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Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa

Evtusenko Foto di Vladimir Mishukov

Foto di Vladimir Mishukov

dire oggi arte radicale è lo stesso che dire arte cupa,
col nero come colore di fondo. Molta produzione
contemporanea si squalifica perché non ne prende atto e magari
gioisce infantilmente dei colori […] L’arte di assoluta responsabilità va
a finire nella sterilità, di cui è raro non sentire l’alito nelle opere d’arte
elaborate fino in fondo e in modo conseguente; l’assoluta irresponsabilità
le abbassa a “fun”; una sintesi dei due momenti si condanna da
sé, in base al suo stesso concetto […] L’arte moderna che si atteggiasse
a dignitosa sarebbe ideologica senza misericordia. Per suggerire dignità
essa dovrebbe darsi arie, mettersi in posa, farsi altro da ciò che può essere.

T.W. Adorno

Commento politico di Giorgio Linguaglossa. La poesia del «negativo» di Samuel Beckett

Scrive Samuel Beckett nel saggio su “Proust”:

Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. […] Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione.

foto-samuel-beckett

Beckett fa colazione a Parigi, anni settanta

Leggere oggi queste poesie di Beckett può essere se non utile, direi indispensabile, o almeno salutare per via di quell’imbruttimento allo stadio zero della «comunicazione» (questa orribile pseudo categoria oggi di moda) che la sua poesia recepisce dalla lingua di relazione. Quella di Beckett è una sorta di super lingua, quali sono diventati l’inglese, il francese, l’italiano di uso corrente oggi nelle classi abbienti e meno abbienti, come tutte le altre lingue dell’Europa occidentale. Arte «cupa», lo afferma Adorno, con l’impiego del «fun» a renderla appetibile e digeribile.

Direi che quella di Beckett è, appunto, una poesia di uso corrente, che impiega parole correnti del linguaggio parlato del linguaggio internazionale quale è quello che usiamo nei commerci quotidiani. Direi che è scomodo affrontare un autore che non ci dà alcun appiglio per un discorso critico; un critico dinanzi a queste poesie non può dire nulla, quello che può dire è che esse si sottraggono con tutte le forze a qualsiasi discorso ermeneutico.

Sono poesie anti ermeneutiche. Del resto, tutta l’opera teatrale e narrativa dello scrittore irlandese vuole raggiungere questo obiettivo: sottrarsi alla indagine ermeneutica, sottrarsi al lettore, allo spettatore, al fruitore chicchessia, non offrire nessun appiglio o alibi, porsi come il «negativo» di un pensiero estetico che pensa il «negativo», negativo esso medesimo. Ma già parlare a proposito di Beckett di «pensiero estetico» è un reato di opinione, il «pensiero estetico» presuppone altre categorie quali la Forma, il Tempo, il Soggetto, l’Oggetto, la Scrittura, il Romanzo, la Poesia, la Commedia, etc. Ebbene, l’opera poetica di Beckett si sottrae a tutto ciò, è estranea a queste categorie. Così, il fatto che lui scriva delle poesie non deve indurci in tentazione, queste che presentiamo non sono poesie, né anti poesie come era d’uso pensare nel Novecento delle post-avanguardie, sono nient’altro che scritture del negativo, registrazione burocratica del negativo, e neanche della negazione, perché il negativo beckettiano è estraneo allo stesso concetto di «negazione», che implicherebbe pur sempre un quantum, sia pur esilissimo, di positività.

E certo il primo assunto su cui si basa questa «poetica», diciamo così, è la negazione del concetto di poetica e   di «comunicazione» oggi tanto in voga presso la chatpoetry e il chatnovel, le viandanze turisticamente agghindate, carcasse della sotto cultura ceto-mediatica di oggi. La poesia beckettiana, al pari di tutta la sua opera, si situa al di qua della «comunicazione» e al di là di ogni concetto di «poetica» impegnata politicamente o civilmente, in un certo senso essa è socialmente incivile, infungibile e quindi si sottrae al concetto di «rappresentazione» per approdare ad un deserto assoluto che presuppone la incomunicazione quale categoria di base della scrittura. Il che non vuol dire sguardo pessimistico o negativo sul mondo, quanto un mondo senza sguardo, né interno né esterno, un mondo senza un observer. Un mondo senza una entità che lo osserva, è qualcosa che sta al di qua del senso e del non senso, al di qua del concetto di rappresentazione e al di qua della mera ragionevolezza. Dirò di più, queste poesie sono delle «cose» che non sortiscono da alcun pensiero critico, perché già esso presupporrebbe una esilissima stoffa di positività che nel pensiero di Beckett è invece del tutto assente.

Meglio dunque non dire nulla, come del resto vorrebbe lo stesso Beckett. Ma questo dovevo pur dirlo, cioè non dire alcunché per indicare il «nulla» che queste poesie mostrano ma non perché occorra dare una dimostrazione del «nulla» quanto che il «nulla» si mostra così com’è. E con questo penso di aver dato una interpretazione di Beckett dal punto di vista di una «nuova ontologia estetica».

Ha scritto Adorno:

«Un uomo, che con una forza ammirevole sopravvisse ad Auschwitz ed altri campi di concentramento, opinò appassionatamente contro Beckett, che se questi fosse stato ad Auschwitz, scriverebbe diversamente, cioè con la religione da trincea di chi è sfuggito, più positivamente. Lo sfuggito ha ragione in un senso diverso da quello inteso; Beckett, e chi altri ancora restò capace di controllarsi, là sarebbe stato spezzato e presumibilmente costretto a convertirsi a quella religione da trincea, che lo sfuggito rivestì di parole: voleva dar coraggio agli uomini. Come se si trattasse di una qualche formazione spirituale, come se l’intenzione che si rivolge agli uomini e si organizza secondo loro non gli tolga ciò che potrebbero pretendere, anche quando credono il contrario. Così è finita la metafisica.».1

1 T.W. Adorno Dialettica negativa trad. it. Einaudi, 1970, p. 332

 

morton-feldman-and-beckett

Morton Feldman e Samuel Beckett

da Samuel Beckett – Le Poesie, cura e traduzione di Gabriele Frasca, Einaudi, Torino 1999. 

Gnome

Spend the years of learning squandering
Courage for the years of wandering
Through a world politely turning
From the loutishness of learning

 

Gnomo

Passano gli anni dell’apprendimento
A dissipare il coraggio per gli anni
In cui vagabondare dentro un mondo
Che con garbo si libera ruotando
Da ogni grossolano apprendimento

 

Home Olga

J might be made sit up for a jade of hope (and exile, don’t you know)
And Jesus and Jesuits juggernauted in the haemorrhoidal isle,
Modo et forma anal maiden, giggling to death in stomacho.
E for an erythrite of love and silence and the sweet noo style,
Swoops and loops of love and silence in the eye of the sun and the view of the mew,
Juvante Jah and a Jain or two and the tip of a friendly yiddophile.
O for an opal of faith and cunning winking adieu, adieu, adieu.
Yesterday shall be tomorrow, riddle me that my rapparee.
Che sarà sarà che fu, there’s more than Homer knows how to spew,
Exempli gratia: ecce himself and the pickthank agnus – e.o.o.e.

 

Home Olga

J potrebbe essere allertato da una bagascia di speranza (ed esilio, sai)
A molocchare rimarrebbero Gesù e i Gesuiti nell’isola emorroidale,
Modo et forma vergine anale, ridacchiando a morte nello stomacho.
E sta per eritrite d’amore e silenzio e dolce stil nonovo,
Scorribande e intrecci d’amore e silenzio nell’occhio del sole e vista di gabbiano,
Juvante Jah e uno o due jaini e la soffiata d’un amichevole yiddofilo.
O invece per un opale di fede e maestria palpitante adieu, adieu, adieu.
Yeri sarà domani, risolvimi questa stoccata e fiuta.
Che sarà sarà che fu, c’è più di quanto Omero abbia saputo vomitare,
Exempli gratia: ecce lui proprio e l’acchiappagrazie agnus… e.o.o.e.

 

da: «Oroscopata e altri versi d’occasione»

 

The Vulture

dragging his hunger through the sky
of my skull shell of sky and earth

stooping to the prone who must
soon take up their life and walk

mocked by a tissue that may not serve
till hunger earth and sky be offal

 

L’avvoltoio

Trascinando la fame lungo il cielo
del mio cranio che serra cielo e terra

piombando su quei proni che dovranno
presto riprendersi la vita e andare

irriso da un inutile tessuto
se fame terra e cielo sono resti

 

Enueg II

world world world world
and the face grave
cloud against the evening

de morituris nihil nisi

and the face crumbling shyly
too late to darken the sky
blushing away into the evening
shuddering away like a gaffe

veronica mundi
veronica munda
give us a wipe for the love of Jesus

sweating like Judas
tired of dying
tired of policemen
feet in marmalade
perspiring profusely
heart in marmalade
smoke more fruit
the old heart the old heart
breaking outside congress
doch I assure thee
lying on O’Connell Bridge
goggling at the tulips of the evening
the green tulips
shining round the corner like an anthrax
shining on Guinness’s barges

the overtone the face
too late to brighten the sky
doch doch I assure thee

 

Enueg II

mondo mondo mondo mondo
e il volto austera
nuvola sullo sfondo della sera

de morituris nihil nisi

e il volto a sgretolarsi timido
troppo tardi per tenebrare il cielo
che arrossa nella sera
come una gaffe rabbrividendo via

veronica mundi
veronica munda
da’ noi una pulitina per amor di Gesù

sudando come Giuda
stanco di morire
stanco dei poliziotti
coi piedi in marmellata
copiosamente a traspirare
col cuore in marmellata
fumo addizionato al frutto
col vecchio cuore il vecchio cuore
che prorompe fuori congresso
doch ti rassicuro
sdraiato sull’O’Connell Bridge
a sgranare gli occhi sui tulipani della sera
sui verdi tulipani
che splendono dietro l’angolo come un antrace
che splenda sulle chiatte della Guinness

in sovratono il volto
troppo tardi per rischiarare il cielo
doch doch ti rassicuro Continua a leggere

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Gian Mario Villalta TRE POEMETTI da “Telepatia” (LietoColle, 2016, pp. 148 € 13) “le madri cattoliche del Novecento”, “I poeti e l’invisibile”, “Telepatia”, “Il problema della contiguità tra linguaggio narrativo e linguaggio poetico” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

bello città nel traffico

città nel traffico urbano

Gian Mario Villalta è nato a Pasiano (Pordenone), insegna in un liceo ed è direttore artistico del festival pordenonelegge.

Prime pubblicazioni sulle riviste “il verri” di Luciano Anceschi, su “Studi di Estetica” e su “Alfabeta”, ancora alla metà degli anni  ’80. Negli anni successivi scriverà anche su «ClanDestino»,« Tratti», «Nuovi Argomenti», «Testo a Fronte», «Baldus » «Diverse Lingue». Ha pubblicato i libri di poesia: in dialetto (veneto periferico)Altro che storie!, Campanotto 1988. Premio S. Vito al Tagliamento; Vose de Vose/ Voce di voci, Campanotto 1995. Premio Lanciano (giuria: Loi, Rosato, Giacomini, Serrao, …) (ristampato nel 2009); Revoltà, Biblioteca Civica di Pordenone, 2003; in italiano ricordiamo: Vedere al buio, Sossella 2007; Vanità della mente, Mondadori, 2011 (Premio Viareggio 2011, Premio Diego Valeri); Telepatia, LietoColle-pordenonelegge 2016. Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume – tra questi i saggi: La costanza del vocativo. Lettura della “trilogia” di Andrea Zanzotto, Guerini e Associati 1992; Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli 2005), ora in versione ridotta su e-book edito dalla Scuola Holden; Ha curato inoltre i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, Mondadori 2001 e, con Stefano Dal Bianco: Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte, “I Meridiani” Mondadori 1999. Il suo primo libro di narrativa è stato Un dolore riconoscente, è uscito presso Transeuropa nel 2000, al quale sono seguiti quattro romanzi, editi da Momdadori, tra i quali ricordiamo: Tuo figlio, Mondadori 2004 e Alla fine di un’infanzia felice, Mondadori 2013. Nel 2009 ha pubblicato il non-fiction Padroni  a casa nostra (Mondadori): un ritratto del Veneto e del Friuli Venezia Giulia tra fraintendimenti e conflitti.

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Un aneddoto. A metà degli anni Novanta feci leggere a una poetessa di Roma, Lisa Stace, (tra l’altro molto brava, talmente brava che poi smise di scrivere poesie), delle mie prose. Lei mi disse che avevano un difetto. Ricordo ancora le sue precise parole: «Ci devi lavorare molto. Si vede che prendi la prosa sotto gamba, difetto tipico dei poeti. La prosa richiede invece un lunghissimo lavoro». Non dimenticherò mai quanto quelle parole mi siano state utili. Da allora (e sono passati venti anni) non ho smesso di tornare su quei racconti, di ritoccarli.

Questo l’aneddoto. Questo per dire che se non sai scrivere un’ottima prosa non puoi diventare un buon poeta. Il poeta deve essere capace di scrivere ottima prosa, questo è il segreto che Lisa Stace intendeva dirmi. Da allora, capii quanto è importante per un poeta scrivere in prosa, la prosa è la vera palestra di un buon poeta, lì ci si fa una buona muscolatura, con continui esercizi fisici e mentali.

Non è un caso che Gian Mario Villalta abbia scritto ben cinque romanzi e si sia cimentato anche nella poesia in dialetto veneto periferico, abbia cioè provato tutta la tastiera del pianoforte dei generi letterari.

Il problema della contiguità tra linguaggio narrativo e linguaggio poetico è stato affrontato ripetutamente nel corso del tardo Novecento, con esiti diversi e spiegazioni diverse: è stato detto che la poesia andava verso la prosa, che la poesia tendeva a perdere le sue caratteristiche precipue nel confronto scontro con la prosa; che la poesia si stava indebolendo a causa del verso libero che favoriva inavvertitamente la deriva prosastica; che la tascabilizzazione delle tematiche metafisiche avrebbe favorito la contiguità e la commistione tra poesia e prosa penalizzando la prima; che tra poesia e prosa non c’era differenza alcuna, etc. Resta il fatto indubitabile che la poesia nel corso di questi ultimi trenta anni si è avvicinata molto alla prosa, ma in ciò io non vedrei una deriva della poesia verso la prosa, quanto il contrario: una deriva della prosa verso la poesia; oggi, in un momento di debolezza generalizzata dei linguaggi narrativi, la poesia sembra aver ripreso, silenziosamente, il suo ruolo egemonico. In questa accezione credo debba essere letto questo ultimo lavoro di Gian Mario Villalta, come una rivalsa della poesia nei confronti della prosa. In precedenza avevo stigmatizzato una certa concessione di Villalta all’elegia, ma con questo ultimo lavoro mi devo ricredere, l’autore si è mosso con maggiore consapevolezza del terreno argilloso dell’elegia ed ha corretto l’andatura e la postura, ha introdotto delle protesi narrative nell’impianto poetico.

I lettori mi scuseranno se cito un altro aneddoto. Un frammento del dialogo tra Goethe ed Eckerman. Scrive Goethe:

«Parlando delle opere dei nostri nuovissimi poeti siamo arrivati alla conclusione – scriveva Eckerman, – che neanche uno di loro scrive della bella prosa. – È semplice, – disse Goethe: per scrivere in prosa bisogna almeno dire qualche cosa; chi non ha niente da dire può tuttavia scrivere versi e cercare rime, e una parola suggerisce l’altra e finalmente sembra che qualche cosa riesca; e benché non significhi niente, sembra tuttavia che significhi qualcosa».

Commento di Jurij Tynjanov: «Cerchiamo di capire la sua definizione di una “nuova lirica”. Non c’è niente da dire, ossia non c’è niente da comunicare; non c’è un’idea che abbia bisogno di essere oggettivata; lo stesso processo della creazione non ha scopi comunicativi. (Mentre la prosa con il suo orientamento sulla parola simultanea è molto più comunicativa: “Per scrivere in prosa bisogna dire qualche cosa”.)

Goethe descrive come una successione lo stesso processo creativo: “una parola suggerisce un’altra” (e qui Goethe attribuisce un ruolo importante alla rima). “E benché non significhi niente, tuttavia sembra significhi qualche cosa.” Questo è il punto in cui Goethe è in contrasto con Kireevskij (“una parola detta bene ha il valore di una buona idea”). Pertanto, in entrambi i casi, si tratta di parole “prive di contenuto nel senso più lato della parola, che assumono nel verso una certa semantica immaginaria“.»*

Quello che voglio dire è questo: che spesso i poeti scrivono una parola pensando ad una «semantica immaginaria» del tutto personale (cosa che non accade nel romanzo), ma la questione non è così semplice; non sempre, o meglio, quasi mai una «semantica immaginaria personale» coincide con una semantica immaginaria pubblica, che il pubblico può comprendere. Spesso i poeti di minore rigore formale e culturale pensano in modo semplicistico che una semantica immaginaria personale debba SEMPRE coincidere con una semantica immaginaria del pubblico. Anche questo equivoco è stato un portato di certo sperimentalismo acritico tipicamente italiano diffusosi a macchia d’olio nel secondo Novecento.

Per tornare al nostro oggetto: la questione di una buona prosa, è chiaro che un narratore che non abbia qualcosa di preciso da dire non potrà mai scrivere della buona prosa, ne uscirebbe un ircocervo incomprensibile. Per la poesia invece tutto sembra essere ammesso. Di frequente io dico a certi autori di poesia che non ho le chiavi per entrare dentro i loro testi, intendendo dire che non ho le chiavi per entrare all’interno della loro semantica immaginaria.

Ecco la ragione per la quale ogni tanto anch’io mi cimento con il romanzo. Perché il romanzo mi obbliga a pensare un oggetto preciso e a raccontarlo nel modo più diretto e circostanziato, senza ricorrere a retorismi fuorvianti come spesso accade in poesia. Quindi, cari poeti, vi consiglio di misurarvi con il romanzo se volete scrivere buone poesie!

Gian Mario Villalta è un poeta che sta tutto intero dalla parte della prosa (poetica). Questo libro, composto di diciannove poemetti, è, in tal senso, inequivocabile, al di là di ciò che vorrebbe farci intendere il titolo «Telepatia», ovvero, di una comunicazione che si dispiega a velocità istantanea. Una utopia. Ma è bene così, la poesia deve sempre inseguire una utopia. O forse è proprio la prosa poetica, la «poesia significazionista» la chiamava Mandel’stam, quella che può portarci in prossimità della «telepatia» delle parole. Forse proprio allontanando la poesia dalla strumentazione fonica delle parole possiamo accedere ad un altro piano di realtà sonora, magari più profonda, o comunque diversa. È proprio questo l’intendimento del libro di Villalta, credo. È su questa posta che l’autore gioca tutte le sue fiches. Ma va anche detto che, qua e là, anche Villalta scopre, come per caso e in via incidentale, le sue carte segrete, ed ecco che compaiono le parole-simbolo, figurazioni simboliche e sviamenti del discorso, apparentemente lineare, tutte strutturate nella sequenza temporale progressiva.

Un punto qualificante della procedura di Villalta è il «discorso narrativo», cioè un tipo di discorso poetico che scorra in modo da attenuare la sensazione che esista un «metro»; mentre nei precedenti libri il metro serviva a veicolare una certa melodia, in quest’ultimo, liberandosi dalla melodia interna, l’autore è approdato ad un parlato continuo, un parlato che quasi fa a meno del ritmo come sistema dinamico interno. Il ritmo così rallentato fino alle estreme conseguenze, porta alla naturale datità di un discorso poetico che imita il «parlato» del linguaggio di relazione attraverso un controllo della soggettività. Il risultato complessivo non può non essere che un isocronismo, un sistema isofonico e isotonico.

Credo che proprio su questo aspetto la poesia del futuro di Villalta dovrà pensare di indagare se non vorrà registrarsi tutta sulla scansione temporale progressiva del presente. Dovrà, a mio avviso, recuperare il tempo dell’elegia, il tunc, sfuggendo, come dire, all’elegia e alla perimetrazione del presente. Ma è chiaro che i retorismi propri dell’elegia, gli «indizi fluttuanti» tipici della poesia elegiaca del Novecento non sono olio galleggiante sull’acqua, sono qualcosa di più consustanziale, entrano in un determinato rapporto con i significati delle parole costituiti dall’«indizio fondamentale», deformandolo, arcuandolo. Ed è significativo che è proprio questa intromissione nel significato delle parole che deforma leggermente la semantica della poesia e la differisce dalla più semplice semantica della prosa. Tutta l’operazione di Villalta si gioca su questo punto di criticità. E dire che su questo punto è inciampata sovente la poesia contemporanea che non pensa a quella fondamentale procedura che è lo «scarto», la «deviazione», lo «straniamento», lo shifter, una funzione che recita un ruolo essenziale e basilare nella poesia moderna, a differenza che nella prosa la quale può andare per il suo corso per pagine e pagine senza preoccuparsi minimamente di tali questioni. Ecco perché io preferisco le poesie di Villalta dove l’autore adotta con più incisività la procedura della estraniazione, e anche della simbolizzazione, perché no?, dove fa una meta poesia, quasi simbolica, una poesia sulla poesia come quella scritta sulle orme di Wallace Stevens:

  1. J. Tynjanov Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, 1968 p. 102

Gian Mario Villalta.JPG

Poemetti di Gian Mario Villalta

le madri cattoliche del Novecento

I.

Non è un posto per bambini. Vetri rotti,
borchie sconficcate, infissi svelti
e affilate lamine d’alluminio
lasciate nell’orto dall’ultima volta
che qualcuno ha prestato aiuto,
in un afoso sabato pomeriggio
del 2008, alle suore agostiniane, ora migrate
nel moderno convento–albergo di Viareggio.
Al Patronato ci stanno i topi, e i cari mici
casalinghi si guardano dall‟entrare: perché mai
dovrebbero scacciare quegli amici
più sfortunati (lì non c’è da mangiare)
e inalare la puzza dell‟abbandono
che a chi sta meglio fa più male?
Al Patronato non c’è più neppure l‟eco
dei canti, quelli belli, inviati su, su fino al cielo
nei giorni di festa, né un povero fantasma
infesta quelle stanze con l’odore
delle pietanze preparate dalle madri
per la ricreazione: si è stancato anche il vuoto
di stare qui, e così ha fatto il giro
dell’isolato e a poco
a poco ha quasi finito di occupare
la scuola elementare, le sedi della pro loco
e del mercato rionale, il posto degli ultimi
anziani nella chiesa concattedrale.

II.

Erano madri di altri – lo ricordo per chi
non lo sapesse – che lì dispensavano i loro uffici
agli indigenti, ma prima di tutto erano madri
(è difficile spiegarlo, e forse è anche
un poco ridicolo) le madri cattoliche.
Al confronto le suore erano sterpi
di devozione, frutta muffita, acide.
Le madri, invece, le madri cattoliche,
nelle due ore di servizio domenicale,
mai sazie di maternità, coi loro baci
a labbra strette, le carezze rapide e i gesti
precisi sulle vesti, con il pettine e con le tazze
erano stampi di mamma per tutti i bimbi
che ne avevano bisogno e, sospetto,
per ogni uomo, che allora veniva cucito
– da quelle mani abili nel rammendo
dell‟affetto – dentro il suo infantile sogno.

III.

E poi c’era suo figlio, da lei generato, di tutto il creato
l‟unico a meritare ogni sacrificio.
Per lui avrebbe implorato il cilicio
e sgobbato e pianto, se necessario,
e anche se non lo fosse stato.
La Madre dell‟Unico Figlio
dal suo esempio avrebbe tratto
effigie e cartiglio, non bastante il contrario.
Al figlio invece, a suo figlio, su tanto martirio
e sulle preci puntualmente informato,
mai sarà dato sdebitarsi,
e così, chi a fare malta, chi di conto,
e chi (come me e te, Fernando) con la penna
in mano studiando,
tutta la vita a rimettere il debito, a madonna–
madre, senza uscita né scampo.

IV.

Ma tu così né mai l‟avresti detto,
né io direi, non fosse per la nausea
di tutte quelle troppo solite madri
dei poeti del Novecento,
le super madri cattoliche
di fine aspetto (un po’ ‟ dimesso)
tutte carezze sofferte
e premura, ipoteca futura sul bene
e sul male – fatale, stesso effetto sui pargoli:
far sentire l‟affetto un morbo
inguaribile, un prestito a usura.
Ma adesso, che più non vale il modello
della Madonna e del Figlio,
restano senza appiglio
i facitori di versi? Non ci sarà più il sorriso
doloroso, il sacrificio che esige riscatto,
il perenne senso di colpa
per un misterioso misfatto.
Della madre diranno che tutto l‟anno
odorava di estate e aveva i capelli più luminosi,
le labbra vermiglie più di tutte quelle
della sua età.
Anche di quelle della pubblicità.

Gian Mario Villalta Telepatia cop
I poeti e l’invisibile

I.

Stamattina sono sceso, entrato nell’auto, ho acceso
e ho preso l’aìre per andare a trovare Amedeo,
che è morto da nove anni.
Che stupidaggini fai, sei fuori amico, mi accuso.
“Da ieri – ribatto – mi chiama. Vieni,
non è questa la strada? La grava, l’ornâr,
la risultive: guarda anche tu!”.
“Ma dove credi che sia, Amedeo?” – insiste.
“Nella tua testa – ho risposto – però
più lontano, dove l’ornâr è l’ontàno, e sommesse
rasoterra due lingue intessono. Aspetta, ci siamo quasi”.
Mi fermo. Scendo. Venivamo qui spesso.
E qui qualcuno è venuto a falciare. Poi a metà
se ne è andato lasciando il profumo dell‟erba
che diventa fieno e quello del prato che adesso
canta, sulla riva del Tagliamento,
dove non smetto il discorso tra me con me stesso
e con il terzo che dentro di me ci smentisce
entrambi e dice che non devo credere, non devo
illudermi che sia diverso, se non ciò che vedo.
“Intanto – gli dico – c’è questo prato, per metà falciato,
dove io vedo che qualcuno, che se n‟è andato,
mi lascia contare che è vero, che si va via,
ma quasi tutto resta, e una scia
di tempo insieme, anche quella, sta,
la puoi vedere con la mente
come in una fotografia
notturna le luci delle auto appena passate
ricordano l’istante
nella scia che lasciano dietro di sé”.
È solo il presente che (quando fissi
con uno scatto la vita
in un‟immagine)
per un infinito istante si perde.

II.

(d‟après W. S.)

I corvi fanno il verde più sincero
o stona quel loro segno nero
sul quadretto che la primavera
scurisce all‟imbrunire?
Ci sono cinque corvi, stasera,
sul prato, stanno fermi,
come cinque pensieri fermi
simili ma non uguali, nella testa.
All‟apparenza disposti
a caso, ma intanto stanno
e zitti, immobili, non distinti
neppure dal lugubre verso.
Porta male vedere i corvi?
E avere pensieri neri?
E la primavera, la primavera
conquista ancora la testa?
All‟imbrunire, cinque corvi,
cinque pensieri: il primo lo so,
e così fino a maggio – ma il quarto, il quarto
non lo capisco, è uguale ma non lo stesso,
e il quinto?, ripete: “Tu adesso di‟ forte
per due volte, e distinte, che cosa vuoi”,
“Devi smettere – esige – con questa farsa:
corvi e pensieri a parte, è altro il niente,
il male vero restare svegli sempre”.

III.

Il microchip sottopelle autostabilizzante,
che nel tempo rilascia fede in una chiara realtà
in quantità costante, costerà caro, e illuderà,
ma come quando uscivo dal fiato
denso della stalla e guardavo il prato
nella mattina di smeraldo, dietro la casa di mio padre,
vedevo un ordine, un fine, un colore uniforme
dove il giorno aveva misura e in ogni parola
sentivo il gesto di benedire, e il cielo, gli alberi in fondo,
i monti azzurrini dire bene del mondo.
O Microchip, che rilasci serotonina, endorfine e nuovo farmaco!
Per Te, annunciato da un serio scienziato, sto risparmiando
già da ora, e non per farmi bello
o più sessualmente efficiente, ma perché sei promessa
di pace con il reo tempo, interiore ordine, vera fede
nella geometria di quel prato, non lì per caso, smeraldo
fatuo di luce per avventura incidente, ma nato
nel mio pensiero da luce che lo ha pensato.

IV.

(d‟après A. Z.)

Quando i colori mi invitavano, mi imitavano –
anzi, creavano desideri
di bellezza altrove all‟inizio
e di bellezza lì, evidente, appena un po’ 
irraggiungibile, appena un po’ invisibile,
i colori del prato non promanavano dal prato stesso
ma gli erano offerti da superiori, supremi ordini
provenienti da moltissimi dna, che là si incontravano,
attratti, illusi come in vertigini
di un luogo dove raggiungere
infinitamente se stessi.
Ora, che sei dietro il vetro
di un sentire ossesso,
opaco e smerigliato prato
se io sapessi pregare
con naturalezza, come un vero silenzio
saresti il centro di ogni fuga,
sarebbe l’amore, l’invano, il sempre
perduto che non si vede ma compie lo sguardo.

città in bianco e nero

città di sera

Telepatia

I.

Uno stormo di istanti, per sempre
curvò nella luce dell’una, innalzò il respiro
con tutte le radici.
Sarebbe un modo di dirlo.
Un altro è che avvenne,
lasciò una scia attraversò
senza ferita, senza cicatrice
fu giorno per notte per sempre:
divise il sangue, smise di essere
di qualcuno, e pensammo il nome detto
nostro una volta per tutte.
Prima persona plurale,
modo incondizionato,
tempo perfetto.

II.

Quando ti penso, perché
so che un esistere vero
è dove mi porta a te,
a me ti porta, il pensiero?
Pure se nulla afferro, nulla è,
cosa tra cose, corpo tra corpi, perché
occupi spazio, profumi, sei causa
di decisioni, e rinunce: lo sai che non posso
chiedere, né avere altra risposta – eppure
sei tu che parli, fai l‟amore
e la morte?

III.

Dico che ti penso.
Penso che sia il pensiero
di te, che io invento
nella mia mente,
che sono io, cioè, a trovarti
in me stesso e a portarti in un luogo
e in un tempo, perderti di nuovo.
Ma sei tu che mi pensi, forse,
perché sei tu che vieni
e il pensiero che ti porta è già te:
quell’io che ti pensa, può essere che sei tu
che lo crei?
So che esisto fuori di me.
Le prove? Lasciamo perdere.
Ma so che persiste
l‟irrevocabile.
Forse l‟oscuro di ciò che chiamiamo
essere è appartenere
agli altri, a molto altro (anche luoghi, date, vuoti
di noi stessi) e non sapere dove
stiamo ancora insieme, dove siamo altri, o gli stessi.

IV.

Il pensiero di te, che ha origine
in me stesso, viene da altrove,
suppongo, e lontano, per questo mi chiama,
o è come se lo facesse,
e spesso sorprende la mente
intenta al lavoro, alla guida, a se stessa
nel riflesso che rigira il presente.
Rigira l‟origine, il pensiero,
e quando arriva ci trova già
rivoltati verso il futuro, in fuga
da noi stessi, pieni di desiderio
di essere stati: “Celeste
è questa…” …facoltà, che hanno gli umani
di rivivere rimorire
lontani, celeste…
è il colore del cielo,
a volte, quel colore inventato da noi
umani, forse da uno rimasto solo
e nel pensiero vicino all‟amore
come vicino all‟amore nessuno.

 

 

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