Archivi del mese: dicembre 2015

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: IN OCCASIONE DEL PERIODO DI FESTIVITA’ IL BLOG SOSPENDE DA OGGI L’ATTIVITA’ E LA RIPRENDERA’ LUNEDI 2 GENNAIO 2016. LA REDAZIONE AUGURA BUONE FESTE A TUTTI GLI INTERLOCUTORI SPERANDO CHE L’ANNO VENTURO CI SI RITROVI IN UN MONDO MIGLIORE, Thanks, gracias, Vielen Dank, grazie, merci, teşekkür ederiz, ขอขอบคุณ, obrigados … con l’occasione del clima natalzio pubblichiamo la poesia di Zbigniew Herbert “Ipotesi su Barabba” nelle 2 versioni: di Valeria Rossella e di Paolo Statuti

zbigniew herbert accende una sigaretta

zbigniew herbert

Zbigniew Herbert

Domysły na temat Barabasza

Co stało się z Barabaszem? Pytałem nikt nie wie
Spuszczony z łańcucha wyszedł na białą ulicę
mógł skręcić w prawo iść naprzód skręcić w lewo
zakręcić się w kółko zapiać radośnie jak kogut
On Imperator własnych rąk i głowy
On Wielkorządca własnego oddechu

Pytam bo w pewien sposób brałem udział w sprawie
Zbawiony tłumem przed pałacem Pilata krzyczałem
tak jak inni uwolnij Barabasza Barabasza
Wolali wszyscy gdybym ja jeden milczał
stałoby się dokładnie tak jak się stać miało

A Barabasz być może wrócił do swej bandy
W górach zabija szybko rabuje rzetelnie
Albo założył warsztat garncarski
I ręce skalane zbrodnią
czyści w glinie stworzenia
Jest nosiwodą poganiaczem mułów lichwiarzem
właścicielem statków – na jednym z nich żeglował Paweł do Koryntian

lub – czego nie można wykluczyć –
stał się cenionym szpiclem na żołdzie Rzymian

Patrzcie i podziwiajcie zawrotną grę losu
o możliwości potencje o uśmiechy fortuny

A Nazareńczyk
został sam
bez alternatywy
ze stromą
ścieżką
krwi

Ipotesi su Barabba

Cosa ne è stato di Barabba. Ho chiesto nessuno lo sa
Libero da catene uscì sulla bianca via
poteva svoltare a destra proseguire dritto svoltare a sinistra
girare in cerchio erompere in un canto di festa come un gallo
Egli Imperatore delle proprie mani della propria testa
Egli Governatore del proprio respiro

Lo chiedo perché in certo modo ho preso parte all’affare
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
così come gli altri libera Barabba Barabba
Acclamavano tutti se io solo avessi taciuto
sarebbe accaduto esattamente quello che doveva accadere

E forse Barabba è tornato alla sua banda
Sulle montagne uccide rapido saccheggia per bene
Oppure ha messo su un negozio, fa ceramiche
e monda nell’argilla della creazione
le mani macchiate dal delitto
È portatore d’acqua mulattiere usuraio
proprietario di navi – su di una Paolo faceva vela per Corinto
oppure – cosa non da escludersi
è diventato una spia preziosa al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il gioco da vertigine del destino
su possibilità potenze sorriso della fortuna

E il Nazareno
è rimasto solo
senza alternativa
con uno scosceso
sentiero
di sangue

(c) by Valeria Rossella

Ipotesi su Barabba

Che ne è stato di Barabba? Ho chiesto nessuno lo sa
Liberato dalla catena si avviò sulla strada bianca
poteva voltare a destra andare dritto voltare a sinistra
fare una giravolta cantare con gioia come un gallo
Lui Imperatore delle proprie mani e della propria testa
Lui amministratore del proprio respiro

Chiedo perché in un certo senso presi parte alla questione
Attratto dalla folla davanti al palazzo di Pilato gridavo
come gli altri libera Barabba Barabba
Gridavano tutti se solo io avessi taciuto
sarebbe successo esattamente come doveva succedere

E Barabba forse tornò alla sua banda
Sui monti uccide in fretta rapina ad arte
Oppure aprì una bottega di vasi
e le mani macchiate di delitti
purifica nell’argilla della creazione
E’ un acquaiolo un mulattiere un usuraio
proprietario di navi – su una di esse Paolo andò dai Corinzi
oppure – ciò che non si può escludere –
è diventato un’apprezzata spia al soldo dei Romani
Guardate e ammirate il vertiginoso gioco del destino
o potenze della possibilità o sorrisi della fortuna

E il Nazzareno
rimase solo
senza alternativa
col ripido
sentiero
di sangue

(C) by Paolo Statuti

 

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Annalisa Ciampalini POESIE SCELTE da “L’Assenza” (2014) “Lezione di fisica”, “Organizzazione del tempo futuro”, “In prossimità”, con un Commento di Flavio Almerighi

Ashraf Fayadh 4Annalisa Ciampalini nasce a Firenze, 15 giugno 1968 si laurea in Matematica presso l’Università degli studi di Pisa e svolge attività di docenza di matematica in un Istituto Tecnico di Empoli.  Nel 2008 ho pubblicato la raccolta di poesie L’istante Si Dilata (Ibiskos Editrice Risolo). Nel 2014 pubblica la raccolta di poesie L’assenza (Giuliano Ladolfi editore) e-mail agnabiba@libero.it

Commento di Flavio Almerighi

La poesia è uno strano soggetto, gode di extraterritorialità, va ovunque vi sia qualcuno disposto a incarnarla o a farla rivivere. Nello specifico, il lavoro di Annalisa Ciampalini è vera poesia. Sensibilissima, chiara, lineare, capace di trasformare spifferi in bufera. Già la conoscevo e apprezzavo, chiunque legga un minimo poesia non può non conoscerla, e la nuova silloge L’Assenza, edita nel 2014 per Giuliano Ladolfi Editore, è una grande conferma del talento di questa ottima autrice. Un libro che, sicuramente nasce da esperienze legate all’intimo dell’autrice, ma “sa” arrivare al lettore senza cedere al diario e diventando condivisione con chi ne legge. Non parlerei di poesia al femminile vera e propria, liquidarla non questa etichetta è una forma di ghettizzazione da riserva indiana. Poesia e basta, e alla vera poesia non si può chiedere di meglio. Quando ho accettato di parlare di questo libro, ho voluto contattare l’autrice, intervistarla per fornire al lettore un quadro esauriente sul “chi”, “come” e “quando” di un’autrice che merita diffusione e audience.

Ashraf Fayadh 3Annalisa Ciampalini da “L’Assenza” Ladolfi editore, 2014

A fatica
ho visto la fine dell’estate
dare senso a orizzonti di mare,
all’ultima luce inclinata
sull’immane rotondità della terra.
mi sfugge adesso
il susseguirsi di vetri
incupito da un cielo plumbeo,
non so come sistemare
il gelo che verrà.
Sempre più vertiginosa
la brevità dell’ansia.
È scaduto l’invito a partecipare
alla pomposa scansione di un tempo
che deve solo finire.

*

Tenere lo sguardo fermo,
chiodo alla parete a puntare
architravi svaniti nell’intonaco.
Non incontrare gli occhi di
nessuno, neanche
un’anima vacua
con cui ragionare la sera.
Impossibile riesumare saluti
che annichiliscono distanze,
la lucente complicità
dell’ora
che precede il vento dell’altro.
Soli,
con la testa stretta al cuscino,
singolo, indivisibile.
mezzo metro quadrato
sopra la coperta.

Annalisa Ciampalini 1

Annalisa Ciampalini

LEZIONE DI FISICA

Si parla di misteriosi neutrini.

Tepore nell’aria e unione di menti,
tra i banchi spira sorpresa
e in gioventù fremente si ferma.

Si parla di inavvertibili neutrini
di muoni sfuggenti, leggerissimi pioni
e ci inondano in sciami tranquilli.

Si frantuma l’aria e ci disorienta,
sfuggono le regole del consueto,
s’impone la mia volontà e sconfina
dettando le sue eretiche leggi.

Ed eccoti qui,
persona o sequenza d’atomi;
vivo e intatto,
vittorioso sulla tua tragica assenza.
Ancora mi è dato di vederti
in questa luce piegata.

*

Le scale mai ti conducono
a scenari inaspettati,
l’affanno si moltiplica.
Le mura hanno la tua forma.
Esci, chiedi ospitalità
a un pescatore della costa.
Oppure fingiti in un mattino diverso,
rabbrividisci per il mare
che giunge al tuo portone.
Nel buio
la montagna avvicina la luna:
per contenerla
il cielo allarga i margini.

Ora è tutto finito
bianco
nero
non importa.
Non più fiori
né una pizza in compagnia
in posti che piegano la luce.
Ora non attendo più
le parole
che credevo mi dovessi dire.
I tuoi silenzi
diventano perenni,
le varie tonalità collassano
in una sola.
Povertà di vita, il tuo volto tende all’astratto.
È ancora possibile ricordare,
inventare.
Sarà una storia struggente
e fragile,
una storia mai esistita.

.
ORGANIZZAZIONE DEL TEMPO FUTURO

Se sarò
più morta di adesso
accoglietemi nella vostra festa
della quale non ho mai capito niente.
So che sarete benevoli.
Accoglietemi
in una festa qualsiasi,

passerò una serata
a veder far baldoria,
ad impiantarmi
nelle schiene nude delle ragazze;

appoggiata contro una parete
ce la farò
a teorizzare una simulazione
di un amore di qualche minuto,
magari di un’ora.

Poi ripartirò,
e sarò ancora io, cascante e rigida,
ma con meno gradini davanti.
Prevedo di passare così
il mio tempo,
fino all’ora in cui
sarò chiamata a restituire il mio nome,

a deporre,
indistinti,
amore e simulazione.

Annalisa Ciampalini

Annalisa Ciampalini

IN PROSSIMITA’

Dal soffitto
lo scalpiccio intermittente di due anime
mute,
la testa di ognuno conficcata nel proprio
ventre.
Prima, una spirale
sul quel pianerottolo si annidava
chiamando i condomini a festa.
Proprio lì, a celebrare il futuro.
Di fronte
un uomo segna gli istanti verso il baratro.
Dai vetri traspare il trapasso imminente,
dietro a quello la fissità del volto.
Attorno
altri sorridono per amori vari o per posa.
Ogni sera, al ritorno,
punto lo sguardo su quattro piastrelle
e da lì sprofonda,
stretta in un gorgo,
la poca vita dei dintorni.
Ci sono sere in cui
nulla accade in quel metro quadrato.
L’esigua vita si è consumata prima,
oppure è fuggita per altre vie.
Nei paraggi solo fatti, cronaca minore.
Per ora nessuno attende un invito.

Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti)

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Giorgio Mannacio AUTOANTOLOGIA DI POESIA “Tracce del mio percorso”, da “Comete e altri animali”, “Materiali da costruzione”, “Preparativi contro tempi migliori”, “Dalla periferia dell’impero”, “Fragmenta mundi”, “Visita agli antenati” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

foto vuoto in altoSono nato nel 1932 in Calabria ma – salvo una parentesi, peraltro significativa, durante la guerra trascorsa nel paese natale – ho vissuto sempre a Milano. Sono stato per oltre 40 anni magistrato. La mia seconda vita – se così si può definire – è quella trasfusa nelle mie poesie e in qualche meditazione semifilosofica. Tale è dunque la mia bibliografia. Recensioni? Quasi nulla e non mette conto parlarne. Ho pubblicato su qualche rivista, molto saltuariamente (Almanacco dello Specchio, Lunarionuovo, Marka, Alfabeta, Il Caffè….). Ho incontrato nomi famosi della poesia, ma non ci siamo fermati a parlare neppure un attimo. Qualche contributo teorico sulla poesia è uscito su Molloy , Monte Analogo e sul blog Poliscritture. In poesia ha pubblicato: Comete e altri animali – Resine – Quaderni liguri di cultura – Sabatelli editore – Savona 1987; Preparativi contro tempi migliori – Aleph Editore srl – Torino-Enna 1993; Storia di William Pera – Campanotto editore – Pasian di Prato ( Udine ) 1995; Fragmenta mundi– Edizioni del leone – Spinea -Venezia 1998; Visita agli antenati – philobiblon edizioni – Ventimiglia 2006; Dalla periferia dell’impero – Edizioni del leone – Spinea – Venezia 2010.

Caro Linguaglossa, busso alla tua porta chiedendo ospitalità. Lo faccio con qualche comprensibile titubanza sapendo che nella “ tua casa “ si parla una lingua un po’ diversa dalla mia. Fuori metafora ti troverai di fronte poesie che messe sul piatto della bilancia la fanno pendere verso la “tra dizione“. Questa è la mia sostanziale di ricerca alla quale mi dedico da una vita. Se non altro sono stato un amante fedele. Non so fino a che punto possa interessarti questa mia tendenza a collegare le immagini al senso delle immagini. So però che sei lettore attento a tale attenzione mi affido. Un cordialissimo saluto.

Giorgio Mannacio

Commento di Giorgio Linguaglossa

L’esordio di Giorgio Mannacio nel 1959 su “Il Verri” è stato fulminante e promettente. Quel giovane avrebbe potuto fare una carriera poetica di tutto rispetto se solo lo avesse voluto e vi si fosse prodigato con tutte le proprie forze. E invece, Giorgio Mannacio ha fatto di tutto per nascondersi. Quarant’anni di magistratura però sono stati utili alla sua musa perché lo hanno costretto ad un esercizio di ascetico rigore lessicale e stilistico: quel rigore metrico tipicamente milanese e quello scandaglio delle profondità geografiche dell’anima tipicamente mediterranea saranno i punti fermi della sua futura evoluzione stilistica, un marchio di fabbrica della ditta Giorgio Mannacio. Una poesia come «messaggio cifrato», che fin dagli esordi si muove in sordina, in sotto tono, in minore, che viene «Dopo la luce al neon», con accenti di un ironisme introiettato e introverso, tipico di chi osserva la poesia dal di fuori, con un occhio interrogativo e ipercritico, come una attività da nascondere, quasi fosse una cosa innominabile, poco raccomandabile, da ascrivere ai «preparativi contro tempi migliori», avverso le ideologie delle sorti progressive e progredibili, «contro i tempi migliori che verranno». Insomma, Mannacio ha preferito l’ombra della domesticità alle luci al neon e ai riflettori della poesia istituzionale ufficiale, ritagliandosi così una invisibilità ricca di sagacia e tenacia, oltre che di artati nascondimenti. E però, a rileggere oggi in questo pur breve percorso ad ostacoli che è questa Autoantologia quel che è stata la sua poesia, viene voglia di approfondire il discorso critico su un poeta così schivo, la cui opera merita senz’altro una pubblicazione riassuntiva che faccia il punto critico di un percorso poetico davvero interessante, che si è mosso a latere e a ridosso delle diramazioni della milanese poesia degli oggetti pur accettandone gli spunti utili alla propria ricerca e adattando l’abbassamento dei registri lessicali e semantici alla propria musa in desabbiglié.

Magritte 4Tracce del mio percorso

Da Il Verri ottobre 1959.

Ad majora

Dopo la luce al neon
hanno inventato un cilindro
di sego o cera vergine che avvolge uno stoppino.
Acceso getta luce: lo chiamano candela.
Dice la gente in dubbio:
dove andremo a finire ?

Da L’Almanacco dello specchio 1977 n. 6

Il testamento di Amleto

Le prove della paternità non mancano;
sui flutti di Elsinore una bottiglia ha mandato
al figlio lontano un messaggio cifrato.
Conosceva il latino, immaginifica mente
sciolta la parola come una lama,
la notte è un imbuto e Ofelia una cometa
che si condensa e figlia nel cielo gelato.
Ogni regno – ricordati – è edificato
sopra lo sterco, oro fino sol che lo tocchi
Creso et sodales.

Da Comete e altri animali ( 1987 )

Materiali da costruzione

E dove l’acqua non scorre più che c’era
il cortile dei vecchi, il lucernario e in sogno
il pensiero del gatto sulla tastiera

là fu trovato un chiodo ed appeso un destino

e il frammento del fulmine, l’ossidiana,
di noi che più non tocca l’ordito dei suoni
poi un mascherone asciutto, la bocca d’una fontana.

Giorgio Mannacio

Giorgio Mannacio

Da Preparativi contro tempi migliori ( 1993 )

Preparativi contro tempi migliori

1.
Era un giorno di meraviglia che incantava
il reticente visitatore,
la residua pietà che lo portava
nel silenzio d’estate a commentare
malattie immaginarie.
Ride bene chi ride l’ultimo e poi
bisogna prepararsi alla guerra
contro i tempi migliori che verranno.

2.
Frugando col bastone in mezzo all’erba
cercava quella radice, forse un fiore
o soltanto il suo nome ( la memoria
ha stremato la forma ed i colori,
non ho tempo per ricordare perché devo
prepararmi alla guerra
contro i tempi migliori che verranno.

3.
Spandeva il suo chiarore galleggiando
nel bicchiere riempito d’olio fino
secondo la misura della notte
e il numero dei morti: erano tanti
che avevano combattuto
contro i tempi migliori che verranno.

4.
Impercettibili movimenti,
un soffio interno a quello stesso ardore
lo portavano a volte sul confine
di quel mondo gentile che poi fu sterminato:
non c’è olio né vino a sufficienza
contro i tempi migliori che verranno.

5.
Una leggiadra dea sotto le stelle
di un altro cielo, un giorno,
mi porse la radice, forse un fiore.
Ma il tempo è già passato; suona in fondo
al corridoio la mia campana. Siete pronti
contro i tempi migliori che verranno ?

Da Fragmenta mundi ( 1998 )

bello città nel traffico

città nel traffico urbano

Tre aforismi per l’Apocalisse

Al tempo, tuo carnefice e tuo dio,
devi offrire ogni cosa:
l’amico che ritorna e il dirsi addio
e la spina e la rosa.

Nell’infinto che nessuno misura
– l’attimo, l’eternità –
quello che appare adesso
non ha tempo di perdersi e così resterà.

La vita è una scintilla
dalle orecchie del gatto;
un cristallo di neve
che nelle mani subito si scioglie.
dunque ad essa la morte
nulla toglie.
Da Visita agli antenati ( 2006 )

Figure fuori campo

A volte i pazzi scorgono
nell’angolo della stanza o dove
un corridoio finisce
– luoghi chiusi, stremati –
ombre che si dileguano o qualcosa di simile.
Non c’è neppure il tempo per richiamarle
Anche se conosciute
Tanto veloce è il moto che le torce e le incalza
( e poi fuga, abbandono,
disperazione, sangue e morte infine
sono da pronunciare a cuor leggero ? )
Per questo, forse, nel medesimo istante
dolcissimo e feroce il loro sguardo brilla.
Patire sorridendo tutto quanto è invincibile
può essere segno di grande saggezza
o invece
fingere anima indomita senza pietà
( lei che sa amare ed uccidere con la stessa
struggente serenità )
Da Dalla periferia dell’impero ( 2010 )

Il compleanno impossibile

Oggi avresti cent’anni: che astrazione
dal mormorio del fiume
in mezzo ai sassi,
dal tintinnante calice
veleno
distillato in attesa dei tuoi passi.
Oggi un’ape tardiva esplora
sopra un fiore reciso
una possibilità
miele sulla ferita.
Ma una foglia di platano può dare
in quell’oscurità ombra gradita ?

Il compleanno possibile

Intorno a noi, sommesse,
le pietà quotidiane ridono.
Guardandosi si scambiano scommesse
sul numero delle candele.
Fuori gli eventi stridono
aggredendo una gioia arrugginita.
Chi di noi – si domandano –
sarà la favorita ?

Da Quadernario 2013

La casa delle vita comune

Hanno sorpreso insieme
il cielo cambiare colore;
le stelle, a grappoli, in alto fiorire,
diviso il letto, il pane, le piccole malattie
illusione di eternità.
Inganni, errori, deboli verità
Si sono presentati al crocevia
scelto per caso con incerta fede
così come gira il vento.
Mai voltandosi indietro a ricordare
Il primo sguardo, il primo giuramento.

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 PASQUALE BALESTRIERE: LE RADICI DELLA POESIA DI DINO CAMPANA (1885-1932). Nel centenario della stampa dei “Canti Orfici” con una scelta delle poesie dell’autore.

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Commento di Pasquale Balestriere

Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare . Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato  un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo”  -autentico, dico-  (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.

Dino Campana (Marradi 1885 – Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni  Turchetta a Luciano  Anceschi, giusto per citarne alcuni.

Ardengo Soffici Chimismi

Ardengo Soffici Chimismi

Ma perché Canti Orfici?

Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici,  era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di  Soffici (morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.

Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo.  Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti   accoliti in più  ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.

È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana. Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici  erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe.  Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti, abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.

Bello Starry_Night by Eugeal

Starry_Night by Eugeal

Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.

Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione –Canti Orfici– adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.

Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.

Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana  o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.

de chirico l'eterno ritornoDino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo  visiva, come pur sostiene qualcuno, ma  visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità,  magari -come nel nostro caso-   venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.

A questo punto si può tranquillamente affermare  che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.

Pertanto, non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.

È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.

(da “I fiori del male”, Anno X, n. 60, gennaio-aprile 2015)

campana_dino1

Dino Campana

Poesie di Dino Campana

LA CHIMERA

Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

GIARDINO AUTUNNALE (FIRENZE)

Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto.
Ella m’appar, presente.

LA SERA DI FIERA

Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni: colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
………………………………………………………………………..
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.

IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA

…poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
…………………………………………………………………………………….
E si distingue il loro verde canto.
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!…
…………………………………………………………………………………….
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…

VIAGGIO A MONTEVIDEO

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte tenebre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo della portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune …………………………………………….

FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI

Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.

Pasquale Balestriere 1

Pasquale Balestriere

Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Viene infatti eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore. Nel 2000 viene chiamato a ricoprire la carica di Difensore Civico del suo Comune.
Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).

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Velemir Chlebnikov nella poesia di Gennadij Ajghi (1934-2006) traduzione a cura di Paolo Statuti e Presentazione di Dmitrij Aleksandrovič Paškin

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Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-

Questa è la mia traduzione di un articolo del musicista e storico della letteratura russa Dmitrij Aleksandrovič Paškin, nato nel 1977. L’articolo è del 2002. (Paolo Statuti)

Presentazione di Dmitrij Aleksandrovič Paškin

…Tra gli autori che hanno dedicato i propri versi a Velemir Chlebnikov troviamo anche Gennadij Ajghi, uno dei poeti contemporanei più interessanti. In occasione del centenario della nascita di Chlebnikov, nel 1985 egli scrisse un saggio, pubblicato in Russia soltanto nel 1994, dal titolo Foglie al vento della festa, inserendovi un ciclo di sette strofe basate su un tema unico, con una propria valenza creativa e una profonda autoanalisi. Fanno da contrappunto a questi versi l’immagine degli occhi azzurri: “…e risplende l’anima dagli occhi azzurri…”, “…innumerevoli e solitari – gli occhi di Velemir…”. Tutto il testo del ciclo si tinge di azzurro, fin dalla prima strofa. Una delle fonti di questa immagine la troviamo nella biografia di Chlebnikov: la maggior parte dei contemporanei, descrivendo i lineamenti del poeta, invariabilmente si soffermavano su questo dettaglio degli occhi azzurri; basta ricordare il famoso paragone di David Burljuk “occhi come un paesaggio di Turner…” Per Ajghi gli occhi di Velemir sono limpide stelle; questa comune metafora assume un accento sorprendente, quando il discorso cade proprio su Chlebnikov. Questa profondità, purezza, qualcosa di primordiale, gli era insito, come a nessun altro; persone così diverse tra loro come Nadežda Pavlovič, Anatolij Marienhof, Vadim Šeršenevič, Ivan Gruzinov, – tutti vedevano nei suoi occhi come lo splendore dell’eternità o, più esattamente, una certa atemporalità. V. Šeršenevič: “Chlebnikov fissa lo spazio con i suoi occhi abbagliati”; N. Pavlovič: “Era sorprendente. Proprio gli occhi di un bambino e di un chiaroveggente”…Ma in Gennadij Ajghi gli occhi costantemente si trasformano e assumono i lineamenti del volto…: “e sempre più luminosa è l’immagine, sempre più diafana…” Ciò che colpisce è che il volto di Chlebnikov risulta in qualche modo anche il volto di Ajghi. “In ogni sua pagina-quadro appare il volto del mondo, il volto di Dio…”, scriveva V. Novikov. E nella seconda strofa del ciclo dedicato a Chlebnikov, egli dice: “anch’io sono un po’ il volto!” – Ajghi guarda Chlebnikov e vede se stesso; il poeta a un tratto mostra non semplicemente l’affinità creativa o la comunanza delle concezioni, no, Ajghi vede in sé e in Chlebnikov lo stesso Volto: quello della Poesia, dell’Universo, l’immagine dell’infinito…In Ajghi troviamo un gran numero di richiami a concrete creazioni di Chlebnikov. Un altro refrain del ciclo è rappresentato dalle parole ripetute due volte: “ferito dalle pallottole assonnate di Chlebnikov”… La profondità dell’immagine si decifra soltanto attraverso un richiamo a un contesto storico. Ajghi come studioso era sicuramente a conoscenza della reazione di Majakovskij (riferita da Roman Jakobson), dopo aver letto un frammento del poema Sorelle-folgori di Chlebnikov: “Ah, se sapessi scrivere come Vitja!..” Per Majakovskij una confessione decisamente fenomenale, unica, assolutamente priva di analogie! E ciò fu detto a causa dei seguenti versi di Chlebnikov: “Dalla strada dell’alveare//Pallottole come api.//Vacillano le sedie…” Da queste pallottole risultò ferito anche Ajghi: egli fece esattamente eco alle parole sfuggite a Majakovskij, stendendo attraverso decenni il filo del riconoscimento e dell’entusiasmo per l’acutezza e la precisione della frase poetica di Chlebnikov. Ma il refren conduce oltre; nel finale del ciclo sono indicate le circostanze e il luogo dell’azione: la periferia di Mosca e la necessità di alzarsi il giorno dopo alle nove del mattino. Organizzando con questa indicazione un particolare cronotopo, Ajghi sposta il testo in una realtà del tutto diversa, nel mondo del sonno, gettando un ponte dalla realtà del lavoro notturno, finché è buio, al mondo ultraterreno e sonnolento dell’ispirazione poetica…

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Evgenia Arbugaeva Weather_man

Il tema del sonno occupa nella poesia di Ajghi un posto del tutto particolare, è uno specifico stato della coscienza, è la chiave per capire tutta la sua creazione; egli stesso dice: “Il sonno per me è un genere…” Nel ciclo Foglie al vento della festa, non possiamo non rilevare la parola “дорози” (strade) dell’antico slavo, anziché “дороги” (strade) del russo moderno, usata da Chlebnikov nella sua poesia O Rus’, sei tutta un bacio nel gelo.. (1921) e ripresa due volte da Ajghi nella seconda strofa del ciclo tra virgolette. Anche qui egli mostra in primo luogo ancora un’altra fonte chlebnikoviana del suo “colorito” poetico e, in secondo luogo, si serve di un tratto tipico della poetica di Chlebnikov: l’amore per i termini del vecchio slavo, per l’antico russo. Non a caso appare anche la frase sulle “leggi del tempo” e l’immagine della struttura del verso, così importante per la tarda creazione di Chlebnikov.

Il ciclo del giubileo è non solo un omaggio al Budetljanin, ma anche una riflessione sulla creazione poetica nella sua categoria superiore, una riflessione sulla eterna e creativa auto espressione dell’anima. Svelando di poesia in poesia tutti i nuovi tratti della creazione di Chlebnikov, Ajghi al tempo stesso mostra il suo ritratto e il colloquio acquista qualitativamente un’altra dimensione: il discorso si avvia subito in nome di due anime affini che contemplano l’eternità: in nome di Ajghi-Budetljanin, in nome del Poeta. Immergendosi interamente nella propria creazione, Ajghi, come Dante dietro a Virgilio, procede dietro a Chlebnikov – guida, esamina l’occulto, dove trova non tanto un alleato, quanto le stesse profondità dell’Io. “E i suoi sogni – sogni di beatitudine”, scriveva l’autore a proposito di Chlebnikov. Tale beato e puro suo sogno di Velemir, sogno di se stesso e, in fin dei conti, dell’Anima cosmica, primordiale, traspare dai versi di Gennadij Ajghi, asceticamente parchi, ma brucianti come acido cloridico, vaghi e irritanti , come il ricordo dei sogni dell’infanzia. 

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Evgenia Arbugaeva Weather_man

Presentazione di Paolo Statuti

     Gennadij Nikolaevič Ajgi, il poeta nazionale della Ciuvascia, nacque il 21 agosto 1934 nel villaggio di Šajmurzino nella Repubblica dei Ciuvasci. Trascorsa l’infanzia nella sua terra natale, è rimasto sempre legato alla cultura ancestrale e alla lingua ciuvascia. Fino al 1969 il suo cognome fu Lisin. Uno degli antenati del poeta pronunciava la parola “chajchi” (“quello”) senza la prima lettera, e così si formò il soprannome di famiglia “Ajgi”. Egli cominciò a scrivere poesie in ciuvascio e pubblicò i suoi primi versi nel 1949. Dal 1952 visse stabilmente a Mosca. Dal 1960 cominciò a scrivere poesie anche in russo, grazie soprattutto all’incoraggiamento di Boris Pasternak, da lui conosciuto anni prima e che diventò suo grande amico. Ma per la sua poesia innovativa Ajgi fu accusato di formalismo e dichiarato persona non grata nella sua Ciuvascia, i cui campi e boschi pervadono la sua creazione. Per dieci anni lavorò al Museo Majakovskij, ciò che gli permise di approfondire la sua conoscenza dell’avanguardia russa della prima parte del XX secolo. La moderna poesia francese (soprattutto Baudelaire) ebbe anch’essa su di lui un’influenza determinante, ma il suo personale panteon includeva anche Nietzsche, Kafka, Norwid, Kierkegaard e molti scrittori religiosi.

Nel 1972 vinse il premio dell’Académie Française per la sua antologia della poesia francese in ciuvascio. Durante gli anni di Brežnev visse in condizioni precarie, mantenendosi con i magri compensi per le traduzioni. Grazie alla perestrojka la sua vita cambiò radicalmente. Gli fu permesso di pubblicare in patria e fu riconosciuto come una figura chiave della neoavanguardia russa. Cominciò a essere tradotto in molte lingue e a partecipare a diversi festival e congressi internazionali di poesia. Visitò quattro volte la Gran Bretagna, sentendo una particolare affinità con la Scozia, dove fece un pellegrinaggio alla tomba di Robert Burns, e con Londra, la città del suo amato Dickens. Sei volumi delle sue poesie sono stati pubblicati in inglese.

Gennadiy-aygi

Gennadij Ajgi anni Settanta

Gennadij Nikolaevič Ajgi

Ajgi è rimasto una figura controversa. Scrivendo come tra il sonno e la veglia, egli creò una poesia piena di silenzi, che suggerisce visioni, ansietà e gioie, e che può essere diversamente interpretata. La sua poetica è pacata e semplice, rifiuta la ricchezza del lessico e la retorica di alcuni suoi contemporanei, inoltre è intensamente orale – il pubblico era affascinato dalla sua potente dizione. E’ il poeta del silenzio e della luce. Una delle sue raccolte porta una epigrafe attribuita a Platone: “La notte è il tempo migliore per credere nella luce”.

Tradusse in ciuvascio molta poesia russa, francese, ungherese e polacca e i sonetti danteschi, mentre le sue poesie sono state tradotte nella maggior parte delle lingue europee. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi internazionali e nel 2000 è stato il primo a ricevere il Premio Boris Pasternak. Scrive Damiano Rebecchini: “Pur vicina alla lirica francese del Novecento, la poesia di Ajgi è profondamente radicata nella tradizione poetica russa, ispirandosi in particolare all’opera di Osip Mandel’štam e di Boris Pasternak. Caratterizzata da un intenso impressionismo lirico, essa accoglie spesso dalla natura suoni e suggestioni che generano un tessuto fonico e ritmico accentuato dal verso libero, e a volte si muove verso un originale sperimentalismo, in alcuni casi orientato a esplorare la dimensione del sogno”.

“Col passare degli anni è cambiata la mia definizione della poesia, – disse il poeta in una delle interviste. – Prima dicevo: è la gravità della parola, adesso dico: la poesia è il respiro e l’uomo è il respiro. Respiro e ispirazione provengono dalla stessa radice… La poesia è il respiro di Dio. Noi fioriamo / soltanto per un tocco / di un’altra forza benevola e pacata, – ricorda Ajgi, – e l’essenza della poesia è questo tocco… La poesia è eterna… Essa come la neve – esiste dappertutto. Si scioglie, di nuovo cade, ma essa…è. La poesia è la neve. La poesia essenzialmente non cambia. Essa si autocustodisce. Ciò che in essa passa – è un’altra faccenda. E in questo senso la poesia non ha né ieri, né oggi, né domani”.

In italiano alcune poesie di Ajgi sono incluse nelle raccolte Poesia russa contemporanea da Evtušenko a Brodskij, a cura di G. Buttafava (1967) e Antologia ciuvascia. I canti del popolo del Volga, a cura di A. Scarcia (1986). Gennadij Ajgi è morto a 71 anni il 21 febbraio 2006. Come di consueto pubblico qui alcune sue poesie nella mia versione.                                

Gennadij Nikolaevič Ajgi 6

Gennadij Nikolaevič Ajgi

Gennadij Ajghi

 Foglie al vento della festa

(Nel centenario di Velemir Chlebnikov)

1

il fuoco come esclamativo di Chlebnikov

2
con l’azzurro dell’anima di Velemir
tagliano infantili – candide
con suono innocente strade *
è la voce di un bambino e il saggio
sguardo di un contadino! e le strade
nello stesso Campo – Russia
si uniscono e divergono:
con l’immagine lontana di Velemir!
anch’io sono un po’ il volto! talvolta
come se dal dolore già quasi musorgskiano!
e tagliano – come curano – la tristezza in taciti campi
nelle strade del volto chinato – in questo minuto
dall’azzurro celato – le strade *

3

ferito dalle “pallottole assonnate” di Chlebnikov
sussulto – visibile
dagli angoli – creati con impulsi
dalla frana del sonno! – schiarendosi
di bianchezza – interrotta da una quantità
di immagini dell’anima dalla profondità dell’oblio
penetranti – senza volti

4

ma le stelle

limpide (ed eterne saranno
se
il Tempo si annullerà) limpidi
innumerevoli e solitari –
gli occhi di Velemir
l’Ultimo
il Primo

5

“l’intelaiatura io ho posto” tu stesso dicevi
delle poetiche travi
di tronchi di metafore che splendono – solide
con suono vasto – naturale
come l’aria – nel tempo della messe!
puro legname “da lavoro”
più del novantapercento
nel quale il tritume degli obbligatori “poetismi”
non c’è – come non c’è il lusso
in una casa di contadini

6

e risplende l’anima dagli occhi azzurri
dalla rete delle illusorie “leggi del tempo”
e sempre più luminosa è l’immagine: sempre più vicina
e più trasparente che ha amato la spiga come un bambino

7

ferito dalle “pallottole assonnate” chlebnikoviane
finisco di dire – sussultando
per le estremità e i distrutti centri
del sonno che vede e del sonno
che non vede – disperdendo – me
e l’operazione – svegliarsi
il 29 alle 9
di mattina a Mosca – in periferia

23-29 settembre 1985, Mosca

* Nel testo russo: „дорози”, anziché “дороги”.
(Versione di Paolo Statuti)

Poesia di Velemir Chlebnikov

O Rus’, sei tutta un bacio nel gelo!

O Rus’, sei tutta un bacio nel gelo!
Azzurreggiano le notturne strade. *
Da un lampo azzurro le labbra sono fuse,
Azzurreggiano insieme quello e quella.
Di notte un lampo si sprigiona
A volte dalla carezza di due bocche.
E le pellicce a un tratto avvolge agile,
Azzurreggiando, un lampo senza sensi.
E la notte splende saggiamente e nera.

Autunno 1921

* Nel resto russo: “дорози”, anziché “дороги”

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Marco Onofrio commenta “Le notti romane” (Bompiani 1960, riedizione EdiLet 2015): repechage di Giorgio Vigolo

Cogito a Roma

Roma, scorcio del foro romano con chiesa e statua di Cesare

A quasi trentatre anni dalla morte, è arrivata l’ora di fare i conti con la grandezza dimenticata di Giorgio Vigolo. Poeta, narratore, critico musicale (si legga il suo Mille e una sera all’opera e al concerto), traduttore indimenticabile della poesia di Hölderlin (su cui ha scritto uno splendido saggio introduttivo, pubblicato nell’edizione Oscar Mondadori dell’autore tedesco), valorizzatore di Giuseppe Gioachino Belli al rango di Poeta con l’iniziale maiuscola (oltre il riduttivismo vernacolare in cui, fino ad allora, veniva ghettizzato), Vigolo è – a tutti gli effetti – una delle “voci nascoste” più interessanti e significative del Novecento italiano. E ce ne sono di scrittori dimenticati da rileggere! La fortuna postuma dipende da svariati fattori, in parte casuali, in parte legati al sistema di convenienze critiche preposto alla storicizzazione, su cui influisce non poco la capacità di pubbliche relazioni dell’autore, e le pubbliche relazioni effettivamente intessute dall’autore in vita (o dagli eredi, dopo la sua morte).

roma La grande bellezza 2

Roma, fotogramma di La grande bellezza

Vigolo è stato uno degli autori più schivi e riservati del Novecento. Non a caso Magda Vigilante, responsabile dell’“Archivio Vigolo” presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, ha scritto un saggio biografico e critico dal titolo L’eremita di Roma. Vita e opere di Giorgio Vigolo (Fermenti, 2010). Questo spiega solo in parte l’oblio che si è posato, silenzioso come la polvere, sulla bellezza di opere come Conclave dei sogni e La luce ricorda, per la poesia, o Spettro solare e La Virgilia, per la narrativa; il resto si spiega con l’inattualità della sua scrittura colta, raffinata, lussureggiante, intrisa al midollo di una qualità letteraria lontana anni luce dagli sviluppi contemporanei del mercato editoriale. Eppure proprio questo anacronismo dovrebbe incuriosire e spingere, per attrazione dell’opposto complementare, alla riscoperta.       

Ne Le notti romane (Bompiani 1960, ripubblicato a giugno da EdiLet, Roma, pp. 196, Euro 14, a cura della succitata Vigilante) è possibile saggiare appieno la prosa lirica e visionaria di Vigolo, giocata nell’accensione della sua splendida potenza evocativa. Protagonista assoluta dei 15 racconti di cui consta il volume è una Roma onirica e misteriosa, ricca di anfratti simbolici, di scarti temporali, di sprofondamenti. Il racconto vigoliano si configura come avventura metafisica: «Cercare l’ignoto nel noto; immaginare che accanto alle strade, dove avevo tante volte passeggiato fin dall’infanzia, potessero esisterne altre così diverse e maravigliose». La realtà nota offre all’improvviso un varco per le dimensioni dell’ignoto. Ci sono crolli improvvisi, frane maceranti che aprono crepacci spazio-temporali, oltre i quali si penetra in altre dimensioni, parallele a quella diurna e normativa. Da qui, l’inganno delle cronologie: è «solo apparente» scrive Vigolo «la continuità della storia». La scrittura di questi racconti nasce da un’attitudine al meraviglioso: nel racconto “Il sogno delle formiche” si parla di «singolare disposizione alla penetrante lettura dei simboli e alla interpretazione ispirata delle figure». La realtà offre continui messaggi: presentimenti, avvertimenti, sibili, «istanze oscure del silenzio», «raggi dell’invisibile», apparizioni, mormorii, voci lontanissime che riverberano attraverso i muri… L’impianto visionario determina il rapido trascorrere delle immagini «fluenti le une nelle altre».  

Roma ora di pranzo di Angela Greco

Roma ora di pranzo, foto di Angela Greco

C’è un continuo confronto tra esterno e interno: tra la città oggettiva, piena di tenebrosi misteri, e la «città che profondissima sta nascosta nell’interno di noi»: questa Roma di fuori e questa Roma di dentro «si vengono incontro fino a combaciare sul limite vertiginoso della visione».

E la visione è fluida e incerta, “in fieri”: come quelle che – nel racconto “Il pavimento a figurine” – si compongono dai disegni delle mattonelle alla luce della candela, nottetempo, per poi sparire alla luce del sole, l’indomani. L’articolazione degli interni viene spesso complicata ad arte: spazi labirintici, scale a chiocciola, sfilate di stanze e corridoi, meandri, ingressi senza uscita, dislivelli planimetrici per effetti di catabasi e anabasi. Le case avviluppano e nascondono una dimensione ctonia: nel racconto “Il Plutone casereccio” c’è una cucina sotterranea e, più in fondo ancora, la legnaia (che poi a un certo punto si allaga, per una piena del Tevere). E appartamenti sterminati: «da un capo all’altro della casa era un viaggio». E camere dimenticate dove nessuno mai mette piede: Vigolo circoscrive l’«aldilà spaventoso» delle case e della stessa città (svelandone la topografia sconosciuta, i rioni segreti, le zone nascoste; e insomma la Roma arcana e misteriosa dove si possono incontrare persone che in realtà sono morte da tempo). Ecco il «tenebrore», il terrore oscuro, l’orrore, il «gricciore», il ribrezzo, l’antico raccapriccio. E l’esperienza del buio fino al completo smarrimento, l’«oscuro infinito dell’anima» dove sparire, diventare invisibili, diversi e insoliti a se stessi, senza più nome (che già racchiude e veicola un destino). Ed ecco personaggi spaventevoli come il cuoco Bernardo. E la “scena primaria” che il protagonista, bambino curioso, scopre con sgomento quando sorprende Bernardo aggrovigliato lì in cucina, «in uno strano groppo di membra, quasi berniniano», con la sua amante Prosperina.  

Roma foto di Angela Grieco

Roma, ora di pranzo, foto di Angela Grieco

Soprattutto nella parte iniziale del libro i racconti trasudano di tinte oscure, che spesso risaltano in modo così assoluto da diventare luminose: Vigolo scrive di «fulgore nero», di «cupo brillio», di «nero fluido e splendente». E il nero viene posto di preferenza a contrasto con il rosso, il colore del fuoco, del sangue, della ferocia. Rossa è la camera dell’anima, rossa la carne della memoria, rossa la vergogna del peccato. L’eros è un drappo rosso che nasconde la macchia nera di thanatos: un passaggio intensamente “barocco” del racconto “Il palazzo di campagna” esibisce i corpi stupendi di alcune donne nude in mezzo all’erba, le «incantate fenici» che però, a guardarle da vicino, sono «róse di piaghe vive, di rossi guidaleschi che rompevano il superbo velluto della pelle morata». Come non pensare alle tele di Scipione? Una immedicabile cicatrice della memoria (legata a una grave malattia dell’infanzia) catalizza la dimensione irreale per cui la narrazione procede come regesto cauterizzato di un sogno, se non di un incubo, o un delirio. L’atmosfera cupa e onirica alla Hoffmann (di cui Vigolo traduce, nel 1944, Meister Floh) non impedisce allo sguardo le possibilità di godimento della vita, si tratti di carne, materia, luce, anima o natura, in ragione di una bellezza che occhieggia rapida tra gli anfratti tenebrosi della morte o, peggio, dell’agonia, dal cuore decadente o putrefatto delle cose; si leggano a riprova certe gustose descrizioni dei cibi e dei loro effluvi, gli arrosti fumanti governati da Bernardo sugli spiedi, e il «rosso vivo dei rocchi di carne», i «rosei quarti di agnello», le «nevi delle ricotte», «l’odore del caviale e dei tartufi, il fumo saporoso degli arrosti e dei fritti», e ancora – al mercato di Campo di Fiori – «il sanguigno delle carni appese, il luccichio dei pesci, i fasti delle verdure e delle frutta, le gloriose montagne d’oro degli aranci», etc. La sensualità avvolgente di questi “semi” vitalistici riporta alla percezione ipnotica del loro “incanto”.  E la percezione ipnotica sgorga da un’«avventura dell’occhio», come la definisce lo stesso Vigolo: dal guardare affascinati, cioè, il gorgo della vertigine, senza riuscire a staccare gli occhi da ciò che è tanto più affascinante quanto più interdetto alla conoscenza. In questo stato di estatica contemplazione gli oggetti emanano un irresistibile fluido magnetico, e la percezione si allarga ai palpiti cosmici, alle stratificazioni pulviscolari dei cieli, alle più sottili vibrazioni energetiche. Ecco l’io narrante (spesso io agente) avvolto da cerchi del tempo «sempre più vasti e perduti», ad abbracciare secoli sepolti.

Roma archi tesi di Angela Greco

Roma, archi tesi di un tempio antico, foto di Angela Greco

«Così mi ricordo che, nella prima giovinezza, se uscendo dai quartieri moderni mi trovavo fra le rovine del Foro o nelle immense aule delle Terme spaccate sul gran silenzio del cielo, avvertivo in quel brusco trapasso uno sconcerto di tutti i miei pensieri; la misura del tempo si mutava in me profondamente, dilatandosi in cerchi sempre più vasti e perduti; l’età di quelle pietre, di quegli sparsi ossami fuggiva da me, si arretrava in una terribile lontananza.

  Mi pareva che non soltanto quindici o venti secoli, bensì una durata infinitamente più vasta e non misurabile si aprisse fra queste due lontane sponde del tempo».

C’è una dialettica creativa, all’interno dello stesso soggetto, tra memoria reale e memoria metafisica. Da un lato egli cerca di drenare il tempo interiore per tentare di farne un “atlante” o almeno una mappatura: le acque buie e profonde della memoria costituiscono, peraltro, una miniera gigantesca e inesauribile, il cui scavo non può finire mai. Ecco il movimento analitico della memoria: «risalire il tempo, riandare il fiume a ritroso: una ritessitura attenta del passato, filo per filo, trama per trama, fino a ricomporre indietro il disegno delle figure disperse». Ecco le nebbie delle memorie infantili che si nascondono tra i sogni, e l’aura delle «prime apparizioni» dei luoghi della città. Dall’altro egli accede alla memoria metafisica, oltre il tempo, anzi, senza tempo, che si apre a squarci inaspettati e lampeggianti: è ciò che «la luce ricorda».

«Diventa un’appassionante caccia ai ricordi, un rinnovarsi delle sorprese nella memoria, andare ricercando in fondo a noi le prime apparizioni dei luoghi della città. Quale fu la prima volta che a me che abitavo in una parte opposta e lontana, sulle rive del Tevere, mi si aprì innanzi, immensa e silenziosa, la Piazza del Laterano, col suo grande obelisco, i palazzi, l’antica basilica con la sua loggia e i due acuti campanili? Forse solo con un assiduo pensiero riuscirei a far rinascere, a far riprendere colore in fondo a me, alla immagine impallidita, così remota che si confonde con tante scene che ho immaginato poi e veduto come presenti, di episodi che si svolgono nell’alto medioevo proprio lì al Laterano. La fantasia, la memoria, il sogno, la storia si compenetrano: ma, certo, si ha l’impressione di risalire, risalire negli anni verso l’impersonale, verso ciò che la luce ricorda dei luoghi che da tanti secoli illumina, e sconfinare così oltre la propria esistenza».

roma 1

Roma ora di pranzo, foto di Angela Greco

Si risale dunque verso l’impersonale, oltre la propria esistenza: e questo ci consente di assistere, dopo secoli, alla «identica scena che già prima s’era svolta in quel medesimo luogo». E si “rivivono” epoche e fatti che ci pare di aver già vissuto. Ecco, ad esempio, nel racconto eponimo, la Roma spopolata e tenebrosa dell’anno Mille, dove si aggirano figure grottesche (i «soldatoni ostrogoti», la «baldraccaccia pinguissima») e poi appare il Moro, a piazza Colonna, il mago «incantadiavoli» con il suo spettacolo notturno «strano e meraviglioso» dinanzi alla folla che da ogni parte accorre, tutt’occhi: i bassorilievi della colonna si animano, la colonna gira vorticosa, Venere incatenata canta dentro la colonna e sorge dalla colonna in fiamme. E poi, ancora, si apre una voragine abissale, un «infero Olimpo nascosto sotto la crosta di Roma che si è spaccata su di esso come un cratere».

Ora Vulcano è tornato laggiù nel vero antro della sua fucina stridente, che prima comunicava con la Colonna: bellissimo si vede Apollo come un grande topazio, un lampo di sole nella notte; Marte quasi un rubino rovente; e così le altre divinità, incastonate quali gemme e diamanti in quel sistema di cieli carbonizzati. Ma, pure allo stato fossile, di minerali e pietre preziose nelle ganghe della terra, essi sono là sotto radianti con tutti i loro influssi sotto le mille chiese e le catacombe e il Laterano e il Vaticano; sempre intesi a filtrare con i loro raggi sepolti attraverso le pietre e le mura, pronti, al richiamo dei maghi, a risuscitare di notte per le strade della loro città, fra le rovine dei loro templi, sempre adorati da segreti fedeli e resistenti a tutte le più potenti maledizioni, agli esorcismi, alle purificazioni, agli anatemi.

  Venere, così, nella notte di primavera era tornata a trionfare sulla sua città, ove il nome di Amor è misteriosamente capovolto; e una folla idolatra l’aveva ancora adorata, aveva fremuto e pianto a vederla martirizzata e in catene. Ora era discesa di nuovo nell’Olimpo sotterraneo a stendersi azzurra sul suo letto d’oro, ricongelandosi a poco a poco nel suo splendente zaffiro. E la voragine si era richiusa.

  Al tempo stesso la gran vampa sulla Colonna Antonina si contrae, si accorcia, si abbassa, risucchiata dentro la botola. E la notte ritorna tacita e ombrosa. La folla si dirada facendo segni di croce, mormorando orazioni.

Giorgio Vigolo_copertinaDa ultimo, a concludere e sciogliere il fatto, s’impone l’esorcismo solenne del papa sulla piazza «dove tutto quel diavolèrio era accaduto». È in gioco l’eterna belligeranza tra “spirito” e “anima”, vale a dire tra “forma” e “vita” contrapposte: ovvero tra il riduzionismo marmorizzante della Roma cristiano-cattolica e la complessità fluida della soggiacente Roma pagana. Una dialettica creativa oppone anche l’elemento pesante, plumbeo, cupo, all’elemento leggero, volatile, luminoso. Roma, dunque, può apparire come una città spettrale e terrorizzante, oppure trasfigurarsi nello slancio metafisico dei suoi elementi (cupole come vele, figure che volano, angeli, sfingi, riflessi cangianti sulle strade e sui palazzi, etc.). Vigolo utilizza l’acqua come un veicolo onirico-ancestrale, e la inserisce nel ciclo cosmico delle energie in movimento: «pioggia, acqua, memoria, che dal cielo ritorna, che al cielo risale; grandi fiumi del sogno, quale mistero!». È una scrittura che obbedisce alla sua tensione elementare, il «sentimento originario che attende d’arrivare alle sponde d’un mare ignorato», per cui cattura i «rapporti primari di terra e acqua», ma anche la tessitura viscerale della materia, sino al freddo vegetale, il velluto molliccio dei funghi, l’intrico dei rami, il verde cupo delle foglie.

 Roma, col suo nome di Venere capovolto, è la civiltà millenaria che si contrappone alla natura delle campagne circostanti, dove talvolta la scrittura vigoliana si addentra con intenti esplorativi, come attratta da un impulso di rigenerazione. La grande Storia di Roma si sgrana nella tessitura infinita delle sue storie, dei suoi miti e dei suoi riti. Vigolo scrive: «Tutto in questa città è un rituale». Ecco le favole e le leggende, cioè i «sogni delle mura» di cui sono impregnate le vecchie case di Roma: storie che provengono da fatti remoti di cui si è persa la memoria, come ad esempio il caso di Costanza De Cupis «dalle belle mani»

Roma foto di Giorgio Chiantini

Roma, foto di Giorgio Chiantini

«Un pomeriggio ella stava sola alla finestra attendendo a quel suo ricamo: guardava la bella piazza, era sollevata, esente per un momento dalla sua pena: dalle case di fronte, a ponente, veniva una grande luce dal sole che stava calando. A un tratto ella vide le sue mani così illuminate su quel fiammeggiante sanguigno bagliore della porpora ed esse le parvero più belle che mai; talmente belle che ne ebbe quasi sgomento e in quel momento stesso le sembrò di udire distintamente la terribile voce che le ripeteva: “Meglio assai tagliar via quella mano…”

  Nel tremito improvviso che tutta la scosse, fu come se una volontà distruttiva e vindice fosse paurosamente entrata in lei; e si punse profondamente con l’ago, si trafisse nella carne viva. Parve sul momento cosa da nulla; ma la puntura andò a male, la bellissima mano fu enfiata e deforme. Annerì. Per salvarle la vita fu necessario decidersi al taglio; senza per questo scongiurare la peggior sorte, poiché Costanza in breve ne morì».

Dall’insieme dei racconti emerge una visione complessa della vita, che secondo Vigolo è piena di incongruenze, tanto che «su dieci atti che facciamo, di nove ci dobbiamo pentire». La complessità umana, in particolare, è fondata sull’ambivalenza: «terribili inimicizie si chiudono dentro lo stesso petto», dacché siamo abitati da forze contrarie che si con-tengono nello sforzo sempre irrisolto di contrapporsi. Questa radice profondamente umanistica è come un fiore di classicità eterna, cioè di umana “maturità” (nella sua misura omnicomprensiva), che sboccia dalle radici oscure e fantastiche del romanticismo di cui è intrisa la scrittura di Vigolo. Egli stesso certifica la sua natura “bifronte”, ammettendo di essere, a un tempo, una «vecchina innocua» e un «cocchiere satanico».

«La grande chiesa a poco a poco si vuota. Sugli altari spengono le candele. Anche quei ritratti sulle pareti, non si scorgono più.

  Allora, sotto le arcate che il buio dilata a maggior dismisura, una vecchina sola si nasconde a pregare; a sentirsi già nell’oltrevita, circondata da spiriti e abituarsi così all’amorevole vasta tenebra dell’ultima pace, vegliata da un solo vacillante lumino.

  Oh, grande misericordia dei templi per i poveri corpi affranti, attenuati dai digiuni e dai mali: oh, grande misericordia.

  La vecchina, qui, è l’unico luogo dove possa venire in un’ora tetra come questa, nella sera che è così spietata nelle strade dove ella fu giovane.

  Viene qui dentro come in una reggia sua: ha per sé sola tutta la tenebrosa scintillante dimora; e può sognare la morte, senza più avere spavento.

  Però torna sempre a confessarsi di quel caro peccato che fu la sua gioventù; quel peccato così grande che non le basterà – ella crede – un’eternità di fiamme a scontarlo.

  E quando esce dal duomo, l’ultima sua tentazione le fa ancora vedere lì fuori, ferma ad attenderla, la bella pariglia di rovani sbuffanti e un cocchiere satanico, frusta in mano e coccarda sul cilindro, che l’aiuta a salire.

  Io sono insieme quel cocchiere e quella vecchina».

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FLAMINIA CRUCIANI AFORISMI SCELTI da Lapidarium (puntoacapo, 2015) Commento di Tomaso Kemeny con un Preambolo impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto New York City

New York City

Flaminia Cruciani. Romana, si ė laureata in Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico, presso Sapienza Università di Roma sotto la guida del Prof. Matthiae. Ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Archeologia Orientale nella stessa università per poi perfezionare i suoi studi con un Master di II livello in “Architettura per l’Archeologia – Archeologia per l’Architettura” per la valorizzazione del patrimonio culturale. Per lunghi anni ha partecipato alle annuali campagne di scavo in Siria, in qualità di membro della “Missione archeologica italiana a Ebla”. Ha poi conseguito una seconda laurea triennale in “Storia dell’arte” ed è attualmente iscritta per il conseguimento della magistrale. Presso la stessa università tiene annualmente corsi sul rapporto tra l’iconografia e il testo nella tradizione mesopotamica. Si è specializzata inoltre in Discipline Analogiche, attraverso lo studio dell’Ipnosi Dinamica, della Comunicazione Analogica non Verbale e della Filosofia Analogica, conseguendo il titolo di Analogista, una professione di aiuto per la lettura e la decodifica delle dinamiche emozionali profonde. Da diversi anni è operatore certificato di Psych-K. Ha inoltre inventato il “Noli me tangere®”, uno strumento fondato sul potere evocativo delle immagini in grado di favorire il processo di individuazione della persona. Nel 2008 ha pubblicato Sorso di Notte Potabile, ed. LietoColle. Suoi testi letterari sono presenti in numerose antologie, fra cui la recente 42 voci per la pace, ed. Nomos. È stata selezionata fra i giovani poeti italiani contemporanei per il Bombardeo de Poemas sobre Milán, opera del collettivo cileno Casagrande. Esponente del movimento mitomodernista, è tra i fondatori e gli ideatori del Grand Tour Poetico e della Freccia della Poesia.

Prefazione di Tomaso Kemeny

 In questo “Lapidarium” non si raccolgono pietre per lapidare prostitute, omosessuali, idolatri, apostati, pedofili, qui nessuno viene avvolto in un candido sudario, ma si avvolgono, invece, nelle palandre del ridicolo coloro che coprono di anatemi i paradossi, il pensiero libero.

 Flaminia Cruciani sa che “contro la stupidità non vi sono né armi né farmaci”, per cui lapida solo i cultori avvizziti del razionalismo riduttivo e gli allegri o perversi censori di quelle forme di diversità che potrebbero migliorare il nostro mondo governato dal latrocinio e dallo strozzinaggio globalizzato.

 Il “Lapidarium” è percorso in lungo e largo da forme verbali gnomiche, da asserzioni universalmente valide come “La violenza è il contrario della forza”.

Contagiato dal contesto cruciano, desidero anch’io lanciare le mie pietre contro tutti quegli assessori alla cultura d’Italia che sottovalutano il valore formante del discorso poetico, lasciando che l’Italia soffochi sotto la Tirannia del Brutto e del deforme.

12, dicembre, 2015

foto donna in stilePreambolo impolitico di Giorgio Linguaglossa

La prefazione, di Theodor Adorno, qui in stralcio, è il primo dei testi di vari autori riuniti nel volume «La brevità felice. Contributi alla teoria e alla storia dell’ aforisma», edito da Marsilio, a cura di Mario Andrea Rigoni con la collaborazione di Raoul Bruni (pp. 392, euro 36).

“Il pensiero frammentario, come quello propriamente aforistico, è sempre un «pensiero in frantumi», anche se il frammento romantico vive in armonia con il linguaggio, grazie al quale crede di poter evocare l’infinito nel finito, mentre nell’aforisma la critica coinvolge pure il linguaggio. Un pensiero che si spezza si vuole preservarlo, con mezzi linguistici, dalla non-verità, la quale è insita, per forza di cose, nella lingua stessa. «L’intenzione dell’ aforisma è di rendere trasparente il linguaggio alla visione della verità, si direbbe quasi: negarlo senza però distruggere la funzione intermediaria del suo dire». Il lavoro di Krüger sviluppa esemplarmente il concetto di aforisma in riferimento a Nietzsche. Poiché l’aforisma, per presentarsi ed esporsi, è necessariamente assegnato al linguaggio, e tuttavia non rispetta in modo assoluto le categorie logiche e i principi sedimentati nella grammatica, esso procede all’ uso «parodistico» della lingua e della logica. Proprio questo rappresenta per Krüger il modello del pensiero aforistico. L’aforisma usa il linguaggio e i principi della scienza non così come essi sono da intendersi di per sé: li rende impropri e li estrania. Dispiega il non-sapere, la qual cosa presuppone la riflessione estrema del sapere. Sicché esso assume regolarmente la forma dell’eccezione, di fronte alla quale la regola e la sistematica concettuale falliscono. L’eccezione funge da correlativo: l’aforisma «attinge qualcosa dall’orizzonte della coscienza», mette in discussione la visione levigata, eppure utile, dello stato di cose. Vuole risanare un po’ di quella deformazione che lo spirito dominante impone al pensiero. Mira alla negazione del pensiero conchiuso; non sfocia nel giudizio, bensì nella concreta figura in cui si rappresenta il movimento del concetto affrancatosi dal sistema. Il pensiero aforistico è stato sempre anticonformista. Per questo è caduto in discredito nelle scienze e nella filosofia ufficiale; disimpegnato, irresponsabile, roba da feuilleton: con tali etichette lo si diffama. E così come è raro che la persecuzione migliori il perseguitato, allo stesso modo il pensiero aforistico, svincolato dalla responsabilità dello spirito e privato dell’autorità di un eloquio stringente, ha assunto per molti versi proprio quei tratti apocrifi che gli vengono rimproverati. Laddove Krüger, nell’intento di operare un «salvataggio» filosofico, dipana il senso filosofico di questa forma, rinvigorisce non solo l’opposizione alle forme tradizionali della coscienza, ma anche incita il pensiero aforistico e gli appronta il metro rigoroso del suo procedere. Il lavoro filosofico dell’autore, che non è stato un filosofo di professione e che tuttavia, toccato dalla filosofia, fu sospinto da questa ben oltre la sua professione sino ad appropriarsi un intendimento filosofico forte di un meditare autonomo, richiede un pensiero aperto e scevro da vincoli: evoca il principio di ciò che congeda ogni principio; offre ben più di un mero contributo scientifico: un pezzo di libertà vissuta. E merita perciò di essere eternamente ricordato, come pure l’ uomo che non ha lasciato venir meno il calore e la forza che tale esperienza richiede. (traduzione di Nicola Curcio)

Flaminia Cruciani copertinaTHEODOR W. ADORNO: LIBERTÀ. La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta *  AMICIZIA. C’è un criterio quasi infallibile per stabilire se un uomo ti è amico: il modo in cui riporta giudizi ostili o scortesi sulla tua persona *  REGALI. La decadenza del dono si specchia nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare”.

Resta il fatto che l’aforisma nella società borghese viene ragguagliata ad un fenomeno da baraccone, ad un rutilare di circo equestre, ad una buffoneria, ad un pensiero monco, frammentato, che si è auto evirato se per eccesso di zelo o per eccesso di verità non importa un fico secco; insomma, ad un gioco, e quindi è stato a lungo disistimato dal pensiero perbenista e cloroformizzato della piccola borghesia (oggi mediatica). In realtà, l’aforisma è un esercizio di concentrazione del pensiero al più alto grado, il quale va veloce e dritto al bersaglio. Cerca il bersaglio per morire con esso. Cerca proditoriamente di dire qualcosa che sta al di là del linguaggio. 

moda maschera 1Scelta di  aforismi, piccoli componi menti e fulminee impressioni

La realtà è un’allucinazione condivisa.

*

La parentela è una detenzione genetica.

*

La vita ha un ritardo implicito a manifestarsi.

*

I moralisti non sanno che il giudicare è il
 pharmakon con cui curano la loro frustrazione.

*

Procedo dritta alla vigna nel mio versetto di fuoco.

*

L’amore e l’odio vivono dello stesso sguardo,
quando l’angelo custode si volge

*

precipita il demone.

*

Dietro a una santa ostentazione
 si nasconde sempre una donna del campo.

*

Contro la stupidità non ci sono né armi né farmaci.

*

Brucio sospesa fra terra e cielo, la mia radice è la cenere.

*

La ragione è il baluardo di chi
 viaggia a poppa della vita.

*

L’enfasi è l’apparato di note a margine
di un testo inesistente.

*

È più facile cullare un drago
che incontrare persone gentili.

*

La dicotomia è la causa dell’essere.

*

La gentilezza è la corona dell’uomo.

*

Ma Dio è ateo?

*

Detesto l’ignoranza nei modi più di ogni altra cosa.
È una frattura con il proprio nucleo mitico. La vita si definisce in gesti estetici.

*

La realtà è un irrequieto susseguirsi di avvenimenti intermittenti.

*

La mia dote è l’infermità che applaude un grillo in una botte vuota.

*

La violenza è il contrario della forza.

*

Sai, da allora con i piedi fatati dall’eternità io inciampo nella vita.

*

Dogmi e tabù sono forme
di stitichezza culturale.

*

A volte sposarsi rovina il matrimonio.

*

“Aγγελος
Ánghelos è giunto
le ali ritagliano il profilo di Dio
porta una notizia
annuncia che il vento ha girato.

*

Chiedere che cosa sia la poesia è come chiedere
se la tela di Penelope fosse filata al dritto o al rovescio.

*

Vi chiedo di essere testimoni di voi stessi, di salire sul filo del funambolo con me, di non aspettare di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare.
Come fece Philippe Petit fra le due torri gemelle negli anni Settanta, mentre tutta New York stava andando la mattina al lavoro ad aumentare il PIL.
Senza chiedere il permesso a nessuno, innalziamoci al di sopra di ogni principio di autorità del brutto e delegittimiamo questo orizzonte di attesa della nostra società dei simulacri, portando con noi a camminare sull’abisso soltanto la bellezza.
Il mio invito è a rispondere, senza esitare mai, all’unico vero comandamento cui siamo chiamati, quello della felicità. Fight for Beauty!

*

L’ostentazione della bontà, della accettazione e della remissività è la più violenta forma di manipolazione.

*

Guarda le sue mani e capirai le sue intenzioni.

.

Tutte quelle volte

.

 in cui il drago uccide San Giorgio.

*

La verità è il primo gesto dell’uno contro l’altro.

*

Chi mette i bastoni fra le ruote non sa che non troverà più le sue.

*

A quale Oriente dovrò domandare una tregua? A quale asse di terra potrò domandare una tregua? Una tregua che limiti il senso del nulla. Io che ho braccia di polvere.

*

Cosa aspetti a ingrandire del litro l’ampiezza?

*

Chi ha poggiato l’universo sulla curvatura dello spazio-tempo? Chi ha ordinato l’alfabeto alle sue particelle elementari? Un oste bendato senza istruzioni per l’uso con le unità semantiche in mano.

*

Oggi quando si parla di valore è come se si invocasse un demone e fosse necessario chiamare un esorcista: è la nascita di un nuovo tabù.

*

I nemici possono chiamarsi tali solo se valorosi. Per quanto riguarda il resto, lo sterco non conviene neanche calpestarlo.

*

Aspettami, sarò inaspettata.

*

Non ci si può aspettare che
 un meschino provi vergogna. È come chiedere a un cane
di risolvere un’equazione.

*

La vita ricomincia da capo in ogni istante.

*

Dove saremo quando l’ombra scavalcherà la luce?

*

Il midollo sudato dai sogni le clavicole in ginocchio come farfalle all’altare.

*

Nello studio dove lavoro il mio capo è Dio.

*

L’universo è asimmetrico, il talento di Dio è l’imperfezione.

*

In ogni partito politico vedo persone di destra e di sinistra.

*

La voce è il numero civico dell’anima.

*

Eroi della paura,
 contrabbandieri della felicità varcate in vita la soglia della decomposizione.

*

Sia lodata la filigrana del cuore anarchico.
Flaminia Cruciani

Flaminia Cruciani

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ROBERTO BERTOLDO. LA POESIA SURRAZIONALE. POESIE SCELTE da “Il popolo che sono” (Mimesis 2015 pp. 92 € 10) La poesia surrazionale di Roberto Bertoldo, «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico». La metafora bertoldiana come “cicatrice linguistica” – Considerazioni preliminari e impolitiche di Giorgio Linguaglossa

foto casa in disordine
Roberto Bertoldo Poesie da “Il popolo che sono” (Mimesis, 2016)
Spengo la vita sulla pelle di una donna,
le parole sono fieno senza nessuna messe,
la bratta s’indurisce sui sentimenti
e le cimici, uniche maliarde, bussano alle mie mutande,
sono nudo, da vomito, desolante,
anche le puttane eviterebbero il mio sguardo,
più si invecchia più le notti fanno schifo,
ci disprezzano le orchestre,
pure il canto si compone di bave
la donna mi ama con una frase fatta,
stringe il crepuscolo per aizzarsi il cuore,
non basta l’aroma dei coralli ad arrossare i suoi occhi
le lacrime sono perle appese ai bisogni,
hanno le loro vergogne.
Maledetta la chioma della cometa di Halley
che mi ha portato sulla terra ad usurpare spazi
una notte d’aprile in cui le nuvole si disfacevano sui pini,
sono foglie sul viso le lacrime dei rami.
Perdo tutte le poesie per la demenza dei miei occhi,
non ho più metafore: è questa mancanza la vecchiaia!

*

Scrive Roberto Bertoldo in “Nullismo e letteratura” (Mimesis, 2011):

«Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico»

«Il nulla non è un vuoto, non è un annullamento, in quanto il vuoto e l’annullamento lasciano un’attesa o un ricordo. Il vero nulla è il mai. L’altro nulla, quello che da sempre in un modo o nell’altro trattiamo, è relativo, secondo prospettiva: è il contrario del nostro obiettivo. Per il materialista il nulla è uno scopo eterno, eternamente posticipato […]

Ciò che è divertente, è che noi spesso sosteniamo la non pensabilità del nulla nello stesso tempo che giudichiamo le parole un semplice simbolo delle cose. Se una parola non è mai il suo referente come si può sostenere che il solo pensarlo rende il nulla un qualcosa? Se la simbologia sostanziasse i referenti allora dio esisterebbe davvero e non solo verbalmente. In realtà non è così, le idee sono semplicemente metareali e si può parlare del nulla senza ipostatizzarlo «Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.

Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo».

foto no left

Quando per la prima volta parlai di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intuizioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena postsimbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi […] Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva.

La poesia surrazionale, che è la e magari anche di altri ma è difficile dirlo da fuori in quanto riguarda più il produrre che il prodotto, non ha niente di divino e di magico,  è invece l’esito di una concentrazione razionale ed emotiva di carattere, posso dire, filosofico […] Sono approdato a quella che ho chiamato ‘fenomenognomica’, una filosofia scettica che concede all’uomo solo, ma è tanto, l’immanenzione, cioè questa forma di attraversamento che produce una sorta di comprensione fisica che la poesia… esprime, almeno in me, mediante ciò che ho chiamato ‘tonosimbolismo’ […] Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale».1          

 1  Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura Mimesis, 2011 pp. 137, 250, 251

 

FOTO DONNA ALLA FINESTRA

Considerazioni preliminari e impolitiche di Giorgio Linguaglossa

Non era Nietzsche che affermava che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?».

La questione del Logos ci porta a pensare le fondamenta interrogative del linguaggio poetico, per eccellenza la forma di linguaggio più problematica che esista, problematica perché ci induce a riflettere sulla sua natura spirituale e sulla sua origine magico-numinosa. A rigore, quando si impone una nuova dimensione spirituale, si trova anche una nuova dimensione del linguaggio poetico.

La poesia surrazionale di Roberto Bertoldo si fonda sul ricordo della antichissima funzione magico-numinosa del linguaggio e sul suo ripristino in chiave critica.  Il suo modo di costruzione dei versi segue il modello del solenoide o della scala a chiocciola, un cinetismo auto vorticante che si inoltra nell’inesplicito, nella zona d’ombra del linguaggio, dove le parole si nascondono, forse per dissimulare un antico oltraggio da esse ricevuto e mai accettato. Di qui la ribellione delle parole belligeranti.

L’esplicito linguistico è certo risposta, ma risposta ad una domanda soggiacente, che non può essere pronunciata. Allora, ecco che l’inesplicito altro non è che una risposta ad una domanda precedente collegata con la prima da domande inespresse, nascoste nelle pieghe del linguaggio e nelle pieghe del sociale, della vita quotidiana degli uomini, della loro storialità. Ed ecco che il mondo appare quando viene esplicitata la domanda fondamentale attraverso l’implicito del linguaggio, il lato interno del linguaggio, le sue pareti interne. «Ho impaginato le mie metafore, ma erano lacrime / lo so». Scrive Roberto Bertoldo:

Le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero

 

foto spadaccina

Altrove, parlando della poesia di Bertoldo ho discettato sul concetto di «cicatrice linguistica» come proprietà qualificativa delle sue metafore, appunto alludendo ad un retroterra linguistico, ad un retroscena inespresso, ad una dimensione che non può accedere alla superficie della scrittura poetica. Perché sia chiaro che non tutto può accedere alla poesia, essendo quest’ultima appena la punta dell’iceberg che affiora alla superficie linguistica di un idioma. Al poeta non resta altro da fare che approntare una trappola per la cattura delle parole. Una trappola per tropi. Bertoldo è un cacciatore di parole e un cacciatore di frodo, cacciatore di menzogne. Nella poesia bertoldiana si nota con grande chiarezza la conversione dall’esplicito all’implicito. Un implicito elaborato dallo spirito, direi.

La poesia che utilizza soltanto il linguaggio esplicito, non elabora le proprie istanze di fondo ma si limita a registrare le domande come un pubblico ministero utilizza le frasi durante  un interrogatorio. Questa è appunto l’istanza di fondo di ogni realismo, che si arresta ad una procedura di validazione del letterale al suo referente, alla fedeltà del primo rispetto al secondo. Ma si tratta, ovviamente, di una procedura miope fondata su un concetto ingenuo del reale e dell’arte come mero rispecchiamento.

Quest’oggi parlerò ai torcicolli che invadono la palude.

.

Ecco l’incipit di un’altra poesia bertoldiana, dove è chiaro che «torcicolli» è la migliore traduzione possibile dal profondo di una ferita linguistica che non può essere espressa in altro modo e con altri termini. La parola è appunto un «termine». Dove termina il linguaggio, là è la parola. O dove inizia. Il che è lo stesso. Perché il linguaggio inizia e termina con la «parola».  Ed è chiara qui la vocazione metaforica e metonimica della «parola» bertoldiana che indica se stessa nel mentre allude al luogo della sua cattura, della rivelazione. Il «temine» bertoldiano è apocritico (cioè dissolve la domanda sottostante) ma non del tutto, attraverso il suo corpo lascia intravvedere il tragitto spirituale che esso ha percorso dopo un lungo girovagare. Così, quel «torcicollo» allude ed indica esplicitamente  qualcosa che ha costretto il «termine» ad una torsione, pressato da forze impellenti e considerevoli. Analogamente, l’impiego dei verbi, dei sostantivi e dei qualificativi è sottoposto alla pressione di una gigantesca pressa che torce, deforma, dilacera la fisionomia e la fisiologia delle parole, in tal modo distorcendone anche l’uso comunicativo, il significato, che non collima più con il significato che quelle parole avevano nel linguaggio relazionale. E ne viene distorto anche il significante. Insomma, tutto il tonosimbolismo della poesia bertoldiana viene ad essere distorto e stravolto da una forza imponente che tutto sovrasta e tutto travolge, la forza di una gigantesca pressa che preme su ogni millimetro quadrato della «parola» bertoldiana che passa da un implicito, elaborato dallo spirito, ad un esplicito chiamato convenzionalmente linguaggio poetico. Un procedimento esattamente opposto e di direzione contraria a quello che avevamo lumeggiato all’inizio di questo scritto definendolo un processo che passava da un esplicito ad un inesplicito.

foto vuoto in alto

La poesia bertoldiana invera quell’assunto che dice che il locutore ha cessato di essere il fondatore. Bertoldo non fonda alcunché, la sua parola ondeggia, fraseggia, inferma e impotente, senza pentagramma, senza uno spartito, senza una chiave di violino. Abbandonata a se stessa, fuori del pentagramma sonoro, non le resta che affidarsi alla acustica dei rumori, essa stessa rumore, infermità e inermità del rumore. La poesia bertoldiana chiarisce quanto la parola poetica abbia fatto fiasco nelle sue pretese ergonomiche ed assiologiche di erigere una resistenza o una resilienza di contro al «mondo», quando invece si scopre essere mera retorizzazione del soggetto, che si sottrae, tende a disparire, irresoluta, presa nella morsa tra la malafede e la falsa coscienza, l’infermità e l’inermità, la diplopia e la distopia, la gratuità e la colpa, l’ingenuità e il disincanto, l’autenticità e la vita inautentica.

Nelle poesie di Bertoldo puoi scorgere chiaramente il disagio del poeta dinanzi agli oggetti e il disagio degli oggetti dinanzi al poeta. Di qui la dis-torsione, la lacerazione, lo stravolgimento di ciò che ci è familiare (Heimliche) in ciò che non riconosciamo più (Unheimliche). Tutta la poesia bertoldiana si basa su questa procedura, che è un modo di ridare agli oggetti il loro posto nell’umano; far diventare gli oggetti dei piccoli mostri che inseguono l’umano, lo braccano, lo tentano.
La dialettica tra Heimliche e Unheimliche è la caratteristica della poesia bertoldiana. L’inquietante di certe sue immagini e di certo lessico riflettono il rimosso della nostra cultura, ciò che non può essere detto. Freud dedica un ampio studio nel quinto volume di Imago, le cui conclusioni sono molto significative. Freud vede nell’inquietante (Unheimliche) il familiare (Heimliche) rimosso. «Questo inquietante non è in realtà nulla di nuovo, di estraneo, ma piuttosto qualcosa che è da sempre familiare alla psiche e che solo un processo di rimozione ha reso altro». Il rifiuto di accettare come immodificabile la degradazione dei facticia mercificati, si esprime crittograficamente nell’aura minacciosa che avvolge le parole dei versi di Bertoldo, quelle parole che non ci fanno più stare al sicuro e al riparo nelle nostre abitazioni profumate ma che ci inducono a malessere e in angoscia.

da  Roberto Bertoldo, Il popolo che sono, Mimesis, Milano 2015

Io parlo poesie

.

Io parlo poesie come i fabbri schegge
e festuche i falegnami,
amo per quel diluvio
che non potete dimenticare,
vivo come i veggenti,
scrivo da passatore.
Ho spade di legno
e l’arca di ferro,
una pagina di idee
e altri materiali sul ceppo.
Conosco la morte
perché è stata sulla penna
che ha scritto ‘bambini’,
conosco le mani disonorate
perché il vento vi ha inciso
le sue folate,
so dei rapaci che volano bassi
più della mia colpa
e aspettano che forgi il verso
di cui farmi sepolto.
Ma io ho, dentro di me,
il popolo che sono.

.

I distici della notte

.

Vi abbiamo addossato le nostre tomaie
per affrancarvi dalla parola venduta,
la poesia ha decretato l’offesa:
non morirete con il canto alla gola,
le nostre mani che hanno terra
tra le fessure delle falangi
gridano con gli ultimi tendini,
fino a troncare il colore pingue
dei vostri aggettivi.
La notte opprime i distici,
vuole un’ampia dichiarazione,
impoetica per di più.
Sulla grata del confessionale
i versi si frantumano,
la tonaca si macchia di rime
e accessori annessi,
il rosario che sproloquia
sulle gambe del messia
sputa i semi delle metafore.
Qualcuno ha gridato la verità
più fortemente delle vostre lamentele,
nababbi di apollo,
gentilizi dell’anima.
Oh poeti, poeti, quale emblema
il mio osso di popolo vi estorce
quando la bocca avete sulla platea
per la tenia degli applausi?

 

foto femme fatal

Poema delle folate (il popolo tradisce)

.

Si sono riaperte, dentro, le note della malinconia
per il perdersi dei giorni
forse qualcuno capirà questa spesa di emozioni
e avrà carezze per i marmi
ma le notti di solitudine nascondono la pelle
come fosse mille volte dietro i ceri
e file di pellegrini dalle mani bacate
non riempiranno d’amore la cesta dove crolla il mio capo.
Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
li porta sul sorriso della sua lama
e chi ha assistito alle folate dei secoli
tra i miei capelli sepolti
sa che gli inverni portano ancora
i fiocchi freddi dei deserti.

.

Iraq

.

Fatemi delirare l’amore
prima di sorprendere i mercati
coi vostri deliri di glicerina nitrata,
io li conosco gli avventori,
i loro occhi, la bocca e lo scarnito,
la fame che farfugliano,
rinvengo le verità e le altre carabattole
nel campo delle mie aritmie.
Oh, questi versi che marciscono
per troppa passione, tra le mie scapole
incontrano la notte che ghermisce.

.

La vera cultura

.

Piangere per i poeti che non ci sono più, è cultura:
per gli occhi pensili di Kerouac con l’ubriachezza nel sangue,
per il sole che si spende sulle spalle di Camus,
la cultura è nel vitreo accendersi dei riflessi
sui capelli martoriati di Saint-John Perse,
la cultura è l’abside del cuore dove dimora la giustizia,
sentire che un uomo è morto prima dei suoi libri, è cultura,
che quell’uomo era un amico composto di parole,
la cultura è l’endecasillabo del naso, l’enjambement
delle labbra, la sinalefe degli occhi, la poesia
di un volto spremuto nella lirica
come i voli principeschi del cormorano
che si specchiano nel Delta del Po,
la cultura è la voce del viaggiatore di Céline,
la ricerca di Proust, la sofferenza dei bambini
immortalata sui bianchi fogli di Fabriano,
questa è la cultura che non si inchina ai dotti,
alle loro offese di cemento,
piangete allora, con Pasternak e il suo volto infinito,
la morte indelebile di Majakovskij
perché era un uomo da leggenda
piangete e se un giorno piangerete per me
spero che questa sia cultura.
foto Samuel Beckett

Samuel Beckett

Amare?

.

Come si può amare con la bocca allentata,
la verruca sulla palpebra, come possiamo
ancora aprirci alla donna che respira
al nostro capezzale, noi inguaribili romantici
col destino tracciato a bruciatura
e i rami del nostro subdolo corpo
come intricate croci sul bordo del petto.
Brancoleremo nell’incunabolo dei ricordi
con gli occhi aperti, senza retribuzione,
i fogli li scorreremo come ossessi
lasceremo l’impronta sudicia della falsità
per l’architrave del nostro sepolcro.

.

La storia?

.

Avete fatto la storia quanto voi
stringata, subdole le braccia qui le incrociate
come l’avvoltoio le ali sulle proprie idee,
mentiremmo senza quelle rabbie che si stemperano
appena sul petto delle donne,
le nostre donne che avete rapito d’inganni
e oggi celesti vi sono capinere
che svernano nei giardini regi.
Anche le nostre mani fanno croci
con le loro dita rigide e storte, come la bocca
che bestemmia quando imita sul muro
le ombre cinesi sdentate.

.

Non c’è ragione

.

Pubblico su questi muri di carta che ci dividono
l’epitaffio della mia vanità, non ho che crepe sulla pelle
e muschi, lucertole e arbusti che diramano il loro inchiostro
come un messale. Il popolo passa e ripassa
lungo questa cancrena, non conosce il diluvio
e la salvezza che lo impregna, non ama
che la propria grassa dimora
e, se prega, ripone nel giaciglio la carcassa di un dio.
Non c’è ragione che si parli di me
quando il popolo sul mio groppone
eiacula poesie.
alfredo de palchi roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. 
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.
Bibliografia:
Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010.
Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;
Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, Il popolo che sono Mimesis, 2015

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GÉMINO H. ABAD ANTOLOGIA POETICA “Dove le parole non si spezzano”. Il viaggio spirituale. Commento di Marco Onofrio, traduzione di Andrea Gazzoni (Ensemble, 2015 pp. 184 € 15)

bello città nel traffico

città nel traffico urbano

Commento di Marco Onofrio

La poesia del poeta filippino Gémino H. Abad – scritta in inglese e tradotta per la prima volta in italiano da Andrea Gazzoni – ha un impatto filosofico e visionario: di ogni cosa parla, per ossimoro, da una “esternità intrinseca” essenziale, come trattando d’altro ma – ed è qui la sorpresa – sgorgando dal profondo stesso della sua radice. Dove le parole non si spezzano (Roma, Ensemble Edizioni, 2015, pp. 184, Euro 15) è un viaggio spirituale articolato in 5 sezioni: Cose, Parole, Amore, Paese, Dio.

La prima composizione del libro evidenzia subito il salto dalla scrittura alla voce. La pagina bianca è simbolo del vuoto e del silenzio: è l’orlo di ogni testo possibile. Le parole inscrivono la traccia di un’azione: «tendono un agguato» e «balzano verso un sole che passa».
Abad scrive poco oltre:

«Le parole non sono impiastri
per le nostre lesioni;
al contrario, ci feriscono.
Però con cura, dopo un lungo silenzio,
il filo della loro lama
potrebbe dare forma al tuo diamante».

È centrale, nella poetica di Abad, il problema ontologico (con addentellati teologici) affrontato su un piano di afferenza ed eminenza linguistica. Ecco il rapporto parola-cosa: la realtà come insaturabile verbale. Le parole, cioè, non riescono mai ad esaurire la carica di senso delle cose, né ad afferrarle o contenerle del tutto. Le cose parlano ex cathedra, al di là dei nomi che tentano di de-finirle e farle proprie. Ma i nomi sono i “mattoni” del mondo.

«Quando la mente perde un nome, perde una percezione.
Il nome è essenziale per la sua continenza
o ferisce se stesso nella cosa che non rispetta».

pittura Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

Le cose si beffano delle parole, eppure sono le parole che ci permettono di «abitare il nostro mondo» e di opporre una «diga» al caos. Quando la mente «cade», infatti, i pezzi si ricompongono di nuovo grazie alle parole: sondando il vuoto per riconquistare ogni parola.
Il nostro mondo, in realtà, è tutto nella mente «che accarezza ogni cosa / dentro il suo nome. Ma ogni cosa ha sempre / molti nomi perché l’essenza dell’amore è l’abbondanza». Ecco spiegati i sinonimi di cui disponiamo: dalla sporgenza ontologica e affettiva su cui s’incardina la nostra essenza. Però non usciamo da un gioco di specchi. La conoscenza è sempre autoreferenziale: «siamo noi i nostri giochi». Per questo, tentando di guardarci da fuori, ma restando prigionieri all’interno di noi stessi, il nostro sapere è sempre inadeguato.

Abad è cosciente del disincanto che ci rende “separati” dal principio. Non ci sono più leggende sulla luna: «morta è la luna, e fredda». Eppure la poesia può inventare un «parlare nuovo», dispiegando il suo tempo «largo d’ala / e leggendario». Ma occorre imparare a muoversi verso la realtà che ogni cosa indica. Fare del quotidiano un’epica sublime. Abbracciare la profondità antropologica della nostra condizione. Inglobare nella scrittura il nostro “suono”: dal tuono ancestrale del nascere al basso continuo dell’esistere, il “niente” di cui la musica è composta. La poesia tende alla pienezza dell’Origine: l’infinito intrattenimento dei «boschi incantati», la calma completa, la pace perfetta: «Dove le parole non si spezzano / non ho più sete di verità». Che si vada, infine, oltre il nome, oltre lo scavo del cuore, oltre lo schermo ristretto della ragione. Laggiù sarà possibile abbracciare l’inesplorato silenzio delle origini, «prima di Storia, Legge, Civiltà». La Civiltà è perenne «corona di spine» poiché è mossa dalle menzogne dell’uomo, che di proposito imbroglia i confini e complica la verità. Le parole, invece, sono tanto più vere quanto più semplici, cioè «prime e ultime» come quelle che si insegnano ai bambini. Le cose muoiono nelle lettere dei nomi convenzionali e civili: vivono invece nel sogno splendente dell’apertura oltreumana, donde gettano fuori i loro nomi autentici: la dimensione ontologica dell’Angelo, lo «spazio mai chiuso» dell’estasi «dove il tempo / non è mai suonato» e dove le cose sono compenetrate di ciò che è “loro” senza l’uomo.

gémino h. abad

Gémino H. Abad

Abad si lascia tentare dalla verità del silenzio che pulsa «scritto vasto sulla Terra». Il silenzio del mondo è dove «le parole iniziano di nuovo». Il poeta dialoga con le energie primigenie: il «flusso di tutte le mattine, ambra del mondo». Senza il rumore delle parole esulterebbe di pienezza ogni creatura, troverebbe «ognuno / la sua voce unica e vera». Le parole girano a vuoto, sono gorghi da cui ci si strappa, «sillaba su sillaba», per andare verso lo splendore dell’essenza. Dinanzi a questa essenza siamo pieni e ingombri di zavorra:

«Ogni volta che entro
nel mattino del mondo, le mie tasche
sono piene di pietre».

Il poeta prega Dio che «cadano tutte le parole, / cumulo di orgoglio, cenere di disperazione; / sia il silenzio di terra, cielo, mare, / nostra veste e preghiera ora». Il silenzio rappresenta «il meglio». Occorre rinunciare alle parole per parlare, giacché le parole sono oggetti d’uso quotidiano, si consumano rapidamente e producono interferenza.

La poesia di Abad si determina anche come scavo nella verità biologica dell’esistenza: «di chi è il sangue / che io contengo?» Il sangue che scorre nelle vene «ha un altro modo di parlare», che racchiude altre verità. La materia è piena di intelligenza, e anche il nostro corpo: la verità «ride nelle budella», non servono parole. Abad esplora l’immenso divario che separa i tempi storici dai tempi biologici. Scrive infatti: «la storia della natura è così diversa dalla nostra». Alberi montagne cascate spiagge etc. sono le “parole” della natura. La nostra storia è “oscura”, cioè offusca di opacità la visione totale della bellezza. Siamo troppo tristi e fragili e intrisi di morte, per riuscire a goderne appieno.

bello topologia figure nello spazio

topologia figure nello spazio

La dimensione ontologica e antropologica di questo libro apre, nella penultima sezione (Country) a uno spiraglio etico di conoscenza dove più immediatamente si rispecchia lo spessore storico e geopolitico della realtà da cui Abad proviene: comprendiamo così la radice “civile” che nutre dall’interno la sua poesia, anche quando è scatenata nella rincorsa di metafore e visioni. Ecco emergere lo spirito di sopportazione del popolo filippino, vessato dalla controversa dittatura di Marcos, e dunque la forza interiore, l’orgoglio, l’ethos, la collettività: valori che il poeta coglie nell’ottica del rapporto con i conquistatori (spagnoli, giapponesi, americani) succedutisi nell’arco di più secoli. Anche sul piano civile Abad non deroga dalla sua attitudine di poeta centrato sui fondamenti, e punta dritto al cuore delle cose, come quando parla di «rispetto per la differenza di ogni uomo / che si riduce alla sua essenziale dignità». Due versi che, da soli, valgono un mondo.

gemino abad_copertinaGémino H. Abad è uno dei poeti contemporanei più noti del Sud-Est asiatico. È nato nel 1939 a Cebu (Filippine). Si è laureato in Letteratura Inglese presso l’Università Statale di Manila, dove attualmente insegna come professore emerito di Letteratura Inglese. Oltre ad essere il poeta filippino più conosciuto all’estero, Abad è anche il maggior studioso della storia letteraria delle Filippine. Ha pubblicato numerose raccolte di poesie e saggi critici. La sua opera verte principalmente sulla questione dell’uomo in rapporto ai concetti di pace e giustizia. Per lui, come per altri poeti filippini, non è stato facile vivere e scrivere sotto la dittatura di Marcos. Grazie al valore della sua opera, Abad nel dicembre 2007 è stato nominato “Artista Nazionale” per la Letteratura dal “The National Artist Award Secretariat of Manila”. Il 22 luglio 2009, a Fiano Romano (RM), gli è stato conferito il Premio Internazionale “Feronia”.

angelo 2

I’m Not Addressed to Time

I’m not addressed to time,
Posthaste, as it were,
Relevant for the nonce,
To be quickly read,
Then filed in your bin.
What’s left to tell
Of yesterday’s grime
But dust in your drink?
Or where is the postman
Will sort dead mail out?

Of our words I’m bred,
The same words you use,
Or are used up by,
At each day’s run
To holy ghostliness;
Nowhere I stand,
My name for a shroud,
So to hold my ground,
And let old words pass
Like leaves in the wind.

I lack that poignant wit
Your speech to register
Under the secret rose,
Your passion to exhale
In special notices for a week.
I live on no one’s street,
I dislike vicinity,
And send no letters out.
No new words are born
Except by slow delivery.

I’ve no stomach for dispatches,
Our news being unstable
Like the chemistry of weather,
Their words raining us about.
And forming only puddles.
On private word I feed
And play with the loose ends
Of that we call truth –
Ankle-deep, in the standing pool,
Where tadpoles vie to survive.

What we give out as truth
Is public like a frog,
To his weather apropos.
Soon of course your spirit will lag,
And our ghost lack proof.
Words are not poultices
For our hurts;
On the contrary, they wound.
Yet with care, after long silence,
Their cutting edge
Could shape your diamond.

Non sono indirizzato al tempo

Non sono indirizzato al tempo,
spedito celere, per così dire,
rilevante ora,
da leggere al volo,
e poi archiviare nella tua spazzatura.
Che c’è ancora da dire
dello sporco di ieri,
se non la polvere che hai nel tuo drink?
O le lettere inesitate, dov’è che il postino
andrà a metterle?

Dalle nostre parole allevato,
le stesse che tu usi,
e che di te abusano,
nella corsa di ogni giorno
verso i santi spiriti;
in nessun luogo mi trovo,
il mio nome per un sudario
così che io non perda terreno,
e lasci parole vecchie passare
come foglie nel vento.

Non possiedo il motto arguto
per registrare il tuo discorso
sotto la segreta rosa,
per esalare la tua passione
in una settimana di notifiche speciali.
Vivo nella strada di nessuno,
non mi piace il vicinato,
e di lettere non ne spedisco.
Le consegne di parole nuove
sono lunghi parti.

Per i dispacci non ho stomaco,
troppo instabili le notizie nostre
come la chimica del bel tempo,
ci piovono intorno le loro parole
e formano solo pozzanghere.
Di parole private mi nutro
e gioco col filo e col segno
di quel che chiamiamo verità –
fino alle caviglie, giù nello stagno
dove per sopravvivere lottano i girini.

Quel che mandiamo fuori come verità
è pubblico come una rana,
va bene per il tempo che fa.
Presto certo la tua anima rimarrà indietro,
e al nostro spirito mancherà la prova.
Le parole non sono impiastri
per le nostre lesioni;
al contrario, ci feriscono.
Però con cura, dopo un lungo silenzio,
il filo della loro lama
potrebbe dare forma al tuo diamante.

angelo

Let There Be No More

Let there be no more
Legends on the moon.
Why play children’s games
With an explained fact.
The moon is dead, and cold,
As any dragon fact.
To explain is to fix
Even the orbit of change.
The way moonbeams fall
Must respect a discipline;
And as we wake, submit
To interpretation of dreams.
Let us check our notions
With specimens of the moon,
Rocks and sterile dust
And fossils of the lunar god.
Where theory cleaves our ground,
Magic weaves our revenge.
Of our legends
We are the very text.
The facts we seek and explain
Have first dwelt with us,
But we are estranged.
O, we are our games.

Che non ci siano più

Che non ci siano più
leggende sulla luna.
Perché fare giochi da bambini
se tutto è ben spiegato?
Morta è la luna, e fredda,
come qualsiasi storia di draghi.
Spiegare è fissare
anche l’orbita del mutamento.
Come cadono i raggi della luna
deve rispettare una disciplina;
e quando vegliamo, sottomettersi
all’interpretazione dei sogni.
Verifichiamo le nostre opinioni
con campioni di luna,
rocce e polvere sterile
e fossili del dio lunare.
Dove la teoria spacca il nostro suolo,
la magia ordisce la nostra vendetta.
Delle leggende nostre
noi siamo il testo stesso.
I fatti che cerchiamo e spieghiamo
sono stati in principio presso noi,
Ma siamo separati.
Oh, siamo noi i nostri giochi.

angelo 3

Peace

Dawn spreads her peacock tail
And pecks star grain
From heaven’s onyx floor.
Water rocks behind the stern
And dances away in gleaming scrolls.
Cocks have long since telegraphed
A late sun’s coming.
Our lives are lost
Dreaming in the water.
And then,
A great red-yellow carp,
Four feet in the air, the river’s token,
Flashing as if cast from morning cooper
And doubling his broad curving tail.
My line holds,
And the sun is over the hill,
And carp is to hand.
From the beginning, did she only wait
For this morning’s bait?
The air grows warm,
Warblers are in full throat.
It comes easy to mind
That another line may be cast
To catch the day’s own sun.

Pace

L’alba apre la sua coda di pavone
e becca granaglia di stelle
dal pavimento d’onice del paradiso.
Trema l’acqua dietro la poppa
E danza via via in volute brillanti.
I galli hanno telegrafato già da molto
un arrivo in ritardo del sole.
Le nostre vite sono perdute
a sognare sull’acqua.
E poi,
una grande carpa rosso-gialla,
un metro in aria, il simbolo del fiume,
che lampeggia come una gettata del rame del mattino
e ripiega la coda larga che s’incurva.
Tiene la mia lenza,
e il sole è sopra la collina,
e la carpa alla mia portata.
Fin dall’inizio, aspettava solo
l’esca di stamane?
L’aria si fa calda,
cantano gli uccelli a squarciagola,
Viene in mente, ci vuole poco,
che si può lanciare un’altra lenza
per catturare il sole di questo giorno.

angelo 1

l’angelo senza parole

Angel

The angel is
what goes without saying,
or what we have only forgotten,
yet makes us trasparent
in our absence.
In speech and dreamwork
we sprout him wings
or odd cloven feet betimes –
our words enable us
to inhabit our world.

Or fruit bat like the fruit he eats,
topsy-turvy from his connubial bough,
or sea spider without spinneret
dancing upon her demersal mat –

What inagural fiction?

Or dreamy harvest moon
or roving safari of starfish –
How they continue to mock
the furious science of their names.

And at the brink
of every possible text,
at every turn of its imagined speech,
at every spill of its unimaginable blood,
there, nowhere
our angel purely nude.

O the labor, the ecstasy –
O their prodigious progeny!

Now
space never closed

Like a ring

Where
time never tolled

Like a tide

Yes yes
tell the truth

But mind is fruit upside down,
the bat is flown –
sand is running down,
its spider dethroned.

And at the verge of something other,
on all fours
our facts crawl ashore,
further inland cannot move.

Enfold us with great wings,
O angel purely nude.

Angelo

L’angelo è quello
che non c’è bisogno di dire,
o quel che abbiamo solo scordato
ma ci fa trasparenti
in nostra assenza.
Nel parlare e nel lavoro del sogno
gli facciamo crescere ali
o curiosi zoccoli caprini al volo –
le nostre parole ci permettono
di abitare il nostro mondo.

O pipistrello della frutta come la frutta che mangia
sottosopra come il suo ramo coniugale.
o ragna di mare senza la filiera
danzando sul suo tappeto giù sul fondo.

Quale finzione inaugurale?

O luna sognante di settembre
o safari errante di stelle di mare –
Come continuano a beffarsi
della furiosa scienza dei loro nomi.

E sull’orlo
di ogni testo possibile,
a ogni svolta del suo parlare immaginato,
a ogni perdita del suo sangue inimmaginabile,
là, da nessuna parte,
il nostro angelo puramente nudo.

Oh il lavoro, l’estasi –
Oh la loro progenie prodigiosa!

Ora
spazio mai chiuso

Come un rintocco

Dove il tempo
non è mai suonato.

Come una marea

Sì sì
di’ la verità

Ma la mente è frutta a testa in giù,
il pipistrello è volato via –
la sabbia corre in giù,
il suo ragno è detronizzato.

E al margine di qualcos’altro,
a quattro zampe
vanno a carponi a riva i nostri fatti,
più all’interno non possono portarsi.

Abbracciaci con grandi ali,
oh, angelo puramente nudo.

Gesù Il vangelo secondo Matteo 4

Gesù Il vangelo secondo Matteo

English

Its words are dangerous.
Mark how, in their thick lexicon,
their murmurous numbers prove
the world’s small nomenclature.
But I will not be fooled!
Their roots run deep
where we have never lived.
They lie hidden
Where I no longer speak.
They make me say
what I do not think.
By now it may be too late!
History is unforgiving.

What words in my childhood
I spoke, and made my world –
where have they vanished?
I cannot mourn their loss,
whatever dwelt in their syllables
I no longer hear even an echo
of what might have been their truth.

But sometimes I have a sense
of being surrounded by so many things
that are merely dying –
I try to catch a glimpse of their forms,
to call to mind their ghostly scene,
to call them by their proper names…
but these words now
only stare without hope.

Was it perhaps a kind of plague
no one had foreseen,
as likewise rats cannot intend
a city’s end?
Perhaps mind need only be strong
to build from others’words
(caught in their stony sleep)
a close palisade around a dream.

I cannot rest tonight.
My words wrap their meanings
as though they were yet gifts,
but I will not open –
Tonight
I cherish the world’s silence
where words begin anew.

L’inglese

Pericolose le sue parole.
E nota come, nel loro fitto lessico,
il loro metro mormorante dia prova
della nomenclatura piccola del mondo.
Ma non me la faranno!
Le loro radici vanno in fondo
dove non abbiamo mai vissuto.
Stanno nascoste
dove non parlo più.
Mi fanno dire
quel che non penso.
Ora forse è troppo tardi!
La storia non perdona.

Quali parole nella mia infanzia
dissi, e ne feci il mio mondo? –
Dove sono svanite?
Non posso piangerne la perdita,
qualsiasi cosa ne abitasse le sillabe
non sento più nemmeno l’eco
di quella che sarebbe stata la loro verità.

Ma qualche volta ho l’impressione
d’essere circondato da così molte cose
che muoiono e basta –
di sfuggita provo a coglierne le forme,
per richiamare alla mente la loro scena spettrale,
chiamandole coi nomi propri…
Ma ora queste parole
guardano fisso, soltanto, senza speranza.

Era forse una specie di peste
da nessuno prevista,
come pure i ratti non possono intendere
che una città finisce?
Forse la mente ha bisogno solo d’essere forte
per costruire con parole d’altri
(colte nel loro sonno di pietra)
uno steccato stretto intorno al sogno.

Stanotte non riposo.
Le mie parole avvolgono i significati
come se ancora fossero doni,
ma io non aprirò –
Stanotte
avrò caro il silenzio del mondo
dove le parole iniziano di nuovo.

Gesù fotogramma film Il vangelo secondo Matteo

Where No Words Break

Where no words break
I thirst no longer for truth,
Am very still, at peace.
Time was
The truth was future perfect;
But I no longer seek,
all my pieces I have collected

and let no words break

Where no words break
my thirst is quenched
by every spring,
the spring is everywhere.
Time was
I strove for truth,
the passion grew,
but words could not appease.
Truth had no bounds

and let no words break

The president whose State was a Lie,
the soldier who did not fire,
people shouting, words dying…
Or fruit of achiote,
snails after, things swarming…
Once these were truth’s sundries,
its daily exhibits,
but did not make a book

where no words break

I thirst no longer for truth,
am, without words composed.
Our ticks have lost their itch,
the tocks of doom have grown serene.
I no longer even roam

where no words break
Dove le parole non si spezzano

Dove le parole non si spezzano
non ho più sete di verità,
sono in calma completa, in pace.
Un tempo
la verità era futuro anteriore;
ma non sono più in cerca,
tutti i miei pezzi ho potuto riunire

e non lasciare che le parole si spezzino

Dove le parole non si spezzano
è spenta la mia sete
da ogni primavera,
è dovunque la primavera.
Un tempo
lottavo per la verità,
cresceva la passione,
ma le parole non pacificavano.
La verità doveva non avere confini

e non lasciare che le parole si spezzino

Il presidente il cui Stato era una Menzogna,
il soldato che non faceva fuoco,
la gente che urlava, le parole che morivano…
O frutto di achiote,
lumache dopo, cose che sciamano…
Questo erano una volta gli oggetti vari della verità,
le sue mostre quotidiane,
ma non potevano fare un libro

dove le parole non si spezzano.

Non ho più sete di verità,
sono, senza parole composte.
I nostri tic hanno perso il loro scatto,
i toc della sorte si son fatti sereni.
E nemmeno posso più girovagare

dove le parole non si spezzano

Loam, Azure, Salt

Lord God, Word Alive,
Let fall from us all our words,
Cumulus of pride, ash of despair;
Be silence of earth, sky, sea,
Our vestment and prayer now.

Where breath and act
Stand wordless and clear, may our lies
Lose their script, and grieving Nature
Find again, in that void we call Self,
Your Word – loam, azure, salt.

Be Your Word, apart,
The stillnes of our suffering world:
Parchment of our wounded Earth, scroll
Of our moaning Sea, screed of our yearning
Sky –
O, ours still, as victim, as gift!

Where are the syllables
To sound the gorges of our greed?
Where the flaming writ to scour
Stark deserts of our desire?
Where the letters to forge our creed?

O teach us again,
Natives without speech in Your Word,
Both text and deed of our Communion –
Wine of twilight in our mouth,
Blood of sunset through our heart.

Terra grassa, azzurro, sale

Signore Iddio, Parola Viva,
lascia che da noi cadano tutte le parole,
cumulo di orgoglio, cenere di disperazione;
sia il silenzio di terra, cielo, mare,
nostra veste e preghiera ora.

Dove respiro e azione
stanno senza parole e chiari, che possano le menzogne
nostre perdere il copione, e la Natura afflitta
di nuovo ritrovare, in quel vuoto che chiamiamo Io,
la Tua Parola – terra grassa, azzurro, sale.

Sia la Tua Parola, in disparte,
la quiete del nostro mondo sofferente:
pergamena della Terra ferita, rotolo
del Mare che geme, prolissità del Cielo
che brama –
Oh, nostro ancora, come vittima, come dono!

Dove sono le sillabe
per far suonare le gole della nostra cupidigia?
Dove lo scritto in fiamme per mondare
i deserti aspri del nostro desiderio?
Dove le lettere per contraffare il nostro credo?

Oh, insegna di nuovo a noi,
indigeni senza linguaggio nella Tua Parola,
sia il testo che l’atto della nostra Comunione –
Vino del crepuscolo nella nostra bocca,
sangue di tramonto per il nostro cuore.

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LETIZIA LEONE: DIALOGO TRA ERODIADE E UNA SCHIAVA. PALAZZO DI ERODE. Testi tratti da “Rose e detriti” (fusibilialibri, 2015) con una Nota redazionale sulla situazione politica e sociale della Galilea e della Perea al tempo di Erode Antipa (4 a.C. – 39 d.C.)

salomè re dei re, film 1961

salomè re dei re, film 1961

Nota redazionale sulla situazione politica e sociale della Galilea e della Perea al tempo di Erode Antipa (4 a.C. – 39 d.C.)

Erode Antipa (4 a.C.- 39 d.C.), verso il 27 d.C., aveva conosciuto Erodiade a Roma, dove viveva, e l’aveva convinta a lasciare il marito Erode Filippo (“senza terra”), violando le severe leggi d’Israele (Lv 18,16; 20,21), poiché i due Erode erano figli dello stesso padre Erode il Grande.

Non solo, ma l’Antipa (che aveva ripudiato la prima moglie) era anche zio e cognato di Erodiade, in quanto questa era figlia di Aristobulo, altro fratello dell’Antipa (Erode il Grande aveva avuto sette figli da diverse mogli. Nella sua famiglia tali unioni consanguinee erano frequenti e spesso caratterizzate da eventi delittuosi).

Erode Antipa -dice Marco- aveva fatto “arrestare e incarcerare” Giovanni Battista a causa di Erodiade, nella fortezza del Macheronte, situata non lontano dalla riva orientale del Mar Morto, ai confini della Perea.

Giovanni non stava organizzando una rivolta armata contro Erode. E tuttavia la sua popolarità era troppo grande perché questi non temesse che la contestazione, pur condotta in ambito etico-giuridico, non rischiasse di trasformarsi, nelle mani del popolo, in occasione per ribellarsi al suo potere dispotico.

salomè film king-of-kings-1961

film king-of-kings-1961

Lo storico Flavio Giuseppe lo dice chiaramente: “Attorno a Giovanni si era radunata una moltitudine che si entusiasmava a sentirlo parlare. Erode temeva che una tale forza oratoria potesse suscitare una rivolta, dal momento che la folla pareva disposta a seguire tutti i consigli di quest’uomo. Preferì perciò assicurare la propria persona prima che si dovessero verificare delle sommosse contro di lui, piuttosto che pentirsi troppo tardi per essersi esposto al pericolo, una volta che fosse avvenuta una sedizione. A motivo di questi sospetti di Erode, Giovanni fu spedito a Macheronte”(Antichità giudaiche, XVIII, 118-119).

E’ dunque solo per motivi indirettamente politici che l’Antipa decise di incarcerare il Battista. Marco, con l’espressione “a causa di Erodiade”, preferisce accentuare i motivi “legali” del conflitto, poiché lo scopo del suo vangelo è quello di spoliticizzare la figura di Gesù e le persone che gli ruotano attorno. Non a caso nei Sinottici la vicenda del Battista è stata costruita sulla falsariga di altre due narrazioni: quella accaduta al profeta Elia, anch’egli perseguitato da una regina pagana (cfr 1 Re 19,2; 21,4s; 21,18s.), e quella accaduta allo stesso Gesù Cristo, accusato non dal governatore Pilato, bensì dai sommi sacerdoti.

  1. 18) Giovanni diceva a Erode: “Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello”.

Giovanni non rimproverava a Erode il divorzio né, tanto meno, il suo modo di governare la nazione: semplicemente gli constatava una violazione della legge ebraica.

Ma perché Giovanni s’interessava così tanto alla situazione giuridica del tetrarca? Per quale motivo aveva indirizzato le sue accuse al sovrano, quando fino a quel momento aveva preso di mira solo gli scribi e i farisei? E perché aveva cominciato ad attaccare il potere politico filoromano quando si era sempre limitato ad attaccare quello dei capi religiosi? E perché proprio quello di Erode e non quello, molto più importante, di Pilato? Come poteva sperare che l’Antipa si sentisse indotto ad osservare, lui che era legato agli interessi di Roma, le prescrizioni veterotestamentarie in materia di diritto matrimoniale?

Qui si può pensare che il Battista, probabilmente, si era ormai accorto di aver raggiunto una popolarità tale per cui non poteva più fare a meno d’interessarsi anche della situazione (in questo caso etico-giuridica) del vertice governativo della Perea (il territorio ove il Battista aveva prevalentemente agito).

Oltre a ciò bisogna considerare che dopo la cacciata dei mercanti dal tempio, ad opera di Gesù, molti seguaci del Battista avevano deciso di diventare “nazareni”, per cui il Battista necessitava di recuperare un certo ascendente sulle masse, dal momento che non aveva accettato di collaborare attivamente col Cristo.

roma Tiberio La città prende il nome dall'imperatore Tiberio, quando nell'anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

iberio Tiberiade, La città prende il nome dall’imperatore Tiberio, quando nell’anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

E comunque il Battista non cercò -come si suol dire- il “martirio”: se così fosse stato, avrebbe certo usato un linguaggio più diretto ed esplicito. Da ciò che appare nel testo egli sembra essersi limitato a costatare i fatti, mediante una critica “indiretta”, cioè pre-politica, suggerendo un modo “legale” per tornare alla “normalità”. La sua insistenza sembra essere dipesa semplicemente dalla indiscussa autorità che il popolo gli riconosceva.

Tuttavia non bisogna dar troppo peso alla versione dei vangeli. Se Giovanni avesse ottenuto l’obiettivo sperato, la sua popolarità sarebbe diventata assolutamente eccezionale, ed è difficile pensare che Giovanni non potesse prevedere un caso del genere e come avrebbe pensato di gestirlo. Lo stesso Antipa non poteva non pensare che la vittoria avrebbe dato a Giovanni l’occasione per avanzare nuove rivendicazioni, questa volta anche esplicitamente politiche.

Esiste inoltre un’evidente contraddizione nei vangeli circa l’operato di Giovanni. Da un lato egli affermava di non essere degno di “sciogliere il legaccio del sandalo” di Gesù (Gv 1,27); dall’altro invece egli si sentiva degno di “fare le scarpe” all’uomo che gli erodiani volevano far passare come “messia d’Israele”. Da ciò sembra apparire che la deferenza dimostrata da Giovanni nei confronti di Gesù, sia stata volutamente esagerata dalla primitiva comunità cristiana, e che in realtà Giovanni, proprio a partire dalla contestazione a Erode, stesse cominciando a porsi come “messia politico”.

  1. 19) Per questo Erodiade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva,

Erodiade era una donna senza scrupoli: come aveva accettato d’abbandonare il marito “senza terra” per un uomo padrone di una “quarta parte”, così avrebbe fatto di tutto per conservare e, se possibile, aumentare il proprio prestigio di regina. Di qui l’odio nei confronti del Battista anche per motivi “personali”, tanto che – tanto che, dice giustamente Marco – voleva “ucciderlo”, stimando insufficienti i provvedimenti presi da Erode.

In fondo se per Erode il matrimonio costituiva una delle sue numerose nefandezze, e lo scandalo, se non fosse stato per il Battista, non gli sarebbe pesato più di tanto; per Erodiade invece il matrimonio era stato il mezzo migliore per realizzare delle ambizioni e acquisire un potere.

salomè King of kings 1961

King of kings 1961

Erode non aveva bisogno di giustiziare il Battista per restare sul trono e per essere temuto come tetrarca, a meno che la protesta di Giovanni non avesse assunto delle connotazioni politiche vere e proprie. Erodiade invece, se voleva guadagnarsi il formale pubblico rispetto, restando al potere, doveva a tutti i costi far tacere la bocca di quel grande accusatore. Avrebbe forse potuto vivere a rimorchio del marito, fingendo, coperta dall’autorità di lui, una normalità che di fatto non esisteva? Certo, se Giovanni avesse rinunciato a ricordare la violazione compiuta, il peso dell’autorità di Erode col tempo avrebbe costretto il popolo a dare il dovuto onore alla moglie regina, ma chi avrebbe creduto a un ripensamento da parte del legalista Giovanni?

  1. 20) perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.

Secondo la versione romanzata di Marco, Erode aveva un atteggiamento ambiguo nei riguardi di Giovanni: lo ascoltava volentieri, ma non si convinceva; lo temeva, eppure lo aveva incarcerato; sapeva che era “giusto e santo” e tuttavia preferiva vigilare su di lui.

Lo aveva rinchiuso in una prigione lontana molte miglia dalla Galilea, perché, conoscendo la sua grande popolarità, non si sentiva di giustiziarlo subito, e, nel contempo, sospettava che la moglie, con l’inganno, lo volesse fare al suo posto.

Come ogni re di questo mondo, che ostenta di tanto in tanto la propria magnanimità, mostrava rispetto per i profeti, quasi si vantava di averne uno personalmente interessato alla sua condotta morale e di aver rinunciato a sbarazzarsene quando quello cominciò a contestarlo duramente.

L’atteggiamento di Erode descritto da Marco oscilla fra il timore superstizioso, la curiosità intellettuale e la simpatia umana: nel suo comportamento c’è poca strategia politica.

salomè Brigid Bazlen in Salomè in King of kings 1961

Brigid Bazlen in Salomè in King of kings 1961

E’ qui che si ha la netta impressione che questa descrizione voglia ricalcare quella riferita alla passione di Cristo, dove Pilato, che afferma l’innocenza del “re d’Israele” (Gv 19,6b), non è molto diverso da Erode, e dove i sommi sacerdoti, con la loro invidia e gelosia (Mc 15,10), non sono molto diversi da Erodiade.

In realtà la versione di Flavio Giuseppe è molto più attendibile. Erode aveva fatto arrestare Giovanni non tanto per esaudire i desideri di Erodiade, o per proteggerlo dai suoi intrighi, quanto per impedire che la protesta di lui venisse usata da movimenti sociali e politici che mal sopportavano il suo collaborazionismo con Roma e che indubbiamente erano molto più ostili del movimento battista.

  1. 21) Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea.

Era costume orientale che si offrisse un banchetto per il compleanno del re, cui invitare le persone più in vista del regno, benché nell’A.T. sia riportato un solo esempio di questo, quello del Faraone d’Egitto (Gen 40,20).

La festa venne tenuta proprio nella fortezza del Macheronte. Il motivo per cui Erode non avesse scelto Tiberiade va ricercato forse nel fatto che uno sfarzo del genere, in quei momenti di grave crisi sociale, avrebbe potuto provocare risentimenti popolari, ma si può anche pensare che la scelta del luogo fosse finalizzata a un piano particolare.

Ciò che appare strano è l’invito dei maggiori funzionari politici, militari e amministrativi della tetrarchia per celebrare una festa che, tutto sommato, non era così importante. Vien quasi da pensare che Erode volesse in realtà “ufficializzare” il suo matrimonio, risolvendo una volta per tutte la difficile situazione in cui il Battista l’aveva posto. Forse voleva dimostrare che il suo interesse per Erodiade era superiore a qualsiasi divieto giuridico e che, in tal senso, sarebbe stato anche disposto a liberare Giovanni, se tutta la corte l’avesse chiaramente appoggiato contro le rivendicazioni popolari. Era forse un’ipotesi peregrina quella di credere che qualcuno, in seno alla corte, poteva anche approfittare delle critiche al suo matrimonio illegittimo per soddisfare proprie ambizioni di potere?

  1. 22) Entrata la figlia della stessa Erodiade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: “Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò”.

Nell’antichità, durante i banchetti, le danze erano molto in uso, ma vi si prestavano soprattutto le prostitute. Qui, essendo Salomé una principessa, la cosa appare, a dir poco, alquanto insolita.

Se l’episodio è davvero accaduto, la ragazza evidentemente ballò col consenso della madre, anche se di questo Erode non diede mostra di stupirsi; anzi, il fatto che lui abbia saputo subito approfittare delle prestazioni artistiche della giovane, promettendole una cosa che a nessun commensale avrebbe promesso, fa pensare che, in qualche modo, egli non dovesse essere del tutto estraneo alle sorprese che il banchetto avrebbe riservato.

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Salomè, film 1961

Se effettivamente Erode voleva che la sua relazione amorosa fosse sanzionata senza indugi, allora il ballo di Salomé nella sala del convito stava appunto a confermare queste sue intenzioni e la promessa fatta alla ragazza non faceva che rincarare la dose. Egli in sostanza voleva far capire che il suo legame con Erodiade era così solido che avrebbe potuto concedere qualsiasi cosa alla figlia di lei.

Peraltro di Salomé Marco dice che era una “ragazza” (di 13-14 anni?): Erode non poteva temere di farle una promessa spropositata.

  1. 23) E le fece questo giuramento: “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno”.

Il giuramento di Erode, considerato ch’egli dipendeva da Roma, appare come una vera e propria “spacconata” e, come tale, sembra ricalcare il modello letterario di Est 5,3 e 7,2, in cui un re di Persia (anche in questo caso in un banchetto) rivolse alla regina Ester l’espressione: “Fosse pure la metà del mio regno”.

Qui non si deve pensare, se il giuramento è stato fatto, che Erode volesse far mostra di uno sfrenato autoritarismo, stimando il proprio regno come un qualsiasi oggetto da usare ad libitum. Sarebbe stato assurdo che Erode promettesse a Salomé la metà del suo regno per il solo piacere della danza e proprio davanti a tutti i rappresentanti del suo potere.

Erode può aver fatto quella promessa in stato di semiubriachezza, alla fine della serata, convinto che Salomé non gli avrebbe effettivamente chiesto la metà del suo regno, ma un regalo molto meno impegnativo. Nel caso invece l’avesse preso in parola, Erode avrebbe sempre potuto giustificarsi in vari modi per non rispettare, alla lettera, il giuramento (il primo dei quali era che il regno non apparteneva a lui più di quanto non appartenesse a Roma).

Resta comunque curioso il fatto che Erode abbia voluto confermare la promessa con un esplicito giuramento: evidentemente voleva mostrare assoluta sicurezza in quello che diceva.

  1. salomè_tomas_milian_claude_danna_1986

    salomè_tomas_milian_claude_danna_1986

    24) La ragazza uscì e disse alla madre: “Che cosa devo chiedere?”. Quella rispose: “La testa di Giovanni Battista”:

Ci si chiede: Erode era già d’accordo con Erodiade sull’idea di far ballare Salomé e sul finale tragico del banchetto, oppure non aveva considerato l’eventualità che Erodiade potesse approfittare del suo giuramento “pubblico” al di là delle sue aspettative? Detto altrimenti: dietro questo episodio vi è stata una regia o tutto è avvenuto casualmente? Allo stato attuale delle fonti, nessuno è in grado di rispondere a questa domanda.

Facendo il giuramento Erode aveva messo alla prova la fiducia dei commensali nei suoi confronti, poiché se il suo matrimonio fosse fallito, la metà del suo regno sarebbe finita in mani estranee. Erodiade però fa di più: mette alla prova Erode di fronte a tutti. Egli infatti deve dimostrare che, se è veramente disposto a cedere la metà del regno, dev’essere altresì disposto a cedere ogni altra cosa che appartenga al suo regno, inclusa la testa del Battista.

Salomé si rivolge alla madre perché così le era stato detto di fare o perché non voleva rischiare di sprecare questa grande opportunità? Non rifiuta la proposta del patrigno, né si limita a chiedere qualcosa di simbolico e neppure sembra essere convinta dell’effettiva possibilità di chiedere quello che le è stato promesso con giuramento. Di fatto Salomé è nelle mani della madre, che può fare di lei quello che vuole.

  1. 25) Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: “Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista”.

Condividendo la decisione della madre, perché coinvolta indirettamente nello scandalo, Salomé rientrò in fretta nella sala e, con altrettanta solerzia, chiese che la testa del Battista le fosse portata “subito” su un vassoio.

Tutta questa premura sta forse a dimostrare che Erodiade temeva qualche ripensamento, ma può anche far pensare che effettivamente Erode non si aspettasse una richiesta del genere, non foss’altro perché non poteva pensare che l’odio della moglie per il Battista si sarebbe spinto fino al punto da mettere lui in evidente imbarazzo davanti a tutti gli invitati.

  1. 26) Il re divenne triste; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
Salomè Bussiere_Gaston La_danse_de_Salome_ou_Les_papillons_dor-large 1928

Bussiere_Gaston La_danse_de_Salome_ou_Les_papillons_dor-large 1928

Qui i casi sono tre: o Erode era d’accordo con la moglie sin dall’inizio e questa sua tristezza è una finzione; oppure egli pensava di liberare il Battista servendosi del banchetto e dell’approvazione ufficiale dei commensali alle sue nozze con Erodiade; oppure quello che dice Marco è vero: Erode non era d’accordo con la moglie, non aveva intenzione di liberare il Battista e decise di eliminarlo solo perché aveva fatto un giuramento davanti a testimoni di prestigio.

L’unica cosa certa in queste tre ipotesi è la seguente: uccidere il Battista significava aspettarsi dei tumulti popolari, non farlo significava dimostrare di temerli (e questo sarebbe stato sconveniente di fronte ai suoi funzionari di corte).

Se Erode effettivamente temeva dei tumulti e, per tale ragione, non s’era ancora deciso a eliminare il Battista, è semplicemente incredibile che abbia deciso di farlo in un’occasione così frivola e mondana. Di fronte alla richiesta di Salomé il giuramento poteva ancora costituire un obbligo morale? Possibile che il giuramento avesse più importanza come “forma” che non come “sostanza”?

Supponiamo che Erode si fosse servito del banchetto per dimostrare la perfetta intesa matrimoniale con la moglie, il fatto ora di dover uccidere il Battista non doveva forse servire a dimostrare sino in fondo il valore di tale intesa?

Se le cose stanno così, il Battista è stato ucciso per motivi politici, a prescindere dalle circostanze in cui ciò è avvenuto, proprio perché per Erode il suo matrimonio con Erodiade, pur essendo stato dettato da motivi personali e non da interessi di potere, aveva assunto un risvolto chiaramente politico.

Nel testo di Marco invece si ha l’impressione che Erode abbia fatto uccidere il Battista controvoglia, perché, come Pilato, raggirato da persone più astute di lui.

  1. 27) Subito il re mandò una guardia con l’ordine che gli fosse portata la testa.

Per timore che i commensali fossero testimoni di uno spergiuro o di un dissidio in casa reale, circa la sorte del Battista, o di un’ammissione di debolezza, di fronte alla paura di conseguenze politico-sociali, Erode trasforma immediatamente i commensali in testimoni di un delitto.

salomè 1La versione di Marco è poco attendibile. Benché “triste”, Erode non chiese spiegazioni di sorta, non tergiversò, non s’indignò, non rifletté neppure molto sul da farsi: “subito” -dice Marco- inviò la guardia. E tra i commensali nessuna voce di protesta, neppure la più piccola considerazione di opportunità su una decisione così grave.

  1. 28) La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, lo diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre.

Secondo Marco, Erodiade fu la vera artefice della morte del Battista (avvenuta nel 27 d.C.), lei il vero “motore” di tutta la macchinazione: si servì di Salomé prima e degli invitati dopo, per convincere Erode, e di Erode stesso per uccidere Giovanni. Come se i motivi “personali”, di fronte a un caso nazionale come il Battista, potessero prevalere su quelli più strettamente “politici”, per i quali responsabile ultimo della morte del Battista altri non poteva essere che Erode.

  1. 29) I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Non ci furono tumulti, non si approfittò della morte del grande profeta per provocare delle ribellioni: Erode aveva forse dato al movimento battista un’importanza che non aveva? S’era forse macchiato di un inutile delitto?

Stando alla versione di Marco sembra proprio di sì. In realtà Giovanni costituiva un pericolo per Erode e la forte insofferenza dei galilei per i governi filoromani non poteva permettergli di rischiare più del necessario.

Resta tuttavia il fatto che il Battista è morto per la sua fedeltà rigorosa alla legge: nel testo di Marco non si nota ch’egli avesse un ideale più alto.

Il vangelo del Battista

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Salomè Veruschka in Salomè

Veruschka in Salomè

ROSE E DETRITI
Primo Episodio
In una sala del palazzo di Erode. Schiava ed Erodiade.

SCHIAVA

(A parte)

Non riesco a guardarmi intorno.
La luce sembra umida
sulle pareti di questo palazzo.
Luce feroce di un incendio freddo.
O saranno le rose?
Luce che rende chiari e giovani
anche i morti in questa catacomba
in questa festa buia della lussuria.

Baci come piume combuste
da bocca a bocca e lingue calde:
questo è godere. Nulla più.
Qui non c’è niente da vendere
tra schiave: siamo donne mitologiche
figlie dello stupro.
La dignità? È cosa liquida
che si scioglie al primo calore
e il nostro boia tiene il ferro arroventato sempre pronto
basta un niente, basta un cenno,
basta una mezza frase
o la sua voce di cuoio ed io
mi preparo
ad ogni gioco
ad ogni giogo muoio.

Ma questa notte
abbigliata del bello
sono la puttana di fila che accompagna
Erodiade: per lui,
uomo di così debole bellezza
eppure uomo così debole
alla nostra bellezza.

E poi ad un imperatore
ci si deve immolare senza spine
augurandogli buon divertimento
fiere del nostro strazio.

ERODIADE

Schiava, dove sei?

SCHIAVA

Sono qui, mia Regina, in attesa di esser comandata.

ERODIADE

Vieni, accompagnami:
una donna di veli e una di stracci.
Le torce ardono
in queste camere di roccia
per l’apparizione dei fiori agonici…
Ma questi sono fiori fantasmi.

SCHIAVA

(A parte)
Quando lei chiede,
in queste strane tenebre di meraviglia
devo iniziare a vegliare
intrecciare danze
ballare
ballare leggera
tirare diagonali nell’aria immortale
tra cumuli di occhi narici mani.

ERODIADE

Vedi,
la fortezza del piacere
è abitata da rose robuste
è abitata dal profumo dolciastro
di fiori rubati ai cimiteri
e se adesso dobbiamo festeggiare
che almeno la morte ci assista con la sua ultima portata
su un vassoio di sangue
questa testa annegata
del profeta dilaniato
decapitato.

SCHIAVA

Ho paura, mia Signora: troppi spettri,
ma le starò al fianco, la seguirò in punta di piedi.

ERODIADE

Come? Che dici? Spettri?
Si, forse hai ragione: l’aria pensa
qua dentro.
Questi petali cominciano dagli orli
a piagarsi, il rosso sgargiante si smorza
nel cinabro
e un nastro nero li raccoglie: sarebbe così facile
agguantare i mazzi e gettarli fuori
dalle finestre blindate di questo palazzo, pulire l’aria
ma l’odore mi stringe la gola.

SCHIAVA

Si, tetre queste rose, regina Erodiade
come tributi di sangue,
poco sangue vibrante regalato alla sete
di una febbre acida e segreta.

ERODIADE

Andiamo.
Passare da una stanza all’altra
è aver già attraversato metà del nostro
regno, seguimi tra le sale e le scale
immerse in questo odore crudo:
sai, i petali sudano altra rugiada la notte
e mandano voci

la voce di uno che grida nel deserto,
la senti? Di uno che scrive nel deserto.
Poeta e profeta insieme, quasi a un crocevia.

Ma è quest’aria irritata di umori
che risucchia i morti da chissà dove
e li fa ancora parlare
Elia…Orfeo, con la testa mozzata sotto il braccio
galleggiano nel mio occhio.

Seguimi, corri, entriamo nelle sue stanze
il Tetrarca è il gigante con l’occhio grande
vede poco e divora
aiutami con la sua voglia ora, bella signora.

(Entrano nella sala della festa.
Erode, Erodiade,Schiava, musica, soldati e ancelle…)

SCHIAVA
(A parte)

Già mi tiene,
non sono ancora entrata nella sala del banchetto
che si è avventato addosso
col fiato vinoso e amaro, mi ha stretto
mi ha promesso qualcosa all’orecchio
avrei preferito lo spettro dal capo mozzo
tutto l’orrore della sua apparizione.
Ma forse è colpa di questi fiori radianti
che mi serrano le narici
e poi lentamente cominciano a far patire a tutta la carne
la loro nausea
mentre mani callose mi sollevano da terra.
Il mio piacere di prostituta è solo nelle dita
che lisciano velluti o magari
qualche leccata di animale sul collo
per il resto, fastidio
se non dolore.

ERODIADE
(A parte guardando Erode ubriaco)

Mi ha fatto chiamare,
perché?
É forse annoiato dalla musica, dal vino, dalle danze?
Non ne avrà per molto
manca poco all’alba.
Non è soddisfatto,
non è sazio del sangue
versato sulle nostre vittorie?
E poi questo spettacolo della testa
si annuncia già nella puzza.
Guardatelo come canta:
L’abbiamo messa al centro e poi giochiamo al girotondo,
♪ giro, giro, tondo, tondo…♪
♪..ora cantate anche voi donne belle di tutto il mondo..

Basta, rivoglio la mia schiava!
Rivoglio queste mie donne
dalle mammelle straziate,
bottino di guerra che mi fu destinato
e che mi è stato strappato.
Spente tutte le voglie
ormai non è più tempo di canti
ma di veglie.

No, risponde ed urla, mi chiama
E r o d i a d e,
mi insulta
vecchia troia,
dov’è, dice, la gracile Salomè?
Da mille foglie affogate nel vino
ha distillato fino all’ultima goccia il piacere e ora parla così!

Riprenditi questa schiava,
Dov’è Salomè…che balli lei per me.
Dov’è tua figlia?
Mia figlia per te?

(Andando verso le donne e gli uomini ubriachi)

Mia ancella, liberati da questi abbracci
torna al mio fianco.

SCHIAVA

Obbedisco mia regina,
via da qui,
da questi volti impenetrabili
da questi corpi di muschio e cicatrici.
I maschi
con le coperte di pelo si avvicinano
dapprima con sguardi festanti, ma subito
un impeto li divora…

ERODIADE

È il ruggito di una fame eterna tra i denti
il deserto ne ha fatto sciacalli
nello strazio di notti di luna magra
dove avrebbero voluto covare a lungo
una donna.
Questa è la festa dell’espiazione
del loro digiuno,
e voi, mie ancelle, prede mute nell’ombra
con sacchetti di cannella
al collo, qualche perla
sembrate malate di luce.
Lo so, le tenebre sono una piaga
intasano l’aria:
come lana di polvere si possono palpare
nell’ora più avara.

SCHIAVA

Guerrieri notturni e un imperatore
bisogna piegarsi
cedere il fianco al vincitore.
Ma questo padrone ha occhi di brace
ha una lingua oscena.
Dicono sia bello, io non oso
immaginarlo.
Lo vivo attraverso l’odore
attraverso le correnti umide
del suo fiato di uovo:
solo così lo godo.
Tra fetori, candele
gocce bollenti di cera luminosa

letizia leone museo archeologico  di Anzio

letizia leone museo archeologico di Anzio

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Nel 2016 dieci sue poesie sono state pubblicate nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura). Collabora con numerose riviste letterarie e organizza  laboratori di lettura e scrittura poetica.

 

 

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MARIA GRAZIA CALANDRONE, CINQUE POESIE da “Serie Fossile” Crocetti, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Bello Giacomo Costa città immaginaria

Giacomo Costa, città immaginaria

Commento di Giorgio Linguaglossa

Già con Come per mezzo di una briglia ardente (2005) era evidente che qualcosa stava mutando nei rapporti di produzione dell’io lirico di Maria Grazia Calandrone. Le spie linguistiche sono sempre un dato di fatto irrefutabile di qualcosa che sta al di fuori del linguaggio, e che preme, pulsa, penetra nel linguaggio poetico. Possiamo dire, con qualche circospezione, che il primo linguaggio poetico di Maria Grazia Calandrone restava pur sempre all’interno di un codice letterario post-surrealista e post-sperimentale. Successivamente, dall’opera del 2005, invece, si ha la sensazione che il rapporto di rispecchiamento tra l’io e la materia linguistica viene come disturbato, interrotto dall’irruzione di corpi estranei che alterano i rapporti congiuntivi tra l’alto e il basso, tra la destra e la sinistra, tra il sopra e il sotto; avviene uno sconvolgimento degli equilibri tra i polinomi frastici che sfocia in un arcipelago di frasticità meta-linguistica dove il momento espressivo-mimico e psicolinguistico ha il netto sopravvento su quello rappresentativo; a ciò si aggiunga la indagine psicolinguistica autoanalitica portata avanti con tenacia dall’autrice e sarà chiaro quanto l’identità del poeta diventi instabile, franta, si disarticoli in un laboratorio linguistico sempre più fitto e operoso ma anche, e sempre di più, abitato da una disarticolazione e da una dis-locazione linguistica che penetra tra le commessure dei polinomi frastici. Scompare dalla materia linguistica qualsiasi accenno all’esterno, al discorso di-fuori, nella misura in cui si accentuano e si infittiscono le introspezioni autoanalitiche, psicolinguistiche. Avviene che un intero cosmo linguistico vada in frantumi e, analogamente, il linguaggio poetico che lo racchiudeva e lo rispecchiava. Ma questo fenomeno credo sia, più in generale, una spia della Crisi della tenuta linguistica del linguaggio poetico in genere nei confronti della invasione sempre più massiccia della comunicazione mediatica dei giorni nostri e, dall’esterno, della crisi economica e sociale sempre più diffusa e invasiva. Si può notare, a livello sociologico, che da un decennio in qua assistiamo ad una dissoluzione di quella classe media che aveva contribuito a mantenere in vita un codice linguistico di massima. In queste recenti composizioni della Calandrone, si ha come la sensazione che il linguaggio poetico racchiuda un cosmo interruptus e disarticolato: si infittiscono i polinomi sospensivi, i vuoti tra un verso e l’altro, le scomposizioni, le citazioni, le microscopie frastiche, le interruzioni. Si ha l’impressione di una instabilità linguistica di fondo che è diventata normalità linguistica, con derubricazione della poesia lirica in post-lirica.

 

Evgenia Arbugaeva Weather_man_05-1

Evgenia Arbugaeva Weather_man_

Maria Grazia Calandrone

(°) – seme

hai una debolezza di spiga,
muscoli di cavalla, un’arsura
di sabbia calpestata
nella spina dorsale
e un solco di aratura,
la solitudine di una bestia santa all’angolo
destro della bocca, dove un’intelligenza
appena nata ti sfiora
quasi senza svegliarti

metti il dito nel solco del tuo cuore, indicami

scopri la crepa tua da dove stilla
il mio sangue sulla foresta dei simboli e nel sonno che specie di amore
trabocchi
sugli oggetti intorno

(quanto eccede
la misura del corpo finisce
per agire tra i legamenti elettrici del mondo
come la bruciatura
del neutro – l’inizio
dell’anonimo – poggia con tutto il peso
sulla Terra Straniera del tuo corpo – per favore
non dirlo, chiudi la bocca)

perché il tuo occhio destro sfiora le acque
di un mare sepolto
– seme,
profondamente
rovo e corona
di specie
sconosciuta –
apertamente tace come bronzo, cammina
nel presente
come in un tempio, come nella memoria –

fin che dal fondo
dal teatro del mare
una creatura adulta disarmata
si alza in piedi, crede al tuo perdono
23.5.13

foto Anonymous 2

ʘ – obbedienza

alba: lo senti il rombo dei motori?
se qui
si rifondano i cori
bestiali d’erbe e incantagioni e unguenti
è perché ridi come una bambina,
con eccezionale potenza di fuoco
e con perfetta degnità di cuore

fin che lasci colare
dritto
nel tuorlo a cielo aperto nel mio petto
la prima goccia – densa
come miele – della tua forma

algebrica d’amore,
che s’interna
dove il mare rifonda una figura incrollabile,
impasta il sale delle combinazioni
al ritardo del mondo

sei come un balsamo sulla ferita che tu stessa procuri

fino a questa eccedenza ronzante, fino a questa
restituzione
del corpo gigantesco – aumentato
senza circospezione per la via maestra
degli occhi: risale
iniziale
dal fondale del tempo, sale dall’acqua pietrificata immobile

è già successo: davo il nome di amore
alla gioia che veniva dalla tua bellezza in un campo mai visto
di papaveri e margherite, è già avvenuta questa
comunicazione silenziosa delle radici

oh!, autosufficienza, sterile
antimateria, malignità della ferita aperta

– perfetta
sotto l’ombreggio – bilobata
e sedotta: è già successo
che io mi sollevassi dal bordo del tuo letto come un arcobaleno, come una figura di rettitudine, è già
successo questo poter morire
senza rimpianto – ti offro la mia vita come qualcosa
che non ha più valore di un sorriso – questa radice interamente esposta
a causa della dissoluzione della massa terrestre
nel mio sogno parlavi una lingua straniera
è già successo che bastasse l’amore come terra
aerea:
la farfalla sul viso

tutte le ossa come una fascina, una messe completamente
scoperta:
puoi fare del mio cuore
una canna di flauto
per lodare, restituirmi
l’inizio del mondo

27.5.13

foto Anonymous 3

Ѻ – radura

profumi di miele barbaro
quando al suono del sistro ti levi
come un incastro di cavallo e femmina, in tutta
la silenziosa perdizione: una bellezza
semplice e senza sacrificio – spargimento
di melata e di linfa a cielo aperto –
con le spalle bruciate dal sole, dici
sono immortale
e d’intorno c’è luce
come acqua abitata da un’entità biologica
rossa e guizzante
                                   una vena che rapida sul collo
                                                                                       è spinta
                                                                                                      dal profondo
tamburo del sangue

tutta la terra imita la parola, si adegua alla segreta confidenza degli uomini, piega i cespugli sulla circonferenza del campo affinché essi somiglino a un volto umano

quando il riso si rovescia in pianto e il pianto in uno sguardo
fluido che contiene
in sé ciascuno degli abbandonati

che perfetto dominio sulle nuvole e che memoria

ha la vita: ora
che ti contiene, arriva a certe forze inconfessabili
perché aveva lasciato andare tutto e

il volto
tuo, così solo

all’interno, riassume
il genere umano, splende
nel vuoto come un blasone d’oro, come si loda al fuoco della radura
la ferocia del sole, tutto questo rinascere
                                                         ora

una tecnica bianca di sollevazione

una cosa come vederti sorgere
– vanificata
e raggiante –
dalla campagna indemoniata,
non avere più nome,

seria come una massa di splendore dire
sto già cantando, non lo senti?

30.5.13

Ɯ – orientamento

il mondo era un’opera grezza, un non-del-tutto
compreso intento della grazia:
consideriamo annuncio
la beatitudine della città che intanto
si spalanca, ricomincia

dalla lastra d’argento del Tevere appena
disarginato, traboccato sugli argini
in immature sacche d’acqua ferma poco prima
di Largo Argentina: uno scenario
ingigantito, popolato da rettili e da un sapore di fuoco:
consideriamo rivelazione
l’intelligente

profondità di cobalto
che al fondo riluce, viene al dunque sul cerchio della piazza, vuota
come un dormiveglia infantile
impregnato dal soffio delle rovine

il cielo cupofluorescente
annerisce mentre
si sentono chiamare le figure:

bianche, sedute
tra i mozziconi
delle colonne, a imitare la vita di questo mondo
aumentato in ampiezza
dove sono impigliate

ha un sentore fluviale di serpente il mondo
rivelato, il tempo
passato per queste strade
sa
di canale che asciuga
sul marciapiede destro del Plebiscito

ha un profumo di mosto e di deserto
la terra
ancora fertile sotto l’asfalto, la terra-alba

7.6.13

foto Anonymous 4

giardino della gioia originaria

la tua carne nascente come una fiamma nella fiamma verde della campagna
io non credo ai miei occhi

vedo il bronzo dorato
del corpo che si accosta
io non credo ai miei occhi

estrai oro volatile
dal tuo petto capace di provare amore e mi dici tra i baci è un miracolo
io non credo ai miei occhi

tutta l’erba e l’intero profumo della campagna sono stupore

questo pane lasciato nell’erba è stupore e lo è la bottiglia che schiuma sui fiori

non ti asciughi la bocca
la tua bellezza è senza sbarramento

nel mio sangue c’è spazio senza dominio, e dal centro di tutta la vita mi zampilla un abbraccio grande come il mondo

te l’avevo già detto
in città, ti ricordi? guarda, il mondo è grandissimo, è il tuo amore che si è fatto spazio

nuda a metà, l’asciugamano in spalla
cammini
con la carne rinata dai miei baci

con piedi da bambina
sali le scale,
sali a sentire dove comincia l’anima di una creatura viva

nel luogo cruciale
c’è un grande silenzio
e un ronzio di zanzare
l’oro delle tue labbra
la bianca oscillazione del tuo sangue

dal corpo amato affiora
un chiaro che trabocca,
tutto il corpo fa un suono di mare
come batte il tuo cuore
e nel mio sangue splende la stessa luce

ogni tanto ridiamo della mia pena
che non esistano parole più grandi

se io potessi aprirei il mio petto, ti ricordi?

invento io le parole
invento tutto il mondo
per farti felice

poi, ti ho lasciata andare come volevi

non andare, dicevo, mi manca
cosa sono con te, questa cosa
capace, questo spazio assolato che diventa il tuo bene

non solo il muscolo provava sofferenza, ma tutta la zona
circostante doleva
e il silenzio raschiava come una lima e completava l’opera spontanea del dolore

quale eco, che luna, quale zolla, quale cratere, quale
fra le alte stelle della notte che hanno illuminato la tua bocca ancora
felice per l’amore, che pietoso pianeta
si è mosso a compassione? cosa ha avuto bontà?

il tuo corpo ancestrale ha rilasciato il suo corpo astrale

alba che oscilli sulle cose mortali quando si svegliano
come se non dovessero morire
questo è quanto conosco dell’amore: le ferite che impiegano anni a tornare
carne che vuole essere ancora benedetta dai baci, non lasciarla mai sola

Maria Grazia Calandrone 28.4.15 foto Omri Lior

Maria Grazia Calandrone 28.4.15 foto Omri Lior

Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964, vive a Roma): poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, organizzatrice culturale, autrice e conduttrice di programmi culturali per Radio 3, critica letteraria per il quotidiano “il manifesto”, scrive per “la 27ora” del “Corriere della Sera” e cura la rubrica di inediti “Cantiere Poesia” per il mensile internazionale “Poesia”, collabora con il quadrimestrale di cinema “Rifrazioni” e con la rivista di arte e psicoanalisi “Il Corpo” e codirige la collana di poesia “i domani” per Aragno Editore. Tiene laboratori di poesia nelle scuole, nelle carceri e con i malati di Alzheimer. Sta lavorando a Ti chiamavo col pianto, libro-inchiesta sulle vittime della giustizia minorile in Italia.

Libri: Pietra di paragone (Tracce, 1998 – edizione-premio Nuove Scrittrici 1997), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) La macchina responsabile (Crocetti, 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle, 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture dei propri testi (luca sossella, 2011), La vita chiara (transeuropa, 2011) e Serie fossile (Crocetti, 2015); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012); la sua prosa Salvare Caino è in Nell’occhio di chi guarda (Donzelli, 2014).

Ha composto, con Michele Caccamo, Dalla sua bocca. Riscritture da undici appunti inediti di Alda Merini (Zona, 2013) e, con Amarji, Rosa dell’Animale (At-Takwin, Damasco e Zona, 2014 – prefazione di Adonis), ha scritto tre monologhi per Sonia Bergamasco (La scimmia bianca dei miracoli, Pochi avvenimenti, felicità assoluta e Elle) e Gernika, frammenti poematici intorno alla Guerra Civile Spagnola, per la compagnia internazionale “Théatre en vol”. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi Paesi Europei e delle due Americhe: segnaliamo le antologie La realidad en la palabra (Editorial Brujas, 2005), Caminos del agua (Monte Avila Latinoamericanas, 2008) e Antologia italikes poieses (Odós Panós, 2011); ha curato per Adonis, l’antologia Voci della Poesia Italiana Contemporanea: Un’Antologia Breve (L’Altro, 2012 – Beirut e Damasco), nella quale è inserita. Con la silloge Illustrazioni ha vinto, nel 1993, l’XI edizione del premio Montale per l’inedito e, dallo stesso anno, viene invitata nei più rilevanti festival nazionali e internazionali; nel 2007 ha interpretato Il Desiderio preso per la coda di Pablo Picasso per Radio 3 (regia di Giorgio Marini, con Silvia Bre, Anna Cascella, Iolanda Insana, Laura Pugno, Maria Luisa Spaziani e Sara Ventroni); dal 2009 porta in scena in Italia e in Europa il videoconcerto Senza bagaglio (finalista “RomaEuropa webfactory” 2009), realizzato con Stefano Savi Scarponi; nel 2010 il suo testo My language is the rose, scelto dal compositore malese Chie Tsang, è finalista in “Unique Forms of Continuity in Space” in Melbourne, Australia; sempre nel 2010 è scelta come rappresentante della poesia italiana e diretta da Lucie Kralova in “Evropa jedna báseň”, documentario andato in onda il 28.8.12 in Česká Televize; nel 2012 fa parte del progetto RAI TV “UnoMattina Poesia”, collabora con Rai Letteratura e con il musicista Canio Loguercio ed è vincitrice del Premio Haiku dell’Istituto Giapponese di Cultura; comincia nel 2013 una collaborazione con Cult Book (Rai 3) ed è nella video installazione Ritratto continuo di Francesca Montinaro, esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it

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MAURIZIO PITTAU: LA GENERAZIONE PERDUTA NELL’ETÀ DELLA STAGNAZIONE —  con smartphone e jeans firmato e la paghetta di papà tra un inesistente futuro e un gigantesco debito pubblico. Nel 1963 il debito pubblico italiano era pari al 32.6% del prodotto interno lordo. Oggi è pari a 2138 miliardi di euro, oltre il 121% del Pil (dati Banca d’Italia)

Roma capitale

Roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella in una strada di Roma con spazzatura

Vivo all’estero e non è mai facile spiegare come mai i giovani italiani senza diritti, lavoro, opportunità, solidarietà intergenerazionale non abbiano fatto ancora una rivoluzione. La risposta semplicistica che do comunemente è che quelli come me nati negli anni settanta e ottanta hanno scelto due vie: adeguarsi a una società basata sulle raccomandazioni, la precarietà giovanile, il nepotismo, le corporazioni, il familismo amorale oppure andare via. Io sono andato via.

Ho la sensazione che i miei coetanei abbiano ancora poco chiaro che non è normale che i giovani in Italia non abbiano un sussidio di disoccupazione, nessuna garanzie per la pensione, nessuna meritocrazia, nessun supporto all’acquisto della prima casa, nessun assegno familiare per sostenere la natalità, nessuna rappresentanza sindacale per lavoratori a contratto e disoccupati di piccole imprese. I giovani italiani tollerano, come fosse una situazione naturale, una violenta esclusione nel mondo del lavoro, nella politica, nell’università e una atroce disparità intergenerazionale. I giovani vivono in una società che non è la loro ma quella dei loro genitori. Privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Manca la dialettica tra loro e la società, e questo produce falsi miti. Gli attacchi populistici da destra a sinistra — anche da parte di autolesionisti giovani — alle riforme Fornero, che hanno cercato di riequilibrare la società italiana a favore dei giovani, sono sintomatici.

Nella sclerotizzata società italiana l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del modello sociale in modo devastante. La cultura, l’industria, l’imprenditoria mancano di innovazione e giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I giovani italiani rimangono in vari modi ancora legati alla paghetta settimanale in una società neomediovale dove la fluidità interclassista è praticamente inesistente.

roma La grande bellezza fotogramma 1

Roma, La grande bellezza fotogramma, Jep Gambardella in cammino a fianco l’acquedotto romano

I giovani italiani — con smartphone e jeans firmato — hanno certamente una condizione di vita migliore dei giovani di trent’anni fa, i loro genitori. Altrettanto certo però è che la loro visione del futuro è nettamente peggiore, e più oscura. Non fanno figli, si sposano tardissimo, non si comprano la casa. Le speranze di costruire piani di vita credibili si sono ridotte: quello che si percepisce è un regresso generalizzato nelle condizioni di vita dei giovani. Le prospettive dei giovani sono più incerte di quelle che avevano i loro genitori alla stessa età. Colpa delle famiglie e del malfunzionamento dell’economia. Il problema è profondo e la soluzione è complessa: occorre rivitalizzare la società affrontando due problemi, quello delle competenze da valorizzare e utilizzare da un lato, e dall’altro quello di una società corporativa da sradicare. Tra dieci anni tre quarti dei giovani, che a quel punto non saranno nemmeno più giovani, si saranno trasformati in un’enorme, indistinta generazione di sfigati probabilmente sovvenzionati dallo Stato, in un nuovo tipo di Stato assistenziale e plebiscitario.

Le generazioni dei nostri padri hanno condannato i figli a un precario presente e a un inesistente futuro attraverso il debito pubblico. Per costruire risparmio privato e alimentare una spesa pubblica folle, ha costruito uno stock di debito pubblico smisurato, zavorra per qualsiasi ipotesi di investimento produttivo. Nel 1963 il debito pubblico italiano era pari al 32.6% del prodotto interno lordo. Oggi è pari a 2138 miliardi di euro, oltre il 121% del Pil (dati Banca d’Italia). Sette anni fa, nel 2005, era pari a 1512 miliardi di euro: il 105% del Pil. In soli sette anni, 526 miliardi in più di debito. A seconda di come chiuderà l’anno l’Italia avrà comunque pagato solo per interessi sul debito tra i 90 e gli 100 miliardi di euro. Questa spesa annuale, sommata allo stock infinito del debito pubblico italiano, sono la palla al piede di qualsiasi ipotesi di politica nazionale di sviluppo, ricerca, innovazione. Se non avessimo questa dimensione incontrollata del debito pubblico avremmo i soldi per la ricerca, la scuola, l’università, le famiglie. La sommatoria perversa di mancati introiti fiscali per un’evasione fiscale calcolata certamente oltre i 100 miliardi di euro l’anno e una spesa per interessi sul debito di 100 miliardi, ovviamente impedisce qualsiasi ipotesi di investimento produttivo. Per questo dramma c’è una responsabilità e ricade tutta sui nostri padri. Come si è formato questo immenso stock di debito pubblico? Perché classi dirigenti anziane e per niente interessate alle condizioni delle generazioni più giovani, hanno costruito su una politica di spesa dissennata le condizioni del loro consenso.

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza: vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

I nostri genitori, anziché chiedere rigore nei conti, hanno votato quelle classi dirigenti e le hanno tenute al governo, acquistando i titoli di Stato che pagavano interessi favolosi e zavorravano ancora di più il futuro del paese, costruendo attraverso le cedole di quei Bot, Btp, Cct il proprio gruzzolo di risparmio privato. Perché si dice sempre questo: è vero che l’Italia ha di gran lunga il peggior dato in termini di debito pubblico, ma ha tanto risparmio privato, che fa da ammortizzatore sociale. Ma in mano di chi è quel risparmio privato? Lo gestiscono i padri o i figli? I padri si sono comprati le case di proprietà, con tutto quell’attivo circolante l’inflazione ha galoppato, i prezzi delle case si sono impennati. Quali sono le generazioni che detengono il patrimonio immobiliare del paese e quali sono quelle che non possono neanche trovarsi una stanza in affitto per studiare fuori sede perché la fanno pagare uno sproposito? Tutte conseguenze del dramma del debito pubblico.

Durante le recessioni la disoccupazione aumenta di più per i giovani che nelle altre fasce di età. Questo avviene perché i datori di lavoro bloccano le assunzioni restringendo ogni canale di ingresso nel mercato del lavoro. Ma nella media dei paesi Ocse la disoccupazione giovanile è arrivata in questa crisi a essere al massimo il doppio di quella per il resto della popolazione. In Italia invece è quasi cinque volte più elevata. Viaggia in direzione del 35% a livello nazionale e del 50% nel sud Italia ormai da parecchi mesi. Il punto è che non è stata solo la crisi a privare i giovani delle loro legittime aspirazioni a un lavoro, un reddito dignitoso, un posto nella società. L’emergenza italiana affonda le sue radici in un mercato del lavoro strutturalmente caratterizzato da bassi tassi di occupazione, specie per le donne e i giovani, così come da molteplici dualismi di genere, generazionali e territoriali. Le riforme realizzate nell’arco di più legislature hanno introdotto nel mercato del lavoro italiano importanti elementi di flessibilità, in particolare attraverso le nuove tipologie contrattuali atipiche, senza però che queste fossero corredate dai diritti e dalle tutele sociali che invece configurano la flexsecurity di stampo europeo. L’uso distorto dei contratti atipici ha permesso una “fuga dal costo del lavoro e dai diritti”, come illusoria scorciatoia per la competitività, in alternativa a quella, di più alto profilo e durata, sorretta da maggiori investimenti nell’innovazione.

Roma gladiatores de Roma

gladiatores de Roma

Le varie leggi di riforma hanno creato negli ultimi quindici anni in Italia un mercato “duale”. Da un lato i tutelati, con diritto al mantenimento del posto di lavoro, allo stipendio e alla pensione. Dall’altro i giovani: precari, spesso sottoccupati, sottopagati, con le prospettive di una vecchiaia miserabile. Non può esservi spazio per i giovani in questo sistema. I lavoratori già assunti e protetti da sindacati sono per molti versi “intoccabili”. La riforma del ministro del Welfare Elsa Fornero, che aveva garantito “Più articolo 18 per tutti”, era molto ambiziosa. Partiva dall’idea di non essere contrattata dalle parti sociali per poter favorire chi non era seduto al tavolo della trattativa, mentre in realtà poi è stata contrattata eccome e c’è veramente poco di innovativo per favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.

Se guardiamo le statistiche vediamo che durante tutto l’arco della crisi il numero di posti persi è relativamente basso rispetto ad altri Paesi, perché in realtà la tutela dei sindacati è stata per chi è già lavoratore a ulteriore discapito di chi non lo è ancora. Negli ultimi vent’anni i contratti nazionali dei lavoratori sono stati siglati da sindacati in modo tale da garantire lo status quo ai lavoratori esistenti a tempo indeterminato a scapito dei giovani e dei disoccupati che, senza loro rappresentanti nella concertazione, sono stati abbandonati alla precarietà e allo sfruttamento. Per tenere alti i livelli salariali dei già tutelati sindacati e politici hanno abbassato i livelli salariali di ingresso e i meccanismi di crescita dello stipendio per i neoassunti. Abbiamo affrontato la crisi salvaguardando il più possibile i posti di lavoro, ma questo ha avuto come conseguenza quella di alzare un muro di fronte alle generazioni più giovani. Perché la cassa integrazione blocca posti, tutela gli esistenti ma non ne crea di nuovi. E se il salvagente della cassa viene utilizzato a lungo, per molti anni, la porta girevole del lavoro si inceppa, intere generazioni rischiano di rimanere bloccate nel meccanismo.

roma La dolce vita Fellini

roma fotogramma de La dolce vita, Fellini

Il salario medio in Italia è pari a 14.700 euro netti (fonte Eurispes). In Corea del Sud e Irlanda si guadagna mediamente il doppio, in Francia, Stati Uniti e Germania crica il 50% in più. C’è poi un cuneo fiscale del 46.5% che fa sì che il lavoratore incassi il 53.5 di quello che il datore di lavoro effettivamente paga per assumerlo. Con questa premessa andiamo ora a studiare i valori lordi per classi di età così come riportati dal Sole 24 Ore. Un operaio trentenne prende mediamente 21.332 euro lordi l’anno. Un operaio cinquantenne ne prende 30.555, quasi il cinquanta per cento in più. Disparità ancora più evidente: un operaio appena assunto con meno di ventiquattro anni di età prende mediamente 19.217 euro lordi l’anno; un operaio cinqantacinquenne 31.873 euro, poco meno del sessanta per cento in più. Queste politiche salariali sono riprodotte con dimensioni analoghe in qualsiasi livello e in qualsiasi comparto. Persino tra i dirigenti di fascia molto alta nelle aziende un quarantenne brillante può sperare di portare a casa mediamente 99.746 euro lordi l’anno, il suo pari grado ultrasessantenne e forse un po’ stanco ne porta mediamente a casa 130.367. Secondo i dati della Cgil sarebbero 8 milioni i precari in Italia (compresi quattro milioni di lavoratori in nero), in massima parte under 40 con un salario medio inferiore ai mille euro e senza diritti. Non sarebbe più ragionevole, visti i rischi assunti da un lavoratore che accetta la flessibilità del mercato del lavoro, pagare di più i precari e di meno chi ha più garanzie e certezze sul proprio futuro come capita in tutta Europa?

roma La grande bellezza 5

Roma La grande bellezza di Paolo Sorrentino, fotogramma di discoteca

Grande parte dei falsi miti riguardano le pensioni e innnalzamento dell’età pensionabile. Prima del 1995 delle scriteriate politiche che poi hanno portato alla dilatazione del debito pubblico permettevano di andare in pensione con criteri a dir poco generosi. C’erano persone andate in trattamento di quiescenza prima dei quarant’anni di età perché nei favolosi Anni Ottanta bastava aver versato quindici anni, sei mesi e un giorno di contributi per aver diritto a pensione. Pensioni che si sono rivalutate negli anni a ritmo di inflazione fino ad arrivare a costare attualmente allo Stato 240 miliardi di euro all’anno, il 15.6% del prodotto interno lordo (dati Istat). La riforma Dini del 1995 decise, sostanzialmente, che i nostri padri (cioè coloro che avevano versato almeno diciotto anni di contributi) continuassero ad andare in pensione con i vecchi criteri e il metodo retributivo, ottenendo così una pensione che nei fatti è pari a più del novanta per cento dell’ultima retribuzione. Gli altri, i più giovani, sarebbero andati in pensione con il metodo contributivo, calcolato dunque sui contributi effettivamente versati. Ora, la sommatoria dei fattori della precarietà dei posti di lavoro e di politiche salariali basse, fa sì che i contributi versati siano poca cosa e una recente stima del Corriere della Sera prevede che la pensione media di un under 40 di oggi sarà pari al 36% dell’ultima retribuzione e ammontante comunque ad un importo inferiore rispetto ai 540 euro della pensione minima sociale.

Calcoli fatti dal Center of Research di Pittsburgh sui sistemi di welfare occidentale affermano che la pensione media di un italiano nato negli anni Ottanta sarà pari a 340 euro mensili. Per integrare questa miseria sono stati invitati i giovani lavoratori italiani a versare il proprio TFR presso fondi di previdenza integrativa. il risultato finale è che oggi i nostri padri possono andare in pensione a sessant’anni, con il novanta per cento dell’ultima retribuzione e il TFR in tasca. Chi è nato dopo il 1 gennaio 1970 andrà in pensione a settant’anni, con il 36% dell’ultima retribuzione e senza il TFR. A questa ingiustizia colossale si lega quella dell’importo delle pensioni. Intanto diciamo subito che, secondo i dati Istat, vengono erogati ogni mese oltre 23 milioni di trattamenti previdenziali. Alcuni italiani percepiscono anche più di una pensione. Ebbene, il 27.4% delle pensioni ha un valore superiore ai 1.500 euro mensili e il 13.7% superiore ai 2.000 euro mensili. Insomma, lo Stato eroga circa sei milioni di pensioni superiori almeno del 50% al salario medio di otto milioni di precari.

Giorgio Linguaglossa Duska Vrhovac e Steven Grieco Roma giugno 2015

Tre poeti: Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Rita Mellace Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Per continuare a pagare trattamenti di quiescenza senza pari al mondo per quantità e età pensionabile, la generazione dei nostri padri tolto ogni ipotesi umanamente accettabile di tutela previdenziale alle mezza Italia degli under 40. I padri, per stare bene loro, hanno depredato i loro figli. La recente riforma delle pensioni e l’innalzamento della età pensionabile è stata una soluzione positiva e indispensabile per parificare doveri e diritti intergenerazionali e risolvere nell’immediato l’emergenza, ma non basta. La politica, come il sindacato, ha spesso assecondato, per mero calcolo elettorale, l’egoismo degli anziani. Per esempio, tra gli iscritti alla Cgil sono i pensionati quelli numericamente più consistenti: la loro forza d’urto, in caso di votazioni, supera quella di ogni altra categoria. Come si può pensare che i giovani vogliano ancora iscriversi a un sindacato?

Da sempre in alcune professioni la successione e il ricambio sono garantiti dalla famiglia: il notaio lascerà lo studio al figlio, il taxista gli lascerà la licenza. Se però oltre a questi anche tutti gli altri posti di lavoro si ostruiscono, chi non è figlio di nessuno dove va? Per facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel mercato del lavoro occorre smontare gli attuali meccanismi di cooptazione. Se per le aziende fosse più economico assumere i giovani, lo farebbero di più? Probabilmente sì, garantendosi la possibilità di avere dei quadri nativi digitali, nuova linfa vitale. Che da dieci anni a questa parte non c’è più. Non siamo in grado di riconoscere le competenze perché il mercato non funziona: nelle società funzionanti è il mercato che riconosce la professionalità.

Roma statua di romano epoca imperiale

imperatore romano Caracalla

In un Paese con oltre due milioni di disoccupati “ufficiali”, e 2,7 milioni di “scoraggiati” (di persone cioè che non hanno un lavoro, ma hanno rinunciato a cercarlo, scoraggiati dalle difficoltà) a favorire le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro contribuiscono l’inesistenza di un valido sistema di Agenzie dell’impiego (da un’indagine Istat risulta che solo il 5% degli italiani trova lavoro attraverso le agenzie, mentre il 55% lo trova attraverso amici e parenti), la frammentazione dei possibili datori di lavoro in una miriade di imprese piccole e piccolissime, ma anche la mancanza di qualifiche adeguate da parte degli aspiranti lavoratori. La meritocrazia, a scuola e all’università, dovrebbe essere valorizzata molto più di adesso. Oggi chi esce con un voto alto non ha nessun vantaggio rispetto chi esce con un voto meno alto ma con un patrimonio di contatti e amicizie.

L’età media dei nostri docenti, politici e dirigenti è tra le più alte del mondo occidentale. Il gap retributivo tra giovani e anziani è in continuo aumento, mentre la possibilità di fare un salto rispetto alle condizioni socioeconomiche dei genitori è sempre più bassa. D’altronde con una disoccupazione che supera il 30% le possibilità di riscatto sono molto ridotte. Questa esclusione sistemica dei giovani ha radici culturali, esacerbate certo dalla crisi, ma ben più antiche. Esiste una vera e propria corporazione generazionale che è decisamente più forte nelle istituzioni accademiche e politiche, ma anche nelle grandi professioni e nei centri del potere culturale. Esiste un meccanismo di cooptazione inventato e consolidato dalla generazione del Sessantotto, proprio quella che ha fatto la rivoluzione contro i poteri costituiti. Le relazioni sono tutte impostate sull’omologazione e sul riconoscimento reciproco. Questo discorso certo vale soprattutto per i posti apicali, ma è ovvio che anche questi vadano liberati, per sbloccare il ricambio generazionale anche ai gradini inferiori della scala gerarchica.

È un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri, e gli pseudo maestri, ci sono sempre stati. Poi però si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. I giovani di oggi non hanno gli strumenti per farlo, e si appiattiscono sulle idee dei vecchi. Temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia fosse un paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro, e quindi del suo stesso futuro. Sempre che non sia troppo tardi. Le generazione dei nati negli anni settanta e ottanta ormai sono perdute, ma forse non è ancora troppo tardi per i nati negli anni novanta e negli anno zero.

da Maurizio Pittau  http://www.mauriziopittau.it

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ROSSELLA  CERNIGLIA “Antenore” (Poemetto inedito) con una Nota dell’autrice e una Postilla redazionale

Rossella Cerniglia è nata a Palermo il 14 ottobre 1949, dove vive. Laureata in Filosofia è stata a lungo docente di materia letterarie nei Licei della stessa città. La sua attività letteraria ha inizio con la pubblicazione di Allusioni del Tempo, ed. ASLA – Palermo 1980; seguono Io sono il Negativo (ed. Circolo Pitrè – Palermo 1983; Ypokeimenon, ed. La Centona – Palermo 1991; Oscuro viaggio, ed. Forum/Quinta Generazione – Forlì 1992; Fragmenta, Edizioni del Leone – Venezia 1994; Sehnsucht, ed. Bastogi – Foggia 1995; Il Canto della Notte, ed. Bastogi – Foggia 1997; D’Amore e morte, stampato a Palermo nell’anno 2000; L’inarrivabile meta, ed. Ila Palma – Palermo 2002; Tra luce ed ombra il canto si dispiega (antologia e studio critico comprendente anche i testi di altri quattro autori palermitani, a cura da Ester Monachino), ed. Ila Palma – Palermo 2002; Mentre cadeva il giorno, ed. Piero Manni – Lecce 2003; Aporia (, ed. Piero Manni – Lecce 2006; Penelope e altre poesie, ed. Campanotto – Pasian di Prato 2009. In ultimo, nel giugno del 2013, per l’Editore Guido Miano di Milano, ha pubblicato un’Antologia che propone un breve saggio delle prime dodici sillogi poetiche, con disamina di Enzo Concardi.  Altre opere sono in attesa di pubblicazione. Nel 1999 ha, altresì, pubblicato il romanzo Edonè…edonè. Nel 2007, ancora per l’editore Piero Manni di Lecce, viene stampato il suo secondo romanzo dal titolo Adolescenza infinita e infine, per l’Editore Aletti di Villalba di Guidonia, il libro di racconti Il tessuto dell’anima. È presente con alcune poesie nella Antologia Il rumore delle Parole a cura di Giorgio Linguaglossa EdiLet, Roma, 2015. Collabora ad alcune riviste ed ha ricevuto favorevoli riconoscimenti e attestazioni da parte di numerosi critici e letterati. Suoi versi e profili critici sono presenti in antologie e riviste letterarie, tra cui L’Altro Novecento (vol. II e III) a cura di Vittoriano Esposito edito da Bastogi, 1997; nella rivista Poesia dell’editore Crocetti di Milano; in Poeti scelti per il terzo millennio (2008), in Storia della Letteratura italiana (vol. IV,  (2009)  e in Poeti italiani scelti di livello europeo ( 2012), dell’Editore Guido Miano di Milano.

grecia Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre

Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre

nota redazionale

Nell’Iliade, Antenore viene descritto come un vecchio eminente e saggio troiano che implora i suoi concittadini affinché essi restituiscano Elena al marito, Menelao, per scongiurare il conflitto con gli Achei. Tale richiesta resterà inascoltata, per il prevalere del partito favorevole alla guerra, riunitosi intorno all’altro consigliere di Priamo, Antimaco.

Antenore sposò Teano, adottando Mimante, il bimbo nato da un precedente matrimonio della moglie, e da lei ebbe poi numerosi figli, tutti maschi, che presero parte alla difesa di Troia: a Coone, il maggiore, seguirono Glauco, Agenore (padre di Echeclo, pure lui guerriero benché ancora giovinetto), Archeloco, Acamante, Eurimaco, Elicaone, Polidamante, Demoleonte, Laodamante,

Laodoco, Anteo, Polibo, EIfidamante, l’ultimogenito. Una versione lo dice padre pure di Lacoonte. Si unì anche ad una schiava, dalla quale ebbe un figlio di nome Pedeo, allevato con affetto da sua moglie legittima. Nei cinquanta giorni di guerra narrati nell’Iliade, Antenore perde sette figli ed il nipoteEcheclo.

Da molti autori classici e medievali Antenore è indicato come un traditore. Ad esempio secondo le versioni di Ellanico, Servio o Ditti Cretese, Antenore tradì i Troiani, consegnando ad Ulisse e Diomede il Palladio, talismano della invincibilità troiana, avendo in cambio salva la vita per sé e la propria famiglia. Dopo la distruzione di Troia, Antenore raggiunse il nord Italia (è infatti considerato il fondatore di Padova e il capostipite dei Veneti). SecondoTito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà dagli Achei grazie al ruolo moderato che avrebbe svolto durante la guerra. Comunque siano andate le cose, egli giunse nel Veneto con la moglie, i figli superstiti e alcuni alleati dei Troiani (i Meoni di Mestle e i aflagoni rimasti senza guida dopo la morte del loro comandante Pilemene), e fondò Antenorea, denominata in seguito Padova, dove poi morì. Qui sorgerebbe anche la sua tomba.

grecia TRIPODE raffigurante Apollo

TRIPODE raffigurante Apollo

Nota  dell’ Autrice

Con l’accumulo degli anni, visioni nuove vengono ad instaurarsi, inediti assetti si determinano quali aggiustamenti che tentino una nostra ricollocazione nel mondo, in un equilibrio che consenta una qualche stabilità al nostro essere, un’integrazione, insomma, che ci consenta ancora la vita.

I fulgori della giovinezza sono ormai lontani, gli ardori acquietati, la vita è rimasta fuori di noi come un fiume che dispiega le sue acque tranquille sulla nostra contemplazione. Tutto è remoto, non restano che quiete e nostalgie. Non restano se non i fantasmi che un tempo bruciarono l’anima, le sirene che incantarono i nostri sensi, i miti cui si ancorava il nostro destino per non sfaldarsi e non precipitare. La loro eco dura nell’anima, resiste in una calma incontrastata, diviene leggendaria visione, diafana forma che fu un tempo di viva fiamma, desiderio caustico e inestinguibile, resiste a testimoniare le effigi di un lontano passato, la ricerca vana, inesauribile di sconfinamento e perfezione, l’idea e il sogno di una bellezza che viva incontrastata e di un amore come sublimazione e inarrivabile conquista dell’Unità negata.

È l’orizzonte cui rimandano i versi del poemetto Antenore, nella rappresentazione di un eros come infinita tensione, irraggiungibile totale appagamento in uno sconfinato protendersi del desiderio. E giovinezza e bellezza ne sono sostanziali premesse, quasi sinonimiche necessità. Rivive l’ideale perenne, nostalgico, di un passato che ci appartenne e che ritorna sempre nuovo: la Sehnsucht di una terra lontana, arduamente immaginaria ed eternamente cara alla memoria, il luogo della limpida perfezione e dell’incontaminata purezza.

Le Altre poesie si distaccano da questo quadro di quasi rasserenante idillio e di acquietato anelito. Quelle della prima sezione sono l’esito di una disincantata visione del reale, le rimanenti sono, in gran parte, accensioni di un dolore dalla pregnanza cosmica.

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Rossella Cerniglia                                       

  Antenore

Io, Antenore, che fui giglio d’ Oriente,
fulgido di bellezza come un dio, ambra la pelle,
ebbro del nettare e sazio dell’ambrosia degli immortali.
Mortale carne in vellutato corpo, per uomini
che in nulla cedevano all’Olimpo.
Antenore, grandi occhi fanciulli, lo sguardo
remissivo, tumide le labbra per i baci nati
nel cuore dell’alcova, quando, spente le luci,
uno solo, il mio dio-signore le riempiva
del miele che addolciva la sua bocca.
Timido fanciullo infatuato dell’amore
( e che l’amore fosse un dio fatto persona )
a te, io vecchio, dedico l’ultimo languente
sguardo, l’ultimo invidioso saluto.

Ora rincorro memorie e vane ossessioni,
la mente ne diviene prigioniera.
Sorgeva piena, lì di fronte al mare, la luna.
Noi due, io e te, Palemone, eravamo trepidi,
mano nella mano. Nell’aria un tenue vento
bisbigliava. Parole che non volevano affacciarsi
all’orizzonte dei pensieri, erano calde come la stagione,
come l’affanno che pulsava nei cuori.
Io ero tuo, tua pianta, tuo germoglio, avevo ancora
la voce del fanciullo, la voce di chi ama
più virili accenti e più pregni di vigore.
Una nave levava l’ancora nel porto e viepiù
s’allontanava donando nuovo impulso alla tristezza
e un nuovo ardore che m’induceva a ricercare l’altro,
mio compagno, come avessi da rifugiarmi
sotto una protettiva ala. Così il mio cuore
rinasceva nuovo, perennemente innamorato
della forza di quelle forti membra, della suprema
maestà del gesto, del vivido suo nobile profilo
che mi stringeva, come in un pugno, il cuore.
Sentivo che il respiro suo era mio, che l’anima
che s’aggirava prigioniera nei segreti sentieri del venerato
corpo, mi apparteneva con urgenza e lui voleva
donarmela intera perché, bevendola insieme al suo respiro,
insieme stessero, anch’esse avvinte come i corpi.
Un giorno ce ne andammo in riva al fiume.
Lui mi sollevò con gioia nel suo possente abbraccio,
poi si tolse i calzari sulla rena. Rotolava quieta l’onda
sopra l’arenile. Io felice corsi a bagnarmi, mentre,
sdraiato sui ciottoli, lui certo ammirava la mia
giovane vita, le mie gambe più esili, il mio busto
flessuoso, e femmineo quasi, e tutte le mie forme
che cantavano gioventù e bellezza.

Ma poi amai altri uomini, altrettanto vittoriosi
nel mio cuore, il nerbo della loro forza, l’elementare
bellezza altera ed arrogante, quasi che amarli
fosse, per altri, un destino. Così tu, Salomon,
ebreo dal collo taurino e tu, Oreste, possente
come un giovane Eracle… Ma forse no, forse
mi tradisce la memoria, forse a voi solo toccò
la parvenza dell’amore, poiché non amai
che la sicumera dei vostri corpi perfetti,
archetipi d’immaginari gladiatori, reziari
e secutori a lungo bramati nell’ardore.
Vi depredai del piacere che i vostri corpi mi donavano,
con voi dissipai in fretta la lussuria e ogni desiderio.
Pochi anni rimase accanto a voi la mia adorabile ricciuta testolina,
la mia corporatura mingherlina, esile e gioiosa, e il mio
indicibile sorriso che molti baciavano e credevano di possedere
attraverso le mie labbra, e altri, sapendo ciò impossibile,
ne serbarono un indomabile tormento.

Ma ora tutto mi sfugge, talvolta i ricordi
volano dalla mente. Per vivere debbo riacciuffarli,
farli vivere in me come se l’ieri fosse oggi,
finalmente tornato a invadere questa giornata
di buia tristezza, come un sole che splenda,
un attimo, tra nubi, o i cui raggi s’insinuino
nella tenebra, ben più profonda, d’un vecchio pozzo.
Con fatica ricordo brevi fatti, eppure, ne son certo,
che segni ne lasciarono sul mio corpo come nella mia mente
e nella mia, a lungo, vergine anima. Mutarono il sorriso
e, lentamente, la mia gioia in tristezza.
Ora, tra tutto, mi torna in mente un lungo viaggiare
per terre e per mari, alla ricerca, sempre, d’una felicità
che s’adombra ogni tanto. La felicità che inseguivo
era Eliodoro perduto, andato per mare
dopo uno spasmodico addio, dopo una notte
piena di dolcezza che mai i divini amplessi
possono eguagliare. Io lo amai perdutamente
credendo smarrita la mia vita per un sogno lontano
che mai sarebbe rifiorito. I miei calzari
andarono tra la polvere di sconosciute contrade,
io invocavo il suo nome, evocavo i giorni dell’ardore
senza che la stanchezza, a fine giorno, non m’infondesse
(oh, spietata!) un languore dell’anima, struggente.
Eliodoro era ciò che il nome prometteva: un dono del sole;
caldo vivido sole! Per sempre amai la sua luce,
la sua ardente fiamma ormai lontana.

Rossella Cerniglia

Rossella Cerniglia

Poi fu il tempo degli occhi di cielo… (Quando la tempesta
fu passata, quando Eliodoro fu, in qualche modo,
relegato nel compianto paese della nostalgia ).
Allora venne, con occhi d’azzurro cristallo,
il marinaio macedone, un bronzo brunito,
temprato dall’ardore di una fiamma che era del desiderio.
Un ardito, uno spericolato per mare e per terra
(quando giungeva l’ora dell’amore ).
I suoi splendidi occhi erano il cielo e il mare,
un mare di un azzurro cristallino come ci appare,
in un giorno di sole, il nostro Egeo.
Io non potevo, attratto come sempre fui, dalla bellezza
sensuale di forme e di colori, non amare
quello straordinario sguardo che mi rimescolava
il sangue nelle vene e nel cuore.

Una notte, da Cipro a Tiro veleggiammo baldanzosi.
Era una notte tiepida e tranquilla; nell’alba, dolcemente
vacillante nei miei occhi, lo vidi che ammainava una vela,
agile ombra ancora tutta nera nel mattino incerto.
Mi destai con voluttà e lieve lieve comparì l’aurora
che prese a stendere sul cielo e sulle acque
tenui veli di rosa. Abbracciati, in quella eterea parentesi
di cielo ed acqua, mirammo quanta bellezza
ci destinava l’ora, e con commossi accenti lui mi disse:
“Godi, fanciullo, quanto i tuoi occhi vedranno
ancora per poco, godi questo raro momento di vita!
Osserva il luogo, deliziati dell’amicale compagnia,
l’inebriante freschezza e la pace di questo sogno
generoso e puro, che finalmente vivi, non scordare,
inebriati, senza alcun pudore, della grazia che viene
dai nostri corpi denudati, giunchi novelli plasmati nell’aurora.
Osserva quanto sublimi siano nel risveglio.”

Da allora quanti giorni e quante notti
ho sospirato i baci e le carezze sul mio corpo,
quelle ruvide e dolci carezze posate, con tocco gentile,
sulla mia pelle infuocata, a lungo così vive e palpitanti
nel sensuale richiamo di un corpo voglioso e affranto…
Ora, come altri momenti felici di un tempo, giacciono
senza un brivido di passione, in un lontano ricordo.

Ecco ciò che fui: un vezzoso amante, da tutti desiderato
e innamorato io stesso del bello che ci sovrasta
e ci confonde e sconvolge l’anima ed il cuore.
Viso di fanciullo dal profilo etereo, dall’incarnato
intatto, immacolato; fulgente come nelle statue
di marmo pario è effigiato l’efebo, un’enigmatica figura
d’ambigua bellezza che vuol significare l’essere,
ma quasi troppo puro per incarnarsi nella vita.
Ed io ero sognato dormiente, ignaro
di quella forza erotica che erompeva dalla mia
noncuranza, da una posa infantile e lasciva a un tempo,
astratta ed insensibile come in un dio
dimentico della sua deità.
Amai e fui amato, rubai amplessi e baci, dilapidai
i piaceri che mi giungevano dai corpi
vinti dall’amore; e anch’io fui depredato
degli stessi piaceri che dà la carne. Ma non solo questo
mi attraeva negli uomini che incontravo;
bensì, talvolta, il frutto d’una mente sagace,
un raffinato sentire, un mistero che non voleva donarsi
e mi tentava con le docili spirali dei sensi,
mi fu fatale. Ho venerato un uomo non più giovane;
fu il mio glorioso amico, visitato dalla fama,
onorato per la sua sapienza e per i versi
che lo incoronavano poeta. Bello per l’alloro
a lui destinato che gli profumava le tempie.
Bello per le visioni e i sogni che ricreava in me.

Ma nel trascorrere degli anni divenne stanco
il mio corpo. I desideri non più mordevano
l’anima ed il cuore, mentre sentivo che la vita
era un lento inabissarsi, un venir giù quietamente
in acque fosche. Ecco, la vita gioiosa è ormai lontana,
vano dolore è rimembrare. Sono così divenuto un vecchio:
non i bei corpi mi allettano adesso, non le turgide carni
di delicate sensuali fragranze, ma ne sento la mancanza tuttavia
nella nostalgia del bello sempre più lontano.
Per questa nostalgia un poco invidio il mio corpo
di allora, le delizie che donava e riceveva.
Ma troppi, troppi anni son passati, mi sono incanutito
ed intristito, né ci sarà, per me, un cantore
della mia fulgida bellezza, uno che mi conobbe allora
e potrà testimoniare quanto felice e breve
fu la mia dolce stagione.

 

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Enrico Pietrangeli TRE POESIE INEDITE “Torneremo angeli in terra”, “Apocatastasi indotta”, “Dal seminterrato della cappella dell’anima”, con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

pittura Franco Gentilini

pittura Franco Gentilini

Enrico Pietrangeli, vive a Roma , è autore della raccolta di poesie Di amore, di morte, pubblicata in versione cartacea (Teseo editore – 2000) e in elettronica (Kult Virtual Press – 2002), ha collaborato con giornali e riviste da diversi anni ed è giornalista pubblicista. Presente sulla scena romana della poesia sin dagli anni Ottanta, ha curato anche rassegne e spettacoli come Poesia da Bruciare nonché ha ideato, con un percorso che va dal 2003 al 2007,  un’interazione di tappe in bicicletta con eventi culturali poetici, realizzando l’organizzazione in collaborazione con altri di: Sicilia Poetry Bike 2008/09, CicloPoEtica 2010, CicloInVersoRoMagna 2011, CicloInVersoEmilia 2012, Love, peace and bike 2012-13. Nel 2014, con CicloInVersoRoma, compare solo come ideatore. Nel 2010 collabora nello staff organizzativo del Festival di poesia di Nettuno e partecipa su invito all’educational di bicicletta e cultura Terre di Aquileia. Attraverso la traduzione poetica, si è dedicato all’opera di alcuni autori poco conosciuti. Ha pubblicato il suo romanzo d’esordio In un tempo andato con biglietto di ritorno (Proposte Editoriali – 2005) con una seconda edizione in elettronica (Kult Virtual Press – 2007) e un’ulteriore silloge poetica dal titolo Ad Istanbul, tra pubbliche intimità  (Il Foglio – 2007). Recentemente è uscita la sua ultima raccolta in versi dal titolo Mezzogiorno dell’animo (CLEUP – 2011), è stato co-autore e addetto alla revisione del libro La ragione nell’amore (CLEUP – 2012) con ideazione e realizzazione della co-autrice. Ha condotto il format radiofonico Love, peace and bike e, nel 2014, è stato curatore del libro “CicloInVerso Poesia in Bicicletta” con contributi di più autori dal Piemonte alla Sicilia.

 

roma Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Appunto di Giorgio Linguaglossa

 Si può notare in queste tre poesie inedite di Enrico Pietrangeli l’impossibilità di fare una poesia realistica e l’impossibilità di fare poesia tout court, di qui l’espressionismo esasperato di questa poesia. Espressionismo che prende luogo appunto là dove manca un luogo, espressionismo come violenza verbale e figurale, allontanamento dalla tradizione novecentesca e sua dismissione. In un autore alle soglie dei cinquant’anni come Enrico Pietrangeli tutto ciò è visibile, è la generazione di coloro che sono stati privati dei loro diritti, privati del diritto al lavoro e privati del diritto ad avere un futuro. E allora c’è da chiedersi: perché meravigliarsi se i migliori esponenti di questa generazione si abbandonano ad un espressionismo a volte esasperato? È il modo con il quale una generazione si affaccia all’istituzione poetica, di per sé reattiva quant’altri mai nel non ammettere i diversi o gli estranei o gli intrusi, insomma, tutti coloro che non aderiscono al bon ton delle beneducate istituzioni pubbliche e private. Ed ecco che si torna alla virulenza figurale e poietica come unico strumento di risposta e di ribellione alla società e ai suoi riti apotropaici. Un espressionismo dunque che non nasce come proposta di una nuova poetica ma come bisogno di esternare la propria inquietudine e la propria ostilità alle vulgate che si professano oggi nelle officine della poesia contemporanea.

 

Enrico Pietrangeli ischia, 2014

Enrico Pietrangeli

Torneremo angeli in terra …

Putride salme di scarafaggi
di cadaverina esalata stanno
rinsecchite dentro la loro corazza.
Sono carri armati al fronte,
divisioni immortalate nell’attimo
che, d’ogni disfatta, è il suggello.
Fuma di giallo l’acciaio
tra rosi campi di grano,
l’esoscheletro d’ocra acceca
tra la sabbia del deserto.
Giacciono ribaltati,
oltre l’avvallamento,
di multiformi zampe
e cingoli disegnano
un rullio che avanza,
l’inesorabile marcia,
l’eco di uno sbaraglio
che strati di polvere
a noi rende la storia.
Spavalda o vile che tu sia,
piccina blatta che la morsa
di un tacco a spillo rifugge,
tu comunque, tu come loro,
pronta sarai a soccombere,
calpestata in un angolo,
erosa da un tempo
sostrato alla vita
che qui perfino, sullo spigolo
di un marciapiede mondano,
tra resti di pasti radical-chic,
nell’umido oscuro metropolitano,
di azoto volge alla terra.
Tu, come me, vagabondi
in un distratto mondo,
quale apolide dispersa
tra l’afflato d’un presente
che non lascia più fiato,
vivi tra il marciume,
in un corso d’eventi
per sempre andato:
polvere che il vento
ramazza nell’altrove.
Io e te siamo l’oblio,
decomposto pulviscolo
senza più una memoria
e che d’informe massa
vaste nubi rende al cielo
per tutti i sogni perduti.
Eppure mai come ora
siamo stati tanto vicini a Dio;
annientati da corrotto mondo,
torneremo angeli in terra.
Tu ci metterai le ali
che mai hai evoluto
ed io tutto l’amore
che contenere più non posso.
Torneremo, finalmente,
per amare librando
della dignità d’esistere.
Nel non importa il morire,
ma con decoro resistere
torneremo in nome
della decenza del vivere.
Apocatastasi indotta

Portami in grembo
ed io ti cullerò,
lenirò ogni tua ansia,
d’infinita dolcezza
tenderò la mano
dando linfa al tuo seno.
Prendimi nove mesi dentro,
abbandona lo sperma
e trattieni me, solo me dentro,
prigioniero nell’utero
che mi consacrò alla vita
come in un campo di concentramento.
Tienimi forte, carezza il contratto volto
e stringi, stringi le dita sulle gote …
Sarò padre, figlio e amante,
il tutto che mi manca,
l’insieme che ti sfugge.
No, non voglio scoparti,
voglio l’anima …
Come un demone del possederti
assetato sono
per dilagare ovunque
e laddove nessun membro
giungere potrebbe
lacrimando impotenza
dopo effimero godimento.
Tutt’intero voglio restare,
nel pensiero eretto, sì …
Possederti per ritrovarti,
ricongiungermi ancora
d’apocatastasi indotto.
L’ordine di Dio com’era
prima che l’angelo ribelle
condannasse me
dell’essere uomo
e te dell’esser donna …
Poiché noi eravamo
medesima sostanza
fluttuante nel cosmo,
trattienimi dentro nove mesi ancora.

Dal seminterrato della cappella dell’anima

Dell’ossario dell’anima,
si contemplino pure,
uno ad uno, i teschi,
su se stesso si rigiri
il malleolo nel tempo
e che obelisco posi
quella tibia in terra
per lasciare un segno!
Che mandibola resti
di liquami assetata
nel consunto, usale gesto,
sul ghigno di morte
di polvere immerso
per un eroso emerso.

(inediti, 2015)

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LA LIBIDO AL TEMPO DEGLI ETRUSCHI Come facevamo l’amore al tempo degli Etruschi, accusati di eccessive libertà sessuali dai greci e dai romani

etruschi 3

 

Nel presentare ai lettori del blog questo spaccato delle abitudini erotiche presso gli antichi etruschi vogliamo indicare uno spunto di riflessione sulla nostra contemporaneità e sullo scontro di civiltà, Islam Occidente, che oggi appare sullo sfondo del presente storico. Non è dubbio che ogni civiltà abbia una propria organizzazione libidica ed eserciti un controllo della libido sui suoi abitanti, controllo indispensabile ai fini dell’organizzazione sociale e militare di una comunità. Non è certo un caso che nella antichità le pratiche della vita erotica degli etruschi suscitassero recriminazioni e stigmatizzazioni da parte dei popoli circonvicini, e in specie dai romani e dai greci. (g.l.)

L’assoluta emancipazione della donna donna etrusca e una libertà di costumi, che somiglia, per certi aspetti a quella dell’Occidente contemporaneo, furono la causa di una sistematica diffamazione dei Tirreni da parte dei Greci. Il sostantivo etrusca designava, presso gli ellenici, le prostitute. Uno scrittore greco del IV sec. a.C., storico e retore, allievo di Isocrate, vicino a Filippo il Macedone, scrisse degli etruschi riferendosi all’assoluta vergognosa promiscuità in cui vivevano. Amori di gruppo, paternità indistinta, mogli bevitrici che sedevano accanto al primo venuto, durante il banchetto; nudità, rapporti sessuali in pubblico e provocazioni esibizionistiche di varia natura.

E’ difficile capire, a distanza di più di duemila anni, considerando anche il fatto che l’etrusco è ancora una lingua impenetrabile e che su quella civiltà permangono zone d’ombra, se quella segnalata dai greci contemporanei fosse dissolutezza o se si trattasse di tolleranza e di quella che oggi chiameremmo emancipazione.

La presenza di donne molto belle, curate, truccate, ai banchetti – donne che non erano prostitute, ma persone sposate – fu forse la prima ragione di un equivoco. I greci non ammettevano la presenza delle mogli agli eventi conviviali, ai quali potevano invece partecipare prostitute. In Etruria, invece, la figura femminile risulterebbe, dai reperti e dall’iconografia, oggetto di grande considerazione sociale e di libertà, anche se poi, l’amore matrimoniale, dolce e costruttivo, risulta centrale nel desiderio collettivo  come dimostrano i reperti tombali e la scultura funeraria. Anche in questo caso, nobilmente distesi, troviamo marito e moglie sdraiati uno accanto all’altra, per sempre al banchetto, che è tavolo e letto. Pertanto: donne non chiuse in casa, molto curate, forse libertà sessuale, ma ricerca di un’unione forte e duratura, sul piano sentimentale. Ciò risulta sempre dai sarcofagi. Se infatti gli affreschi erotici nelle tombe si riferiscono con buona certezza a materiale mitico, legato alla religione  i coperchi o le lastre dei sarcofagi sono testimonianza  intima e privata della dolcezza meravigliosa e struggente di un rapporto d’amore, quello dei coniugi, un rapporto che viene celebrato come totalizzante.

Difficilmente, in campo artistico, in ogni epoca, troviamo la rappresentazione così autentica della dolcezza della compenetrazione tra uomo e donna, senza sopraffazione, sullo stesso piano, quello altissimo del sentimento gioioso e pacato che unisce anime e corpi.

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TOMBA DI VULCI

Sarcofago di Larth Tetnies e della moglie Thanchvil Tarnai. Luogo della scoperta: Vulci necropoli di Ponte Rotto, tomba dei Tetnies. Terzo quarto del IV secolo a.C. Museum of fine Arts, Boston. Sul coperchio del sarcofago è raffigurata una coppia di sposi distesi e abbracciati, avvolti sotto un manto che ricopre la kline, ovvero il letto conviviale.
Sul lato lungo della cassa un combattimento tra Greci e Amazzoni, sui due lati brevi combattimenti tra animali, reali e fantastici.

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Dipinto parietale nella Tomba dei Tori, a Tarquina

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Scena di danza nella Tomba delle leonesse a Tarquinia

In Etruria, come in genere nel mondo antico, esisteva la prostituzione sacra; sacerdotesse offrivano se stesse ai pellegrini e ai viaggiatori per sostenere le spese del tempio ed incrementarne le ricchezze. Tali ricchezze dovevano essere evidentemente cospicue se suscitarono l’avidità di Dionigi I che nel 384 a.C., alla testa della flotta siracusana, riuscì a impadronirsene, nonostante il soccorso degli abitanti di Caere in difesa del loro porto.

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Tomba della Fustigazione

Il dipinto parietale che dà il nome alla Tomba della fustigazione, a Tarquinia. Questa tomba, datata V secolo a.C. e scoperta nel 1960, è composta di una sola camera. Due uomini in piedi colpiscono con verga una donna intenta ad una fellatio su uno dei due mentre l’altro la sodomizza. In tutta la camera sepolcrale sono rappresentate altre scene di danza e di musica su tutto l’insieme dominano comunque tre poderose porte finte di colore rosso che rammentano la vita dell’oltretomba, La cosiddetta fustigazione e la scena, in sè, assumono caratteristiche rituali. La verga nuda rappresenta al tempo stesso il pene e l’albero senza foglie, foglie che invece appaiono sulla testa del maschio che possiede la donna da dietro. L’immagine rinvierebbe a materiale iconografico legato alle stagioni, al ritorno della primavera dopo la morte invernale, alla ripresa della vitalità del corpo.

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Tomba delle leonesse Tarquinia

La fellatio in un vaso attico a figure rosse. Importati dalla Grecia o prodotti da manifatture etrusche secondo lo stile greco, queste opere contengono elementi vitalistici.

 Pubblicato da Redazione in Arte Eros, Arte erotica, Il sesso nell’arte, News 4 dicembre 2015

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MARIO M. GABRIELE SETTE POESIE da “Ritratto di Signora” (2014) “Cara Juliet”, “Piombo fuso”, “Glossario terapeutico” con un Commento di Giorgio Linguaglossa: La “poetica del vuoto del Dopo il Moderno”, “Poesia e metapoesia”, “Glossario terapeutico” “La morte della poesia”, “La Post-poesia”

foto henri cartier bresson

foto henri cartier bresson Cara Juliet

 Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura”e pubblicato diversi volumi di poesia tra i quali: Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (con prefazione di Domenico Rea (1982); Il giro del lazzaretto (1985); Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002); Conversazione galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di signora (2014) e L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura, 2016) Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Ha curato monografie e saggi sui poeti molisani e contemporanei

E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Interventi critici sulla sua poesia sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier e  L’Ombra delle parole. Cura il blog di poesia italiana e straniera isola dei poeti.blogspot.it

foto donne con altalena

Commento di Giorgio Linguaglossa “La poetica del vuoto del Dopo il Moderno” di Mario M. Gabriele

Credo che nella situazione del Dopo il Moderno alla poesia non rimanga altro da fare che sopravvivere in attesa di tempi migliori. È questo l’assunto di base della poesia di Mario Gabriele, un poeta della periferia, relegato nello sperduto Molise, a Campobasso, lontano dagli echi delle fucine poetiche di Roma e di Milano. In questa condizione, allontanatisi gli echi dello sperimentalismo novecentesco e le ipotesi di mini canoni che, tra l’altro, nel Sud non avrebbero ragione di essere, per Mario Gabriele l’essenziale era ripristinare il contatto con il lettore, ripartire dal correlativo oggettivo di Eliot, ricucire gli strappi inferti alla forma-poesia del secondo Novecento, suturare le ferite con la tintura di iodio, elaborare una «materia» poetica che facesse uso della narrativa e della saggistica per irrobustire il dettato poetico. Il registro stilistico di Ritratto di Signora viene così improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuto dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui, di digressioni e di inserti narrativi che offrissero nuove possibilità di significazione per mettere in evidenza ciò che sta oltre la tradizionale parola poetica, lontano dalle associazioni semantiche tradizionali, magari corredata da una fitta interpunzione, di citazioni implicite ed esplicite, di riferimenti toponomastici ed onomastici, corredata da associazioni ed elencazioni coordinate per asindeto e per paratassi, il tutto volto a raffigurare il disagio e lo spaesamento esistenziale del mondo moderno, non solo dell’io, il caos del mondo, mediante correlativi oggettivi e traslati e cablaggi spaesanti.

Sta qui l’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta qui la rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo, che da noi è stata interpretata come una possibilità di scrittura poetica finalmente privata del pentagramma tonale e timbrico della grande tradizione metafisica, come un rompete le righe e un gettate le armi, con una cultura nutrita di scetticismo piccolo-borghese. Una resa alla democrazia parlamentare della forma poetica e del discorso poetico. Mario Gabriele riprende da qui, innalza il tono prosodico mentre che abbassa il lessico.

Sintomatico di tale percorso è l’ultima poesia qui presentata: «Glossario terapeutico», dove è evidente che l’autore ironizza con una abbondanza di citazioni e di rimandi sulla propria materia poetica prendendone le distanze, ironizza sulla desertificazione del linguaggio poetico di oggi, non più in grado di veicolare una lirica che non sia post-lirica, dalla quale viene bandito ogni riferimento ad una presunta «bellezza» e al «poetico». Si ha la sensazione che l’oggetto della riflessione di Gabriele sia «la morte della poesia» e una «poetica del vuoto». In un certo senso, questa è una poesia che medita sulla propria morte annunciata, una metapoesia, una poesia che sta fuori della poesia, che si situa a distanza dalla poesia. Metapoesia sulla metapoesia, dunque, come nella composizione di apertura «Cara Juliet» che rifà il verso a una raccolta di Alfredo Giuliani del 1965, Povera Juliet.

Il titolo della raccolta, anch’esso ironico, Ritratto di Signora (2014), riprende un topos classico, un titolo adottato dalla scrittura narrativa, in ciò perseguendo con la poesia lo stesso tragitto ermeneutico seguito dal romanzo, da quello famoso di Henry James (The portrait of  a Lady) fino al recente  Foto di gruppo con Signora (1971) di Heinrich Böll.

foto donna mascherata

Mario Gabriele da Ritratto di signora (2014)

1
Cara Juliet,
qui dove l’inverno dura più della barba di Santa Claus,
ci siamo arresi al freddo di dicembre
come quei piccoli clochard ai bordi delle vie,
senza bandiere e né futuro;
mi viene da pensare alle notti di Stoccolma,
alle renne venute a cercare gli avanzi di Natale;
tutti abbiamo festeggiato l’anno che passava;
il tempo come uno sparviero
sui pinnacoli di un’America battuta,
l’urlo di Munch
era un passepartout per un inferno alle porte:
le lunghe ore a parlare del punto morto del mondo,
l’anello che non tiene,
sempre in fede obliqua
mi venne uno strano freddo allora,
come una ipotermia
sotto la cupola avvolta dalla neve,
per poi rinascere nei giardini di marzo,
perché i più bei fiori dell’anno
sono i non-ti-scordar-di-me.
2
Il tempo non ha concesso nulla alla Pasqua.
Sciolte le campane
si sono visti soltanto mouse e viperette.

Ho spento il notiziario,
dimenticate le formule dei cartomanti:
je ne veux rien savoir de la vie
e di tutte le tragedie
che s’attorcigliano come veleni
e spade acuminate.

L’ultima volta che ho visto Madame Bernard,
era di sabato e aveva il fascino
di chi sa legare il cuore ai lacci.

Arrugginito dagli anni
il carillon ha smesso di contarci le ore.

Sembrerà un giro di banderuola
ma il passaggio dell’inverno
non è stato indolore.

Rotondetta, tanto da ricordare le donne di Botero,
la Katiuscia di Kiev
ha messo piede nella casa
e nella nostra squilibrata età,
anche se amiamo ancora gli aquiloni
e i kayak per superare il mare.
3
Accendi la TV a vedere se hanno ucciso il gobbo,
ritrovato nel bosco il corpo di Jonny Boy,
il V-Day a Piazza San Giovanni,
la Storia siamo noi,
noi il Nulla, i morti da dimenticare,
se nevica ancora, se continua
nel buio luminoso, l’infantile disastro del mondo,
sbiadito nello specchio il doppio di noi stessi.

La sera ci guardiamo mentre affondano le rughe.

Prova a cercare, con il cordless o con il palmare,
se nel profondo degli spazi
ci sono ancora Nonno God e Mister Prufrock.
4
Per una festa la Caterina si è messa in moto
portando souvenir, il breve filamento delle cose.

Si sente che c’è Aprile, nuovo d’ali e di beccucci.
Qualcuno si siede sul sofà,
guarda i quadri alle pareti,
gusta sorbetti Carte d’or.

Arrivano messaggi, anime,
si scruta la lista degli assenti.

Il tempo stringe, vola la civetta,
qualche filo si spezza,
passa di mano il libro di Ken Follett,
effetti speciali nell’equilibrio della sera,
e fermo immagine con ricordo di famiglia,
non abbiamo innocenza né colpa,
solo il probabile evento del caso,
il breve filamento delle cose.
5
La sera ci colse di sorpresa
mentre batteva ai vetri
la rabbia del mese.

Domani la gazza
supererà di nuovo il muro di cinta
portandosi via i kelloggs al ketchup.

Il panorama non è più quello di prima
e dove c’era il busterbook
ora splende una villa.

Es una casa muy especial, disse Paco,
y valiosa porque la construyeron mis padres
con muchos esfuerzos.
Tiene dos pisos y una buhardilla
en la zona de noche.

Sombra y sueno a volte tornano
a coprire la zona dolore
del nostro passato.

Nel verde che avanza
potrebbero starci anche una chiesa
o una maison con draps,
e serviettes de toilette,
e qualcosa che ancora rimane della nostra vita.
foto donna in stile

6
PIOMBO FUSO

Sono anni, Louisette, che guardi la Senna,
come un uccello il bianco dell’inverno.

Non ti dico, quanta neve è caduta sullo Stelvio!

Nelle cabine c’erano avvisi di keep out,
una guida turistica del Rotary Club,
e un cuore di rossetto
firmato Goethe.

Il gelo ha impaurito i passeri forestieri,
inaciditi i mirtilli nelle cristalliere.

Da nord a sud barometri impazziti,
ghiaccio,
fosforo bianco su Gaza City,
tra artigli di condor sulle carni,
Mater dolorosa,
che facesti rifiorire il biancospino sulla collina.

Gennaio ha riacceso i candelabri
nel concerto dei morti,
tra toni bassi e controfagotti

Non so come tu abbia fatto a recidere le corde,
se il più sottile e amaro della vita
è il ricordo.

A monte e a valle
profumo di tulipani, briefing.

Eppure se ci pensi, capita di morire ogni giorno,
di passare più volte sotto il ponte di Mirabeau!

Ti dico solo che all’improvviso,
finito il piombo fuso su Jabaliya
si sono di nuovo accesi i lampi nella sera,
i fantasmi della Senna.

7
GLOSSARIO TERAPEUTICO

L’acne ha scavato il derma, doctor.
Bisognerà passare all’ablazione,signora,
prima delle devozioni della sera.
Non vi è altra speranza, altra cura
dopo il Differin Gel, e il peeling,
non allergenico, non comedogeno,
con Salicylic Acid e Lactamide Mea.
Bisogna aver pazienza, Madame,
aspettare il Big Ben
stando con monsieur K allo chateau d’Orleans.
Questa è opera di dèmoni e cherubini, di riti Voodoo.
Prima di dormire non segua il Gossip, le lezioni di Baricco,
La solitudine dei numeri primi, le staminali,
le ali dei rondoni, il Catamerone di Sanguineti,
le morti dei poeti ottuagenari.
Ci rallegrano le short stories dei Dream Songs.
Per il septemberfest preghi Dante di non farla incontrare
Farinata degli Uberti; chieda una terzina al lotto.
A Flintstones House, c’è un – tetto bianco a cupola,
muretti di pietra vulcanica, interni freschissimi.
E a Santorini, vi è pure un’ex dimora rurale –
ed un pendio per l’aldilà.
Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I, come Ipèrbato, O, come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

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EDITH DZIEDUSZYCKA 8 Dicembre, ore 18, PALAZZO DEI CONGRESSI di ROMA (Piazzale Kennedy)  SALA AMETISTA, PRESENTAZIONE di “TRIVELLA” Interventi di Sandro Gros-Pietro, Giorgio Linguaglossa, Pino Censi – DUE POESIE da “Trivella” (Genesi, 2105 pp. 130 € 12) “Per una poetica del Vuoto” Questa “Cosa nuova” che galleggia nel vuoto – con una nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

 foto donna con pavimento a scacchiD’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

  Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

              Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius.

              Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

foto donna seduta

Giorgio Linguaglossa: Per una poetica del Vuoto. Quella “Cosa nuova”

I

«Interno senza mobili.
Luce grigiastra.
Alle pareti di destra e di sinistra, verso il fondo, due finestrelle molto alte da terra, con le tende tirate.
In primo piano, a destra, una porta. vicino alla porta, un quadro appeso con la faccia contro il muro.
In primo piano a sinistra, ricoperti da un vecchio lenzuolo, due bidoni per la spazzatura, uno accanto all’altro.
Al centro, coperto da un vecchio lenzuolo, seduto su una sedia a rotelle, Hamm».

È la didascalia d’inizio di Finale di partita (1957) di Beckett. In un certo senso, questo introibo può fornirci un incunabolo di ciò che ospiterà il palcoscenico, non solo per il teatro dell’avvenire ma anche per il romanzo e la poesia dell’avvenire.

Anche questo libro di Edith Dzieduszycka mette in scena una rappresentazione primaria, il fondamentale, ciò che è rimasto dopo il naufragio di quel Titanic che un tempo è stato l’«io» della Ragione Occidentale. E non può essere diversamente: ogni libro di poesia che si fa oggi non può che replicare il calco, lo Urbildung, la forma primaria. Oggi, un libro di poesia degno del nostro tempo non può che rappresentare qualcosa che richiami alla memoria la Struttura Assente, quello che gli esistenzialisti chiamavano negli anni Sessanta il «nulla» e che oggi alcuni filosofi preferiscono chiamare il «Vuoto». La rappresentazione primaria di Edith Dzieduszycka ospita l’azione scenica primaria: la rappresentazione della morte dell’«io», e della sua resurrezione, ma solo come involucro, surrogato, idolo, feticcio di un «io» che è scomparso. Ritorna in mente l’interpretazione adorniana secondo la quale l’opera d’arte del dopo Auschwitz,  non può far altro che dichiarare la negatività del presente, e nel trovare una sua positività proprio in questa dichiarazione sostitutiva di negatività. Qui Adorno coglie un elemento essenziale della poesia del Dopo Auschwitz: la rappresentazione del negativo come essenza della poesia moderna.

Trivella di Edith Dzieduszycka prende atto della fine della poesia positiva, del decesso della poesia-conversazione, trova una sua ragion d’essere nello svuotarla dall’interno, innanzitutto riducendo il colloquio (la conversazione) in un monologo fine a se stesso, privato della sua funzione significante, e quindi sociale; e poi perché nel libro si mette in atto il fatto nudo e crudo della morte dell’«io», rivelandone la natura di rappresentazione teatrale, di fiction e nulla più.

Leggera
eterea
galleggiava
la Cosa nuova
indescrivibile
sgusciata dall’io
ormai disabitato

e volava
quella Cosa strana
volava…

foto donna con maniDunque, ci sono «un frastuono di luci», «luci bianche», «un tappeto», una «Cosa nuova» «sgusciata dall’io», c’è una «paccottiglia derisoria / ciarpame superstizioso». C’è tutto il necessario per indicare un interno borghese con tutto il suo armamentario di delitti e di scheletri stipati negli armadi, con anche lo scheletro della cultura e delle cose «belle».

Ovattato
incredulo
volava
quell’Io nuovo
Forse provano simili sensazioni
incomunicabili
i cosmonauti
nello spazio
le farfalle
liberate dalla crisalide
i pesci
e i pulcini
dall’uovo
[…]
Avevo letto
di lunghi tunnel
in fondo ai quali scintillano
luci bianche
abbaglianti
Avevo sentito
di musiche celestiali
di ombre
pian piano riconoscibili
che avanzavano incontro
a chi si era smarrito
Paccottiglia derisoria
ciarpame superstizioso
che allora
tanto
mi irritavano

Ed ecco
proprio quelle sensazioni
stavo provando
Ero fermo
e volavo
Ero fermo
e scivolavo
lungo pareti ondeggianti
dai colori mai visti…

edith dzieduszycka 1

È l’esistenza di un «io» che è rinato dal decesso del precedente:

Altro ormai era
l’Io
sfilato dal guscio
per approdare
a dimensioni sconosciute
ero diventato quello
che aveva sostituito
l’io precedente
e guardava
più in basso
la buccia vuota…

Una voce monologante, la voce di un «ectoplasma» che racconta una «scoperta incredibile», «Al di fuori di ogni immaginazione». Il Nuovo «Io» che vive in un mondo di altri «io» sopravvissuti ad una catastrofe, senza saperlo, senza neanche sospettarlo, che guardano al nuovo «Io» «come se fossi / un pericoloso extraterrestre». È il mondo del Dopo la terza guerra mondiale, del Dopo il conflitto atomico, del Dopo lo scontro delle civiltà. La voce monologante parla, straparla, è una voce alienata ed espropriata di se stessa, la voce di un morto vivente, di un sopravvissuto di «un pericoloso extra terrestre» che non sa che farsene di questo nuovo «io» che «galleggia» nel vuoto.

La poetessa utilizza il piano basso del linguaggio, un parlato a metà tra la conversazione e la confessione, lessico sobrio, visione minimale o minima delle cose, attenzione che si posa sugli aspetti minimi delle vicende rappresentate, «tra persone ben educate» come l’attesa in un ufficio dell’anagrafe dove con 26 centesimi ci si assicura «d’esistere in vita». Una condizione nella quale «mi manca l’orizzonte», quel malessere quieto dell’esistenza tipico delle società della affluent society, come si diceva una volta, prima dell’epoca della stagnazione e della recessione. Non c’è altro da dire per un poeta della metropoli odierna come Roma dove la Dzieduszycka vive, tutto è a posto, la borghesia colta mediatizzata vive nella «sfilata di salotti con arredi pregiati / Nulla da contestare», alla poesia non è rimasto nulla da dire. Altro che poesia civile, o impegnata, qui è la poesia che è stata fatta sloggiare dal ruolo di critica sociale nel quale un tempo si pacificava la coscienza delle anime nobili, ormai la pacificazione è entrata dentro le cose, dentro un modo di vita che non promette alternative, e alla poesia non resta altro da fare che prenderne atto.

foto New York City

New York City

Come un tempo si diceva, la visione del mondo della Dzieduszycka, la sua Weltanschauung, (se vogliamo apparire colti), è ben indicata dalla citazione di Emil Cioran posta in esergo del libro: «Bisognava rimanere allo stato larvale, fare a meno dell’evoluzione, rimanere incompiuto, gioire della siesta degli elementi, e consumarsi placidamente in una estasi embrionale». Il titolo della prima sezione del libro è: «Andata e ritorno». Il cerchio si è chiuso. Tutto è finito. Non è propriamente, credo, la storia dell’eterno ritorno, ma un ritorno che segna definitivamente la morte di tutto, perché nella storia del nichilismo moderno siamo arrivati a questo punto, alla morte del tutto e al ritorno nel nulla. Il luogo dell’azione è, come quello del Finale di partita, un interno spoglio, illuminato da una luce grigiastra, forse ci sono due piccole finestre poste in alto, forse è il palcoscenico stesso, forse è l’interno dell’occhio che guarda, o forse è il «palcoscenico dell’anima mia» di Palazzeschi? No, è il palcoscenico con un feretro nel mezzo, il feretro dell’«io» morto. Si tratta dunque di una meta-narrazione, poesia meta-teatrale, meta-poesia. Siamo dentro un bunker, un rifugio in mezzo alla neve che imperversa, o un rifugio antiatomico, dopo l’esplosione di una bomba nucleare. Dentro, c’è un sopravvissuto, l’«io» che è morto e che è rinato, non si sa come e non si sa perché: «In frantumi / testa / petto / corpo intero / dolore / frastuono / luci…»; «Contemplavo / qualcosa / che ero stato / che era stato mio / che assomigliava / a quel che ero stato / steso sul tappeto / insieme all’altro corpo / sconosciuto / portato lì / per essere consumato // L’altro corpo / avvinghiato / all’involucro di me / abbandonato / L’altro corpo / fremente / che lottava / si divincolava / per liberarsi dalla morsa inerte…».

5

Mi hanno trasportato
in un luogo bianco
freddo
illuminato da luci
abbaglianti
e crudeli

Maledetti
non ho potuto fermarli

Si sono a tal punto
ingegnati ad ostacolare
il corso naturale delle cose
si sono accaniti
con tanta ostinazione
a risalire la foce
della mia corrente
che ci sono riusciti

E strappavano dalla morbida nicchia
nella quale mi stavo adagiando
i pochi filamenti che
ancora
mi mantenevano
allacciato al voltaggio di giù
per ricollegare gli ultimi elementi
ancora disgiunti

Si sono poi congratulati
rumorosamente
tutti intorno al mio letto
somministrandosi grandi pacche
sulle spalle
mentre stappavano
bottiglie di champagne
con un brindisi

Abbiamo lottato a lungo
vecchio mio
ma ti abbiamo salvato !

gongolavano
gonfiando il petto
E proclamavano
orgogliosamente

Faticoso è stato l’atterraggio
ma ce l’abbiamo fatta|
L’abbiamo ripescato per i capelli
Potrà accendere un cero
alla Madonna
e uno
più grande ancora
a noi!

Ma non m’importava nulla
dei racconti di quelle
– ai loro occhi –
prodezze
Anzi
mi facevano rabbia
Non mi avete chiesto
né il mio parere
né il mio consenso
Che d’altra parte
in quel momento
non sarei stato in grado di dare
Ed è
quell’incapacità
l’unica scusante
che riesco a concedere loro
la sola discolpa
che a malincuore
posso loro riconoscere
però non volevano ammettere
di aver agito
con una prepotenza inaudita
di essersi appropriati
di una vita
non loro
di aver oltrepassato
i limiti

erano invece sicuri
di stare dalla parte giusta
Sgomenti
e rabbiosi
mi hanno preso per pazzo
rimanendo di stucco quando
invece di ringraziamenti
si sono visti bersagliare d’improperi
Ma dov’era
il grande merito
che si attribuivano?

Pensavano forse
di essersi trasformati
negli artefici
di una resurrezione
di una ri-creazione?
Riacchiappando il bandolo
d’un misero gomitolo
che si stava esaurendo
e il cui filo era sul punto
di sfuggir loro dalle mani
per smarrirsi e sparire
nella grande matassa del mistero

Aver riportato indietro
uno
uno qualunque
contro la sua volontà
a loro sembrava
un’impresa prodigiosa
degna dei più grandi elogi
di un’eterna gratitudine

Invece no

Per me si era trattato
soltanto
di un andare
contro la corrente
dell’ineluttabile
Di una mossa prepotente
per la quale li odiavo
adesso
con tutte le mie forze

Perché avrei voluto
rimanere
lassù
sospeso
senza identità
senza peso
senza consistenza
senza pensieri.

Ci stavo bene volevo rimanerci

Là sotto
invece
ombre in camici verdi
si agitavano
indaffarate e moleste
Mi pervenivano
le loro voci
lontane
immerse in un tiepido brodo
voci sempre più deboli
quasi inintelligibili
Dolori sconosciuti
m’avevano squarciato il petto
con lance
spade

coltelli
Poi
all’improvviso

si erano allentati
per sparire del tutto
Fuoriusciti
insieme all’io
testimone
osservatore
leggero come soffio
di brezza primaverile
Dapprima impaurito
poi incuriosito
appassionato
nel seguire le fasi
della metamorfosi
che si stava compiendo

Altro ormai era
l’Io
sfilato dal guscio
per approdare
a dimensioni sconosciute
ero diventato quello
che aveva sostituito
l’io precedente
e guardava
più in basso
la buccia vuota

Spettatore
del mio rifiuto
scarto del mio rifiuto
diniego
a reintegrarlo
Oggetto impotente
senza più voce né volontà
in balia del balletto verde
indaffarato
che gli volteggiava intorno
mosche ronzanti
avide
all’assalto d’un pezzo
di carne marcia

Ho capito poi
qual era lo scopo
di quelle mosche prepotenti
Cercavano di rianimare
le sembianze del me
di ridare movimento
alle membra inerte
battito
al cuore impazzito
poi ineluttabilmente
fermo

Hanno palpeggiato
massaggiato
perforato di aghi
fatto saltare
cavalletta impazzita
la bestia renitente

e sopra quella bestia
lottavo
con tutte le mie forze
gemevo
non mi sentivano
gridavo
non m’ascoltavano
urlavo
e a loro
non arrivava nulla
della mia disperazione
mi opponevo
con tutte le forze
alle loro manovre

Ma possiede forze
un ectoplasma?
Così ho capito
in modo sempre più chiaro
che la lotta era vana
Inutili
i miei patetici tentativi
di oppormi
Cominciavo a sentire
che i fili si stavano
riannodando
che il guscio vuoto
era pronto
a spalancarsi
del tutto
per riassorbirmi
per imprigionarmi
nuovamente

Perché loro
erano i più forti

Non dovevo illudermi

Ormai
avrebbero vinto.

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NOEMI PAOLINI GIACHERY: È Zeno l’assassino. Appunti sul romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno . Indagine di un critico inquieto e curioso. Il romanzo della Crisi europea

 

Magritte 2A ventidue anni dalla pubblicazione del mio saggio sveviano, Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, Studium,Roma 1993, nonostante l’iniziale attenzione da parte della critica che accolse il testo con numerose segnalazioni favorevoli, le proposte che, nelle mie intenzioni, costituivano le più significative novità  sono rimaste senza seguito. Nella critica successiva non ho infatti incontrato né adesioni né contestazioni e ancora la “vulgata” continua ad ispirare i fuorvianti riassuntini del romanzo in cui si impegnano su internet diverse volenterose scolaresche.  Del resto già allora, nell’Introduzione, notavo che «nel grande mare della critica sveviana non è facile rintracciare percorsi lineari segnati da approdi e da acquisizioni definitive e che le prospettive critiche sono, in genere, divergenti e disparate e, per di più, il contrasto dà luogo solo di rado a un aperto dibattito». Vorrà forse dire che ha ragione Mario Lavagetto quando sostiene, a proposito della Coscienza di Zeno, che il narratore è «inattendibile» e nulla di quanto dice è credibile e il lettore che provasse a credere che nel testo sia possibile «distinguere verità e bugia» sarebbe un ingenuo caduto nella trappola dell’autore, il cui unico intento sarebbe  quello di sbeffeggiare tutti inventando, per una pura sperimentazione letteraria, un racconto destinato a un «lettore incredulo», totalmente «incredulo» (per altro atteso a lungo se il primo così classificabile  è appunto Lavagetto stesso).

Ora, essendo io una lettrice non “totalmente incredula” ma portata a cercare una verità dietro le stesse bugie del protagonista, mi sono impegnata in una interpretazione del testo che,  apparsa nel mio primo libro sveviano in un capitolo intitolato Una rimozione contagiosa, fu riproposta in pubblicazioni successive con insistenza quasi maniacale.

La mia ricerca prendeva le mosse da un dialogo tra Guido e Zeno nel quale ho sempre individuato un nodo centrale del romanzo.

Magritte 4Ecco il passo trascritto dalle pagine 1006-7 dell’edizione mondadoriana. (Avverto subito che in questo caso del tutto inattendibile è l’ipotesi di una distrazione di Zeno per il lettore consapevole che Zeno nei suoi frequenti colloqui con il suo rivale Guido è sempre spasmodicamente attento e teso come un duellante a colpire e a parare i colpi dell’avversario).

Guido improvvisamente domandò: – Tu che sei chimico sapresti dirmi se sia più efficace il veronal puro o il veronal al sodio? – . Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio. Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente. Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere – come si vede in quel caso – anche delle cose che ignoro. Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che più facilmente si assimilavano. Anzi a proposito del sodio ricordai – e riprodussi più o meno esattamente – un inno a quell’elemento elevato da un mio professore all’unica sua prelezione cui avessi assistito. Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi più rapidi. E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco più profondo della terra, il mare. Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell’enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio.

Dopo un’esitazione, Guido domandò ancora:

 – Sicché  chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio? –

– Sì – risposi. Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi: – E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro[il corsivo è mio].

Italo Svevo 1Gli studi di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare. Invece io non compresi nulla, preoccupato com’ero dal sodio, con un rispetto infinito.

Fin dalle prime letture della Coscienza a questo punto mi si affacciava uno strano problema, che sembrerebbe più adatto a impegnare un lettore di romanzi gialli che un interprete letterario: Zeno è o non è assassino?

Mi è sembrato di dover rispondere senza alcuna esitazione che Zeno è, sì, assassino, e la risposta mi sarebbe sembrata ovvia se non avessi dovuto riconoscere, con vero turbamento, che per la critica sveviana non lo è affatto.

Il dialogo sul veronal, da me già citato, è per lo più ignorato nonostante la battuta finale («E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro»), che a me sembra micidiale come un ordigno a orologeria.

Qualche dubbio sulla positività dei sentimenti di Zeno per Guido è sollevato soprattutto dal “mancato funerale” e da una supposta “omissione di soccorso”.

Ma, quel che è più strano, la stessa critica psicanalitica, che avrebbe strumenti adeguati e prospettive mirate per dare il giusto rilievo a questo episodio, all’ultimo momento scantona.

Potremmo pensare a un caso curioso di rimozione contagiosa, di «zenizzazione» degli svevisti (e poi c’e chi dice che il Soggetto sveviano non suscita l’identificazione del lettore!).

Italo Svevo 2Bisogna ammettere che qualche occhio più attento a cogliere questo punto nodale ma non a trarne le necessarie conseguenze si può trovare in uno degli interpreti sveviani (di cui ho altrove esaminato in una ricca rassegna le opinioni da me non condivise).

Sembra che Zeno sia finalmente smascherato proprio da Mario Lavagetto il quale, nell’Impiegato Schmitz, sostiene che Ada, «come il lettore del romanzo, vede in Zeno un ingegnoso, abilissimo criminale che aiuta Guido e gli consiglia il veleno più adatto».

Ma, a parte il fatto che Ada non vede niente di tutto ciò, ma solo l’odio di Zeno verso Guido, da lei per altro condiviso, per Lavagetto, come si è visto, nel testo sveviano confessare è mentire e nessuna conseguenza si può trarre dall’episodio (l’unica confessione di Zeno a cui si presta fede è dunque l’affermazione che «una confessione in iscritto è sempre menzognera»). Lavagetto anzi porta alle estreme conseguenze l’idea, sempre più invalsa negli esegeti più recenti, di una disintegrazione del personaggio e della realtà stessa nel romanzo, sostenendo «il carattere fittizio», a fondo «bucato», del testo in cui «i referenti risultano azzerati» .

Dopo il lungo equivoco realistico la critica sveviana ha giustamente rivendicato la soggettiva ambiguità, la polisemia della scrittura di Svevo, che non era sfuggita neppure ai primi interpreti. Ma ha forse peccato di ipercorrettismo quando, supponendo nell’autore una deliberata scelta del «non senso» , ha cominciato a parlare di una scomparsa del personaggio, di uno «sfaldamento della personalità» , di un soggetto «visto come incerta e provvisoria molteplicità di nuclei psichici» , di un «personaggio “aperto”, non definibile entro un unico carattere, ma capace di accogliere in sé uno spettro vastissimo di motivazioni tali da elidersi anche a vicenda» (il corsivo è mio).

MagritteIn realtà questo personaggio, come tutti i protagonisti sveviani, è riconoscibile come pochi personaggi della letteratura mondiale e dunque vuol dire che non è disintegrato. E il suo discorso fornisce non solo messaggi ambigui e polivalenti, ma anche dati univoci e indiscutibili all’interno del contesto.

 E questa ricostruzione dell’evento letale mi pare proprio un dato certo e quanto mai significativo.

Nella Coscienza la rilevanza della responsabilità di Zeno nella morte di Guido si comprende anche solo in un’interpretazione letterale dell’episodio citato, ma si può confermare in una lettura integrale attenta all’uso mirato, da parte dell’autore, di varie spie disseminate nel testo e di vari strumenti specifici del discorso letterario. E a questa analisi concederò qualche spazio anche se può sembrare superfluo andare in cerca di indizi in un caso di flagranza.

Anzitutto mi sembra significativo che il discorso sulla parola, quel metadiscorso che non manca mai negli scritti sveviani, nella Coscienza si appunti sul problema del rapporto tra parola e azione, termini ora dissociati, ora –meno vistosamente – associati. Momento culminante di questa vicenda tematica è il passo in cui Zeno accenna alla possibilità di «parole-azioni», «parole di Jago».

Osservando poi la struttura dell’opera (che non è, come si ripete,  informale e priva di cronologia e di trama)  si nota che i quattro capitoli centrali, che si succedono secondo un ordine, sia pur approssimativamente, cronologico, iniziando con la morte del padre di Zeno, culminano proprio, quasi in un climax, o piuttosto in una parabola, nella morte di Guido (evento che, a leggere bene il testo, a posteriori naturalmente, può risultare anche variamente prefigurato e atteso). Si può notare anzi, in questa parte centrale del libro, una certa ciclicità. Il primo di questi capitoli, sulla morte del padre, mostra più di una corrispondenza col quarto, e in particolare con la fine del quarto, dove muore Guido: la scena notturna, la pioggia, lì una «pioggerella», qui anche una «pioggerella» ma che diventa presto «pioggia abbondante» e, infine, «diluvio», l’intervento ritardato del medico. In effetti l’uccisione di Guido – e qui la psicanalisi ha voce in capitolo – è il soddisfacimento per interposta persona del desiderio di uccidere il padre, il primo vero rivale che si incarna ogni volta nei rivali successivi.

Magritte 3Non per niente nel capitolo successivo intitolato Psico-analisi, che conclude il libro in forma di diario, ricompare con particolare insistenza il tema del rapporto col padre attraverso sogni della cui significanza Zeno, in malafede, cerca di farci dubitare per depistarci. E la manovra gli riesce abbastanza, dal momento che alcuni critici non riconoscono alcun nesso tra le immagini evocate e la vicenda che precede (non ricordando che anche il depistaggio iniziale sul tema della locomotiva era poi stato clamorosamente vanificato).

Mi soffermerò anche sul racconto della morte di Guido per notare la significativa evasività del narrante. La prima volta l’evento è comunicato in posizione secondaria (almeno cronologicamente e sintatticamente):

«Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto. Molto più tardi seppi come poté accadere una cosa simile».

Si conclude qui il ciclo temporale che va dalla morte del padre alla morte di Guido e che vuole presentarsi compatto e con un suo preciso significativo sviluppo, in quanto costituisce il campo su cui deve incentrarsi lo sforzo di interpretare un destino

I capitoli cronologicamente e semanticamente dispersivi, posti prima e dopo questo corpo centrale, presentano a loro volta una corrispondenza tematica per le immagini infantili connesse al tema paterno e materno che, balenate fugacemente nell’ incipit, sembrano farsi più frequenti e più chiaramente allusive benché Zeno non voglia riconoscerlonella parte finale. Dove assistiamo veramente allo sforzo drammatico del protagonista per celare, forse anche a se stesso, il suo tremendo segreto, così intollerabile che ogni allusione, pur vaga e indiretta, ai suoi sentimenti ostili per Guido provoca reazioni parossistiche.

Italo SvevoCosì Zeno commenta evocando il momento in cui Ada gli aveva rivelato, dimostrandogli al tempo stesso affetto e stima, di conoscere il suo odio per Guido. «Enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità. Io protestai, ma essa non mi sentì. Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza: – Ma è un errore, una menzogna, una calunnia. Come fai a credere una cosa simile? –».  Una situazione da incubo. E anche nel rapporto con lo psicanalista ammette che gli «fu anche più difficile di sopportare quello ch’egli credette di poter dire dei suoi rapporti con Guido». Zeno infatti si difende evitando  «i sogni ed i ricordi» e dando ormai libero sfogo alle invenzioni, alle menzogne, come ammette nel diario. E forse per questo interrompe la cura, che in ogni caso, di fronte a una resistenza così tenace a superare la rimozione, non avrebbe potuto mai avere un esito positivo. (Ma Svevo nella terapia psicanalitica non crede). Se Zeno fosse stato solo distratto non avrebbe dovuto almeno rammaricarsi di quella fatale distrazione? Ma l’ostinato silenzio, anche con se stesso, sul senso di colpa relativo alla morte del cognato dimostra che non si trattò di pura distrazione. E dimostra anche che Zeno è ben lungi dall’assolversi. Non c’ e scetticismo o relativismo etico che possa liberare Zeno dal suo oscuro rimorso. L’apocalittica profezia che chiude il romanzo è in stretto rapporto con questo pessimismo etico.

Magritte 1Naturalmente nel testo cartaceo la mia tesi si avvaleva di una documentazione, anche bibliografica, molto  dettagliata e organica e apriva nuove prospettive  per la critica sveviana in un continuo riferimento al macrotesto e alla personalità e alla cultura dell’autore non eludendo zone d’ombra (si ricordava  che il tema dell’omicidio, connesso a quello del riscatto estetico attraverso la scrittura, aveva un suo strano spazio anche nella vita e  in altri scritti di Svevo). Accanita e particolareggiata la  contestazione del nichilismo di Lavagetto (ormai curatore dell’edizione mondadoriana dei Romanzi di Svevo) per salvare almeno l’alto valore di esperienza conoscitiva che non si può non riconoscere all’opera di Svevo.

Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi su riviste.

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Salvatore Martino POESIE VARIE da “La metamorfosi del buio (2006-2012)”, “Libro della cancellazione (2004)”, ora comprese in “Cinquant’anni di poesia (1962-2013)” Roma, Edizioni Progetto Cultura 2014 pp. 1008 € 25 “Nel mio locus amoenus interrogando” “Il messaggio dell’imperatore”, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Nel 2015 esce l’opera completa del poeta in Cinquant’anni di poesia (1962-2013). È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura “Belmondo”. Dal 2002 al 2010  ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

roma Fayyum ritratto di uomo

Fayyum ritratto di uomo

Commento di Giorgio Linguaglossa

Non ho letto I Dodici di Blok o le poesie di Herbert per sapere qualcosa di più sui loro autori: semplicemente, volevo sostare in quell’aura, in quella leggerezza, in quell’atmosfera, o insania. È un paesaggio, la scrittura, che non va a finire da nessuna parte, è lì e basta. Respirare in quel paesaggio la sua atmosfera è tutto quello che si può fare. C’è una trama?, c’è uno sviluppo?, c’è un senso?. No, in poesia non c’è nulla di tutto ciò. Possiamo leggere questo libro di Salvatore Martino come possiamo stare seduti su una sedia a dondolo all’ombra di un albero a goderci un paesaggio, nell’aria pulita del mattino. Ora, provate per un attimo a smettere di dondolarvi. Non è la stessa cosa, vero? L’atmosfera di un bel libro è il dondolio della sedia. Nient’altro. E il vento che ricompone l’erba di quel campo, lo scorrere delle nuvole che proietta ombre passeggere sugli alberi. Quel volo d’un uccello e, in alcuni casi, il rumore delle foglie di un albero o quello di un treno che passa lontano sui binari. L’atmosfera di un libro di poesia è tutto ciò : ciò che vive della scrittura dopo che essa è morta, scritta in un linguaggio morto perché fissato nel tempo e dal tempo. È ciò che rende quella scrittura vivente. È l’increspatura sulla superficie dell’acqua.

Il solo motivo per cui si legge un libro di poesia è perché quel libro ci consente di sostare in un luogo in una atmosfera particolare e irriducibile, respirare quell’aria, quel profumo singolarissimo differente da ogni altro profumo e che c’è solo lì e non in nessun altro libro.

Recentemente, una poetessa contemporanea, Laura Canciani ha scritto: «il libro di poesia ha lo svantaggio di dover fare a meno della “trama” rispetto al romanzo e al giallo; ha lo svantaggio di non poter prendere il lettore per il colletto e trascinarlo nel luogo del delitto che ha deciso il narratore di thriller; il libro di poesia è inerme, non ha alcun potere sul lettore, non il potere della seduzione da risultato né quello di seduzione da abilità che ha invece il romanzo (e in specie il thriller). Il libro di poesia non ha alcun potere sul lettore. Questo è il suo più grande limite ma è anche il suo più grande pregio. I modesti poeti allora tentano dei surrogati: la fibrillazione e l’estroversione dei palpiti dell’io con esagerazioni dionisiache verbovolanti. I poeti di livello superiore invece non ricorrono ad alcuna di queste “seduzioni”, si limitano a disegnare un’atmosfera, un profumo, un minimo rumore di parole…».

roma Fayyum-Portrait-II

Fayyum-Portrait- 120-140 d.C.

Nello stile di Salvatore Martino ci sono, soggiacenti, come in vitro, tutte le contraddizioni e le antinomie che stanno al fondo della poesia di questi ultimi decenni: Da La Bufera (1956) di Montale in poi,  quella particolare ingessatura dei linguaggi poetici che derivavano la propria prassi artistica dalla filosofia del presente, dalle “occasioni” (che non svelano più alcun simbolo, tantomeno metafisico, anzi, che non svelano nient’altro che un segno), dal lacerto di memoria, dal lapsus, dal commento a una notizia di cronaca o di storia o di geografia o di botanica etc..

Dalla fonte dell’Erlebnis, dalle zattere della temporalità, dalla Lingua degli angeli e da quella del Mito siamo arrivati a quella «cosa» che si è fatta in questi ultimi decenni di tutto e per tutti. La poesia si è democratizzata. Si è creduto così di fare una «cosa» democratica, di portare la poesia alla mensa delle masse dei lettori. Ma ci si ingannava. Nel frattempo, con l’invasione della cultura di massa, il mondo si era imbarbarito e la poesia, in risposta aveva tentato di inseguirlo diventando sempre più democratica, demagogica, seduttiva e permissiva.

Salvatore Martino, in una certa misura, avverte tutto ciò e tenta la risalita, tenta di andare contro corrente, di ritornare indietro, di fare una poesia «difficile», elitaria, solistica, forse presuntuosa come può essere presuntuoso parlare di sé, dell’io, del dramma della morte che si è dovuto affrontare, come se ciò potesse veramente interessare a qualcuno; alza il tono, alza l’asticella delle difficoltà, tenta di sfondare il pentagramma lessicale e sonoro, cambia spesso la chiave di violino. Ma tant’è, Martino traccia la sua dritta via nella selva oscura della democrazia dispiegata e va dritto per la strada tracciata:

Ancora una volta
una lunga degenza in ospedale
e stavolta davvero
ho guardato l’abisso
e l’abisso ha guardato dentro di me
Sono disceso come Odisseo nell’Ade
e mani d’amore
mi hanno trascinato fuori
dal gorgo dove ero scivolato
come chi dorme si abbandona ai sogni

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Fayyum Portrait (120-140 d.C.)

È una poesia che nasce dal fondo oscuro della coscienza «In my beginning is my darkness (…) In my darkness is my beginning», forse con un eccesso di reminiscenze classiche. Continua l’autore:

Angelo atterrito
che abiti le caverne del mio fiato
tieni lontana
dall’orma del mio piede dall’approdo
la bianca figura dell’Isola dei morti
riportala nel gorgo della sua tela
con l’alito atroce della tua parola

È un libro che nasce dall’esperienza della morte toccata con mano dopo una lunga malattia. Un’esperienza terribile. Ma è grazie ad essa che la poesia è tornata ad abitare nella casa di Salvatore Martino. Di questo libro preferisco le poesie in cui l’autore commenta le proprie esperienze di vita con parole semplici, dirette:

Dopo mesi d’insperato silenzio
è tornata a inquietarmi
la poesia
con le sue beghe e le ambiguità
le sue maledizioni
la consueta tirannia della parola
la sua equivoca trascendenza

Credevo di averla confinata
in una stanza priva di finestre
senza il sospetto
di una impossibile sortita

Invece è ancora qui
a colmare di sangue
la nostra liturgica ferita

roma Fayyum portrait d'homme

Fayyum portrait d’homme (120-140 d.C.)

Scrivevo in una recensione pubblicata sulla rivista “Poiesis” nel 2004 a proposito del libro di Salvatore Martino Libro della Cancellazione Roma, Le Torri, 2004:

“Il poeta siciliano Salvatore Martino, nato ad Agrigento nel 1940, fa parte di quella generazione di poeti che intorno agli anni Ottanta e Novanta ha percorso la strada di una ristrutturazione del discorso poetico. Per Martino, poeta eminentemente e modernamente lirico, la strada da seguire era quasi obbligata: la sliricizzazione della poesia e il tono understatement, il piano basso del linguaggio, con abbandono del terreno eminentemente novecentesco delle pratiche di «ironizzazione» del reale e di «supponenza» dell’io.

Con il senno del poi, possiamo guardare agli anni Novanta come un percorso ad ostacoli nel quale era già stata tracciata la direzione da seguire: una poesia «dopo l’età della lirica»: da alcuni ipotizzata come una sorta di generica poesia narrativa, da altri invece preconizzata come una ripresa dei modelli poetici novecenteschi rivisitati e opportunamente ristrutturati.

Clausura e restrizione, esperienza del limite e della soglia e conseguente angoscia di non poter attraversare la soglia della propria contemporaneità. È la problematica centrale attorno alla quale ruota la poesia di Salvatore Martino. Quello che si intende genericamente per poesia «moderna» è una sorta di «cancellazione», una sorta di tabula rasa che l’ultimissima poesia sembra volerci comunicare, in un contesto di eterna «belligeranza» (vedi la poesia «E lotteranno sempre l’angelo-dèmone e il bambino») e di ripiegamenti al privato, ad un privato depurato di ogni narcisismo cronachistico. Quanto a Salvatore Martino potremmo, fra tutti, citare l’esempio dei tre autoritratti («Autoritratto a punta secca», «Autoritratto su carta pergamena», «Autoritratto in sanguigna sopra carta di riso»), dove la ricerca ruota attorno alla condizione del soggetto che scrive il proprio autoritratto. È ancora possibile il ritratto? E l’autoritratto? È ancora possibile stabilire il binomio: ritratto-verità? È ancora possibile intendere lo spazio poetico come il luogo della verità? E, infine, l’ultima domanda: È ancora possibile lo spazio poetico? Ecco, il libro di Salvatore Martino tenta una risposta a tutte queste istanze. E già averlo tentato è motivo di grande considerazione. Innanzitutto il «viaggio», turisticamente attrezzato, polisticamente computerizzato e stilisticamente standardizzato.

roma Fayyum ritratto femminile 6

Fayyum ritratto femminile (120-140 d.C.)

Perché sia chiaro che per Salvatore Martino chi parla di «viaggio» o è un laudatore tempore acti o è un furbo o un baro, un prestigiatore, un falsario che tenta di spacciare la moneta falsa del «viaggio» per quella vera con il ritratto, o meglio, l’autoritratto del poeta in effigie. La strada che Martino percorre è l’esoterismo, a metà tra il triviale e il sublime, che è la replica, in negativo, di «Oswald’s Restaurant» di Cattafi («la vermiglia rete che ci tiene») in una suite così ricca di cromatismi quale è «Partenza da Greenwich», per non parlare di certo Cendrars, con le sue trasvolate oceaniche in altri continenti. Leggasi la poesia «Quella ragazza-dèa del Guatemala» ecco un colore che chiude, pur con la sua controllatissima tinteggiatura: «Ricordo una ragazza creola / nel bananeto presso Quiriguà / rideva imprecava si esibiva / contro una ciurma oscena d’individui / Non ho mai visto una bellezza uguale / perduta in un totale smarrimento». Mi sembra degno di nota che la serie intitolata «Dobbiamo imparare ad amare le nostre tenebre / anch’esse hanno bisogno dell’amore», consacrata più delle altre al dilatato sapore dell’avventura nel mondo fuori di casa, venga a culminare nella stanza di «Mi ricordo una notte in Amazzonia», àmbito circoscritto di per sé, cella senza confini, tempio della fantasia, continente della libertà fissato in una «sospensione temporale». Il tema del viaggio, paradigmatico e diaristico insieme, vi potrà far posto alla descrizione d’una temperie spirituale, ma più volentieri il perimetro formale sarà quello d’un luogo all’aperto, distante dalla stanza dove si svolge l’autoritratto del poeta. Fino alla sezione finale del libro, che così suona: «Alla radice al pozzo che risuona / alla dolce risacca torneremo / limpidamente oscuri d’ogni traccia», dove la borgesiana esibizione metaforica risulta ben orchestrata in contrappunto con una metessi metonimica. È la sezione forse più alta e concentrata del libro, il luogo dove si assembrano e si consumano tutte le linee di forza della sua poesia. Esemplare è il componimento «Il messaggio dell’imperatore» dove il re dei re, il morente Dario, sussurra disteso sul campo di battaglia, ad un soldato superstite, le parole che dovrà riferire all’orecchio del vincitore Alessandro il macedone. Forse, il senso ultimo della poesia di Salvatore Martino è questo: comunicare all’orecchio del lettore l’ultimo messaggio di una civiltà morente. L’ingresso nel Tramonto, il Libro della Cancellazione.

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

da Salvatore Martino da Cinquant’anni di poesia (1962-2013) Roma, Edizioni Progetto Cultura 2014 pp. 1008 € 25

Da Libro della Cancellazione (2004)

Questa partita che non sai giocare

Chissà? Sono gli dei
a muovere il bianco e il nero
della nostra partita?
O forse sono gli uomini a sognare
i movimenti alla scacchiera
questa battaglia con la sorte

I giocatori inseguono la mossa
inventano quelle successive
non conoscono il volto
il freddo e l’efficienza la paura
dell’avversario cieco
dalla parte opposta del quadrato
Tentano di spostare torri alfieri
di attaccare il re con le pedine
prestano il fianco ai cavalli
tendono l’agguato alla regina
sul piano fatalmente in due colori

Siamo i pezzi d’avorio?
O gli uomini? O gli dei?
Tutti ingabbiati Tutti senza uscita

Chissà se Dio la gioca la partita?
Se distratto ci muove col pensiero?
O anch’Egli è mosso
da una pedina ancora più lontana?

Come diventa strana questa storia
un calcolo e condiziona tutto il gioco
Io lo vorrei incontrare questo fuoco
questa divina conoscenza
in una stazione di periferia
nella hall di un albergo fatiscente
in una folle corsa in autostrada

Ma è veramente nata
questa sciocca contesa che viviamo?

Mestamente abbandono
i quadrati perfetti
dove le schiere si fronteggiano
in cromatica fuga
sul letto fatalmente in due colori
la verità e l’inganno
nell’alba e nel sogno ricomposti.

.
La moneta di ferro

Angelo dell’inizio e della fine
segreto mormorio del mio destino
sorvegli il respiro della casa
ogni mio movimento familiare

Come un serpente
scivolato all’alba
o nell’ora più atroce
prima dell’ultimo duello
tra la notte e il mattino
prepari l’imboscata

Indovino i tuoi trucchi
i sortilegi
l’ombra evocata dallo specchio
Del mio corpo e dell’anima
conosci ogni dettaglio
della mente

Ma io non ignoro
il tuo tremore
io come te la vedo l’avventura
che percorriamo insieme
in questo letamaio

Dèmone bianco
che baci il mio cuscino
quasi assetati di vergogna
senza una lira in tasca
in questo viaggio
dimenticammo l’armatura
in un campo di ortiche
e stranamente i cavalli
erano uno

Portami sulle spalle all’altra riva
un rosso fazzoletto di saluto
l’occhio giallo perduto nell’addio

Salvatore Martino guarda

Salvatore Martino

Non puoi non farlo

Neri cespugli coprono
il teatro in rovina
la maschera lasciata in camerino
il pane raffermo sulla tavola
la minestra gelata nell’acquaio
Perfetta si chiude la moneta
in entrambe le facce

Anch’io ti porterò
ai campi di narcisi in fiore
che l’isola nostra ha custodito
laggiù saremo
una bianca risacca
una canzone
un’alga perduta nella spuma

.
Le candele della notte si sono consumate

Sopra le balze di tufo
Machu Picchu domestico
che forse mi appartiene
il verde dilaga a primavera
il raffinato canto degli uccelli
Qui persino il vento
assume un andamento circolare

In questo paradiso ricercato
come un lontano appuntamento
dovrebbe sorridermi la vita
l’ansia distendersi sul volto

Incubi invece i miei pensieri
s’insinuano tra i muri
come morti giganti
Si fermano talvolta sulle soglie
sugli stipiti sbattono la fronte
agitando le chiavi

Dormono al mio fianco
affondano la testa sui cuscini
respirando a bocca spalancata
Usano il bagno schiuma
le mie saponette profumate
si radono la barba nello specchio
sussurrano parole
alitano vendette sulle spalle
s’infilano persino le mie scarpe
Attraccati alla sedia
guardano con sospetto
la macchina da scrivere
e questa d’improvviso
incomincia a battere da sola

Frugano la dispensa
negli armadi
senza testa né piedi
i vestiti passeggiano da soli
come svuotati di pensieri

Invece sono là questi nemici
spiaccicati negli angoli
aspettano pazienti
un passo falso
un alibi una resa
come tentacoli di seta
protendono le braccia
e la domanda accesa
dentro l’occhio cavo
mi arriva dentro l’occhio
sempre la stessa
e non avrà risposta

Sono divenuti familiari
complici di scalate nell’abisso
L’orologio commenta questo imbuto
dove qualche volta c’infiliamo
per addestrarci a non sentire
il rumore ostinato del silenzio

Li vedo sparire nella doccia
ma l’acqua non bagna i loro corpi
non raggiunge la bocca
non diviene fontana
sembra che trascini i loro piedi
come un fiume infernale senza uscita
simile a quelli nella piana di Olimpia
un’estate lontana
nel clamore di un’assurda vittoria
purificammo il corpo nell’Alfeo
prima di naufragare nel profondo

.
Intorno a quel che intendo di poesia

Io non credo sia giusto
come tu asserivi
dolcissimo De Libero
nella casa al quartiere Flaminio
in una Roma ormai dimenticata
che la poesia può essere creata
solo coi ritagli
sfuggiti al macellaio

Del mio stile caotico parlavi
oscuro nel mare di parole
Ma io dovevo camminare quella strada
verso una meta di semplicità
ascoltando il magma informato
che dormiva dentro

Ricercare il volto dell’enigma
questo è per me la poesia
la risposta che non puoi trovare
la follia dello specchio
la musica il silenzio l’armonia
quella capacità di penetrare
il palazzo segreto
di colmare il distacco dalle stelle
la beata innocenza della luna

È l’angelo caduto la poesia
ma possiede l’orecchio del Signore
è il fanciullo che incendia
la tenebra infinita

È il custode del viaggio
il faro circolare
quella fatalità mai presagita
il lampo dell’aurora
è quella ingannevole storia
che vanamente e dolce ci possiede

Autoritratto in carta pergamena

Vieni a bruciare questo male oscuro
l’astuto tradimento dell’aurora
dèmone bianco ma dal volto oscuro
con dolcezza confondi la memoria

Fossilizzati nella tua dimora
i tentativi di ferire il muro
non fummo costruiti per la gloria
ch’è solo un’illusione del futuro

C’incontreremo a un varco desolato
voce che mi perseguiti al mattino
sarò di lancia di pistola armato

C’incontreremo forse in un giardino
il caso il sogno l’hanno disegnato
t’annienterò con l’occhio di bambino

Salvatore Martino in tralice

Salvatore Martino

Un racconto ascoltato a tarda notte

Il letto ora sembra più vuoto
l’odore del fumo nella stanza
Raccoglie a fatica
il libro aperto sopra il pavimento
Non ricorda se ieri l’ha sfogliato
sempre quel numero
sempre quella pagina
che porta una dedica sbiadita
Prende una sigaretta
non l’accende
quel gesto è l’immagine di lui
il sapore crudele della bocca

– Andrò a vivere altrove
lascio questa città
senza rimpianto
forse ti scriverò
se mai hanno senso le parole
è stato bello a volte –

Da allora non ha avuto sue notizie
si augura che sia un po’ felice
si saranno ingrigiti i suoi capelli
forse più consapevole lo sguardo

Come dimenticare la sua faccia
la forza delle mani
il corpo disegnato all’abbandono?
Il letto ora è più solo
il libro chiuso
sopra il pavimento
una dedica ancora più sbiadita

Tutto era bianco

Le macchie rapprese sui lenzuoli
un corpo levigato tra le braccia
l’inquietante risveglio dopo il sesso
un bacio rubato in un vagone
il respiro a mordere le labbra
a violare di sangue la saliva

Ho lasciato socchiusa la finestra
perché le ombre possano tornare
i gesti le parole
la bianca giovinezza

.
Autoritratto non finito

Questa maturità che oggi mi tiene
non ha trovato quello che cercava
il sogno liberato dall’angoscia
la parola di luce

Chissà se all’ultima fermata
incontrerò i frammenti del mio specchio
come in un gioco assurdo ricomposti
e avranno finalmente la mia faccia

Sulla porta ti aspetta un cavaliere

Questa sera che il tempo
asserragliato carcere discute
se concedermi l’atroce libertà
il respiro mi agghiaccia
dell’orbita spietata
del suo occhio cavo
che massacra
ogni mio tentativo di fuggire
Ordina ai clarinetti di trovarla
la variazione in sol minore
la sarabanda che mi cancellerà
Si affida ai contrabbassi
ai violoncelli soli
per colpirmi alla gola
per aprirmi nel petto una ferita

Ma la musica vince
disegna sul suo volto la sconfitta
forse soltanto una dilazione

La prossima giocata
la inventerai in uno scalo merci

in uno specchio che non ha memorie

roma Fayyum fratelli

Fayyum, ritratto di fratelli

Preghiera al limitar dell’alba

Salito a deturpare
con la luce l’inganno
astro che ragiona della notte
la magia del rimpianto
quella solare della cancellazione

Il dio non parla
nell’ambigua dimora
ogni vendetta sua è una speranza
ogni mia ribellione un obbedire

Treccia di neve liquefatta
mi chiami dall’oracolo perduto
a quale segno mi trascini?
Come vanificare il tradimento?

Vuoto artificio
che soccorri i naufraghi
astro gelato dei mattini
crocifero dell’ansia
col tuo mantello celi la paura
nella voce sicura fioriscono
tutti i tradimenti

Quando potremo sconfinare il mito
e consacrare al vento la saliva
come una cantilena di silenzi?

Vieni a confondere le menti
dèmone bianco
a circondare i passi dell’uscita

.
Ballata del cavaliere

Vieni a inquinare
il giardino ferito dalle rose
cavaliere smarrito senza lancia

Un ronzino scheletrico
la tua cavalcatura
un pronosticato fallimento

Avrai compagno il vento di grecale
il viaggio sarà verso l’oriente
solo un ragguaglio ti hanno suggerito
una crepa scavata nella faccia
la sparizione
senza lasciare traccia
di quello che non siamo

Contro la piccola trincea
la lancia acuminata del nemico
spera di annientare il soffio
l’alito la mente

non sa

è indifferente
lottare cedere o morire

Il giardino dei sentieri che si biforcano

Mi ritirai nel giardino
a scrivere poesia
per consegnare agli altri un labirinto
una mappa divorata dal tempo
che conducesse in un secondo altrove
Un giardino pensato all’italiana
un gioco di armonia
immagine speculare della vita
Mi ritirai a scrivere a poesia
ritornando bambino
in un sogno da un altro già sognato

Perché la fine del viaggio è ritornare
al punto esatto da dove sei partito
e saranno le rughe del tuo volto
la carta del disegno iniziale
a segnalare il punto dell’arrivo
la fanciulla che attende sulla porta

.
Viaggia con i serpenti della notte

Un altro ramo si è spezzato
un altro uccello è volato via
e io non so
dove il ramo sia caduto
verso quali orizzonti
l’uccello s’è involato

La vita è una carezza
la follia di credere al destino
è la gioia di crescere e morire
di ritornare al cerchio
e come una farfalla
scomparire

roma Fayyum femme 5

Fayyum, ritratto

Il messaggio dell’imperatore

L’avanguardia macedone avanzava
a fatica
dimenticato il clamore
dell’ultima battaglia

Cercavano Dario che fuggiva

All’estremo orizzonte
d’improvviso
appena visibile
poi sempre più vicino
quello che restava
dell’esercito persiano

E staccato da esso
ancora più lontano
un solitario carro trascinato
da due vacche ferite

Un anonimo soldato si avvicina
a quello che era stato
il Re dei Re
disteso e morente
il suo cane soltanto
lo guardava
Immagino che l’uomo
in un sacro silenzio
abbia accostato alle sue labbra
un bicchiere di vino
un ultimo segno di follia
e accarezzando il cane
nel gesto antico della fedeltà
abbia ascoltato
le ultime parole del sovrano

– Ti prego
di al tuo Re
che mi incontrasti
nell’ultimo bagliore della vita
ti prego
devi dire ad Alessandro
quando una sera di giugno lo vedrai
poi sempre più vicino
quello che restava
dell’esercito persiano

E staccato da esso
ancora più lontano
un solitario carro trascinato
da due vacche ferite

Un anonimo soldato si avvicina
a quello che era stato
il Re dei Re
disteso e morente
il suo cane soltanto
lo guardava

Immagino che l’uomo
in un sacro silenzio
abbia accostato alle sue labbra
un bicchiere di vino
un ultimo segno di follia
e accarezzando il cane
nel gesto antico della fedeltà
abbia ascoltato
le ultime parole del sovrano

– Ti prego
di al tuo Re
che mi incontrasti
nell’ultimo bagliore della vita
ti prego
devi dire ad Alessandro
quando una sera di giugno lo vedrai
disteso e morente a Babilonia
che il suo impero di sabbia
si scioglierà nell’acqua

Quello che fu il mio impero
ritroverà il passato splendore

Così nella mia morte
il mio sogno ritorna
nella sua discende nell’oblio –
Da “La metamorfosi del buio” (2009-2013)

Nel mio locus amoenus interrogando

I
E una farfalla grande
così rara nei nostri climi
azzurra maculata di rosso
volò ondeggiando
tra le camelie
e il muro giallo della casa
e non cercava fiori
certo appagata della sua libertà

Chissà
forse era la stessa che Elena
vide lungo le rive dell’Eurota
navigare sulla scorza di un albero
che si era scortecciato da solo
Anche lei creatura dell’aria
scivolava libera sull’acqua

Può darsi sia arrivata da me
traversando il mare
malgrado il vento e la bonaccia
risalendo il Tevere
fino al mio giardino

No

Quella farfalla nera
striata d’arancio
siede sulla riva del suo fiume
nell’attesa di ripetere
per l’ultima volta
quel viaggio impossibile e felice

II

Sdraiato sull’amàca
tra le due grandi querce
che a settentrione vegliano la casa
il calore del mio cane sul ventre
e il fischio lontanissimo
del treno della Nord
il telefono a portata di mano
un richiamo una voce che interrompe
questa solitudine voluta

Chissà perché mi viene in mente Aiace
in quell’ultima alba sopra il mare
e spera d’incontrare un uomo
e parlare con lui almeno un po’
prima di gettarsi sulla spada amica

e mi sorprende
il coraggio virile di affrontarla
quest’unica vita che ci è data

III
Immersi nel giallo
sotto un cielo velato col suo sole
un primo pomeriggio
che il terrore ci appare
un’ immagine lontana
quasi appartenesse ad altri
la scalata dell’ansia che c’insegue
perché crollate le difese
i dèmoni sotterrano
la lira del Cantore
che non trafigge quel buio
dall’assurda miniera delle anime
non mi trascina il corpo nella luce
IV

Come è volato in casa questo fiore?
Lo guardo che sembra un’orchidea
e allo stessa maniera lo coltivo
quasi lo fosse veramente
nel vaso ho messo una torba leggera
scaglie di corteccia
e nei giorni prefissati
uno specifico concime

L’ho custodito
al centro della mia finestra
perché la bacia soltanto
il sole del mattino

Che importa s’è venuto dal campo
se non ricorda tropici e foreste
portato qui dal vento
o chissà quale uccello
se come credo si svelerà un inganno

Così nel mio delirio
invento
che come la farfalla dell’Eurota
anch’esso sia quel fiore che Elena
mostrandosi quasi nuda sotto i pepli
sugli spalti di Ilio
mentre Achei e Troiani
avevano sospeso
la loro interminabile battaglia
per ammirarla nella sua bellezza
lascia cadere dalla bocca
con gesto di sublime degnazione
come il suo terzo fiore
il primo l’aveva lanciato dal seno
l’altro dai capelli
questo proprio dalla bocca
per rivelare
a quei guerrieri insensati
l’eterno sorriso della libertà

roma Fayyum donne romane

Fayyum ritratti di donne romane 120 – 140 d.C.

Il giovane bello si guarda nel suo stagno

In una delle Metamorfosi di Ovidio
la terza se ricordo bene
si narra di una ninfa
si chiamava Eco
che non parlava mai per prima
ripeteva la chiusa di una frase
lunghissima magari
Vide Narciso vagare per i campi
e se ne innamorò perdutamente
Seguiva di nascosto i suoi passi
lo spiava dietro un albero o un cespuglio
ma non poteva rivolgergli
per prima la parola
raccoglieva ogni suono
che usciva dalla sua bocca
lo trasformava in parole nuove

A Narciso capitava spesso
di perdere per strada i suoi compagni
C’ è forse qualcuno?
Ed Eco rispondeva- Qualcuno-
Stupito lascia vagare lo sguardo
da ogni parte gridando a gran voce
– Dove siete che ancora non venite?-
e la ninfa richiama al suo chiamare
– Venite –
Si gira di nuovo ma non viene nessuno
Perché fuggite? e lei ripete
le stesse parole appena dette
Ma Narciso è ingannato dallo scambio
che riverberano gli alberi e le pietre
Riuniamoci dice
E lei –Uniamoci – risponde

Esaltata da quello appena detto
esce dal bosco
e quasi l’abbraccia
in un volo di felicità
Narciso fugge come inorridito
e fuggendo le grida

Via quelle mani non toccarmi
meglio morire che concedermi a te 
Lei risponde soltanto
Cedermi a te

Forse anche noi siamo soltanto
un’eco del nostro pensiero
una frase incompiuta della nostra storia
un racconto narratoci una sera
mentre la luce cadeva in altra luce
e io morivo dal sonno
e diventavo un’eco di quelle parole
che giungevano vuote al mio sentire

Un’ eco chissà delle nostre gioie
un’allegoria dei nostri desideri
una spia implacabile
delle nostre speranze calpestate
l’illusione di vincere sul tempo
di sfuggire alla morte

 

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