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Poesie di Vincenzo Petronelli, Il vuoto come spazio creativo, La poesia del modernismo di Herbert istituisce la metafora assoluta che collima con il pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza l’eterogeneo e il contraddittorio che permeano l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa. Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Saul Steinberg Lady in bath 1

Saul Steinberg, woman in bath, 1949 – L’attesa

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»? – Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Il «vuoto» non è affatto una esperienza, non si può fare espereinza del «vuoto», il «vuoto» avviene e basta, avviene nel linguaggio come mancanza di linguaggio, infatti la nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico intende il «vuoto» come distanza dai propri contenuti personali, dalle fraseologie giustificazioniste dell’io.

La poesia esistenzialista del modernismo novecentesco si situa nella zona di congiunzione tra temporalità e memoria. Quella zona opaca, insondabile dove hanno luogo gli eventi opachi e porosi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Là sono situati i momenti significativi dell’esistenza di cui noi stessi nulla sappiamo, ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero. L’esperienza dell’esserci heideggeriano è fondamentalmente ubiqua: abita la memoria e la temporalità.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova poesia della nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. Guardare attraverso i linguaggi. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse perspicere due modi diversi di sondare la memoria. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci. La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer
Descending man, Jason Langer

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La poesia lavora incessantemente attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. Ad esempio, in questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

La poesia del modernismo di Herbert istituisce la metafora assoluta che collima con il pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza l’eterogeneo e il contraddittorio che permeano l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi»,1] scrive Adorno in Dialettica negativa. «Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare».2] È questa l’aporia del linguaggio. La tautologia e la contraddizione mostrano che esse si trovano, convergono, nella metafora, la quale contiene in sé sia la tautologia (il non-identico è lo stesso che l’identico) che la contraddizione (il non-identico non è l’identico). Da ciò se ne può dedurre che nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, il lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile. Talché voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.

Il discorso poetico del modernismo tende «naturalmente» alla metafora e alla metonimiaNella poesia modernista classica l’assurdo e il derisorio si fondano sul reddito di cittadinanza della storia, nient’altro che un titolo di borsa, gli uomini sono i titolari di questo titolo a scadenza fissa, titoli trimestrali, decennali e ventennali che valgono fin che valgono, fin quando lo stato non dichiara default. La storia, che dopo il 1989 è stata destituita in storialità, aveva senso per il modernismo proprio perché ha un significato e la poesia modernista aveva il compito specifico di presentare il falso e il similoro, da Eliot al primo Montale fino a Herbert. La nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico invece parte dal concetto opposto: la storialità non richiede più l’ausilio della memoria e del tempo, la memoria e il tempo si sono frantumati e il linguaggio poetico assume l’opzione sospensiva, sospende il tempo e lo spazio, i suoi frasari sfiorano sempre il corrimano dell’assurdo e delll’ultroneo,  scoprono il «fuori significato» e il «fuori senso», il «fuori tempo» e il «fuori spazio».

1] T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42
2] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1979 p. 33

Lucio Mayoor Tosi Germinazioni

Lucio Mayoor Tosi, Untitled, acrilico su legno 80×80, 2022

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Due poesie di Vincenzo Petronelli

Il vuoto come spazio creativo

Affinando sempre più il proprio percorso, la Nuova ontologia estetica ha individuato la sua dimensione valorizzante nella poetica delle sedimentazioni della parola, partendo dalla raccolta differenziata dei residui, dai reflui depositati tra le macerie dei discorsi e delle scritture, per giungere alla ricostruzione delle tessere affastellate nel vuoto della nostra epoca, tratteggiandone, ma con la peculiarità di un’attitudine quasi pre-analitica, la filogenesi stessa. Il concetto di vuoto, più volte ripreso da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle Parole è illuminante nel rappresentare epistemologicamente la poetica della Noe. La nuova ontologia estetica, in fondo, si caratterizza per il suo impegno verso una ridefinizione critica della poiesis e, conseguentemente, di una sua palingenesi, che non può non partire, come sempre del resto, nelle fasi di ri-generazione dell’uomo, da un’iniziale deflagrazione, che disarticoli le impalcature del “sistema”.

Del resto si tratta di una riflessione ben nota ai filosofi, agli antropologi e storici delle religioni, agli studiosi di psicanalisi: «In ogni chaos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto» così suona un aforisma di Carl Gustav Jung.

Il vuoto, come sottolinea Giorgio Linguaglossa, che nella visione materialistica dominante nella nostra società, viene inteso come nulla, come dissoluzione di spazi pieni (semplicemente perché lo spazio vuoto non è contemplato nella cultura del “riempimento”, dello sfruttamento intensivo dei contorni) è in realtà l’anfratto in cui si cela lo spazio vitale, l’energia creativa del cosmo.

Si sa che le scienze suddette (filosofia, antropologia, storia delle religioni, psicanalisi) fondano proprio sulle contrapposizioni binarie, le spiegazioni delle teorie della vita e del cosmo: esattamente come evidenziato nell’aforisma di Jung, chaos e cosmos.

La ricerca antropologica ha da tempo messo in evidenza come alla base di vari sistemi e modelli culturali, sia antichi che contemporanei, si trovino teorie e credenze che ripropongono tale classificazione dualistica della realtà, fondate ad esempio sulla polarità sessuale, oppure su opposizioni proprie della sfera spirituale: basti pensare ad esempio alla contrapposizione sacro/profano, puro/impuro. Come ha evidenziato la filosofa Francesca Gambetti, lo stesso logos, il ragionamento, la matrice della riflessione filosofica, nasce come tentativo di sottrazione ordinante delle vicende umane dal caos. I grandi miti cosmogonici della Teogonia esiodea si basano proprio sulla narrazione della nascita dell’universo, a partire dallo spazio del chaos primigenio, del kosmos, come verrà definito dai Pitagorici.

La teogonia, a partire dalle vittorie di Kronos e di Zeus, ritrae cosmicamente il trionfo dell’ordine sovrano sulla natura, per poi successivamente, quando tempo cosmico, tempo religioso e tempo degli uomini finalmente si integrarono, a partire dal VI secolo a.C., sostituire alle genealogie divine quelle umane, che fondandosi sugli stessi schemi, raccontano colonizzazioni, fondazioni di città ed esplorazioni, per approdare dalle cosmogonie alle cosmografie, ed essere infine traslate verso le narrazioni dei primi filosofi.

Ecco, la potenza del vuoto è nella sua immensa forza creatrice, ma c’è bisogno di uno sconvolgimento tellurico per valorizzarla, essendo ormai la nostra società imballata comodamente nei suoi depositi ingombranti, nei quali è ormai scaffalata anche buona parte della produzione della cosiddetta intelligencija, protesa esclusivamente ad una concezione dell’impegno intellettuale intesa come perpetuazione del proprio scranno.

Guardandosi bene ovviamente, dai rischi insiti in qualsiasi forma di “ordinamento” post rivoluzionario, la Noe si pone precisamente come detonatore di tale forza tellurica, in grado di ristabilire non tanto un nuovo modello poetico in sé per sé, quanto una nuova visione del mondo, per il tramite della poesia, che rifletti realmente la condizione dell’uomo di oggi.

Fragmenta historica 2

Lady D’Ardboe legge poesie di Proust al sabato nel suo salone sul Donegal.
Suo marito cura la scabbia con lo spritz ed alleva vitelli via internet.

Dall’uscio, la ragazza vede gli animali inginocchiati: in fondo
anche la figlia di un pastore può sfiorare le costole del Signore.

Il carico di droga è già sbarcato a Brandon Bay.
In quest’esercizio non si fa credito. Non si accettano resi sul venduto.

Al confine orientale, i contadini nell’afterhour scattano selfies.
Rifugiati di etnìa Pashtun accucciati in primo piano, implorano la grazia.

La donna avrà cinquant’anni, forse novanta. Cerca pezzi da rivendere
il carburatore, forse lo spinterogeno: sputa in terra con la bocca impastata.

Joseph Ward combattè contro gli inglesi nell’Easter Riding.
Suo nipote ha fatto carriera, assicurando carichi d’armi verso lo Zimbabwe.
Hic et nunc: qui ed ora, in saecula saeculorum.

Le insegne già spente oltre l’ora del coprifuoco. “Avete il green pass?”
Il cameriere serve spezzatino in zuppa e filetto Stroganoff.
“Volodymyr, per il giorno dell’Apocalisse pensavo di indossare il nuovo tailleur”.

“Gli Yankees peggiori sono proprio quelli di sangue irlandese.
Ormai preferiscono gli spaghetti all’Irish stew”.
“Padre, mi ha appena sfiorata. Sono impura?”.

Nella sua camera del Metropolitan, Artemidora ha una flebo nel braccio.
Una macchia di limone si allarga sul suo letto.
Dopo pranzo arriva il “cessato allarme” via mail.

Fragmenta historica 3

I piemontesi entrarono in casa nostra a cavallo sotto la neve di febbraio.
“Qu’est qu’il y à dans cet enfer?”. Le truppe distribuivano pasticcini al vaiolo.
Questa mattina il generale Cialdini sorseggia un tè, nel caffè Francesco II.

Chamberlain ordina sushi formula all you can eat tramite whatsapp
dopo aver scongiurato la guerra. A tavola con lui, Breton legge Il capitale.

Ivan Ilič discute con il fornaio dal braccio anchilosato ed i baffi
asimmetrici; si scambiano gli elmetti e le croci sul petto.

Si accede dall’entrata di servizio, al porto di Barcelona nel 1937.
I proletari surrealisti cantano melodie in minore: “Adios Guernica y que será, será”.

L’Uruguay ha un capezzolo turgido ed il grembo dilatato.
Sigarette, whisky y coño: “what a wonderful world!”
La poltrona shiatsu davanti al fonte battesimale.

L’ultima volta che hanno visto Tanya offriva bottiglie molotov in piazza.
I soldati decifravano la guepière, contando i denti tra le dita.

“Perché non cucini per i nostri difensori, non lavori calzini a maglia?”
“Buon Dio! Perché non vieni a riprenderti i guerrieri?”

Era il sesto giorno della creazione dell’Ucraina ed era primavera.
L’arcangelo Gabriele era il fantasma dell’opera al teatro di Kyiv.

Al mattino, si torna come sempre a lavorare
Sotto la coperta livida di Cork.

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Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970 e risiede ad Erba in provincia di Como, dove è approdato diciotto anni fa. Dal 2018 è presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni suoi scritti sono presenti nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

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Mimmo Pugliese, Una poesia kitchen, Infrangere l’ordine del discorso del sensorio e del suasorio costituisce un imperativo kantiano per un poeta kitchen, È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta, Herbert Marcuse, L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi, Gianni Vattimo

Marie Laure Colasson Pannello bidimensionale 40x40 2021

Marie Laure Colasson, Pannello bidimensionale su legno, 40×40 cm 2021

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Infrangere l’ordine del discorso del sensorio e del suasorio costituisce un imperativo kantiano per un poeta kitchen

Mimmo Pugliese

È mercoledì

Sui gradini della pioggia
la lucertola abbandona il quadro
sul tavolo twitta la bustina del the

Ha labbra antiche l’albero maestro
genitore di anfetamine
in vendita al mercato nero di Baku

I ricami delle farfalle
aumentano il contorno occhi degli zaini
domani le ore si conteranno al contrario di oggi

I bermuda a righe che hai comprato
fumano sigari cubani e la neve
cade solo davanti alla tua finestra

Sembra la luna crescente
la cicatrice sul lago
quando si chiudono gli ombrelloni

La periferia del deserto
è una barca antropomorfa
scodella di sete e tamburi

È alto un palmo
il giardino dove giochi
la lingua trasuda tutti i sensi.

REBUS

Ventimiglia
Famiglia
Bottiglia
Pastiglia
Scompiglia
Briglia
Conchiglia
Ciglia
Somiglia
Poltiglia
Biglia
Siviglia
Artiglia
Maniglia
Figlia
Guerriglia
Impiglia
Triglia
Meraviglia
Miglia
Fanghiglia
Ciniglia
Piglia
Flottiglia
Coniglia
Marsiglia
Consiglia
Pariglia
Quadriglia

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.

Nella «poesia» di Mimmo Pugliese non si rinviene davvero niente di ciò che pensavamo fosse una «poesia» tradizionale: qui è tutto crollato, tutti i ponti del discorso articolato sono caduti: i verbi con le loro declinazioni, le preposizioni, le articolazioni. Quello che resta sono una serie di costoni, di spezzoni, pezzi di architravi, schegge di colonne diroccate: parole scomposte e de-composte che non conservano più nulla di umano, dove non si rinviene alcun «pathos dell’autenticità», della lingua come «casa dell’essere» non è rimasto niente. Il che significa che qui valgono altre categorie ermeneutiche e valoriali, che ci troviamo nel bel mezzo di un sisma del 19° della scala Mercalli di cui la poesia maggioritaria e securitaria non si è accorta, direi che la pseudo-poesia kitchen di Mimmo Pugliese è la presa di cognizione di questo macroscopico dato di fatto.
Davvero, Pugliese ha celebrato il funerale della poesia con rime sparse e alternate. Adesso, non è rimasto più nulla di quello che eravamo abituati a considerare come poesia del novecento o, come dicevamo con un eufemismo, poesia dell’umanesimo. la fine della metafisica ha portato con sé lo sgretolamento di tutto ciò che apparteneva un tempo lontano a quella metafisica.

Storicamente, precipuo della moderna opera di finzione è lo sgretolarsi della possibilità di accedere al senso dei testi. Il carattere di finzione dei testi kitchen, la loro non-referenzialità ci dice che l’opera storicamente decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato, ogni senso. La tradizionale forma di pensiero pensava che non potendo essere letterale, il testo possiede soltanto la pluralità delle letture come unica lettura; così l’unità di senso diventa frattura, abisso del senso e del sensato, la figuratività ha il sopravvento rispetto alla referenzialità, che tenderà a scomparire, ad inabissarsi. Da Borges in poi la letteratura contemporanea si presta all’idea di perdita del senso e alla apertura di letture molteplici; essa non può più porsi come modello del logos o norma generale. L’anti-referenzialismo dà troppo credito al suo opposto, lo suppone vero; occorre uscire al più presto dallo schema referenzialismo-antireferenzialismo. Identificando la significazione con l’attribuzione di un referente e, parallelamente, la non-significazione con la non-referenzialità, l’opera di finzione storicamente si sottrae per forza di cose alla questione del senso e del sensorio e del sensato. Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere… Chiedo, quale «Potere della Parola» può avere la «parola» in un contesto kitchen? E rispondo: Nessuno.

Scrive Gianni Vattimo:

«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».

Ho citato apposta Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Ma parlare di «nuova ontologia estetica» implica e significa una accentuazione del sostantivo, noi sostantivizziamo il sostantivo e, parlando di ontologia estetica mettiamo in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «ri-appropriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto e che più ci piace, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare e del nostro essere, rimettere in discussione le categorie su cui si regge la ontologia novecentesca implica la costruzione di altre e diverse categorie retoriche.

In un mondo in cui «il progresso diventa routine» e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto la dis-propriazione di quel mondo e la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità». La poesia che tentiamo di fare si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, ovvero, l’allegria dell’inautenticità.

(Giorgio Linguaglossa)

1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11

Lucio Mayoor Tosi
1 agosto 2018 alle 10:29

Agosto è il mese migliore per parlare liberamente, senza doversi tanto preoccupare di apparire presuntuosi – e per parte mia ve ne sarebbe motivo – quindi ne approfitto. E torno al fatidico verso di Tomas Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

per dire che avrebbe anche potuto scrivere ” a destra, su una lapide nera le scritte d’argento”. E, a seguire, l’elenco delle immagini che volentieri accorrerebbero per subito partecipare al convegno. Ma sarebbe per l’appunto un elenco. Ecco, è più o meno questo che intendo dire quando parlo di rigidità.
Come evitare la scarna elencazione, per quanto composta di elementi bizzarri e sorprendenti… Qui sta l’abilità del poeta, a mio avviso, il problema nuovo che si presenta. Ed è straordinario osservare come ciascuno, qui, abbia saputo darsi una propria soluzione stilistica.

Giorgio Linguaglossa
1 agosto 2018 alle 12:13

Io un tempo lontano scrivevo poesie che avessero un «senso». Davvero, adesso un po’ me ne vergogno. Cercavo di dare un «senso forte» alle poesie che scrivevo. Ma sbagliavo. Un giorno incontro questa frase di Adorno tratta da Dialettica negativa, 1966 (ed.Einaudi 1970 p. 340):

«Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».

Fu allora che abbandonai l’abitudine di scrivere poesie con un «senso», perché mi resi semplicemente conto che «esso sfugge alla questione».

Detto questo per dire che allontanandomi sempre più velocemente dalla poesia con posizione e proposizione suasoria, assertoria, unidirezionale, unitemporale, uninominale, innocentemente non dubitatoria, sono approdato, insieme ad altri compagni di viaggio, alla «nuova ontologia estetica» (che è una posizione davvero instabile!)… ma non per invaghimento del dubbio e della scepsi, posta così la questione sarebbe da superficiali, ma, per amore della verità, posto anche qui per scontato il concetto di «verità», cosa che affatto non è. In seguito, incontrai un altro frammento di Adorno che diceva:

«la coscienza non potrebbe affatto avere dei dubbi sul grigio, se non coltivasse il concetto di un colore diverso, di cui non manca una traccia isolata nel tutto negativo». (op. cit. p. 341)

Fu allora che mi resi conto che la poesia che si scriveva in Italia da alcuni decenni era una poesia ingenuamente assertoria, anti sceptica, semplificatoria… mi resi conto che le cose non stavano affatto così…

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Stanza n. 57, Il saluto del Signor K. per il santo Natale di Giorgio Linguaglossa, Video e voci recitanti di Diego De Nadai e dell’Autore, Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 57

Il saluto del Signor K. per il santo Natale

«Cari Signori Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,
Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi e compagnia varia…

Vi porgo i miei saluti
dal Labirinto, quel luogo dal quale non è più

Possibile trovarsi, dove forse non c’è neanche bisogno di perdersi
o di cercare le scaturigini di alcunché.

Le parole, egregio Signor Linguaglossa, in questo luogo
sono del tutto fuori posto.

Mi perdoni questa ovvietà – disse il Signor K. –
ma lei, mi dicono, è un poeta!

Vede? Cado anch’io a volte dalle nuvole
nelle trappole della geometria euclidea.

Che vuole, ho un debole per i triangoli scaleni, i triangoli ottusi,
gli eptaedri, i vertici acuti, i numeri primi…

Tutto ciò che avete amato,
cari Gino Rago e Linguaglossa, Gabriele e Lucio Mayoor Tosi
e compagnia varia.
E quanti altri della nuova ontologia estetica
non ha più ragion d’essere…».

Il lestofante aprì la confezione di pasticcini ripieni di crema e bignè al cognac.
Arietta di Offenbach.
Sorrise.
La bocca zeppa di denti d’oro che brillavano.
«Professione?»,
«Sì, metta intagliatore di diamanti», rispose il cialtrone.
Poi si chinò per arraffare qualcosa dalla tasca interna della giacca di velluto.
Cravatta blu a pallini gialli.
Farfugliò qualcosa sul pianoforte a coda.
«Non siamo parenti – mi disse – però, in un certo qual modo, siamo prossimi…
No, no, non parlo di voi, caro amico…
Parlo d’altro…».

«La realtà è il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.
Auto-negarsi nel suo stesso porsi, un porsi

nel suo stesso negarsi.
Che vuole, un gioco di prestigio!
Op! Op!, carta di qua, carta di là, dove sta?, di qua o di là?

Sì, mi attendo da Voi una risposta», ingiunse il cipiglio.
«Una sola, però,

intorno alla decoincisione dell’essere dal nulla.
E sì, anche intorno all’Assoluto.

Per questo vi do il mio indirizzo:
Quartier Generale dell’Aldilà
dove scorre il fiume dell’aldiquà,
al numero civico 777, piano terzo, scala D,
senza ascensore,
attigua alla abitazione di Dio, perbacco!».

Stanza n. 23 – la raccolta inedita di Giorgio Linguaglossa è un Labirinto di stanze all’interno delle quali si accede mediante delle aperture e delle chiusure personificate da porte. Le porte sono tutte chiuse. Ciò che avviene nelle Stanze sono degli eventi. La stanza non è altro che uno spazio aperto da una porta e chiuso da una porta, la porta-adito e la porta-serramento. È all’interno delle molte stanze del Labirinto che si svolge il confronto, serrato e drammatico, tra il Signor K. e Cogito. I due agonisti sono l’espressione della civiltà occidentale nel momento della sua massima crisi. È banale dirlo: alle stanze si accede attraverso una porta, al di là di essa si apre uno spazio chiuso, lo spazio della domesticità dove accade l’esistenza. In ogni stanza di questo Labirinto si svolge un evento, accade una esperienza che ha per protagonisti Cogito, il filosofo, per estensione l’uomo pensante, e il Signor K., l’Altro,  il convenuto, l’inviato nel mondo degli uomini con il preciso compito di introdurre in esso il caos, il principio di dissoluzione di tutte le cose. Il confronto è serrato, dialettico, senza esclusione di colpi, dei due uno soltanto potrà cantare vittoria. Ma, verosimilmente, se vittoria ci sarà, sarà una vittoria effimera, una vittoria di Pirro.
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Caro Francesco Paolo Intini,

sono propenso a pensare che tutta la nuova fenomenologia del poetico è, in certo modo, il prodotto del «nuovo mondo»,1 conglomerato di citazioni senza virgolette (non c’è bisogno che sia necessariamente virgolettato) di altri poeti dell’età del modernismo e dell’umanesimo, auto citazioni, ma anche montaggio, compostaggio incessante di tutto ciò che può essere montato, compostato; costellazione di appuntamenti segreti, ricordi, rammendi, parole trovate, perdute, ritrovate, parole dimenticate, fotogrammi, lapsus e, perché no, delle nostre ossessioni, delle nostre fobie. Una «pallottola» che rimbalza qua e là e che produce una sequenza impensabile di disastri, un commissario inconcludente, un misterioso «Ufficio di Informazioni Riservate» di Gino Rago che interviene ad libitum e scombuglia il corso degli eventi, un Faust che colloquia con Mefistofele, la vita come «Registro di bordo» (Mario Gabriele). Ci guida una idea di poesia ma non possediamo alcuna poesia. Ci guida una idea di mondo ma non possediamo alcun mondo. La cultura è spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di immondizia dello spirito.
Con questi frammenti abbiamo puntellato la nostra poesia.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 Cfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009 «il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse». Continua a leggere

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Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate

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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico, 2010

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

LUMACHE VS LUCCIOLE

Ampere in libertà
maniaci per le strade.

Al fulmine segue
Un calcolo tra catodo e anodo.

La chiocciola è fuori guscio.
Scivola il Sole sul muco

Uomini con la mascherina trattengono il fiato
non c’è mai stata più poesia di ora,

e in effetti al coro di antenne
segue un sussulto di Terra.

Il commercio di sillabe fu implacabile
Un saliscendi nella spiana di Cheope

una farfalla al prezzo di cento Nobel
in fondo si trattava dello stesso DNA

E non si poteva aspettare che spuntassero mammiferi
Da una marmitta catalitica

Nacque la Fontana e fu chiaro
Lo stimolo di scrivere alla vescica

La vite scrisse tralci sui muri
Inneggiando a Marx- Engels

Trovammo il dirigibile appollaiato sul camino
Il nostro salvadanaio tintinnò minestra

Per un po’ ci si era calmati perché avevamo
La medicina contro la peste

E dunque si trattava di prendere fiato.
Per colazione ceci e bucce di patate.

Non era molto stretto l’interno di calcare
Doveva bruciare idrogeno sulle nostre teste.

Tutto un susseguirsi di levatrici
per un aborto spontaneo.

Non è uno scherzo avere il 1848 a portata di mano
E lasciarlo scorrere come un granello di rosario

Venimmo a guardare il 2048
Putti di Leonardo nel Verrocchio.

una neve di polistirolo ghiacciava i paesaggi
Il tempo germogliava volti di pomodoro.

Ci arrestarono perché avevamo mani di bambini
al posto dei crani e rosette nelle unghie

la fisica, la chimica uscirono dai libri
e furono messi a contare sillabe di viti.

Nessun tralcio doveva eccedere i dieci viticci
Il corrispettivo dell’ ossigeno nei polmoni.

Anche la luna non doveva esagerare con la gravità
Un giro nel cortile e di notte in cella.

Per quante ce ne sarebbero state
Fu prevista una dose di neon.

Nelle stazioni cani lupo strappavano il culo
A chi si attardava a salire sui treni per il 2020.

Il raccordo pulsa senza articolare una sillaba
E di molto le sopravanza nel bisogno.

Affacciarsi ai finestrini e nella grave
Le dita del ghiacciaio.

La vita appartenne ai motori,
i Watts alla digestione.

Quando si tratterà di esistere giungerà un fascio di luce
Un rapido susseguirsi di pallottole sull’olfatto.

Gli occhi spuntano dai guard rail.
Pesci sulla cima della Sfinge.

Arrivò l’ amore delle Assicurazioni.
Esponemmo i crocifissi per essere guardati.

Piccoli bruchi sul filo spinato.

Dai numeri estrapolarono i teschi
Sbattevano i denti. Forse parlavano i fari.


D’altronde le auto non chiedono al sorpasso
Di azionare un tir.

la catalisi mischia il sangue. La farfalla
governa i passi di una prostituta.

Giorgio Linguaglossa

“Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.”
“la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento.”
“L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.”
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.”

Caro Francesco Paolo Intini,

Questi aforismi di Adorno, tratti da Minima moralia del 1951 sono il miglior commento che io possa fare alla tua poesia. Ai quali ci aggiungerei quest’altro di mia produzione: «Le parole hanno dimenticato le parole».

*

«Ciò che resta lo fondano i poeti» (Hölderlin)

E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate…

Acutamente Ewa Tagher afferma che le sue poesie «sono errori di manifattura», errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili… Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le cose combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non siamo noi i responsabili.

Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del polittico» è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici, disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo.

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Marina Petrillo

Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.

A baldanza si insinua l’ultimo detto
presago di silenzio.
Non devia del corso suo il canto.

Procede ad orma infrante duttile
all’imminente commiato dall’esistere.

Invisibile alla nullità imperante
naufraga in altra dimensione

senza porre diaframma tra il Sé
e il congiunto suo riflesso.

Attende in sospinto moto l’impresso
lascito e annulla ogni presenza.

Varca il pendio in periplo costante
sino a smarrire l’orientato senso .

Alcun filosofo attende
poiché Poesia attarda in fiacca veste.

Del non smisurato Verbo, Musa.

*

Tutti i mondi si completano a vicenda.
Il raggio divino scende nelle coscienze ad illuminare
le vette dello Spirito.

Siamo nell’assente dormiveglia sino
a quando, toccati dalla tragedia,
non cediamo campo all’invisibile assenso.

Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce
la costola dell’Assoluto Presente. Inquietudine volge
al paradosso e ogni gesto torna a lenta consapevolezza.

Si può morire nell’istante. Si muore all’istante agognato
poiché inesistente. In nullità si procede, buio nel buio,
per giungere all’assoluto.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». La deposizione della potenza destituente del «mondo amministrato» è una via obbligata per una poiesis critica.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.

Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«l’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

Giorgio Linguaglossa

sul concetto di parallasse

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

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Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Roberto Terzi, Fenomenologia dell’inapparente,  L’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, categoria di Giorgio Agamben, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

foto mani multiple

Faust chiama Mefistofele per una metastasi

Francesco Paolo Intini

[di prossima pubblicazione, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, con Progetto Cultura, Roma]

QUANTO XI

Si trattò di competere con un seme di papavero. Lotta tra Re e nano.
Migliaia di funzionari per i feudi, a spiegare il nero degli stami.

Farneticava la ghigliottina perché aveva furore di avvenire.
Era il ciompo che segnava la gioventù con una lama intorno al collo.

Si cadeva così facilmente che furono necessari rinforzi di ortiche
Leggi mercenarie a regolare il sacco.

Arrivarono con i carichi di mitra
Trascinando l’asino di Gesù nel giorno delle Palme.

ACHTUNG! ACHTUNG!

Cambio vita è il salto di cerchio.
Quanto XI che eccita Nicodemo, il bolscevico.

Il carico di pallottole nelle vene giù per la giugulare
a capofitto nelle mani. Stimmate di ferro ai piedi.

Poi nel risalire un martellare chiodi. Torsione di dorso
Che non voleva saperne di spingersi oltre la Luce.

Nemmeno una piccola fermata a rigirare il Tempo
Miracolo di un esploso che torna nel tritolo.

Carlo Livia

 [di prossima pubblicazione, La prigione celeste, con Progetto Cultura, Roma]

From here to nothing

Attraverso la notte sacramentale, nuda, trascinando l’anima del bambino
morto. Un vecchio mi vede da lontano e grida. Vuole uccidermi, ma diventa di marmo.

Cado nel groviglio francese. E’ piacevole. Il dolore cresce lontano. Divento
Auschwitz. Con le cosce dell’uragano Gloria, e un sesso trionfale con precipizi in fiore. Ritorno nel parco giochi. Un cipresso cieco, furioso, mi sbarra la strada. Ha tutti i morti in mano.

La rugiada delle fanciulle è spesso un addio viola. Segue le croci verso il buco nero, senza domande.

La veste vergine si affaccia dall’incesto, spargendo protoni mortali. Sul
davanzale intermedio traducono i morti in euro.

Dall’amplesso centrale cade un si minore. Biondissimo. Inestricabile dai
lunghi serpenti del profondo. Si staglia nel cielo lastricato di dei. Sul viale
ormonale appena risorto.

Nell’aria un uccello infelice. Diventa un peccato. O un flauto celeste, troppo
sottile. Mi trafigge il cuore. Per fortuna mi addormento. In sogno attraverso le
cascate.

Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata.

Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Intini è evidente che il venire-alla-presenza delle parole nell’ordine del discorso poetico equivale all’apparire degli enti. Si può allora vedere nella questione dell’evento il momento centrale di questa poesia, un’ultima ed estrema radicalizzazione della problematica fenomenologica dell’apparire delle parole nell’ordine del discorso umano. Dell’apparire e dello scomparire delle parole e del senso eventuale loro connesso e concesso da un io che si è ritirato nel nascondimento.

La parola è evento, è il luogo nel quale si mostra l’evento. La parola ci guarda, sta lì da sempre, attende un nostro cenno, un accoglimento, impedito da sempre da una resistenza che noi opponiamo con pervicacia e supponenza. Allora dobbiamo chiederci: si dà un evento senza la parola che lo nomina? La risposta è NO, è la parola che chiama l’evento. È perché siamo «guardati» dall’evento che siamo anche «guidati», condotti dall’evento.

Scrive Roberto Terzi:

«L’uomo in quanto esserci è il Ci, il luogo di questa manifestatività, ma non è colui che la costituisce o padroneggia, perché l’evento accade all’uomo prima di ogni sua iniziativa e l’uomo stesso,come vedremo tra breve, appartiene all’evento in cui diviene ciò che è. Ma concepire il fenomeno in termini evenemenziali significa anche indicare il cuore di nascondimento e sottrazione insito in ogni manifestazione, l’impossibilità di portare l’essere ad un disvelamento completo o ad una «evidenza». È significativo allora che nel suo ultimo seminario Heidegger si confronti nuovamente con la fenomenologia e parli programmaticamente di una «fenomenologia dell’inapparente»: gli enti appaiono, ma l’apparire degli enti non appare a sua volta, non perché sia qualcosa fuori dagli enti, ma perché è l’evento ritraentesi di ciò che appare. Diviene così comprensibile anche il senso del richiamo all’etimologia di Ereignis da eräugen (mostrare, far vedere, o anche guardare, adocchiare) e da Eräugnis (ciò che è messo sotto gli occhi): l’Ereignis è il movimento del venire-alla-visibilità, l’evento che «ostende» qualcosa portandolo alla manifestazione e conducendolo così al suo proprio. È ciò che rende possibile la nostra stessa visione, perché se bisogna parlare qui di un «guardare» e di uno «sguardo», si tratta innanzitutto dello sguardo dell’evento verso l’uomo e non viceversa. È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.» Continua a leggere

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Eugenio Lucrezi, Tre poesie da Bamboo Blues, nottetempo Milano, 2018 pp. 92 € 10 con Poesie di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Dialoghi e commenti degli interlocutori, Mario M. Gabriele, Alfonso Cataldi, Giorgio Linguaglossa

Foto Man Ray to the selfie generation Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Leggendo questo libro di Eugenio Lucrezi, mi è venuto in mente che avevo dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante… ma forse non era così importante come credevo; in fin dei conti a chi si rivolge questo libro di Eugenio Lucrezi che ha per titolo Bamboo Blues? Credo a nessuno. E questa è forse la posizione privilegiata per un libro di poesia: non dover accordare nulla a nessuno, non dover venire a patti con nessuno, non dare credito a nessuno, essere liberi come un uccello. Le parole che utilizza il poeta napoletano sono per lo più parole desuete e povere con l’accompagno del timbro sonoro di una antica tradizione che si è dissolta.

Ho dimenticato di dire che una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto una tribù. Non sta al poeta, seppur di rango, costruire una patria metafisica, questi non può che accostumarsi ad impiegare le parole che trova già pronte, quelle della barbarie, le parole che un poeta non dovrebbe mai accettare di dover pronunciare.

Ma mi chiedo se, nell’epoca della seconda barbarie, la nostra, sia ancora possibile costruire una patria metafisica delle parole. Con le parole di Marcuse:

«È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

Non so se Eugenio Lucrezi abbia tenuto in mente questa massima di Marcuse dei primi anni Sessanta ma credo che in qualche modo si riconoscerà in quelle parole del filosofo tedesco.

La pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369) recita così:

«Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente, da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»

Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, credo che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.

Foto in metro vuoto

una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto un uomo della tribù

.

Tre poesie di Eugenio Lucrezi

Angelo del Pontormo

Nube. Nubesco. Potenza delle ali.
Testa rivolta ai venti della volta.
Un gran soffione d’aria nel vestito.
Sono nube di guerra. Non sorrido.
Vento che ti schiaffeggia. Non mi vedi.
Arrivo nel gran peso delle ossa.
Non c’è buco che tenga la caduta.
Angelo dell’intonaco, sono orma
della grazia sul ponte, sono inchino
di veleggi rigonfi al paradiso
chiuso nella navata.

Bamboo Blues

Non credo a quel che vedo, la fotografia
scattata quasi a caso, di pomeriggio,
a te che prendi il vento negli ariosi
capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile
passo di danza, torcendo
appena un poco il busto mentre alzi
le braccia all’altezza del viso che si profila
di spalle nel cielo caricato
di sole e di calante azzurrità commossa
e respirante fiati e fiati di vite
diffuse e riposanti nei filacci
d’estate, ad occhi chiusi a fresco,
in memoria del mare,
con le ascelle che bevono luce
moderata alla fine, che accoglie
la grazia del tuo passo, e di tuo figlio
che ti guarda da presso,
dice l’amore incredulo che piangi
a Pina in un istante, e sei tutta
abbraccio intorno al nulla, concentrata.

Angelo

Essere un angelo ha un costo, le ali,
con l’esistenza che pesa e non vuole
saperne di levarsi, fanno solo
rumore, un fastidioso
frullare con affanno inconcludente.
Fare l’angelo costa, a te hanno dato
l’intera paga, il soldo del soldato
celeste. Raramente
ti sei mossa da terra, la tua grazia
cozzava sul soffitto della stanza.
Il soldo lo hai tenuto in un cassetto,
la luce che emanavi rifletteva
raggi infiniti contro la parete
trasparente della finestra.
Frullare d’ali nella cameretta.
Sorella lieve raggiungi la tua schiera.

Eugenio Lucrezi, di famiglia leccese, è nato nel 1952, vive a Napoli. Ha pubblicato cinque libri di poesia:
Arboraria, Altri termini, Napoli 1989;
L’air, Anterem, Verona 2001;
Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006;
– Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis, Trento 2008;
Mimetiche, Oedipus, Salerno-Milano 2013.
Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000.
Suoi testi sono presenti in libri collettivi e antologie:
Poeti degli anno ’80, a cura di Renzo Chiapperini, Levante, Bari 1993;
Poesia in Campania, a cura di Ciro Vitiello, in Novilunio, anno 3°-4°, Zurigo 1993-1994;
Attraversamenti, a cura e con fotografie di Donatella Saccani, Di Salvo, Napoli 2002:
Le strade della poesia, a cura di Ugo Piscopo, Guardia dei Lombardi, 2004; e poi a cura di Domenico Cipriano, edizioni delta3, Grottaminarda 2011, 2012 e 2013;
Il racconto napoletano, a cura di Ciro Vitiello, Oèdipus, Salerno-Milano, 2005;
Portfolio Lo stormo bianco, a cura di Nietta Caridei, Giancarlo Alfano, Gabriele Frasca, d’if, Napoli 2005;
Una piazza per la poesia, Il portico, Napoli 2008;
Mundus, a cura di Ariele D’Ambrosio e Mimmo Grasso, Valtrend, Napoli 2008;
Registro di poesia n°2, a cura di Gabriele Frasca, d’if, Napoli, 2009;
A ritmo di jazz, a cura di Fabio G. Manganaro, edizioni blu, Torino 2009;
Accenti, a cura di Enrico Fagnano, edizioni del comitato Dante Alighieri, Napoli 2010;
Frammenti imprevisti, a cura di Antonio Spagnuolo, Kairos edizioni, Napoli 2011;
ALTEREGO poeti al MANN, a cura di Marco De Gemmis e Ferdinando Tricarico, Arte’m, Napoli 2012;
L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di N. Di Stefano Busà e di A. Spagnuolo, Kairos, Napoli 2013;
In forma di scritture, a cura di Carlo Bugli, Pasquale Della Ragione, Giorgio Moio, Riccardi, Quarto, 2013;
Una piuma per Alda, Il laboratorio di Nola, Nola 2013;
Virtual Mercury House, di Caterina Davinio, Polimata, Roma 2013;
La memoria, primo quaderno del Premio Alessandro Tassoni, a cura di Nadia Cavalera, e-book Calameo, Modena 2013.

Giorgio Linguaglossa
31 luglio 2018 alle 12:35

Ricevo da Gino Rago questa 16ma lettera a Ewa Lipska

Sedicesima Lettera a Ewa Lipska

[la vita nelle torte]

Cara M.me Hanska,
i poeti hanno dato scacco matto al tedio di Dio,

uno di loro ha scritto in un suo verso:
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»

Al Quirinale, l’orologio ad acqua,
sul Tevere la voce dei cesari.

Non dia retta a chi ha scritto:
«chi penetra il mistero della lingua trova la sua patria»,

a Cracovia i poeti non sono barometri.
[…]
Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba
nello specchietto retrovisore.

Caffè di Graz, fette di Wiener apfelstrudel.
La megera vive accanto al Blumenstrasse,

in un appartamento al secondo piano.
Dice di essere Madame Hanska, quella de Il tedio di Dio.

Sono vittime del blues:«Lasceremo Vienna,
andremo a Linz, o forse a Salisburgo».

Dallo specchio, una voce: «Mangerete
una Linzetorte o una Mozartkugel?».

«Tutte e due, lo sa, il segreto della vita
è nelle torte». Continua a leggere

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Peter Handke (1942) , Canto alla durata (1986) Einaudi, (2015) a cura di Hans Kitzmüller, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Giorgio Morandi

Giorgio Morandi

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Gedicht an die Dauer di Peter Handke, uscì per Suhrkamp nel 1986 e pubblicato nel 1988 da Braitan, editore di Brazzano (Gorizia). Nel 1995 il libro fu ripubblicato da Einaudi nella collana «I Coralli» e adesso lo troviamo nella bianca Einaudi, 2016 nella traduzione e postfazione di Hans Kitzmüller il quale nello scritto in calce al volumetto riporta un brano significativo dell’autore a proposito del suo rapporto con i «luoghi»:

«Credo nei luoghi, non quelli grandi ma quelli piccoli, quelli sconosciuti, in terra straniera come in patria. Credo in quei luoghi, senza fama né risonanza, contraddistinti forse dal semplice fatto che là non c’è niente, mentre intorno c’è qualcosa dappertutto. Credo nella forza di quei luoghi, perché là non c’è più niente, e non ancora niente. Credo nelle oasi del vuoto, non in disparte, ma qua in mezzo alla pienezza. Sono certo che quei luoghi, pur se non fisicamente frequentati, si rifecondano sempre, già con la decisione di partire e con il senso del cammino».

Certi titoli dei libri di Handke sono emblematici: «Pomeriggio di uno scrittore», «Saggio sul luogo tranquillo» o «Saggio sul cercatore di funghi», lo scrittore austriaco ci ha abituati ad una forma di scrittura che è la modalità per eccellenza per entrare in rapporto di confidenzialità e di comunione con i «luoghi», questo «Canto alla durata», poemetto filosofico in metro libero, piuttosto insolito nella poesia di tradizione italiana, Handke interpreta il ruolo del poeta che narra e riflette su ciò che vede e che sente durante una passeggiata, o durante un periodo di ozio; per la circostanza Handke adotta il principio lucreziano: la poesia come forma più consona della prosa ad investigare il concetto psico filosofico di durata (in tedesco Dauer). Cos’è la «durata», Handke sgombra subito il campo da alcuni possibili equivoci, non è una intuizione, non una epifania, non un momento che sopraggiunge all’improvviso, nulla a che fare con l’estasi, nulla a che fare con l’attimo né con un insieme di attimi, sia pure infiniti che si susseguono uno dopo l’altro senza interruzione o con interruzioni, non ha nulla a che fare con l’effimero e il transitante, anzi, la «durata» è ciò che transita in noi per restarvi, per abitare un angolo della nostra coscienza, la «durata» è ciò che «dura», ciò che non scompare ma resta appena al di sotto della coscienza vigile e che anzi dà una forma alla coscienza vigile; la «durata» è un arricchimento della consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che stiamo per diventare, è un motore in funzione, una forza retroattiva e propositiva, «i luoghi della durata non rifulgono di splendore,/ spesso non sono nemmeno riportati sulle carte/ oppure sono senza nome»; ma può essere anche «il rumore della porta che si apre», oppure può essere un gesto: «nell’attimo in cui tu/ con lo stesso gesto accurato/ col quale dieci anni fa/ appendevi all’attaccapanni/ il cappotto azzurro con cappuccio». «e tuttavia nello stato di grazia della durata/ finalmente non sono più io solo». «Eppure il semplice starsene a casa non basta;/ io devo andare incontro alla durata».

Non c’è dubbio che l’esperienza della «durata» sia una cosa tutta da definire e approfondire a livello filosofico. Già il concetto di «esperienza» è qualcosa che deve essere ancora precisato dal punto di vista filosofico ha affermato Gadamer, nessuno sa che cosa l’«esperienza» sia ma tutti sappiamo che abbiamo delle «esperienze» intorno a cui, però, non sappiamo nulla di definito. Che cos’è una esperienza? Che cos’è una esperienza metafisica? Con le parole di Adorno: «Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica».1]

Anch’io penso che senza una «metafisica», gli uomini oggi non possono avere alcuna «esperienza metafisica». Ciò che è indurito, ciò che si è reificato si sottrae ai giudizi esistenziali, rimane il tegumento cosificato delle «espereinze» internalizzate nelle coscienze degli uomini, e a questo si dà il nomignolo, appunto, di «esperienza».

T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. a cura di Alberto Donolo, 1970, Einaudi p p. 336

Peter_Handke.jpg--

Peter Handke

Canto alla durata

“Si era rivolta a me […] e come dall’alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. […]
Ecco, la durata è la sensazione di vivere. […]
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita.

E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
E questo non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovraumana,
non è guerra, non è un allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
Sì, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa più importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un’espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitare
un anno dopo l’altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo. […]

Ma anche continuare per anni a essere ben disposto nei tuoi confronti
può darti durata.
Sapermi guardare amichevolmente negli occhi
talvolta mi assolve. […]
Essere indulgente con i miei difetti […]
rabbonirmi, se mi viene fatto un torto,
come mio unico parente,
battermi il petto
in trionfo per una parola felice
al posto giusto
e urlare un «sì» nella foresta della mia stanza
può ringiovanirmi
come una bottiglia di prelibatissimo vino
(con effetto però diverso).

Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto. […]

Anche a casa mi si fa accanto molte volte
quando cammino su e giù per il giardino
nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale,
[…] oppure quando mi siedo nella mia stanza
al cosiddetto tavolo da lavoro –
non per attendere alla mia occupazione, al testo,
ma per fare tutti quei soliti gesti secondari:
spostare indietro la sedia,
dare uno sguardo nel cassetto […]
sbirciare dalla finestra in giardino
dove i gatti lasciano le loro tracce
nella neve profonda e tra l’erba alta,
mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento
il fischio e il trabalzare
dei treni che percorrono la pianura.

O durata, mia quiete!
O durata, mia sosta! […]

La durata è il mio riscatto,
mi lascia andare ed essere. […]
Chi non ha mai provato la durata
non ha vissuto.

La durata non stravolge,
mi rimette al posto giusto”.

quel senso di durata cos’era?
era un periodo di tempo?
qualcosa di misurabile?
una certezza?
No, la durata era una sensazione,
la più fugace di tutte le sensazioni,
spesso più veloce di un attimo,
non prevedibile non controllabile,
inafferrabile non misurabile.
Eppure con il suo aiuto
avrei potuto affrontare sorridendo ogni avversario
e disarmarlo
e se mi considerava un uomo malvagio
l’avrei convinto a pensare
“egli è buono!”
e se esistesse un dio,
sarei stato la sua creatura
finché provavo quella sensazione della durata.

Peter Handke cover

Proprio ieri nel Waagplatz a Salisburgo
nel frastuono della folla sempre intenta a far la spesa,
udendo una voce
come proveniente dall’altra parte della città
chiamare il mio nome,
mi sono accorto in quello stesso istante
di aver dimenticato su una bancarella
il testo della Ripetizione
che stavo portando alla posta
e nel tornare indietro di corsa ho sentito quell’altra voce
che un quarto di secolo prima
nel silenzio notturno di un sobborgo di Gratz,
dall’altro capo di una lunga strada diritta e deserta,
si era rivolta a me con eguale premura e come dall’alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono assieme.
“Ci vogliono giorni, passano anni”
Goethe mio eroe
e maestro del dire essenziale,
anche questa volta hai colto nel segno:
la durata ha a che fare con gli anni
con i decenni, con il tempo della nostra vita.
ecco la durata è la sensazione di vivere.

Inutile forse dire
che la durata non nasce
dalle catastrofi di ogni giorno,
dal ripetersi delle contrarietà,
dal riaccendersi di nuovi conflitti,
dal conteggio delle vittime.
Il treno in ritardo come al solito,
l’auto che di nuovo ti schizza addosso
lo sporco di una pozzanghera,
il vigile che col dito ti fa cenno
dall’altro lato della strada, uno coi baffi
(non quello ben rasato di ieri),
la morchella che ogni anno rispunta
in un angolo diverso nel folto del giardino,
il cane del vicino che ogni mattina ti ringhia contro,
i geloni dei bambini che ogni inverno
tornano a pizzicare,
quel sogno terrorizzante sempre uguale
di perdere la donna amata,
l’eterno nostro sentirci improvvisamente estranei
fra un respiro e l’altro,
lo squallore del ritorno nel tuo paese
dopo i tuoi viaggi di esplorazione del mondo,
quelle miriadi di morti anticipate
di notte prima del canto degli uccelli,
ogni giorno la radio che racconta un attentato,
ogni giorno uno scolaro investito,
ogni giorno gli sguardi cattivi dello sconosciuto:
è vero che tutto questo non passa
– non passerà mai, non finirà mai -,
ma non ha la forza della durata,
non emana il calore della durata,
non dà il conforto della durata.

*

Sulla durata non si può fare alcun affidamento:
nemmeno la persona religiosa
che va ogni giorno a messa,
neppure chi è paziente, l’artista dell’attesa,
nemmeno colui che ti è fedele
e che senza esitazioni sarà sempre con te,
può avere la certezza per tutta la vita.
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco ad essere cauto,
attento, lento,
sempre del tutto presente a me stesso sino nelle punte delle dita.

E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
e questa non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovrumana,
non è guerra, non è allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.

*

Certo, la durata è l’avventura del passare degli anni,
l’avventura della quotidianità,
ma non è un’avventura dell’ozio,
non è un’avventura del tempo libero (per quanto attivo).

È dunque connessa col lavoro,
con la fatica, con l’impegno, con la continua disponibilità?
No, perché se avesse una regola
richiederebbe allora un paragrafo
e non una poesia.
Io infatti l’ho vissuta anche viaggiando,
sognando, tendendo l’orecchio,
giocando, contemplando,
in un campo sportivo, in una chiesa,
in molti pissoirs.

*

Eppure l’accenno al giardino di casa
non vuol significare
che si possa raggiungere la durata
con una residenza stabile
e con le abitudini.
È vero che essa deriva da atti quotidiani ripetuti
attraverso gli anni,
ma non dipende dalla permanenza in un luogo
e da itinerari consueti.
Mai ho sentito la durata
standomene al mio solito posto
– in quello star seduto in silenzio
che si dice faccia diventare «santi» -,
mai ho sentito la durata
seduto a un tavolo riservato ai clienti abituali
– i relativi cartellini,
con tutto il rispetto per le trattorie,
mi sono insopportabili -,
non ho mai sentito la durata
consumando le «pietanze favorite»,
ascoltando la «canzone preferita»,
passeggiando lungo la «mia» strada.

Certo, la durata è l’avventura del passare degli anni,
l’avventura della quotidianità,
ma non è un’avventura dell’ozio,
non è un’avventura del tempo libero (per quanto attivo).

dal retro di copertina del volume:

Prendendo spunto da Goethe, «maestro del dire essenziale», Handke propone in questo poemetto una sua personale ricerca sul concetto di durata, l’entità che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi. Connessa al ripetersi degli eventi quotidiani, ma al contempo svincolata dalla permanenza in luoghi o itinerari consueti, la sensazione della durata è l’esito della fedeltà a ciò che l’individuo sente come piú profondamente proprio: fedeltà al divenire di una persona, fedeltà a «certe piccole cose» che ci accompagnano «in tutti i traslochi», fedeltà infine a determinati luoghi, un lago, una piazza, una sorgente alla periferia di Parigi. La durata tuttavia non esiste a priori, bisogna cercarla, andarle incontro, trovare un punto di mai definitiva, instabile quiete. La poesia – dice Handke – è uno dei migliori supporti in questa ricerca interiore. Ed è dunque naturale che questo libro di meditazione filosofica sia stato scritto in versi, quasi per bussare alla porta di quella condizione sapienziale tipica della poesia di ogni tempo.

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Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia Continua a leggere

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Poesie di Zbigniew Herbert, Letizia Leone, Raymond Carver,  Alfonso Cataldi, Carlo Bordini, Fritz Hertz, (Francesca Dono), Lidia Popa, Luciana Vasile, – Riflessioni di Giorgio Linguaglossa, Gaio Valerio Pedini – La Poesia dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica

Gif Labbra rossettoGif we were born to die

 

Due poesie di Zbigniew Herbert (1924-1998)
da L’epilogo della tempesta, Adelphi, a cura di Francesca Fornari, 2016

Un cuore piccolo

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

nel momento meno opportuno
quand’ero ormai sicuro
di aver dimenticato tutto
le sue – le mie colpe

eppure come gli altri
volevo cancellare dalla memoria
i volti dell’odio

la storia mi confortava
io combattevo la violenza
e il Libro diceva
– era lui Caino

tanti anni paziente
tanti anni inutilmente
ho pulito con l’acqua della pietà
la fuliggine il sangue le offese
perché la nobile bellezza
il fascino dell’esistenza
e forse persino il bene
dimorassero in me
eppure come tutti
desideravo tornare
alla baia dell’infanzia
al paese dell’innocenza

il proiettile che ho sparato
da un piccolo calibro
nonostante le leggi di gravitazione
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle
come volesse dirmi
che niente e nessuno
sarà perdonato

e così adesso siedo solitario
sul tronco di un albero tagliato
nel centro stesso
della battaglia dimenticata

io ragno grigio intesso
riflessioni amare

su una memoria troppo grande
su un cuore troppo piccolo

Preghiera

Padre degli dèi e tu Hermes mio patrono
ho dimenticato di chiedervi – e adesso è ormai tardi –
un dono grande
e così imbarazzante come una preghiera
per pelle liscia capelli folti palpebre a mandorla

che accada
che tutta la mia vita
entri per intero
nel cofanetto dei ricordi
della contessa Popescu
su cui è raffigurato un pastore
che al limitare di un querceto
soffia dallo zufolo
un’aria perlata

e il disordine dentro un gemello
il vecchio orologio paterno
un anello senza la pietra
un binocolo marinaio ripiegabile
lettere essiccate
una scritta dorata su una tazza
che invita alle terme
di Marienbad
una barra di ceralacca
un fazzoletto di batista
segno della resa di una fortezza
un po’ di muffa
un po’ di nebbia

Padre degli dèi e tu Hermes mio patrono
ho dimenticato di chiedervi
mattini pomeriggi sere frivole e senza senso
poca anima
poca coscienza
una testa leggera

e un passo danzante

  

Giorgio Linguaglossa  25 maggio 2018 alle 7:53

Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»?. Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Meister Eckhart ci ha parlato del «vuoto» quale esperienza interiore essenziale per accedere alla dimensione spirituale, ovvero, fare «vuoto» come distacco dai propri contenuti personali per poter accedere ad una dimensione più vera e profonda.

È da qui che ha inizio la riflessione poetica dei poeti nuovi dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica, dal punto di congiunzione tra temporalità e memoria. Quel punto opaco, insondabile dove hanno avuto luogo gli eventi significativi, paradossalmente opachi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero.

Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci.

La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

I grandi poeti lavorano incessantemente per tutta la vita attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. In questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

il proiettile che ho sparato
durante la grande guerra
ha fatto il giro del globo
e mi ha colpito alle spalle

perché istituisce una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere, dove l’assurdo della denotazione collima con il rigore del pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza intuitiva l’eterogeneo e il contraddittorio che permea l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa, assunto che viene invalidato dal pensiero della communis opinio ma che è inverato dall’esperienza della metafora nella poesia, dove essa si rivela essere un concentrato di impossibilità drasticamente verosimile ed immediatamente intuitiva.

T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42

alfonso_cataldi

Alfonso Cataldi

 Alfonso Cataldi   25 maggio 2018 alle 10:23

Sinestesie

Eravamo tra i minimi discorsi nel bar di via Carfagna
quando l’altro mio alter ego prende il largo.
S’inalbera ed esce, sbattendo la porta.
Così un gruppo di tedeschi litigioso

si siede al tavolino
in pieno centro urbano
e continua la nostra discussione.

Giacomo sveglia l’intero vicinato strillando
«il pezzo-schizo» di Jannacci
davanti lo skyline che muta
intorno a Porta Nuova:

“Giacomo ha fame. Paninutto!!”

Una mamma mette in pausa l’ultimo tutorial pubblicato su Donna Moderna.
Si domanda se ha una faccia in più
oppure in meno
l’origami
strapazzato tra le dita.

Il maestro Robert J. Lang dice di ritenere la questione troppo ingenua
la ripiega nello stipo dietro gli accadimenti di giornata
da stivare in poco spazio
tra i satelliti
del punto-vita. Continua a leggere

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L’oggetto in poesia – La debolezza degli oggetti – Poeti a confronto: Tomas Tranströmer, Iosif Brodskij, Francesca Lo Bue, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Raffaele Greco – L’ontologia del declino del soggetto e dell’oggetto a cura di Giorgio Linguaglossa

foto palazzo illuminato

La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente

Giorgio Linguaglossa

A proposito della «noia» e del «vuoto» e dell’«oggetto»

«La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente. La parola tedesca è langweile: un lungo indugio, una piccola sosta protratta lungamente nel tempo. Il tempo che si caratterizza per una ripetizione infinita: non solo la mancanza della novità ma soprattutto la mancanza della speranza stessa che qualcosa di nuovo possa accadere. È l’esperienza del soffocare, che può aprire alla disperazione, questo è ovvio, ma anche al salto, religioso e filosofico. Senza questo senso di soffocare nel vuoto è impensabile anche solo pensare di uscirne. Quando giungi al limite in cui il passato ti sembra niente puoi immaginare un oltre. La noia direi, quindi, ha una duplice faccia: consuma il tempo passato, consuma il presente ma non è detto che si fermi lì, può portare ad una novitas, il tempo si è esaurito ma può esserci dell’altro.
Poi non citerei sempre lo straniero, citerei Leopardi, è un discorso tipicamente e completamente leopardiano, ma direi anche tipicamente italiano, anche del Tasso e di tutta la grande lirica italiana.» (da una intervista a Massimo Cacciari)

La debolezza degli oggetti

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità, assumono una grande carica simbolica. Il «lungo indugio» richiede che il punto di vista della noia si posi sugli «oggetti» per rivelarne  la loro intrinseca debolezza ontologica: l’oggetto diventa «debole», e anche il soggetto diventa «debole». Si va profilando la «ontologia del declino» degli oggetti e del soggetto di cui ci ha parlato Gianni Vattimo. La «debolezza degli oggetti» va di pari passo con la appercezione annoiata del mondo tipica della attuale fase della civiltà del capitalismo finanziario e globale; è la conformazione indebolita degli oggetti quella che appare alla epoché dello sguardo annoiato, ma, appunto, questo sguardo indebolito richiede una sintassi indebolita, e così le giunture razionalizzatrici della sintassi si indeboliscono, la direzione unilineare e unitemporale della sintassi diventa fragile e si disintegra; analogamente avviene con la appercezione dello spazio-tempo: lo spazio tempo, liberato dalla costrizione della sintassi, si moltiplica in una pluralità di spazi e di tempi, e arriviamo alla appercezione indebolita della «nuova poesia», cioè della «nuova ontologia estetica». È un movimento epocale che qui ha luogo, un movimento innervato nella «ontologia del declino» del soggetto e dell’oggetto.

Pensavo in questi giorni leggendo la poesia di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi che la poesia della nuova ontologia estetica dà molto credito alla noia. La noia è una ottima maestra dell’arte poietica; la disarmonia di cui parla Leopardi a proposito della musica (intuizione brillantissima), pone la musica alla stessa stregua della poesia, entrambe sono una interruzione della noia, della noia come rallentamento del tempo e dilatazione dello spazio; la musica questo lo sa da tempo immemorabile e la musica di Rossini e di Paganini ne è un esempio impareggiabile…

In tempi moderni la musica di Giacinto Scelsi mette in opera il principio della noia: gli «oggetti», i «suoni» della musica tradizionale scompaiono, per Scelsi la musica è interna al suono (ascolta Quattro pezzi su una nota sola, per orchestra da camera, del 1959), il musicista che abita davanti al Foro romano distingue la musica dei suoni dalla musica del suono, e la sua ricerca musicale si concentrerà sulla musica che scaturisce da un suono solo, un suono dominante che si può dilatare e temporalizzare all’infinito. Scelsi compone sempre più a rilento, spesso rielaborando opere precedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto.

Analogamente, la noia per la orchestrazione sonora della tradizione poetica, sostanzialmente elegiaca e monocorde, spinge la «nuova poesia» che vuole essere inusitata e dissonante a ricercare nuove soluzioni di conflittualità e di dissonanza, ma tutto ciò all’interno di una tonalità dominante, non più entro il perimetro di un concetto di panlogismo zanzottiano e sanguinetiano che accosta parole-suoni diversi e differenti in un conglomerato unilineare e unitemporale, nella «nuova ontologia estetica» la differenza e la diversità si possono trovare soltanto all’interno di una metafora dominante o una tonalità emotiva dominante.

La «noia» è il vuoto che si apre, che apre spazi e spalanca tempi; soltanto la «noia» ti consente questa esperienza fondamentale… ti fa esperire il tempo e lo spazio attraverso le parole… e le parole vengono ad essere temporalizzate e spazializzate… Il punto e la spaziatura tra i singoli versi e le singole strofe sono balconi che si affacciano sul vuoto della pagina bianca… Il «vuoto», dunque, insieme alla «noia» sono esperienze costitutive della poesia della nuova ontologia estetica; per «vuoto» intendo qui qualcosa di affine alla «noia», qualcosa che consente la traslazione di essa nella pagina bianca, perché è la «noia» che può spalancare la impalcatura del «vuoto», solo la «noia» per la parola panlogistica.

 Due parole sull’oggetto

l’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto; l’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo. La «questità» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, la possibilità del loro essere e la non-possibilità, cioè il loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]

La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in oggi oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.

Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3] –

La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.

1] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 41
2] Ibidem p. 39
2 Ibidem, p. 168

Gif volto bianco con macchia rossa

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità

Francesca Lo Bue

18 maggio 2018 alle 18:40

Una parola e una poesia sull’oggetto “lampada”.
Nel nominare gli oggetti la loro “specifica ” oggettualità, o precisione è già implicita la loro vaghezza, perché comporta la “condanna del linguaggio”: il suo essere scarso, limitato, approssimativo. Ma pure paradossalmente, nominare gli oggetti è aprire con una “chiave” la infinita possibilità di dire, nominare in un altro modo. Come una lampada che gettando luce su gli oggetti li chiama alla visibilità, alla loro presenza ed uso.
La poesia è questo oggetto “lampada” che è capace di potenziare la nominazione, quindi arricchire la esistenza materiale e spirituale del mondo.

Cercare

Come fossi lo spirito della lampada
cerco il luogo del Nome e della cima innevata,
cerco nel gioco delle mani la scrittura fatale del tuo destino.

Visione..
Barbaglii di brace in desolato suono.
Mano che afferri
oltre pareti di ferro,
scarlatto che ammicchi una chiave di silenzio e presagio.

Buscar

Como si fuera el espíritu de la lámpara
busco el lugar del Nombre en la cima nevada,
busco en el juego de las manos la escritura fatal
de tu destino.

Visión,
destello que abrasa en desolado sonido.
Mano que aferras
más allá de las paredes de hierro.
guiñas una llave de silencio y presagio.

Lucio Mayoor Tosi

18 maggio 2018 alle 18.02

La maniglia argentata
di una vecchia macchina da scrivere.
Questo lento a capo.

Foto Man Ray Linda Lee

Man Ray, Lee Miller

Giorgio Linguaglossa

19 maggio alle 19.28 alle 18.02

Due poeti a confronto: Tomas Tranströmer e Iosif Brodskij – L’uso degli «oggetti» Continua a leggere

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Per una ontologia relazionale – Poesie di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mariella Colonna – Dialogo tra Franco Campegiani e Giorgio Linguaglossa – La verità ha valore posizionale, il nichilismo è la posizione delle posizioni della nostra epoca – La nuova poesia ontologica è riflessione sul nulla – La verità è diventata posizionale

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mario M. Gabriele
2 agosto 2017 alle 12:23

Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz, e I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze all’Harmattan.

Entra nel mio cuore e restaci come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare, né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares con il cane,
e Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.

Lucio Mayoor Tosi
2 agosto 2017 alle 12:33

Be’, allora io ne metto una breve breve:
Caroline.
Io e te siamo specchi riflettenti emozioni diverse
e fuori sincrono.
Per un po’ saltiamo nello stomaco dell’altro.
L’altro che si sta genuflettendo.
Così trascorriamo il tempo nella stazione orbitale
Caroline.

Mariella Colonna

Carolyn è una creatura perfetta:

alta, mora, carnagione compatta, aria sognante.
Gli alberi si piegano al suo passare,
la sfiorano con i rami, lei, occhi profondi
guarda lontano il mare e il mare guarda lei…
i sospiri delle onde richiamano il vento.
Rintocca il mezzogiorno con il suono delle campane
a Beaulieu sur mer.
Carolyn non sa che nel lontano Afghanistan
un soldato americano sogna il suo corpo
le lunghe gambe, la vita sottile, gli ondosi capelli.
Il soldato non sa che, dentro quel corpo perfetto,
gravitano mondi e ampi spazi sono attraversati
da neutrini e microparticelle.
Neppure Carolyn lo sa. E ignora che il suo cuore
ha un numero molto molto grande ma limitato
di battiti e che un giorno, come tutti,
anche lei dovrà morire.
Per questo Carolyn è felice di esistere
e il soldato felice di sognarla
anche se non la conosce. L’ha immaginata
e non sa che esiste davvero…
Troppe cose si sanno, troppe non si sanno.
Chissà, forse le sa Marianita, la cubana
che fa le carte per 50 centesimi.

foto Birra

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L’EPOCA DELLA STAGNAZIONE PERMANENTE – LA CRISI È IL PRODOTTO DELLA STAGNAZIONE PERMANENTE – L’AMMINISTRAZIONE GESTISCE LA CRISI E GLI OGGETTI DELLA CRISI -Donatella Costantina Giancaspero: La metafisica trapassa in micrologia – Colloquio tra Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco-Rathgeb e Gino Centofante

 

 

Gif chador   Steven Grieco-Rathgeb

2 settembre 2016 alle 15:47

Cito qui un articolo, “Una marea di (brutte) immagini sta annegando la fotografia”, di Luca Gabriele per “Il Giornale” dello scorso sabato 27 agosto 2016. L’articolo mi è capitato sott’occhio per caso, ma l’ho trovato illuminante.

“La fotografia è morta, proprio mentre stiamo vivendo nell’epoca dell’immagine compulsiva che ci accompagna 24 ore su 24 come mai era accaduto prima.

È questa la tesi, davvero interessante, espressa da Michele Neri nel saggio Photo Generation appena pubblicato da Gallucci. Figlio di Grazia Neri, fondatrice della più importante agenzia fotografica italiana, si è dovuto arrendere all’evidenza dei fatti, alla rivoluzione cominciata poco più di dieci anni fa con il lancio sul mercato degli Smartphone che ha sovvertito il nostro rapporto con le immagini. E dunque ha deciso di chiudere i battenti perché le fotografie hanno trovato un modo diverso per diffondersi e vivere.

“…Ciò che appare presto evidente è la messa in discussione dell’autorialità, che nella cultura occidentale è questione dirimente fin dal Medioevo. Oggi invece, grazie alla facilità d’uso e alla disponibilità di tecnologie sempre più sofisticate e a basso costo, chiunque può sentirsi a ragion veduta creatore di immagini che i social network diffonderanno capillarmente abbattendo qualsiasi confine…”

Queste stesse cose le ho apprese da un giovane amico indiano nel febbraio scorso, ecco perché trovo questo articolo così interessante. Le parole dell’amico erano identiche a queste: “… E spesso su Instagram, Snapchat, Facebook si trovano cose talmente interessanti, magari inconsapevoli, da oscurare il lavoro dei professionisti certificati. Immediatezza dunque invece che autorialità? Può davvero essere.
L’articolo continua:

“Gli aggeggi da cui siamo diventati inseparabili, veri e propri prolungamenti del nostro corpo, hanno però, paradossalmente, una memoria molto breve. Basta cambiare telefonino o computer e buona parte delle immagini andranno perse. Il rischio è dunque quello di un deserto digitale perché oggi, a differenza che nel passato, nessuno stampa più le foto affidando dunque i propri ricordi al tempo limitato della condivisione. I milioni di immagini, molte delle quali va detto assai poco interessanti perché inerenti alla sfera privata degli individui, andranno inevitabilmente persi e dunque quella che Neri chiama la «Photo Generation» rischia di rimanere senza un proprio archivio mnemonico. Davvero un paradosso.

 

L’attacco alle Torri Gemelle del 2001, quando ancora gli Smartphone non esistevano, rappresenta l’ultimo storico momento di immagini condivise. Poi anche gli specialisti, i fotoreporter attivi soprattutto nei teatri di guerra, hanno dovuto cambiare radicalmente il modo di procedere dopo essersi resi conto di non essere più gli unici depositari dello scatto realistico che un tempo li distingueva. Persino i più noti specialisti, come Salgado e McCurry, si sono trasformati in autentici brand paragonabili alle griffe della moda. Molto popolari eppure impoveriti nei contenuti, al punto che sono stati sollevati dubbi sul metodo e sulla veridicità delle loro testimonianze.

Oggi una persona capitata per caso in un luogo può immortalare un evento tragico ma anche la bellezza di un tramonto. Con i selfie, un linguaggio inventato proprio con lo smartphone, sono state moltiplicate all’ennesima potenza le immagini disponibili in rete che danno accesso alla vita privata degli altri, tema che sembrerebbe essere di maggior interesse rispetto ad argomenti di pubblico dominio che in altre epoche avrebbero fatto ben più discutere di una foto delle vacanze.

Resta da capire quanto l’estetica e la fotografia contemporanea possano risultare influenzate da questo passaggio epocale che sembra stia decretando la fine prematura di un linguaggio di appena un secolo e mezzo di vita. Non è un caso che i maestri della fotografia vengano oggi considerati quegli artisti attivi ormai da diversi decenni, un po’ come accade nella pittura, mentre a partire dagli anni Novanta prima con la diffusione delle macchinette usa e getta poi con la possibilità di modificare le immagini reali attraverso il morphing e la manipolazione per mezzo di programmi al computer che ora appaiono rudimentali, si è diffusa l’idea di uno stile fotografico amatoriale praticato persino dai professionisti.

Ha ragione quindi Michele Neri nell’affermare, con un po’ di preoccupazione, che le immagini stanno uccidendo la fotografia. Potrà quest’ultima sopravvivere al diluvio? Sarà possibile riscoprire, magari tra qualche anno, un Mapplethorpe, un Gursky, una Sherman, insomma uno di quegli artisti il cui stile e l’uso della camera hanno segnato indelebilmente un’epoca? Oppure troveremo nel flusso indifferenziato di istantanee, poste tutte sul medesimo piano orizzontale, senza gerarchia alcuna, gli omicidi con gli aperitivi, le tragedie con i viaggi, l’unica possibile risposta, la sola via di salvezza per la fotografia che a quel punto non si chiamerà neanche più così?”

La cosa che trovo più interessante di tutte in questo articolo – e in quello che mi disse l’amico in India – è questa: che l’autorialità – l’artista unico e irripetibile – venga di nuovo, dopo secoli, messa in discussione. Io come poeta dovrei in qualche modo crederci in questa autorialità, eppure in un altro modo trovo parole come queste un sollievo. Ben venga l’anonimato. L’artista unico e irripetibile ci era diventato antipatico da lunghissimo tempo. Ben vengano le anonime e rarissime gemme che affiorano dall’oceano indistinto di opere su internet. Era sempre stato così, nel mondo. Ammiriamo capolavori in Asia e in Occidente e in Africa, vecchie di migliaia di anni, rimaniamo a bocca aperta anche se non sappiamo chi sia l’autore. Certo, la macchina tritacarne della storia dell’arte occidentale ha ridotto tutto a epoche, stili, a gerarchie di qualità ed eccellenza modellate sul paradigma rinascimentale. Ma questo paradigma è solo uno dei tanti, non è in nessun modo esclusivo. A dispetto di tutto questo catalogare e sistematizzare e “autorializzare”, quel capolavoro anonimo che ammiriamo magari nella giungla della Cambogia, o in una chiesina romanica della Toscana, rimane folgorante cionondimeno. E misterioso

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giorgio linguaglossa

2 settembre 2016 alle 16:14 Modifica

L’AMMINISTRAZIONE GESTISCE LA CRISI E GLI OGGETTI DELLA CRISI – LA CRISI È IL PRODOTTO DELLA STAGNAZIONE PERMANENTE

Una volta una rivista di questi giovanotti che scalpitano e sgomitano mi ha rivolto un questionario con domande sulla «critica della poesia». Mi avevano chiesto, questi giovani, che cosa intendessi per «critica della poesia», quale «scuola di pensiero estetico seguissi», se esistesse, a mio giudizio, oggi, «una critica della poesia»… E via di questo passo.
Io risposi che non sapevo cosa fosse la «critica della poesia», che non seguivo «nessuna scuola di pensiero estetico e che, a mio avviso, non esisteva la critica della poesia».

La risposta di quei giovanotti fu più o meno questa: «se avessi inteso prendermi gioco delle loro domande e se intendessi proprio quello che avevo scritto». Inutilmente io ribadii che ero serissimo e che non mi sarei mai permesso di prendermi gioco di loro né delle loro domande. Il risultato fu che le mie risposte alle domande del questionario non videro mai la luce nella loro rivista.

Questo aneddoto lo riferisco perché illumina bene il livello della cultura che quei giovanotti hanno introiettato e come sia ormai interiorizzato tra gli «appassionati alla poesia» un genere di credenze e convincimenti tipici di una cerchia SACERDOTALE la quale non ammette chi pone in discussione i presupposti della cultura di quella cerchia di sacerdoti del conformismo culturale. Intendo dire con questo aneddoto quanta strada all’indietro le nuove generazioni abbiano percorso dal pensiero critico di persone della mia età. Si è trattato, a mio modesto avviso, di una regressione a un pensiero soteriologico, sacerdotale,di chi si crede di detenere le chiavi per l’accesso al Paradiso delle lettere…

Insomma, vedo intorno a me questa sorta di regressione profondissima verso un pensiero acrilico e acritico, L’aspetto più ridicolo è il concetto di cultura che quei ragazzi avevano ed hanno, un concetto dal quale sono stati espunti gli elementi di critica delle ideologie e di critica tout court.

Il fatto sensazionale è che questi giovanotti avevano ed hanno interiorizzato il meccanismo mentale dell’Amministrazione globale della Crisi, ovvero, il principio della censura e dell’esclusione di chi non condivide la loro cultura agiografica del presente. E questo è proprio il metodo di dominio che l’Amministrazione delle cose ha in Occidente: l’Amministrazione gestisce le CRISI insinuando nelle menti deboli di pensiero critico la convinzione secondo cui occorre espungere dal catalogo degli «addetti ai lavori» chi non la pensa come la maggioranza imbonita, chi la pensa in modo diverso. E chi agisce in modo diverso.

Donatella Costantina Giancaspero

«La metafisica trapassa in micrologia», questa asserzione di Adorno contenuta nell’ultima pagina della Dialettica negativa (1966, trad. it. Einaudi, 1970), è vera al di là della sua funzione grammaticale, il suo contenuto di verità trapassa l’ambito filosofico per giungere fin dentro la nostra vita quotidiana. Oggi siamo tutti presi nel sortilegio totale, siamo tutti epifenomeni del sortilegio. Per fare una poesia bisogna che si pensi al di là della poesia; per esprimere un pensiero, bisogna che si forzi il pensiero oltre di esso, oltre i limiti del pensiero. Scrivere una poesia non è affatto un bisogno, esso è al di là del bisogno e al di qua del desiderio. La poesia esige che si pensi qualcosa al di là della poesia, senza scomparire in essa e senza alcuna speranza di sopravvivervi; soltanto per chi è senza speranza è data la speranza, e meno che mai la poesia è una speranza, essa è al di qua della speranza, perché spera sempre qualcosa che non può essere data, essa viene sempre dopo il tramonto e il trionfo della speranza. Non si fa poesia con la speranza, e neanche con il desiderio, ma con qualcosa che è al di là della speranza e del desiderio. La «nuova ontologia estetica» è il pensiero che pensa una poesia al di là del «sortilegio» e del museo dell’apparenza.

gif twiggy-1

 

Il 2 settembre 2016 la rivista ha pubblicato la seguente COMUNICAZIONE DI SERVIZIO.

“In data odierna entrano nella redazione dell’Ombra delle Parole i seguenti poeti e scrittori: Sabino Caronia, Chiara Catapano, Donatella Costantina Giancaspero, Lucio Mayoor Tosi e Giuseppe Talia. Ci guida la convinzione che la Rivista deve essere un lavoro collettivo, aperto al contributo di tutti, nel quale c’è posto per tutti, per chiunque abbia delle idee, poiché tra le idee non c’è rivalità ma semmai competizione, perché sono le idee migliori quelle che si faranno strada, e il nostro compito è quello di selezionare le idee,  perché si avverte oggi il nella poesia italiana il bisogno di un nuovo scatto, di nuove idee. Ci guida la consapevolezza che la «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo modello», di un lavoro che si fa tutti insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo. In tal senso, la redazione affiancherà al lavoro della Rivista anche un Laboratorio Pubblico e gratuito aperto a tutti che si riunirà con cadenza all’incirca quindicinale presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 alle ore 18, del quale il prossimo appuntamento è fissato a mercoledì 1 febbraio alle h. 18.00. Ovviamente l’Invito a partecipare è rivolto a tutti e tutti saranno i benvenuti.”

Gino Centofante

3 settembre 2016 alle 2:52

Rispondendo a Steven Grieco-Rathgeb, certa autorialità è meglio perderla che difenderla, si innalza a verità assolute che nessuno ha in tasca. Ormai, come già detto le tecnologie rappresentano un prolungamento dell’essere umano, una sua estensione, l’uomo è più fugace, mangia e vive a colpi di click come se non immortalarsi in uno scatto non sia più lo stesso, come se il momento non incastrato in una foto digitale – ad alto deperimento – valga di meno. C’è tanto da riflettere, e spesso i giovani perdono la bussola, vengono sovrastati. Non hanno misura ne equilibrio. Verissimo anche ciò che dice Giorgio Linguaglossa, su certe derive autoritarie proprio da chi dovrebbe essere smart per sua natura, e invece stranamente non fa altro che dimostrarsi figlio della clava. Peccato, ma neanche troppo. La selezione fa il suo gioco, e per fortuna decidiamo noi con chi giocare le nostre carte.
Concludo con un apprezzamento all’intervista a Ken Loach proposta da Almerighi, mi fa pensare, e amplia gli orizzonti di senso, su quanto l’Arte sia in mutamento in ogni campo. Siamo in una fase recessiva o semplicemente adattiva al cambiamento, all’esigenza delle persone, dei giovani, di un cinema mutato, di una poesia priva di mordente?

 

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LA CENSURA DI NATALE – TRASCRIZIONE DI UN RECENTE SCAMBIO DI COMMENTI TRA GIORGIO LINGUAGLOSSA E LA SIGNORA CLAUDIA CROCCO SUL SITO “LE PAROLE E LE COSE” CON CONSEGUENTE CENSURA DELLE IDEE RITENUTE NON “PERTINENTI” ALL’ARGOMENTO

 Si trascrive per i lettori del blog un recente scambio di commenti tra Giorgio Linguaglossa e la signora Claudia Crocco sul sito “le parole e le cose” a proposito di un articolo della Crocco sulla poesia contemporanea. Crediamo sia interessante il modo con il quale la Crocco e la redazione del sito si siano sottratti a rispondere alle obiezioni di fondo espresse da Linguaglossa operando una censura delle idee, indice, non solo di debolezza teorica, arroganza e  presunzione, ma anche di incapacità ad accettare il terreno di un approfondimento critico delle questioni di poetica poste.

LA CENSURA DI NATALE

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

 giorgio linguaglossa

  1. 20 dicembre 2014 a 14:01

Pur apprezzando lo sforzo dell’autrice dell’articolo, mi chiedo: come si fa a dedurre delle linee generali di sviluppo della poesia italiana contemporanea se si parte da due libri di ragazzi, lasciatemelo dire, molto modesti; davvero, lasciamo almeno maturare un po’ questi ragazzi e non affibbiamo loro delle responsabilità eccessive. I testi riportati sono più che eloquenti intorno al loro modesto bagaglio tecnico e maturità espressiva. Ci sono autori contemporanei di maggiore livello estetico da prendere in considerazione sui quali costruire un discorso critico, credo.

  1. Gabriele Fratini
    21 dicembre 2014 a 18:56

Se posso chiederti, Giorgio, quali sono? Tu da chi partiresti? Un saluto.

  1. giorgio linguaglossa
    21 dicembre 2014 a 21:02

Gentile Gabriele Fratini,

in generale sono restio a fare dei nomi di autori di poesia contemporanei, chi ha curiosità in tal senso può rovistare nel blog lombradelleparole.wordpress.com che faccio con altri autori, ma certo una cosa va detta: è da molti anni che non vedo in giro un autore giovane (diciamo 30 o 40 anni) che abbia maturato una propria maturità espressiva, tutti più o meno scrivono in un buon italiano medio, mediamente coltivato; io cercherei invece in autori più anziani i quali hanno avuto il tempo di metabolizzare il mondo molto complesso di oggi. Potrei fare due nomi di poetesse morte: Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996) e morta nello stesso anno e Maria Rosaria Madonna autrice di un unico libro Stige (1992) e morta nel 2002. Tra i vivi io direi Anna Ventura, autrice che ha iniziato nel 1978 e che ha stampato quest’anno una Antologia Tu quoque (1978-2013) e, tra gli uomini, Roberto Bertoldo (che è anche filosofo) autore di alcuni pregevoli libri, Steven Grieco e Luigi Manzi. Ma, al di là dei nomi, mi sembra che la direzione di sviluppo della poesia italiana del tardo Novecento e di questi ultimi anni sia quella che io ho sintetizzato nella formula “Dalla lirica al discorso poetico” nel mio omonimo lavoro critico “Storia della poesia italiana (1945-2012) stampato con EdiLet di Roma . Il discorso critico sulla poesia italiana di questi ultimi decenni è ovviamente molto complesso e non può certo essere riassunto qui in poche righe, chi è interessato alla problematica della poesia contemporanea può consultare il blog sul quale scrivo.
Cordiali saluti

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 00:23

Grazie Giorgio Linguaglossa, leggerò ciò che trovo di questi autori, e il suo blog. Sono interessato ad approfondire. Tra lei e Claudia Crocco mi avete fornito molto materiale da leggere. Buone feste.

francesca diano

Francesca Diano

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 09:58

Gentile Gabriele Fratini,

trascrivo un mio commento fatto sull’ombra delle parole del 25 maggio 2014 alle 16.11=

«Sono particolarmente contento della qualità delle poesie di questo post: Antonio Sagredo, Annamaria De Pietro, Francesca Diano e Donatella Costantina Giancaspero ci offrono un tipo di poesia che si allontana e di molto dalla poesia che oggi va di moda un po’ troppo facile e, diciamolo pure, abbastanza scontata che tratta il “quotidiano” e il “privato”. L’intento dell’Ombra delle Parole è appunto quello di mostrare che c’è un altro tipo di poesia, che tratta tematiche e non tematismi, che ri-adotta le tematiche eterne, ad esempio quelle del rapporto che lega l’uomo contemporaneo con il Potere, e quella che tenta di decifrare(e leggere) in modo nuovo il Mito (e non usarlo in modo parassitario per abbellire una composizione).
Sono convinto che la scelta di un “tema” diverso è già in sé un atto ESTETICO e POLITICO, di contro all’omologismo che invade le scritture poetiche parassitarie che non pensano neanche a mettere in discussione i propri assunti di partenza. Per fare una poesia diversa bisogna prima pensarla, averla pensata lungamente; è fin troppo facile fare poesia di seconda mano, diciamo assumere come dato di fatto la “secondarietà” come un assioma basandosi sull’assunto che tanto il Novecento ha già detto tutto e che non c’è niente di nuovo a dirsi e a farsi. E allora, occorre dirlo in modo netto..e chiaro: c’è oggi in Italia chi fa, con ottimi risultati una poesia che non assume la “secondarietà” come dogma inconfutabile. La “secondarietà” si confuta da sola: chi continua a scrivere in continuità con la linea discendente di una tradizione che non c’è più tradisce soltanto il buon senso oltre che la logica elementare del pensiero.
È oggi possibile scrivere una poesia che non ricalca parassitariamente le orme di quella passata».

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 13:34

Sì grazie Giorgio lo avevo letto e sono abbastanza d’accordo. Ho lasciato un commento. Sto visitando anche il suo sito

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 14:59

Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:23

@Giorgio Linguaglossa
Non deduco linee generali a partire da due libri: mi pare che il mio discorso sia un po’ più ampio, e che vengano tirate in ballo altre opere. Inoltre, cosa le fa pensare che io non abbia costruito discorsi critici su autori (e periodi) diversi altrove?
Mi fa piacere che abbia avuto modo di esprimere la sua opinione e di segnalare il suo sito. Da ora in poi, però, verranno approvati soltanto commenti in cui si discute il post.

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 17:42

gentile Claudia Crocco,

le faccio presente che mi sono limitato a rispondere alla domanda di Gabriele Fratini. Peraltro, la mia riflessione era intesa ad approfondire e ampliare il discorso da lei avviato. Ritengo che avviare un discorso critico parallelo a partire dal suo post sia utile e interessante per chi voglia capire di che cosa si sta parlando. Forse lei intende la riflessione come un semplice commento interpolazione al suo testo, io invece ho un’altra idea del dibattito critico che credo debba essere una agorà dove si confrontano le tesi e non un luogo dove si emettono dei silenziatori.

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:49

Gentile Giorgio Linguaglossa,

se avessi voluto mettere dei silenziatori e non dare vita a un dibattito critico, non avrei approvato giudizi negativi sul mio saggio (un paio dei primi). E non avrei approvato cinque suoi commenti, nei quali il discorso critico si basa solo su citazioni da suoi testi (con l’eccezione di Adorno) e dal suo sito. Mi creda, non ho intenzioni censorie.
Mi pare che lei abbia anche risposto a Fratini e che nessuno lo abbia impedito.
Non vedo molta volontà di confronto, però, da parte sua.

Saluti,

C.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 19:27

gentile Claudia Crocco,

comprendo perfettamente che il suo angolo visuale parte dall’esame di due autori della generazione degli anni Ottanta (la sua medesima) per valorizzarne il lavoro, forse è giusto così, ognuno parte dalla cognizione dei propri interessi, il suo lavoro interpretativo è utile, ma necessariamente parziale, e, per rispetto del suo impegno, non sono entrato a contestare o dimidiare il suo articolo o parti del suo articolo, che va bene così, ha dato il suo contributo critico a una serie di problemi veramente vasti e complessi. Però, suvvia, sia concesso anche all’interlocutore di turno di ampliare l’orizzonte del discorso anche a chi utilizza altre categorie di pensiero critico, non si richiuda a riccio entro il proprio recinto, da parte mia non c’è alcuna intenzione paternalistica ma chiedo che da parte sua neanche ci sia una intenzione censoria.

  1. Claudia Crocco
    23 dicembre 2014 a 00:34

Gentile Giorgio Linguaglossa,

e invece si sbaglia. Parlo di due libri di miei coetanei, è vero, ma poi il discorso diventa più ampio, e altre opere vengono coinvolte. D’altronde, il Novecento è pieno di critici che compiono (senz’altro meglio di me, certo) la stessa operazione. Non penso affatto che parlare di opere della mia generazione sia limitante, né che conduca a usare categorie ristrette. Al contrario, mi sforzo di usare categorie che siano in continuità con la storiografia della poesia che ho studiato, e allo stesso tempo adeguate a ciò che si scrive oggi. Non so quanto mi riesca; però rifiuto del tutto il suo commento generico, superficiale, e paternalista. Ben venga qualsiasi commento puntuale, anche brusco, ma basta con questo tronfio tono condiscendente. Mi faccia pure le pulci, se vuole: you are welcome. Non approverò più commenti autoreferenziali in cui, per “ampliare gli orizzonti”, sponsorizza solo le sue opere e il suo sito.

Saluti,

C.

  1. giorgio linguaglossa
    23 dicembre 2014 a 10:15

gentile Claudia Crocco,

mi creda, lo ripeto, non sono entrato dentro la sua argomentazione critica non per snobismo o per (come lei mi accusa) paternalismo, ma perché i problemi sono veramente molto complessi i cui nodi si possono rintracciare (se li si vuole risolvere) ben prima della generazione degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta. Prendiamo ad esempio l’opera del maggior poeta italiano del Novecento: Eugenio Montale. Partiamo da lì.

franco fortini

franco fortini

Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro sostiene di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.

eugenio montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Oggi va di moda

Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo “Satura” (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

martin heidegger nel bosco ala fontana

martin heidegger nel bosco ala fontana

Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1968), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

edmund husserl

edmund husserl

Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

25 dicembre ore 10,00

Claudia Crocco

@Giorgio Linguaglossa.

Intervengo un’ultima volta per dirle due cose:

1) il suo commento esprime molta presunzione. Questo sito dà spesso attenzione a poeti di valore, e di recente ha pubblicato svariate cose su Fortini. Non mi pare che lei sia l’unico a occuparsi in modo serio di poesia contemporanea, come sembra suggerire qui.

2) Non approverò più commenti di questo tipo.

Saluti,

C.

 

helmut newton nudo in un interno

helmut newton nudo in un interno

25 dicembre ore 10.30

 Giorgio Linguaglossa

 gentile Claudia Crocco,

 lei è arrivata al dunque: con tono intimidatorio dichiara che censurerà (“non approverò”) ogni altro mio intervento “di questo tipo”, sottraendosi così al dialogo e all’approfondimento delle questioni estetiche che avevo posto con il mio contributo. Le faccio presente che io non ho espresso pareri irriguardosi o, come lei scrive, “Presuntuosi” nei confronti del suo articolo, anzi, ho scritto che andava bene ma che occorreva ampliare la riflessione sulla crisi della poesia e retrodatarla agli inizi degli anni Settanta. A questa mia legittima obiezione lei non ha risposto. Le ricordo che è lei l’autrice dell’articolo e se un interlocutore le pone una questione (fondata o infondata) è lei che deve rispondere con un approfondimento o una precisazione. Il suo  diniego a fornire alcuna risposta è indice di un atteggiamento sprezzante e irriguardoso non soltanto nei miei confronti (che avevo posto la questione) ma nei confronti di tutti i lettori del blog.

Chiedo infine alla redazione del sito se è lei che può decidere di censurare una discussione o se, invece, questo compito spetti alla Direzione del sito.

E questa è una domanda che pongo alla Direzione del sito, che, spero, non vorrà sottrarsi alla mia legittima richiesta. Preciso, inoltre, che anch’io sono direttore di un blog e che non ho mai censurato nessuno tranne commenti che sfioravano il codice penale con frasari offensivi o diffamatori.

cordialità. Giorgio Linguaglossa

Risposta della redazione del sito.

@Linguaglossa

  1. a) Come sempre, la moderazione del post spetta a chi lo pubblica. In questo caso, a Claudia Crocco.
  2. b) L’autore del post non “deve” rispondere a un bel nulla. Se vuole risponde, altrimenti no. In generale, si ha voglia di rispondere a obiezioni intelligenti, pertinenti e formulate in modo sintetico e rispettoso. Si ha meno voglia di rispondere a obiezioni autoreferenziali, verbose e palesemente fuori tema. Quando poi le obiezioni paiono servire soltanto a spostare l’attenzione di tutti sull’ego di chi le formula, la voglia di rispondere – o anche solo di leggere – rischia di sparire del tutto. Ci pensi.

(gs)

100 commenti

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