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Petr Král – Lettera ai poeti della nuova ontologia estetica – Sabino Caronia – Un Appunto su Critica della ragione Sufficiente (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21) di Giorgio Linguaglossa con due poesie di Anna Ventura

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Lettera di Petr Král

 Chère Donatella Costantina Giancaspero,

merci de votre lettre et de l’intérêt que vous portez à mes écrits; l’article sur Notions de base, bien sûr, m’intéressera beaucoup.

Je comprends mieux, grâce à votre lettre,  la notion de “nouvelle ontologie  esthétique” et le besoin que vous avez d’une “devise” de cette sorte. Moi aussi, après tout, j’ai utilisé l’expression de “phénoménologie” poétique à propos de mes Notions de base, justement, ce qui n’est pas très loin de votre ontologie… Je trouve, en tout cas, que votre initiative pour relancer le débat sur la poésie dans le contexte actuel est une initiative heureuse et utile et qu’elle mérite  d’être connue et suivie le plus possible; et si je peux y contribuer un peu, je n’hésiterai pas à le faire, selon les circonstances et avec mes moyens personnels.

Comme vous, je serais content si cela  nous permettait également de nous rencontrer un jour. Avec un amical bonjour pragois, à vous et à vos amis ontologistes.

[Cara Donatella Giancaspero,

grazie per la tua lettera e il tuo interesse per i miei scritti; l’articolo su Nozioni di base, ovviamente, mi interesserà molto.

Capisco meglio grazie alla tua lettera, il concetto di “nuova ontologia estetica” e la necessità si dispone di un “motto” di questo tipo. Io anche, dopo tutto, ho usato l’espressione “fenomenologia” poetica a proposito delle mie Nozioni di base, che non è molto lontano dalla vostra ontologia … Io penso, comunque, che la vostra iniziativa per rilanciare il dibattito sulla poesia nel contesto attuale è un’iniziativa felice e utile e che merita di essere conosciuta e seguita il più possibile; e se posso contribuire un po’, non esiterò a farlo, secondo le circostanze e con i miei mezzi personali.

Come te, sarei felice se ci permettesse anche di incontrarci un giorno. Con un amichevole buongiorno praghese, a te e ai tuoi amici ontologisti]

[Sabino Caronia, Steven Grieco Rathgeb, Grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Sabino Caronia, soltanto un Appunto

 Giorgio Linguaglossa scrive nel Retro di copertina del volume:

Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci  illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia:  un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che  il presente non è affatto certo.

Il programma «minimo» annunciato nel sotto titolo diventa, come per magia, un programma «massimo».

Diamo la parola a Linguaglossa:

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive: «l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica». Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo. Con  Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale. La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte e stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredita di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.

Il «frammento» si da soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perche l’eta pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».

 Esponente di rilievo dell’ermeneutica contemporanea, fortemente influenzato dal pensiero di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, Vattimo ritiene che l’oltrepassamento della metafisica sfoci in un’etica dell’interpretazione. La filosofia diventa pensiero debole in quanto abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma è intesa come continua interpretazione. Esistono, dunque, diverse ragioni che contrastano le pretese della filosofia fondazionale, ma il motivo di maggior peso è dato proprio dall’ermeneutica, arte e tecnica dell’interpretazione che riguarda il rapporto tra Linguaggio ed Essere.

Esistere significa vivere in relazione ad un mondo e questo rapporto è reso possibile dal fatto che si dispone di un Linguaggio. Le cose vengono all’essere solo entro orizzonti linguistici non eterni ma storicamente qualificati. Anche il linguaggio non è una struttura eterna.

[Giuseppe Ungaretti, Eszra Pound, Grafica di Lucio Mayoor Tosi L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici]

L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici, legge ed interpreta l’essere e si rapporta ad essi. Ma, trattandosi di orizzonti temporalizzati, vale a dire non eterni, è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute su Dio, sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità. L’avventura del pensiero metafisico è giunta al suo tramonto. L’uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L’uomo si apre al mondo tramite il Linguaggio che parla. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali.

La verità diventa la trasmissione di un patrimonio linguistico e storico, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo.

Umberto Saba scriveva in Quello che resta da fare ai poeti: «un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima invenzione». È proprio quello che fa Linguaglossa quando sposta il binario Debenedettiano dalla linea Saba-Penna alla linea Tranströmer-Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb nuova ontologia estetica della poesia italiana ed europea. Leggiamo un brano significativo.

Ha scritto Linguaglossa:

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio…

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer Continua a leggere

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Remo Pagnanelli (1955-1987) POESIE SCELTE – Un poeta del Novecento da rileggere – Commenti di Flavio Almerighi, Paolo Zubiena e Guido Garufi

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Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nasce a Macerata il 6 maggio 1955, dove muore il 22 novembre 1987. Nel 1978 si laurea cum laude in Lettere moderne con una tesi su Vittorio Sereni. Nello stesso anno esordisce come poeta con la plaquette Dopo, cui fanno seguito nel 1984 Musica da Viaggio, nel 1985 Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale è tra i sei giovani poeti vincitori del premio di poesia internazionale “Montale 1985”. Vengono pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. L’opera poetica di Pagnanelli è stata raccolta nel volume complessivo a cura di Daniela Marcheschi Le poesie.

Valente critico, nel 1981 ha pubblicato La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni e nel 1985 Fabio Doplicher. Nel 1988, postumo, è uscito il suo lavoro più impegnativo, Fortini. L’intenso impegno nell’ambito della critica letteraria e della teoria della letteratura è documentato da innumerevoli saggi, studi e recensioni su poeti e scrittori anche non contemporanei, pubblicati su riviste specialistiche. Parte dei saggi sono stati raccolti da Daniela Marcheschi nel volume postumo “Studi critici. Poesie e poeti italiani del secondo Novecento”. Alcuni studi sull’estetica e sull’arte sono confluiti nel volume Scritti sull’arte, uscito in occasione del ventennale della scomparsa.  L’intero corpus documentario di Remo Pagnanelli (dattiloscritti, manoscritti, epistolario) è depositato presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti – Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze.

Per ogni altra notizia il sito ufficiale a lui dedicato (http://www.remopagnanelli.it/).

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Appunto di Flavio Almerighi

 Di storie di losers (perdenti) sono lastricate le vie. Come non dimenticare il più perdente di tutti, marchigiano come lui, Giacomo Leopardi? Conobbi questo poeta quasi per caso, facendo una ricerca sul cognome Pagnanelli su Google, non trovai l’origine del cognome, ma la sua poesia. Poesia che va riletta, reinterpretata non più dimenticata. Poesia singolare, poesia piena di risvolti disperati e dolorosi, eppure intrisa di autoironia.  Remo Pagnanelli, poeta meraviglioso e fondamentale, che propongo ai lettori de L’Ombra delle Parole.

 da una nota di Paolo Zubiena

 La vicenda umana e poetica di Pagnanelli appare tutta scandita dall’inesorabile richiamo della morte, basso continuo della malinconia. Nessuna semplificazione omologante tra nosologia psichiatrica e scrittura – arte e vita, come si diceva un tempo , ma non può sussistere dubbio che l’esperienza di Pagnanelli poeta ponga le radici nella sua sindrome depressiva, la cui oscillazione tra Stimmung  e psicopatologia è da lasciare al giudizio di chi ha potuto conoscerlo. Già nell’incunabolo degli Epigrammi dell’inconsistenza  si  riconosce un’esperienza di totale investimento del sé nella scrittura poetica, che trae dalla situazione melanconica (esemplarmente delineata nella figura dell’“hidalgo”) una conclusione di auto cancellazione (la “lunga vacanza dalla terra”). In Dopo la pronuncia e i ritmi si dilatano: echi del tardo Montale e del Sereni post Strumenti umani definiscono strutture monologanti in cui prevale però la dominante disforica: si veda al proposito, in Mezzosonno, la traslazione di un Sereni corporalizzato verso il tema del dissolvimento – dal sonno al freddo del rigor mortis tramite la voce che salmodia la tentazione “di scappare verso la morte”. Un periglioso autobiografismo bordeggia lo sfogo, ma spesso consegue il risultato dell’impietoso (e sia pure a tratti masochistico) referto. La nuova stagione di Musica da viaggio e Atelier d’inverno  importa un aumento del tasso sperimentalistico e un’alternanza tra la denuncia dell’inadeguatezza dell’io e quella del disastro politico e sociale, con una più diretta voce patemica. Si coglie forse un eccesso di accoglienza di materiali lessicali disparati (tra l’altro il registro basso-corporale, volutamente sgradevole): quasi a voler punire la tenuta stilistica con una brutale imposizione del reale, visto però tal- volta con una lente troppo confidenzialmente egotrofica. Scrive ottimamente Enrico Capodaglio, autore del migliore contributo complessivo sulla poesia di Pagnanelli: “L’autore ricorre a Freud più come al diagnostico che come al pensatore e adotta egli stesso un’attitudine medicale, nel tentativo non solo di esprimere i legami tra il soma e la psiche, ma anche di guarire gli affini con solidale spirito sociale, in virtù della descrizione della malattia. È come se un medico di acuta intuizione diagnostica ci sfogliasse quelle foto crude che si trovano  nei libri di patologia, alternando le spiegazioni tecniche con improvvisi, affettuosi, auspici di guarigione e di salute”.

foto sbarre nell'atmosfera

Commento di Guido Garufi

Remo Pagnanelli, uno scrittore centrale del Secondo Novecento

 Mi viene chiesto di scrivere del mio più caro amico e sodale, Remo Pagnanelli, che nel 1987 decise il suo viaggio per un altrove. Mi è difficile scrivere perché Remo è sempre presente in me e questo potrebbe generare un eccesso di proiezione da parte mia. Tenterò una via diversa. Pagnanelli era e rimane un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Importante nel suo doppio registro di scrittore e di critico. Notti, pomeriggi, telefonate, passeggiate interminabili nella nostra Macerata, e parole, tante parole, giudizi critici, ipotesi teoriche, nuove griglie interpretative. Persino a cena ( anche con la mamma insegnante di Lettere, Luigina – chiamata affettuosamente da mia madre che la conosceva “Gigetta”, il babbo Franco e,  allora, la sorella, una giovanissima Sabina) o dopo cena , facendo una rampa di scale nella sua casa di Via Batà. E poi in camera sua, con le lettere, una macchina a staffa ( non si usava il computer e non c’erano  cellulari) e poi la tensione godibile, l’attesa di ricevere lettere da Loi, da Sereni, da Fortini, da Bertolucci… Remo, alla fine della serata, disordinato o smemorato com’era, gettava a terra fogli residui o inservibili, accartocciati, gli stessi che con tenerezza   diventano in una sua poesia “palle di neve” che- anche lui citato -, il padre raccoglieva e riponeva altrove. E siamo al 1981: decidemmo allora di mettere su, insieme, una rivista, “Verso”, e così facemmo. Ricordo come fosse ora che condividevamo la doppia lettura: verso come il verso dei poeti, naturalmente, ma anche la sua versione latina, “versus” , che appunto vuol dire “ contro”. Remo sosteneva che la poesia aveva una funzione, quella di essere  testimonianza, di “martirio” laicamente inteso. La rivista viaggiava bene, benissimo. Intanto il mio amico pubblicava per Scheiwiller un poderoso saggio su Sereni, La ripetizione dell’esistere, che vinse il Premio Mondello. E contemporaneamente il suo primo libro di versi, Dopo. Gli avevo presentato Giampaolo Piccari e anche io stavo pubblicando il primo libro, Hortus. Ricordo, come fosse ora, che decidemmo insieme la sua copertina, insieme scegliemmo  un bel bleu.

Remo era un gran lettore, un lettore affamato, non affannato, onnivoro: poderosa nella sua stanza la filiera  di testi di critica letteraria e qualche centinaio di libri di poesia. Penso che il suo armamentario filologico ed ermeneutico fosse davvero interessante, almeno  per quei tempi. E tutto questo si deduce dai suoi saggi su Fortini, Penna, Bertolucci, Caproni ed una foltissima schiera di apparenti “minori” del secondo Novecento. Un approccio interdisciplinare, a metà strada tra la critica stilistica e quella variantistica. Alla base, come ho detto ma voglio ripetere,  un centrale armamentario teorico, l’ assorbimento di Freud e Jung, sorvolando Lacan, ma soprattutto i Maestri, da Contini ai più recenti, con un affetto incondizionato per Debenedetti e Mengaldo. Ma questo per restare in Italia. Già, perché oltre le Alpi c’erano Ricoeur, Levinàs  e una piccola schiera di teologi. Non voglio e non debbo qui fare un elenco, sgradito a me e probabilmente ai lettori. Ma è certo che Pagnanelli sapeva unire il suo fiuto  ad una notevolissima e ben digerita  retro cultura, fiuto, intuito e studio matto e disperatissimo che oggi mi pare assente. E anche lo stile, nonostante le citazioni bibliografiche, era uno stile piano, “narrante”, alla Serra, per intenderci. Un dolce stile, godibile, argomentante, accattivante …A questi saggi di carattere letterario bisogna affiancare qualche “perla” critica sul versante dell’ estetica, dell’arte, del puro visibilismo e sul paesaggio ( rimane sostanziale quanto Remo ha scritto sul rapporto Leopardi-Natura, dove bene si coglie quella interdisciplinarità della quale ho parlato).

Ho fatto solo  qualche cenno al Remo critico. Qui informo i mei ventiquattro lettori che aveva anche  una passione di fondo, nascosta , recondita: la musica. Mi disse un giorno che il suo vero sogno sarebbe stato quello di diventare direttore d’orchestra. In salotto c’era un pianoforte che non suonava mai(eccetto che con me, poche volte, e sotto tortura) ma non è casuale questo ricordo, quanto alla poesia. Premettendo, come tutti sanno, che un direttore ha lo scopo  di “accordare” i vari strumenti, di unirli e “sintonizzarli” affinché ne possa scaturire una “musica” uniforme e totale, ho motivo di ritenere che Remo abbia  tentato di fare qualcosa del genere  con le sue raccolte di versi, a partire dalla prima, quella con la copertina bleu, Dopo, proseguendo con Musica da viaggio, Atelier d’invero, e quello finale-terminale, Preparativi per la villeggiatura” ,  che abbia tentato di inseguire una “sostanza musicale” o una “musica di fondo” come sempre mi diceva e ribadiva nei saggi teorici, laddove si occupava di metrica e fonosimbolismo. E’ stato Giampiero Neri ad “accorgersi” di Remo, a supportarlo. Ed è il lessico tonale di Neri che affascinava Remo, una musica di fondo minimale, apparentemente atonale, eppure massimamente espressiva, simile alla indicazione di Montale sul tema della prosa-poesia.

Non sta a me qui percorrere le raccolte, una per una, ma certamente posso segnalare la “qualità” dei suoi versi, pensanti, “pensieranti”, persino quelli che io, come lui sapeva, non “sentivo” e che tanto invece piacevano  a Giuliano Gramigna,  che poi infatti curò la prefazione di Atelier d’inverno. In una sezione, come Remo riconosceva, faceva capolino Lacan, e io gli dicevo che quella sezione del libro mi sembrava ingolfata. Lui sorrideva, di un sorriso compiacente, sapeva che quei riferimenti all’inconscio che in quel libro alitavano, servivano unicamente come “scarico” di un dramma analitico, come una interpretazione dei simboli del sogno. Non so, dopo tanti anni, perché io ricordi questo. Probabilmente perché dei sogni, sempre, Remo mi parlava, dei suoi sogni, dico, e mi chiedeva l’interpretazione. Abbiamo sognato tanti anni insieme e c’è una poesia, anche ironica, dove ci sono di mezzo io, nella figura del “biografo”.

Ed è questo che io voglio ricordare oggi. La sua mancanza è centrale, perché è stato un uomo, una persona, uno scrittore, che aveva capito la “responsabilità”  e il “peso” della scrittura, il ruolo della poesia. E se mi guardo intorno, ne scorgo pochi come lui, capaci di intendere pienamente ciò che sta scomparendo, la Civiltà umanistica, quel residuo che ancora esita e raramente tocca l’umano, la pietà, lo sguardo e la parola degli altri, e agli altri si rivolge, con tenerezza e speranza di comunicare, ancora con i versi  e con il cuore.

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Poesie scelte di Remo Pagnanelli

Nel salone

Non conosco il nome della pianta
né mi interessa di saperlo.
Mi attirano soltanto quelle foglie
inverosimili di plastica
che si allargano fino al soffitto
e lo toccano a una altezza pari
alla vista fuori dell’azzurro.
E’ importante per me notare questo azzurro
intenso e sciroccoso – mentre fuori
tutto si agita e si torce qui
niente fa una grinza e le forme del vuoto
si svelano più facilmente.
E’ importante invece che io tenti paragoni
tra interno e esterno? A tessere
l’elogio del primo non penso
e neppure capire il movimento del secondo
mi smuoverebbe. Non faccio nessun
tentativo di intelligenza,
non scavo, non tento nessun collegamento.
Guardo ancora le foglie larghe
e ogni tanto il cielo.
Non ricordo il nome della pianta.

Da Scherzi per un compleanno
a G.

III
Vorresti prenderti in flagrante,
prenderti sul serio il destino del mondo
sulle spalle. Via, scosta questo orrore
e almeno questa volta non lo fare

IV
Auguri in fretta pestiferi uccelli
scaccia presto in fretta altrimenti
come Ipazia la corsa termina
in un frammento.

(dalla Rivista “Salvo Imprevisti” 1981)

Biglietto da viaggio
spesso in una voliera sognami.
Sarà grande garantirà per me
questo splendore, parti pure e
non interrogarti (questione di
attimi e scorderai).

*

mi addormento nel pensiero, non di te,
ma nel pensiero stesso, forse di lui
ma non necessariamente …

Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 100 e p. 202

*

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Les Adieux

infilàti in una nebbianebbione tra ordini e contr’ordini gridati
si rivedono i due vecchi amanti da tempo in un ipotetico oltreche.
Lui può assaporarla giovane come ancora la sognava –
hanno l’opportunità di dire te l’avevo detto che non finiva
… anche qui dandosi incontri che falliscono, dove gli dei
non si avventurano facilmente, tutto retto ancora dal caso.
Ma il sospetto di stare assistendo ad un film d’infimo ordine
non li abbandona … e in qualche modo ne sono fuori
comunque, per un po’ d’odore si rianimano al solo guardarsi
fra le crepe rattrappite dei loro corpi di bacca (in una
nebbia-nebbione)
.

Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 95 e p. 199
[Musica da Viaggio, poi confluito in Atelier d’inverno]

*
nel nulla di una stazione cancellata da fiandre
piovaschi, sulle sete sudicie ma tese delle
palpebre, scorre un rumore d’impalpabile azzurro,
un tremore di palme arrochite, assopite nel lino
orsolino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
(nel grande fiume di luce apparente, estenuantesi
fino all’estinzione, che porta i morti alla foce
d’un altro destino, dorato da sopra macchie
mediterranee d’una cenere autunnale semplicemente
posatasi, vedo la cupola spenta nel latte del bosco)
(nel treno nella notte chissà se dormi lontana
sorella)

IV TOMBEAU

(pensa nel sonno i sonni fanciulli, li sogna, cigni
neri di inutili cicloni? Le querce gli andavano
dietro, gli echi di lui suonavano dalle rive)
lasse celesti e lunari non castamente mortuarie
(qui) rimarginate da bassa plenitudine e bellezza,
in ciocche decrepite e tiepide urne dove gli occhi
si conservarono (anche le suole alate le sabbie dei
cavalieri)

V

dove gettano leghe di legnometallo, l’oscurità si
sgrana in solventi azzurri, in gomiti cavi di gocce
di cenere (s’animano allora le anime immobili, si
scuote il mare tornato intatto da remale mormorio)
– Chi tu sia, il mio non tronco trattieni con ospitalità
regale, le non più braccia nello stridore sgomento
di una stretta
(non la corrente ma il nuovo gelo ti spaventa,
e tu saltalo, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .
corrompi e sciogli i gorghi, sporcati (poco)
nei liquami – il tuo occhio non regge la visione?
E tu saltala, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .)

VIII

ora dalla tua ferita (per somiglianza figurale
isolanuvola) fluiscono acerbe ragazze dai colli
lunghi e contesi, che si spengono in una cavea
illune, traversata da un postale, dentro cui suonano
iridi felicemente orientali, dai piedi teneri e
conclusi
(in prossimità del canale si staccano una sera
qualunque teste spedite via)

XI

(una valletta di calici e coppe dischiuse)
gloria levantina scorre su stordimento e pianti
fra una moltitudine di rose travolte da increspature
– vi affonda una mano. . . . . . . . . . . .
(a mezza costa la storia ci sorpassa
ci cancella di volo negli essiccatoi
autunnali – siamo nei piovenali
abbandonati)

XII

la risacca è quella degli anni giovani, logorati
su una losanga emersa da un tiglio genius loci,
ala prediletta e luminosa fra le corde dello
scollamento

(da l’Orto Botanico)

*

L’anno ha pochi giorni perfetti.
Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata.
Noi la subiamo come l’eccessivo caldo
o il troppo freddo.
Nel corso passano senza freno i dagherrotipi
della nuova eleganza e ci portano via
le donne e la vita.

.
*

Che altro di strabiliante chiedevo per me,
da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente,
niente che già non si sapesse e di cui si fosse
taciuto e da tanto.
Altri, della passata generazione, direbbe
che il corteggiamento riesce e
del resto chiedere pista e circuire
non è difficile; io nemmeno immaginerei
la morte senza rima come un verso libero.

*
Vorrei fare una lunga vacanza nella terra.
Mie notizie penerebbe il vetro del mare o qualche animale
dal mugugno impigliato nel trabocchetto del buio.
A chi volesse trasmigrerei nelle stagioni intermedie
il fresco dal mio sottocutaneo (la terra
si raffredda più presto del mare), risolto
nel minerale, spesso in simbiosi col vegetale,
assoggettato in altra specie dall’acqua che disperde
in più sciolto da ogni esperimento di corporeità.

*
Forse l’eterno è in questo dormiveglia
di calce mista a biacca senza bagliore,
che elude in inganno ogni virile
aspettazione. Piè Veloce non agguanta
la sua tartaruga né noi il tratto esiguo
d’una giornata.

Vorrei questi versi riversi come un cane
che si abbandona all’agonia.

(da Epigrammi dell’Inconsistenza)

EXILES

Uccelli di specie lontana salutano
passeggiando come foschie sopra
l’adolescente fanciullo adriatico
nell’estivo rifiorire del mare in
un’erica sepolcrale sorella all’autunno.
Gli orti sono invasi da spume presto secche.

forse è ottobre, forse autunno, non sappiamo,
quando s’inazzurrano, per celarsi, le vene
della città, le piane desiderate già al
primo caldo di pasqua, dolci e struggenti.
Scendiamo a coppie sui laghi bianchi, dalle
punte bionde e fiacche, non traslucidi ma
opachi, come noi sul punto di addormentarsi.
Ora fa buio e le candide pernici (nelle estati,
marroni e scattanti ai nostri brindisi)
s’alzano verso gli chalet delle pensioni
e i mangiatori di fiori graffiano le siepi
delle ringhiere.

CLINICA

Efficiente disordine. Bottiglie morandiane
metà opache, lembi di liquide rose sui
guanciali, veli veloci a coprire……………
nel mattino di sole ci si guarda splendere
tra i palmizi e i vasi della villa vicina,
una lacca d’oro entra sulla lampadina
accesa all’angelo custode…………………..
…………………………………………
……………………… (in pozzi bianchissimi e ruotanti
ascolto l’amata traversare vertiginosi
giardini, ignorare gli aliti imputriditi)

nelle brocche, nei cristalli dei lumini
e delle lacrime il tuono delle regate
mosse di fine stagione, lo zoo vuoto
dalle foglie sanguinanti, la schiera
del gruppo che si sgrana e profonda
nel sudore…..……

ora che il fuoco sottile delle lamine è un sogno
della visibilità, un verde pendant di pellicani neri
si versa secco nel parco opaco e voi, fratelli separati,
che la nebbia sbriciola via corrucciati e spenti,
scendete dando le spalle

(da Le proporzioni poetiche. La poesia italiana fra gli anni Settanta e Ottanta, vol.3, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti,Milano 1987)

*

mi godo questa Luce ultima
della fine senza fine.
Profonda
quanto più nel ritrarsi
pare scalfire.
Che non possiede,
che spossessa le cose e te,
riducendo all’osso e al bianco.

Quant’altra sotto ne dorme
che la pioggia non offusca.

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