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Riprendere il filo dell’eredità Dada oggi è particolarmente significativo dopo gli eventi della pandemia Covid, della guerra di invasione dell’Ucraina e della conseguente belligeranza tra un Occidente delle democrazie che ricorre alle sanzioni e un Oriente neoimperiale guidato da potenze autocratiche e antidemocratiche. È chiaro che il gesto Dada di rottura radicale con le espressioni politiche e artistiche del passato è utilissimo oggi per ripensare una nuova forma di espressione artistica e un nuovo modo di comportamento etico, poietico e politico, Manifesti e testi del movimento Dada, Tristan Tzara, Francis Picabia, Philippe Soupault, Benjamin Péret, Erik Satie, a cura di Marie Laure Colasson

foto Marquis de Sade 1921 collage di Erwin Blumenfeld 24, 5 × 25

Marquis de Sade, collage 1921, Erwin Blumenfeldt

La maggior parte degli storici dell’arte fissa la data di nascita del movimento dada il febbraio 1916, la data di apertura a Zurigo del Cabaret Voltaire per iniziativa di Hugo Ball e della sua compagna Emmy Henning, con la collaborazione di Arp, Huelsenbeck, Janco e Tzara. In realtà la data di nascita di dada è immersa nel buio. La data di nascita di dada in Svizzera dovrebbe essere spostata al dicembre 1918, la data di apparizione sul terzo fascicolo di “Dada” del Manifesto Dada nel 1918 da parte di Tzara. Fino a quella data il movimento non appare dissimile da quelli di avanguardia che si affacciavano in quegli anni. Dada accoglie tra i suoi membri i cubisti, i futuristi, gli astrattisti e gli espressionisti, un eclettismo che è evidente nei primi due fascicoli di “Dada”, qui vengono pubblicati testi di Savinio, Meriano, Moscardelli e le illustrazioni di Picasso, Delaunay, Kandinsky e De Chirico, compresi gli espressionisti di “Der Sturm” di Berlino.

Però un generico spirito dadaista in Europa è già visibile nell’aprile del 1912, quando Cravan edita a Parigi “Maintenant” che può essere considerato il primo periodico dada. Nel 1913 a Neuilly, Duchamp crea il primo prototipo di opera plastica dada: la Ruota di bicicletta. Nel 1913 vengono realizzate in Russia e a Praga eventi che anticipano le famose serate dada di Zurigo, Parigi e Berlino, protagonista è Jaroslav Hasek, e in Russia i poeti futuristi David Burliuk, Majakovskij e Kamenski. È del tutto erronea l’ipotesi che il movimento Dada sia nato per filiazione dal futurismo italiano e russo, in Francia le origini sono più letterarie che artistiche (Jarry, Cravan, Vaché), in Europa centrale e in Belgio Dada è imparentato con l’espressionismo tedesco. Non esiste quindi un Dada puro e vergine ma vi sono tante diramazioni Dada quanti sono i dadaisti, ma è in Francia e in Svizzera che il movimento svilupperà le tendenze più estreme di ribellione ai valori borghesi indicati quali responsabili della prima guerra mondiale. Schematicamente, l’arco temporale in cui avviene l’intensificazione dei progetti dada varia dal 1916 al 1921, anche se alcune propaggini si estenderanno fino al 1925. L’attività dada è la più varia: manifesti, proclami, articoli, conferenze, poesie, aforismi, collages, rappresentazioni teatrali, narrativa breve, disegni, incisioni, pittura, assemblaggi, copertine di libri. Possiamo riassumere dicendo che Dada varia in corrispondenza del variare delle circostanze storiche e politiche dei tempi, Dada non si è mai configurata come una «scuola» quanto invece come uno spirito di rivolta totale e drastico nei confronti della produzione artistica e letteraria ufficiale, come ripulsa, liberazione e negazione di ogni valore borghese.

Riprendere il filo dell’eredità Dada oggi è particolarmente significativo dopo gli eventi della pandemia Covid, della guerra di invasione dell’Ucraina e della conseguente belligeranza tra un Occidente delle democrazie che ricorre alle sanzioni e un Oriente neoimperiale guidato da potenze autocratiche e antidemocratiche. È chiaro che il gesto Dada di rottura radicale con le espressioni politiche e artistiche del passato è utilissimo oggi per ripensare una nuova forma di espressione artistica e un nuovo modo di comportamento etico, poietico e politico.

(Marie Laure Colasson)

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“Parade” is a ballet with music by Erik Satie and a one-act scenario by Jean Cocteau. The ballet was composed in 1916–17 for Sergei Diaghilev’s Ballets Russes. The ballet premiered on Friday, May 18, 1917 at the Théâtre du Châtelet in Paris, with costumes and sets designed by Pablo Picasso, choreography by Léonide Massine (who danced), and the orchestra conducted by Ernest Ansermet.

Balletto Dada

La tecnica del taglio è un’estensione del collage alle parole, Tristan Tzara lo descrive nel Manifesto Dada:

PER FARE UNA POESIA DADAISTA

Prendi un giornale.
Prendi delle forbici.
Scegli da questo foglio un articolo della lunghezza che desideri per la tua poesia.
Ritaglia l’articolo.
Quindi ritaglia con cura ciascuna delle parole che compongono questo articolo e mettile tutte in un sacchetto.
Agita delicatamente.
Quindi togli ogni taglio uno dopo l’altro.
Copia coscienziosamente nell’ordine in cui hanno lasciato la borsa.
La poesia ti assomiglierà.
Ed eccoti qui: un autore infinitamente originale di affascinante sensibilità, anche se non apprezzato dal branco volgare.

Tristan Tzara

Drogheria-coscienza
da “Cronache Letterarie”, n. 3-4, febbraio 1919

dalla lampada d’un giglio nascerà un principe così grande
che i getti d’acqua le fabbriche ingrandiranno
e la sanguisuga trasformandosi in albero di malattia
io cerco la radice immobile signore immobile signore perché allora sì tu capirai
vieni muovendoti a spirale verso l’inutile lagrima

umido pappagallo
cactus di lignite gonfiati tra le corna della nera vacca
il pappagallo scava la torre il santo manichino
nel cuore c’è un bambino – una lampada
il medico dice che non passerà la notte

poi se ne va in linee corte e acute silenzio formazione silicosa

quando il lupo cacciato si riposa sul bianco
colui ch’è scelto caccia i suoi prigionieri
mostrando la flora uscita dalla morte che sarà causa
e apparirà il cardinaldifrancia
i tre gigli chiarezza folgorale virtù elettrica
rosso lungo secco che liscia pesci e lettere sotto il colore

il gigante il lebbroso del paesaggio
si blocca tra due città
ci son dei ruscelli cadenza e le tartarughe delle colline si accumulano pesantemente
sputa sabbia impasta i polmoni si lana si schiarisce
l’animo e l’usignolo volteggiano nel suo riso-girasole
egli vuol cogliere l’arcobaleno il mio cuore è una stella marina di carta
nel missouri nel brasile nelle antille
se pensi se sei contento lettore divieni per un istante trasparente
il tuo cervello spugna trasparente
e in questa trasparenza un’altra ci sarà più lontana trasparenza
lontana quando un nuovo animale di blu si vestirà in questa trasparenza Continua a leggere

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Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club, Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen, di Marie Laure Colasson, Instant poetry di Mauro Pierno, Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Lucio Mayoor Tosi, Sull’iperbole nella poetry kitchen, di Giuseppe Gallo

Marie Laure Colasson

Sulle ragioni della Crisi

Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:
«Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club», racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. «Joyce, Duchamp, Picasso, Bréton… ci trovavamo alla “Coupole” dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

Giuseppe Gallo

L’iperbole, dal greco: ὑπερβολή, hipér “sopra” e bolé “lancio”, con il significato di esagerazione, è una figura retorica di contenuto. Nel linguaggio comune e nelle affermazioni poetiche è una figura largamente diffusa, basti pensare a espressioni del tipo:

– Siamo in un mare di guai.
– «Quivi parendo lontana a Rinaldo mille miglia.» (Ariosto, L’Orlando furioso)

Da questi due semplici esempi si evince che l’iperbole eccede nella descrizione della realtà: i guai sono un mare sterminato; e la distanza che Rinaldo ha di fronte si sottrae a qualsiasi misurazione. La realtà descritta, però, può subire anche una diminuzione,

– È pronto in un minuto!
– Non hai un briciolo di cervello!

In questi ultimi esempi si esagera, sempre, ma per difetto. Ecco la verità che sta dietro le parole: ciò che si esprime non va preso alla lettera! L’iperbole è un trucco, un’illusione, rende l’idea, circuisce la nostra logica razionale e la proietta verso il fantastico. Infatti, spessissimo, l’iperbole funziona nelle favole, nei racconti per bambini e in quella letteratura consapevole che il linguaggio contiene in sé la possibilità intrinseca di un “discorso doppio”, quello dell’invenzione e quello della realtà; l’iperbole non vuole ingannare, ma quasi; un po’ di vero deve rimanere in piedi, ma deve essere stravolto, con l’iperbole l’impossibile diventa possibile!
Ma oggi, come stanno le cose? Oggi che impera l’immagine audiovisiva, a tutti i livelli. Videogiochi, fantasy, spot pubblicitari avveniristici, il cielo che cade sulla terra, l’universo che non ha alcuna legge su cui reggersi… Oggi che abbiamo a disposizione lacerti poetici di questo genere:

“Il semaforo gorgheggiò una canzone di Mina
degli anni sessanta” (Giorgio Linguaglossa)

“I lati scaleni del rettangolo scorrono sulle dune,
adesso che le albicocche sono asteroidi
il collo dell’ukulele è figlio di Andromeda” (Mimmo Pugliese)

“Roba che si vede al Bancomat: il Minotauro
e Teseo che parcheggia la Rolls Royce” (Francesco Paolo Intini)

Sembra che la metafora iperbolica investi la struttura stessa del discorso. Oggi non “affoghiamo in un bicchiere d’acqua”, ma in tutti i bicchieri e in tutte le acque, tornando ad essere bambini, incapaci di distinguere tra vero e falso, tra verosimile e improbabile, tra esagerazione e compressione…

Marie Laure Colasson

Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen si basa su un concetto piuttosto semplice:[…] la poesia kitchen non ha identità alcuna, non dà certezze a nessuno, non è né maschio né femmina, e neanche transgender, non vuole essere trasgressiva e neanche rassicurante, disconosce i concetti di avanguardia e di retroguardia, concetti del secolo trascorso che non hanno più cittadinanza nell’epoca del Covid-19 e dei sovranismi; inoltre, si sente a suo agio nel presente, in questo presente confuso e contraddittorio, e lascia libero ciascuno di assegnarle l’etichetta che più aggrada.

La poetry kitchen non vuole essere definita da stereotipi e/o da categorie del passato. È un genere ibrido, fluido, mutevole, instabile, né poesia né prosa, tantomeno prosa poetica o poesia prosastica, non poggia su alcuna certezza, non garantisce alcuna identità, non v’è distinzione tra il genere innico e il genere elegiaco, categorie continiane che possono applicarsi ben che vada alla poesia del ‘900 e del tardo novecento; rifiuta il concetto di identità, non si presenta come un nuovo «modello», non è la gardenia di Dorian Gray e neanche la pipa o la bombetta o l’ombrello di Magritte né il ferro da stiro o l’orinatoio di Duchamp, non ricerca la identità di genere, anzi, non ricerca nessuna identità, la sua sola identità è la promiscuità e l’ibrido, l’infiltrazione e la permeabilizzazione del testo; è insieme ilare e drammatica, ideologenica e mitologenica, si esprime per assiomi infondati e per aforismi derubricati; la poetry kitchen avverte la responsabilità di promuovere la mental inclusivity di tutti i punti di vista, non chiede di essere riconosciuta ma soltanto dimenticata dopo averla letta, non rivendica che la propria inautenticità, la propria sintomaticità; fate attenzione: è una malattia esantematica e contagiosa, e poi è democratica e rivoluzionaria perché sconvolge gli stereotipi e le categorie che vorrebbero irreggimentarla, inoltre è allergica alla poesia da salotto e ai salotti tele-igienizzati del politichese letterario, infine piace ai giovani e ai giovanissimi.
Così è se vi piace. Ed anche se non vi piace.

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Riflessioni sul fare cinema di Mani Kaul Commenti di Trinita Buldrini e Steven Grieco-Rathgeb (traduzione in italiano di Trinita Buldrini)

Gif la Ruota della giostra

Commento di Steven Grieco Rathgeb

Se avrete la pazienza di leggere questa serie di post su L’Ombra delle parole, iniziata con la “Conversazione con Gilberto” del 10 dicembre scorso, seguita da questo post, al quale seguiranno altri nel corso di gennaio/febbraio 2018 (a seconda delle possibilità di spazio sulla nostra rivista online), vedrete dove voglio arrivare: ad una vera e propria rifondazione della poesia: ritrovare la semplicità, la profondità e lo stupore della poesia. Sempre in sintonia con le altre diramazioni e gli altri poeti della NOE. Per fare ciò, io passo anche dal cinema, ecco perché qui propongo queste Riflessioni di Mani Kaul, esponente di spicco del cinema indiano e internazionale fra il 1968 e il 2010 (anno della sua morte), nonché pittore, musicista e pensatore. Applicherò alla poesia non poche intuizioni che egli ebbe sulla cinematografia e sull’arte in genere, di cui parlammo insieme nel corso di 30 anni, cercando di combinarle con mie intuizioni personali, frutto di miei tentativi decennali di sondare il fenomeno della graduale involuzione della poesia, del  suo ripiegamento su se stessa  nel tardo Novecento e nel 21° secolo. La poesia è sempre stata letta da pochi, ma celebrata da molti: negli ultimi 50 anni invece la sua importanza nella vita delle persone è scesa quasi fino a zero.

Ecco dunque un pezzo che il regista cinematografico scrisse intorno alla metà degli anni 90, quando aveva circa 50 anni:

Gif metro

Musings – Riflessioni di Mani  Kaul

 (da “Indian Summer. Films, Filmmakers and Stars between Ray and Bollywood” a cura di Italo Spinelli, Edizioni Olivares, 2001, trad. Trinita Buldrini)

 

  1. Gilles Deleuze, nel suo libro Image-mouvement, spiega come i film Hollywood anteguerra si dedicarono alla produzione di immagini in movimento. In quanto veicolo di una narrazione di tipo classico, l’immagine-movimento subordina il movimento (di un film) all’azione. Cioè a dire che l’autonomia dell’immagine, la quale comprende in sé sia fotografia che suono, viene fagocitata dall’azione principale della narrazione, come anche dai collegamenti fra le singole azioni.
  2. Io qui vorrei ampliare la nozione deleuziana di immagine-movimento per includervi l’atto stesso che organizza lo spazio, il quale ci fa vivere il tempo in modo indiretto – come frutto di questa organizzazione. Nell’immagine-movimento , la significatività (di emozione e di senso) nasce dallo spazio, dal modo in cui lo spazio è organizzato – dal set, dagli attori, dalla luce e dal movimento, i quali elementi vengono tutti subordinati allo svolgimento della narrazione. Perfino il suono deve mettere in risalto la profondità ‘visiva’.
  3. Ora, se cambiando radicalmente il nostro punto di vista noi vedessimo il movimento come subordinato al tempo, ci avvicineremmo a ciò che Deleuze chiama immagine-tempo – l’argomento del suo secondo volume, ‘Image-temps’. E’ vero che spazio e tempo non stanno mai separati, ma fra loro si possono stabilire vari ordini di rapporti. Per esempio, una cosa è immaginare lo spazio come punto focale della costruzione di un film, in cui il tempo appare come semplice riverbero: tutt’altra cosa è porsi nel tempo, e lasciare che lo spazio diventi ciò che vorrà essere, qualsiasi cosa.  Ormai da secoli, in ogni forma di arte ed espressione, si è impiegato lo spazio come veicolo fondamentale dell’espressione, della creazione di significato ed emozione.
  4. Per costruire usando lo spazio, è infatti stato necessario creare una dicotomia nello spazio stesso, per distinguere tra spazio sacro e spazio profano. Si dà il fatto che sacro e profano vengano collegati ai concetti di ordine [kosmos] e chaos. Tale dicotomia spaziale viene quindi naturalmente intesa come radice stessa della visione morale, e perfino etica, che abbiamo del mondo. Tuttavia, la vita contemporanea, ovunque si trovi nell’universo, si sembrerebbe contrapporsi a tali codici morali dicotomici. Soltanto le tendenze retrograde e fondamentaliste insistono ancora nel tentativo di risuscitare quella dicotomia originaria ormai in disfacimento. Il tentativo (da parte dei Sufi, tra l’altro) di colmare la lacuna fra mondo dei sensi e spiritualità viene ancora oggi osteggiato dai fondamentalismi di ogni tipo. Una architettura religiosa presuppone ‘sacro’ lo spazio occupato da un tempio, una moschea, una chiesa; e quindi presuppone anche che all’ ‘altro’ capo esista uno spazio profano (un bordello, per esempio). E anche, attraversando da spazio sacro a spazio profano, l’individuo attraversa aree per così dire miste, quali il mercato, l’ufficio.
  5. Quando guardiamo con l’occhio della cinepresa, riprendiamo sempre ciò che vogliamo diventi ‘significativo’ nella nostra composizione. Il significativo è considerato sacro, e da esso escludiamo tutto ciò che potrebbe disturbare la delimitazione di tale spazio significativo. Se lasciamo prevalere il profano, temiamo che l’espressione diventi insignificante. La comparsa di elementi indesiderati, esclusi nel progetto di una ripresa, spesso obbliga i registi a ‘rifare’ la ripresa. Tale elemento indesiderato lo possiamo considerare come uno sviluppo casuale.
  6. L’incontro con il caso è proprio il nocciolo di ciò che vorrei definire immagine-tempo. Il passaggio dallo spazio al tempo sarà dunque qualcosa di grande, al pari della scoperta della prospettiva all’inizio del Rinascimento europeo. Come la sconvolgente scoperta della ‘convergenza nello spazio’ [ossia la prospettiva] avvenne allora nell’arte, così è possibile che nella cinematografia e nel video si verifichi oggi una ‘divergenza temporale’.
  7. Il maestro francese Robert Bresson, com’è noto, gira la stessa scena fino a 30-40 volte. Lo fa per rompere il meccanismo della ripresa che lui stesso, come regista, allestisce. Aspetta fino a quando uno sviluppo involontario prefigura la ripresa definitiva, perché l’attore e il tecnico in quel momento fanno più di quanto avrebbero forse immaginato. Esponente a tutto tondo della tradizione classica dell’immagine-movimento, Bresson rappresenta anche il culmine di quella tradizione perché riconosce la potenza del caso. Egli cerca un certo ineffabile significato, qualcosa che non si può descrivere né esprimere, qualcosa che non si controlla ma si può riconoscere.
  8. Il secondo concetto di Deleuze, l’immagine-tempo, si basa più direttamente sugli scritti di Henri Bergson, in particolare ‘L’évolution créatrice’. Secondo me, il contributo di Deleuze sta nell’aver mostrato che immagine-tempo nel cinema è cosa del tutto possibile. Devo dire d’altro canto che tutti gli esempi da lui dati di immagine-tempo sono, come spesso succede, insufficienti e perfino inadeguati.  Il cinema non può affermare di aver realizzato l’idea di immagine-tempo fin quando continua ad operare nella modalità immagine-movimento. Durante un seminario, sono rimasto sorpreso quando uno studioso di Deleuze ha mostrato una scena da ‘L’anno scorso a Marienbad’ a mo’ di esempio dell’immagine-tempo.  In essa, un singolo testo continuo, che normalmente costituirebbe una singola scena, si sovrappone su un gruppo di personaggi che si spostano in luoghi diversi cambiando di volta in volta i loro costumi. Secondo me, qui abbiamo fortemente a che fare con la creazione di un senso indiretto del tempo con il ricorso a spazi diversi. Per creare l’immagine-tempo dovremmo invece rovesciare questo metodo assai tradizionale che usa lo spazio come mezzo di costruzione. Sarà necessario cominciare a lavorare con il tempo, lasciando che il senso indiretto dello spazio nasca da solo. In questo modo, lo stile perderà quel significato che finora ci ha fatto dire ‘tempo tarkovskijano’ in un film di Tarkovskij, ‘tempo bressoniano’ in un film di Bresson.  Il tempo, non vi è dubbio, sta oltre lo stile. Nell’immagine-tempo, l’individuo sarà egli stesso testimone del proprio divenire nello spazio, non si troverà quindi a dover desumere un universo temporale sulla base del suo stile individuale.
  1. Come si potrebbe lavorare direttamente dal tempo? Son cinque anni che me lo chiedo. Mi sono scervellato per trovare i modi e i mezzi di accostarmi a quest’idea. Mi sto ancora scervellando. Ma da qualche parte mi viene questa sensazione strana, molto precisa, che prima o poi per girare un film non sarà più necessario guardare con l’occhio della cinepresa. Si lavorerà sull’immagine e sul suono in quanto del tutto indipendenti l’una dall’altro. Viene subito da pensare che senza l’occhio della cinepresa ci sarà il caos, il disordine totale. Gli attori (se ancora si chiameranno attori)  entreranno e usciranno o staranno ai margini e al  centro di ‘inquadrature’ casuali. Be’, rispetto allo spazio fermo a cui siamo abituati adesso, certamente queste nuove espressioni saranno molto disordinate: ma solo chi ha nostalgia per la defunta immagine-movimento potrà dirle insensate.

foto il vuoto della folla

Rompere l’illusione

  1. In passato, una svolta importante nella pittura avvenne con Vincent Van Gogh. E’ difficile immaginare quale logica lo avesse convinto a vedere gli oli come oli, e gli oli come creatori di un’illusione, ovvero la ‘narrazione’ [all’interno del quadro: ad es., uno stormo di corvi che volano sopra un campo di grano]. Nelle sue opere, un riflesso nell’acqua appare come semplice colore bianco spalmato da un tubetto. Invece, nei maestri che lo avevano preceduto, il colore è completamente risucchiato dall’illusione che intende creare. Prendiamo l’armatura scintillante di un soldato di Rembrandt: anche quando la osserviamo molto da vicino, l’armatura mantiene l’illusione di armatura scintillante: è stata dipinta perché sembrasse reale. Per Van Gogh, l’acqua, e il riflesso del mondo, erano fatti di colori ad olio. Qui c’è una grande verità, una con cui molti hanno concepito la vita stessa: l’illusione della vita, ed il materiale con cui si conforma questa stessa illusione. Tuttavia, molti di noi siamo abituati a credere e a sopportare la finzione di un’illusione costruita, di una nostra narrazione individuale costruita. E così la vita continua a sfuggirci. Una volta Picasso stava facendo il ritratto di una signora il cui marito la accompagnava allo studio e andava a riprenderla la sera. Finito il dipinto, Picasso lo invitò nello studio perché vedesse il ritratto. Il marito lo guardò e non disse niente. Picasso gli chiese se gli piaceva, e il marito disse: ‘Mi piace, ma mia moglie non è così.’ ‘Com’è sua moglie?’ Chiese Picasso. Il marito tirò fuori  una piccolissima foto formato francobollo di sua moglie e disse: ‘E’ così.’ Picasso si mise la foto nel palmo della mano e disse: ‘Non sapevo che sua moglie fosse così piccola.’
  1. Come possiamo operare questa straordinaria svolta nel cinema, dove l’illusione di un racconto (o anche di un non-racconto) viene separata da ciò di cui è fatta? Si è tentato di farlo nel teatro. Brecht  impiegava metodi di ‘alienazione’ teatrale, in cui tirava fuori la profondità della narrazione di un pezzo teatrale e la spalmava sul palcoscenico. Nel teatro, la falsa profondità e la ‘alienazione’ si svolgono sullo stesso palcoscenico e quindi sono intrecciate in un tutt’uno. Non sorprende che le antiche rappresentazioni  sanscrite e pracrite a modo loro facessero un uso geniale della ‘alienazione’ tecnica.  Nel cinema ciò non può avvenire finché il film non entrerà nel tempo, ossia nella base stessa dalla quale si sviluppa la narrazione.

Foto uomini che scendono le scale

L’importanza della divergenza

  1. Nei diversi stadi della nostra esperienza nel cinema, abbiamo tentato di allontanare il cinema dal linguaggio del realismo. Questi tentativi si sono fatti o con il trasferimento stilistico del materiale spaziale (ciò che Madan Gopal Singh definisce ‘metaforizzazione dell’immagine’), o alterando la presenza empirica della durata temporale, allungando o perfino contraendo il passare del tempo. Questi tentativi sono però rimasti circoscritti al campo dell’immagine-movimento.  I legami venivano resi labili, proprio come feci io all’inizio del mio primo film [Uski roti, Il suo pane, 1968]: un sasso viene lanciato  dentro la chioma di un albero sfrecciando fra le foglie; il frutto cade dopo un periodo di tempo esagerato. In questo modo il ‘cut’ spezza qualsiasi collegamento causale tra i due eventi. Tuttavia, le sfere di tempo come materia prima del cinema saranno inimmaginabilmente diverse dagli spazi idealizzati che ora appesantiamo con i nostri significati. Il tempo è nell’aria.

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L’aporia del presente nella poesia di Mauro Pierno e di Donatella Costantina Giancaspero. L’ingresso del fattore T nella poesia della nuova ontologia estetica, Il tempo viene messo in scatola – Le parole oscurate di papa Francesco – Riflessione sulla nuova poesia di Gino Rago, Poesie di Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino,

Foto uomini che scendono le scale

Il tempo viene messo in scatola, ecco il fattore T.

 La redazione dell’Ombra auspica per tutti i lettori e commentatori della rivista serene festività e un Anno nuovo ricco e fertile di «cose».

Giorgio Linguaglossa
22 dicembre 2017 alle 11:02

Nell’edizione serale del TG1 di ieri, la frase di Papa Francesco indirizzata contro i «complotti» è sparita: «Riformare la Curia è come voler spolverare la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti» diceva monsignor De Mérode; e Francesco ieri ha ripetuto quella frase. Giunto al suo quinto anno di lavoro sulle riforme e al suo quinto discorso per gli auguri natalizi ai collaboratori romani, il papa spiega che «una Curia chiusa in sé stessa sarebbe condannata all’autodistruzione»; «è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti”. Ebbene, questa frase è stata “oscurata”.

È incredibile, adesso siamo arrivati addirittura a CENSURARE le frasi del papa che non riescono gradite alle orecchie dei mercanti di schiavi dei Padroni e del conformismo mediatico più spregiudicato. Voglio proprio vedere se di questa frase c’è traccia nei quotidiani.

Parafrasando la frase che il Papa Francesco ha pronunciato ieri in Vaticano:

Voler fare pulizia nella poesia italiana è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti.

Foto giallo sfondo con femme and hat

Voler fare pulizia nella poesia italiana è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti

Lucio Mayoor Tosi

Lungo il viale del tempo

– oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste

dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.

Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:

“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e “L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.

– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!

L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!

A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.

Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.

Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni.

Onto Gino Rago_2

Salvatore Martino: Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua

   

Gino Rago
21 dicembre 2017 alle 18:34

Salvatore Martino

ovvero, “la poesia di Eros nel gesto controllato che riesce a farsi segno…”

“Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua notti nel sonno di maree umide e gialle Tutto il giorno ho sperato di te con la testa all’angolo del braccio Umide e gialle di scogli appuntiti Nel chiuso della stanza le pareti si gonfiano lo specchio quadrato il tavolo le sedie il gioco alterno dei marosi rossi e bianchi e bianchi l’assurda figura dei vestiti la porta che non s’apre Sei intero come il tutto che ci divide nel tuo corpo di vetro E notti ci sono allungate dal buio di correnti che lampeggia il tossire dell’aria e distendi alla luce del ventre l’inutile sorriso…”.

Si assiste all’affiorare dei temi centrali della tradizione lirica italiana e della poesia fatta dagli insulari, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma almeno in questo brano di cristallina prosa d’arte ci imbattiamo in un Salvatore Martino alle prese con i segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio in atto che troverà nell’opera futura in via di preparazione una sua realizzazione più compiuta.

La selezione da me effettuata risponde a una lettura possibile, senz’altro parziale. Aggiungo che ho preferito esporre, bruscamente e talvolta estraendoli a forza dal corpo dei versi postati su l’Ombra, un passaggio nel quale si trovano inseriti quei segni che sembrano garantire un’illuminazione immediata, la cui matrice affettiva e nostalgica assume un rilievo specifico ma tuttavia mai incline all’arreso ripiegamento intimista.

Dalla nostalgia per i tempi a quella per gli spazi e fino al ricordo di ” amici” o compagni che fanno la guardia in sembianza di animali fedeli, Martino ci sospinge dalla parte di chi parla nei «versi oscuri della divozione», con la voce di un mitico fanciullo che viene dal Sud, un Sud isolano mai consegnato all’oblio, come fu per Ripellino, per Cattafi e soprattutto per Stefano D’Arrigo alle cui frequenze delicate accosto quelle di Salvatore Martino, almeno se mi limito a considerare i versi riportati di seguito, tratti da Pregreca”del D’Arrigo poco prima di Orcynus Orca:

da Pregreca di Stefano D’Arrigo:

“Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece (…)”

Due sensibilità poetiche ben precise e senza sforzi riconoscili, dai contorni ben disegnati, Salvatore Martino e Stefano D’Arrigo, ma entrambe mosse, agitate, nutrite da Eros come forza vitale, come forza cosmica primordiale che nei loro versi riesce a farsi trasparenza d’alabastro di contro alla opacità della pietra. Eros, il gesto controllato che riesce a farsi segno nella “insidia della soglia”, come in questi versi di Salvatore Martino:

” I morti sono morti e basta
e freddi
perché la morte è fredda
e dio è volato
sopra i gabbiani che piangono”

onto Lucio Mayoor Tosi

L.M. Tosi – oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette/ e a giugno le prime aragoste

2 –Lucio Mayoor Tosi, ovvero un poeta che gioca con il tempo nello Spazio Espressivo Integrale:

Lucio Mayoor Tosi, “Lungo il viale del tempo”

– oh, grazie! Che immagine romantica.
… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste
dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.
Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:
“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e “L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.
– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!
L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!
A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.
Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.
Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

————————————————————————
mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
————————————————
dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

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Per una ontologia relazionale – Poesie di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mariella Colonna – Dialogo tra Franco Campegiani e Giorgio Linguaglossa – La verità ha valore posizionale, il nichilismo è la posizione delle posizioni della nostra epoca – La nuova poesia ontologica è riflessione sul nulla – La verità è diventata posizionale

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mario M. Gabriele
2 agosto 2017 alle 12:23

Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz, e I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze all’Harmattan.

Entra nel mio cuore e restaci come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare, né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares con il cane,
e Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.

Lucio Mayoor Tosi
2 agosto 2017 alle 12:33

Be’, allora io ne metto una breve breve:
Caroline.
Io e te siamo specchi riflettenti emozioni diverse
e fuori sincrono.
Per un po’ saltiamo nello stomaco dell’altro.
L’altro che si sta genuflettendo.
Così trascorriamo il tempo nella stazione orbitale
Caroline.

Mariella Colonna

Carolyn è una creatura perfetta:

alta, mora, carnagione compatta, aria sognante.
Gli alberi si piegano al suo passare,
la sfiorano con i rami, lei, occhi profondi
guarda lontano il mare e il mare guarda lei…
i sospiri delle onde richiamano il vento.
Rintocca il mezzogiorno con il suono delle campane
a Beaulieu sur mer.
Carolyn non sa che nel lontano Afghanistan
un soldato americano sogna il suo corpo
le lunghe gambe, la vita sottile, gli ondosi capelli.
Il soldato non sa che, dentro quel corpo perfetto,
gravitano mondi e ampi spazi sono attraversati
da neutrini e microparticelle.
Neppure Carolyn lo sa. E ignora che il suo cuore
ha un numero molto molto grande ma limitato
di battiti e che un giorno, come tutti,
anche lei dovrà morire.
Per questo Carolyn è felice di esistere
e il soldato felice di sognarla
anche se non la conosce. L’ha immaginata
e non sa che esiste davvero…
Troppe cose si sanno, troppe non si sanno.
Chissà, forse le sa Marianita, la cubana
che fa le carte per 50 centesimi.

foto Birra

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Gianna Paola Cuneo POESIE – Appunto biografico a cura di Steven Grieco-Rathgeb con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Rigore, icasticità delle immagini, ripetizioni cicliche delle medesime figure, lentezza di rappresentazione, concentrazione degli sfondi, paesaggi metafisici”; “Il senso di endlessness”; “Arpocrate, Dio del silenzio, insito nelle cose, nelle piante” – Quadri di Gianna Paola Cuneo

Gianna Cuneo ricordo

Città Ricordo

Appunto biografico a cura di Steven Grieco-Rathgeb

Gianna Paola Cuneo nasce a Roma, e dopo pochi mesi già si trova a Bruxelles dove si trasferisce il padre diplomatico. Nella casa di Avenue de la Folle Chanson la sua prima lingua sarà il francese. Negli anni ’30 vive in Jugoslavia e di nuovo in Belgio dove da bambina scopre l’arte dei primitivi fiamminghi e di Rubens. Gli anni di guerra e di occupazione tedesca le fanno vivere, presto, drammatiche esperienze, che annota nel suo diario d’infanzia.
Di ritorno in Italia nel ’43, l’intera famiglia si rifugia in Abruzzo dove di fronte alla casa di famiglia, a Francavilla al Mare, esisteva ancora lo studio-museo del pittore Francesco Paolo Michetti, e dove Gabriele D’Annunzio scrisse Il Piacere. Il portamento delle contadine dipinte dal Michetti imprimeranno in lei una forte influenza formale. Anche dopo la guerra, Francavilla sarà per molti anni un importante punto fermo per l’arte di G. P. Cuneo. La casa, ricostruita, con il suo studio osservatorio sul mare, sono la sua prima visione dell’orizzonte.

Quando nel ’45 la famiglia riparte di nuovo, questa volta per Chicago, per G. P. Cuneo diario e disegno diventano sempre più importanti, un’ancora per affrontare, in piena adolescenza, il distacco dalla vecchia Europa. L’Art Institute di Chicago le appare subito il ‘suo’ mondo: museo, accademia di belle arti, teatro sperimentale, biblioteca. Ammessa ai corsi a soli 15 anni divampa la passione pittorica e la indomabile necessità di espressione. I suoi quaderni post-cubisti nascono assieme a pensieri e brani di prosa, racconti, di cui alcuni descrivono l’alienazione provata nella metropoli americana. L’ambiente culturale di Chicago è importante in quegli anni. Con il padre Gibbì frequenta professori, artisti e letterati italiani, tra i quali Fermi e Borgese, allora alla Chicago University, Benedetti Michelangeli e Carlo Levi. Quest’ultimo, apprezzando i suoi primi lavori, la incoraggia.
Le estati passate a Positano la riportano in contatto con il Mediterraneo e quel mondo magico, inventato, teatrale, dove luci e sensazioni erano portate all’estrema potenza, dove tutto poteva avvenire. L’attrazione per quella città verticale, dai profumi inebrianti, dai colori in perfetta armonia con l’infinito del cielo, libera il suo tratto e la affida alle dimensioni minuscole del luogo e al contempo infinitamente grandi del cuore e delle emozioni che solo quella terra sa offrire.

gianna cuneo donna

La ragazza di Positano

Tornata a Roma nel ’49, G. P. Cuneo conosce Benedetta Marinetti che si interessa ai suoi lavori e le porta a studio Christian Zervos, critico famoso, fondatore dei Cahiers d’Art, l’importante rivista d’arte moderna francese, autorità su Picasso, Leger, Giacometti, e sull’arte greca. Zervos vuole presentarla in catalogo nella sua prima mostra personale alla Galleria del Pincio, in Piazza del Popolo (…). Lì espongono Guttuso, Pizzinato, Zigaina e il Fronte Nazionale delle Arti. La prima personale, del marzo 1952, le porta un ottimo successo, anche di critica.
G. P. Cuneo parte di nuovo per gli Stati Uniti nel 1953, adesso con il marito Umberto, anche lui in missione diplomatica a New York. Lì subito dopo nasce la figlia Valentina. Nel giro di pochi anni la sua vita si sposta a Londra dove la pittrice rimarrà sei anni. Con uno studio sul Tamigi, riprende la sua attività nell’acceso clima culturale della città dei primi anni sessanta. In questa città può dedicarsi di più alla pittura e alla poesia. Riprende contatto con Zervos, incontra Armitage e Henry Moore. Arrivano dall’Italia registi come Zeffirelli e compositori come Petrassi, la Callas con Medea. (…) Nasce a Londra Fabrizio.
Dalla metà degli anni Sessanta si susseguono anni più difficili: è l’epoca del ritorno a Roma nel disorientamento. Il sole e la luce del Mediterraneo la aiuteranno a superare la crisi. In questa atmosfera G. P. Cuneo vive un periodo di forte produzione poetica: sublimazione indispensabile.
La vita romana è intensa fra arte e vita familiare. Organizza mostre d’arte contemporanea e si introduce negli ambienti della vecchia Roma dove apre le Bateleur in un antico spazio, che ristrutturato farà da sfondo a innumerevoli mostre d’arte, come in un improbabile teatro.

Gianna Cuneo miporto

mi porto una strada

Gli anni ’70 sono l’epoca del ritorno alla Francavilla della sua gioventù, e soprattutto a Capraia. Dopo tanto esodo, tanta vita all’estero, Gianna Paola Cuneo ha modo di riscoprire antiche origini familiari e antenati che vissero qui quando l’isola faceva parte dei possedimenti della Repubblica marinara genovese. E’ un mondo che la affascina e la porta a vivere una nuova percezione della natura e della storia.
E’ anche un periodo marcato dalla casa di via Teatro Valle a Roma, punto di ritrovo di artisti e amici, e dei primi viaggi in Grecia, grazie alla quale si risveglia in lei una forte affinità con la storia e il mito di quel paese. L’incontro con il giornalista Spyros Metaxas la porta a organizzare Viaggio nella tradizione ellenica, una serie di mostre sull’arte popolare greca. Il rapporto con la Grecia si approfondirà nel tempo. Nei suoi viaggi nel Peloponneso ritrova forme e miti arcaici studiati in gioventù: profonde ispirazioni spirituali che trasformano queste visioni in arte.
Con il quadro Vento alla stazione ferroviaria, inizia alla fine degli anni ’80 il nuovo periodo pittorico. Queste ricerche cominciano a rivelare aspetti inattesi dell’attività delle forme, tralasciando schemi formali. Dall’alto del suo studio sul mare assimila una nuova visione, un nuovo ritmo delle cose. Una profonda linea dell’orizzonte si insinua nelle sue composizioni. Emergono tutti gli arpeggi, gli elementi del ricordo, che rivive in un clima “panteistico”, più penetrante e vicino alla poesia. Le ragioni della pittura e della parola, a volte si intrecciano nel comune linguaggio delle sfumate trasparenze, filtri di bagliori sommersi, rarefatti, contenuti nella memoria.
Questo periodo di forte produzione artistica è anche marcato dal suo addio alla casa di Teatro Valle e l’approdo a Trastevere, nuovo epicentro della sua vita culturale e creativa.
Con il susseguirsi di estati elleniche, nonché letture e osservazioni sul mito e sugli eroi, G. P. Cuneo rivisita in maniera nuova soggetti a lei già noti: questi anni a cavallo del secolo sono da lei chiamati il “periodo elegiaco” della sua arte. Sotto i cieli delle isole del Saronico e nel suo studio di Trastevere scrive e dipinge ispirata da fauni e argonauti, e misteriosi orizzonti marini.
Nel 2003 esce la sua prima raccolta di poesie, La Musa del Transatlantico, edita da Il Gabbiano, e vincitrice del Premio Elio Vittorini, edizione 2010; un libro di prose La danza dell’orizzonte Ed. Campanotto (2010)

Gianna Cuneo notturno

pesca notturna

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. “Arpocrate, Dio del silenzio, insito nelle cose, nelle piante”

Non c’è alcun dubbio sulla cittadinanza ideale di queste poesie di Gianna Paola Cuneo nella sua versione trilingue, e sul piacere poetico-pittorico di esperire l’astratto-concreto delle sue visioni come se fossero i suoi quadri rovesciati, i quadri della stagione romana degli anni Cinquanta e Sessanta, con quelle figure bronzee che si stagliano in primo piano o sullo sfondo di angoli di una città fantasma, su vie e incroci di vie deserte con i palazzi dai colori caldi e asciutti come se una immane siccità fosse intervenuta a colorare quei palazzi romani; tutta la difficoltà risiede nella corposità delle immagini carpite dal vuoto e campite con tenacia e concentrazione per consegnare agli utenti un tessuto compatto di parole-immagini, una musica quasi pittorica, una poesia quasi pittura di incredibile fascino e, addirittura, come diceva Cage, “talvolta troppo bella” parlando della musica di Morton Feldman. Tutta la icastica precisione delle immagini della poesia di Gianna Cuneo vuole semplicemente dare un equivalente visivo al senso di “endlessness”; dove la massima delimitazione e concentrazione delle immagini dà vita al senso dell’infinito e del vuoto.

Gianna Cuneo orizzonte

danza dell’orizzonte

Rigore, icasticità delle immagini, ripetizioni cicliche delle medesime figure, lentezza di rappresentazione, concentrazione degli sfondi, paesaggi metafisici… Ci si può chiedere come da pochissime immagini alternate con pochi intervalli, a tanto ammonta il materiale di base della sua poesia, Gianna Cuneo riesca a tenere il lettore in ascolto attento con la sua versificazione essenziale, intenta soltanto alla esecuzione delle immagini e ai silenzi intorno agli oggetti.  Ecco, il silenzio intorno agli oggetti, questo è un aspetto  decisivo nella sua pittura, ma anche nella sua poesia entra il «qui e ora» degli Stoici, punto di intersezione dell’individuale e dell’universale, dove l’unità dei colori sfuma nell’unità di uno spazio virtuoso che si allarga e si espande. Analogo modo di sentire è presente nella sua poesia dove le campiture descrittive sono sempre individuate nel punto nel quale c’è l’accadimento umano. Molto limitata è la gamma di visioni e di paesaggi, armonie e figure, su tutto gioca un dio omerico con le sue bizze infantili e le sfumature dei suoi umori. Il mare è una di queste ossessioni visive di Gianna Cuneo, e gli dèi dell’antica Grecia vi compaiono di frequente, come le sfumature cangianti della sua tavolozza lirica basata sulla ripetizione, il colore e il silenzio. È una questione di concentrazione e di massima essenzialità nella gerarchia delle parole; Per la Cuneo scrivere con l’inchiostro o con il colore è la stessa cosa, cioé in sostanza, come il tessitore di tappeti, non poter tornare indietro a correggere – lo stesso faceva Cage con un afflato appena più vaticinante. Una stessa immagine ripetuta e detta in maniera diversa. Il tempo, questa deità dispotica e bizzosa, nelle sue poesie scorre pianamente e lentamente, in unità plastiche aggregate in maniera desultoria, apparentemente senza conflittualità residua fra un decorso musicalmente necessario e l’intenzione espressiva come di affresco, di campiture visuali da cui non emerga nulla di simile a un attacco di colore o un accento di immagine. È una implacabile ossessione per l’ordine e il disegno che Gianna Cuneo deriva dalla sua pittura – un procedere logico ed emotivamente neutro concepito grazie a tecniche visuali, che formula il tempo modulare del suo discorso poetico.

Gianna Cuneo emersione

Emersione alla Cala rossa

Senza alcun ricorso a pratiche linguistiche desunte dal post-ermetismo o dallo sperimentalismo, mai condivise grazie alla sua formazione intellettuale cosmopolita, Gianna Cuneo riesce a produrre in parole la bellezza dolcemente disumana e stranamente appassionata di un mondo che vive nell’immateriale delle immagini (tale in poesia e tale nella sua pittura), che sembra respirare nella natura ma è come irreparabilmente abitato dalla presenza umana, un mondo contemporaneo segnato dalla fine della dialettica storica e dell’utopia. Su tutto domina la figura di «Arpocrate, Dio del silenzio», un enigmatico non-dire che è il segreto del silenzio della sua pittura e della sua poesia.

Arpocrate, Dio del silenzio,
insito nelle cose, nelle piante,
lo perseguita, come un’erinni
Il mare è grigio e fermo. Sopra,
Vi si pongono i gabbiani, come
Su un lago triste e opaco. Poche
Barche, rivoltate, in abbandono.

Gianna Cuneo musa

Musa del transatlantico

Poesie di Gianna Paola Cuneo

Novembre – sera

Dalla finestra guardo
L’amplesso grigio del cielo
Di novembre con la terra
E le cose.
Da un fumaiolo solo
Usciva un po’ di fumo
Che s’è spento.
Scendono dalle nubi, isolate,
Le rondini, e volano a sud
Stridendo.
Sul tetto, contro l’orizzonte,
Sagoma nera di metallo,
Gira su stesso,
Un finto gallo.

12 novembre 1962

Ti ho visto in sogno

Ti ho visto
In sogno
All’improvviso
Fra le case
Brune, di Londra,
Hai detto
Resterò un momento
Eri tornato
Adolescente
Sereno, possente
Come un dio.
Ho tolto
Nel sogno
Dal tuo volto
I solchi, i segni
Il veleno del dubbio
Del vuoto.
Nella notte
D’ambra bruciata
Cercavamo la mia casa
Inabitata da anni.
Ti ho detto
Vieni a vedere
Senza sapere
Cosa.

16 gennaio 1963

Capraia

Emersa dall’azzurro
Da anni mi chiamavi
Da secoli
Colla tua forte voce
Pietrosa,
Irta di rupi e arsa.
Ci sono,
Ci sei
E vi ho incontrato
Occhi come i miei.
E vedo
Le case degli Avi
Sgretolarsi, grigie
Inverosimili
Sopravvissute all’oblio.

Il giorno del mio arrivo, gennaio 1964

Gianna Cuneo ferroviaria

Vento a una stazione ferroviaria

Arrivo

Ho visto da lontano
La Civitata fendere il mare
Il verde delle forre,
Sulla tua groppa irsuta,
Avvicinarsi.
Questo volta mi attendi vuota
Più sola,
E il vento ti tormenta le rovine.
Non posso rinunciare
Al caldo delle pietre consumate
A un solo brandello di vita:
Mi manca la tua estate,
E la mia.

Capraia, settembre 1965

Saluto

Dai varchi vuoti
Del sogno
Affioro alla luce.
Ho lasciato tra le rupi
Azzurre
Le cupole grigie
Di garitte antiche
Di case diroccate,
Le grandi immobili foglie
Dei fichi
E sono scesa al mare
Per l’addio.

Capraia, settembre 1965

Foschia sul mare

Mi viene di parlare
Senza sapere che dire, oggi,
La voce raggelata
In questo caldo settembre
Da inutili agonie.
Il mare tace, calmissimo,
La ventola, soltanto, del comignolo,
Arrugginita, stride sul tetto,
Girandosi: un rumor di carrucola,
Duro, che ricomincia impietoso
Come un sguardo freddo,
Come un veleno di parole amare.
La calda foschia di settembre
Coprirà tutto: le nitide visioni,
Capraia, il mio anelito puro
Fino all’orlo lontano dei monti,
L’amore.
E non si può farne il bilancio:
Un occhio di luce nella nebbia
Non rischiara, a pochi passi,
Si ferma e si raggruma, ingigantendo
Come una lente, smisurati pulviscoli.
Devo uscire dal cerchio degli sguardi
E di nuovo sbagliare sola.
Suddenly she seems to change the subject

settembre 1996

Gianna Cuneo eclissi (1)

eclissi di luna

Wondering

Coves of Riverhead,
Unseen landscapes
Of trees and dunes,
Bushes and leaves
Self-ignoring perfections
Of added loneliness.
In blithe winter sun
Cold wind, wild, blowing
Carves those rare faces
And crimps courageous eyes,
Staring away at sea.
Distant winds, daring,
Sweep gray granite monuments
Of men and tears.
Why is memory lost of them?
I wonder, while the winds
Torment tree trunks.,
In decaying, forgotten forests.
I wonder who wonders.

Riverhead, 15 gennaio 1987

Cale di Riverhead, paesaggi inosservati di alberi e dune, arbusti e foglie, perfezioni che ignorano se stesse, di più forte solitudine. Nell’allegro sole invernale un vento freddo, impetuoso, gonfio, scolpisce quei rari volti e raggrinza occhi coraggiosi, che fissano il mare là fuori. Venti lontani, impavidi, spazzano monumenti di uomini e di lacrime, in granito grigio. Perché di loro è perso il ricordo? Me lo chiedo, mentre i venti frustano i tronchi di alberi in foreste che marciscono, obliate. Mi chiedo chi chiede.

(trad. Steven G.-R.)

Achilles’ Bay

We arrived together at Achilles’ Bay
Not knowing, attracted by a strange stillness
Of deep turquoise sea, as imagined
In dreams or seen through distant glass.
Getting there, to half-moon shore
We walked through high vegetation
With no cicada sound piercing the sun
No whisper of running stream,
As heard before, near the discovered waters.
There, at Achilles’ Bay, remember, the wind
Changed, unpredictable, powerful
Disarming our hypnotized minds,
Confused by heat and silence
And visions of time before, painfully emerging.
So far from us, distant visions could reappear
Being recalled only by your whispered name,
Achilles, that ends in a whisper of wind.
No city, no grave, no tower
No Hermit, no sheep or goat,
Not even ruins emerge there
But empty horizons, closed
By rocks as amphitheatre,
To embrace your name, Achilles.

Skiros, 1987

Arrivammo insieme alla Baia di Achille, ignari, attratti da una strana quiete di mare profondo turchese, come immaginato in sogni o visto attraverso un vetro lontano. Giungendo lì, alla riva a mezzaluna, camminando attraverso il verde folto senza un suono di cicala a trafiggere il sole, nessuno scorrere di torrente, come sentimmo prima, vicino alle acque scoperte rivelate. Lì, alla Baia di Achille, ricorda, il vento cambiò, imprevedibile, potente, ci disarmò il pensiero ipnotizzato, confuso dal caldo e dal silenzio, e visioni di un tempo prima che affioravano dolorose. Così, lontano da noi, visioni distanti potevano riemergere richiamate dal solo tuo nome sussurrato, Achilles, che finisce in un sussurro di vento. Non città, non tomba, non torre, nessun Eremita, non pecora né capra, nemmeno rovine emergono lì, ma vuoti orizzonti, chiusi da rocce come anfiteatro, ad abbracciare il tuo nome, Achille.

(trad. Steven G.-R.)

Gianna Cuneo atlantide

In vista di Atlantide

Genius loci

La bianca carcassa della mia casa
Appare nella nebbia invernale,
Spazzata dall’aria fredda.
La facciata è una faccia,
E mi guarda triste, interrogandomi.
Le persiane verdi sbiadite sono
Tutte chiuse. Immagino, da fuori,
Come se vi entrassi, le poltrone
Coperte da pezze, come le ho
Lasciate. I mobili amici, fermi
Al loro posto a guardarsi, in
Attesa. E i quadri, densi di
Solitudini, presenza-assenze, che
Narrano al vuoto le loro storie.
Le piante, le grandi piante, vive,
Sono state distrutte, frusciando
Al vento, mi avrebbero salutato
All’arrivo. L’essere sub-umano,
L’assassino degli alberi, forse
È già all’inferno, incatenato
Alla televisione (sub rosa dictum)
Arpocrate, Dio del silenzio,
insito nelle cose, nelle piante,
lo perseguita, come un’erinni
Il mare è grigio e fermo. Sopra,
Vi si pongono i gabbiani, come
Su un lago triste e opaco. Poche
Barche, rivoltate, in abbandono,
in un fossato di silenzio.

Francavilla, dicembre 1989

Frammenti d’agosto

Ammutoliti dal silenzio
Massi lavorati sugli spalti
Dolmen dell’uomo e castelli
Simili, ormai, consumati
Aneliti di pietra, arcaici
Gesti umani isolati nell’oblio
Ove l’erica ricopre e s’arrovella
E la vita dell’uomo non matura:
Le sue pupille verdi scrutano il finito.

Capraia, luglio 1995

Peinture

Songe, rêve, réalité
Réalité d’un rêve ; ombre,
Forme des formes,
Physiognomie de l’ombre
Paysage du temps –
Peinture : coup de poignard
De l’âme historique !
Conscience historique – siècles
Enfermés de la naissance à la mort.
Image vivante, mystèrieuse, de l’homme.

Rome, Décembre 2005

Pittura

Sogno, visione, realtà
Realtà di un sogno, ombra
Forma di forme,
Fisionomia dell’ombra
Paesaggio del tempo –
Pittura: colpo di pugnale
Dell’anima storica!
Coscienza storica – secoli
Rinchiusi dalla nascita alla morte.
Immagine vivente, misteriosa, dell’uomo.

(trad. Gianna Paola Cuneo)

Gianna Cuneo legge

Gianna Cuneo

Egeo

All’ombra di una petroliera nera
L’attesa
Vento dal mare, sole catrame
Attesa
Gioco di bandiere, gioco di luci
Riflessi
Sapore di porto in gola
Lontane, le montagne viola
Sbiadite
Planata di uccelli bianchi
La mia nave, lenta
Arriva.

agosto 2010

Ombres

Quelque chose d’ancien dans l’air
Dans la force brune des oliviers
Et la parole, de loin ecoutée,
Perdue dans le vent.
Les robes, le draps flottent dans l’ombre
Des jardins. Un être humain passe
Au bord de la mer : ombre.
Loin, les voiles blanches, en fuite
Folles amies de l’espoir…

Poros, agosto 2013

Ombre

Qualcosa di antico nell’aria
Nella forza bruna degli ulivi
E la parola, ascoltata da lontano,
perduta nel vento.
Le vesti, i drappi volano
Nell’ombra dei giardini.
Un uomo passa sul mare – ombra.
Lontano, vele bianche in fuga
Folli amiche della speranza…

(trad. Gianna Paola Cuneo)

Steven Grieco 2

Steven Grieco

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Èin corso di stampa un libro di poesie presso Mimesis editore. indirizzo email:protokavi@gmail.com

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