riuscita a far vibrare il suo interno significato…».

(Marisa Papa Ruggiero, risposta a Giorgio Linguaglossa) I versi in corsivo sono citazioni delle seguenti poetesse (a cui il poemetto è ispirato): per la prima: Antonia Pozzi, per la quarta: Marina Cvetaeva, per l’ultima: Amelia Rosselli (n.d.a)

marisa papa ruggiero passaggidiconfine 

 

 

 

 

 

 

 

Se riproduco distonie e scissioni
sento mie le tue voci

dove ti vedo apparire mi disperdo

io conosco più cose di noi due
conosco il virus che la piaga
ha contagiato
il fiume che ha lambito

Offrirò alla tua pelle olio di bacche
e grani da cingere la gola
la cineraria regina che lenisce
e lavande di rupe
fino all’ultima viola sradicata

sarà verde stasera la tua veste  

*

L’occhio è una lente
anarchica
centuplica l’attrito
lo deraglia
Famelica ogni fibra
si rivolta in luce
non regge gl’infrarossi
Doppierà congegni
ad orologeria celeste
in ogni fatica d’orme in ogni
fiato o timbro che attraversa
gl’interi stadi del ritorno
e ne rivolta i segni
l’ordine compiuto
e tutto passa
nel tronco cavo
il papavero della notte
che s’infuoca
la ciarliera gazza
custode del suo grido
e la sontuosa rosa
ultima di luglio
che sulla neve danza

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

 

*
Da un tempo non ancora giunto
ti congedi
e slacci doglie e divieti
corda tesa nell’aria
tu danzante in suoni
in ogni rigo o specchio
che ti pensa
tu scivolata a lato
tu
mai cercata
Ti congedi e ritorni
ad ali sciolte
all’inversione del crudo seme
alla declinazione esatta
che rende infinitamente aperta
quest’assenza
questa
taciuta assenza
che non ha misura
*

Questa spina di mirto
      ha inondato il giardino
      Il mirto che è nero
                             superbamente nero  
è l’esatta declinazione di un peso
atterrato nel mio occhio
si esercita a raggiungere la propria idea
ha intanto compiuto un mezzo giro
sul suo asse
ha invertito la prospettiva le finte grandezze
corretto la sproporzione la distanza
questa spina nerissima ha isolato
se stessa in campo chiaro
per vedersi da sola
se io la penso la guardo
Posso allungarla sul piano
o proiettarla in un punto
o tenerla in ostaggio in un libro
accanto a sferette a lancette fatte sassi

 

delitto tra i libri

delitto tra i libri

 

 

 

 

 

 

Se dici instabile
il tuo centro ti saprò
costante
in questa oscillazione
di estri sottolingua
Di te so il peso
i punti di sutura sulla guancia
l’aritmia nascosta
di globi e globuli a rilancio
in corsia preferenziale

Se t’improvvisi in tregua
per incanto
trattengo la schermata
e mi ci specchio
*
E spingere
qui a metà viale
il buio con le mani
alle gole chiuse di ibischi
e smarrire il cerchietto d’oro
tra smilzi steli senza nome
come ceri spenti
ingoiando il fiato
agli occhi dell’autunno
che a rovesci tra poco
farà più grigia
la roccia raschiata viva
nella camicia nuova
di ferro a rete

giorgio de chirico, ulisse

giorgio de chirico, ulisse

 

 

 

 

 

 

 

 

Tu passi il viale
verso la cieca curva
una corrente d’ali ha gonfiato le aiuole
ha cambiato il nome alle
scale di sicurezza
ha rivoltato il sentiero
l’inclinazione orientale
di quest’arsenale fossile in disuso
(e l’ogliastro vecchissimo scheggiato trema
all’origine della lesione)
tu
che svolti la curva
e mi lasci la scia
di cifre algebriche e frane
sulla roccia lunare
e lieve inverti
la metrica del volo Continua a leggere

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Cesare Viviani “NON DATE LE PAROLE AI PORCI” (2014) -Estratti su questioni di poetica e di poesia

Viviani copertina Parole ai porci

Cesare Viviani Siena Libri

Cesare Viviani Siena Libri

Estratti da Cesare Viviani Non date le parole ai porci il melangolo, Milano, 2014 pp. 142 € 13

Poesia

La poesia non si identifica in un contenuto, e nemmeno in una forma.
L’essenza della poesia è l’indefinibile, ovvero il limite del definibile, del comprensibile, dell’interpretabile, del leggibile. Dunque si tratta di non negare il vuoto, l’assenza, il nulla. È la presenza che non può fare a meno dell’assenza, il pieno che non può fare a mano del vuoto, ogni cosa che non può fare a meno del nulla.
Ma la forma e il contenuto devono essere tali da essere accompagnatori capaci di condurre, prima l’autore e poi il lettore, fino al limite del comprensibile, del definibile, del dicibile. Comunque, se l’essenza della poesia è l’indefinibile, si può dire che il fondamento della poesia è il nulla.

Cesare Viviani

Cesare Viviani

Fondamentale per l’arte

C’è un elemento a mio avviso fondamentale, un elemento base, essenziale, costituzionale, senza il quale l’arte non esisterebbe: è la discontinuità. Prendiamo ad esempio la poesia (ma questo discorso vale per ogni altra espressione artistica): la scrittura della poesia nasce da una frattura dei significati abituali del sentire e del pensare, nasce da una discontinuità dell’esperienza e del pensiero. C’è un’immersione nell’ascolto, un ascolto assoluto nella scrittura della poesia, nel quale l’organizzazione dell’io scompare, scompaiono il buon senso e il giudizio, così come ogni valutazione normale, quotidiana delle cose, scompare l’ambiente ordinato intorno a noi, e c’è solo quest’ascolto assoluto, vertiginoso della parola che diventa la protagonista nell’esperienza del poeta. Anche il linguaggio può rompere con le tradizionali regole della grammatica e della sintassi, anche il senso si interrompe ed entra in circolazione a pari merito il non senso. Insomma l’inizio di ogni evento artistico è la discontinuità.
E anche nella lettura della poesia, così come nel rapporto con ogni altra arte, è necessaria la discontinuità. L’ammirazione che prende il lettore di poesia, o l’osservatore di un quadro, o l’ascoltatore di una musica, è un sentimento intenso, quasi indefinibile, insensato e disinteressato, gratuito, che distanzia e distacca il lettore, o spettatore o ascoltatore, dall’ambiente circostante, dai pensieri e dalle emozioni che provava fino a un momento prima – i «suoi» pensieri e le «sue» emozioni – e lo immerge in una condizione impersonale di scoperta, di creatività, di vertiginosa apertura e novità.
(L’ammirazione è sbilanciamento, disorientamento, è instabile e discontinua, imprevedibile e incalcolabile: se fosse stabile e prevedibile, continua e abituale, sarebbe un assetto rassicurante, una garanzia di seduzione e di conquista, un disinvolto e sfacciato utilizzo del’esperienza).

Interpretazione

L’interpretazione è la forma maggiore di perversione. È la più forte e la più frequente espressione di dominio.

Cesare Viviani

Cesare Viviani

Poesia

Poesia si ha quando la potenza del linguaggio o del pensiero riesce a mostrare anche il limite di sé, il niente che l’accompagna: così questa potenza espressiva si espande, si materializza, tanto da diventare esperienza viva (per chi la scrive e per chi la legge), ma insieme mostra anche la propria caducità. Manifesta la sua ricchezza, lo splendore e insieme la sua caducità. È questa la riprova migliore della presenza della poesia in un testo.

Giovani poeti

I giovani poeti d’oggi (i quarantenni, i trentenni, e ancor più i ventenni) non leggono la poesia di chi li ha preceduti, quando ancora la poesia era vertigine, smarrimento indescrivibile di fronte all’inevitabile.

Cesare Viviani

Cesare Viviani

 belloIdea della poesia

L’essenza della poesia, che la fa distinguere da ogni altra scrittura, non risiede ovviamente nei dati caratteristici esteriori, quali metrica, prosodia, rima, lessico e figure retoriche. E nemmeno, passando a realtà interiori, risiede nel modo del rispecchiamento, quando il lettore crede di vedere rispecchiate nella poesia le proprie emozioni, i propri stati d’animo.
L’essenza della poesia, la sua straordinaria energia, è qualcosa che sfugge a ogni definizione e oggettivazione: nessuno ha mai definito l’essenza, la peculiarità della poesia, nessuno è mai riuscito a definirla, a codificarla, così che non si possono misurare o confrontare due testi, per sapere quale è il più dotato di poesia, e nemmeno al limite stabilire se un testo è o non è poesia, se è poesia o un tentativo non riuscito. Non c’è oggettivazione possibile di valori, se non una moltitudine di lettori che concordano ma pur sempre su esperienze di lettura non oggettivabili, su elementi di valore non definibili. L’essenza della poesia è una vertigine, la vertigine che si prova di fronte all’abisso del vuoto… Continua a leggere

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SULLA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI: L’ESTETICA DELLA DENUNCIA   – Commento di Antonio Sagredo. Parte II

i grattacieli di New York

i grattacieli di New York

 new york il chrysler building visto dagli altri grattacieli

new york il chrysler building visto dagli altri grattacieli

     

Alfredo De Palchi, in America,  mi fa pensare alle Americhe di:  Celine, di Majakovskij, di Garcia Lorca, a quello finto e fittizio ma terribile di Kafka, e di tanti altri autori estremi. Gli entusiasmi terribilmente attoniti di questi poeti (possessori del duende: stravolgimento radicale e sempre in moto, senza requie e quiete, che comincia dalla pianta dei piedi per non lasciarti più e che t’invischia affinché anche i pensieri oltre i sogni possano sanguinare a squarciagola!)  non si placano affatto… perché il nuovo mondo si mostra e si dimostra il più disumanizzato, ma possiede per paradosso quella sorta di giustiziera libertà per cui ti fa parlare fino a che non attenti alla sua libertà: limite terrificante, perché questa seconda libertà, se la violi, ti stronca, spietata! Il poeta è francamente realista:

… qui/esilio

migliore di quello vissuto al paese

con la sua crudeltà indecente

“>quotidiana, le prigioni e le  mie impossibili

fughe /è a questo che penso se qualcuno

             mi parla di rivoluzione

 

(da Bag of Files – New York 1961)

alfredo de palchi new york di notte

 alfredo de palchi grattacieliAlfredo De Palchi arriva in America a metà di ottobre del 1956.

   La visione di De Palchi (in Reportage – New York, 1957)  non è poi tanto dissimile dalle impressioni di Majakovskij nel suo viaggio americano  del 1925; ecco quanto scrive il poeta russo al suo primo impatto:

“Per molte ore il treno vola lungo la riva dell’Hudson a due passi dall’acqua. Dall’altra parte, altre linee proprio ai piedi delle montagne degli Orsi. Vapori e vaporetti si affollano fitti. Sovente sopra il treni balzano ponti. Sorgono pareti improvvise… sono le pareti dei docks, dei depositi  di carbone, degli impianti elettrici, delle officine metallurgiche e delle fabbriche dei medicinali”. [Il poeta russo è strabiliato] Un’ora prima della stazione si entra in una foresta ininterrotta di camini, di tetti, di muri alti due piani, di tralicci d’acciaio delle ferrovia sospesa. Per quanto si pieghi all’indietro il capo, non se ne vede la fine. ciò aumenta l’impressione di strettezza.. Sbigottiti, ci si lascia cadere sul sedile: non c’è speranza, gli occhi non sono usi a vedere cose simili. E allora che il treno si ferma: Pennsylvania Station.” [il poeta, scrive più avanti, scoprendo l’altra faccia della medaglia] “Si vedono cassette con rifiuti d’ogni sorta, dove i miserabili scelgono ossa e bocconi ancora commestibili. Stagnano maleodoranti pozzanghere della pioggia e dell’altro ieri Cartaccia e sudiciume vi arrivano fino alla caviglia, non in senso figurato ma realmente, effettivamente.”…. “L’aria di New York tuttavia fa vivere milioni di persone che non hanno nulla e non possono andare in nessun altro posto”.

   Si dilunga il poeta russo, criticamente inesausto, su questa capitale mondiale delle indegnità e delle provvisorietà

    E concedetemi allora di poter favoleggiare un incontro tra Majakovskij(che osservò da esterno, ma acutamente la società americana, disumanizzante e disperatamente umana; anche se la nuova società russa sorta dalla Rivoluzione non era da meno, ma almeno aveva la speranza di un miglioramento, che come sappiamo fu totalmente disatteso)ed Emanuel Carnevali che la visse dall’interno, pagando di persona. Non so se tra Carnevali e De Palchi siano stati fatti degli studi, ma credo che possano esistere delle linee convergenti. E l’Hudson del De Palchi (cantato nei versi tra il 1960 e il 1962) pure non è dissimile da quello del russo del 1925 se:

Alfredo De Palchi 2011

Alfredo De Palchi 2011

A queste rive

a strapiombo, l’Hudson

lurido di legni bottiglie

condom, i relitti della casa;

…………………………..

sono in questo spiano

di veleni appostati dall’uomo,….

……………………………..

che laggiù all’oceano sfocia l’immonda

tristezza;…

…. – e non so più contarti i passi

le movenze fastose che mi hanno

contaminato

e allontanato.

 

(da Movimenti)

(la  raccolta Le viziose avversioni racchiude poesie del periodo 1951-1996, e comprende le raccolte: Momenti, Movimenti, Mutazioni – i versi su citati sono in Movimenti). Ma i ricordi non vanno via, anzi ritornano più nitidi in questa America(come attestano i moltissimi versi delle Sessioni con l’analista, 1964-1966) – e  qui il chiavistello s’apre sulla esistenza passata, e

alfredo de palchi New-York

su me adolescente forzato all’arma –

capace si di dimenticare

                                                 …la pena lacerante, non l’odio

                                                di cui la ragione mi svergogna per voi tutti.

                                                io neppure so più amare,

                                                solo so bruciarvi coi miei anni

                                                di punizione..

ma di non credere più alla

                                                        fiaba della resurrezione!

 

(da Bag of Flies – New York 1961)

 

    Questa consapevolezza dolorosa quanta simile a quella di Tommaso-Riccardo (1946-1990), il poeta romano chevoleva curare lo sguardo dell’anima”:

                                                          Noi siamo crocefissi nella fiaba!

 (da  Opera – Il grande burattinaio della città felice)

alfredo de Palchi_1  Qui si impone una riflessione al poeta, poi che cadono molte credenze, i punti fermi non hanno più radici, se mai le hanno avute; in primis: la fede nel trascendentale – nel divino – cozza contro una realtà spietata che non ammette alcun legame(religione = re-ligo: è cosa che lega),se non con la stessa realtà, a cui bisogna sacrificare qualsiasi idealismo o sogno. Ma è ancora una sorta di autoflagellazione che sconforta l’evoluzione se è vero(è da credere?) che  “il resto non importaperché allora:

                                                                                                       ….. basta

                                                    che la mia sofferenza sia pari a quella

                                                    dell’animale sul tavolo delle ricerche