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L’uso della metafora negli haiku di Tomas Tranströmer e dei classici giapponesi, a cura di Giuseppe Gallo, con una Chiosa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 74,5x28 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 75,5×28 cm. acrilico su tavola, 2021

Strilli Transtromer Prendi la tua tomba

Gli haiku di Tomas Tranströmer

di Giuseppe Gallo

Tutti gli haiku dovrebbero essere “profondi abissi di pensiero!”, cosi diceva Maria Cristina Lombardi, a proposito degli haiku di Tomas Tranströmer, nella presentazione ai lettori italiani di Il grande mistero, (Crocetti Ed., Milano 2011, p. 7).
Un abisso ricavato attraverso similitudini e metafore, immagini primarie e secondarie, per mezzo di un linguaggio simultaneamente astratto e concreto. In Tranströmer, afferma sempre la Lombardi, “La comprensione” di queste invenzioni e metamorfosi, di questi “richiami a figure ritmico-sonore” e ad «espressioni metaforiche bimembri presuppone conoscenze di mitologia nordica perché, ad esempio, l’oro, che in quella mitologia viene designato come “fiamma dell’onda», per un lettore italiano risulterebbe incomprensibile. Ecco un haiku di Tranströmer, dove egli «cerca di afferrare gli istanti luminosi che gli rivelano nuove dimensioni di significato, squarciando l’immenso mistero che circonda l’uomo con metafore che scompongono, comprimono, fondono e ricreano» (op. cit. p. 9).

“shiragiku no me ni tatete miru chiri mo nashi

.
Guardando attentamente
i crisantemi bianchi–
non un granello di polvere”


Guardando attentamente, anche noi troviamo che lo haiku in questione è costruito, come pure quello Tranströmer, sulla esposizione di due immagini, sulla loro interazione e sulla loro capacità evocativa all’interno della cultura di riferimento. Per noi occidentali il crisantemo evoca la morte, il granello di sabbia, l’infinitamente piccolo, l’atomo della materia e l’attimo del tempo, si pensi alla clessidra…
Ebbene, in questo caso, “Bashō si sta complimentando con l’ospite (Sonome), rappresentato dai crisantemi bianchi, mettendo l’accento sui fiori e, per allusione, alla purezza dell’ospite stesso. Possiamo dunque concludere che ogni “vedere” presuppone anche una cultura. Oggi che viviamo in un’epoca in cui è caduta ogni ideologia, ogni barriera e ogni distinzione tra i piani linguistici e le forme dei pensieri, tutto sembra cadere nel caos dei fenomeni, delle ambiguità e del paradosso. Ogni immagine non è più immagine di se stessa, ma di altro e lo stesso “principio di identità”, ormai è un principio in disuso, mi viene da chiedermi: cos’è la metafora? Che rapporto esiste tra la metafora e l’immagine? “Di che materia sono fatte le immagini?” Chi viene prima, l’immagine o il pensiero? Che funzione svolge, la metafora, all’interno della forma haiku? Ricordate l’interrogativo di Shakespeare: “Di che materia sono fatti i sogni?”
La domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci, insieme a Tranströmer, di che materia sono fatte le parole? E perché il mondo ci appare come “un grande mistero”? E’ il mondo una immensa metafora? E perché la metafora sorregge le nostre domande e le nostre risposte? Perché la metafora elaborata in un presente, momentaneo e fugace, scompiglia il fluire del tempo, incidendo il passato e preconizzando il futuro? È la metafora a veicolare la poesia o l’arte in genere?


“In fondo, volendo essere radicali,” afferma Gianna Chiesa Isnardi “la parola stessa non è forse metafora della realtà,…?” (T. Tranströmer, La lugubre gondola, a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Bur Rizzol, 2011, p. 97) E tale realtà non è data dalla parola? E la parola non è fondata sulla immagine che contiene? E il nostro pensare non è forse “un pensare attraverso le immagini” contenute nella parola? È evidente allora che “la metafora rinvia al linguaggio della percezione e a quello figurativo” (T. Tranströmer, op. cit., p. 98); che la metafora avvia “l’esplorazione dei legami inaspettati fra le cose del mondo e fra esse e l’uomo…” ( op. cit., p. 99); e che non ci può essere metafora senza “un secondo termine di paragone, uno specchio.” , (op. cit, p. 99). Specchio che significa riflesso di un’immagine, fusione, confusione e divergenza. In definitiva, ogni parola contiene se stessa nella duplicità delle proprie ombre, sotto l’aspetto del “significato” e del “significante”. Entrando nelle parole è come se entrassimo in quello specchio, rifratto e frammentario, ambiguo e misterioso, che è il linguaggio. Entriamo nell’ enigma. Nel vero e nel falso. In quella metafora che tenta di svelare “ciò che sta “dietro le parole” (op. cit, p.101). “Cosa sei tu, dietro te stesso?” si chiedeva Freud. Riusciremo mai a saperlo? Riusciremo mai a tagliare il nodo gordiano di questa ambigua domanda? “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188) Ebbene, cos’è “questa frattura della presenza” che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben risponde che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. Che sia la metafora la porta di accesso a questo “fondamento”? E la frattura dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il nostro linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Ovvero metafora. Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla, precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e in piena confusione per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro.
Il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio in cui ci perdiamo può esserci di aiuto per l’esperienza della realtà? In effetti, tutto ciò che noi abbiamo esperito o possiamo esperire, del nostro essere nel mondo e di noi stessi è diventato, e diventa, linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale.
Ecco un esempio dove la metafora svolge la funzione per cui è nata.


…. Sono trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.

L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
al banco dei pegni.

(T. Tranströmer, La lugubre gondola, op. cit., p. 13)

La metafora, dunque, ha la funzione di arpionare le sembianze, i realia, della natura, ridurre queste “macchie” a nostra rappresentazione, rendendole soggettive ed oggettive, nell’illusione che possano contenere, non solo il vuoto, ma anche, gli emblemi della nostra stessa esistenza.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia». Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi.
Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso:
«Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Strilli Transtromer le posate d'argento

Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

Il mondo è diventato un labirinto
di Giorgio Linguaglossa

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi.

*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato. Continua a leggere

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Antonio Sacco, Lo haiku nei poeti occidentali, Federico Garcia Lorca, Pound, Allen Ginsberg, Paul Eluard, Pierre-Albert Birot, Paul Claudel, Andrea Zanzotto, Jorge Luis Borges, Tomas Tranströmer, Jorge Luis Borges, Mario Chini,  Edoardo Sanguineti, Rilke, Octavio Paz

Gif Paesaggio urbano colored

Prendiamo qui in esame il rapporto fra lo haiku e i grandi poeti occidentali del XX secolo, più in particolare questo breve scritto vuole essere un excursus storico – poetico che mira a focalizzare l’attenzione sulle modalità con cui i grandi poeti occidentali sono entrati in contatto con questo genere letterario e, inoltre, desidererei porre enfasi come, essi stessi, si siano cimentati in questo genere citandone alcuni esempi.
Le prime traduzioni di haiku in Occidente furono pubblicate agli inizi dell’900 in Francia e in Inghilterra, esse esercitarono un influsso sugli imagisti anglo-americani a cui si legò Ezra Pound (1885-1972). Pound fu tra i primi ad avvicinarsi allo stile haikai e fu un grande studioso del giapponese, sostenne, fra l’altro, che:

“L’immagine è di per sé il discorso. L’immagine è la parola al di là del linguaggio formulato”.
E questo è importante perché, come sappiamo, lo haiku ci propone delle immagini suggerendo al lettore più che dire esplicitamente. Pound stesso, nel 1913, pubblicò una breve poesia simile agli haiku molto famosa, In a Station of the Metro:

The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.
*
L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.

Come possiamo notare abbiamo, nel componimento testé citato, una poesia di due versi, quattordici parole totali e nessun verbo che descrivono un momento nella stazione della metropolitana.

*
Alba

As cool as the pale wet leaves
of lily-of-the-valley
She lay beside me in the dawn.

Alba

Fresca come le pallide umide foglie
dei mughetti
Giaceva accanto a me nell’alba.

(tratta dalla raccolta Lustra, 1916)

Oltralpe è al poeta Paul-Louis Couchoud che si deve la nascita del movimento dello haikai francese: nel 1905 egli pubblica l’opuscolo anonimo Au fil de l’eau a cui fa seguito, un anno dopo, Epigrammes lyriques du Japon. Lo stesso Couchoud si cimentò nella scrittura di componimenti haiku pubblicando i propri scritti sull’Esagono, egli si convinse che le caratteristiche dello haiku quali la brevità, il potere suggestivo evocato, l’emozione lirica immediata, la rarefazione dei legami logici e, soprattutto, l’assenza di spiegazione potessero rappresentare un’importante innovazione per tutta la poesia francese. Seguendo questa linea tracciata da Couchoud nel 1920 Jean Paulhan dà alle stampe un’antologia di haiku sulla rivista «Nouvelle Revue Française»: il suo scopo è di render noto e far attecchire in Francia questo genere poetico al fine di rinnovare e dare nuova linfa vitale alla produzione lirica francese. Questa antologia conobbe un buon successo negli anni Venti e nei decenni successivi dovuta anche alla presenza di autori come Paulhan, Paul Eluard e Pierre-Albert Birot, tanto che si può dire che con esso lo haiku viene legittimato oltralpe. Paul Eluard (1895-1952) in particolare fa suo lo stile dello haiku riproponendo a più volte, in raccolte successive, gli undici haiku pubblicati nella Nouvelle Revue Française: questo a significare quanto lo colpì questa forma poetica che fa del linguaggio rarefatto e spoglio, privo di orpelli la sua peculiare caratteristica.

Le coeur à ce qu’elle chante
elle fait fondre la neige
la nourrice des oiseaux

Cantando con il cuore
fa sciogliere la neve
la nutrice degli uccelli

(P. Eluard)

Gif ballerina

Cent Phrases pour éventails (“Cento frasi per ventaglio”, 1927) è la raccolta di Paul Claudel (1868-1955), un altro grande nome della poesia francese del Novecento, di componimenti in stile haiku. Il movimento haikai francese suscita l’interesse anche di Paul Valéry, che non si cimenta con questa forma poetica ma che nel 1924 cura la prefazione a una raccolta di haiku tradotti in francese di Kikou Yamata.
Lo stesso Paul-Louis Couchoud diventa il tramite attraverso il quale anche Rainer Maria Rilke, che visita e soggiorna a Parigi più volte, entra in contatto con il fermento artistico e letterario in Francia, anche Rilke in tal modo si avvicina al genere haiku. Il poeta dei Sonetti a Orfeo, soprattutto nell’ultima sua produzione, mira ad una progressiva riduzione dell’Io, ad un distacco dell’Io poetante dalla realtà rappresentata, è molto colpito dal modo di comporre dello haijin. Ebbene anche Rilke sperimenta, cimentandosi, componimenti in stile haikai scrivendone ben ventinove:

Tra i suoi venti trucchi
cerca una boccetta piena:
è diventata pietra

(R.M. Rilke) Continua a leggere

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Antonio Sacco, Lo spirito dello haiku: Maestro Basho, Maestro Shiki, Maestro Issa

 

giapponese Yamanaka Hot Springs

 Possiamo partire dalla considerazione di fondo che vi sono molti haiku che pur presentando tutte le caratteristiche basilari di uno haiku non sono, ugualmente, veri e propri haiku proprio perché manca in essi un quid: lo “spirito dello haiku”. Con “tutte le caratteristiche basilari di uno haiku” intendo:

  • Il kigo o il kidai, ossia il termine stagionale (kigo) o il tema stagionale (kidai) perché, come sappiamo, uno haiku, per esser considerato tale, deve essere contestualizzato in un determinato periodo dell’anno a meno che non voglia essere considerato un muki (uno haiku senza riferimento stagionale).
  • Il metro di 5/7/5 sillabe per verso usando il conteggio sillabico metrico o quello ortografico.
  • Toriawase (giustapposizione d’immagini). In uno haiku, infatti, troviamo, nella maggior parte dei casi, due immagini collegate fra esse in vario modo, le quali possono armonizzarsi fra esse (torihayasi) o entrare in contrasto (nibutsu sougheki).
  • Il taglio (kire) il quale rende possibile il cambio d’immagine della toriawase. Esso è espresso in italiano attraverso i segni interpuntivi (punteggiatura) o alla fine del kamigo (primo verso) o alla fine del nakashichi (secondo verso). È grazie al taglio che abbiamo una pausa, una cesura mediante la quale il lettore viene preparato al cambio d’immagine.

su un ramo morto

un corvo si è posato –

crepuscolo d’autunno

(Basho)

In questo esempio troviamo tutte le caratteristiche testé citate di uno haiku: il kigo diretto (crepuscolo d’autunno), il metro di 5/7/5 “on” (nella versione originale giapponese), il taglio espresso dal trattino alla fine del secondo ku, una toriawase ben strutturata e sviluppata (l’immagine del corvo che si posa su un ramo secco e il crepuscolo).

Lo spirito dello haiku non è un concetto facile da spiegare, mi vengono in mente, a tal proposito, le parole che ebbe a scrivere Sant’Agostino a proposito del tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so bene ma se volessi darne spiegazione a chi me lo chiede non lo so più”. Una delle difficoltà connesse al voler spiegare cosa sia lo spirito dello haiku credo derivi dalla nostra mentalità occidentale: siamo stati così tanto influenzati del verso libero in base al quale tendiamo a voler dire troppo, a voler spiegare più del necessario al lettore. Bisognerebbe riscoprire il valore del “non-detto” così caro alla poesia orientale (e non solo allo haiku), è risaputo che, per scrivere un buon haiku, è necessario suggerire piuttosto che dire esplicitamente: è negli spazi bianchi fra le parole che vive lo spirito dello haiku!

In realtà molti così detti haiku sono semplicemente degli scritti in metro 5/7/5 non veri e propri haiku perché non presentano la minima traccia dei canoni estetici tipici dell’arte giapponese i quali li ritroviamo anche in letteratura. Tali canoni estetici sono fondamentali per capire lo spirito dello haiku: in primis il wabi-sabi, lo hosomi, la hanayaka solo per citarne alcuni e i corollari di questi canoni estetici (shiori, yugen, karumi, mono no aware, ecc.) purtroppo la trattazione di questi canoni estetici necessita di ampi approfondimenti ed esula dallo scopo di questo articolo. A titolo di esempio possiamo citare questo haiku di Basho in cui è evidente il canone estetico dello hosomi, la “sottigliezza” contemplativa:

una rosa di montagna –

sembra nata

da un filo di salice

Altro errore ricorrente, e in un certo senso assai temibile, che sovente (ahimè) capita è quello di dare tre immagini distinte in uno stesso haiku, una per ciascun verso. Salvo rari casi in cui questa tecnica è consapevolmente e volutamente usata, questa condizione fa sì che l’Autore si allontani dallo spirito dello haiku e mini seriamente la scorrevolezza dello scritto. E’ quindi una forma sicuramente da evitare almeno all’inizio quando il principiante si avvicina a questa forma di poesia.

Esempio da NON seguire:

notte di luna

cicale rumorose

prato di stelle

Come possiamo vedere questo haiku non ha la minima traccia dello spirito dello haiku perché, oltre a dare tre immagini in tre versi, non ha toriawase, non possiede neppure un canone estetico dell’arte giapponese, non lascia posto al non-detto ed al qui ed ora (hic et nunc). Continua a leggere

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Antonio Sacco, L’haiku come modello di approccio alla poesia

 

Antonio Sacco è nato a Agropoli nel 1984, scrive e compone versi nel cuore del Parco Nazionale del Cilento. Studioso di poesia, in particolare di poesia d’origine giapponese, ha pubblicato molti articoli in vari blog e riviste on-line dedicate al genere haiku. E’ membro di giuria del Premio Nazionale “L’Arte in Versi”, nel 2015 con Arduino Sacco Editore ha pubblicato la silloge di haiku In ogni Uomo uno haiku. Si dedica con passione e regolarità allo studio e alla composizione di poesie sia in metro prestabilito sia in versi liberi.

*

Scopo di questo articolo è analizzare la possibilità di concepire il genere haiku come un modo di approccio alla poesia in generale, in particolare alla poesia in versi liberi. Prenderemo in considerazione gli aspetti caratterizzanti di uno haiku cercando di applicarli alle poesie in versi liberi, valutando un ipotetico criterio di approcciare a quest’ultimo modo di fare poesia attraverso il genere haiku. Introdurremo l’idea dello haiku come “atomo poetico” ossia l’unità poetica di base dal quale possono originarsi altre forme liriche. Nell’ultima parte di questo articolo focalizzeremo l’attenzione sul rapporto fra il genere haiku e come questo può costituire un modo di rapportarsi alla realtà.

Lo haiku come modello di approccio alla poesia

L’impianto in cui è strutturato uno haiku, oltre al metro prestabilito in 5/7/5 sillabe nei tre versi, prevede, nella maggior parte dei casi, la giustapposizione o, comunque, il collegamento di due immagini distinte presenti nel componimento stesso. E’ quello che viene generalmente indicato col termine di toriawase, la quale può essere ulteriormente suddivisa in due diversi sottotipi: la torihayasi (stacco semantico) e il nibutsu sogheki (ribaltamento semantico). Chiariamo prima di tutto con un esempio il concetto di toriawase (giustapposizione d’immagini):

shibui toko

haha ga kuikeri

yama non kaki

*

kaki di montagna:                                                (v. 1 prima immagine)

è la madre a morderne

le parti aspre                                                         (Vv. 2-3 seconda immagine)

(Kobayashi Issa – da “Haiku: il fiore della poesia giapponese”; Mondadori 1998)

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

pseudo haiku di Lucio Mayoor Tosi

Nel sottotipo di toriawase chiamata torihayasi le immagini proposte si armonizzano fra loro, quasi sostenendosi a vicenda, un esempio di questo caso particolare di toriawase lo possiamo ritrovare in questo componimento del Maestro Basho:

uyu no hi ya

bajo ni koru

kageboshi

*

giorno d’inverno:

gelata sul cavallo

la mia ombra

(da Haiku: il fiore della poesia giapponese; Mondadori 1998)

Per quanto riguarda l’altro sottotipo di toriawase, il nibutsu sogheki, troviamo che le due immagini fornite entrano in aperto contrasto fra loro, quasi scontrandosi fra esse. Grazie allo stacco (kire) il flusso ideativo subisce un repentino e brusco cambio, un esempio particolare di questa tecnica è data da questo componimento di Ikenishi Gonsui:

uo hanete

mizi shizuka nari

hototogisu

*

il guizzo di una carpa

l’acqua torna piatta –

un cuculo Continua a leggere

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