Archivi del mese: febbraio 2015

UNA POESIA di Milo De Angelis  “Linn, l’avvicinamento” da  Distante un padre (1989) con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 

Herbert List - Mannequin - Vintage Gravure 1935

Herbert List – Mannequin – Vintage Gravure 1935

 Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010).

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Chi è «Linn»?. Linn è il «padre» e il sostituto del «padre», è l’equivalente del «padre» e la sua «traccia», l’orma mnestica che è scomparsa, un indizio di «presenza», una segnaletica dell’«assenza». Tutte queste cose assieme. In questa poesia viene messo in luce uno schema familiare. Di qui il perturbante, l’estraneo che nella poesia di De Angelis è presente con le immagini  del «quaderno», della scuola, l’«algebra», la «guerra punica» etc. La poesia può anche essere intesa come un Autoritratto con convitati, con sconosciuti, con presenze non riconoscibili, prive di identità definite, o con finte identità. In questo schema, il logos occupa la posizione del «padre», il quale è sempre «distante»; è colui che parla da una distanza, da una traccia, da una breccia, da un altrove. Parla per disseminazione. La disseminazione non equivale a polisemia: mentre la polisemia è sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile (diremmo: ubbidisce a un qualche principio di realtà), la disseminazione non è mai riconducibile all’ordine, si abbandona a un principio di piacere dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione configura il testo (e qui la differenza tra “linguaggio” o “scrittura” e “realtà” viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni, formazioni mostruose. La presenza del «padre» si manifesta attraverso una molteplicità di «voci», o meglio, di tracce di voci, che parlano e, a loro modo, interloquiscono. Il loro parlare è un vaneggiare, un parlare attraverso una rifrazione, una com-posizione che deriva da una s-com-posizione, una dis-sezione, una dis-persione. Al fondo di questa metafisica della presenza della dispersione c’è una disseminazione delle voci e dei linguaggi.

alfredo de palchi con milo de angelis 2011

alfredo de palchi con milo de angelis 2011

Nel suo fondo vige il «principio della discesa infinita», la «dura madre spinale», il totem del «padre», vige la Babele dei linguaggi, le loro differenze, le loro sovrapposizioni, i loro scarti, i loro conflitti che non sono mai conflitti semantici, nulla è più estraneo alla sensibilità di De Angelis che pensare il discorso poetico in termini di modulazione dei significanti o delle stratificazioni semantiche. Per De Angelis la semantica nasconde al suo interno sempre una «mantica», un meccanismo incognito che agisce all’interno del discorso poetico come un codice, come la duplice elica del DNA, un misterioso regolo che ordina il caos dei linguaggi. Sicuramente, in questa poesia come in tutta l’opera di Milo De Angelis, concetti psicoanalitici come rimozione, castrazione, sublimazione, pulsione di morte, coazione etc. giocano un ruolo di primo piano, ma non è questo il punto, quanto tempo e controtempo, retrospezione e prospezione, stop and go, invariante e varianti formano la spina dorsale della scrittura deangelisiana. Una sorta di struttura binomiale presiede la sua scrittura: testo e sottotesto. L’analisi dei suoi testi poetici può essere condotta alla stregua di un tentativo di individuazione di atti mancati, lapsus, mascheramenti, sintomi, salti, brecce che la decostruzione sfrutta per inserirsi in sistemi che, a prima vista, nei loro meccanismi di difesa, appaiono solidi e inossidabili. Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di «disseminazione» assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni, di supplementi. Salta come sulla dinamite il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e una certa concezione della temporalità come successione lineare, discreta, di istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari livelli e in più direzioni (possibilità che non si riscontra ad esempio nella scrittura ideografica, che non è fonetica), perché non assoggettabile a un centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone:

Quel mutarsi del sole in stoffa militare

Si tratta di qualcosa di affine alla procedura alchemica, di una magia che affiora all’improvviso dalla non-presenza dell’inconscio, di qui il mistero inafferrabile di certe inspiegabili associazioni, il mistero del numero:

Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni, ciascuno
con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiue: ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.

[…]

… «Si salverà…», pensavo, ed era il numero accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale

Ma il numero viene associato all’«efebo», all’«acchiappafarfalle», cioè ad esseri demonici, incompiuti e inconcludenti, a metà tra il definito e l’indefinito. Può apparire paradossale che il «numero», cioè la più alta quantità di astrazione simbolica, possa equivalere ad esseri indefiniti e indistinti come l’efebo e l’acchiappafarfalle, ma per l’inconscio tutto ciò non ha la minima importanza, tutto è simile al tutto, ogni parte disseminata corrisponde simbolicamente con un’altra parte del suo insondabile e vasto universo: «Tutto ritorna qui, confine del luogo», scriverà De Angelis in un’altra poesia della medesima raccolta. Quindi c’è un «luogo», per sua essenza inarrivabile, ma è un luogo navigabile, perlustrabile, sondabile con gli strumenti del logos poetico, luogo che non sarà mai colto nella sua «origine» ma soltanto attraverso i suoi supplementi, le sue sostituzioni, le sue sovrapposizioni, i suoi ribaltamenti, i suoi rinvii, le sue dis-connessioni simboliche segrete e alchemiche. Si assiste alla presenza di due assenze strutturali della scrittura: assenza del destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente).

È una poesia della «presenza disseminata», che si presenta come nuda presenza, non è un caso che tutta la poesia sia costruita al presente indicativo; e domina il deittico che ben si addice al verbo coniugato al presente: «appena vieni», «io sono sempre qui», «sempre qui», «vicino», «È un tempo al neon, non ha stagioni». La poesia della presenza assoluta è possibile solo declinando al presente il suo universo. È la non-presenza dell’inconscio che si rivela nella presenza assoluta. La poesia assume la forma di una deriva della non-presenza dell’inconscio. Anche la stessa ossessione dei luoghi, di cui la poesia di De Angelis è così ricca, rivela la non-presenza del luogo assoluto: il qui e ora è il luogo indescrivibile del presente assoluto, dell’adesso.

Questa teoria della non-presenza può essere riassunta nel concetto di «traccia». La traccia (che Derrida riprende da Emmanuel Lévinas) è «un passato che non è mai stato presente», cioè la dimensione di un’alterità che non si è mai presentata ne potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: «con l’alterità dell'”inconscio” abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati – passati o a venire – ma con un “passato” che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui “avvenire” non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente» (La diffèrance). Possiamo adesso comprendere perché  la scrittura deangelisiana si presenta come presenza di un ordito di tracce disseminate, è la sua ragion d’essere, il modo per rendere raggiungibile ciò che è un ordito di scarti, di invii, di rinvii:

O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie…

Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso una catena di sostituzioni. Scrive Derrida: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».

Ed è infatti proprio questo l’esito principale consentito dalla nozione di «traccia»: quello di far intendere l’ordine del senso (della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica) come un ordine supplementare, radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l’irrappresentabilità della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come ciò che sta al posto della traccia «originaria», la sostituisce, ne è insomma la scrittura, così come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in La scrittura e la differenza, è la traccia «visibile» dell’inconscio. Questa «logica del supplemento» è ovviamente impensabile all’interno della logica, scriverà in Della grammatologia: il supplemento supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa «appare». «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».

Propriamente parlando, non si può dare alcun fenomeno dell’esistenza , se non all’interno di una dimensione che potremmo definire originariamente linguistica, determinata cioè dall’Altro come luogo della parola e fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del soggetto. Il telos che muove il De Angelis di Millimetri (1983) di far tabula rasa della storia e della storialità si incontra con il problema di dover abolire anche la dimensione linguistica e di dover arrivare ad un pre-linguistico che non può essere afferrato se non ricorrendo ad una metonimia irriflessa, ad un motore metonimico che devii di continuo la significazione all’interno di se stessa. È ovvio che da questa posizione De Angelis non poteva arretrare ulteriormente, e infatti la sua produzione nei decenni successivi si impegnerà verso l’unica strada per lui percorribile: quella risalita che, sola, gli avrebbe consentito una stabilizzazione della significazione poetica…

Milo De Angelis (Viviana Nicodemo)

Milo De Angelis (foto Viviana Nicodemo)

        Linn, l’avvicinamento

I

Si è travolto d’algebra il sereno, è caduto sulla prima
guerra punica, con i miei ventimila neuroni alla
campana, giaculatorie da ripetere in numero dispari. Non posso
dirti dove sei giunto, ma posso dirti dove tutto è iniziato. Ecco che l’esilio
si fa idea. Animali bisbigliano al viaggiatore in sordina
le antiche regole del sopravvivere, gli mostrano la foto,
il bambino su una lontana spiaggia del ’59 con le braccia e le gambe
bloccate nella corsa. Era quella grafia che
non sbanda, quel mutarsi del sole in una stoffa militare. C’era in me
qualcosa che sa di me. Ogni sera viene
a dirmi addio con una cartolina e il libro
di scienze sottobraccio. Segniamo in blu le espressioni sconosciute
“dura madre spinale”, “principio della discesa infinita”.
Le scriviamo sul registro, ci diamo la buona notte.

II

Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni, ciascuno
con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiume: ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.
(“Anna la naspa, fin da piccola la chiamavano così”, sentenziava
uno stronzo della Bocconi sulla sorella
scappata in Bolivia e ritornata qui, due mesi fa, tra i corridoi
del Besta) (Eppure gioiosa in certi sbalzi, in brevi
passi orientali). “Si salverà… “, pensavo, ed era il numero accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale
o per quella più domestica, sconfitto anche in giardino
da vanesse e cavolaie. Era Anna,
che non conquista e non è presa, e ha in faccia
lo stesso coraggio di beffa addolorata.

III

Spiamo insieme, dalla finestra, uomini che si accoppiano
con i loro incubi, la camerata che gira su se stessa, uomini e donne
distesi sul pavimento liquido. Poi, vicinissimo a noi,
un fruscio interno, le ultime vibrazioni di un insetto, la sua
sostanza evaporata. E di colpo tutta la vita ha bisogno di questo
buio per condurmi a sé o dovunque io mi accanisca
un’occhiata al passaporto, all’indirizzo del postumo incontro – Café
des pauvres, Montpellier.
“Sono vent’anni che guardo e che non dormo… appena vieni
cantami la canzone in italiano… vieni
appena tu puoi… io sono sempre qui.”

.
IV

Sempre qui, mi dico, sempre qui, vicino
alla specchiera per trovare un solo tono di voce. So
la premura di questo golf azzurro, non la sua fine,
questo giro dopo giro intorno alle piastrelle. So di un tempo
che adunava gli abitanti, il turgore nelle corolle:
era il figlio pianeta che due donne vestivano,
la teologia di un borgo. Qualcosa
di mai vissuto nel mio sangue macera. È un tempo a neon,
non ha stagioni. Basta un’edicola aperta e ogni passo
diventa veloce, davvero veloce: se lo fermo,
la strada si avvicina, sparge essenza astratta, una cinepresa
che moltiplica porte e scale mobili, mi incalza, mi lascia. Allora
l’unica missione è una telefonata, una sorpresa di voce
attenta prima di me e dei miei secoli: accorcerà il tratto che manca
al cuscino, il punto da cui ricomincio. Oppure è il salone
di via Padova, gli ultimi giocatori di biliardo, come una
sfera nel percorso ci tiene il respiro: scambiare
un commento esatto, non oltrepassare la sostanza di legno, il panno
di tutti noi, questo bene che mi accerchia.

V

O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie
con le prime ore, forza mattutina degli ortomercati, Fabienne
che contempla le saracinesche socchiuse
per prestarle un suo rovescio azzurro. Sì, è con bene, con bene:
la bilancia insensata sul palcoscenico,
qualcuno verrà a toglierla, tra poco… forse noi.

VI

Sono qui anche per questo, pensavo, se chiudo
nel corpo le cose in migrazione, se i miei cerchietti
per l’al di là sono in vetrina, sono a strappi. La nudità che
si misura con i burattini, le tibie trepidanti,
ha supplicato di crescere:
c’è ancora tempo, lo sai, sull’erba batte una cadenza
di colpi consolati. Pensavo a questa lettera:
te l’avrei data in un film allegro, in un digiuno spezzato fuori
avrei parlato delle luci che ondeggiano tra i vestiti, come montagne
da prendere a forza, da accucciare nella ciotola, nei lenti
meccanismi di un raffreddore, costruzioni a mano a mano. E ancora
avrei parlato di te, com’eri da ragazzo e come sei tornato, ti avrei
descritto uno per uno i passi troppo veloci,
sempre più veloci, finché l’angelo custode si aggrappa
alle caviglie e siamo salvi.

da Distante un padre (1989)

85 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, filosofia, il <bello, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento

Giorgio Linguaglossa “La filosofia del tè Istruzioni per l’uso dell’autenticità” (2015) 10 POESIE E PARABOLE DELL’EPOCA T’ANG con una Premessa dell’autore

 L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

L’empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

 Giorgio Linguaglossa è  nato nel 1949 ad Istanbul e vive a Roma. Per la poesia ha pubblicato: Uccelli (1992), Paradiso (2000), La Belligeranza del Tramonto (2006), Blumenbilder (Natura morta con fiori) (2013), La filosofia del tè. Istruzioni per l’uso dell’autenticità (2015); oltre a due romanzi: Ponzio Pilato (2012) e 248 giorni (2016) e vari libri di critica letteraria.

Questo volume contiene tutta la letteratura intorno secolo XXV, la numinosa epoca T’ang (della terra attualmente a mille chilometri a sud della contrada nota oggi come Manciuria), che è stato possibile raccogliere intorno all’insegnamento di alcuni «maestri di pensiero» in merito al problema dell’autenticità. Un mondo lontano risalente a circa duemila e cinquecento anni del futuro-passato o, se vogliamo, del passato-futuro se contiamo a far luogo dalla data dell’11 settembre 2001, il giorno della distruzione delle Torri gemelle a New York. Poi, come è noto, il cataclisma che seguì alla mutazione climatica sul pianeta portò alla distruzione di quella antica civiltà post-tecnologica. Sfortunatamente, le testimonianze scritte sono incomplete e frammentarie. Ci sono racconti orali intorno ad alcuni «maestri di vita» tra i quali il leggendario Tripitaka che parla l’idioma degli uccelli (tra cui talune storie intorno a filosofi presocratici giunte colà attraverso chissà quali peripezie), l’idioma della leggerezza e dell’innocenza.

cinese donna con gonna

.

Altri racconti riguardano «le storie del maestro Me Ti», il filosofo materialista che insegna il «Grande Metodo», il «metodo democratico», il metodo dialettico che sa tradurre l’arte della sconfitta in arte della vittoria. Me Ti afferma che se tutte le parole che designano le cose sono eguali anche le cose saranno eguali e verrà il regno degli eguali, e inoltre che compito del filosofo è «rendere democratica la bellezza». Me Ti è il filosofo che oppone un severo disdegno verso la parola «verità», che insegna che non vi può essere democrazia fintantoché imperversa la «verità». Vengono poi le «storie del maestro Osho», il filosofo che rinuncia alla parola e si ritira a vivere come un uccello su un albero, e che a un certo punto resuscita e si ritira a fare il calzolaio: è la fine della civiltà della parola che qui ha luogo o la fine della filosofia che ha luogo tramite la parola? Seguono «le storie del maestro Yze»: Yze afferma che «dentro la città c’è un punto, e finché il punto rimarrà fermo tutto il resto non perirà, resisterà al tempo, alla dissoluzione e al pòlemos», e invita gli adepti a scoprire dove si trova il «punto»; ma anche Yze, alla fine, rinuncia alla parola e diventa calzolaio perché nelle mani che impugnano il martello e nel martello che percuote i chiodi ci sono la verità e l’autenticità, quella verità e quella autenticità che non possono più essere espresse in parole. Nelle solide scarpe che il maestro Yze costruisce c’è più verità che nella «verità», questo  sembra essere il succo della sua filosofia. Il maestro Moyo afferma di parlare un idioma di «parole morte», e questo appunto è il succo della sua filosofia che gli allievi faranno propria  quando capiranno che parlano una lingua morta.

E poi ci sono «leggende», parabole, storie tremende come quella della «Città del Riso», dove gli uomini sono felici e beati e ridono in eterno. C’è la storia del maestro Hoyko che getta sprezzantemente a terra ai suoi allievi le monete d’oro e, tra di esse, anche una falsa per invitare gli allievi a riconoscerla; c’è la storia di Anarcisio Aclastico il maestro che risolve tutte le questioni attraverso la pronuncia di una sola parola; il maestro Yzu invece insegna «ad entrare dentro le cose», e così entra nel mare sotto lo sguardo incredulo di un suo allievo; Lu Shu invece costruisce una pesante porta di ferro e la impianta nel fondo di un lago; un altro anonimo maestro pronuncia queste terribili parole: «Babilonia sia la tua città e di Babele sia la tua lingua»; e che dire del mite maestro Marpa che non ha mai ucciso una formica ma che prepara la sua terribile macchina da guerra?; l’allievo Zerco chiede a Marpa il perché del «tempo», e attende la risposta per tutta la vita fin sul letto di morte. Storie, leggende, parabole, metafore della condizione umana. Man mano che la lettura procede il mistero si infittisce, più la parola tramonta nell’impronunciabile più emerge la questione dell’azione e del che fare?

Storie che si sono tramandate, di bocca in bocca, attraverso le generazioni fino ai giorni nostri attraverso la lunga catena della tradizione orale. Per la prima volta vengono qui pubblicate le «storie» dei più famosi cantastorie di quella lontana contrada, senza alcuna alterazione di stile, punti di vista, personali interpretazioni, idiosincrasie etc..
Desideriamo ringraziare gli ultimi cantastorie per averci concesso di mettere sulle pagine di un libro i loro racconti. Abbiamo cercato in tutti i modi di conservare nei testi le loro parole, le loro personalissime inflessioni.

cinese paesaggio

.

Per agevolare il lettore, le «storie» appaiono non in ordine cronologico ma in ordine di tramandamento, come capitoli di un romanzo, senza inizio né fine. Non ci si attenda, dunque, una sequenza di «storie» che abbia una logica e una coerenza; abbiamo preferito lasciare le «storie» così come la tradizione orale ce le ha tramandate per offrire al lettore di oggi la versione integrale, quanto più autentica, dei racconti così come dovevano presentarsi ai contemporanei di duemila e cinquecento anni del futuro-passato.
Il curatore si è pertanto limitato a trascrivere fedelmente le parole dei cantastorie e a ricopiare le sparute cronache scritte, senza aggiungere nulla di suo, nemmeno per postilla.

È verosimile che i «maestri» che compaiono in questo libro abbiano fatto la loro apparizione sulla scena del mondo in un’epoca di rapidi e febbrili mutamenti, di invasioni barbariche (di cui c’è qualche eco), di trasmigrazioni di popoli, di depressione economica, di catastrofi… un’epoca intermedia che è intercorsa tra il tramonto del vecchio mondo e la nascita di uno nuovo.

(da Premessa di Giorgio Linguaglossa La filosofia del tè. Istruzioni per l’uso dell’autenticità Ensemble, Roma, 2015 pp. 112 €12)

LA FILOSOFIA DEL Tè cop

Poesia dell’allievo Tu I

Quando tornai a casa, dopo il tempo
dell’invasione dei tartari,
mi rallegrai che la mia casa fosse stata risparmiata,
mi rallegrai nel trovare mia moglie,
in piedi, in cucina che mi scaldava
il tè nel bricco che bolliva sul fornello,
il fedele domestico, più vecchio e più magro…
c’era financo lo sgabello
ancora intatto sul quale un tempo
poggiavo i piedi dopo pranzo,
mi rallegrai nel trovare Zerco,
il mio cane, che mi venne incontro
scodinzolando,
(lui sì, mi aveva riconosciuto)
mi rallegrai nell’ascoltare i racconti
di mia moglie circa i morti dei vicini,
le uccisioni, le depredazioni inaudite
e le vicende degli amori clandestini
che erano fioriti in quegli anni cupi…
mi rallegravo del cinguettio dei passerotti
sugli alberi, che il mondo
continuasse a girare come prima.
Mi rallegravo io stesso
di essere sopravvissuto in tutti quegli anni
dell’invasione barbarica.
«Dopo tutto è il male minore
essere ancora in vita
– mi dicevo per rassicurarmi –
e c’è un male peggiore,
quello di non esserlo più, in vita»;
ma non riuscivo a persuadermi,
a capacitarmi del tutto e guardavo
dalla finestra aperta
i rami del mandorlo fiorito che uscivano
dal buio ed entravano nella finestra
così, senza cercare nulla, senza volere nulla.

 

La parola di ferro

L’ultima volta che vidi il maestro Yze
stava chino sulla riva dell’oceano davanti ad una fornace,
metteva torba nella fornace
da dove usciva un magma di ferro incandescente
che lui colava in appositi stampi quadrati,
poi saldava i singoli blocchi
uno sull’altro, nell’altezza e nella larghezza,
per costruire un muro di ferro
che divenne ben presto alto e massiccio
come le mura di Ninive o di Babilonia…

Così, davanti al mare salato
crebbe l’invalicabile muro ferrigno
fin quasi a toccare il cielo.

Un giorno, l’ultimo degli allievi, timido e sgomento, gli chiese:
«Maestro perché questa barriera di fronte al mare?
non esiste muro invalicabile
che alla fine non ceda alla corrosione, alla ruggine del mare…
E alla fine anch’esso si sgretolerà e finirà nel nulla…».

Ma il maestro Yze non lo degnò di alcuna risposta.

Continuò ad erigere il muro fino alla fine dei suoi giorni.

dignitario cinese

La poetica del maestro Lu Shun

Il maestro costruì con le proprie mani una porta di legno
impiantò lo stipite nel fondo melmoso del lago
e posò la porta pesante sui cardini mutevoli.

Trascorsero dieci anni durante i quali il maestro
si immerse in un sonno profondissimo e al risveglio
prese a tagliare gli alberi del bosco per farne tavole.

E costruì una porta sottile come una foglia
e la fissò sul ramo più alto d’un albero
così che il vento al suo passaggio l’apriva e la chiudeva.

Trascorsero altri dieci anni durante i quali il maestro
si immerse in un sonno profondissimo e al risveglio
prese a tagliare gli alberi del bosco per farne tavole.

Costruì una porta pesante e la posò sui cardini mutevoli
e la immerse nel fuoco in modo che esso
potesse ardere dall’interno la porta in un solo falò.

Perché l’acqua riposa nel vento
e il vento riposa sul fuoco
che alimenta il Tutto e lo distrugge.

 

La poetica del maestro Lin Pin

Ho cercato tra un milione di parole quella giusta per indicare l’Anima, ma non l’ho trovata.

Al suo posto però ho trovato un buco.
Un tunnel così tortuoso e profondo… senza fine.

Ho sortito tutti i tentativi ma non sono mai riuscito ad avvistarne il fondo.

E allora… ho preso a riempire quel buco di parole. Tante parole, così alla rinfusa… E poi in modo sempre più frenetico, convulso.

È questa credo la mia poesia e la mia poetica: con disperazione tento di riempire quel buco pur sapendo che mai ci riuscirò.

CINESE ANTICO

 

La poetica del maestro Yzu

«Entriamo dentro le cose – disse il maestro Yzu sollevando un lembo della tunica – finora siamo stati al di fuori delle cose, e lontani, come falchi lassù, in alto, che volano, ali spiegate nell’azzurro del cielo… siamo stati lontani…».

Ci aveva dato appuntamento sulla spiaggia il maestro Yzu.
Io mi sedetti su un tronco, gli altri allievi chi qua chi là, sulla sabbia. Anche il maestro si sedette accanto a noi. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.
Parlò ininterrottamente per tutta la notte ma io come uno stupido mi addormentai.

«Chissà che cosa voleva dirci», pensai al risveglio.

E vidi che i miei compagni si erano addormentati quando, all’improvviso, il maestro si alzò in piedi
gettò via la tunica sporca di sabbia ed entrò nel mare…

 

Il lanciatore di coltelli

È finito al circo Tu Ti Alì Ba Ba il lanciatore di coltelli. E, ogni sera, inscena la commedia della bellissima odalisca e dei coltelli che lui le lancia contro con un urlo belluino.

Dopo lunga riflessione, ho chiesto al maestro:

«Maestro, anch’io da grande voglio lanciare i coltelli, voglio diventare lanciatore di coltelli ed esibirmi
ogni sera davanti al rozzo pubblico bulgaro…».

Il maestro non ha risposto. Il suo occhio vitreo appare sempre più lontano: da me, dal circo dove si esibiscono elefanti addobbati, pagliacci, trampolieri dalle lunghe pertiche, contorsionisti cinesi e odalische… appare sempre più lontano dalle cose del mondo e da quelle dell’empireo…

Fu così che interloquii: «Maestro, è peccato lanciare i coltelli? Dimmi se è peccato, dimmi soltanto una parola e non lancerò mai più coltelli per tutta la vita, dovessi vivere in eterno accanto a bellissime odalische…».

Questo ho chiesto al maestro a metà tra l’ingenuità e l’arroganza… ed ho spiato a lungo il suo volto.
Ma il maestro non risponde.
Forse lui sa la giusta risposta ma non me la vuole riferire.

Forse teme, il mio maestro, la mia audacia, la mia spavalda audacia…

cinese drago colorato

 

Babilonia sia la tua città

Ho ascoltato la parola del maestro:

«Babilonia sia la tua città e di Babele sia la tua lingua. Vai, prendi la tua bisaccia e raggiungi Babilonia. Qualunque cosa accada. Attraversa il giallo deserto. Segui le carovane dell’oppio che induce al sonno e il risveglio è dolce e leggero. Che tu dorma con un occhio aperto e l’altro chiuso, perché dovrai affrontare pericoli e insidie: vorranno toglierti la vita per rubarti l’anello che porti al dito, la collana che porti al collo o lo zaino con il cibo ammuffito. Tenderanno agguati per depredare la carovana… Rammenta, stai attento al fratello perché ti tradirà, stai attento alla sorella perché ti tradirà».

Perché il maestro con il dito indice mi indica la direzione di Babilonia, la città di Babele? Quale grande segreto abita la città di Babilonia? – dopo lunga attesa, mi sono accinto al viaggio ed ho attraversato il deserto contando le oasi sempre più rade, gli infidi serpenti e gli scorpioni dal rapido veleno, guardandomi dagli uomini il cui veleno è più sottile e letale.

«Babilonia? Ma perché Babilonia? Perché il maestro mi ha indicato quella città dalle cento torri?».

Strappo al ricordo le parole del maestro: «Babilonia sia la tua città e di Babele sia la tua lingua». E mi chiedo che cosa mai avrà voluto dire il maestro, quale segreto nasconda il suo precetto…

 

L’allievo Zerco

I giorni approdavano lieti sui prati fioriti e le gemme sbocciavano sull’Albero dei giocattoli e gli animali vivevano felici e correvano per i verdi boschi.

«Perché – chiede un giorno il maldestro allievo Zerco al maestro Marpa che gli voltava le spalle e non lo guardava – perché maestro Marpa, dio ha posto fine a questa compiuta allegrezza e ci ha scagliati come frecce avvelenate nel tempo?».

Correvano i giorni lieti sui prati fioriti e le gemme continuarono a sbocciare sull’Albero fin quando Zerco esaurì le pagine del Libro dei giorni.

Trascorsero tanti anni dal tempo di quella domanda, i capelli di Zerco nel frattempo erano diventati candidi come neve e sottili come pioggia ma Zerco, caparbio e tenace, attende ancora la parola del maestro.

Ha fiducia, Zerco, che il maestro alla fine parlerà. Confiderà a lui, zotico e maldestro, il «Perché».
Ha fiducia, Zerco, che attende sul letto di morte l’ultima parola del maestro.
Ha fiducia, Zerco.
Zerco sa attendere. Ha imparato l’arte dell’attesa.
Dopotutto, è stato un fedele servitore del maestro.
Ed astuto, caparbio.

donna cinese antica

 

Il maestro-calzolaio

Fu lì che il maestro Osho prese a battere la tomaia sull’incudine, a incollare la suola alla tomaia, e poi tanti piccoli chiodi… li batteva ad uno ad uno per fissare la suola alla tomaia…

Fu allora che il maestro lasciò il peripato e divenne calzolaio. Sì, faceva scarpe. Solide, utili per andare nel deserto o coltivare pomodori.

Dalla mattina al tramonto batteva chiodi sulla suola e, col mastice, l’attaccava alla tomaia…

A quel tempo – non avevo ancora l’automobile – io giravo ancora attorno al maestro ma quello, imperturbabile, fabbricava scarpe, ineleganti ma solide.

«Maestro – gli dissi un giorno – le tue scarpe sono brutte, ineleganti… non riuscirai mai a venderle!».

Poi smisi di interrogarmi, e andai per il mondo, mi mescolai alla folla. Un giorno presi moglie
ed ebbi anche dei figli. E ciascuno andò per la propria strada.

Chi diventò assassino, chi si dedicò al commercio di maiali, chi divenne cambiavalute lucrando sulla differenza e le oscillazioni delle monete…

Fu allora che un giorno tornai dal maestro-calzolaio e gli dissi: «maestro, non mi riconosci? Ero io il tuo allievo prediletto! Tanti anni fa…».

Ma quello continuò a battere sull’incudine la suola di cuoio tenendo tra i denti i piccoli chiodi…

 

Il maestro Osho è risorto

Il maestro Osho è risorto dalla bara dell’albero.
Il maestro Osho ha abbandonato l’albero che adesso stormisce nel silenzio ed è tornato tra gli uomini, ha aperto una bottega di calzolaio e trascorre tutto il tempo ad incollare, col mastice, mezze suole alle scarpe vecchie e poi batte i chiodi, ad uno ad uno, con millimetrica precisione, ai bordi della tomaia.
E incita gli allievi: «così potrete percorrere lo spazio in lungo e in largo finché tiene la tomaia potrete camminare».

Fabbrica scarpe, rozze e solide, le fa calzare ai suoi allievi e li incoraggia: «Andate per i mari e i monti e diffondete la buona novella».
Questo dice il maestro Osho agli allievi sbigottiti.

«E qual è, maestro, la buona novella?», gli chiese un giorno un allievo maldestro.

«La buona novella è che non c’è altro mondo che questo. Altro non c’è che un pugno di riso e una tazza di tè. Andate, perché altro non c’è».

16 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

John Cheever  (1912-1982) “La città dove la pioggia non fa rumore”:  Roma, di Marco Onofrio

Giovedì 26 febbraio 2015 ore 18.00

Presentazione del volume di ALEKSANDR S. PUŠKIN
32 Poesie CFR Edizioni 2014 traduzione di Paolo Statuti

Presenta GIORGIO LINGUAGLOSSA
Introduzione critica di ANTONIO SAGREDO

 con interventi di

WANDA GASPEROWICZ, SILVANO AGOSTI

“LE STORIE” Libreria Bistrot
Via Giulio Rocco, 37/39 ROMA (Metro San Paolo)

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

(John Cheever Il rumore della pioggia a Roma Fandango, 2004, pp. 88, Euro 9)

Scrittore dal respiro perfettamente calibrato sulla “misura aurea” del racconto breve, l’americano John Cheever (1912-1982) riflette in alcune prove narrative i ricordi del suo soggiorno romano, datato 1956-57, collocando tra lo splendore distorto e ferito dell’Urbe, così come lui la vede, le evocazioni malinconiche di personaggi “in esilio”, sospesi, inquieti, dispersi, spaesati, che inutilmente cercano di ambientarsi, di provare a sentire in Roma “la” città d’elezione dove vivere il resto dei giorni. “The Bella Lingua”, “Clementina” e “Boy in Rome” sono i racconti antologizzati da Fandango editore nel bel volume Il rumore della pioggia a Roma (2004, pp. 88, Euro 9), con traduzione di Leonardo Giovanni Luccone. Si legge nel risvolto di copertina: «17 ottobre 1956. I Cheever – John, la moglie Mary, incinta di quattro mesi, e i due figli Susan e Ben – s’imbarcano sulla Conte Biancamano diretti in Italia: Roma sarà la loro nuova casa per dieci mesi. Palazzo Doria, quarto piano: un’unica enorme stanza divisa in tre da pannelli mobili di stoffa. Niente frigorifero, niente acqua calda. Il soffitto è d’oro, alle pareti ritratti a grandezza naturale, le finestre lasciano penetrare luce rosata. Una luce trasparente che Cheever non dimenticherà mai e che fino alla fine tornerà a toccare». La realtà esperita a palazzo Doria alimenta, per trasposizione surreale, la fantasia degli inesistenti “palazzo Tarominia” (con tanto di papa inventato) e “palazzo Orvieto”:

«La baronessa Tramonde, la sorella del vecchio duca di Roma, viveva nell’ala destra del palazzo Tarominia, in un appartamento che era stato costruito per il papa Andros X. L’appartamento era raggiungibile salendo un’imponente scalinata con muri e soffitti affrescati».

«(…) rimanemmo tutto il tempo a palazzo Orvieto. È un edificio bello ma tetro con una celebre scalinata illuminata soltanto da lampadine da dieci watt e divorata dall’ombra della sera. A volte manca l’acqua calda e quando a Roma in inverno le giornate sono fredde e piovose il palazzo è infestato da spifferi, con buona pace delle statue tutte nude. Dalle strade affogate nel buio giungono voci melodiose di uomini che cantano di rose dell’eterna primavera e di cieli mediterranei pieni di sole; può essere irritante ascoltarle, sarebbe più opportuno che intonassero canzoni sulle trattorie fredde, sulle chiese fredde, sulle enoteche e i bar freddi, oppure sulle tubature che esplodono e sui gabinetti mal riscaldati o su come la città rimanga immobile sotto la neve come un vecchio colto da un infarto, o su come tutti, perfino gli arciduchi e i cardinali, si aggirino per le strade tossendo… ma non sarebbe una gran bella canzone, suppongo».

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Quella di Cheever è una Roma aspra e per certi versi ingrata, tutt’altro che idealizzata o ritagliata sui contorni del mito: «città straniera piena di rovine e di fontane» dove «ogni dettaglio alimenta più domande di quante risposte esso sia in grado di fornire», per cui «organizzarvi qualsiasi cosa è così complicato». Una città che pullula di americani tristi, divorziati, reduci da catastrofi esistenziali; da cui discendono i «veri emigranti», ovvero i figli – forzatamente romanizzati – «di quelli che lavorano all’ambasciata, i figli degli scrittori, degli impiegati nelle società petrolifere e nelle compagnie aeree, dei docenti del Fulbright». È una Roma fredda e ferita: il luogo multanime della frattura, della sconnessione, dello sradicamento.

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Il personaggio tipico di Cheever è un sopravvissuto ai propri fallimenti: di classe medio-alta e di estrazione protestante, normale e compìto all’apparenza ma pieno di sottile disperazione, sedimentata in filiera dolente di cristallizzazioni, angosce, manie. E tuttavia, lo scandaglio tenebroso dell’esistenza è mosso dall’«amore per la luce», cioè dalla rivendicazione del diritto alla vita di ognuno, per cui lo scrittore tende, a nome di tutti, verso la «volontà di identificare certi rapporti morali dell’essere», che lo conduce a verificare la consistenza del vero dietro le apparenze, e dunque il male nascosto che impedisce agli uomini di essere felici. Anche per questo Cheever preferisce, come più sintomatico ed emblematico dell’uomo quale è – e della cui condizione gli pare opportuno scrivere – il personaggio dell’esule, dell’espatriato che cerca in ogni modo di adattarsi a un territorio straniero, da cui è tagliato fuori anzitutto a causa della barriera linguistica; ma che poi, inevitabilmente, finisce per sognare con nostalgia il profilo delle coste dove è nato.

roma La grande bellezza fotogramma, Sabrina Ferilli

roma La grande bellezza fotogramma, Sabrina Ferilli

Wilson Streeter, protagonista di “The Bella Lingua”, crede di sfondare il muro di fredda estraneità che lo separa da Roma imparando l’italiano: «quella sensazione di estraneità che l’avvolgeva sarebbe scomparsa non appena fosse diventato padrone della lingua». L’esilio romano non è soltanto solitudine e alienazione: c’era anche «un esaltante senso di libertà e un’accresciuta consapevolezza della bellezza di ciò che ogni giorno poteva ammirare»:  «L’aria era fredda, odore di caffè intorno – altre volte si avvertiva odore d’incenso se la porta della chiesa rimaneva aperta –, vendevano crisantemi in ogni angolo. Di fronte agli occhi uno spettacolo esaltante, disorientante: le rovine della Roma repubblicana e imperiale, le rovine di ciò che la città era stata fino a poco tempo prima».

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Streeter impara l’italiano da un’americana di nome Kate, che vive in un vecchio palazzo vicino piazza Firenze: egli adora la passeggiata serale che lo conduce a lezione, dopo il lavoro in ufficio, poco oltre il Pantheon. Streeter attraversa Roma e Roma attraversa i suoi sensi, acutizzandoli, traducendosi in una continua impronta “corpuscolare” di percezioni atomizzate, che lo scrittore fa emergere e raccoglie. Charlie, il figlio adolescente di Kate, vuole tornare in America con suo zio George, dopo cinque anni di mancata integrazione romana. La madre non è d’accordo: scoppia un conflitto e salta la lezione di Streeter.

«Con la lezione andata a monte e nient’altro da fare passeggiò lungo il fiume fino al ministero della Marina e tornò indietro passando per un quartiere di cui non era possibile dire se fosse vecchio o nuovo né altro. Era domenica pomeriggio, le case quasi tutte chiuse, le strade deserte, le poche persone che incontrava erano nuclei familiari di ritorno da una gita allo zoo, poi alcuni di questi uomini e donne soli con un pacchetto di paste tra le mani che si incrociano in ogni angolo del mondo, per lo più zii e zie non sposati che vanno a prendere il tè con i parenti e portano un po’ di dolci per rendere più piacevole la visita. Silenzio intorno, la sua solitudine era scandita dal rumore dei suoi passi e dallo sferragliare lontano delle ruote del tram sui binari, un suono di solitudine per molti americani la domenica».

roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella

roma La grande bellezza fotogramma Jep Gambardella

Sotto Porta Flaminia una prostituta giovane e bella tenta di adescarlo, ma lui gentilmente rifiuta. Passando per la piazza assiste all’investimento violento, forse mortale, di un pedone: il conducente scappa dall’automobile e se la dà a gambe verso il Pincio, la folla si assiepa vociando in modo concitato, qualche donna si fa il segno della croce. Streeter prosegue, e Roma gli rivela il suo volto infido, cinico, feroce.

«Camminò in direzione opposta alla piazza, verso il fiume, e passando accanto alla tomba di Augusto notò un ragazzo che chiamava un gatto e gli offriva qualcosa da mangiare. Era uno delle migliaia di milioni di gatti che vivono tra le rovine dell’antica Roma e che mangiano rimasugli di spaghetti. Il ragazzo gli stava dando un pezzo di pane ma non appena il gatto si avvicinò, quello tirò fuori un petardo dalla tasca, lo mise in mezzo al pane e accese la miccia; poi, lasciò il pane sul marciapiede e proprio nel momento in cui il gatto l’afferrò ci fu lo scoppio. L’animale lanciò un urlo infernale e balzò per aria con il corpo che si attorcigliava su sé stesso. Una volta a terra si diede alla fuga su un muro per poi perdersi nell’oscurità della tomba di Augusto. Il giovane rise per il suo scherzo e con lui diverse persone che si erano fermate a guardare».

Streeter avrebbe voglia di prendere a schiaffi il ragazzo, ma sorvola per non compromettersi con i presenti, assai compiaciuti dello “spettacolo”. Incrocia poi un carro funebre a cavalli, senza nessuno dietro: «gli amici dello scomparso avevano probabilmente fatto tardi o gli era stata comunicata la data sbagliata o si erano del tutto dimenticati dell’impegno, cosa che accade spesso a Roma». Streeter, infine, torna a casa.

«Una volta a casa si versò un po’ di whisky e acqua in un bicchiere e uscì in balcone. Ammirò il calar della notte e le luci nelle strade che via via si accendevano. Fu preso dallo sconforto. Non voleva morire a Roma».

john cheever copEcco, inesorabile e invincibile, il senso di estraneità che chiama, per contrappeso, la nostalgia delle radici, piantate nel cuore della “patria interiore”, al centro della terra (lingua) madre; pur nella consapevolezza “troppo umana” che «quando sei in un posto e non vedi l’ora di essere in un altro non puoi pensare di risolvere la cosa prendendo una nave. In realtà tu non desideri un altro paese, tu desideri qualcosa che dentro di te non hai o che non sei stato ancora in grado di trovare». Proprio questa congenita inquietudine esistenziale non impedisce a Streeter-Cheever di notare certe “crepe”, ramificate fra le dorature e le vestigia magnificenti della Città Eterna, fino addirittura ad affermare che

«Roma era brutta o perlomeno lo era la periferia: tram e negozi di mobili a prezzi ridotti, strade che si ripiegavano su sé stesse e appartamenti in cui nessuno vorrebbe vivere».

Lo status sociale dei personaggi, nei racconti romani di Cheever, tende alle classi altolocate: ricorrono soprattutto i nobili invecchiati e pacchiani, come la baronessa di Tramonde («la compagine di nobili cominciò ad attraversare la sala, il duca di Roma in testa con un mazzo di fiori nella mano destra. Poco più indietro c’era sua moglie, la duchessa – una donna alta, slanciata, con i capelli grigi e ornata da molti gioielli che dovevano esser stati dati alla sua famiglia da Francesco I. Un assortimento d’altri nobili occupava la posizione di coda, con l’aspetto di un circo di campagna»), o decaduti fino alla miseria e alle vesti logore, come la principessa “Tavola-Calda”, sbeffeggiata e spernacchiata dalla donna di servizio. C’è però, in guisa di contraltare, l’omonima protagonista di “Clementina”, cui è demandato il compito di vedere e vivere “dal basso” il mondo borghese e benestante che la “assume” e le permette di collocarsi: «alcuni americani stavano cercando una donna di servizio. Clementina senza perder tempo (…) recitò le preghiere alla chiesa di San Marcello e si precipitò, attraversando l’intera città, a casa degli americani con la convinzione che tutte le ragazze che incontrava quella sera stessero cercando lo stesso posto. (…) La vita di Clementina era diventata piacevole e divertente, ogni giorno pregava alla chiesa di San Marcello implorando che continuasse così per sempre».

roma La dolce vita Fellini

roma La dolce vita Fellini

Lo scrittore plasma il personaggio di Clementina sulla base “dal vero” fornitagli da Iole Felici, una ragazza di Capranica che fu la domestica dei Cheever a Roma e che li seguì in America quando partirono. Anche Clementina resta a servizio negli Stati Uniti, dove – pur non ambientandosi – impara a usare gli elettrodomestici (mai conosciuti prima d’allora), e dove – pur non amandolo – decide di sposare Joe, l’addetto alle consegne del latte, emigrato dall’Italia meridionale, per eludere la scadenza semestrale del visto temporaneo. Anche per Clementina il principale ostacolo all’integrazione è la barriera linguistica, il fatto di non capire l’inglese e non farsi capire parlando l’italiano (la “bella lingua”). Ma l’esperienza nel Nuovo Mondo le consente di aprire gli orizzonti dello sguardo, di imparare cioè che «il mondo era ovunque lo stesso – i fili per stendere il bucato sono gli stessi in tutto il mondo» perché in ogni luogo e in ogni tempo l’essenza della vita permane misteriosa, quanto assurda e diversa.

Il titolo del libro viene dall’incipit del terzo racconto, “Boy in Rome”:

«Roma. Piove mentre scrivo. Abitiamo in un palazzo con il soffitto d’oro, il glicine è in fiore. Il rumore della pioggia a Roma è impercettibile».

roma La grande bellezza

roma La grande bellezza

È la città dove la pioggia non fa rumore, perché avvolge dolcemente ruderi, cupole e sampietrini come una carezza piena di sussiego, lucidando ogni superficie e strappandole un bruire leggero, tenue, prossimo al silenzio. Anche la pioggia sembra rispettare l’eternità di Roma, l’oscurità stratificata del suo tempo millenario. Il boy in ascolto della pioggia vive a Roma perché suo padre è sepolto nel cimitero protestante (per altri americani, invece, si tratta di evadere le tasse, o smaltire i postumi di un divorzio, o cercare libertà e ispirazione), e tuttavia non ci sta granché bene (in fondo non sta bene con se stesso: sente di non aver ricevuto tutto l’amore di cui ha bisogno), e allora avverte l’impulso di lasciare il paese straniero, di ritornare a “casa” (cioè in America). Si adatta a un lavoro temporaneo di guida turistica per l’agenzia Roncari: accompagna in pullman i connazionali americani a Tivoli, a Villa Adriana, a Villa d’Este. Il viaggio di ritorno è, specie d’inverno, molto più silenzioso che all’andata: i turisti sondano

«tutta l’estraneità di Roma che li travolgeva come un vortice, con le sue luci, la sua frenesia e i suoi odori di cucina; l’estraneità di una città in cui non avevano né amici né parenti o affari da sbrigare all’infuori di una visita alle rovine. L’ultima fermata era in alto nei pressi di Porta Pinciana, lì d’inverno tirava spesso un forte vento e io mi domandavo quale fosse il vero significato della vita e se non fosse proprio quello che avevo davanti agli occhi: viaggiatori affamati, alcuni con i piedi doloranti, che cercavano le luci fioche del loro hotel in una città che non avrebbe dovuto patire la rigidezza dell’inverno e che invece la pativa enormemente e dove tutti parlavano una lingua sconosciuta».

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Cheever torna ossessivamente sulla condizione di impermanenza e smarrimento dello straniero come emblematica dell’uomo tout court: occorre penetrare nei meandri di quella tristezza per raggiungere l’abisso dell’esistenza, sradicata dal proprio centro gravitazionale, nel conflitto delle sue continue e risorgenti potenzialità. E capire, così, che «la mia vita non era altro che una menzogna»: e capirlo anche grazie a Roma, al «caos tremendo» del traffico e all’oscurità delle strade, certo; senza però dimenticare la meravigliosa libertà che emana dalla sua proverbiale e quasi “tautologica” bellezza:

«Sabato è un giorno come un altro a Roma: le strade sono congestionate dal traffico e masse di persone si riversano sui marciapiedi: romani, pellegrini, membri di ordini religiosi e turisti con macchine fotografiche. Era una bella giornata e sebbene non spetti a me dire che Roma è la città più bella del mondo spesso l’ho pensato guardando sulle colline i pini dalla chioma schiacciata e gli edifici dai colori carichi mescolati tra loro come granelli di sabbia e quelle grosse nuvole dalla forma arrotondata che a Nantucket preannuncerebbero l’arrivo di un temporale prima di cena mentre a Roma non preannunciano nient’altro che i cielo si tingerà di porpora e si riempirà di stelle; ho pensato che sono proprio i suoi abitanti così spensierati a rendere Roma tanto travolgente. Almeno un migliaio di viaggiatori, ripeto almeno un migliaio, deve aver detto prima di me che la luce e l’aria sono come il vino, come quei vini bianchi dei Castelli che si bevono in autunno».

(Marco Onofrio)

 

6 commenti

Archiviato in narrativa

DIECI POESIE (Quartine) di Annamaria De Pietro da “Rettangoli in cerca di un pi greco” (2015) Con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

topologia costruzione del volto

topologia costruzione del volto

 Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale  paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012).

 

topologia figure nello spazio

topologia figure nello spazio

Appunto di Giorgio Linguaglossa

 Dal punto di vista matematico, la quartina equivale a una divisione di un’unità di tempo in quattro quarti: 1/4 + 1/4 + 1/4 + 1/4 = 1; dal punto di vista metrico-tonale la quartina è composta da quattro parole-note principe che coincidono con le parole in rima (parallele o alternate). La quartina è per eccellenza una unità chiusa, può essere caudata con l’aggiunta di due versi dopo la fine, oppure può essere ciò che resta dallo smembramento dell’ottava. Scrive l’autrice:

 «Un’ottava acefala, perduti i versi primo e secondo, può diventare una quartina che acquista due versi in coda. Un movimento di compensazione a saracinesca garantisce un’invincibile, e incerta, tenuta della misura […] Quartine, che nella loro brevità lapidaria chiudono il cerchio di una sentenza, quasi un aforisma, confidando alla compiuta concisione del loro stare secco, stretto e per poco, come a un piccolo ventaglio che gira attorno all’asse duro delle sue guardie, il ruolo, il compito di un’evidente, e occulta, epitome del cosmo.

Annamaria de Pietro CoverE sia il laboratorio a tal punto malcerto di buone intenzioni da ammettere, qua e là, per generosa distrazione, quartine caudate scodinzolanti alla speranza, forse di attingere approssimando l’astro cordiale di un cerchio.. erranza erratica indulgente. Ma sia anche, il laboratorio, a tal punto confidente di buone intenzioni da farsi parlatorio confidenziale ove qualcuno parli a qualcuno – non contano i nomi, soltanto contano i pronomi, ganci aguzzi alla voce, all’imprecisa geometria del mondo, al ventaglio allo specchio nella mano tesa di un pi greco».

 Sia come sia, «laboratorio» o «parlatorio», è indubbio che la quartina abita nella zona aristocratica della nostra letteratura, polisindeto dal «valore organolettico» e «retroattivo» come scrive l’autrice con finissima ironia, che richiede una maestria tecnica che sconfina nell’incantesimo, che ci riporta all’idea del poeta come incantatore non di serpenti ma di innocue sillabe e vocali, magistero nel quale Annamaria De Pietro forse non ha pari in Italia, un tempo patria galante della quartina e dell’ottava.

 (da Annamaria De Pietro da Rettangoli in cerca di un pi greco Marco Saya edizioni 2015, pp. 160, € 15)

 

annamaria de pietro

annamaria de pietro

I portagioie

Fervido verde che al giallo confina
intorno d’oro cinto sponda a smalto
che scambia arco alla curva. Una mattina
sbatte i tappeti all’aria, verso l’alto.

Nella bella città di Nantes ti sorprende il ristorante La cigale, trionfo opulento e fresco dell’art nouveau nella sua massima declinazione animale e vegetale. Di sala in sala, e sono molte, in mania monografica le maioliche smaglianti arrampicano di superficie in superficie, senza tregua, teorie abnormi di rane, libellule, cicale, e quei fiori sinuosi, insieme turgidi e sfatti, che solo quell’arte che ultima sfuriò un rigoglioso horror vacui prima delle linee dritte e delle piazze vuote della modernità osò inventare.
Ma una sala soltanto è disponibile al tuo pasto frugale, quella che ti destinò il cameriere pittoresco; non potrai, come vorresti, di verde in verde, di giallo in giallo, di cobalto in cobalto, moltiplicare portate e tempo sala dopo sala, per tutte le sale, tutte, avidamente.
Poi col tovagliolo bianco il cameriere sventola via tutti i colori, e tu hai lasciato per sempre La cigale.

₪ ₪ ₪

Dissimmetria

Un libro senza fine solo il bordo
sinistro quale asta di bandiera
conficcherà – per la destra l’intera
tela sarà pastura a un cielo ingordo.

In che cosa consiste il rapporto fra il libro e il mondo – qui il cielo come sua parte privilegiatamente involgente? Forse nel mangiarsi reciprocamente e all’infinito lungo il frattale sega a denti del margine destro del libro, sinistro del mondo (sinistro s’intenda losco, torvo, bieco). E la costa ferma al margine sinistro del libro, destro del mondo (destro s’intenda abile agile imprenditoriale) sarà la colonna maestra della biblioteca, norma a camminamenti di scaffali.

topologia misurazioni delle superfici

topologia misurazioni delle superfici

₪ ₪ ₪

La fisica della caduta dei gravi,
ovvero
La creazione progressiva di dio

Ti prende come cadi telo teso
fra i pali che drizzarono maestranze
al soldo del gran re delle distanze,
delle altezze, dei termini, e del peso.

Quando a decine si precipitarono giù a capofitto dalle Twin Towers legione di dèi minori di tutti i miti e di tutti i riti si precipitò, con una certa calma, a squadernare per ciascun cadente, tirando ai quattro angoli, teli ben tesi di tutte le stoffe e di tutti i colori. Ma prevaleva il pizzo ad ago color del tempo (ricordi Pelle d’asino?), e così per le belle scalee dell’aria planavano a capofitto i paramenti sacri, le pianete, le gualdrappe, i tappeti volanti, fini e leggeri, ciascuno treccia e frangia dell’aria, giù agli accampamenti nomadi degli stracciai.

₪ ₪ ₪

La precessione

Audacia e niente, audacia e niente un groppo
inestricabile fanno e disfanno
come delle stagioni lungo l’anno
la precessione che previene il troppo.

Un ritardo si ammatassa nella contraddizione, un attrito che è cagione di un non poter stare al passo – ma al passo di che cosa, a quale passo, non è dato sapere; sarebbe contraddittorio pretendere di saperlo, perché proprio quello è il problema. Ma forse è un ritardo che salva, sull’orlo di uno strapiombo – strapiombo verso che cosa, quale strapiombo, non è dato sapere; sarebbe contraddittorio pretendere di saperlo, perché proprio quello è il problema. Forse là si acquatta vorace, negando ogni nuova possibile via, la consumazione logica di sasso, la sintesi, per dirla col professor Hegel. Sintesi di che cosa, quale sintesi, non è dato sapere; sarebbe contraddittorio pretendere di saperlo, perché proprio quello è il problema.

topologia tecniche di costruzione

topologia tecniche di costruzione

₪ ₪ ₪

Orlando

Una lebbra veniale ammala la luna.
Orlando i pozzi infetti, attorno, ai fianchi,
vanno al passo coi carri i saltimbanchi
pieni di freddo in cerca di fortuna.

Il paladino celeberrimo che smarrì sé stesso nella luna metamorfosato in un gerundio. Voglio sperare che non si senta in diritto di dileggiare gerundivi – come da vignetta umoristica vista in una rivista moltissimi anni fa.
Tornando seri, questi peregrini benandanti tristi e grigi mi fanno pensare alla lenta cavalcata dei diavoli che tornano a casa per via arida cenere dalle follie circensi dell’altro mondo in Il maestro e Margherita.

₪ ₪ ₪

Veduta

Bande di buoi senza guida né basto
vanno sparse a una stesa verde e vuota
– perché non so – vedo solo la ruota
che se li porta – non uno ne è rimasto.

Questi buoi per bande senza governo mi assomigliano ai “saltimbanchi” di Orlando (torna indietro di cinque caselle). E forse è proprio lui il mandriano senza fortuna che se li porta sulla luna dove si perdono le cose perse.

₪ ₪ ₪

Il mondo cambia

Una città piena di vento, e i viali
di foglie strane in furia di fontane,
e contro un muro si ripara un cane,
e contro i muri branchi di animali.

Ho letto libri, ho visto film nei quali accadeva questo. Ora non ricordo titoli o scene, e non ritengo necessario uno sforzo di memoria. Perché nello stesso tempo e in tutti i tempi questo accade nel mondo, dentro una guerra dei trent’anni e cento che in Bosnia, in Cecenia, in Armenia, nell’ombra oro e verde di Cuzco non ha mai cambio né fine.

topologia figure nello spazio

topologia figure nello spazio

₪ ₪ ₪

Da donna a donna

Vergine delle passamanerie,
conforta di alamari i miei bottoni –
per renderti la grazia ginocchioni
visiterò le sette mercerie.

La merceria è una categoria in via di estinzione. Ormai dà nel metafisico.
A Vienna, scucitisi i pantaloni, per trovarne una dovetti sì visitare le sette chiese, e infatti e non a caso la trovai ai piedi della scalinata che sale alla chiesa di Maria am Gestade. Ma ne valse la pena: era merceria affascinante (tutte le mercerie lo sono, ma quella lo era di più, lignea, e felpata, e oscura, e calma).
Ne conservo una sostanziosa cartina di aghi di tutti i tipi, anche a punta arrotondata per cucire la maglia, e una spagnoletta di cotone verde loden formato famiglia. Tutto in grande: felix Austria.

₪ ₪ ₪

La spaccatura

Io vidi la bellezza in fondo al cavo
rivolto dello specchio – non pareva
me, in altro volto tutta si frangeva,
e io dalle schegge in quel volto mi stavo.
Volto spaccato di dolore e scavo,
volto che non mi aveva.

È possibile che qui parli la matrigna di Biancaneve, Ute, la margravia di Ekkehart, scampata in Hollywood allo sguardo nientificante del nazional-socialismo. Non ci sono certezze tuttavia, e tu non credermi se vuoi.

₪ ₪ ₪

Effetto stroboscopico

Omeopatia per norma contrapponi
a passo in fuga che in fuga la rètina
segua scalando uguale. Anna Karenina
guarda guardata a tempo fra i vagoni.

Una sequenza precipitosa e aritmetica di eclissi ricorsive a rientro consegna la bellezza inconfrontabile di Greta Garbo a un ricordo a tempo, ripetibile e ripetuto all’infinito, lungo segmenti approssimati a un limite mai raggiunto, sempre e ancora raggiungibile, di luce e ombra, l’una che è divorata dall’altra e la divora, in costante retroversione del vettore esploso da un’idea-modello, o destino. Un suicidio senza fine e senza principio, declinato non come evento ma come irrisolvibile scansione armonica d’intervalli.

13 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

POESIE EDITE E INEDITE di Anna Belozorovitch SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 

giF Mondrian

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50x100-vernice-effetto-pennellate

Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50×100-vernice-effetto-pennellate

Anna Belozorovitch è nata a Mosca nel 1983, e ha vissuto tra il Portogallo e l’Italia, dove risiede stabilmente dal 2004. Ha scritto in russo, in portoghese, infine in italiano. Attualmente frequenta il corso di Dottorato di ricerca in Scienze del Testo all’Università di Roma “Sapienza”. E’ insegnante di italiano per stranieri. Ha pubblicato in italiano: Qualcosa mi attende, LietoColle, 2013; Essere pioggia, Montecovello, 2012; Gioventù, Centro Studi Tindari Patti, 2010; L’Uomo alla Finestra: romanzo poetico, Besa, 2007; Anima Bambina, Besa, 2005.

In portoghese: Como seria bom ser chuva, Corpos, 2012. È presente nelle antologie: L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di Antonio Spagnuolo e Ninnj Di Stefano Busà, Kairos, 2012; Il Quadernario blu: venticinque poeti d’oggi, a cura di Giampiero Neri e Vincenzo Mascolo, LietoColle, 2012; Quanti di Poesia, a cura di Roberto Maggiani, L’ArcaFelice, 2011; Italian Poetry Review IV, 2009, SEF, 2010.

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

Commento di Giorgio Linguaglossa

Se la via della «povertà», che sa di utopia francescana, è probabilmente una via illusoria e salvifica, ne consegue che anche la via del «lusso» non è mai innocente, anzi, di più: quasi sempre ci ritroviamo tra le mani oggetti di oreficeria, elitarie smancerie, dolciumi. Perché non c’è più una strada, un sentiero assicurato (nel bosco coperto di foglie) per il quale qualcuno abbia stipulato un contratto di assicurazione verso terzi contro i sinistri causati dalla speculazione dei beni mobili delle scritture talqualiste, replicabili e moltiplicabili; non c’è più un «bosco» in cui smarrirsi. Per Anna Belozorovitch, un autore della nuova generazione, il «destino» dell’io è nel suo stesso vagabondare; il viatico dell’io è il suo errare (e il suo ritrovarsi). L’io è l’assoluto signore di queste poesie.

La scrittura letteraria è uno «spazio di morte» ha scritto Blanchot ma uno «spazio» dove protagonista assoluta è la vita. Dal corpo morto della scrittura adesso risorge la vita.

I saggi di questi ultimi anni sul post-contemporaneo di Roberto Bertoldo affrontano una serie di questioni. La domanda che si pone l’opera poetica è: chi è colui che parla e a chi lo dice? C’è separazione tra l’autore e il lettore? Da dove deriva questa separazione? Ma la parola dell’autore non nasce da una situazione comune a tutti i parlanti? Non è la parola della poesia quella della comunità? O è quella di una dispersione? La parola della poesia non fonda né stabilisce nulla, tranne la propria interrogazione? Un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù; oggi è una domanda che la poesia rivolge a se stessa. Questa domanda è un atto di fede, un dubbio, una ricerca? La domanda prende una forma. Ecco, alcuni segni che si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili. Il significato finale di questi segni non può essere conosciuto dal poeta. I segni viaggiano insieme al tempo, o meglio, si diramano in più temporalità. Il poeta interpreta ciò che il tempo dice, ma il tempo dice: nulla: dunque nichilismo.

La «secolarizzazione» che ha investito il discorso poetico lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, di aproblematica identificazione. La dizione di Anna Belozorovitch oscilla tra la narrazione dell’io e l’esposizione del cuore; è un itinerario, una traccia, una serie di segni incisi sul cellophane. Continua a leggere

29 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

DIECI POESIE INEDITE di Lucia Gaddo Zanovello “Asincrono scacchiere” SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO –  . . . . . . . . . . Giovedì 26 febbraio 2015 ore 18.00 Presentazione del volume di ALEKSANDR S. PUŠKIN 32 Poesie CFR Edizioni 2014 traduzione di Paolo Statuti Presenta GIORGIO LINGUAGLOSSA Introduzione critica di ANTONIO SAGREDO con interventi di WANDA GASPEROWICZ, SILVANO AGOSTI “LE STORIE” Libreria Bistrot Via Giulio Rocco, 37/39 ROMA (Metro San Paolo)

 

François Clouet

François Clouet

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Antonio Ligabue

Antonio Ligabue

 Lucia Gaddo Zanovello è nata a Padova nel 1951; scrive dalla prima adolescenza e dopo un periodo giovanile dedicato a  diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di ruolo nella scuola media. Appassionata di ricerca storica, di letteratura, di filosofia morale e di spiritualità, ha condotto studi, fra gli altri, su Nicolò Tommaseo e sul friulano Pierviviano Zecchini, medico chirurgo laureato a Padova nel 1825, traendo dall’ombra meriti e singolarità di questo personaggio, che si distinse anche come fervente patriota e filelleno.

Ha pubblicato le raccolte di poesia: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova), la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura; Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup, 2012; Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri, 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014. Nel gennaio del 2009 è uscito per le edizioni Cleup, il libro-intervista Amata Poesia: Antonio Capuzzo intervista Lucia Gaddo Zanovello. Nel 2004 il compositore di Patrasso Sotiris Sakellaropoulos (1952-2010) ha tratto da Memodía, quarta sezione (Canto di luce) e  nel 2005 da La partitura, prima sezione,  per archi, voce e pianoforte, omonime opere musicali reperibili in CD. Nel 2010 la scrittrice Rika Mitreli ha tradotto in greco sei testi tratti da La partitura, pubblicati nel numero di maggio della Rivista “Thea” (Thèmes de Sciences Humaines) di Bruxelles, a fianco di un ampio saggio commemorativo dedicato all’opera del musicista scomparso.

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

 

 

 

 

 

 

Fluttuanze

Oggi è un giorno da salto con l’asta.
Se chi visse qui, che so, un secolo fa
tornasse d’incanto
dai fatti suoi
sotto il suo tetto, ora mio
che direbbe.
Quale incredulo lampo negli occhi
gli sortirebbe nel vedere ciò che ho fatto di questa sua terra.
E venisse qui a sbirciare dal futuro chi verrà
riconoscerebbe in me se stesso?
Dicono qui vivesse un bandito,
poi un maggiorente distinto del luogo,
ora son io a calcare la rivoltata zolla,
il controverso strato d’ombre
che aggiungono ombra.
Io tengo ai fiori
ai miei e a quelli di mia madre,
bulbi che si moltiplicano al buio della siepe.
La polvere dei muri si accatasta negli uffici della burocrazia.
Ma solo il trasloco delle rondini mi pesa,
e l’aver dato asilo a tanti non ripaga amori mai dimenticati.
Pienezza di solitudine distante abita qui
non perversi misogeni migrati prima
del cielo di oggi, prima di questo mio giro a vite
di questo salto con l’asta.

Se tutto ciò che non udimmo udissimo dall’eco degli spettri
quale sarebbe il nostro restare in multi parsimoniosa vita
entrare ospiti nelle stanze di questo mondo.

.
Lanci

Sciogliesse qui la vita
nel pomeriggio in disparte
presso il marciapiede dell’ombra
prima della pioggia
nell’uno dei due giorni possibili
quando nutre il tempo chi comprende,
allora sarebbe risolto il dubbio
e mi potrei non risvegliare.
Tramonterebbe il giorno per altre pupille
e sorgerebbe l’alba di nuovo
col suo profumo avverso di malinconia
per altra via
senz’orma andrebbero i passi
guardandosi intorno
la porta chiusa alle spalle
senza luce e ritorno
tanto che, a voltarsi,
si sarebbe perduto perfino l’orizzonte.
Ma sempre parla una voce
come vento che sostiene
fermo
come una madre
che della sua nutre la vita
prima dell’inizio e anche dopo la fine.

(19.5.14)

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Semina

Ogni parola ha un’anima
se nominata esiste
sparsa in chi legge
con diverso suono su diverso gambo
come bimbo in grembo
significando esulta
e frange orli
dormienti facendoli attenti
a punti focali inconsumati.

Per ogni intelletto un’eco diversa
diatomee primigenie in anfratti nuovi
modulano voci spaiate,
come anche i cieli
tersi o gonfi di nubi
rimandano frasi discordi
o accordi che invocano sperando.
Vive parole in ombra o luce
tessere musive o sassi levigati
a tessere vaghezza
d’essere e restare.

Il mondo
è un dire che germoglia.

(17.8.14)

.
Il silenzio dell’anima

Felicità è questa bonaccia piatta
umido grigiore che non è tempesta

– mi basta questa
per non andare alla deriva
all’altra riva –

un sole pallido che aspetta
nel fermo della brezza
chiede un po’ di attesa
un velo di pazienza

ma la bellezza è già nel nido
che emerge dal galleggio,
un infimo d’arpeggio
appena percepito.

Dove vada a parare
questo tratto di mare
non è dato sapere.
Godere intanto si deve
la stasi forzata, il beccheggio
che pare infinito,
scontato la barca si muova,
scelta dovuta
all’invito del vento.

(7.9.14)

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

Equivoci

Si reputa
e non è

si vede venire avanti la vita così
come non la si aspetta
ed è gioco di prismi e rifrazioni
pulsate dagli abbagli.

Si fosse saputo che era quella
l’ultima volta
ci si sarebbe affrettati
nonostante la pigrizia folle del dopo
che ora si para davanti ai rimpianti.

Restare indietro
è non avere risposto alla chiamata

rammarico è trovare che si è smarrita
una parte di sé.

7. 11. 14

Sottovoce

Pagine d’esistenza impilano
negli scaffali
di chi reputa di essere in vita.

A quanti fini e a quale fine tende
la fine del giorno e di questo giorno
che non sa le parole.

Certo i suoni intorno e i cicalecci
sui fili del dire e del ridire
trasportano nuove
a volte
a volte inceppano in replay
fino ad esaurire l’energia
e il cuore rimane al palo del déjà vu.

I rari assoli dei rigogoli in festa
si perdono nel frastuono
del grigio che parla a vuoto,
solo rumore, che segnala scomposto
presenze forse innocenti.

Le gipsoteche dei cimiteri
e i sepolcri involontari
risuonano nelle veglie sorde dei vivi
che non distinguono tra i riverberi
le verità libere dei morti.

(10.11.14)

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

 

Adesso

A guardia dell’abisso
sta l’indifferenza
che non vede.
A Nietzsche importava
e si smarriva a tratti nella collera
per l’irresponsabilità dell’arroganza
di chi crede di sapere.
È la febbre a matrioska di domande che divora.
Fu la stessa nequizia veleno a Simone.
Toglie il respiro l’innocenza di vittime
all’altare.
Cecità di cuore corrotto
non ascolta che per salvare la sua falsità.

Nell’irripetibilità del gesto
sta la storia
e progresso è ciò che è ben fatto adesso.

Per la luce che c’era
non dispera la sera.

(11.11.14)

.
Sveglia la notte

Sguardo di chi sale a bordo
quasi in paralisi da stupore
sul palmo sinistro il profumo del cielo.

Sferraglia ancora la corsa
senza obiettare ritorni

fortuna che c’è la luna
da cui guardare giù

si vedono i rami alle strade
che districano l’albero della vita.

È che la morte si annida in ognuno

la corteccia spacca di getti nuovi
tutte le stagioni
e in ogni specie dilaga inconsolabile
nulla che dica ragione d’esser qui

meraviglia che ascolta.

Imparo da quel che ero ciò che non so

la tenerezza dell’agguato di un ricordo
sveglia la notte.

(10.12.14)

 

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

 

 

 

 

 

 

 

 

Hic et nunc

si sta sulle spine.
Nel passato riposa
l’irriducibile
al futuro sono appesi il sogno e la speranza.
Non ce n’è speranza dice il suicida
non ho colpe, l’assassino
e ciò che ha fatto gli pare divino.

Esce dal quadro la cornice
si posta all’infinito
occhio che si perde alle galassie
immaginate.

Il nome che ci porta
fra i galleggi travolge
inaffondabili carene
entro le onde del tempo
che scroscia
come l’Iguazú alla fine del mondo.

Nel profondo del fuoco
il gelo
siderale
del disamore.

Dilatano le pupille per vedere
nell’imbrunire dell’ora
qualche luce, se sarà.

(12.12.14)

.
Resa

Ripiega la colonna al sonno della stanchezza
e germogliano dal riposo i peduncoli delle meraviglie.
Fanno capolino dal silenzio come i pensieri
si generano come fiamma che illumina e non brucia.
Dall’ulivo delle responsabilità
al frantoio d’ogni frutto maturo
giungono sul carro dell’ordinatore
creature nate per le fauci della distruzione
passano
e sanno di essere Giona nel ventre del mostro.
Presta la fede e non ridà il capitolo mai.
Capitola, invece, prima o poi
scende dal piede dell’esposizione
disperde come le voci e i sorrisi
di chi ha veduto il diorama di guerra qui.

Dall’arco dei giorni le frecce dell’invisibile
scagliano orme.

(13.12.14)

Antonio Ligabue Autoritratto

Antonio Ligabue Autoritratto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Senza peso

A capriole i giorni rotolano
fra luce e buio
nel pianeta dei folli
che non sanno d’esserlo
ordine c’è solo nel corto fiato
sincrono di chi gioca al ribasso
mete che restano nell’hic et nunc
ma l’arte travalica i giorni in atterraggi
scomposti a rischio di rompersi il collo.
Il fuoco innesca dall’anima
che non si adatta a nido alcuno
deborda costante nell’insoddisfazione
di essere dov’è, fuori da ogni contesto
in contrasto perenne d’armonia. Inadatto
sistema che ha scordato tutti i perché
oltremondo, persa valigia e connotati
resta vitreo punto di osservazione
algido sguardo perso
nel non capire più la ragione di tanta
ricercata solitudine, come se il tempo non avesse
peso, i minuti non fossero piombo sul ramo dell’attesa
fra un vuoto e l’altro
il vuoto non pesa.

(21.12.14)

8 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

Giovedì 26 febbraio 2015 ore 18.00 Presentazione del volume di ALEKSANDR S. PUŠKIN 32 Poesie CFR Edizioni 2014 con interventi di WANDA GASPEROWICZ, SILVANO AGOSTI, ANTONIO SAGREDO E GIORGIO LINGUAGLOSSA “LE STORIE” Libreria Bistrot Via Giulio Rocco, 37/39 ROMA (Metro San Paolo) . . . . . . . POESIE di Aleksandr Sergeevič Puškin traduzione e prefazione di Paolo Statuti, presentazione di Antonio Sagredo

Giovedì 26 febbraio 2015 ore 18.00
Presentazione del volume di ALEKSANDR S. PUŠKIN

32 Poesie CFR Edizioni 2014 traduzione di Paolo Statuti

Presenta GIORGIO LINGUAGLOSSA

Introduzione critica di ANTONIO SAGREDO

con interventi di
WANDA GASPEROWICZ, SILVANO AGOSTI   

“LE STORIE” Libreria Bistrot
Via Giulio Rocco, 37/39 ROMA (Metro San Paolo)

puskinAleksandr Sergeevič Puškin

nacque a Mosca il 26 maggio 1799 da una famiglia aristocratica decaduta. Sua madre era una nipote del celebre Ibrahim Hannibal, figlio di un principe etiope che nel 1704 all’eta di otto anni fu portato in Russia e adottato da Pietro il Grande. Puškin gli dedicherà il romanzo storico rimasto incompiuto Il negro di Pietro il Grande. Il padre era un maggiore in congedo discendente di una antichissima famiglia aristocratica russa.

L’infanzia del piccolo Saša non fu felice,ma trovò affetto e comprensione nella nonna e nella bambinaia (la “njanja”) Arina Rodiònovna. Quando la severa madre voleva punirlo per una lieve mancanza, la nonna lo nascondeva in una cesta,  Arina invece gli raccontava innumerevoli fiabe, che lasciarono una traccia indelebile in tutta la creazione del poeta e in particolare in quella fiabesca: il poema epico in sei canti Ruslan e Ljudmila e le fiabe in versi, tra le quali ricordiamo Lo zar Saltan, Il pesciolino d’oro, Il galletto d’oro. All’eta di otto anni aveva gia letto diversi libri della ricca biblioteca paterna e ben presto diventò familiare con l’opera dei classici della letteratura mondiale.

 Nel 1811 entrò al Liceo imperiale di Càrskoe Selò, dove trascorse sei anni, e dove trovò illuminati insegnanti che apprezzarono pienamente lo straordinario talento del giovane. Nel 1814 sul Messaggero d’Europa apparve la sua prima poesia, per la quale la critica lo elesse come possibile rivale dei due grandi poeti dell’epoca: K. N. Batjuškov e V. A. Žukovskij. Negli anni del liceo Puškin entrò in contatto per la prima volta con persone appartenenti a varie societa segrete, che sognavano l’abolizione del dispotismo degli zar e l’introduzione di un ordinamento costituzionale. Essi in seguito avrebbero svolto un ruolo di primo piano nella rivolta armata del 26 dicembre 1825, giorno fissato per l’incoronazione di Nicola I, asceso al trono dopo la morte del fratello Alessandro I. Gli insorti furono chiamati decabristi dalla parola russa dekabr’ (dicembre). La sanguinosa repressione da parte dello zar sconvolgerà il poeta. Ma già anni prima della fallita rivolta, condividendo il programma politico e sociale dei futuri decabristi e pensando ai cambiamenti che avrebbero dovuto liberare il popolo dall’oppressione, Puškin come poeta stava con tutta l’anima dalla parte della gioventù rivoluzionaria, e nella sua arte vedeva un’arma efficace.

puskin

puskin

 Ma le autorità zariste sorvegliavano la sua vita e la sua attività creativa. Nel 1820, a causa dei suoi componimenti rivoluzionari – contro lo zar Alessandro I e i suoi ministri reazionari – che circolavano clandestinamente in tutto il paese, e in seguito alla pubblicazione della sua ode Libertà, dopo aver rischiato di finire in Siberia, fu esiliato a Kišinjov dove rimase tre anni, durante i quali, eludendo la sorveglianza della polizia colse l’occasione per visitare la Crimea e il Caucaso. Dal 1823 al 1824 e ancora in esilio a Odessa, sempre controllato dalla polizia; e infine, dal 1824 al 1826, gli fu permesso di soggiornare nella tenuta materna a Michajlovskoe. Il periodo trascorso in questa località segno il punto culminante dello sviluppo spirituale e artistico di Puškin, il periodo in cui egli acquistò piena coscienza della sua maturità creativa. A Michajlovskoe scrisse il dramma Boris Godunov, che sarà pubblicato nel 1831 e che ispirerà il libretto dell’opera omonima di Modest Mussorgskij; e qui cominciò a comporre l’Onegin.

 Nel 1826 Nicola I lo fece arrivare sotto scorta a Pietroburgo e gli permise di restare nella città. Lo zar, volendo mostrarsi “benevolo” con Puškin, gli promise una maggiore libertà e al tempo stesso gli si offrì come consigliere e censore personale, ciò che significava in pratica una censura ancora più severa. Negli anni successivi, sia a Mosca che a Pietroburgo, il poeta continuò a scrivere l’Onegin, compose il poema Poltava ispirato alla lotta tra Pietro il Grande e Carlo XII. Nel bel mondo della corte imperiale conobbe la leggiadra Natalja Gončarova (sua futura moglie). Chiese di sposarla ma la sua richiesta non venne subito accolta, allora violando il divieto dello zar partì per il Caucaso. Nell’autunno del 1830 si trova a Boldino nella tenuta del padre, per sistemare alcune questioni familiari, e nel corso di soli tre mesi scrive gli ultimi due capitoli dell’Onegin; nascono le quattro cosiddette “piccole tragedie”: Il convitato di pietra,Il banchetto durante la peste, Il cavaliere avaro, Mozart e Salieri, che in seguito furono messe in musica da celebri compositori russi. Scrive inoltre circa trenta liriche e i cinque Racconti di Belkin. Ivan Petrovič Belkin e un nobile di campagna, al quale piace ricreare l’atmosfera conviviale tipica della vita familiare della provincia russa, che il poeta contempla, pur sommerso dalle sue travagliate vicende personali, attraverso il filtro dell’ironia e della nostalgia. Questi racconti sono una sperimentazione di nuove possibilità creative e costituiscono il punto di partenza della moderna prosa russa.

Tornato da Boldino sposa Natalja Gončarova, che gli darà quattro figli. Ma il suo odio per la cricca di corte che egli disprezzava e definiva “plebaglia”, spinse i cortigiani dello zar a sbarazzarsi del poeta. Per essi la sua creazione era una continua scintilla da cui poteva scaturire il fuoco della ribellione. I suoi caustici epigrammi contro alte personalità della corte erano letti in tutto il paese. Decisero quindi di eliminarlo. Causa indiretta della sua tragica morte fu la bella moglie, avida di vita mondana, la cui condotta frivola alimentava i pettegolezzi di corte. In seguito a un intrigo, sicuramente organizzato dallo zar Nicola, e a causa di una beffarda lettera anonima su presunti rapporti tra sua moglie e il barone francese Georges D’Anthes, Puškin per difendere l’onore della consorte sfidò quest’ultimo a duello a Pietroburgo il 27 gennaio 1837. Ferito a morte il poeta spirò due giorni dopo. Il poeta decabrista K.F. Ryleev (1795-1826), condannato all’impiccagione, prima di morire scrisse a Puškin: “A te sono rivolti gli occhi della Russia, essi ti amano, credono in te, ti imitano. Sii poeta e cittadino”. Puškin ascoltò e mise in pratica fino alla morte questa appassionata esortazione.

da 32 Poesie di Aleksandr Sergeevič Puškin CFR, 2014 Traduzione e Introduzione di Paolo Statuti, Presentazione di Antonio Sagredo )

Alexander von Benckendorff, capo della polizia segreta dello zar, nemesi di Puškin

Alexander von Benckendorff, capo della polizia segreta dello zar, nemesi di Puškin

 ПЕВЕЦ

Слыхали ль вы за рощей глас ночной
Певца любви, певца своей печали?
Когда поля в час утренний молчали,
Свирели звук унылый и простой
Слыхали ль вы?

Встречали ль вы в пустынной тьме лесной
Певца любви, певца своей печали?
Следы ли слез, улыбку ль замечали,
Иль тихий взор, исполненный тоской,
Встречали вы?

Вздохнули ль вы, внимая тихий глас
Певца любви, певца своей печали?
Когда в лесах вы юношу видали,
Встречая взор его потухших глаз,
Вздохнули ль вы?

1816

Il cantore

Sentivate voi il notturno cantore
Della propria tristezza e dell’amore?
E nella quiete dei campi al mattino,
Del flauto il suono mesto e cristallino
Lo sentivate voi?

Incontravate nel bosco il cantore
Della propria tristezza e dell’amore?
Vedevate tracce di pianto, un sorriso,
O un dolce sguardo di dolore intriso,
Lo incontravate voi?

Sospiraste voi, ascoltando il cantore
Della propria tristezza e dell’amore?
Quando di un giovane avete scorti
Nei boschi gli sguardi degli occhi smorti,
Sospiraste voi?

1816

ВОЗРОЖДЕНИЕ

Художник-варвар кистью сонной
Картину гения чернит
И свой рисунок беззаконный
Над ней бессмысленно чертит.

Но краски чуждые, с летами,
Спадают ветхой чешуей;
Созданье гения пред нами
Выходит с прежней красотой.

Так исчезают заблужденья
С измученной души моей,
И возникают в ней виденья
Первоначальных, чистых дней.

1819

.
Rinascita

Un barbaro artista il quadro annerisce
Di un genio con mano indolente,
E il suo disegno iniquo egli traccia
Su quel quadro assurdamente.

Ma, con gli anni, come vecchie scaglie,
Si stacca l’estraneo colore,
E l’opera del genio ci appare
Nel suo primitivo splendore.

Così nell’anima mia travagliata
Scompaiono gli errori compiuti,
E tornano in essa le visioni
Dei limpidi giorni vissuti.

1819

*

Редеет облаков летучая гряда.
Звезда печальная, вечерняя звезда,
Твой луч осеребрил увядшие равнины,
И дремлющий залив, и черных скал вершины;
Люблю твой слабый свет в небесной вышине:
Он думы разбудил, уснувшие во мне.
Я помню твой восход, знакомое светило,
Над мирною страной, где все для сердца мило,
Где стройны тополы в долинах вознеслись,
Где дремлет нежный мирт и темный кипарис,
И сладостно шумят полуденные волны.
Там некогда в горах, сердечной думы полный,
Над морем я влачил задумчивую лень,
Когда на хижины сходила ночи тень —
И дева юная во мгле тебя искала
И именем своим подругам называла.

1820

*

Si dirada di nubi lo strato scorrente.
O stella della sera, stella così dolente,
Il tuo raggio inargenta le pianure sfiorite,
Il golfo che sonnecchia e le rocce annerite.
Amo la tenue luce nell’alto del cielo,
Essa ha tolto ai pensieri il loro greve velo.
Ricordo il tuo spuntare, ogni cosa splendeva
Sul quieto paese, dove tutto al cuore piaceva,
Dove il pioppo nelle valli si levava armonioso,
Dove sonnecchia il mirto e il cipresso tenebroso,
E dolci frusciano l’onde di meridione.
Là un tempo sui monti, il cuore in meditazione,
Trascinavo la mia indolenza taciturna,
Quando sui tetti calava l’ombra notturna
E una fanciulla nella nebbia ti cercava,
E alle amiche il tuo nome pronunciava.

1820

puskin

puskin

РУСЛАН И ЛЮДМИЛА – Вступление

У лукоморья дуб зеленый;
Златая цепь на дубе том:
И днем и ночью кот ученый
Всё ходит по цепи кругом;
Идет направо — песнь заводит,
Налево — сказку говорит.

Там чудеса: там леший бродит,
Русалка на ветвях сидит;
Там на неведомых дорожках
Следы невиданных зверей;
Избушка там на курьих ножках
Стоит без окон, без дверей;
Там лес и дол видений полны;
Там о заре прихлынут волны
На брег песчаный и пустой,
И тридцать витязей прекрасных
Чредой из вод выходят ясных,
И с ними дядька их морской;
Там королевич мимоходом
Пленяет грозного царя;
Там в облаках перед народом
Через леса, через моря
Колдун несет богатыря;
В темнице там царевна тужит,
А бурый волк ей верно служит;
Там ступа с Бабою Ягой
Идет, бредет сама собой;
Там царь Кащей над златом чахнет;
Там русской дух… там Русью пахнет!
И там я был, и мед я пил;
У моря видел дуб зеленый;
Ruslàn e Ljudmìla – Introduzione

C’è una quercia sulla riva del mare
E attorno ad essa una catena d’oro,
Sulla catena di notte e di giorno
Un gatto colto cammina con decoro.
Va a destra – prende a raccontare,
A sinistra – comincia a cantare.

Là soltanto prodigi conosco:
Fauni e ninfe insieme nel bosco,
Là su ignoti e scuri sentieri
Vedi impronte d’insolite fiere,
E casette su zampe di gallina
Senza porte né finestra alcuna.
Selve e valli piene di visioni,
E all’alba affluiscono i marosi
Sulla riva vuota e sabbiosa,
E trenta stupendi paladini
Emergono dai flutti marini,
E con essi il loro protettore.
Là un principe strada facendo
Un terribile zar ha imprigionato.
Davanti al popolo nelle nubi,
Avendo boschi e mari superato,
Un mago con l’eroe si fa vedere.
In prigione la zarevna patisce
E un lupo bruno le obbedisce.
Là una botte con dentro una strega
Si solleva da sola a fatica.
Là nell’oro Kaščej si consuma,
E l’anima russa e la Rus’ profuma!
Io ero là e il miele ho bevuto,
Ho visto la quercia che frusciava,

Под ним сидел, и кот ученый
Свои мне сказки говорил.
Одну я помню: сказку эту
Поведаю теперь я свету…

1820
Sedevo ai suoi piedi e il gatto colto
Le sue favole mi raccontava.
Una me la ricordo ancora
E al mondo la dirò proprio ora…

1820

puskin

puskin

ЗЕМЛЯ И МОРЕ

Когда по синеве морей
Зефир скользит и тихо веет
В ветрила гордых кораблей
И челны на волнах лелеет;
Забот и дум слагая груз,
Тогда ленюсь я веселее —
И забываю песни муз:
Мне моря сладкий шум милее.
Когда же волны по брегам
Ревут, кипят и пеной плещут,
И гром гремит по небесам,
И молнии во мраке блещут, —
Я удаляюсь от морей
В гостеприимные дубровы;
Земля мне кажется верней,
И жалок мне рыбак суровый:
Живет на утлом он челне,
Игралище слепой пучины.
А я в надежной тишине
Внимаю шум ручья долины.

1821

Terra e mare

Quando sull’azzurro dei mari,
Zèfiro soffia la sua brezza
Sulle vele dei fieri vascelli
E le barche sull’onde accarezza,
Lasciato il peso dei pensieri,
Nell’inerzia io posso annegare –
Dimentico i canti delle muse,
M’è più caro il mormorio del mare.
Ma quando contro la riva l’onde
Schiumose ruggiscono e fremono,
E il tuono rimbomba nel cielo,
E i lampi nel buio balenano,
Allora i più ospitali querceti
Io ai mari preferisco;
La terra mi sembra più fedele,
E il grave pescatore compatisco:
Vive su una fragile imbarcazione,
Trastullo della cieca corrente,
Mentre io nel silenzio sicuro
Ascolto il fruscio d’un torrente.

1821
КИНЖАЛ

Лемносский бог тебя сковал
Для рук бессмертной Немезиды,
Свободы тайный страж, карающий кинжал,
Последний судия позора и обиды.

Где Зевса гром молчит, где дремлет меч закона,
Свершитель ты проклятий и надежд,
Ты кроешься под сенью трона,
Под блеском праздничных одежд.

Как адский луч, как молния богов,
Немое лезвие злодею в очи блещет,
И, озираясь, он трепещет,
Среди своих пиров.

Везде его найдет удар нежданный твой:
На суше, на морях, во храме, под шатрами,
За потаенными замками,
На ложе сна, в семье родной.

Шумит под Кесарем заветный Рубикон,
Державный Рим упал, главой поник закон;
Но Брут восстал вольнолюбивый:
Ты Кесаря сразил — и, мертв, объемлет он
Помпея мрамор горделивый.

Исчадье мятежей подъемлет злобный крик:
Презренный, мрачный и кровавый,
Над трупом вольности безглавой
Палач уродливый возник.

Il cangiàr

Il dio di Lemno ti ha forgiato
Per le mani di Nèmesi immortale,
Custode della libertà, cangiàr punitore,
D’infamie e di offese ultimo tribunale.

Là dove dorme la spada della legge,
Tu di anatemi e di speranze esecutore,
Tu all’ombra del trono ti celi,
E delle vesti sotto lo splendore.

Come raggio infernale e folgore divina,
Muta lama negli occhi del furfante,
Che si guarda intorno tremante,
In mezzo alla stessa sua gente.

Dappertutto lo troverà il colpo tuo improvviso:
Sul mare, in un tempio, su monti e pianure,
Dietro segrete serrature,
Durante il sonno, nel paterno nido.

Sotto Cesare scroscia l’amato Rubicone,
A Roma la legge ha chinato la testa;
Ma il libero Bruto è insorto:
Tu Cesare hai colpito, e il marmo di Pompeo
Ora egli abbraccia – ormai morto.

Il seme delle rivolte leva un grido rabbioso:
Vile, sanguinario, scellerato,
Sul cadavere della libertà decapitata
Il carnefice brutto è nato.

puskin

puskin

Апостол гибели, усталому Аиду
Перстом он жертвы назначал,
Но вышний суд ему послал
Тебя и деву Эвмениду.

О юный праведник, избранник роковой,
О Занд, твой век угас на плахе;
Но добродетели святой
Остался глас в казненном прахе.

В твоей Германии ты вечной тенью стал,
Грозя бедой преступной силе —
И на торжественной могиле
Горит без надписи кинжал.

1821

Apostolo di sciagura, allo stanco Ade
Le vittime con un dito destinò,
Ma il giudice supremo gli mandò
Te e la fanciulla fatale.

O giovane giusto, leale e prescelto,
O Sand, con la scure la tua vita s’è spezzata;
Ma della tua sacrosanta virtù
E’ rimasta la voce nella testa tagliata.

Nella tua Germania sei un’ombra perenne,
Minacciando sventure al potere delittuoso –
E sopra la tua tomba solenne
Un cangiàr senza nome risplende radioso.

1821

18 commenti

Archiviato in poesia russa, Senza categoria

DIECI POESIE INEDITE di Jarosław Mikołajewski tradotte da Paolo Statuti “Il prato”, “il Museo degli oggetti antichi”, “La valle”, “Domanda”, “Un poeta molto vecchio”, “Requiem a santa cecilia”, “Sconforto”, “Il mondo salvato”, “Ai magri”, “Il cerchio di gesso” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Strilli Leone

 Nato nel 1960 a Varsavia, Jarosław Mikołajewski è uno dei poeti polacchi contemporanei più apprezzati. È anche saggista, autore di libri per bambini, pubblicista e ha grandi meriti come traduttore in polacco di Dante, Petrarca, Michelangelo, Leopardi, Montale, Ungaretti, Luzi, Penna, Pavese, Pasolini, Levi e altri ancora. Dalla letteratura italiana per l’infanzia ha tradotto “Pinocchio” di Carlo Collodi e alcune opere di Gianni Rodari. Tra il 1991 e il 2014 ha pubblicato 11 raccolte di poesie. I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha ricevuto prestigiosi premi letterari, tra cui nel 2014 la medaglia d’argento per meriti speciali al servizio della Cultura “Gloria Artis”, e in Italia: Stella della Solidarietà Italiana, Premio Nazionale per la Traduzione, Premio della Città di Roma, Premio Flaiano.

Negli anni 1983-1998 è stato docente della cattedra di Lingua e Letteratura Italiana all’Università di Varsavia, e negli anni 2006-2012 direttore dell’Istituto Polacco a Roma. Da questo soggiorno romano è nata, tra l’altro, la raccolta di saggi “La Romana Commedia” (2011) – un peculiare diario-guida attraverso la città di Roma. La chiave per conoscere i segreti della Città Eterna è la “Divina Commedia” di Dante. Essa detta il ritmo delle scoperte di Jarosław Mikołajewski e determina la struttura di questo libro, che si compone di 100 canti suddivisi nelle tre cantiche: “Inferno”,”Purgatorio” e “Paradiso”. A proposito di questo libro la poetessa Julia Harwig scrive: “Si può ritrovare la Roma contemporanea grazie alla “Divina Commedia” di Dante? Jarosław Mikołajewski ha rischiato e ha scritto per noi un racconto di questa stupenda città, costruendolo intorno a frammenti dei “Canti” di Dante. Un’idea ardita, ma che non desta obiezioni. A Roma, presente e passato convivono e coesistono…Un carattere particolare è dato al libro dal personale rapporto dell’autore con questa città”.

Come romano trasferito in Polonia  posso capire perfettamente i sentimenti di questo poeta polacco trasferito a Roma, dove per sei anni, nella tradizione di altri illustri poeti polacchi, quali ad esempio Jarosław Iwaszkiewicz e Jerzy Hordyński, ha “visto e sentito” l’essenza di questa città. A Roma ci sono i classici luoghi per turisti: Colosseo, Fontana di Trevi, Bocca della Verità, ecc., e ci sono i “quadri” preferiti dai poeti: le Ville, i pini, i vecchi vicoli, le fontanelle, i tramonti, ecc., ed essi attingono le parole da ciò che “vedono e sentono”. Jarosław Mikołajewski ha lasciato le sue personali e durature impronte sul suolo di Roma, e se dovesse tornarci, sono sicuro che  le varie anime della Città lo riconoscerebbero subito e lo accoglierebbero come un vecchio amico.

Di proposito non voglio esprimere giudizi critici (anche perché non sono un critico letterario) sulla creazione di questo poeta, e nemmeno citare la critica ufficiale, ma ho tradotto 10 sue poesie – ciò significa che mi piacciono – e invito i lettori di questo mio post a manifestare i loro pareri, che sono certo saranno accolti con interesse da Jarosław Mikołajewski.

  (Paolo Statuti, da Un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti)

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 Commento  impolitico di Giorgio Linguaglossa

Innanzitutto, una considerazione: Jarosław Mikołajewski è un poeta che proviene da un altro magistero poetico, da una tradizione che ha visto un grande numero di poeti di eccellente livello, è inoltre un poeta dotato di una potente carica immaginativa. Senza ombra di dubbio, l’immaginazione guida la composizione della sua poesia, lo si può notare anche in queste poesie splendidamente rese in italiano da Paolo Statuti. Come in una scala sospesa tra il reale e l’immaginario, il grottesco e il surrazionale, Mikołajewski costruisce le sue poesie partendo da dati riconoscibili per attingere nello svolgimento a dimensioni assurde o illogiche. L’illogismo fa parte integrante della sua poetica. A un lettore italiano, abituato ad una poesia dallo svolgimento lineare, questa procedura può suonare esotica o esogena ma in realtà essa risponde a un preciso progetto conoscitivo e compositivo; c’è sempre il non-luogo che compare in mezzo ai suoi luoghi, c’è sempre la negazione che segue o precede una affermazione; c’è in Mikołajewski una esuberante ricchezza di denotativi, di sospensioni, di interrogativi, di dubitativi; ci sono associazioni per contatto e una profusione di metonimie. Tutta questa intelaiatura conferisce indubbiamente alla poesia di Mikołajewski una straordinaria densità e motilità, una mobilità interna che influisce sulla semantica rendendola ora incerta ora rafforzandola nei punti di svolta sintattici e semantici. È una poesia che cerca la densità sia nella intensificazione che nell’estensione, impresa affatto scontata, anzi, indubbiamente complessa e rara da trovare nella poesia contemporanea, tutti elementi che la contraddistinguono in modo esclusivo.

Jarosław Mikołajewski

Jarosław Mikołajewski: Le mie figlie si nutrono come giovani mucche

Il prato

Le mie figlie si nutrono come giovani mucche
di erba
che cresce nei verdi pascoli

di latte
che ai pietosi animali
si stilla dalle turgide mammelle

le mie figlie bevono tisane
di erbe
dai nomi latini
e le loro guance profumano
come serici gusci ripieni di lavanda

le mie figlie sono tutte yoghurt
pane e sole

masticano i dolci petali
dei fiori di campo
e i loro capelli profumano
di rugiadosa violacciocca

Vivo accanto a loro come un maiale

come un cane crepato
sulla riva di un fiume cristallino

e che ancora non è diventato erba

né rugiada
che vola verso il sole

né l’acqua di questo fiume

O terra carnivora
inghiottisci finalmente la mia carne

o fa’ fiorire il mio corpo
imbalsama la mia pelle

Strilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assentiStrilli Král A tratti un libro riposto

Il museo degli oggetti antichi

le risorse sono limitate
un carro per il cielo
trascinato dall’ombra d’un cavallo

uccelli
onde

qualche caro oggetto di uso quotidiano
una bambola o la moglie
un pettine

e ancora una guida
un corvo
un raggio

un’ombra sulla bacheca

La valle

scendo in valle giulia con giulia

e con noi scendono signori e signore
e con loro i cani senza guinzaglio

anche mia moglie scende
e le due figlie maggiori

e ciascuna nel portamonete ha le foto
delle due nonne
di un nonno
e dell’altro nonno
che un tempo scese la valle con noi

quando scendiamo
si sentono gli elefanti
e i pavoni

forse è una tigre che domanda a giulia

forse

a valle giulia
al sole s’inchina l’erba
e all’erba il sole

e il sole nell’erba è come un leone
che a morsi si fa strada nella terra

e il tempo è strano per questa stagione invernale
anche qui a Roma dove a gennaio al massimo
sono dieci gradi e invece guardate che roba

è così caldo in quest’ora serale
che dalle case escono
e scendono con noi in valle giulia
sirene di città e sirene marine
anemoni di mare e fiori
egiziani
venditori
massaggiatori e preti

parrucchiere con le gambe di vario tipo
quelle più in alto lunghe
quelle più in basso corte

e ognuno bagna i piedi nella propria ombra
che scorre nell’erba come un ruscello

.
Domanda

sono venuto al mondo
dove non c’ero né io né te
ma le mani applaudivano già le tue creazioni

i tuoi fiori si strofinavano a questi piedi
i chicchi nelle mie mani formavano manciate

ah come eravamo inutili

io non ero una creazione
ma i miei sensi
lo erano e come

io non c’ero
ma tu eri già il creatore

c’era un motivo per cambiare ciò

 

Strilli Tranströmer 1Strilli Talia la somiglianza è un addio

(Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa)

Un poeta molto vecchio

Andavo a incontrare
un poeta molto vecchio

tanto vecchio che se fosse stato una quercia
avrebbe avuto mille anni

Avrebbe ricordato i fratelli
che diventarono canoe

avrebbe ricordato
che poteva diventare un armadio

o san Sebastiano
nell’altare centrale o di lato

che la sua parte inferiore
poteva diventare il ceppo per la scure
(oggi al museo delle torture medioevali)
e la parte superiore
centinaia di migliaia di fiammiferi
(oggi nella cenere dei falò sui pendii dei Bieszczady)

Andavo da un poeta molto vecchio

dovevo notarlo ora nel suo nervosismo
ora nella sua assenza

prima ancora di scorgerlo
doveva sparire
prima ancora di orientarmi
doveva gettarmi dalle scale

dovevo essere come un pescatore
che abbraccia una sirena

Andavo da un poeta
che poteva essere una quercia
lungo un parco di alberi
che erano come maschere

guardavo in una cavità
senza scoiattoli e senza uccelli

toccavo la corteccia come palpebre
incollate da rivoli di resina fossile

Andavo da un poeta molto vecchio
tra gli alberi come tra armature
con le visiere calate

Quando entrai nella casa del poeta molto vecchio
le scale che potevano essere lui
se fosse stato una quercia
avrebbero scricchiolato sorde e morte

Quando entrai nell’appartamento
mi accolse in piedi

nelle dita millenarie strinse il bastone che
poteva essere lui stesso se fosse stato una quercia

e pesando nella mano il destino della quercia che
poteva essere lui stesso ma non lo era
fece ciò che nessuna quercia farebbe mai
se avesse mille o duemila anni

fece un passo
docile alla sua volontà di quercia
e le foglie stormirono
giovani come la terra

Jarosław Mikołajewski

Jarosław Mikołajewski: passeggiano i colombi e non ci vedono
sfrecciano le barche e ci evitano

 

Requiem a santa cecilia

forse così si entra in paradiso

come l’orchestra nel concerto

ricevono gli applausi ma come preambolo
parlano di politica
di malattie
senza timore

non invidiano
non vanno in collera

il primo violino
non ce l’ha col solista

loro accordano gli strumenti
noi la tosse

così si vede dall’alto
dai posti scadenti dietro la scena
dove abbiamo davanti la faccia del direttore

.
Sconforto

voglio smarrire la bestia
che dorme sotto di me

come un pallone
mi sollevo
nella volta celeste
ma la bestia è con me
come l’ombra sotto la nube

ma la bestia è
con me
come l’ombra
sotto la nube

sotto il sole che si è levato
sul cielo sereno

la mia bestia
si stacca più scaltra di me

mi si alza dal letto
e fa ciò che non so
finché non la troverò
sulle lenzuola comuni

di ossicini
messi
nelle ali rosicate

.
Il mondo salvato

segno sulla mappa dove siamo stati
non siamo stati quasi in nessun luogo

guarda quanto mondo non morirà con noi

e sai una cosa?
risparmieremo sempre più posto

facciamo domenica
il piano di risparmio

qui non saremo più

e ancora là più vicino
là più lontano

guarda quanto mondo
ci sopravvivrà

Foto in Subway

Ai magri

che per tutta la messa
in chiesa come un soldato

curati
inamidati

che nei treni
vi sistemate
come scapolare

come toletta
portatile con specchietto

sospirate nell’intenzione
dei corpi nel grasso sofferenti
ai quali l’anima non entra nella pelle

il ventre nella camicia
e nei pantaloni

i cui piedi bruciano
come se la fiamma li lambisse già

.
Il cerchio di gesso

passeggiano i colombi e non ci vedono
sfrecciano le barche e ci evitano

come se non ci fossimo
sulle piazze e nell’acqua?

che gente siamo che non ci siamo?

8 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia polacca

A cura di Giorgio Linguaglossa – Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet, Roma, pp. 284 € 18 (Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano), Commento di Laura Canciani

Antologia Il rumore delle parole (2)Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet pp. 284 € 18 (Sebastiano Adernò, Valentino Campo, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Maria Pina Ciancio, Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Abele Longo, Eugenio Lucrezi, Marco Onofrio, Aldo Onorati, Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro, Ambra Simeone, Francesco M. Tarantino, Raffaello Utzeri, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano) a cura di Giorgio Linguaglossa

Commento di Laura Canciani

Com’è noto, Tynianov si opponeva a una concezione evolutiva della letteratura, che secondo lui procede per salti e per spostamenti piuttosto che secondo uno sviluppo uniforme. Ad avviso del noto critico in ogni genere, osservato a un dato momento, si distinguono tratti fondamentali e tratti secondari: sono proprio i tratti secondari, i risultati e le deviazioni «casuali», gli errori, che producono nella storia dei generi mutamenti più cospicui da annullarne in certa misura la continuità. Si può parlare di continuità per la nozione di «estensione», che oppone le «grandi forme» (romanzo, poema, racconto lungo) alle piccole (racconto breve, poesia), e di continuità per i «fattori costruttivi» (per esempio, il ritmo nella poesia e la coerenza semantica – trama – nella prosa) o per i materiali; ciò che cambia è ben più importante per la individualità del genere: è il principio costruttivo che fa utilizzare in modi sempre nuovi i fattori costitutivi e i materiali.

Gli spostamenti all’interno di uno stesso genere, mettiamo la poesia, sono molto importanti per comprendere come a volte delle piccole novità conseguite in periferia possano avere ripercussioni, per vie sotterranee, sulle linee maggioritarie che si esprimono attorno alle due più grandi città italiane (Roma e Milano). Ecco allora la spinta al rinnovamento o la diversa funzione che la periferia viene a svolgere nel rinnovamento di un genere. Questa campionatura di autori del Sud viene incontro alla esigenza di indagare per quali vie sotterranee la poesia del Sud possa contribuire al rinnovamento del genere poesia ma non tanto per la forza specifica delle singole realtà regionali quanto per la capacità di fare, tutte insieme, massa e peso specifico.
Il Sud non è indagato solo come contenitore di diverse sensibilità linguistiche ma come momento propulsivo della ricerca di nuove vie di sviluppo della poesia italiana contemporanea. È un fatto che il Sud, dall’unità d’Italia in poi, se si fa eccezione per l’ermetismo di matrice quasimodiana, non è mai stato capace di produrre una letteratura egemone, grandi personalità sì, ma isolate, e questo vale anche per il genere poetico.

Eidetica

Eidetica

Altra importante problematica è la divaricazione che si è aperta tra Patrimonio e Modernità. Che rapporto c’è fra questi due poli? Patrimonio è ciò che appartiene al padre, Modernità è ciò che appartiene ai figli, ma la Modernità è stata caratterizzata dalla insubordinazione dei figli ai padri, che non vogliono più ereditare alcunché dai padri e abitare la casa paterna, per essi la Tradizione deve essere abbandonata e demolita. La Modernità nasce come critica della Tradizione, rifiuto e disobbedienza verso tutto ciò che il passato invece invita ad essere custodi. La Modernità viene ad essere recepita anche da questi autori antologizzati come la casa che deve essere disabitata, abbandonata, rigettata per poter costruire una casa propria, una casa comune in cui l’eredità dei padri sia stata rimossa. Con l’atto della rimozione, della abitudine all’uso e al riuso degli stilemi della Modernità e all’impossessamento del patrimonio ereditato, esso diventa trafugamento, appropriazione indebita. Con quest’atto la Modernità diventa Postmodernità. È questo, credo, il racconto che tra le righe ci fa l’Antologia Poeti del Sud.
Il nichilismo antitradizionale e anti patrimoniale delle avanguardie storiche è stato progressivo e unilineare, i surrealisti volevano abolire il passato per poter instaurare il regno del Futuro, dell’uomo nuovo della rivoluzione incombente; gli autori di questa Antologia aboliscono contemporaneamente Passato e Futuro, sono nichilisti loro malgrado, adottano il nichilismo come il loro usuale vestito dello Spirito, si muovono nel Presente, il patrimonio poetico europeo viene percepito come inabitabile e inarrivabile, vivono nell’età dell’incertezza e dell’ansia.

carlo cipparrone copertina

Carlo Cipparrone

Nei labirinti del sangue

Spesso mi prende un’ansia
segreta, una libidine.
Sorge dalle mie viscere
domina la mia mente
circola nei labirinti del sangue.

Tutto m’emoziona, tutto mi turba.
Non riesco a trattenere
la mano che masturba le parole
e scrivendo provo insieme piacere
e angoscia, estasi e sofferenza
fino al parossismo dell’orgasmo.

Vivo da sempre in questo
mio paradiso e inferno
di cielo e fango, di fiori e spine,
di verità e menzogne.
Ubriaco di nettare e veleno,
approvo e rifiuto
amo e odio ciò che scrivo.

*

Con povere parole
(ostinata passione
che in me sempre risorge)
do segni d’esistenza.

Vengo da un altro gelo,
dal mistero dell’indifferenza
che ogni tanto si scioglie
e cerca vie d’uscita,
lascia segni di tentati percorsi
orme incerte sulla neve.

.
Linee di fumo

All’incrocio d’umani destini
lungo i margini della via
labili tracce d’un bivacco
segnalano il mio passaggio:
resti d’una segreta fiamma
arsa in petto, d’un fuoco
che non crepita più ma tace,
esile linea di fumo,
sparsa nebbia, residuo calore
di spenta brace sotto la cenere.

*

Ciò che ora dico
serve e non serve, conta poco;
ma si deve parlare,
correre il rischio.
Perché so tutto e niente
imprecise notizie
di cui chiedo conferma.

fabio dainotti 120x120

 

 

 

 

 

 

 

Fabio Dainotti

Otto poesie per Gina
Quando nacqui mia madre ne piangeva
(Umberto Saba)

*

Quando nacqui i parentes
mi affidarono a te, studentes-
sa a Pavia.
(nell’università che poi fu mia).
Così quando gli amici ti chiamavano:
“Usciamo, andiamo al cinema, a ballare”,
mi esibivi trionfante alla finestra:
“Ho il bambino. Non posso
Gli devo dare il latte”.

*

Poi alle elementari, a Frascarolo:
c’erano i pensierini sulla rosa
da fare, che tormento
invece di giocare!
“La rosa è…” dicevi, suggerivi.
Ma a me non veniva mai niente
in mente;
non riuscivo a integrare, completare.
“La rosa è la rosa, scusate”, pensavo.
Queste cose ho saputo da voi dopo.

*

Di quel giardino ricordo le ortensie
blu come il millecento che comprò
lo zio e ci portò tutti ad ammirarlo
nella rimessa di lamiera
dopo cena, una sera.
E tu eri contenta, ma non troppo,
della sorpresa.
– Ah, gli uomini!, pensavi
all’imprevista spesa.

*

Le gite, la domenica mattina:
aspettando che il pranzo fosse pronto,
mio zio mi portava in giro un po’,
nella sua auto nuova; sullo stradone grigio,
poi a un tratto sbucava in un sentiero
e si fermava, per stupirmi; c’era, che scorreva,
un fiume, il Po.

*

Compravo il latte, ero un bravo bambino,
mi dicevo. Guardavo in alto, in cielo:
mi apparivano i volti
dei genitori, lieti,
grandi come gli dei che distruggevano
con una mano le mura di Troia.
Era quella la loro approvazione.
Il premio: la televisione.

marco de gemmis

marco de gemmis

 

 

 

 

 

 

 

Marco De Gemmis

«Dove sia»

.
«Dove sia» inizia Porta la poesia
che ti lascio sul tavolo in cucina
e «Tu che fai stasera?» da un biglietto
ti chiedo, ma se sfogli il libro indietro
a pagina ventisei il poeta dice
«per essere felici bisogna andare lontano»

e spero questa pagina ti sfugga, esco
ma prima monto le chiare a neve,
due, aggiungo crema, mescolo
– ti faccio una cosa dolce –,
mescolo senza sbattere troppo
la testa contro il muro

 

I documenti della nostra vita

i documenti della nostra vita
stanno in briciole sul tavolo in cucina
come nel dopopranzo, quando
in mostra si sono messi i piatti
vuoti, dove le cose sono ridotte
all’osso: noi siamo intanto stesi
saturi in altre stanze e sui divani
ci sta dentro dalla testa ai piedi
un’auto spenta, senza un conduttore
che la possa riavviare e spostare
Leggendo Zanzotto
nell’auto che va
mentre parlate di cibo…

.
[“… le crode del Pedrè. Ebbene, se sono tornato a parlare di questo posto, dove si andava in gita scolastica quando ero bambino, è perché in quel luogo fisico c´è una volontà di resistere, anche se contraddetta da pulsazioni opposte e oscure, che è omologa alla terra e all´uomo…”]

.
voglio dirvi una cosa
ma non c’entra:
le crode del Pedrè
esplorate a ottobre
per capire lui
dove passeggia
e dove prende la poesia:
devo dirvi una cosa
che mi apparve:

acquattata pure lì
c’era la peste:
dentro le colline
stillava gocce
che salivano spedite
quasi si fosse invertito
il senso delle cose
che non c’è alcun perché
per come stanno andando

come anche lui saprà
non conviene più fermarsi
in nessun luogo

 

Libere poesiole

l’inverno che invochi
e giochi a far la pioggia
con la bocca, il ticchìo
sullo zinco al ritmo
delle gocce; o l’estate
che pensi in cagnesco
e giochi sbuffando
a sventagliarti preziosa
bestiola da salotto;
o senza stagione alcuna
(ché il tempo ormai
è cessato) come ora
che stai dormentata
e giochi la giornata
così: posso lasciarti
sola, posso lasciarmi
da solo scrivere
libere poesiole?

Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Non ho incontrato la rivelazione

da: Inferno

L’orgia della notte rivela ossessione di morte.
Lacci e tridenti artigliano caviglie convulse.
L’inferno ha chiamato avvelenando i pozzi
il respiro accoglie arsenico tra i denti gialli.
Le gomene si sono tarlate.
Fino alla soglia del cielo
schioccano fiamme sulfuree:
l’ubriaco che sciacqua il vomito
al mascherone di pietra
la puttana che appiglia il reggiseno
alla catena di piombo…
Le creature delle tenebre fragili e oscene
col ventre che espelle la vita goccia a goccia
le cosce che spasimano un amante qualsiasi
l’innocenza fulminata per caso ai margini della ragione
per caso ogni miseria sembra uno sparo.

*

Se tu venissi temerario per selve forestiche
per sentieri spinosi, per zanne affilate di lonze lupi e leoni
ti accorgeresti che le strade di oggi
non portano eroi.
Mutile statue, Virgilio agonizza sul colle
braccia spolpate e nudità.
L’erba è marcia per gli amplessi rubati o saldati
per il sangue dei deportati
dalle cornee fosforescenti e i palmi di latte.
Nello Stige melmoso l’anima di pietra si torce
la città dannata rinuncia.
Marmoreo, solo il re che bara la sorte
«Scacco matto!», tripudia.
Tutt’intorno la zizzania avvilisce le onde
gli strazi delle periferie palpitano.
Non mi riconosceresti.

*

I miei genitori vissero da muratori.
Con piglio gentile costruirono scale
saggezza di ponti e scuole verdeggianti
perché all’impazienza delle idee
fosse destinato un sentiero.
Così nel mio tenerissimo tempo
a braccia spalancate e fuoco di profezia
gazzelle di chimere a testimonio
«posso», dissi fiera, ma quando il Muro crollò
prosperarono altri divisori.
Ci siamo persi. Abbiamo consentito.
La nostra saliva ha cristallizzato sale
e oggi la luna galleggia.
Così, mentre il chiarore abbandona la riva
a ridosso di rupi e preda di lupi
la lealtà dell’acqua è macchiata da rigurgiti
che infestano l’Arcadia perduta.
Nel buio le finestre pudiche vorrebbero tacitare la tv.
Nemmeno i colori abbiamo scampato
per lasciarli al futuro
e non si sa come pentirsi o rimediare.

francesca diano

francesca diano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesca Diano

Congedi. Viatico in undici stazioni

I

L’esclusa

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.
Ero povera – di quella povertà che non conosce
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.

Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono il delirio di un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.
Con la rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece
– me viva ancora –
Non vi perdono la disperazione
Vostra sola elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.
Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace.

II

Steppa

Non ero che un bambino e tu un adulto.
Ti temevo. Temevo il tuo sorriso
Come una lama sfoderata a colpire
Senza guardarti in faccia.
La tua jurta era grande e molto solida
Però a te non bastava. Eri feroce
Nella tua sete di potere.
Quell’anno fu gelido l’inverno
Più dei passati e il fuoco non bastava.
La nostra gente – gente guerriera
Soffriva il freddo.
Predatori eravamo e predavamo.
Tu più di tutti.
Io non potei evitare che mio padre
Mi abbandonasse nella steppa
Lasciandomi bambino a sostenere
Il peso di un potere non voluto.
Mi piegava le spalle e mi schiantava.
Lo subivo il potere e con che gioia
A te lo avrei ceduto.
Dunque – quando quel giorno con un’ascia
Mi aggredisti alle spalle e mi spezzasti
Le vertebre e la vita – senza guardarmi in faccia
– non eri coraggioso – io non potei capire.
Ma avresti visto – per sempre congelata
Nei miei occhi la sorpresa e l’orrore.
Cadendo altro non vidi che terra congelata
E i licheni – come ricami di trine verdegrigie
A riempire lo spazio breve del mio viso.
I tuoi occhi una steppa – morta – immota.
Non ero che un bambino e tu un adulto.

 

giuseppina di leo

giuseppina di leo

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

A nonno Leonardo

Su materassi di paglia dormivo da bambina
accanto la voce amata. Su due piedi possibili
il tempo sosta in attesa fino all’ultimo,
un piolo per volta, fino alla lunga stanza;
il pavimento in cemento lo scorgevi infine,
proscenio della camera dalle due finestre.
E sulla scena, l’odore delle pesche sotto il letto.

*

[Le quattro pietre]

Le quattro pietre ancorate al mare sembrano sorelle,
quattro dita in tutto afferrano il mare. Così, se tu temi
la luce vorrebbe dire dover lasciare l’uscio chiuso per
troppo ancora. Rimanda la paura. A dopo. E intanto
siediti. Resta. Con un gesto del piede allontana dunque
il pensiero dalla fronte, troppi angoli mostra il prisma,
troppi colori conta l’arcobaleno, nel sole i raggi,
tanti quanti i visi. Lontano dagli sguardi serba il seme
per piantarlo all’uso del lunario, e di quel che resta
a me basterà l’odore delle cotogne e della paglia.

*

L’uomo onda

All’inizio fu il silenzio e la terra era feconda
foreste lussureggianti racchiudevano suoni di vento
e nel mare era nascosta la voce profonda di un amore
sarebbe arrivato sulla riva nelle vesti di uomo scolpito
dal flusso delle onde, sarebbe salito sulla parte alta
e avrebbe poi urlato al silenzio il suo segreto.

«Dalle tasche del mare altri suoni arriveranno», disse al giovane fiore
e così parlando pensò lo avrebbe colto nel sonno di un’estasi.
«Si giunge lontano stando fermi», gli rispose allora il fiore
«nessuno tra noi due sa chi per primo cederà il suo stelo
al vento». Non si sa se fu lo stato di paura, irrazionale quanto basta
foriero e preannuncio di ogni altro eco terrifico a portarlo via
ma a quel dire colpì dapprima la terra sollevandola
con le mani aperte rivoltò più volte la zolla, afferrò poi
il bastone potente del comando e percosse con quello
stelo a stelo ogni singolo filo d’erba; ogni singolo gambo
si abbassò diventando tutt’uno con la terra
afferrò nuovamente con due mani la spada
l’elsa della forza lo istigò a tracciare scavi profondi nelle viscere
la terra rimasticava le sue radici d’oro e la farfalla si tramontò
in bruco e il bruco in terra, mentre l’uomo continuava a far
marcire nel sonno il silenzio prezioso di un tempo. La parola attesa
si trasformò in bestemmia, la bestemmia in rancore
fino a quando il fiore del silenzio si aperse in rosa di sangue
con due ali sui fianchi scese nell’imbuto del tempo
fino a che insieme al tempo non si squarciò il dolore.

35 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, recensione libri di poesia, Senza categoria

TRE POESIE INEDITE di Lucio Mayoor Tosi “Tra di noi”, “Astronauti”, “Acheuleani” SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Not Vidal Moon 1995

Not Vidal Moon 1995

Lucio Mayoor Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili). Dieci sue poesie sono apparse nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di GGiorgio Linguaglossa (progetto Cultura, 2016). Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie. Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombre delle parole, e su alcune antologie.
Vivo da solo, in compagnia del mio gatto Pico, a Candia Lomellina, un piccolo paese a trenta minuti da Milano Porta Genova.

https://mayoorblog.wordpress.com/  E-mail: mayoor@fastwebnet.it

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

 Commento di Giorgio Linguaglossa

Il «soggetto», come sappiamo, è da sempre nel legame relazionale. Interloquisce con altri «soggetti» e dimora tra significato e significante, tra enunciazione ed enunciato, tra il rumore delle parole e il silenzio delle parole. Il soggetto si nasconde sempre, lo sappiamo, lo abbiamo appreso da Lacan; ma è nella logica del rimosso che questo avviene, ovvero, nello spazio politico della parola (anche poetica). La parola poetica obbedisce allo spazio politico? Quale legame c’è tra l’agorà del politico e il discorso poetico? La parola poetica, il logos poetico si dà soltanto nella rappresentazione di finzione? Per il discorso politico relazionale, il «Reale» è ciò che è irriducibile alla simbolizzazione, la sua è una verità alienata; invece, nel discorso poetico tutto viene ricondotto, in un modo o nell’altro, al processo della simbolizzazione (diretta o indiretta). Qualcosa torna sempre allo stesso posto, tende ad affiorare ma come in maschera, come un contenuto ideativo che si veste di parole. La «verità» si dà nel processo e nel tempo, tra rimozione e simbolizzazione, tra «io» e l’«Altro», imprendibile e imperdibile. Il luogo della rimozione non coincide con il luogo del tempo, entra in conflitto con esso e sprigiona le scintille della simbolizzazione. Il luogo della «verità» coincide così con il luogo della «perdita».

Il concetto di orizzonte della parola è analogo al concetto scientifico di orizzonte degli eventi; è l’apparire della parola che si dà come un «evento». Il rapporto fondamentale non passa quindi tra ciò che si dice e ciò che si tace come se fosse un gioco di abilità, da rethoricoeur, da prestigiatore, ma un «evento» che ha già in sé uno spazio di ombre significanti e di significati ormai non più attingibili e transitati nell’imbuto del tempo.

Nel tempo in cui la crisi è in crisi, non c’è più alcun luogo a cui appigliarsi se non al punto fermo che chi Parla è un Altro che introduce il suo discorso eterodiretto con il nostro egolabile.

Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

 Tra di noi

Nessuno ci aveva avvertito, nessuno sapeva. Fu in prossimità della Luna Che cominciammo a dire parole senza senso, per Di Più cantando. Tutta colpa della gravità musicale Che Ronza Attorno al pianeta serra.
Stai sorridendo. Chi, io? Sì tu. Già, sorrido.
C’è qualcosa di Pericoloso su questo pianeta. Non Sarà stupefacente?
Com’eravamo ingenui!

L’infinito volo della farfalla Sfuma Nel tinello di una casa condominiale, e dentro l’acciaieria il bianco della sposa; la guancia di tuo figlio mentre solo scrivi e ti accarezzi la fronte
infinita sponda, luce del mattino e richiamo delle cose come onde, come Tra le onde il pudore del mare.

Nasco e muoio Tra il collo e le scarpe. Il collo per i colpi ricevuti, le scarpe Perché Già lo so Che saran di me l’ultima parte che se ne andrà. Qui la morte abbonda, non è Una rarità. La vita è breve e il tempo oscilla, d’un tratto son cinque anni, poi Cinquanta.
Affonda Nel lavoro lo sterco della povertà. Perdona se l’epoca è questa ma son centinaia d’anni Che aspettavo. Non si muore in eterno.
Come bolle d’aria nel vento, come sguardo senz’occhi, Nella matematica pura e l’economia del dare.

E tu che Camminando danzi? Io no. Tu, sì. E’ il Corpo: come mi sta? Come ti senti?
Mi tremano le gambe, tremo all’idea, tremo alla voce. Scrivere è come non voler Parlare, come Quando mi venivi in mente.

Candia Lomellina – gennaio 2015

opera di Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

opera di Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

Astronauti

La tua voce solitaria mi predispone alla quiete di Una stagione capovolta, appesa Agli alberi, sul viale dove giocano i ragazzi fino a Tardi.
La stagione appesa e la voce Tua solitaria dentro fotografie Che si muovono un po’: qui siamo a Parigi, e qui beviamo birra sotto il cappello della Pergola. A cosa stavi pensando?
E’ tempo Che Non Si Può definire, Qualcosa nello spazio costringe le labbra al sorriso e non ci puoi fare niente, Anche se vorresti piangere. Ormai va Così, Che se rido Ogni volta piango.
Faccio tutto insieme. That’s why Pochi ricordi. Perché vedi, Porto Qualcosa Del cielo nella stagione appesa, capovolta Sugli alberi, fino a Tardi.
La vita Scende come coltello Dal naso al cuore, va sui Fianchi e finisce toccando il pavimento. Non Accade anche a te di Pensare al cielo come lo Pensano Gli alberi? Beviamo tristezza Nella birra, giochiamo Fino a Tardi e SEMBRA Parigi. Il cappello della pergola Si è mosso Nella fotografia.
Quassù la memoria va nell’universo Che va oltre il pianeta, non ha senso Guardare in alto, tutto è sospeso e capovolto. Fa piangere ridendo il video della stagione appesa.
Il cappello, due fari, poi Dieci poi venti. Qualcosa Nel viale Scende. Una sola foglia. Si direbbe Una pausa nel mentre che si danza. Non ti fa tristezza Pensare alla Terra?

Candia Lomellina – anno 2014

Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

Acheuleani

Da Un’altra vita l’ho Salutato. Pensare Che Sono sceso per lui, per non Essere topo o aquilone, per Avere Una voce, la Sua, e un’ombra CHE mi Connetta Alla Sequenza delle case Che vedevo sulla costa
lontane, affollate di gente sospettosa e prudente, coi Piedi per terra e le orecchie tese al vento, credevo, potentissime creature, Maghi dell’Elettricità. Morti a venire come me, amici Rinati sul finire di Una tragedia.

Poi ho letto Nel marchingegno degli occhi UN Trattato Sulle corrispondenze, un Manuale d’uso per non disperdere la luce dei legamenti, Che E’ fatta di Milioni, miliardi di fotoni, Dicono, che si muovono come pensieri

e possono facilmente deperire Se Si Perdono, Uno con l’Altro. Come riuscire a tenersi In piedi su due universi e perfino Mettersi a Correre? E ‘straordinario. Vero E’ che sì dovrà morire Ancora, e questo E’ rassicurante
ma Forse UN Pezzo di fegato SI staccherà per andarsene in QUALCHE Comunità Montana, e da lì sorveglierà il Traffico Tra Una guerra e l’altra, nei trent’anni Che servono per germogliare Umani Sulla Terra
non poveri come sanguisughe, attaccati al respiro degli Altri: per amore, Dicono, Come se per amare contasse solo Il Nutrimento materno, Che per this La Scelta non mancherebbe Tra Gli Animali. No, E’ Questione di architetture

di Tensioni in Equilibrio, di musica leggera, di farfalle che si posano digitando sul palmo della mano; e se non piangi Ecco: due tocchi sul metacarpo, Vicino Al Centro, possono bastare. Perché piangere Toglie infelicità.
Bisogna Essere morti molte Volte per Avere amici passanti, e vivere in solitudine come Fosse L’ultima volta che si va sott’acqua, d’estate, MENTRE Il Mondo scolora UN azzurro riflesso Che non ha centro e Pare di cartapesta.
O di gomma.

Candia Lomellina – anno 2014

23 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

A cura di Giorgio Linguaglossa, Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud  -5 Poeti del Sud: Sebastiano Adernò PoesieValentino Campo da ChroniconLuigi Celi da Ritorno in Sicilia, Rossella Cerniglia da Antenore e altre poesie, Maria Pina Ciancio Poesie

Antologia IL RUMORE DELLE PAROLEGiorgio Linguaglossa da Introduzione  alla Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet  pp. 284 € 18 (Sebastiano Adernò, Valentino Campo, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Maria Pina Ciancio, Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Abele Longo, Eugenio Lucrezi, Marco Onofrio, Aldo Onorati, Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro, Ambra Simeone, Francesco M. Tarantino, Raffaello Utzeri, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano)

È vero quanto scrive Umberto Eco in un articolo del 12 marzo 2012 apparso su «La Repubblica»: «L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di “Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallelepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi». Ma se leggiamo la poesia che si fa oggi, di cui questa antologia ne è un esempio paradigmatico, ci accorgiamo che non si può più parlare nei termini di un Moderno che si converte in modernismo, in avanguardia e in retroguardia, secondo un classico schema novecentesco di pensiero, oggi siamo tutti diventati qualcosa d’altro, è il post-contemporaneo che si profila, il post-Presente, il Presente si prolunga nel post-Presente; il passato e il futuro entrano nella nebbia e nell’ombra, tendono ad eclissarsi.

Oggi non c’è più bisogno di una avanguardia e tantomeno di una retroguardia, siamo tutti divenuti qualcosa che sta come sulla cresta di un’onda, su un orlo topologico, e la poesia sembra girare attorno a se stessa in un movimento perpetuo, un movimento rotatorio attorno al proprio asse che non porta a nessun luogo e non sta in nessun luogo. Ma forse è proprio questo il suo punto di forza. La poesia contemporanea è rimasta orfana della filosofia, che non pensa ad essa come ad una invariante ma come ad una variante del variabile. E forse questo è un bene. Nel regime post-coloniale delle democrazie occidentali la poesia è considerata per il suo aspetto gastronomico e decorativo. La democrazia del capitale finanziario spinge tutte le arti alla decorazione e alla manifattura di uno stile da esportazione. Alla poesia non viene chiesto niente, ed essa non immagina neanche di rispondere. In mancanza di una verificazione, essa semplicemente non è. La diversità dalla scienza è sorprendente. Ma anche dal romanzo, che almeno ha un regolo, imperfetto quanto si vuole, ma un regolo: il mercato. La poesia non progredisce (e non regredisce), se intendiamo per progresso l’accumulazione di risultati che si susseguono gli uni agli altri, ma ristagna. Tale visione è conforme a un modello di ragione che pensa per invarianti, che prende luogo da un modello storicistico che tende ad appianare i risultati estetici e le problematiche entro il continuum del divenire storico, ignorando le differenze e le diversità. Si impone così, inconsapevolmente, un modello storiografico e un modello di ragione sostanzialmente aproblematico e aproteico dove tutte le vacche sono bigie.

italia che taceFine del Moderno, dunque. Fine delle filosofie forti. Fine della poesia forte. Ma, per fortuna, ciò non significa che la poesia non pensi a se stessa se non in diminuendo, anzi, mi sembra che gli autori più  avveduti di questa Antologia siano ben consapevoli di come ricomporre il piano estetico della nuova dis-locazione multifunzionale del discorso poetico, che coniuga il «parlato», le immagini e la riflessione, che coniuga il presente con il passato, il quotidiano con la metafisica,  alla ricerca di una nuova identità stilistica. La poesia sembra finalmente essersi rimessa in cammino. Parafrasando Gianfranco La Grassa, il quale scrive: «uscire da Marx dalla porta di Marx», potrei dire: «uscire dalla Poesia dalla porta della Poesia». Si tratta di una metafora, di un gioco linguistico. Ma continuiamo il gioco: accettiamo la metafora: che cosa vuol dire «uscire dalla Poesia dalla porta della Poesia»?, tutto e nulla: noi possiamo uscire dalla finestra del «Palazzo chiamato Poesia», dalla finestra del primo piano e scappare, darcela a gambe per la strada, oppure salire all’ottavo piano del Palazzo e saltare giù nel vuoto, e così finiremmo per romperci l’osso del collo. Ma saremmo morti e quindi la partita finirebbe. E poi possiamo uscire dalla porta d’ingresso e dire a tutti gli inquilini del Palazzo: «c’è del marcio in Danimarca», ovvero, «qui i giochi sono già stati fatti, le carte sono state truccate, non c’è motivo per sedermi al tavolo di gioco»; oppure, possiamo decidere di stare al gioco (le cui regole sono state scritte da altri) e fare finta che le carte non siano truccate.

E qui la partita si apre. O meglio si chiude. Oppure, come qualcuno fa, «dobbiamo far saltare tutto: il Palazzo e il sistema-poesia», «bisogna mettere della dinamite alle fondamenta del Palazzo»; simpaticissime boutades, che io trovo divertenti, irriverenti. Non ha fatto così Sanguineti con Laborintus (1956)?, operazione indubbiamente geniale, che andava in consonanza con i tempi di un paese che doveva cambiare la classe dirigente intellettuale in un momento di grande ripresa economica, di grande ottimismo e di grande rigoglio artistico e intellettuale. Ma oggi, chiedo, ci sono queste condizioni? – Quello che vedo è che siamo immersi in una Grande recessione (economica, politica, etica, estetica e spirituale), non vedo all’orizzonte un altro ceto intellettuale di scrittori e di poeti che voglia prendere il timone della vita artistica del Paese: ciascuno va per conto proprio, alla spicciolata, alla ricerca del consenso e del successo.

italia tripartitaLe varie proposte che ci sono oggi in circolazione: «poesia corporale», «poesia esodante», «poesia periferica», «poesia allo stato zero», «anti-poesia», «pseudo-poesia», «post-poesia» sembrano indicare un qualcosa che si muove in una direzione tangenziale, verso l’esterno, cioè verso la periferia del «sistema-poesia». Nella mia veste di critico non posso non prendere atto di questo fenomeno ma mi chiedo: verso la periferia di che cosa va la «poesia dello stato presente»?, si allontana del Centro?, e perché si allontana dal Centro?, e che cosa cerca verso la Periferia?, e quando raggiungerà la Periferia che cosa succederà?. E mi chiedo: ci sono oggi le condizioni affinché la direzione della poesia italiana si incontri o si incroci con le istanze dell’istituzione poesia?, con il Politico?, con la Comunità?, che sappia dialogare con la nuova civiltà mediatica?.

Ho l’impressione che la direzione presa dalla poesia italiana di questi ultimi tre, quattro decenni sia quella della deriva di «accompagnamento», prosastica, sempre più disossata, debole, gracile, facile, democratica, piccolo borghese (nel senso di comprensibile a tutti), mediatica, demotica; precisamente da quando il più grande poeta italiano del Novecento, Eugenio Montale, si è anch’egli reso responsabile della scelta di una poesia «in minore», umorale, diaristica, appesa alle «occasioni», ironica, desultoria, sussultoria, da Satura (1971) in poi, così che oggi, a quaranta anni di distanza, giunti alla foce di quel fiume, si scrive una «poesia» dell’«indifferenziato» molto simile alla «prosa», che della «prosa» ha il vestito linguistico e concettuale: vale a dire che si pensa in poesia come pensa chi vuole fare della prosa. E invece è sbagliato, qui c’è un nodo che va sciolto subito, ancor prima di iniziare la riflessione e dire una cosa molto chiara: che la poesia è una cosa che si scrive e si pensa in modo affatto diverso da quello con cui si pensa e si scrive in prosa, quand’anche ritmata. È l’ideologia dell’in-differenziato che qui ha luogo.

Italia stemma della repubblicaBrodskij una volta scrisse che la longitudine e la latitudine cambiano la lingua. Di più, la longitudine e la latitudine cambiano anche il linguaggio poetico; in esso si verificano delle interferenze, dei disturbi, delle influenze; i sostrati storici delle varie civiltà che si sono depositate in un territorio sedimentano, fermentano, e affiorano, prima o poi, nella lingua di relazione e nel linguaggio poetico. Ciò che si credeva «periferia» diventa «centro», e viceversa. La storia si diverte spesso a riposizionare le tessere del puzzle secondo un ordine imprevedibile e inimmaginabile agli inizi. E ciò è avvertibile anche in questa antologia intergenerazionale nella quale c’è una vasta gamma di ricerche stilistiche nella sostanza molto diverse da quelle che si perseguono a nord del Rubicone o al centro del Lazio. Un elemento questo da non sotto valutare che ha una sola spiegazione: la definitiva emancipazione della poesia del Sud da quella che si fabbrica nelle fucine di Roma e di Milano. La poesia del Sud non va a prendere il tè in alcuna contrada esotica, e questo è un buon risultato, non va più a rimorchio della poesia del Nord, anzi, possiamo affermare che la poesia del Sud si è completamente emancipata, ha un passo sicuro, procede in varie direzioni contemporaneamente, ricerca una propria identità. È questa la ragione fondante che può giustificare una antologia della poesia del Sud: la sua centripeta vitalità, il suo andare dentro il linguaggio poetico a far luogo dalla periferia. La diacronia del linguaggio poetico è racchiusa nel moto del pendolo, ad un periodo di espansione e di egemonia del Nord e del Centro subentra un periodo di riflusso e di rilancio della poesia del Sud.

Gran parte anche della migliore produzione poetica delle ultime generazioni sembra scrivere poesia come se fosse  dentro una «vacanza» della ragione, della Lingua, ma la lingua ha una sua ferrea legislazione fatta di regole sintattiche e semantiche che nessuno può infrangere. Spesso trovo  incomprensibili certi libri di poesia (sicuramente per miei limiti) ma anche perché ormai oggi ciascuno scrive per se stesso, ciascuno si fabbrica in privato un proprio idioletto senza curarsi di quel dialetto della comunità nazionale qual è diventato l’italiano letterario (per non parlare del fenomeno dei dialettismi poetici che sorgono un po’ come funghi in ogni parte della penisola quale epifenomeno del novecentismo tardo novecentesco). La grandissima parte dei più giovani pensa alla poesia come a un affare privato che più privato non si può, che anzi debba essere un privato privatissimo, la privatizzazione del privato, talché la lingua in cui quel privato si esprime ne è il corrispondente linguistico: di qui la «privatizzazione» della lingua in idioletto. È chiaro che in queste situazioni viene meno la necessità di un ermeneuta, il quale non ha più alcuna ragion d’essere. Per fortuna, in questa Antologia mi sembra di notare una inversione di tendenza, ci sono chiari esempi di una poesia che va verso la pubblicizzazione del privato, in cui il privato si allontana dal quotidiano e il quotidiano dal quotidiano presuntivamente posto. E questo è un segnale molto positivo.

Italia tricolorePer via del fatto che la poesia si è prosasticizzata è invalso un equivoco: che il limen divisorio tra la poesia e la prosa sia effimero, equivoco; ma gli autori di questa Antologia dimostrano quantomeno di volerlo sciogliere. C’è un nodo, se non si scioglie questo nodo non sarà possibile scrivere una poesia adulta, emancipata. Così, la poesia contemporanea rischia di stare in mezzo al guado, di nuotare in una forma ibrida, nuotare con i salvagente. Basterebbe eliminare gli a-capo e riscrivere tutto in prosa per accorgersi che spesso il testo ne guadagnerebbe in linearità sintattica e alla lettura. E allora, chiedo: perché scrivere in forma-poesia cose che potrebbero suonare meglio nella forma della prosa?; è questo il nodo che la poesia italiana contemporanea si trova a dover sciogliere. Il verso è una «entità» che bisogna provare e riprovare; innanzitutto, come prescriveva Fortini, occorre provare «la resistenza dei materiali», intendendo dire che il verso poetico è un qualcosa che offre una «resistenza» alla lettura (e alla scrittura), come la resistenza che comporta un materiale qualsiasi quando viene attraversato dalla corrente elettrica: in mancanza di questa resistenza il verso non è più un verso ma semplicemente (e rispettabilmente) prosa.

Direi che per la poesia degli autori antologizzati sia prioritario l’atto della narratività. La poesia si costruisce come una riflessione su un oggetto dove il momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della sintesi. Riflessione e meta riflessione, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme. Una procedura che predilige lo scorrimento (a secondo della necessità della composizione) della narratività è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra gli oggetti, tra le loro qualità e le loro alterità, ovvero, tra le parole. Una strada duale, sostantivale e relazionale, tra le parole e, quindi, tra i significati delle parole e gli oggetti referenziati dalle parole. Questo tipo di procedura non si differenzia da quella perseguita dalle scritture iperrealiste in auge in Occidente, ricade pur sempre nel demanio della narratività.

eugenio montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Narratività ed iperrealismo sembrano andare a braccetto: molti autori di questa antologia prediligono l’ingrandimento progressivo delle unità verbali prese ciascuna per sé collegate insieme mediante nessi sintattici, congiunzioni e/o particelle avversative, ricostituendo un periodare intuitivo (nel senso dell’immediatezza del linguaggio del quotidiano) al fine di rafforzare gli elementi significanti del linguaggio; oppure operano attraverso l’isolamento e l’ingrandimento di singole parole-immagini. Procedura già anticipata da un quarantennio da un film come Blow up di Antonioni, dove un fotografo, che ha scattato numerose fotografie in un parco, rientra nel proprio studio, e qui viviseziona le immagini attraverso ingrandimenti successivi e arriva ad identificare, stesa dietro un albero, una forma supina: un uomo ucciso da una mano armata di rivoltella che, in altra parte dell’ingrandimento, appare tra il fogliame di una siepe. Ci sono autori che tentano di ripristinare il giro frastico su un’orma endecasillabica, altri fingono un endecasillabo che non c’è, altri ancora derubricano la questione. È chiaro che qualcosa è cambiato, c’è un cambio di passo: il passato sembra essersi allontanato, molto di ciò che, nel bene e nel male, doveva cadere è caduto. È crollato non solo il paradigma ma l’idea stessa del paradigma: il canone si è dissolto in mini-canoni, è stato falsificato e clonato e moltiplicato in un brodo di coltura che, paradossalmente, non è escluso che possa dare i suoi frutti nell’imminente presente che si chiama futuro. È anche questa una delle ragioni di una antologia della poesia del Sud.

 

sebastiano-aderno

sebastiano-aderno

 

 

 

 

 

 

 

 

Sebastiano Adernò

– I –

Punto primo.
Carta mangia sasso
ché nato antico
e morto muto mai negò
il desiderio
di segni ed inchiostro.

– II –

Hai mai sparato per gioco?
Segna otto punti.
Se tra di voi c’è un Santo
riportalo indietro.

– III –

Eravamo in cento.
Dalla notte verso il centro.
La rete. La rete tre volte.
Poi meglio.

– IV –

A Masada comprammo fiori recisi.

Perché la stirpe stramazzata dei primi
tra base e desiderio
non avesse altro unico
di che esser felici.

– V –

Posa del sasso
in ginocchio sul greto.

La polvere è un boato.

Chiamarla storia
non rende l’uomo meno vacuo.

Valentino Campo

Valentino Campo

da CHRONICON

Libro I

Io Valentino, monaco unto nel letame
lingua di serpe
perché ho già tradito e abiurato, maledetto
il nome di questa terra che mi ha nutrito,
mi appoggio all’ombra della città che dilaga
come macchia scura che la luce non contiene.
Io sciancato, sordo perché non so sentire,
io diafano perché non so vedere
io muto perché non conosco il canto dei filistei
e mi muoiono in gola tutti i nomi di Cristo.
Nell’anno duemilatredici di nostro Signore
pesto le parole come radici
mentre la città scioglie i focolai
e il vento raschia via la pelle bruciata.
San Giorgio ha domato il drago
ma io so che la bestia non è quieta
chiederà nuova carne
sputerà altro fuoco,
si è solo confusa tra la moltitudine,
nel cavo delle narici, nell’increspatura.
Io monatto, medico ed untore
io che mi cibo col pasto dei condannati,
io messo al bando perché ho chiesto a Giorgio
di scendere da cavallo e gettare l’armatura.
Qualcuno sputa sangue nella tazza del vino
prima di consacrarlo a questa città assetata
lo allunga con acqua e brodo,
dice che così dà la biada
alle voci che ogni sera gli entrano come chiodi,
qualcuno racconta di sua madre,
viene da lontano, la peste l’ha risparmiato
come si risparmia un vitello per un’altra mattanza,
ha un campanello al piede che soffoca con l’erba
ogni volta che si caccia nel fitto del bosco.

Si sta in cerchio attorno alla fiamma,
una donna si alza per prendere le fascine,
gli uomini la guardano,
hanno smesso di tossire,
la donna canta mentre rimesta il fuoco
e il bagliore le slabbra il solco delle piaghe,
postremus inimicus evacuabitur mors
la donna intona come se fosse felice
e tutti cantano come se fossero vivi.

La peste non fa sconti, giù in città
è un luccichio di ossa, calce ovunque,
ovunque puzzo di uova marce
e quell’odore di pesce che rode il bianco,
che pare scrosti il bianco dai crinali.
I morti stanno con i vivi
ogni volta che c’è da spurgare le ombre dalla luce,
dal filamento sgrassare l’orlatura.
Nel fossato l’acqua si raggruma
e gli uomini la tengono tra i denti,
omnis qui bibit ex aqua hac sitiet ìterum,
l’arsura si sazia con l’urina
e con le foglie di menta.
Ho già spellato tutti i cardi
quando un tremolio di luce
balena tra il fuoco e la latrina davanti al bosco,
l’alba ha l’odore acre di bestia
che ha appena mutato scorza.
Oggi scenderò in città prima del suo fiato,
lavoro di routine contare le croci sui portoni,
un’addizione di segni, scorporo del dolore.
La città si lascia attraversare
come fanghiglia che tiene la preda,
seguo l’istinto del battitore che cerchia l’ombra,
fiuto la condensa calda del corteo.

luigi celi

luigi celi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi Celi

Ritorno in Sicilia

È solo un sogno ritornare all’isola-culla
consegnata alla luna, al giallo diluviato
dei monti, agli impervi tornanti
ruscellanti pace e violenza.
Terra di calura e di tristezze
per le orecchie d’un Odisseo smagato,
delirio il suo omologarsi alla cultura del sovrappiù …
per chi non vuole udire le partiture del vero
sventaglia spartiti di sirene lungo-codate
tra Scilla e la madreperlacea Cariddi,
nel vento la cetra di Calipso
la voce di Nausica.
Inquietante è il dorso dell’isolapesce
ha spina dorsale di monti e lupare,
nuotano isole piccole su un’unica onda
di lava e antiche memorie.

*

Sabbie al vento nei cirri-vitigni d’uva-risa
menadi tra piedi strombolati di lava e oleandri,
dal Vesuvio fino all’Etna orizzonti di mafia
e foschi presentimenti …
Grembi partoriscono grembi e lacrime
nella stagione di paglia ardente
e tonfi sulla chiglia, nella rete dei miei lidi
l’alata scogliera ha radici d’olivo
sgorganti oro crudo.
Sul mare l’aria s-marina di biancospino
baluginano vele nell’angiporto …
Protesa alle Eolie Milazzo si inazzurra
tra delfini che incappucciano flutti
sospinti dalla brezza.
Su mutevoli nubi ali di gabbiani tagliano
nebbioline, sogni stagliati tra ombrose alghe
sguardi sperduti in specchi di negrizia …
non lontano migranti affondano in pozze
d’inaridite speranze …
palpebre galleggiano fuori di testa
sulle piccole labbra delle onde.

Rossella Cerniglia

Rossella Cerniglia

 

 

 

 

 

 

 

Rossella Cerniglia

Dalla silloge inedita Antenore e altre poesie

Ad amico immaginario

Oggi ti scrivo, amico mio dell’anima, solo navigante dei miei sogni.
La tua essenza eterea è il fluire in me delle cose che non hanno corpo.
Essere arduo, iperuranio sei, il lontano e vicino orizzonte
dove abita la notte del mio cuore, il contiguo esiziale mio dolore,
mio fratello prescelto dalla sorte di chi nulla possiede,
avventuriero del mio immaginario, ragno di me innamorato
che tesse la mia tela. Se ti cerco è perché il mondo è spoglio,
non ha che pietra e lugubre grigiore. Se ti cerco è perché la strada è sola
e niente dà ristoro: neanche una lusinga da questo cadavere immenso
qui disteso, nessun compagno di viaggio a deplorare
il tuo triste fardello, a compatire il tuo bisogno d’assetato.
Se questa è vita, è qui che giunge il mio sogno disperato:
a te che sei il prescelto, vero compagno della più oscura solitudine,
generato da essa come ombra, ma così pregna del bisogno di non essere sola!
A te, ultimo casto amore, consorte del mio viaggio
entro rive profonde e sconosciute, a te cedo le chiavi del mio cuore,
su te riverso il sogno inquietante e vuoto di una ricerca smisurata e vana
che è stata mia condanna e mia rovina: nella sua essenza invitta
s’inscrive il naufragio dell’umano, la sua inesorabile sconfitta.

.
Sera autunnale

Viene la sera autunnale
e sul sentiero tra gli ulivi
ferma l’alato piede.

Tinge la nera veste fluttuante
l’aria intorno e annera
ogni lucore, abbuia
I contorni delle cose.

L’angelo muto passa
innanzi alla finestra illuminata
e l’attimo trattiene
in un tempo senza tempo.

In un brivido lieve
trascorre
l’esile mistica sera.

 

Maria Pina Ciancio

Maria Pina Ciancio

 

 

 

 

 

Maria Pina Ciancio

*

Tutto ciò che non dico è oltre il Sud
anche questi fiori d’argento alla finestra
e questa gioia (…) così isolata nella sera
– sconsacrata da gesti che ritornano lenti
a un rituale d’avanzi

Anelli che si staccano a scuoterli troppo
e si disperdono per troppa stanchezza
troppa trasparenza d’intenti

2010-12

*

Avremmo dovuto partire
prima che l’Alba
ferisse insensata i nostri vent’anni
prima che le mani
smarrissero i fianchi
(senza sapere né dove, né come)
prima che gli occhi ferissero
altri occhi

Quando l’ingiusto
si impossessa del bene
è così che si esiste
senza parole
senza più grazia
abbozzando alla vita
soltanto uno sguardo fugace
e impoetico

2010-12

*

È dentro i vicoli d’inverno
che arrivano i fantasmi
con loro ombre lunghe
dentro corridoi lunghi

Io sempre avanti
loro indietro

di qualche passo indietro

2010-12

 

36 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea

POESIE SCELTE di Lidia Gargiulo da “Sinfonia del loto” (2014) con un Commento di Giorgio Linguaglossa 

 L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

L’empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

cinese DipintoDiCapodanno1Lidia Gargiulo vive a Roma, ha insegnato nei licei classici e collaborato con la cattedra di Psicologia Generale del Magistero a Roma; è stata addetta all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi e alla formazione di insegnanti presso il C.I.D.I. Ha collaborato con la Scuola di Formazione Spazio Psicoanalitico (Roma) e con le Biblioteche Comunali di Roma per la promozione alla lettura. Ha organizzato conversazioni pubbliche su tematiche culturali.

In poesia ha pubblicato: Duetto per Clodia -Ed. Il Ventaglio, 1992; Penelope classica e jazz – Ed. Il Ventaglio, 1994; Di chi è il bambino. Ed. Fermenti, 2003; I segni di Proserpina  La città e le stelle, 2006; Le rose di Sirmione  La città e le stelle 2012; Solubile –  due poemetti – La città e le stelle 2012. Versi e racconti sono pubblicati su periodici e riviste (Malavoglia, Tuttestorie, I fiori del male, Quante storie, Insegnare, Pagine, Fermenti, Ecole, Echi di psicoanalisi…) e-mail:  lidia.gargiulo@libero.it

 

donna cinese antica

 

 

 

 

 

 

 

Commento di Giorgio Linguaglossa  

La prosasticità del lessico e la mediata e meditata razionalità delle digressioni del poema Sinfonia del loto, fanno parte della presa di posizione di Lidia Gargiulo per una poesia del ragionamento e della memoria con innesti di parlato e di variatio, con salti da strofe a strofe, e con pause numerose all’interno dei singoli versi, salvo poi a riconfigurare, nel concreto dei dettagli narrativi, una ripresa dei rimandi e delle cuciture tra i preamboli e le digressioni, tra le pause interne al verso e le riprese, tra i lacerti di memoria (sempre controllati dal flusso narrativo) con gli elementi della attualità e della cronaca del giorno. L’ironia sottile e pieghevole del dettato fa da contrappunto e da sfondo alla impossibilità, per la poesia moderna, di presentare il tragico ma solo di raccontarlo alla lontana e da lontano, con tanto di sfiducia per l’immediatezza poetica e tantomeno lirica e per le pennellate impressionistiche che non fanno parte certo del bagaglio culturale di Lidia Gargiulo la quale rifugge costitutivamente da ogni presentazione della gamma dei colori della bellezza lirica intesa nel senso della poesia al femminile di oggi con sfoggio dei colori dell’anima, anzi, i colori sono vibratamente espulsi dal dettato tanto da porre il poema su un registro linguistico e stilistico provocatoriamente narrativo.

Lidia Gargiulo

da Sinfonia del Loto

Loto era frutto selvatico dell’antichità
frutto spontaneo di sapore asciutto
come la giuggiola o la carruba;
ma quando si pretese dai frutti della terra
più morbida dolcezza
quelli che si appagavano di loto
rimasero selvatici come i loro frutti;
si diceva perfino che la malnutrizione
gli avesse prosciugato la memoria.
Così racconta Omero.
………………
Corrono secoli e cambiano costumi
ma tra gli umani non si estingue il loto:
gene in agguato, di tanto in tanto
esplode silenzioso e cieco, senza dolore.
………………
Ma per assurdo
-niente è normale quanto l’assurdo –
mentre va in fumo la memoria, aumenta
la fame di notizie
e il loto ingoia notizie su notizie:
cose sentite e viste diventano d’un tratto
cose mai viste e questo senso di stupore
questa capacità di spalancare gli occhi
sul proprio mondo come fosse un altro
li fa stupendamente giovani
nuovi a se stessi.
………………
In questa insensatezza il loto
devasta e inverte perfino la coniugazione
del ridere e del piangere.
Può capitare infatti di vedere
sposi e parenti piangere alle nozze
e applaudire a un funerale
come al circo si applaude l’acrobata
per un salto mortale.
………………
Ma come può accade che una cosa
produca il suo contrario, così
nel popolo del Loto esiste una tribù
di ferma e rapida memoria
che ricava dall’altrui torpore
ricchezza vitalità e potere.
Popolo che esiste e poi sparisce
torna e sparisce e ancora torna
popolo di ferina intelligenza e dura disciplina.
……………….
cinese dona con ventaglioIlpopolo invisibile
è così parco di evidenza
che a volte lo diresti estinto
ma poi d’un tratto si rifà presente.
Ha fede e devozione, è lauto di beneficenza
protegge chi l’onora, finanzia feste
dei santi del quartiere, è amico della Chiesa
crede nel paradiso e coniuga il divino
con affari e borsa, fatti e parole
ai funerali piange di vere lacrime
ha dedicato struggimento e pianto
all’amore, alla mamma, all’amicizia.
…………………
Al sonno dei lotofagi
risponde dunque il popolo invisibile
e lo Stivale ferve di Cantieri,
Grandi Opere, spettacoli ed Eventi.
………………
Insomma sono padri anch’essi
dell’Italia Unita, più unita ancora
da quando loro che sono nati al Sud
da un po’ di tempo hanno casa e bottega
nelle città del Nord
accolti a braccia aperte dai Fratelli d’Italia
e tutti insieme cantano Fratelli dell’Impresa.
………………
In tempi dunque di Lotofagia
squilla di gloria l’amicizia
tra popolo invisibile e quello del Governo
gli uni coi fatti gli altri al Parlamento
a cambiare in legge quello che non è legge:
costruire demolire distruggere inquinare
vendere, avvelenare beni comuni:
verrebbe da pensare
che i capi di Governo più che a capo
sono ai piedi, ostaggio del popolo invisibile.
……………………

ideogramma cinese per speranza

ideogramma cinese per speranza

A quelli del Governo gli Invisibili
procurano piaceri della carne
con suonatori e giochi,
con femmine e banchetti
come fosse la corte di Nerone
……………………
Educare il popolo
Scuotere, agitare, battere, gli diamo
un po’ di ostacoli e un poco di giocattoli
illusione di vita in movimento e l’inerte
palude di burocrazia; il gioco è antico
ma chi mangia loto non vede differenza
tra verità e menzogna.
E perché il silenzio non germini pensieri
non c’è supermercato
non c’è stazione di metropolitana
non c’è ristorante, non c’è spiaggia
non c’è macchina in corsa che non risuoni
di canzoni, di offerte, di consigli.
……………………
Nel frattempo pensiamo ai nostri affari
e che ci aiutino il maltempo, qualche frana,
un disastro che riavvii la macchina.
Nella notte che l’Aquila crollava
addosso alla sua gente, qualcuno gongolava
al cellulare con un suo compare, rideva
per quanto avrebbe reso il terremoto: Questa
-diceva – è la mano di Dio che pensa a noi:
Dio benedice chi si dà da fare, noi ci muoviamo
stiamo con quello che si muove
stiamo col sisma.
…………………
…………………

ideogramma cinese Poetry

ideogramma cinese Poetry

 

 

 

 

 

 

 

Ma quando si fa urgente il desiderio
di un luogo della mente da chiamare Futuro
come un’erba lavata dalla pioggia
l’occhio si allarga, si allunga, va più a fondo
a all’improvviso …
riconosciamo le perle dell’umanità:
maestri di scuola, maestri di bottega
e il genio di gioventù tesa al domani…
Possiamo allora ricordare insieme
i momenti del risveglio, il giorno, per esempio
che a Berlino si demoliva il Muro e Rostropovic
accompagnava col violino i colpi di piccone.
Correva l’anno 1989.
…………………
Chiamiamolo, il futuro, a nascere
in forma di presente: a volte, quando è buono,
sulla terra il presente ha lo stesso sapore dell’eternità.
Noi ricordiamo il bene che ci ha fatto bene
lo riconosceremo.
Teniamo gli occhi aperti sui lavori in corso :
che il ritorno del bene non ci trovi
in compagnia del Loto.
Rimase a lungo lo scialle russo con le rose rosse
…………………
Sulla spalliera, la muta nostalgia del rosso
si faceva tatuaggio della casa, indelebile.
…………………

Lidia Gargiulo

Lidia Gargiulo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era l’otto di marzo
La festa della donna. Noi donne all’Istituto
c’incontravamo una volta a settimana per dirci
qualche cosa, fatti o pensieri, parlare insomma
parlare e dirci, riflettere su che volesse dire
di questi tempi essere donna, sentirsi donna.
Erano tanti i modi, ma quel modo quel giorno
mi piaceva, parlavo volentieri in quella lingua
che non era la mia ma la parlavo bene,
dicevano le amiche; in quella lingua le parole
suonavano più fresche, come se non le avesse
ancora stropicciate la consuetudine.

Inseguivo un progetto di liberazione
Da parenti e cerimonie e visite, ricordi di famiglia.
Lì dove stavo spirava un’aria nuova, ma pure quella
-mi accorgevo- era impregnata di cose trascorse
anche in quell’aria nuova la gente parlava del passato
sebbene in altro modo, ma dovevo ammettere
che in tutti, in ogni vita c’è un archivio di fatti
da sfogliare, ripensare. Da capire, magari.
E dunque stavo, constatavo
Che siamo fatti soprattutto di tempo
e il tempo si fa nostro solo quando è passato.

Pensavo questo ascoltando le amiche e mi dicevo:
Ma com’è complicata, eppure anche così
tutto sommato è bella
quest’avventura che chiamiamo vita.

E poi pensavo a lei, ci eravamo riviste un mese prima
ancora sbalordita dal disastro: il ragazzo della figlia
morto sul colpo, la figlia in ospedale
viva ma piena di ferite
prognosi incerta e in prospettiva interventi chirurgici
lunga degenza, riabilitazione…
……………………

La lentezza dei treni mentre passavo
da un luogo all’altro consumò gran parte
di quella settimana, una stanchezza torpida
mi risucchiava nell’indifferenza:
la noia senza gioia, l’opaco sopravvivere.
……………………
-Abbi pazienza- le dissi salutandola-
Cerca di stare bene, per favore; ti scriverò, ti chiamerò-
-Già te ne vai- mi disse -non rimani
E non era domanda, era constatazione
Desolazione con un po’ di rabbia.
-Vedrete, vedrete – mi aveva detto.
Pensavo a questo mentre ascoltavo
I drammi delle amiche.
……………………
Poi qualcuno bussò, qualcuna disse Avanti
qualcuno entrò, si guardò attorno, fece il mio nome:
ero pregata di andare in segreteria
con urgenza, per favore.
Benedetta burocrazia, pensai: ancora orari
Ancora documenti, dichiarazioni…
-Vado e torno presto, aspettatemi
per i discorsi intelligenti – e uscii svelta e leggera
mi sarei sgranchita camminando per i corridoi.
……………………
cinese paesaggio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Invece non tornai. A chiamare era stato mio fratello
chiamai, rispose il figlio grande, mi disse che la zia
si era buttata… – E adesso come sta?! – E dovevo
ripetere e gridare tra schiocchi e frusci del telefono.
Il ragazzo mi disse tondo tondo
come stava la cosa.

Dunque stavo così in aereo: incredula;
per credere non basta aver saputo
per credere bisogna che il pensiero
venga a un patto col fatto e non è vero
che il pensiero è rapido; l’immaginazione è brava
a immaginare quello che non succede
ma quello che succede non è facile
situarlo tra le cose nostre.
E dunque in questo senso rimanevo incredula
la cosa mi era entrata nelle orecchie ma stava in piedi
sulla soglia della mente, si guardava attorno
cercava un posto dove sistemarsi
in postura decente: era entrata nella lista dei fatti
ma non trovava accordo con quell’altra cosa
quella che mi autorizza a dire ‘io’,
la me di quel momento.
Eppure lo sapevo, stavo lì proprio per quello.
……………………
In chiesa l’indomani le toccai una mano
non mi rispose, le toccai una guancia: Come sei fredda
le dissi e questa volta il suo silenzio
certificò l’assenza, solo quella.
Eccomi ancora a fare i conti , sapere che è accaduto
E non trovargli un posto nella mente.
……………………

ideogramma cinese nomi vari

ideogramma cinese nomi vari

Perché l’aveva fatto? Ci puniva?
Ci lasciava perché l’avevamo lasciata?
Questo voleva dire l’ultima mia lettera
lasciata senza aprirla sul tavolino dell’ingresso?
C’era da tempo, dunque, l’idea di richiamarci
con la sua partenza? Così a lungo era durato
quel fascino dell’agonia, l’adolescente tentazione
che per noi tutti Era la sua bizzarria?
Chissà: prima un pensiero, un esercizio per la fantasia,
gioco, scommessa e poi pensiero fisso
ecco ci siamo: le sue agonie. Faceva prove del morire
alla vigilia di ogni esame, a ogni partenza del fidanzato,
per un mal di pancia, un raffreddore:
stesa sul letto, pallida ad occhi chiusi
era corpo senz’anima e al tempo stesso
viva creatura in lacrime
che piangeva la morte di se stessa.
-E smettila! –la mamma la sgridava- Studia piuttosto
li vuoi finire o no sti benedetti esami?!
Quando si rimetteva in piedi cantava, era risorta
e il giorno dopo tornava a casa con un trenta e lode.
……………………
Ero assorbita in pensieri diversi dai suoi
……………………
Nodi senza importanza mi tennero legata
e quello ch’era un modo di allentare la tensione
si fece trappola dell’attenzione
mi distrasse come quando bollendo marmellata
concentrati sul mestolo
dimentichiamo che un bambino inquieto
sta girando per casa e se lo perdi di vista
non sai che danni può fare soprattutto a sé.
……………………
Ma tornando all’ultimo presente, adesso
che tutto era finito (ma chi le inventa certe frasi?!)
dopo la cerimonia, a casa dello sposo
mi trattengo con gli altri in disparte dagli altri
ma li sento parlare di là dalla parete
lo sposo coi fratelli e le sorelle …
Nella casa dei nonni li rapisce
la spensieratezza di quell’altro tempo
dimentichi di me là in fondo sul divanetto in ombra
col mio grumo di pena che non trova parola
poiché la cosa che chiamiamo cuore è piena
di qualcosa che non trova nome.
E nella stanza accanto voci degli altri
Allegre nella grazia dell’oblio. Io qui da sola
Con chi potrei scherzare? Su che provare a ridere
Come quando ridevamo insieme ripetendo le frasi
della mamma, i soprannomi, i tic e le cadenze buffe
del paese? Il paese ci stava alle spalle ma quando
un soprassalto di memoria lo rimetteva avanti
come fosse un sorso di quel vino ci attraversava
un’euforia spavalda senza nostalgia e ridevamo.
Di molte cose ci piaceva ridere, di molte cose
scoprivamo il rovescio ed era scandalo senza dolore
senza presentimento del dolore come se fosse,
il rovescio delle cose, non la nascosta verità
ma un’invenzione per divertimento
come quando le dissi – E’ una farsa la vita,
si avvolge nella porpora, si ammanta di solennità
ma inciampa sui coturni
ad ogni passo. Ridicola la vita-;
Un trillo, un grappolo di note e il bianco
della gola s’inarca a risucchiare ossigeno
per altro ridere.
…………………

ideogramma cinese Bellezza

ideogramma cinese Bellezza

 

 

 

 

 

 

 

 

così sul divanetto in ombra
viene a ridermi accanto e mentre
ridiamo insieme e fra noi due
non so più chi esiste e non esiste,
quella cosa di dentro la sento che si scalda
sale la via degli occhi, m’invade, deborda
inonda, affondo e in quel momento
rapido e chiaro mi attraversa la mente
Affondò in un diluvio di lacrime: lo avevo scritto
In quarta elementare, quando facevo provviste
di parole da sfoggiare nei compiti di scuola;
mai più detto né scritto, e adesso che vuol dire?
Per farmi ridere? E infatti sto ridendo
ma sono ancora in lacrime e non ho fazzoletto
rido e mi bevo questo invisibile
diluvio minimo che ride di se stesso al buio:
non me lo ricordavo che nel pianto
ci fosse tanto sale e tanto caldo.

Mi prende in giro l’ombra
L’ombra che a luci spente
Mi avvolge nell’inesistente;
l’ombra giullare incantatrice
ha preso in mano la mia pena, l’ha immersa
in una soluzione di allegria leggera
un poco sciocca e queste due ragazze
guardale4 come ridono e come sono vive
senza tempo ai due capi del tempo.
E’ il numero migliore dell’ombra incantatrice:
perfetti i tempi, perfette le sequenze: oscurare
ragioni, sospendere domande, confondere lo sfondo
mettere in evidenza un dettaglio e poi
lasciarlo a splendere da solo
in contrasto con l’opaco del mondo
a conservare
di tutto quello che abbiamo perduto
il ricordo dell’allegria
quando eravamo semplicemente allegri
e non inseguivamo felicità.

Si sgretola, di fronte, il bianco muro di ragione
si ricompone nel vecchio caos
dove l’assurdo è ancora verità.
Da interrogare.

11 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

TRE POESIE INEDITE di Mariella De Santis “Fondali” “Tra il mare e la terra” traduzione in inglese di Anthony J. Robbins SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

Mariella De Santis  è nata a Bari in un raro giorno di neve del 1962. Vive tra Roma e Milano . Nel 1991, per la sezione inediti, viene segnalata al Premio Internazionale Eugenio Montale. Suoi racconti sono trasmessi dalla Radio Nazionale Croata e dalla Radio della Svizzera Italiana. Ha collaborato alla realizzazione di prodotti videopoetici. E’ presente nel lavoro antologico curato da Mariella Bettarini Donne e poesia. E’ autrice teatrale rappresentata in rassegne e festivals. Le sue ultime pubblicazioni in poesia sono: Porta d’ingresso (Bergamo,2005), Silenziosi Immobili Frammenti (Milano,2006), La cura di te, poemetto per il libro  fotografico di Viviana Nicodemo Necessità dell’anatomia (Milano,2007), Ipnos il poema del sonno, in Gli Smerilliani ( 2011). Con Gilberto Finzi è curatrice di Menhir, opera omnia di Delfina Provenzali( Milano,2004). Suoi testi sono musicati da compositori contemporanei (www.novurgia.it). Collabora con artisti, case editrici e cura progetti di animazione culturale. È stata  vice direttore della rivista  Smerilliana, luogo di civiltà poetiche.

Scrive per tentare di mettere ordine tra le cose che stanno dentro, accanto, attorno al visibile e all’invisibile, senza smarrire il sorriso.

Mariella De Santis

Fondali

Avessimo avuto trenta anni in due
facile sarebbe stato dirsi: tu stai a me
come l’ancora al fondale.
Ma ora che gli anni miei con quelli tuoi
d’abbondanza il secolo oltrepassano,
dovere è allontanare dal nobile il ridicolo.
Stiamo ora incagliati, questo è vero
un tempo fluttuanti, di vigore vestiti,
ci sfiorammo e con delicatezza
evitammo sapendo di noi l’azzardo.

Noi che ogni giorno un pensiero
dedichiamo a chi del mare ha conosciuto
l’angoscia e la deriva, a chi nel suo ventre gettato
mai è approdato, stiamo in preghiera raccolti
incagliati uno nel pensiero dell’altro e del mondo
che in noi rifugiato alla pietà per i vivi e i morti chiama.

.
Depths

If each of us had been thirty
it would have been easy to say: you are
my anchor, as it were, in the depths.
But now that my years added to yours
abundantly exceed the century
we should keep what is noble clear of comedy.
True, we are stuck, where once
we floated, dressed in our strength;
we hardly touched and delicately,
knowing our state, shunned all danger.

Now every day we think of those
who from the sea have known fear and despair
who, tossed into its great maw,
have never reached land; we pray, intent,
each stuck in the thought of the other and the world,
which shelters in us
and calls us to pity the living and the dead.

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Tra il mare e la terra

I
Un tuo colpo di tosse risponde al mio
Modo strano di dirsi: ci siamo.
Quell’aria che ci manca, quella strettoia del respiro
Sono codice privato, alfabeto di navigatori votati al largo
Dove occhio non raggiunge il disegno della bracciata
Guidata a fendere traversa la corrente.

II
Tu che sei passo e follia
Luce intermittente e libertà dal rancore
Forse ancora sarai ascolto di uccelli palustri
Ti chiama il tempo e chiede a te verso te una carezza,
Un affondo dolce del pedale
Un saluto senza bisogno d’armi al mondo
Che vivi in forma umana ci accolse

I
A cough that answers mine
Is a strange way of saying: here we are.
The air we lack, that tightening of the breath
Is a private code, the alphabet of deep-sea sailors
Where the eye cannot catch the line of the swimmer’s stroke
Made to cut across the current.

II
You who are passage and madness
Flickering light and freedom from rancour
Perhaps again you will be the call of the marsh birds
Time is summoning you and asking you to cherish yourself
A gentle push down on the pedal
A greeting with no need of arms against the world
Which welcomed us alive in human form

Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna

III

Non vedere, sorella a me per patria marina,
in quella distesa di mutevoli azzurri
al tuo terrazzo prossima,
mancanza di immenso, di azzardo
di richiamo alla sfida, al lancio dell’arpione.
Sia la tua carne custodia del nuoto leggero che pure
Bene ci fece e osserva, osserva come le nostre parole
Lasciate ai fondali, di vigore coprano i corpi giovani
cari agli dei, quegli stessi che attraverso me e te
una domenica mattina, a lungo parlarono.

III

Never think to see, my sister of this sea-surrounded land,
in that expanse of changing tones of blue
so close to your roof-terrace
any lack of immensity, of risk
of a call to face a challenge, the harpoon’s arc.
May your limbs conserve the feel of that soft swim
which anyway was good, and observe, observe how the words
we uttered to the deep may mantle young bodies, dear to the gods,
with vigour, the very same that one Sunday morning
spoke at length through me and you.

Anthony Robbins è nato nel Regno Unito nel 1946. Ha studiato a Christ’s Hospital e all’Università di Oxford. È stato docente universitario all’Australian National University, consulente aziendale e funzionario di banca. È saggista, poeta e traduttore da testi in lingua italiana e tedesca, sia tecnici sia letterari.

6 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Umberto Giovannangeli “Isis contro l’Italia, i nostri connazionali nel mirino del Califfato. Intervento in Libia sempre più vicino”

L'ISIS AVANZA IN LIBIA. LA FARNESINA, LASCIARE IL PAESEhttp://www.huffingtonpost.it/2015/02/14/isis-contro-italia-libia_n_6684274.html?1423940277&utm_hp_ref=italy

Ormai la domanda non è più “se” ma “quando” e “come”. Quando e come la comunità internazionale interverrà in Libia per evitare che il Paese nordafricano alle “porte” dell’Italia si trasformi nella trincea avanzata verso l’Europa dello Stato islamico. Ora è ufficiale. Oltre che sulla Santa Sede, la bandiera nera dell’Isis intende sventolare su Palazzo Chigi, il Quirinale. E la Farnesina. Da oggi il “Califfo Ibrahim” ha dichiarato ufficialmente guerra all’Italia. Come prima è avvenuto con la Francia, la Gran Bretagna, l’America. Il governo italiano entra ufficialmente nella lista dei nemici dello Stato islamico (Isis), che ha oggi definito il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni «ministro dell’Italia crociata». L’edizione mattutina del giornale-radio di al Bayan, l’emittente che trasmette dalla capitale dell’Isis in Iraq, afferma che Gentiloni, «ministro degli Esteri dell’Italia crociata», «dopo l’avanzata dei mujahiddin in Libia ha detto che l’Italia è pronta a unirsi alla forza guidata dalle Nazioni atee per combattere lo Stato islamico».

L’espressione «Nazioni atee» in arabo è un riferimento implicito alle Nazioni Unite: le due espressioni in arabo sono molto simili. Il ministro degli Esteri aveva annunciato venerdì la disponibilità italiana a guidare una missione Onu in Libia. Sabato è tornato sul tema: «Noi combattiamo il terrorismo in prima linea. Già ora l’Italia è in prima linea nella lotta a terrorismo sul piano militare, politico, culturale. Questa battaglia dobbiamo farla anche in Libia di fronte alla minaccia terroristica che cresce a poche ore di navigazione. Certamente in una cornice Onu, ma non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità per ragioni geografiche, economiche e di sicurezza», ha spiegato il ministro degli Esteri nel corso del suo intervento al convegno «Come cambia il mondo», organizzato dal Pd. «Lo sto dicendo con nettezza in questi giorni – ha aggiunto – perché so che la situazione si sta deteriorando. Nessuno pensa a fare interventi al di fuori di un progetto politico ma dobbiamo renderci conto che la situazione si sta deteriorando e il lavoro politico diplomatico deve essere una priorità», ha detto. «Per navigare in questo mare in tempesta – ha sottolineato – serve un grande impegno di governo e Parlamento».

Gli impegni del ministro Gentiloni sono mantenuti, confermano fonti diplomatiche all’Huffington Post, ma nessuno sottovaluta le minacce dell’Isis. Un rischio che non riguarda solo i politici e le figure di governo. E’ l’Italia ad essere entrata nel mirino. Il che significa che, soprattutto nelle aree dove è più radicata la presenza di milizie dello Stato Islamico o di al Qaeda, i nostri connazionali sono potenzialmente persone da rapire, obiettivi dei “guerrieri di Allah”. Per questo è stato accelerato il piano di evacuazione dalla Libia, così come la chiusura della sede diplomatica a Sanaa, in Yemen.

Un passo indietro nel tempo. Breve. Dieci gennaio 2015: il Vaticano è «il prossimo obiettivo dell’Isis» e i servizi di intelligence statunitensi hanno già «avvertito» la Santa Sede. Gli 007 italiani confermano che il cuore della cristianità è un «possibile obiettivo» dello Stato islamico, ma al momento «non ci sono segnali concreti» che possano far pensare ad un attacco imminente. La terribile minaccia, riferita in apertura del telegiornale dalla tv di Stato israeliana, Canale 1, arriva a poche ore da un altro allarme, «Roma è nel mirino», riferita dalla Bild tedesca, che cita a sua volta informazioni ottenute dalla National Security Agency (Nsa) americana.

Qualche giorno dopo, Marco Minniti, sottosegretario con delega ai servizi, a “In mezz’ora” fa il punto sulla situazione legata ai fatti di Parigi e alla minaccia del terrorismo in Italia e in Europa.”Non c’è un comando, una centrale strategica del terrorismo. C’è riferimento politico e culturale per le cellule che si muovono sul territorio. Singole persone e piccoli gruppi che si muovono sul territorio, spiega il sottosegretario. “C’è filo che lega ultimi attentati: un singolo individuo o piccolissimi gruppi. Non c’è uno che comanda, ma c’è qualcuno che ispira”. Per questo, “il tasso di imprevedibilità è molto alto, e questo è un problema”. La risposta giusta non è quella di impedire la libera circolazione delle persone: “Il problema non è sospendere Schengen, ma è l’opposto. Scambiarsi le liste dei passeggeri è una forma di tutela reciproca, tutela Schengen”. Intervistato da Repubblica, Minniti sposta l’obiettivo: i jihadisti italiani “li conosciamo e li seguiamo quasi in tempo reale”. Quelli europei, invece, “sono liberi di circolare nei Paesi dell’Ue e di venire anche qui da noi”. Il nemico ce l’abbiamo in casa, insomma, e “dovremo farci i conti almeno per i prossimi 10 anni”.

La stima è di 50 jihadisti italiani impegnati in Medio Oriente. “Li conosciamo, ma sono gli altri, quelli con passaporti europei, che ci preoccupano. Solo della metà sappiamo identità e movimenti. Provengono dal Nord Europa e dai Balcani. Sono loro che ci allarmano di più”. Quanto alla Libia, è ormai molto esigua – dopo la grande evacuazione dell’estate scorsa dovuta agli scontri tra i miliziani di Fajr Libya e quelli di Zintan per il controllo di Tripoli – la presenza di italiani nel Paese. L’Eni fa sapere che il suo personale è limitato “ad alcuni siti operativi offshore”, mentre resiste il presidio, seppure ridotto all’osso, nell’ambasciata a Tripoli. Non si hanno invece ancora notizie di Ignazio Scaravilli, il medico catanese “scomparso’” dalla capitale libica il 6 gennaio.

L’avanzata delle milizie Isis e delle tribù che le fiancheggiano in Libia, accelera i preparativi per quello che sempre più si considera una “necessità inevitabile”: intervenire militarmente nel Paese nordafricano. Passo dopo passo si va in questa direzione. La chiusura dell’Ambasciata italiana a Tripoli – questione di giorni secondo quanto apprende l’Huffington Post – ha anche questa doppia valenza: simbolica e operativa. Simbolica, perché sta a significare che nel “non Stato” libico ormai il linguaggio della diplomazia non ha più senso, nessuno è disposto ad ascoltarlo, e non esiste una autorità interna capace di tradurlo in arabo. E una valenza operativa, perché sottrae il nostro personale diplomatica a possibili azioni di rappresaglia da parte dei miliziani di al-Baghdadi.

I colloqui tra le varie fazioni libiche stanno andando verso un fallimento annunciato. Ciò che resta dell’esercito libico non è in grado di fare argine all’avanzata degli uomini del “Califfo” neanche a Tripoli. La Cirenaica è ormai una sorta di Stato della jihad. Dalle aree controllate dalle fazioni qaediste passate al servizio dello Stato islamico è iniziata la “jihad dei barconi”. Washington preme perché l’Italia si faccia, come in Libano, capofila di un intervento “stabilizzatore” in Libia. Il che significa uomini, mezzi, impegno sul campo. Un compito a cui Roma non può sottrarsi. E’ solo questione di tempo. Ma in Libia dovremo tornare. In armi.

114 commenti

Archiviato in Senza categoria

POESIE SCELTE di JEAN-CLAUDE IZZO (1945-2000): “Un ponte sul Mediterraneo”  Poesia francese per il blog a cura di Annalisa Comes

Cadavre exquis André Breton, Frédéric Mégret, Suzanne Muzard, Georges Sadoul, gouache sur papier noir daté du 10 janvier 1929.

Cadavre exquis André Breton, Frédéric Mégret, Suzanne Muzard, Georges Sadoul, gouache sur papier noir daté du 10 janvier 1929.

Annalisa Comes

Iniziare a occuparmi della poesia francese per il blog « L’ombra delle parole », su sollecitazione e invito del fondatore, Giorgio Linguaglossa, costituisce per me una grande avventura e un immenso piacere. In questa unione di « poesia » e « lingua francese » risiedono infatti oggi i poli della mia avventura anche domestica, privata : la poesia prima di tutto, casa e destino, scrittura (e lettura) privilegiata, e la lingua francese, lingua del quotidiano – vivendo in Francia oramai da cinque anni – e lingua dello spirito, che ho conosciuto tardi e non a scuola, attraverso la lettura (e la traduzione) della poesia francese di Marina Cvetaeva, esule russa a Parigi alla fine degli anni Venti. Poesia e lingua dunque esuli per me di loro statuto. Ponte umano di fraternità e corrispondenza contro l’isolamento e l’oblio, anzi «mano tesa fra rive senza ponte», appropriandomi dell’immagine e delle bellissime parole di Mireille Gansel nel suo libro Traduire comme transhumer (préface de Jean-Claude Duclos, Calligrammes Bernard Guillemot, Rennes 2012), di cui la stessa traduttrice italiana, Claude Cazalé Bérard, sottolinea l’importanza nella sua appassionante e commossa Postfazione :

Tradurre – e quindi ascoltare, accogliere e trasmettere per allargarne l’ascolto, rafforzarne la memoria – quei frammenti di vita e di scrittura grondanti di umana compassione, densi di esperienze condivise in situazioni di estremo pericolo (dalla DDR al Vietnam…), e tuttavia pieni di pudore e di doloroso stupore per quelle tragedie dei tempi oscuri di un Novecento colpevole di stermini e di genocidi.

     Tradurre per capire l’altro fino in fondo, nei più segreti recessi del suo linguaggio, per offrire una mano soccorrevole sopra l’abisso, lì dove non esistono più ponti, per farsi traghettatrice di parole, di testi e di culture minacciati di cancellazione, ma sempre con infinito rispetto, umiltà, semplicità, ben lungi dalle retoriche dominanti, dalle commemorazioni ufficiali, dalle speculazioni mediatiche: questo è il compito, anzi l’impegno morale che Mireille Gansel si prefisse, fin dai primi passi in una realtà ancora segnata dalle ferite delle guerre, in cerca di quello che rimaneva di umano, di vero, di bello sotto le macerie. Questa la sua lezione per chi si accinga a tradurla. Ma leggere e tradurre Mireille Gansel vuol dire anche apprendere, attraverso il suo rigoroso tirocinio, che non ci si accosta a un testo, a un’opera, a un autore senza un duplice approccio, quello della lingua e quello dell’essere al mondo di chi la vive, la parla, la scrive: dietro c’è sempre l’altro, lo straniero, l’umano nella sua diversità e il desiderio d’incontrarlo.

(C. Cazalé Berard, Posfazione a M. Gansel, Traduzione come transumanza, Pacini, Pisa 2014, p. 87).

I poeti che presenterò, in traduzioni originali, non seguiranno alcun ordine cronologico, saranno affidati al « caso » degli incontri, delle suggestioni, dei destini incrociati in qualità di semplice lettrice e « passante », nel senso attivo, transitivo del nome. Tuttavia, se sarà possibile ravvisare un sottile filo rosso che unisca le presenze, tutte vive, fertili, dei poeti in lingua francese di ieri e di oggi, questo sarà senza dubbio scaturito da una sorta di patria comune, dalla fede cioè nella universalità della poesia come resistenza e resilienza. E ancora. Rispondere con e attraverso la poesia alla barbarie dei tempi, di tutti i tempi. Lingua interiore, voce privata che si fa universale.

E forse non è un caso che questa prima voce, quella del poeta Jean-Claude Izzo, arrivi dal Mediterraneo. « Isola» di acque e terre dalle molteplici civiltà, culture, lingue, di contraddizioni, naufragi e sbarchi, di paure e sbarramenti, di accoglienze e passaggi, putroppo oggi ancor più dolorosamenti evidenti, di cui lo stesso poeta esplicita e rivendica, in modo inequivocabile, la sua appartenenza :

 karel-teige-collage-1937-19401

karel-teige-collage-1937-19401

Appartengo al Mediterraneo. Questo mare lo vivo, lo respiro, lo sogno, lo penso da un solo punto di vista. Quello di Marsiglia. La città dove sono nato per un caso dall’esilio di mio padre, napoletano e da mia madre, andalusa. Rivendicando tale appartenenza, rientro – ne ho piena coscienza e voi avete il diritto di saperlo – nelle categorie delle nuove « classi pericolose », così come sono definite da un importante rapporto (importante per l’avvenire dell’Europa) della Banca Mondiale. E poi ancora, arbitrari, fanatici, violenti. E anche, evidentemente, miserabili. Questo rapporto dice che siamo, noi del Mediterraneo, numerosi, indisciplinati certo migranti. Sempre in questo rapporto, la Banca Mondiale suggerisce all’Europa di erigere fra il Nord e il Sud, un confine moderno, come un ricordo della frontiera fra l’Impero Romano e i Barbari. Domani, quando il secolo si sarà spostato dalle parti di Maastricht e applicheranno allora le direttive della Banca Mondiale, parafrasando Erri De Luca, potrò allora cominciare un romanzo con queste parole : «Appartengo a un paese e a un mare barbari. Sì, forse, sfortunatamente. Eppure, dritto in piedi davanti alla diga Santa-Maria, con il volto verso il largo, e lasciando vagare i miei occhi sull’orizzonte di carghi in partenza, persisto nel mio punto di vista. Da Marsiglia, nel Mediterraneo. Sono esistite Alessandria e Tangeri. Marsiglia esiste ancora oggi. Sola, unica dunque. E bene o male, ancora in piedi. Ultima sopravvivenza degli incroci di uomini e di culture. E di fronte alle fratture, alle frantumazioni, alle frammentazioni che hanno caratterizzato e caratterizzano la storia di questo mare e delle sue due sponde, credo che il punto di vista di Marsiglia sia la sola risposta moderna alle nostre aspirazioni.  Bisognerebbe rileggere L’Esilio di Elena di Albert Camus. Come un breviario : «In questi luoghi si può comprendere che se i Greci sono arrivati alla disperazione, è stato sempre attraverso la bellezza, e in ciò che vi è di opprimente. In questa infelicità dorata, culmina la tragedia. Il nostro tempo, al contrario, ha nutrito la sua disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. È per questo che l’Europa sarebbe ignobile, se il dolore potesse mai esserlo».  Era il 1948. Cinquant’anni dopo, lo riaffermo, se c’è un avvenire in Europa, una bellezza per l’avvenire, è in quello che Edouard Glissant chiama « la creolità mediterranea ». Questo sguardo altro sul mondo. È tutto in questo. Fra il vecchio modo di pensare, economico, separatista, segregazionista (della Banca Mondiale e dei capitali privati internazionali) e una nuova cultura, diversa, meticcia, in cui l’uomo resta padrone del suo tempo e del suo spazio geografico e sociale. Appartengo al Mediterraneo, dicevo. Tengo per mano le mie due sponde. E Oriente e Occidente. Mi dilanieranno, forse, ma l’Europa non mi farà mai abbandonare una per l’altra. Perché rivendico l’insegnamento unico di questo mare : più ci si arricchisce di culture, più il pensiero  si allarga, più il mondo si apre a noi, e più l’altro – l’altro mediterraneo, africano, asiatico e latino-americano – ci è vicino. Fratello umano. È così che penso, come il bastardo di una storia cominciata qui, a Marsiglia, duemilaseicento anni fa.

 (articolo apparso in «Télérama» del 1998; mia traduzione)

Jean Claude Izzo

Jean Claude Izzo

JEAN-CLAUDE IZZO : un ponte sul Mediterraneo

L’opera poetica di Jean-Claude Izzo (1945-2000) è pressoché sconosciuta in Italia, a parte la traduzione di qualche poesia nel bel volume di Stefania Nardini, Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese, Perdisa Editore, Bologna), 2010, della poesia Terra profana da me tradotta per il blog « Poesie senza pari » di Francesco Dalessandro (6 febbraio 2013 : http://poesiesenzapari.blogspot.fr/2013/02/jean-claude-izzo.html) e di qualche altra traduzione sparsa nell’etere (una traduzione antologica più cospicua presenterò al Seminario « Traduction et traductologie », organizzato da C. Mileschi e C. Cazalé all’Université de Paris Ouest Nanterre La Défense il 13 marzo). In Francia  quasi tutti i suoi libri di poesia sono di difficile reperibilità o esauriti, tuttavia le sue prime prove sono poetiche, il primo libro, Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta, presso P. J. Oswald) è una raccolta di poesia. E la sua ultima testimonianza, il 7 gennaio 2000, pochi giorni prima di morire è una poesia, Plage du Prophète (Spiaggia del Profeta). Marguerite Tiberti sottolinea con esattezza questa predilezione : « Jean-Claude affermava di non sapere perché scrivere poesia gli era necessario. Che gli procurava più piacere scrivere storie. Scrivere romanzi. Ma che era nella poesia che avvertiva la gioia delle parole. Una gioia associata al rischio di confrontarsi con quello che c’è di più vivo nella lingua, con la parola che non può sostituirsi all’altra. Diceva che la poesia gli era indispensabile per rimanere fedele, il più possibile fedele, all’innocenza » (in Hommage à Jean-Claude Izzo, « La pensée de midi », 2000/1 (N. 1), Actes Sud, pp. 168-180, in part. p. 172). D’altronde, anche il nome del suo famoso poliziotto, Fabio Montale, è un omaggio alla poesia (e alle sue origini italiane).

Jean Claude Rizzo L'arideFiglio infatti di un immigrato italiano, Salvatore Izzo e di Isabelle Navarro, francese di Marsiglia, figlia di immigrati spagnoli, Jean Claude Izzo, inizia a scrivere poesie e storie prestissimo, tuttavia viene indirizzato verso una scuola professionale. Nel 1963 entra come commesso in una libreria e diventa militante del movimento cattolico per la pace «Pax Christi»; l’anno successivo, chiamato a fare il servizio militare, parte per Tolone, poi è arruolato a Gibuti. Si occupa di fotografia e scrive per il giornale dell’arma. Al suo ritorno, nel 1966, riprende il lavoro e l’attività in seno al movimento «Pax Christi», dove incontra Marie Hèlene Bastianelli. Insieme entrano nel PSU (Partito socialista unificato). Nel giugno 1968, Jean Claude è candidato alle elezioni legislative a Marsiglia per il PSU e due mesi più tardi aderisce al PCF. Jean Claude ed Hèlene si sposano (marzo 1969) e si stabiliscono a Marsiglia, dove Izzo continua a militare attivamente nel PCF collaborando a «La Marseillaise Dimanche», inserto del quotidiano regionale comunista. Nel 1970, con la moglie, lascia Marsiglia e si stabilisce a una cinquantina di chilometri della grande città, nel villaggio di Saint Mitre les Remparts; lo stesso anno pubblica la sua prima raccolta di poesie Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta) presso P. J. Oswald, trova lavoro come bibliotecario al “Comité d’Entreprise de BP Lavéra” e nello stesso tempo continua a scrivere numerosi articoli per «La Marsellaise». Nel 1971 pubblica La Commune de Marseille (La comune di Marsiglia) nella rivista «Europe». Scrive un testo teatrale per la liberazione di Angela Davis che sarà rappresentato da César Gattegno e dalla “Compagnie du Rocher”. Assunto l’anno successivo come giornalista a «La Marseillaise», cura una pagina speciale quotidiana dedicata alla costruzione del cantiere di Fos, dove dovrebbero essere installate delle officine siderurgiche e pubblica una nuova raccolta di poesie: Terre de Feu (Terra di fuoco; P. J. Oswald). Nel novembre nasce suo figlio, Sébastien. Nel 1974 pubblica la raccolta di poesie Etat de veille (Stato di veglia; P. J. Oswald), diventa redattore capo aggiunto, responsabile della rubrica cultura di «La Marsaillaise» e corrispondente ufficiale del giornale al Festival di Avignone. Seguono, negli anni immediatamente successivi, le raccolte Braises, brasiers, brûlures (Braci, bracieri e bruciature; con le illustrazioni  di E. Damofli, 1975), Paysage de femme (Paesaggio di donna; Guy Chambelland) e Le rèel au plus vif (Il reale al più vivo; Guy Chambelland, 1976). Nel 1978 esce il romanzo Clovis Hugues, un rouge du midi (Clovis Hugues, un rosso del Midi) presso J. Laffitte;  alla fine dell’anno lascia il PCF e si separa dalla moglie. Qualche mese più tardi, all’inizio del 1979, lascia «La Marseillaise» e per un anno vive in grandi difficoltà economiche. 

Nel 1980 fa i suoi primi passi nel giornale « La Vie Mutualiste », di cui sarà poi redattore fino al 1985 (la rivista che prenderà poi il nome di « Viva », di cui sarà caporedattore fino alle sue dimessioni, il 31 luglio 1987), animatore alla radio « Forum 92 », partecipa alla creazione della rivista poestica « la Revue Orione » con Bruno Bernardi. Scrive in diverse riviste e giornali e partecipa all’organizzazione di numerosi avvenimenti letterari, fra cui il « Carrefour des Littératures Euroéennes » di Strasbourgo, il « Festival du Polar » di Grenoble e il « Festival Etonnant Voyageur » di Saint-Malo. Delegato generale dei « Rencontres Goncourt des Lycéens » nel 1991 e 1992,  direttore della comunicazione del festival « Tombées de la Nuit » (a Rennes) dal 1992 al 1994, si cimenta in diverse sceneggiature per film, come « Una mort Olympique » e « Les Matins Chagrins », nonché nella redazione di testi per canzoni su musiche di Jean Guy Coulange. Nel 1995, spinto da Michel Le Bris e Patrick Raynal pubblica nella « Série Noir » di Gallimard Total Khéops, che ottiene molto presto un grandissimo successo e diversi premi e di cui pubblicherà il séguito nel 1996: Chourmo (Chourmo. Il cuore di Marsiglia). Lascia Parigi e si stabilisce a Saint-Malo con Laurence Rio, responsabile culturale della città.  Nel 1997 pubblica la raccolta di poesie Loin de tous rivages (Lontano da ogni riva), con le illustrazioni di Jacques Ferrandez e il romanzo Les Marins Perdus (Marinai perduti), oltre a numerosi racconti apparsi in diverse antologie. Ritorna poi definitivamente in Provenza con la sua compagna, a Ceyreste presso La Ciotat.  Nel 1998 esce Soléa, tuttavia, nonostante le forti sollecitazioni di Gallimard,  rifiuta di dare séguito alle avventure di Fabio Montale. Nello stesso anno comincia a scrivere Le Soleil des Mourants (Il sole dei morenti) e si separa da Laurence. Durante l’estate, già malato, ha delle difficoltà a continuare il romanzo iniziato, incontra Catherine Bouretz, fotografa, che sposa nel febbraio 1999. Pubblica una nuova raccolta di poesie L’Aride des jours (L’arido dei giorni), illustrata dalle fotografie della moglie e la coppia si stabilisce a Marsiglia. Malgrado la malattia, Jean Claude partecipa a numerosi avvenimenti letterari e riesce a terminare Il sole dei morenti che uscirà nel settembre 1999.
Muore il 26 gennaio 2000.

Da allora numerose esposizioni gli sono state dedicate come « Un poète dans la marge : Jean-Claude Izzo » per il « Salon du polar » di Montigny-lès-Cormeilles nel dic. 2000 (foto di Catherine Izzo, Daniel Mordzinski e Dominique Peraldi ; disegni di Jacques Ferrandez ; serigrafie di Joelle Jolivet) ; « Le Marseille de Izzo » (fotografie di Daniel Mordzinski, 21/06/01-08/07/01)  e, a dieci anni dalla sua scomparsa, « Portrait d’un homme du Sud : Jean-Caude Izzo », realizzata dall’associazione « Mémoires Vivantes » del figlio, Sébastian Izzo (febbraio-aprile 2010, Châteauneuf-les-Martigues e Marsiglia). In Italia si può ricordare il « Jean-Claude Izzo Festival » del luglio 2009 (Castel San Giorgio, Salerno ; sezione cinematografica a c. di Marco Pistoia, sezione letteraria curata da Brigida Corrado : www.jeanclaudeizzofestival.it ) durante il quale è stata trasmessa una video-testimonianza (intervista realizzata da Brigida Corrado) di Andrea Camilleri che sottolinea l’impegno e la grande discrezione dello scrittore e dell’uomo. L’8 febbraio 2006 Marsiglia gli intitola un Collège : http://www.clg-izzo.ac-aix-marseille.fr/spip/

Jean Claude Izzo

Jean Claude Izzo

Jean-Claude Izzo è ricordato, anche in Italia, soprattutto per la cosiddetta « trilogia marsigliese », composta dai noir : Total Khéops, Gallimard, Série Noire, 1995, riedizione 2001 Folio (Casino totale, trad. di B. Ferri, Edizioni e/o, 1998); Chourmo, Gallimard, Série Noire, 1996  (Chourmo. Il cuore di Marsiglia, trad. di B. Ferri, Edizioni e/o, 1999)  e Soléa, Gallimard, Série Noire, 1998 (Solea, trad. di B. Ferri, Edizioni e/o, 2000), tutti aventi come protagonista e voce narrante il commissario Fabio Montale. Dalla trilogia è stata tratta una serie di 3 film per la TV dal titolo « Fabio Montale », per la regia di José Pinheiro (2001).

Fra gli altri romanzi, si possono ricordare : Clovis Hughes, un rouge du Midi (Clovis Hughes, un rosso del Midi ; J. Laffitte, 1978, riedizione 2001 J. Laffitte ) ; Les marins perdus (Flammarion, 1997 ; Marinai perduti, trad. di F. Doriguzzi, Edizioni e/o, 2001) ; Vivre fatigue (Librio, 1998 ; Vivere stanca, trad. di F. Doriguzzi, Edizioni e/o, 2001) ;  Le soleil des mourants (Flammarion, 1999 ; Il sole dei morenti, trad. di F. Doriguzzi, Edizioni e/o, 2000) ; Un temps immobile (Filigrane Editions, 1999) ; La Méditerranée en fragments (Maison méditerranéenne des sciences de l’homme, 2000 ; Frammenti di Mediterraneo, in Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo francese, Mesogea, 2000) ; Marseille (Hoëbeke, 2000 ; Aglio, menta e basilico, trad. di G. Panfili, Edizioni e/o, 2006).

Bibliografia poetica: Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta), P. J. Oswald, 1970 ; Terre de feu (Terra di fuoco), P. J. Oswald, 1972 ; Etat de veille (Stato di veglia), P. J. Oswald,1974 ; Braises, braisiers, brûlures (Braci, bracieri, bruciature) 1975, illustrazioni di E. Damofli ; Paysage de femme (Paesaggio di donna), Guy Chambelland, 1975 ; La reél au plus vif  (Il più vivo reale), Guy Chambelland, 1976 ;-Loins de tous rivages (Lontano da ogni riva), Ed. du Ricochet, 1997, riedizione 2000 Ed Librio ;  e L’aride des jours (L’arido dei giorni), Ed. du Ricochet, 1999 raccolta illustrata con le fotografie di Catherine Bouretz-Izzo.

Cfr. Hommage à Jean-Claude Izzo, in « La pensée de midi », 2000/1 (N. 1), Actes Sud, pp. 168-180 e Stefania Nardini, Jean-Claude Izzo. Storia di un marsigliese, Perdisa Editore, Bologna (prossimamente anche per e/o).

Sito ufficiale di Jean-Claude Izzo (in francese, da cui ho tratto la maggior parte delle notizie biografiche e biobibliografiche) : http://www.jeanclaude-izzo.com/ Altri siti di interesse relativi all’autore : http://authologies.free.fr/izzo;

Ascolta : « La visione di Jean-Claude Izzo ». Con Gianmaria Testa, Massimo Carlotto, Bruno Arpaia, Stefania Nardini e Bruno Crovi. Palazzo Ducale,   Genova 11 Novembre 2011 : https://www.youtube.com/watch?v=uMld9k7y-38

karel-teige-collage-48-1938

karel-teige-collage-48-1938

 Traduzione di Annalisa Comes

Traduire comme transhumer 

Cominciando dalla fine… L’ultima poesia di Jean-Claude Izzo scritta il 7 gennaio 2000, poco prima di morire: Plage du Prophète,  recitata in musica dall’amico Gianmaria Testa, nel CD Il valzer di un giorno, nell’ed. distribuita da HarmoniaMundi/Egea 2001  (La valse d’un jour, Ed. Le Chant du monde, 2001). La spiaggia del Profeta è una delle spiagge più antiche di Marsiglia, incorniciata fra il vecchio porto e le spiagge di Gaston-Deferre, luogo familiare a tutti i marsigliesi, dove i bambini imparano a nuotare.

 

Plage du Prophète à Marseille
Ils se sont arrêtés

D’abord la fille aux yeux gris verts
Des mers du Nord
Et au sourire mûri sur les berges du Nil
L’ami ensuite
Le poète des Hauts Pays
Attentif aux murmures des passeurs
Sur les sentiers arides des exils
Le plus âgé enfin
Homme aux semelles de vent
Tantôt Afghan, tantôt Mongol
Porté par des mondes d’hier entrevus

Plage du Prophète
Ils ont porté leurs pas
Vers le soleil couchant

Une vague est venue lécher leurs pieds
Bénédiction du Prophète
Prophète anonyme
De ceux qui croient
Aux vérités de la beauté

Plage du Prophète
Du Prophète

(Ascolta la poesia recitata in musica dall’amico Gianmaria Testa: http://www.dailymotion.com/video/xje69_plage-du-prophete0001_travel )

.
Spiaggia del Profeta a Marsiglia
Qui si sono fermati.

Prima la ragazza dagli occhi grigio-verdi
Dei mari del Nord
E dal sorriso maturato sugli argini del Nilo
Poi l’amico
Il poeta dei Paesi Alti
Attento ai bisbigli dei traghettatori
Sui sentieri aridi dell’esilio
Infine il più vecchio
Uomo dalle suole di vento
Tanto Afgano quanto Mongolo
portato da mondi di ieri che ha intravisto

Spiaggia del Profeta
Hanno portato i loro passi
Verso il sole al tramonto

Un’onda è arrivata a lambire i loro piedi
Benedizione del Profeta
Profeta anonimo
Di coloro che credono
Alle verità della bellezza

Spiaggia del Profeta
Del Profeta

(7 gennaio 2000)

*

Braises de la mémoire VI

Terre.
Gisent les hommes dans les villages défaits.
Cimetières.
Aux fenêtres des maisons tombent les pierres d’angle.
Larmes.
Larmes, et pierres sur pierres, les ruines s’érigent.
Cri – trou que font mes lèvres dans l’opacité bleue pour rompre le silence, pour
rendre la parole à ces heurs dans le plain-chant du soleil. Et les coquelicots enfin
rendus à leur éphémère splendeur.
Terre.
Là.

.
Braci della memoria VI

Terra.
Giacciono gli uomini nei villaggi disfatti.
Cimiteri.
Dalle finestre delle case cadono le pietre angolari.
Lacrime.
Lacrime, e pietre su pietre, si innalzano le rovine.
Grido – buco che fanno le mie labbra nell’azzurra opacità per spezzare il silenzio, per
restituire la parola a queste ore nella pianura-canto del sole. E i papaveri
restituiti al loro effimero splendore.
Terra.
Laggiù.

.
*

karel-teige-collage-701939

karel-teige-collage-701939

Da Loin de tous rivages (Lontano da ogni riva), Illustrations de Jacques Ferrandez, les Editions du Ricochet, 1997, pp. 41-48; sezione Approche du lointain (Da vicino, la lontananza). Spazio e tempo si coagulano nella luminosa aridità del Midi; in una lingua incisiva e ‘semplice’, disseccata, forgiata al fuoco del Sud, il poeta ci racconta il suo amore per una terra che non è decoro, ma pura essenzialità e dove la presenza dell’uomo sembra marginale. Qui, attraverso una memoria dalle connotazioni scabre, quasi bibliche, sembra aver inizio la Storia.

Approche
du lointain

Un coup de bêche, au loin,
dans la sécheresse
à vif
de la terre –
ou bien était-ce un cri? –

Le silence rompt l’anonymat.

Ni visage ni nom
et la bêche et le cri:
et la terre fendue,
brèche de lumière fertile.
*

Da vicino,
la lontananza

.
Un colpo di vanga, in lontananza,
nella siccità
nel vivo
della terra –
o era un grido?-

Il silenzio rompe l’anonimato.

Né viso né nome
e la vanga e il grido:
e la terra spaccata,
breccia di luce fertile.

*

La rumeur des heures
est au faîte
des plus hauts débris.

Mes pieds dans l’ombre d’un ruisseau.

Le temps semble contenu
dans cette sécheresse
assoiffant l’eau à même les fontaines.

Les derniers feux ont eu lieu.
Il n’y a plus rien à bruler,
pas même un cep ni même un sarment.

La mort s’accomplit:
saison régnant
à contre soleil.

*

Il rumore delle ore
è in cima
delle più alte macerie.

I miei piedi nell’ombra di un ruscello.

Il tempo sembra contenuto
in questa siccità
assetando l’acqua stessa delle fontane.

Ci sono stati gli ultimi fuochi.
Non c’è più niente da bruciare,
né un ceppo né un tralcio.

La morte si compie:
stagione regnante
controsole.

*

Ou bien d’un chien était-ce le cri?
Survivance:
le chien appelle l’homme
et l’homme, seul,
nomme les outils nécessaires.

Le silence implique le souvenir.

Complice silence
qui inventorie la poussière
du champ à la ferme,
jusqu’au repos de l’air.
*

O forse era il grido di un cane?
Sopravvivenza:
il cane chiama l’uomo
e l’uomo, solo,
nomina gli arnesi necessari.

Il silenzio implica il ricordo.

Complice silenzio
che inventaria la polvere
dal campo alla fattoria
fino a che l’aria si riposa.

Cadavre exquis – André breton,Valentine Gross, Tristan Tzara, Greta Knutson – 1933

Cadavre exquis – André breton,Valentine Gross, Tristan Tzara, Greta Knutson – 1933

Les pierres enferment l’espace,
l’emprisonnent:
au travers des façades éventrées
le ciel cherche l’issue.

Des pas résonnent: les miens, inlassablement.

Ombre de garde
dans ce jour sans ombre,
je veille.

La lumière est triste,
asséchée de ses rêves.
Et les rêves survivent à même l’immobilité.

Mes pas sonnent un temps de mort,
battant la mémoire
pour en faire jaillir le sang.

*

Le pietre chiudono lo spazio,
lo imprigionano:
attraverso facciate sventrate
il cielo cerca la sua via d’uscita.

Risuonano i passi: i miei, instancabilmente.

Ombra di guardia
in questo giorno senz’ombra,
veglio.

La luce è triste,
prosciugata dei suoi sogni.
E i sogni sopravvivono alla stessa immobilità.

I miei passi suonano a morto,
battono il tempo della memoria
per farne sprizzare il sangue.

*

Ou bien était-ce le cri de mon corps
fouillé dans sa chair
jusqu’à sa source douloureuse?
Plaie ouverte?
Et les heures suppurant de ciel bleu.

Le silence fait écho au silence.

Était-ce ailleurs, jadis?
Les ronces ne savent pas,
le ciel se tait et le soleil consentant
détourne son regard.

*

O forse era il grido del mio corpo
frugato nella sua carne
fino alla sua fonte dolorosa?
Piaga aperta?
E le ore in suppurazione di cielo azzurro.

Il silenzio fa eco al silenzio.

Era altrove, un tempo?
I rovi non sanno,
il cielo tace e il sole consenziente
gira lo sguardo.

*

Mes mains sont vides
mais chaudes, et gorgées de sang, larges
et ouvertes aux questions sans réponse, avides.

Saisir le temps dans sa course, dans son envol de midi.

Alors fouiller
jusqu’au désespoir la trame de jours,
la défaire.

Ciel contre terre,
eau contre soleil,
heure après heure.

Là, entre les cyprès vigilants,
ma bouche demande dans un rêve tenace
si mon peuple aura un ici, maintenant.

*

Le mie mani sono vuote
ma calde, e gonfie di sangue, larghe
e aperte alle domande senza risposta, avide.

Afferrare il tempo nella sua corsa, nel suo volo di mezzogiorno.

Allora frugare
fino alla disperazione la trama dei giorni,
sfarla.

Cielo contro terra,
acqua contro sole,
ora dopo ora.

Là, fra i vigili cipressi
la mia bocca chiede in un sogno tenace
se il mio popolo avrà un qui, ora.

*

Était-ce d’un chien le cri
ou le cri de mon corps?
Il manque deux heures encore
pour que Midi
assassine le vieux rêve:

Le paysage nu est refus dans sa sécheresse.

Le silence persiste. Et la mort témoigne –
Ou bien était-ce un coup de bêche
dans l’approche du lointain?

*

Era il grido di un cane
o il grido del mio corpo?
Ancora mancano due ore
a che il Mezzogiorno
uccida il vecchio sogno:

Il paesaggio nudo è rifiuto nella sua siccità.

Il silenzio persiste. E la morte testimonia –
O era un colpo di vanga
vicino alla lontananza?

*
Dalla sezione Terre profane (Terra profana)

.
Terre profane.
Le Voyageur s’égare,
pieds nus et pauvre,
dans les chemins de cendre
des brasiers de la Saint-Jean.

Terra profana.
Il Viaggiatore si perde,
povero e a piedi nudi,
nel cammino di cenere
dei falò di San Giovanni.
II
Solstice cruel.
Midi appelle au repos,
au plein silence,
et minuit à la folie,
à l’illisible raison.

*

Solstizio crudele.
Mezzogiorno chiama al riposo,
al pieno silenzio,
e mezzanotte alla follia,
alla non leggibile ragione.

.
III
Cycle des heures
passioné des désastres
où l’air torride
irrigue l’ombre, l’arme
des larmes des astres bleus.

*

Ciclo delle ore
appassionato dei disastri
dove l’aria torrida
irriga l’ombra, l’arma
delle lacrime degli astri azzurri.

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Da L’aride des jours (L’arido dei giorni), Photographies de Catherine Bouretz-Izzo, sezione V, Arête faîtière (Linea di cresta), Éditions du Ricochet, 1999; Librio, 2001, p 21.

.
Soif d’avoir soif. Et l’eau bue jusqu’à la cécité bleue
des océans érigés en écritoire.

Et l’abondance des mots, à blanc,
jusqu’à l’à-pic dérisoire des pages nues.

Ne rien écrire qui ne soit vu.
Ne rien dire qui n’ait été écrit.

Alors, dans ce silence à couper au regard,
s’abreuver
aux seuls chemins qui se refusent
et s’insoumettre à l’ordre des choses.

Alors encore, d’immobilisme
renverser le paysage,
se hisser à l’écume des houles annonciatrices
des jours mourants.

La chute d’une hirondelle
n’empêchera pas le retour du printemps.

*

Sete di avere sete. E l’acqua bevuta fino alla cecità azzurra
degli oceani eretti a scrittoio.

E l’abbondanza delle parole, in bianco
fino al dirupo derisorio delle pagine nude.

Non scrivere niente che non sia veduto
Non dire niente che non sia stato scritto.

Allora, in questo silenzio da tagliare con lo sguardo
abbeversarsi
ai soli cammini che si impennano
e non sottomettersi all’ordine delle cose.

Allora ancora, scrollare
il paesaggio dall’immobilismo,
innalzarsi fino alla schiuma delle onde annunciatrici
dei giorni morenti.

La caduta di una rondine
non impedirà il ritorno della primavera. Continua a leggere

9 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia francese

QUATTRO POESIE INEDITE – IL CICLO DI TROIA di Gino Rago “Ecco  Ecuba  piega il  vecchio corpo”, “Oh Troia, città di donne dall’amara sorte”, “Oh Troia, sventurata città”, “Oh Troia, città in fiamme” con un Appunto dell’autore e un Commento di Giorgio Linguaglossa

figure su cratere

figure su cratere

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Ετοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Ai suoi libri poetici hanno dedicato saggi critici Sandro Gros-Pietro, Giorgio. Linguaglossa, Sandro. Montalto, Luigi Reina, Alfredo Rienzi e altri. Con componimenti lirici e recensioni ha collaborato e collabora con svariate riviste letterarie (Poiesis, Poesia, Polimnia, Vernice, Paideia, La Procellaria, La Clessidra, Hebenon).

Gino Rago Via Y. Gagarin, 21 – Trebisacce (CS)    Email:  ragogino@libero.it

Cratere a figure rosse, Londra, British Museum

Cratere a figure rosse, Londra, British Museum

Nota di Gino Rago a “Ecuba e le altre: metafora delle vittime”

Le liriche dedicate a Troia si basano sul destino dei vinti; meglio, sulla sorte delle donne come bottini di guerra . Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime, dei corpi umiliati e spogliati delle loro identità. Troia in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della  deriva di una terra devastata e di un popolo umiliato.

La sorte dei vinti, né omerica, né euripidea, viene seguita nell’articolazione di una sorta di défilé di tre figure femminili emblematiche: Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste donne («Ecco, piego  questo mio vecchio corpo/ e batto la terra con le mani.», un esempio della potenza di Ecuba.)

Ecuba (gr. ῾Εκάβη) Mitica figlia del re frigio Dimante o di Cisseo, re di Tracia (ma vi furono altre versioni sulla sua discendenza), moglie di Priamo e regina di Troia, madre di 19 figli, fra cui i più noti sono: Ettore, Paride, Deifobo, Eleno, Polidoro, Troilo, Polite, Cassandra, Polissena. Della leggenda di Ecuba tre punti sono specialmente noti dalle tragedie greche: il sogno, la vendetta su Polimestore e la morte. Quando E. era incinta di Paride, le parve di partorire una face che incendiava tutta Troia; il sogno fu interpretato come preannunzio della rovina che Paride avrebbe causato alla città. Con la rovina di Troia la regina dovette seguire Ulisse come schiava, ma venuta nel Chersoneso Tracico, scoprì il cadavere del suo ultimo figlio Polidoro, che con Priamo aveva affidato con molte ricchezze al re Polimestore, il quale lo aveva assassinato. Furente di vendetta chiamò con un pretesto nella propria tenda Polimestore con i figli, e con l’aiuto delle donne troiane prigioniere, uccise i figli e accecò il padre; poi, trasformata in cagna, si gettò in mare.

(Gino Rago Roma, gennaio 2015)

Commento di Giorgio Linguaglossa

Gino Rago è un poeta del Mediterraneo, la sua civiltà ideale è tramontata per sempre e mai più risorgerà. Di qui scocca nel poeta di Trebisacce l’intenzione significante, la ricerca di una patria ideale da far rivivere con l’ausilio della poesia. E la sua patria Rago la ritrova nel passato mitico della guerra di Troia e nelle sventure delle donne di quella città. La storia uccide i valorosi e condanna le loro donne ad un universo di dolore. La «forma» generatrice di questa poesia risiede nell’evento, cioè nell’accadimento di ciò che è accaduto e che non potrà più essere revocato. Per sua essenza l’evento è demanio del passato che però ritorna in vita, riprende vita nella «forma» generatrice di poesia. Allora si dice che l’evento si eternizza, si è eternizzato. Ciò che l’analisi critica deve indagare nella poesia di Gino Rago è la «forma interna», quella che volgarmente si indica come «contenuto». Tale forma non è la composizione letteraria dell’opera poetica, né il significato che essa contiene, ma il compito che la produce, l’idea che si effettua in essa. «Compito» e «idea» non si identificano affatto con il modo in cui il poeta risolve il proprio compito poetico, con la disposizione personale, con la sua Weltanschauung, bensì con la particolare intenzionalità che abita la poesia stessa, con l’oggettualità della produzione poetica. Walter Benjamin cita un passo di Novalis: «Ogni opera d’arte ha in sé un ideale a priori, una necessità di esistere». Questo «a priori» della poesia è il «poetato» (Gedichtete), l’unità sintetica di forma e contenuto che mostra la loro immanente connessione, la struttura intuitivo-spirituale del mondo che la poesia testimonia. La «forma interna» di queste poesie di Gino Rago è modellata sulla forma esterna del mito, è l’immagine mitica che genera la «forma interna», essa è dunque struttura generatrice, «a priori» che si realizza, è la legge di produzione del contenuto. Benjamin intende il Gedichtete come concetto limite (Grenzbegriff) che indica lo Ubergang (passaggio) tra l’ordine della vita e quello della poesia, tra le loro rispettive «unità funzionali». In questo modo il Gedichtete, in quanto Grenzbegriff, ha carattere metodico, la sua comunicazione rimane, dice Benjamin, una «meta ideale». La sua funzione è quella di mostrare la «sfera della relazione tra opera d’arte e vita», ma indica anche l’impossibilità di un rapporto immediato tra i due termini: tutti gli elementi sensibili ed ideali, attraverso lo schema del Gedichtete perdono la loro apparenza di sostanzialità per configurarsi come Inbegriffe (aggregati) di «funzioni essenziali per principio finite». È questa la legge di identità dell’apriori della poesia di Gino Rago, il suo codice segreto, che solo può rivelarne le connessioni con la vita. «Forma interna» e «forma esterna» formano i due vasi comunicanti attraverso i quali risuona il discorso poetico.  Attraverso questa «legge», però, gli elementi della vita degli eroi mitici non sono più afferrabili nella loro purezza: l’analisi della poesia identifica ogni unità presente in essa come «funzione di una infinita catena di serie nelle quali il poetato si dispiega». Nella poesia di Gino Rago il poetato è lo schema per cui il mondo della vita diviene «Gestalt» nella poesia, indica il ponte di passaggio tra la forma e il ricordo, l’evento e l’anamnesi.

Cratere a colonnette apulo a figure rosse (particolare) Amazzone Pittore di Ariadne, 400-380 a.C.

Cratere a colonnette apulo a figure rosse (particolare) Amazzone Pittore di Ariadne, 400-380 a.C.

Ecco, Ecuba piega il vecchio corpo

Ecco, Ecuba piega il vecchio
corpo e batte la terra con le mani,
evoca la forza dei defunti
prima del giorno della schiavitù:
e con Ecuba noi attendiamo Aurora,
la dea che giù diffonde il giorno
chiaro, la dea dalle ali bianche
che vedrà un paese in fiamme
e la città di Dardano devastata. Le coste
del mare risuonano di urla
per la terra di Priamo messa a ferro
e a fuoco. Noi siamo qui
per Ecuba, la regina privata
del trono, per le fiamme del rogo
finale, per i cadaveri sanguinolenti:

quale tribunale potrà
mai riparare la catastrofe di questa donna…
Unica consolazione all’imprecazione,
all’urgenza dolente del dirsi la sorte
è lavare Astianatte nell’acqua di Scamandro
e seppellirlo non già nella pietra
né in una cassa di legno
ma nello scudo bronzeo di Ettore
con la sagoma del suo braccio muscoloso.
E una nuvola di cenere si alza verso il cielo:
le case annientate, la furia del fuoco
dentro i palazzi, il sangue di Ilio
a urlare nel vento.

Gino Rago

Gino Rago

Oh Troia, città di donne dall’amara sorte

Oh Troia, città di donne
dall’amara sorte , noi non siamo qui
a cantare il gesto del figlio di Teti,
né per l’atto atroce contro Astianatte
scagliato con furia per le mura d’Ilio
per porre fine alla stirpe troiana:
noi siamo qui – e già lo affermammo –
per Ecuba, unica fra tutte le prede di guerra
a svelare il disegno di Elena
amante dei lussi e dell’adulterio:
Paride non c’entra in questa storia
che fece d’Ilio il regno
della morte; noi siamo qui per Ecuba
che verso il mare avanza
con le prigioniere, l’unica voce a dire

senza pianto: «Infelici, sollevatevi
da terra, drizzate la testa, alzate
lo sguardo: Priamo è morto,
Ettore non è con i vivi e il figlio
di Andromaca è qui senza vita
fra le mie braccia. Ilio più non esiste,
la fortuna ha mutato il corso e a noi
navigare tocca secondo il destino
e la corrente voluta dai forti. Da oggi
Troia è senza Re, senza Regina,
senza padri, mariti e figli.»
Oh Ilio, città di donne
ridotte a bottino di guerra, noi siamo qui
per Ecuba: incendiate le Mura, distrutti
i sacri Lari, perduti affetti e beni
alta mantenne la dignità umana,
un monito severo per tutti gli Ateniesi
memori del sacco all’isola di Melo.

Particolare del coperchio del cratere apulo

Particolare del coperchio del cratere apulo

Oh Troia, sventurata città

Donne di Troia, città sventurata,
non siamo qui per celebrar la gloria
né l’eroismo
di chi ha vinto. Qui siamo
con il cuore diviso dagli eventi
a denunciare
disperazioni, macerie, stragi,
ad abbracciar nelle rovine
il dolore dei vinti.
Noi siamo qui per Andromaca,
per Cassandra: qui siamo
in special modo per Ecuba
destinata dai forti a Odisseo,
per Ecuba in lacrime
sulla spiaggia di Troia
già nelle mani dei Greci.
Noi sulla rena udimmo
i lamenti di Andromaca.
E con lei piangemmo
la sventura di Troia
indirizzando i passi
verso le navi gonfie degli Achei…

Gli uomini uccisi, le donne
in attesa di sapere i nomi dei vincitori
cui essere assegnate
come schiave: qui Ecuba udì
il triste lamento di Andromaca in lutto:
«Per me più non esiste
nemmeno ciò che rimane alla gente
alla fine dei giochi: la speranza.»

Di Cassandra e Agamennone –
che invaghitosi di lei
la volle schiava e amante –
presso gli ateniesi
non apprendemmo nulla
né le troiane vollero parlare…

Priamo ed Ecuba, seduti sul trono, ricevono la triste notizia della morte del loro figlio

Priamo ed Ecuba, seduti sul trono, ricevono la triste notizia della morte del loro figlio

Oh Troia, città in fiamme

Donne infelici di Troia, città
in fiamme, noi siamo qui contro
la crudeltà dei forti
nell’atto d’ accusa levato dai vinti
che nessuno ascolta.
Noi siamo qui
non già per salire sul carro dei forti
né per lodare
l’ardore di Patroclo, l’ira di Achille,
la superbia del Re degli Achei:
noi siamo qui
per il forte richiamo di Ecuba
piegata dal pianto della Regina:
«Mio Ettore, avevo in te trovato
l’ideale compagno . Spiccavi
per valore, per sapienza e stirpe.
Vergine mi prendesti
dalla casa di mio padre, per primo
mi conoscesti nel talamo
nuziale. Ora Troia è in fiamme,
mia città sventurata
presa con l’inganno. E tutto è perduto.»

Donne di Troia, città di macerie
fumanti, noi siamo qui
per gridare la sorte dei vinti,
delle donne umiliate
sul teatro d’azione della riva
di Troia caduta
nelle mani dei Greci,
ma nulla da tempo sappiamo
del destino di Andromaca
dai forti assegnata a un padrone
noto agli Achei come Neottolemo…
Troiane, noi siamo qui
per il dolore di Priamo
su Ettore suo senza respiro:
noi siamo qui fra rovine fumanti
oh donne di Troia, città nelle fiamme,
all’ombra di Ecuba prona agli dèi
per fare nostra la sua disperazione.

8 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

UNA POESIA INEDITA di Stefanie Golisch “Breve elenco dei destini” con traduzione dell’autrice in tedesco e versione in inglese di Peter Douglas con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Ferdinando Scianna fotografia

Ferdinando Scianna fotografia

 Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia.
Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014.

Commento di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Stefanie Golisch è il luogo della duplicazione e della moltiplicazione di ogni forma, in essa i “mondi” si compenetrano, si identificano ma solo come identità di relazioni, unità di funzioni; sono trans-significati. Questa “compenetrazione” ha luogo perché qui il poeta non sta di fronte alla morte ma si è posto nel centro di ogni relazione dove ogni cosa viene ricondotta all’unità di un morto mondo poetico. Non dunque l’incapacità di dare Gestalt alla vita è la povertà del poeta, ma il riuscirvi, il riunire ogni forma nella morte della Forma, dove l’estensione spaziale della versificazione si converte nella interversione del poeta che sta come al di fuori della poesia, dove le Gestalten diventano musica, ritmo, canto della povertà, poesia della datità. La Golisch qui arriva alla “mancanza di forma” come suprema virtù della Forma stessa. Ma la “mancanza” non è qualcosa che si può attingere, non è l’ancora da plasmare, è una assenza, una cesura che delimita internamente ogni Forma, è il limite interno della Forma che nemmeno il poeta può oltrepassare:

Il suo primo amico era un corvo, il secondo un gobbo.
Biografia di un leopardo era il titolo ambizioso dato alla sua opera prima.
Alla domanda perché l’avrebbe sposata rispose perché il cane non abbaiava, quando ti vedeva.
Poco prima di morire, fece chiamare il parrucchiere. Era curioso di vedersi con i capelli ricci.
La roulette era la sua vita. Il suo sistema era infallibile, ma non indovinava mai.

Forse nessun poeta contemporaneo italiano è giunto con tanta drastica coerenza come la Golisch a un tale risultato, a una totale mancanza di forma che costituisce il trionfo della Forma stessa. L’imperversare della molteplicità dei destini è il codice segreto che costituisce la struttura del “destino”, se così vogliamo dire. Se, come è stato detto, «la rima è la relazione della gioia», qui è proprio la prosa del verso che diventa la relazione della tristezza del poeta, il quale non può giungere fino al punto di dare forma a una struttura che già da tempo immemorabile ha perduto quella proprietà.

 

Breve elenco dei destini

Ognuno è benvenuto

Franz Kafka,  Amerika

Nella vita non era riuscito a combinare nulla. Ma quando usciva di casa, fischiava sempre.
Per cinque anni aveva ricamato il corredo di una futura regina.
Era bello forte violento. Un semidio tra pallidi mortali.
Dopo il primo, maldestro tentativo di amare decise di lasciar perdere.
È andata con tutti. Gli son piaciuti tutti e lei è piaciuta a tutti.
Avrebbe voluto piovere. Essere la pioggia.
In vita ha fatto il pilota d’aereo. Ora fa le parole crociate.
Scrive una lettera, la mette in una busta e si siede accanto alla buca delle lettere.
Oscillava tra il voler sapere e non sapere chi era.
Era veramente brutta. Perdonava tutto e tutti.
Sono la regina della strada. Costo poco. Il mio regno è infinto.
Suo compito era di dire a un certo punto andate in pace. Ma ci credeva poco.
Le piacevano gli uomini sposati. Sapeva che si sarebbe rovinata e così fu.
Il suo primo amico era un corvo, il secondo un gobbo.
Biografia di un leopardo era il titolo ambizioso dato alla sua opera prima.
Alla domanda perché l’avrebbe sposata rispose perché il cane non abbaiava, quando ti vedeva.
Poco prima di morire, fece chiamare il parrucchiere. Era curioso di vedersi con i capelli ricci.
La roulette era la sua vita. Il suo sistema era infallibile, ma non indovinava mai.
Apriva la bocca solo per mentire. Le sue menzogne incantavano mari monti e donne di tutte le età.
Ha sessanta anni, ma i bambini ancora non vogliono giocare con lui.
Quando passeggia lungo il fiume tiene in mano un sogno da ragazza.
Ecco l’uomo in canottiera grigiastra che fuma alla finestra della cucina.
A ottantasei anni attende ancora.
Sebbene non avesse mai letto l’omonimo racconto di Joseph Roth, lui era il Santo bevitore.
Vista l’indiscutibile complessità delle vicende umane, i suoi discorsi tendevano ad aggrovigliarsi.
Da generazioni la parola aveva atteso di essere pronunciata proprio da lui.
Si chiamava Aphrodita. Da ragazza era stata sposata con un uomo che non avrebbe mai amato.
In terza elementare decise che il mondo non avrebbe mai più riso di lui.
La sua bontà era un pozzo senza fondo. A lungo andare stancava.
Non si vergognava di puntare sulla pietà. Le donne adoravano la sua vitale melanconia.
Avrebbe voluto fare tante cose, ma era anche contento di fare niente.
Era matura anzitempo. Arbitro involontario di una coppia di genitori in perenne battaglia.
Alla domanda su cosa volesse fare da grande, rispose: L’accattone. Il suo desiderio fu esaudito.
Qualcuno doveva raccogliere i volti e le voci del suo paese. Non aveva scelta.
Non conosceva affatto sua moglie, ma la trovava molto bella.
All’età di ottantotto anni è morta la sua psicoanalista. Senza aver risolto il caso.
Le sue capre lo chiamavano Goldfinger.
Tutte le domeniche regala al mondo l’immagine perfetta del gran signore.
Per lei la felicità esisteva soltanto quando trovava la giusta parola per essa.
Ogni volta che qualcuno in paese morì, egli fermava orologio a pendola.
Il suo hobby era il modellismo. Adorava i trenini e diffidava delle donne.
Lo avevano chiamato Eros. Come poteva non ubbidire alle leggi del suo dio?
Chiamami, diceva a ogni persona che incontrava. Ma non rispondeva mai.
Mentre lodava la bravura della moglie, si sfogava nelle braccia generose dell’altra.
Gli sarebbe piaciuto essere almeno una volta oggetto di invidia.
All’età di sessantatre anni prese seriamente in considerazione la possibilità di farsi nichilista.
Adorava gli aeroporti. Avrebbe voluto viaggiare senza mai arrivare da nessuna parte.
Le piacevano i film erotici. Erano il suo purgatorio.
Era nata triste. La gente non si fidava di lei.
Il suo motto era: Credere nell’incredibile. Essere incredibile.
È partito. Ritornato. Ci ha provato. Non ce l’ha fatto. È impazzito.
Pazientemente attendeva i baci distratti di cameriere, infermiere, ex-alunne.
Il suo vizio era il gioco. La morte ebbe esattamente la durata di una partita di scopa.
Gli piaceva vantarsi del fatto che suo figlio era stato concepito sotto la doccia.
Era scettica per natura. Sempre vestita bene, ma senza chic. Aveva un segreto.
Raccoglieva vecchie auto e giovani moglie. La terra era leggera sotto i suoi passi.
Con allegra disinvoltura gli piaceva esclamare questa frase: Che fatica essere uomini!
Il giorno in cui un paparazzo l’aveva ripreso insieme a una starlet in via Veneto. Ecco la vita!
Da giovane aveva comprato una valigia. Bisognava essere pronti per la partenza. In ogni momento.

foto Diane Arbus

foto Diane Arbus

A short list of destinies

Everyone is welcome

Franz Kafka, Amerika

He never managed to get anything done. But whenever he went out he was always whistling.
For five years she had embroidered the trousseau of a future queen.
He was handsome, strong and violent. A demi-god surrounded by mere mortals.
After a first, clumsy attempt at love, he decided to leave well alone.
She would have liked to rain. To be the rain.
He had been a pilot in the old days. Now he does crosswords.
She writes a letter, puts it in an envelope and sits down next to the mailbox.
He was caught between wanting to know and not knowing who he was.
She was really ugly. She forgave everything and everyone.
I am queen of the roads. I don’t charge much. My kingdom knows no bounds.
His job was to say at a certain point go in peace. But he had little faith in it.
She liked married men. She knew that it would ruin her, and it did.
His first friend was a raven, his second a hunchback.
“Biography of a Leopard” was the ambitious title of his first work.
When asked why he’d decided to marry her, he replied that the dog didn’t bark when it saw her.
Just before dying he got someone to call the hairdresser. He wanted to see what he looked like with curly hair.
The roulette wheel was his life. He had an infallible system, but he never got it right.
He opened his mouth only to lie. His mendacity charmed seas, mountains and women of all ages.
He’s sixty years old, but children still don’t want to play with him.
When she walks by the river she holds her girlhood dream by the hand.
There’s the man in the greyish vest, smoking at the kitchen window.
He is eighty-six and still waiting.
Even though he had never read Joseph Roth, he was the Holy Drinker.
Given the infinite complexity of events, she never stopped talking.
For generations the word had been waiting to be uttered just by him.
Her name is Aphrodite. When she was a girl she’d been married to a man who she would never love.
He could have done many things, but he was also happy doing nothing.
In the third grade he decided that the world would never make fun of him again.
His goodness was a bottomless well. It was tiring in the long run.
He wasn’t ashamed to play the pity card. Women adored his passionate melancholy.
She had to grow up quickly. The unwilling arbiter of warring parents.
When asked what he wanted to do when he grew up, he replied, “A beggar.” And his wish was granted.
Someone had to collect the faces and voices of his town. He had no choice.
He didn’t know his wife at all, but he found her very beautiful.
His goats would call him Goldfinger.
Every Sunday he presented the world with the perfect figure of the perfect gentleman.
It was only possible for her to be happy when she found the right words for it.
Every time someone in the town died he would stop the grandfather clock.
He would have liked to have been the object of envy at least once.
His hobby was making models. He loved model trains and he mistrusted women.
They had called him Eros. How could he not obey the laws of his god?
Call me, he told everyone that he met. But he never picked up the phone.
While praising his wife’s virtues, he would give himself to the warm embrace of another.
At the age of sixty-three he seriously considered the possibility of becoming a nihilist.
He loved airports. He would have liked to travel without ever getting to a destination.
She liked erotic films. They were purgatory for her.
She was born sad. People didn’t trust her.
Her motto was: Believe in the unbelievable. Be unbelievable.
He patiently waited for the meaningless kisses of waitresses, nurses and ex-pupils.
Her vice was gambling. Her death took precisely as long as a card game.
He liked to boast that his son had been conceived in the shower.
She was skeptical by nature. She always dressed well, but she eschewed elegance. She had a secret.
With happy nonchalance he liked to exclaim: “How tiring it is to be a man!”
The day a paparazzo caught him with a starlet on the Via Veneto. This was life!
When he was young he had bought a suitcase. One had to be ready to leave. At any moment.

(Traduzione dall’Italiano: Peter Douglas)

Cadavre exquis – André breton,Valentine Gross, Tristan Tzara, Greta Knutson – 1933

Cadavre exquis – André breton,Valentine Gross, Tristan Tzara, Greta Knutson – 1933

Kurze Liste der Schicksale

Jeder ist willkommen
Franz Kafka, Amerika

Niemals war es ihm gelungen, irgendetwas zu Ende zu bringen. Doch wenn er das Haus verließ, pfiff er stets eine kleine Melodie.
Fünf Jahre lang hatte sie an der Aussteuer einer künftigen Königin gestickt.
Er war schön, stark und gewalttätig. Ein Halbgott inmitten blasser Sterblicher.
Nach einem ersten, ungeschickten Versuch zu lieben, beschloss er, es für immer aufzugeben.
Sie hätte regnen mögen. Der Regen sein.
Im Leben war er Pilot gewesen. Heute löst er Kreuzworträtsel.
Sie schreibt einen Brief, legt ihn in einen Umschlag und setzt sich neben den Briefkasten.
Stets schwankte sie zwischen dem Wunsch zu wissen und nicht zu wissen, wer sie eigentlich war.
Sie war wirklich hässlich. Sie verzieh alles und jedem.
Ich bin die Königin der Straße. Ich bin billig. Mein Reich ist unendlich.
Zu seinen Aufgaben gehörte es, es an einer bestimmten Stelle Gehet hin in Frieden zu sagen. Allerdings glaubt er längst nicht mehr daran.
Sie hatte eine Schwäche für verheiratete Männer. Sie wusste, dass sie einst ihr Ruin sein würden und tatsächlich kam es nicht anders.
Sein erster Freund war ein Rabe, der zweite ein Buckliger.
Biografie eines Leoparden lautete der ambitionierte Titel seines ersten Werkes.
Auf die Frage, weshalb er sie eigentlich geheiratet habe, antwortete er, weil der Hund nicht bellte, wenn er dich sah.
Kurz vor seinem Tode ließ er den Friseur zu sich kommen. Einmal im Leben wollte er sich in Locken sehen.
Roulette war sein Leben. Sein System war unfehlbar und ließ ihn niemals gewinnen.
Aus seinem Mund kamen nichts als Lügen. Diese verzauberten Tage und Landschaften und Frauen jeden Alters.
Er ist nun bereits an die sechzig, und noch immer wollen die Kinder einfach nicht mit ihm spielen.
Wenn sie das Flussufer entlang schreitet, trägt sie in ihren Händen einen Mädchentraum.
Der Mann, der im Unterhemd am Küchenfenster steht und eine Zigarette raucht.
Mit sechsundachtzig Jahren wartet er noch immer.
Selbst wenn er niemals in seinem Leben von Joseph Roth gehört hatte, er war der heilige Trinker.
Aufgrund der unzweifelhaften Komplexität des Lebens waren seine Erörterungen einfach unerschöpflich.
Seit Generationen hatte das Wort darauf gewartet, von ihm ausgesprochen zu werden.
Ihr Name ist Aphrodite. Als Mädchen war sie mit einem Mann verheiratet worden, den sie niemals zu lieben gelernt hatte.
Es gab viele Dinge, die er gerne getan hätte, aber ebenso mochte er untätig zu sein.
Noch zu Grundschulzeiten hatte er beschlossen, dass die Welt niemals wieder über ihn lachen würde.
Seine Gutmütigkeit war ein Fass ohne Boden. Auf Dauer war sie nicht auszuhalten.
Er schämte sich keineswegs dafür, um Mitleid zu heischen. Die Frauen waren hingerissen von seiner melancholischen Vitalität.
Sie war ein altkluges Mädchen. Unfreiwillige Schiedsrichterin ewig sich streitender Eltern.
Auf die Frage, was es denn einmal werden wolle, gab das Kind zur Antwort Bettler. Sein Wunsch sollte in Erfüllung gehen.
Einer musste das Schweigen seiner Ahnen durchbrechen. Er hatte keine Wahl.
Zwar hatte er keine Ahnung, wer seine Frau eigentlich war, aber er fand sie immer noch recht ansehnlich.
Im Alter von achtundachtzig Jahren ist seine Psychoanalytikerin gestorben. Ohne seinen Fall gelöst zu haben.
Seine Ziegen nannten ihn Goldfinger.
Jeden Sonntag schenkt er der Welt das vollkommene Bild eines perfekten Gentleman.
Für sie existierte das Glück nur, wenn es ihr gelang, Worte dafür zu finden.
Jedes Mal, wenn im Dorf jemand starb, hielt er das Pendel der Standuhr an.
Wenigstens einmal im Leben hätte er gerne den Neid der anderen auf sich gezogen.
Sein Hobby waren Modelleisenbahnen. Er liebte die Pünktlichkeit der Züge und misstraute den Frauen zutiefst.
Sein Name war Eros. Wie hätte er nicht den Gesetzen seines Gottes gehorchen können?
Ruf mich an, sagte er zu jedem, der ihm über den Weg lief. Doch er antwortete nie.
Während er seine Frau über den grünen Klee lobte, verlor er sich in den großzügigen Armen seiner wechselnden Geliebten.
Im Alter von dreiundsechzig Jahren begann er ernsthaft darüber nachzudenken, Nihilist zu werden.
Er liebte Flughäfen. Er hätte immer reisen mögen ohne jemals irgendwo anzukommen.
Erotische Filme waren ihr ein willkommener Zeitvertreib, eine Art persönliches Fegefeuer.
Sie war traurig zur Welt gekommen. Die Menschen trauten ihr nicht über den Weg.
Ihr Motto lautete: Ans Unglaubliche glauben. Unglaublich sein.
Geduldig wartete er am Ausgang auf die beiläufigen Küsschen von Kellnerinnen, Krankenschwestern und ehemaligen Schülerinnen.
Ihre Leidenschaft war das Kartenspiel. Ihr Tod hatte exakt die Dauer einer Partie Skat.
In angeheitertem Zustand rühmte er sich gerne der Tatsache, dass sein einziger Sohn unter der Dusche gezeugt worden war.
Sie war von Natur aus skeptisch. Stets korrekt gekleidet, allerdings ohne Chic. Sie hatte ein Geheimnis.
Mit fröhlicher Gleichmut erklärte er gerne zu später Stunde, dass er es müde sei, ein Mensch zu sein.
Der Tag, an dem ein Paparazzo ihn mit einem Starlet in der Via Veneto fotografiert hatte. Das Leben!
Als junge Frau hatte sie sich einen Koffer gekauft und sich reisefertig auf einen Stuhl ans Fenster gesetzt.

23 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, poesia tedesca, Senza categoria

POESIE di Loris  Maria  Marchetti  SUL  TEMA  DELL’UTOPIA O DEL  NON-LUOGO.  .  .  . . . . . . . . .Roma, Giovedì, 12 febbraio 2015 ore 18 Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3 – Incontro con gli Autori di Chelsea Editions: Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli, Contributi di Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark, Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi – Coordina Adam Vaccaro

Roma, Giovedì, 12 febbraio 2015 ore 18 Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3 – Incontro con gli Autori di Chelsea Editions: Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli, Contributi di Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark, Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi – Coordina Adam Vaccaro

Ferdinando Scianna, fotografia

Ferdinando Scianna, fotografia

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Ferdinando Scianna volto velato

Ferdinando Scianna volto velato

 Loris Maria Marchetti (Villafranca, 1945) è poeta, narratore, critico letterario e musicale. Laureatosi in Lettere Moderne a Torino con Giovanni Getto. Entrato nella Casa Editrice UTET nel 1968, dal 1974 all’84 è stato Responsabile della redazione del Grande Dizionario della Lingua Italiana fondato da Salvatore Battaglia e diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, per poi divenire dall’84 al 2000 Responsabile del settore Opere Musicali e del settore Grandi Opere di Italianistica. Attivo nel giornalismo culturale e nell’editoria fin dagli anni dell’Università, insieme con Giorgio Bàrberi Squarotti, Angelo Giacomuzzi e Sandro Gros-Pietro ha curato, agli inizi degli anni Ottanta, la collana di poesia I Gherigli per la Genesi Editrice di Torino. Dal 1989 dirige la collana di letteratura La linea d’ombra per le Ed. dell’Orso di Alessandria. Dal 2007 è condirettore degli Annali del Centro di Studi e Ricerche “Mario Pannunzio” di Torino. Ha pubblicato in poesia, Il prisma e la fenice, Editrice Forum, Forlì 1977; La via delle ortensie, Genesi Editrice, Torino 1981; Album di un amore, Bottega di Poesia, Vercelli 1989 (Premio “Bottega di Poesia” 1988) Le ire inferme, Ed. Dell’Orso, Alessandria 1989; Creatura di vetro, Edizioni del Leone, Spinea-Venezia 1990 Spreco d’amore, Ed. dei Dioscuri, Sora 1990; Mercante ingenuo, Ed. dell’Orso, Alessandria 1994 Il Paradiso in Terra, Edizioni Joker, Novi Ligure 1998; Concerto domestico, Edizioni Joker, Novi Ligure 2002; Stazioni di posta, Ed.dell’Orso, Alessandria 2007; Regesti del Cosmo, Ed. dell’Orso, Alessandria 2011; Il laccio, il nodo, lo strale, Achille e la Tartaruga, Torino 2012.

bello il vuoto

En passant

… io veramente sono qui per altro
non credo mi si possa aiutare
è per ragioni diverse
di questo non so proprio che farmene
lasciatemi cercare da solo
ma tutto mi pare spostato e capovolto
deve essere un po’ più in là o nei pressi
no questo no niente insistenze
un momento non ricordo bene
perché sono qui ah già ecco
dubito che sia qui quello che cerco
peccato credevo fosse qui
forse ho sbagliato posto
non credo ripasserò è molto tardi
non posso perdere altro tempo …

(da Il prisma e la fenice, Editrice Forum 1977)

.
Scena finale

Afferriamo la maniglia, ma la maniglia non c’è più
apriamo la porta, ma la porta non c’è più
entriamo nella sala, ma la sala non c’è più
guardiamo le pareti, ma le pareti non ci sono più
ci sediamo sul canapè, ma il canapè non c’è più
ci aggiriamo per casa, ma la casa non c’è più
e ci ostiniamo a vivere quasi che tutto ci sia ancora
e anche noi ci siamo e siamo sempre gli stessi
e tutto sia lo stesso di prima e come era prima.

Gli spettri non sanno riconoscersi
(o non vogliono).

Da Le ire inferme, Edizioni dell’Orso 1989

Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna

A Bergamo

Girando il mondo in incognito
in compagnia di una tenace solitudine
(cioè di sé stessi) può capitare
di giungere una prima volta a Bergamo,
recarsi nella città alta
e allora capire molte cose –
che la bellezza è un bene inestimabile,
che vivere comporta sempre un prezzo
assai elevato (spesso troppo) e che alla mano
protesa non si offre che un riflesso
inafferrabile di nebbia – e tanto si è sospesi
che può perfino irrompere il sospetto
di misteriose rinascenze a conti chiusi.

Da ogni passo spunta una parola
che insinua il dubbio se si esaurisca in sé
oppure mandi a qualche altra realtà
(nomina sunt consequentia rerum ovvero
res sunt consequentia nominum?) –
dolore angoscia incomprensione
violenza inganno infedeltà
follia disprezzo tradimento…
I passi non si contano più lungo
le mura, nemmeno le parole.

E dopo un abbondante Valcalepio
per innaffiare polenta e codeghì
– là c’è la casa dov’è morto Donizetti
là gli arabeschi della Cappella Colleoni –
il clima è favorevole al fiorire
della più assurda e inattendibile utopia
(forse soltanto segni della mente
senza figure, senza immagini ornate)
che dopo muoia finalmente – questo almeno –
la nostra innata acerba sconfinata
solitudine.

Da Le ire inferme, Edizioni dell’Orso 1989

.
Mercante ingenuo

Ebbe straordinarie mercanzie da collocare
e ciò ne fece un uomo ingenuamente felice.
Pensava che bastasse esporle
e tutti le avrebbero naturalmente acquistate.
Ignorava che anche la merce più preziosa
bisogna saper venderla
(quella, anzi, più di ogni altra).
Quando se ne accorse era troppo tardi,
troppo tardi per imparare a vendere.
Invecchiò disperato, solo,
in miseria,
accanto ai suoi tesori che si deterioravano
irreparabilmente.

Loris Maria Marchetti

Loris Maria Marchetti

 

 

 

 

 

 

 

.
Mondo di vetro

Bello, quel globo terracqueo di vetro
(smerigliate le terre, trasparenti le acque)
in vendita per davvero pochi euro
su una bancarella del Balon –
ma è una spesa superflua (ancorché assai modesta),
si può soprassedere, ripassiamo più tardi…
Più tardi l’avevano venduto, il bel globo lucente,
e per l’irrisorio risparmio di pochi euro
avevo perso l’occasione grandiosa
di possedere il mondo di vetro, collocabile
su un tavolo e contemplabile a piacere,
tutto il mondo di vetro, il mondo di vetro mio
(o soltanto il mio mondo di vetro?).

Da Stazioni di posta, Edizioni dell’Orso 2007

21 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

POESIE SCELTE di Antonella Zagaroli da “La maschera della Gioconda”, “Pi greco quinto”,  “La Volpe Blu”, “Serrata a ventaglio” con un Appunto dell’autrice SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO . . . . . . . . . . . . . . . . . Roma, Giovedì, 12 febbraio 2015 ore 18 Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3 – Incontro con gli Autori di Chelsea Editions: Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli, Contributi di Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark, Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi – Coordina Adam Vaccaro

Roma, Giovedì, 12 febbraio 2015 ore 18 Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3 – Incontro con gli Autori di Chelsea Editions: Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli, Contributi di Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark, Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi – Coordina Adam Vaccaro

Albrecht Durer Adam and Eve

Albrecht Durer Adam and Eve

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Antonella Zagaroli  è nata a Roma, laureata con lode nel 1978 in Letterature Straniere Moderne. nel 1993 ha conseguito il Diploma in Counselling professionale, dal 1992 al 1996 ha seguito il Master in Poetry Therapy (U.S.A.).

 Dopo la plaquette La Maschera della Gioconda pubblicata nel 1986, nel 1988 ha pubblicato un testo comprendente tre diversi poemi di nuovo col titolo La Maschera della Gioconda (pref. Walter Pedullà) Crocetti editore, Milano. Nel 1992 le viene rappresentato il poema Il re dei Danzatori. Nel 1996 pubblica Terre d’Anima (pref. Achille Serrao) Libroitaliano editrice Internazionale, Ragusa. A novembre 2001, presso il Teatro Sala Uno di Roma, è messo  in scena il suo testo Come filigrana scompostaracconto d’amore, tango e poesia rappresentato nuovamente col titolo Storia di un amore argentino nel 2007 quando viene edito (Rupe Mutevole editrice, Bedonia-Parma). A marzo 2002 esce la prima raccolta di racconti e prose poetiche La volpe blu (pref. Mario Lunetta) Sovera ed. Roma. A gennaio 2005 Stefano Giovanardi presenta il lavoro poetico Serrata a ventaglio – Onyx edizioni Roma -.A febbraio 2007 è nuovamente presente nelle librerie col saggio e reportage poetico in India Quadernetto Dalìt – Rupe mutevole edizioni (Bedonia – Parma), poi tradotto e pubblicato in lingua inglese a dicembre 2007 (in distribuzione in India) nonché con la sceneggiatura teatrale Storia di un amore argentino. La stessa casa editrice ha pubblicato a fine 2009 il lungo poema epico (romanzo in versi) Venere Minima.

A dicembre 2010 ha pubblicato con La nostra Jera, testo di poesia con fotografie di Mariangela Rasi dedicato all’isola di Marettimo e realizzato per promuovere il rispetto dell’ambiente attraverso l’arte. Nel 2011 è uscita un’antologia tratta da alcune sue opere tradotta in inglese Mindskin A selection of poems 1985-2010 – Chelsea Editions New York, 2011; nel 2012 sempre in collaborazione con la fotografa Mariangela Rasi Trasparenze in vista di forma (Libraria Padovana Editrice).  Da Settembre-Dicembre 2012  in mostra a Pienza ha proposto  le Istallazioni poetiche. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook.

Come traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (rivista Hebenon aprile-novembre 2010) e la plaquette One Columbus leap, Il balzo di Colombo della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (2012), Hosanna- Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense (2014). Dal 1995 scrive articoli e testi specialistici sul senso psicologico individuale e sociale dell’arte tutta (fra questi Linguaggio poetico e Comprensione di sé ) Lavora in questo campo in Italia e all’estero con Laubea Onlus Associazione Italiana di Poesia nella Psicologia da lei fondata nel 1995.

 

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Appunto di Antonella Zagaroli

La mia poesia ha sempre un interlocutore immaginario che vive in un non-luogo del passato o dell’apeiron (dell’eterno presente).

Lo è stato con l’invenzione di Laubea, presente nel primo poemetto pubblicato La maschera della Gioconda, nome dato alla mia poesia e nato dai nomi di Laura e Beatrice accostato alla Gioconda donna-non donna dal sorriso sulla e fuori la Terra.

Lo è stato con Gilania, il personaggio del romanzo in prosa e versi Venere Minima. Già nel suo nome c’è il gioco dell’inversione del nome androginia, come la scienza ha dimostrato: nelle primissime settimane i feti sono di un unico sesso, femminile appunto. Gilania inventata rispetta la storia dell’umanità è per me la Grande Dea, che non è la Madre Terra nata successivamente. La Grande Dea è la primigenia Dea, la dea della pace fra uomini e donne, forse l’età dell’oro? Molteplici graffiti del neolitico, ritrovati in tutto il mondo anche in Italia, in Sicilia per esempio, c’è una caverna in cui ce ne sono alcuni disegnati in nero che  mostrano animali e uomini in varie atteggiamenti, in rosso una figura femminile è seduta a guardare il tutto. Per me Gilania è anche ricerca umana all’integrazione psichica, un flusso comunicativo interiore pacificato, come forse lo aveva immaginato Jung.

L’interlocutore immaginario è il cieco della poesia scritta nel 1995, è il superamento dell’io in molte delle ultime mie produzioni con un tu senza identificazione,  è soprattutto la poesia stessa che interrogo continuamente.

Antonella Zagaroli, gennaio 2015

bello ritratto di donna

 

 

 

 

 

 

 

 

da Serrata a ventaglio (2004)

Nel viola nel giallo nel lilla
nel mio sogno bianco.
Silenzio e
non voglio dormire,
mi vesto di luce
per parlare con te che guidi le entrate.

Il cammino è ora lento
mentre sfoglio i resti dei miei abiti.

Come gli antichi vapori dei treni
non voglio fuggire oltre il mio stesso avvenire.
Sulla strada contorta che riempie la vita,
né succhiata né frantumata,
ho un cerchio che induce al ritorno.

E quando gli alberi muoveranno il vento
salirò nel bianco
Io,
diventata una soglia corrosa

Cercherò non più barriere ma l’angelo
mare dei miei tuffi notturni

Un cieco rientra senza bussare,
dentro il petto:
“Perdono, ti perdono luce che ho perso!
vorrei dal mondo in corsa un piccolo faro
per splendere verde”.

*

nella chiocciola di fuoco
l’epifania negata agli occhi

11 miliardi di anni fa

il primo cerchio
eoni fotoni neutrini

miracoli senza dei

(inedito, 24 luglio 2012)

*

Versi e passi all’unisono

il verso cammina col battito

le orecchie
avvolte dal piacere

unisono

l’idea

non so se voglio arrivare oltre

la meta del chilometro

del secondo

del terzo

o semplicemente seguire il piacere
che mi attraversa fino ai piedi

Inseguo……..

niente
……….

Niente è solo
………..

alla meta

(inedito, 18 agosto 2014)

bello fermo immagine

 

 

 

 

 

 

 

Insieme, sempre insieme
fin dal mondo intorno

Girati!

Ma non così

E’ troppo veloce

la tua giravolta beffa l’intuito

non apparecchia ogni ricordo

indietro

sempre più indietro

fino alla tua apparizione

(inedito, 21 gennaio 2014)

 

da Al di là d’ogni luce (2012)

Il gioco della non dimensione
non lo impari a scuola
e non lo conosce l’amico più furbo
che ti svela il segreto più segreto

non puoi giocarlo anche se sai contare
e non te lo insegna nessuno
La non dimensione sa nascondersi

nella luce più accecante
arriva a te
quando non hai proprio voglia di giocare

è il gioco più gioco di tutti
non ha campioni e perdenti
sa far giocare tutti e gioca tutti

(luglio 2011)

bello figura femminile con gazza

 

 

 

 

 

 

 

da La maschera della Gioconda (1985-1986)

.
Là ver l’aurora, che sì dolce l’aura

donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva:

Laubea crepita
Nella corsa fiamma oro fama
cade
nel cielo nasconde calore

Laubea dal poeta rosa
nel grigio fra spilli
ha ingoiato miniere
di giallo ha scavato la notte
nel seme Laubea
lubrifica l’ombra

 La dea Ishtar

La dea Ishtar

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.
da Pi greco quinto (1987-1988)

Né il punto nello spazio
né l’istante nel tempo(…)
ha realtà fisica(…) soltanto
l’evento (…)
twilight a tacchi alti
in sottofondo una vie privée
improvvisa asimmetria nell’ovulo
t’= t – x

c
——————–
√ 1-²
insetto astrologico
finché gli indovini confezionano
al sogno appena sfogliato nel postumo
un pallido verde neonato seduto
sopra il fiore di loto.

.
da La Volpe Blu (2002)
Chiaro

1648. Sulla strada per Tlon un nano in abiti da nobiluomo conduce un corteo di giovani fanciulle.
Sono a piedi noncuranti del freddo, fiduciose seguono il signore che le ha scelte.
Non aveva dovuto parlare il piccolo uomo, le aveva soltanto guardate accennando un sorriso. Accondiscendenti si erano disposte dietro di lui.
Le fanciulle sono silenziose. Non hanno il minimo desiderio di parlare. Sono diverse nell’abbigliamento ma tutte bionde.
Fra quelle donne il nano è assorto; è come se avanzasse sulla cresta di una grande onda marina, sospeso e immobile, concentrato sulla direzione.
L’onda è grigia, alta, brilla nel suo interno, sul fondo staglia l’uomo.

 

Tlon non è lontana.

Sale dal monte, fra i boschi che attraversano, un suono impercettibile di sì sussurrati. È un’eco comune per tutte le bionde fanciulle in cammino verso un appuntamento che soltanto il nobile nano conosce.
Gli odori del fogliame, dell’umidità, dei piccoli insetti invisibili lungo la strada sembra che sia l’unico nutrimento necessario per proseguire.
Il passo è lento, ventricolare come i sì che ascoltano in segreto ognuna nel proprio cuore. La presenza corale è avvertita esclusivamente dalla guida che le ha riconosciute come elementi di una stessa unità.
Salgono un monte largo e serene guardano ogni angolo. In successione scoprono una visione più ampia.
Dissetarsi è l’unica pausa e qualche volta brindano nell’incavo della mano, sempre sorridendo al loro accompagnatore.
La notte viene soltanto sui loro vestiti quando il sole tramonta.
Le scintille dei capelli continuano ad illuminare l’onda misteriosa sulla strada conosciuta dal principe nano.

*

Ferma e vittoriosa la luce nel recinto biondo è isolata dagli alberi è il loro inno all’esistenza.
Le foglie vibrano di una sonorità sonnolenta, le rocce del monte ne custodiscono la sacralità. Sono nell’attesa anche le caverne e le gallerie, svuotate da ogni ricordo che non sia strato per l’accoglienza.
Lacerate dallo struggimento per la gioventù, le figure bionde si avviano verso un destino sconosciuto e ben accetto. Sorelle del colore hanno perso il nome, sono diventate curve e corpo di una complessa architettura.
Dopo molte radure e valichi s’immergono nella foresta antica. Raggiungono una costruzione bianca a forma di plenilunio.
Frastornate, entusiaste, sfilano attraverso il grande portone. All’interno subito le culla un labirinto di respiri, passi silenziosi, odori di oli, spezie, acque calde. Si leva una litania:

“Cielo
Cielo azzurro sorgi
dal cristallo incenerito”

Lo spazio circolare è reso ancora più maestoso da una piramide verde al centro, riflessa tutt’intorno da pareti di specchi.
Le fanciulle si muovono leggere al suono delle parole cantate con voce profonda, un po’ mesta.
Si ritrovano a camminare in cerchio e ognuna ripete fra sé e sé la litania.
Si guardano intorno e si guardano finalmente fra loro. Pur nella differenza d’espressione i volti hanno tutti gli stessi lineamenti, solo la foggia dei capelli biondi cambia.
Sulle pareti a specchio le loro differenze svaniscono quasi del tutto. Sembrano un’unica splendida fanciulla che lentamente muta nello sguardo.
Attendono tranquille senza sapere cosa.
Fra la piramide e le pareti s’irradiano arcobaleni della grandezza del soffitto a cupola. Ogni arco lascia intravedere nei colori i momenti di vita di ognuna. Poi le immagini toccano in primo piano il corpo e il viso sorridente dello strano nobiluomo che le ha accompagnate.
Ora sanno: sta accadendo ciò che aspettavano senza sapere.
S’incamminano lungo la direzione colorata.
Entrano nella parete che le riflette una dopo l’altra, senza interruzione.
Seguono il loro destino nello specchio. La cupola si colora d’azzurro, la litania si trasforma nel suono finale dell’eco.
Il corpo dell’uomo riflesso diventa sempre più grande, imponente ma flessuoso, morbido. Ogni imperfezione scompare.
Il volto s’illumina a ogni passaggio di fanciulla.
Diventa luce bianca.

Ferdinando Scianna Siamo ladri di realtà, in attesa dell’istante in cui Dio fa capolino

Ferdinando Scianna Siamo ladri di realtà, in attesa dell’istante in cui Dio fa capolino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.
da Serrata a ventaglio (2001-2004)
(Estratto Primo Alfabeto 2002)

Fluiscono spazi sconosciuti
onde che tessono il punto verso l’alto
sfogliano la tensione,

con la forma ancora nel fuoco
attratti dal fragore, numeri diversi
irradiano parti plurali, particelle impazzite.

Un’elementare spirale propaga l’orizzonte,
nonostante il buio e la negazione
dà origine alla voce

La follia dell’inizio s’immobilizza
violando ogni ipotesi
dal nero circostante, nei molteplici vortici

Languore ansia nausea
macchie appena nate, ormai senza scopo ribelli,
testimoniano l’inutilità delle previsioni.

*
Dal silenzio il movimento
è un sentiero solitario
oscilla sui crocevia della pelle
rotea inarcato dal piacere

accompagna la vertigine,
germoglia acqua col soffio,
una fiumana chiara senza nome

con l’odore che sale dal mare
segue il fondo del remo,
annuncia ciò che verrà,
esplode al ritmo del contatto

*

Limbo entro il calco la nascita del pensiero
spuma allo specchio
neoscurità rosata degli innamorati,

è una marea in più che non preoccupa la luna

E’piacere? E’dolore? Essere
mentepelle dentro un altro,
Chi? Dove?

La lieve coloritura dona intuito e sorriso
a piccoli passi fra scintille di sonno,
dai monti nei laghi dentro gli alberi :

“canto e brindo
con chi sa ascoltare nomi in risonanza,
all’orecchio strumento m’inchino.”

Fra tenerezza e turbamento
madre e suo nutrimento,
dai pori della terra semente aria

la maschera ritrova il suo senso,
nella corda d’altalena
nell’occhio della memoria, a schegge:

“Arresa al mondo possibile
dischiudo il crocicchio claustrale
per te, elisir accoccolato entro ogni cunicolo”.

*

Fangose vesti i volti il corpo di chi vive
fuori ogni luogo
non si permea di grani, sassi, alberi, cervi, cani, cavalli, tigri, insetti
acque gialle marroni o blu

(inedito, 10 agosto 2010)

*

Nel mio posto
presente ovunque

con trucco indelebile agli occhi
labbra disegnate carnose
ho la testa in sospensione

reclino falsi capelli nei rifiuti

guardo ogni cadavere che brulica la terra
su gambe di pelle e sangue

vago e sopravvivo sotto ogni intemperie

sono la morte senza vermi

(inedito, 1 giugno 2011)

19 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento

SETTE POESIE INEDITE di Anna Ventura “In fondo in fondo”, “Due fili d’erba”, “Guadalupe”, “La nebbia sale dalle strade”, “Baia”, “La neve di ovatta” con una nota critica di Gino Rago e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

Picasso Every act of creation is first an act of destruction I do not seek. I find

 Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 con EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (poesie 1978-2013). Dieci sue composizioni sono apparse nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016).

 https://www.youtube.com/watch?v=OAUtpza1N_4

piedi con corda

piedi con corda

Commento di Gino Rago

 Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera ironia del dettato poetico della poesia di Anna Ventura, «la Szymborska italiana» come è stata felicemente definita nel blog “L’Ombra delle Parole” da Giuseppina Di Leo, sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e risoluzione. Nella poesia della Ventura assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» che ci parlano tramite la loro distanza; è all’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, l’allestimento di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge e ascolta. È una poesia che nasce da Atena che «conosce la superficialità degli dei», dalla Sibilla che non cerca la verità delle «cose» ma il loro «evento», da Antigone, che invece cerca la verità delle «cose» al di là e al di fuori dei discorsi discordi dell’agorà, lontana mille miglia dai reumatismi dell’intelligenza e dalle insolvenze dei discorsi suasori della politica e della poesia corrotta dalla retorica e dai sofismi dei sofisti. La loro parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melacholia. La Sibilla, anch’essa è leggera, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La poesia della Ventura è poesia politica e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse “Gli sposi etruschi”, o “Le case” o le poesie dedicate alle “streghe”, siano “Due fili d’erba” o qualsiasi altro argomento come il poeta Nerone, preso ad emblema della follia poetica, o Giulio Cesare che celebra inconsapevole il suo trionfo che sarà la sua rovina, o “La guardiana delle oche”, così misteriosa e insondabilmente autentica. “La neve di ovatta” è un ricordo dell’infanzia, una stregoneria che rievoca il mondo in cui tutto era un mistero. L’ultima poesia dell’antologia (che qui viene riprodotta per prima) è il testamento spirituale di Anna Ventura: la parola che pronuncia «il dissenso».

piedi senza corda

piedi senza corda

Commento di Giorgio Linguaglossa

Per Anna Ventura la poesia è quella cosa che non è stata scritta con l’intenzione di arrivare a destinazione. Per la Ventura la poesia è un messaggio interrotto. La poesia che raggiunge la destinazione cessa di essere poesia. Per la Ventura l’ufficio della poesia resta il «dissenso» verso ogni ipotesi di poesia logocentrica, verso ogni logos fondante, centrale e originario. Non si dà nessuna origine, la poesia può solo attraversare la «distanza» tra le «cose».

Per Derrida, il «logocentrismo» è il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il “bisogno di verità” della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioè dalla voce (“phoné“). La voce infatti è la coscienza, poiché garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioè la perdita del senso e l’incapacità di “difendersi” o, peggio, la possibilità di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone“). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica è un dato storico non secondario, poiché solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità/errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di “rimozione” è provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.

Husserl sostiene che il presente (l’adesso nella sua puntualità) si compone di un non-presente, ogni percezione di una non-percezione. E allora, se non è possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata anche la possibilità di una presenzialità a sé priva di rinvio, di indicatività (la vita solitaria dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità di una presenzialità epochizzabile.

Il pensiero poetante di Anna Ventura assume un punto di vista critico-scettico verso ogni posizione di poetica logocentrica, che cioè si adegua in modo irriflesso ad una metafisica della «presenza della cosa», ovvero, che adotta una procedura ironica. La Ventura sa per istinto e per pensiero che laddove c’è la «cosa» non è detto che esista una «parola» adeguata. Tutto il suo tentativo poetico si gioca su questo punto: l’avversione verso la poesia logocentrica e fonologica che crede di poter identificare la presenza della cosa con la cosa stessa e, quindi, con la sua referenzialità linguistica. Il suo sforzo è teso a non  identificare ingenuamente presenza della cosa e logos; il logos è sempre non originario, affetto da secondarietà.

Anna Ventura

Questi piccoli fogli bruceranno

Questi piccoli fogli bruceranno
con tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.

(da Antologia Tu Quoque Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014

anna ventura

anna ventura

In fondo, in fondo

La Sibilla lasciò l’antro di accesso,
si inoltrò nel corridoio lungo.
In fondo, in fondo,
stava la sua tana. Lì
preparava le foglie
e le metteva nel cestino.
Quel giorno era infuriata con Apollo,
che se ne stava nel Tempio,
lì vicino,
dove era tutto uno splendore.
Che umidità, invece, nella sua tana buia,
assediata dall’erba e dai rovi.
Quel giorno, sulle foglie,
scrisse una cosa bruttissima : .
“Guardatevi dall’amore”.
Ma poi che Apollo,
per mezzo di un piccione,
le inviò in dono un fiore,
la Sibilla tornò di buon umore,
e sulle foglie scrisse:
“Non abbiate paura”.

.
Due fili d’erba

Il filo d’erba disse
all’altro filo d’erba:
“ Lo vedi? La terra
sta diventando asciutta;
se non piove,
appassiamo.”
“Non temere, – rispose l’altro –
io ti darò un po’ della mia acqua;
ho una goccia nascosta sotto le radici.”
Non era vero,
– e lo sapevano entrambi –
ma entrambi
si sentirono più verdi.

l'angelo senza parole

l’angelo senza parole

Guadalupe

Sei tu,
la mia preferita,
madonnina di Guadalupe,
nera e secca,
gli occhioni pieni di meraviglia.
Chi sa che cosa vedono:
il dolore delle mamme povere,
il tacito sgomento dei bambini,
il furore degli uomini che masticano coca
per reggere alla fatica.
O il silenzio dei campi quando
la quiete notturna
finalmente scende
sulle capanne,
sulla stanchezza bruta,
sull’ingiustizia accettata
perché non si sa come combatterla,
perché non si mette in discussione.
Perciò sarà a te,
madonnina di Guadalupe,
che porteremo la nostra preghiera.

La nebbia sale dalle strade

La nebbia sale dalle strade,
ora che è inverno,
e i negri si coprono la testa
col cappuccio della felpa,
camminano veloci
sui sandali infradito,
eredità dell’estate. Loro
non conoscono il rancore,
perché sono pieni
di fede, di speranza
e di carità, i doni
che abbiamo dimenticati,
stregati dalla cornucopia stracolma
che ci è stata offerta dalla sorte.
Ora che sembra in pericolo-la cornucopia-
finalmente ne avvertiamo il privilegio
e il danno, capaci di arrivare a credere
che potremmo perfino farne a meno.

Anna Ventura copertina tu quoque

Baia

Qui gli uomini
osarono sfidare gli dei,
gli dei risposero
innalzando una cortina di sangue.
Rimase lo splendore.

.
La neve di ovatta

Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle; qualcuna,
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.

(Inediti)

Gino Rago

Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono apparse nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, 2016, a cura di Giorgio Linguaglossa. Ai suoi libri poetici hanno dedicato saggi critici Sandro Gros-Pietro, Giorgio. Linguaglossa, Sandro. Montalto, Luigi Reina, Alfredo Rienzi e altri. Con componimenti lirici e recensioni ha collaborato e collabora con svariate riviste letterarie (Poiesis, Poesia, Polimnia, Vernice, Paideia, La Procellaria, La Clessidra, Hebenon), è redattore della Rivista letteraria internazionale L’Ombra delle Parole.

9 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento

ANTOLOGIA DELLE POESIE di Patrizia Cavalli da La maestà barbarica e Stanche divinità – “Le poesie di Patrizia Cavalli come i tableaux parisiens di Baudelaire. Il fascino delle rime anarchiche”  Commento di Alfonso Berardinelli e un Commento breve di Giorgio Linguaglossa

 Not Vidal Moon 1995

Not Vidal Moon 1995

da il Foglio sabato 7 dicembre 2013

 Canto di amore e di musica Commento di Alfonso Berardinelli

Come gli americani hanno appena scoperto entusiasti il pensiero di Leopardi traducendo lo “Zibaldone”, così hanno anche scoperto la poesia di Patrizia Cavalli e ora ce la insegnano. È appena uscita per la Farrar, Straus and Giroux di New York un’ampia antologia dai suoi primi cinque libri, pubblicati dal 1976 al 2006, con il titolo “My poems won’t change the world” a cura di Gini Alhadeff.

Rileggere qui, in questo bel volume di grande formato, hard cover e sovraccoperta con una foto irresistibile dell’autrice, le poesie della mia grande amica mi ha risvegliato da un lungo sonno. Mi ero addormentato da troppo tempo sulla certezza del loro valore e carattere unico nella poesia italiana dell’ultimo mezzo secolo. Mi era bastato ripetere a ogni occasione che le poesie di Patrizia Cavalli sono uno dei pochi punti fermi in un mare di confusione e di valutazioni sbagliate: ora devo accusare la mia soddisfatta pigrizia e la mia ignavia di critico.

D’altra parte devo dire che questa mia pigrizia poggiava su un’ottima ragione, della quale sono ancora convinto: la vera e migliore poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi, commenti e perorazioni avvocatesche. E’ stato giustamente teorizzato che il valore letterario e artistico non si “dimostra” come un teorema, si può soltanto eventualmente “argomentare” con passione dialettica e abilità retorica, ma non si tratta di sillogismi o di verità scientifiche, si tratta di evidenze fisiche e mentali che richiedono occhi per vedere e orecchi per sentire. Ma per questo ci vogliono lettori capaci di leggere. Invece la cosa più comune è che la poesia non viene propriamente letta, viene anzitutto pensata come valore in sé, valore nominale, astratto, extra-sensoriale e perfino extralinguistico. Quando si deve valutare, decidere, distinguere fra una poesia e un’altra, fra un autore e un altro, coloro che ci riescono, coloro che osano sono sempre stati pochi e ora sono anche meno.

Nel caso di Patrizia Cavalli si verifica però un fenomeno rassicurante: i lettori ci sono e sono molti, comprano il libro, leggono e capiscono, ricordano questa poesia o quest’altra, certi versi li sanno perfino a memoria. Chi non capisce o dimostra scarsa capacità di lettura nonostante l’armamentario specialistico, sono i critici, gli studiosi, gli accademici. Quando ci si innamora troppo delle tecniche di analisi del testo, finisce che un testo vale l’altro, perché il critico è tutto preso dalle proprie tecniche e pensa che per capire sia sufficiente applicarle.

Not Vidal Snowballs

Not Vidal Snowballs

Tanti anni fa, quando ero giovane, amici più anziani e autorevoli mi hanno fatto credere che promettevo bene come critico letterario. Non dico che è stata la mia rovina, ma che è stato un equivoco. Mi sono accorto presto che in fondo preferivo più discutere di letteratura in generale, o “dire cattiverie” ragionate su qualche cattivo scrittore esageratamente apprezzato, che applicarmi a produrre magnifici saggi su autori amati. Gli autori amati mi bastava frequentarli, leggerli e rileggerli, e pensavo che bastasse anche a loro. Non avevano certo bisogno di me e della mia propaganda ermeneutica. Quando uno scrittore e soprattutto un poeta ti piace, ti convince, ti sorprende, allora il silenzio, secondo me, è la cosa più naturale. Tanto più che a differenza della critica d’arte o musicale, nella critica letteraria si devono aggiungere parole ad altre parole e con le parole di un poeta la lotta è impari.

Con le poesie di Patrizia Cavalli mi è sempre successo questo. La mia comprensione era più percettiva che analitica e discorsiva. Ma ora che ho fra le mani questo libro americano, con il testo italiano a sinistra e la traduzione a destra, con la prefazione della curatrice, le perspicaci osservazioni tecniche dei traduttori e le dichiarazioni acutamente apologetiche di alcuni scrittori sulla quarta di copertina, mi sembra di dover ricominciare.

Evidentemente tradurre un poeta è il miglior modo di leggerlo. Un momento: l’ho appena detto e già mi sembra falso. Neppure il lavoro del traduttore garantisce la comprensione. Tutto dipende dall’autore tradotto e dalle esigenze di chi traduce. Spesso in chi legge poesia in una lingua che non è la propria, la prima cosa che sfugge è la vitalità della lingua, il suono e il tono della voce. In poesia la lingua è tutto, perché in una lingua che sia viva è difficile scrivere stupidaggini. Rileggendo queste poesie con la traduzione inglese accanto, ho riscoperto la forza depuratrice, disintossicante dell’italiano di Patrizia Cavalli. Il suo lessico è misto e ibrido, ma la sua dizione è immancabilmente pura. Si intuisce subito che è proprio la purezza della dizione lo scopo per cui scrive. Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal malessere, dalla malattia dell’imprecisione. La purezza non è altro che il risultato dell’energia e vitalità linguistica e l’energia è anche la possibilità di ottenere il massimo con la minima quantità di parole. Di solito l’inglese è più sintetico e breve dell’italiano: quando scriviamo in prosa ci accorgiamo di quanto siano pesanti e poco maneggevoli i nostri polisillabi, le flessioni verbali, le preposizioni semplici e articolate. Basta scorrere l’indice di questa antologia per vedere che invece fin dal primo verso l’italiano della Cavalli spesso batte l’inglese in velocità e brevità. Anche nei casi in cui la traduzione replica l’originale in perfetta simmetria, perfino il lessico italiano scelto dalla Cavalli è più rapido di quello inglese.

Bisogna ringraziare il poeta che rende fieri della propria lingua e ne esalta le risorse. Non voglio dire che rapidità e brevità in poesia siano un valore o un dovere. Anzi, la stessa Cavalli sa fare altro. Nei suoi libri più recenti che sono anche, credo, i migliori, “Pigre divinità e pigra sorte” del 2006 e “Datura” pubblicato qualche mese fa, compaiono sette poemetti di varia misura e tessitura, uno, il più lungo, in forma teatrale. In questi casi, la velocità (che mi fa pensare a volte a Emily Dickinson) è sostituita da una crescita ramificata di figurazioni, personificazioni, argomenti, scene urbane (che mi ricordano certi “tableaux parisiens” di Baudelaire). Ma tanto la velocità che l’architettura ubbidiscono alla ricerca dell’enunciato e della sintassi più efficienti e fedeli alla cosa da dire: forme verbali che afferrano il pensiero nel momento in cui accade, o meglio lo inventano, che sia semplice e diretto o laborioso e variato. A volte esclamazione, preghiera, invettiva, aforisma. A volte auscultazione, raziocinio, recita umoristica con tutti i suoi attributi e procedimenti retorici.

 jhina alvarado artodyssey

jhina alvarado artodyssey

Alcuni dei suoi quattordici traduttori hanno osservato per esempio (cosa secondo me decisiva) che la musica verbale della Cavalli non è affatto così semplice da tradurre come sembra: la sua particolare velocità, dice Jorie Graham, in inglese “può diventare quasi banale. Ho provato a conservare la ricchezza di significati multipli nella velocità del passaggio da una lingua all’altra. E l’italiano della Cavalli è così spontaneamente, naturalmente idiomatico, e l’idioma abbrevia, mentre nell’american english si tenderebbe a usare un idioma specifico, ma questo rischia di suonare totalmente falso tradendo la semplicità a tutti comprensibile del suo tono”. Geoffrey Brock dice: “Ho cercato di dare in inglese alle sue poesie un’ossatura metrica flessibile, più o meno analoga al suo uso del metro italiano, che ho sempre trovato sia piacevole che sorprendente (…) una delle cose che amo di più nell’italiano delle sue poesie è il modo in cui la sua lingua, così contemporanea, fa uso e ridà vita a certe tecniche tradizionali”.

Anche Rosanna Warren annota qualcosa di simile: “Ho cercato di usare un pentametro inglese flessibile come base (…) perché Patrizia usa una misura endecasillabica flessibile. Trovo affascinanti queste poesie per la loro combinazione di espressioni colloquiali, casuali e di modi filosofici petrarcheschi (‘il mio bene’, ‘il mio male’); di affermazioni molto dirette, prosaiche; e di un improvviso decollare verso un linguaggio figurato”.

Mentre David Shapiro sottolinea il fatto che “lei ti sta dando l’état présent di tutta la sua anima, il suo stato presente ma anche il presente del mondo (…). E’ come aver scoperto una poesia greca, quando i greci volevano essere veramente felici”.

Come lettore avevo sempre notato le stesse cose. Nonostante la velocità e l’improvvisazione dei suoi incipit, arrivano presto, se non subito, gli endecasillabi, le rime per caso o per equilibrio fonico, rime quasi sempre fuori schema, anarchiche, fisiologiche, che sembrano autoprodursi dalla lingua d’uso, oltre che dalla memoria istintiva di un ordine classico remoto che arriva in soccorso al momento giusto a dare forma all’informe. Non c’è nessuna coerenza stilistica intenzionale. Non c’è neppure un’idea preconcetta di poesia. Tutto nasce dalla testarda volontà di afferrare ciò che sfugge, non la verità ma la cosa come è, mentre si forma e si trasforma.

Facciamo per un momento il gioco preferito dei critici, quello dei precedenti e delle influenze. Che cosa si può riconoscere a vista? La violenta immediatezza di Saffo e di Catullo? La teoria degli “spiriti corporei” di Cavalcanti? Le canzoni di Dante (“Amor che ne la mente mi ragiona”)? I sonetti di Petrarca (“Pace non trovo e non ho da far guerra”)? L’endecasillabo sciolto, diaristico di Leopardi? E naturalmente l’antinovecentismo di Saba, Penna, Morante. Presupposti sia lontani che prossimi, classici e comunque non imitabili. Autori a cui si può chiedere aiuto, o che vengono in aiuto spontaneamente solo perché il simile attira il simile.

Non è difficile ricapitolare le prime evidenze di questo stile: (a) la paradossale naturalezza della metrica (metrica che è nello stesso tempo artificio e istinto); (b) le rime che arrivano a sorpresa quando è arrivato il momento, quando si annunciava una minaccia di disordine; (c) la sintassi a volte elementare e lineare, tagliata a misura del verso, a volte spezzata o sghemba o dilatata fuori misura, che non si sazia di aggiungere specificazioni e distinzioni; (d) il lessico impietosamente o amorevolmente preciso, non sospettabile di selettività e squisitezza letteraria, lessico parlato e parlabile, anche se specializzato.

All’improvvisazione che taglia e scorcia si alternano le tecniche retoriche, gli spazi mentali dell’allegoria, i tempi vocali del teatro o dell’epigramma, l’andamento esplorativo, rallentato delle descrizioni dal vero e poi sempre più spesso, nei due ultimi libri, la costruzione del poemetto a tema.

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

Per la copertina americana il più famoso dei poeti newyorchesi, John Ashbery, ha scritto queste due righe, che propongono un’arguta confutazione del titolo “le mie poesie non cambieranno il mondo”: “Like Emerson, Patrizia Cavalli says the same thing over and over, and each time it is amazingly fresh and surprising. The world does change, in the telling”. Così viene detto in breve quasi tutto. Si parte con il riferimento audace e umoristico a un serissimo moralista come Emerson, ma la cosa vale quasi per ogni classico: non sono pochi quelli che tendono a ripetere la stessa cosa in modo sempre nuovo e sorprendente. Ma non è vero che si tratta sempre della stessa cosa. Ogni volta che la dici, la cosa cambia. Perfino il mondo cambia, quando lo dici di nuovo.

E Jhumpa Lahiri ha dichiarato: “Leggere Patrizia Cavalli è pura estasi. Riesce a unire l’acume erotico di Catullo e la limpidezza degli haiku. Con disarmante esattezza dà voce all’instabilità, alle assurdità, alla penetrante intensità dell’amore. Forse le sue poesie non potranno cambiare il mondo, ma hanno cambiato la mia vita”.

In una delle sue rare interviste, Patrizia ha parlato della sua poesia come del solo mezzo che ha per “conoscere e capire nel modo più efficace e rapido possibile” e ha definito la poesia “l’unica scienza di cui mi fido”. Mi scuso per l’autocitazione, ma ora che ci penso, ricordo di aver scritto anni fa questo breve testo non firmato: “Fare scienza di tutto ciò che la scienza trascura o ignora: sembra questa la vocazione più forte e costante che si manifesta (o si nasconde) nella poesia più recente di Patrizia Cavalli. Che pur somigliando sempre a se stessa, sviluppa ora un’attitudine riflessiva di genere filosofico intorno ai misteri di ciò che solo in apparenza è chiaro: le ragioni e le condizioni del piacere e del dolore, i mutamenti impercettibili e decisivi che confondono o che intensificano quello che sentiamo e siamo”.

L’occasione di queste parole era l’uscita nel 2006 di “Pigre divinità e pigra sorte” e sentivo che era ora di mettere da parte lo stereotipo della grazia, della leggerezza e del quotidiano, “tutte parole” aveva detto Patrizia “che mi hanno sempre fatto venire il voltastomaco”.

Ci si era abituati a considerare la Cavalli una ragazza atemporale, le cui poesie non sopportavano né cronologia né storia, sembrava che nascessero per germinazione naturale, senza lavoro, riflessione, complicazione, costruzione. Ma poi il tempo ha costretto la ragazza atemporale a un’ardua lotta per discriminare il vero e il falso e contro ogni realtà fittizia: l’ha spinta a diventare un filosofo per necessità, mistico-materialista o eroico-illuminista (perciò piace tanto sia ad Agamben che a me) che combatte con forze terrestri e celesti, che può essere abbattuto ma mai soccombente.

Questo è stato l’anno della Cavalli e c’è da aggiungere qualcosa. Prima è uscito il cd “Al cuore fa bene far le scale”, con poesie e canzoni musicate e cantate da Diana Tejera. Poco dopo è stata pubblicata la nuova raccolta “Datura”, un libro più mentale e umoristico degli altri, o diversamente irruento, nel quale i poemetti sono addirittura cinque e il più lungo, “Tre risvegli”, operina teatrale comico-allegorica, occupa la sezione centrale del libro. Qui la cosiddetta interiorità è rappresentata come la rete che lega corpo, cielo, amore e mal di testa in un groviglio di cause e di effetti elementari e mai prevedibili. Viene offerta al pubblico una radiografia drammatica e una vicenda a lieto fine sulla vita psichica come commedia fisica.

Patrizia Cavalli nasce a Todi nel 1947 e vive a Roma dal 1968Si trova in questo libro anche una delle cose più belle e potenti che la Cavalli abbia scritto, il poemetto baudelairiano, “La maestà barbarica”. Si tratta della personificazione vivente di una sovranità senza scopo né meta, che inscena una strategia di pose e gesti, di parole indirizzate al nulla o “a certe alte / infami autorità” senza volto. Protagonista è una sublime parodia del tragico, una mendicante regale che non mendica affatto, che non chiede, a cui spontaneamente si dà quello che lei svogliatamente, distrattamente preferisce. E’ una musa “arcaico-tragica” che sfida il senso comune e per provocazione si mostra caduta in basso mentre in realtà è sempre altrove, “in un oscuro dove”.

C’è un messaggio? Forse sì, se solo si vuole. Chi sfida e trascende la comune realtà lo fa a rischio di follia. Ma la follia può diventare un’arte, o più di una, un linguaggio destinato a chi non c’è o non si vede, un modo di essere che non si mescola con gli usi del mondo.

Un consiglio per i pigri, gli increduli e chi ha paura di leggere. Cominciate dal cd pubblicato da Voland, parole della Cavalli, musica e voce di Diana Tejera. Vedrete che la Tejera legge per voi le poesie cantandole, verso dopo verso, parola per parola. Dopo un po’ cercherete di cantare come lei, ma non sarà facile.

Patrizia Cavalli è nata a Todi nel 1947 e vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), Poesie 1974-1992 (Einaudi, 1992), L’io singolare proprio mio (Einaudi, 1999), Sempre aperto teatro (Einaudi, 1999), Pigre divinità e pigra sorte (Einaudi, 2006). Per le musiche di Diana Tejera ha realizzato i testi di Al cuore fa bene far le scale (con CD audio, Dati Voland, 2012).

 

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa

Commento breve di Giorgio Linguaglossa

 Ovviamente, non condivido il giudizio di Berardinelli sulla poesia di Patrizia Cavalli. Ritengo l’ipercitato fortunato libro di esordio del 1974 della poetessa romana Le mie poesie non cambieranno il mondo, il vero capostipite di quel tipo di poesia che ha avuto il merito (a mio avviso anche il demerito) di riscoprire il privato e il quotidiano del privato in un momento storico particolare, quando si esaurisce l’onda lunga della poesia della contraddizione, della poesia civile o impegnata come si diceva allora. Il prosieguo della poesia cavalliana sarà tutto inscritto in quella formula dello scetticismo e dell’egocentrismo ironico, della desublimazione ironica e iconica che fornirà la materia dello zoccolo duro che prenderà corpo nel minimalismo romano degli anni Ottanta e Novanta. Era l’algebra di una cultura in via di esaurimento. Era un tipo di poesia che si muoveva, pur con qualche brillante spunto ironico e istrionico, lungo il percorso epigonico della cultura poetica del Novecento. Le ultime prove della Cavalli a mio avviso non aggiungono nulla di nuovo a quanto scritto nel passato, non sono altro che delle superfetazioni della sua antica poetica dello scetticismo e dell’ironisme.

Quanto alla questione della democratizzazione e della conseguetne privatizzazione pubblicitaria della poesia che il primo libro della Cavalli inaugura, ritengo questo fenomeno del tutto negativo perché ha indotto il pubblico a credere che la poesia che si capisce subito sia la poesia autentica mentre quella che richiede più letture, e quindi sforzi notevoli, sia poesia da derubricare, da non leggere. Si è instaurata così in Italia l’idea che la poesia debba mirare alla comunicazione, con enfatizzazione del corpo e del privato, ma il fatto grave è che anche critici preparati siano caduti in questo luogo comune ed abbiano esaltato a dismisura gli autori immediatamente comprensibili e commestibili. Di qui alla sopravvalutazione degli autori del minimalismo il passo sarà breve.

 Scrivevo in Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) [Società Editrice Fiorentina pp. 148 € 14): «Con Patrizia Cavalli arriviamo alla poetica della complessificazione e dello sdoppiamento dell’«io» e dello «sguardo»: il dettato dell’io è un satellite che ruota in un’orbita, in un tessuto sostanzialmente narrativo e narrativizzato; è questa l’intelaiatura base sulla quale cucire l’abito del «commento», della «didascalia», della «glossa», della «tiptologia» alle notizie del multiverso totalmediatico. Siamo lontanissimi dalla numinosità della poesia deangelisiana, tuttavia, in un certo senso, le due procedure sono segretamente imparentate, l’una si pone in segreta concorrenza con l’altra, ma è una concorrenza tutta interna al fatto letterario, anzi l’una prende forza e vigore dall’esistenza dell’altra. È una controdanza fondata su un patto di stabilità, di reciproca non belligeranza tra le due posizioni. Il minimalismo tende a riprodursi in post-minimalismo, il discorso post-lirico in discorso sul «privato», e qui il poeta che si distingue per stringatezza e nitore drastico è senz’altro la romana Patrizia Cavalli, l’autrice che ha varcato il Rubicone della poesia «illustre» della tradizione, che ha optato per il «privato» desublimato e per lo stile da sms, da finto linguaggio di twitter e di facebook, emblematica espressione di paralipomeni collocativi, della problematica crisi del discorso poetico nel mezzo dei linguaggi mutageni dell’evo mediatico».

Edward Hopper

Edward Hopper

Stanche divinità
.
E se mi guardi davvero e poi mi vedi?
Io voglio che stravedi non che vedi!

*

Se i miei numeri non vincono
neanche quando non li gioco
vuol dire che per me non c’è più gioco,
nemmeno la sfortuna mi sta accanto.

*
Sono Pallade Atena
ma mio padre è romano
si chiama Giove Pluvio
e io lo chiamo lo chiamo.
Se lui arriva sto bene;
se ritarda sto male
io dipendo da lui
lui mi è Pasqua e Natale.

*
Amor che fa la rima
sta un po’ meglio di prima.
Amor che rima fa
tanto male non sta.

jane fisher diver

jane fisher diver

Da La maestà barbarica
.
Stanche divinità che mi lasciate all’anima
senza governo troppo esagerata,
voi che mi davate forme e nomi
ora anche voi indistinte vi sciogliete.
C’è al vostro posto una maestà barbarica
che gira nel quartiere, che fa di ogni caffè
e negozio casa sua e da padrona siede
dove capita per scrivere lettere agitate,
che imposta senza busta perché loro
sanno fin troppo bene dove andare,
dirette come sono a certe alte
infami autorità. Resta a lungo seduta
in ostensione del suo pensiero assorto
che le detta le parole più giuste, gli insulti
più appropriati perché possa raggiungere
– nessuno sa che cosa, ma raggiungere.
Mi è capitata in mano una sua lettera,
non c’erano né frasi né parole,
ma c’era una scrittura infatuata di consonanti
triple e vocali gigantesche, tenute
insieme da volute e colonnati,
la prova che il rovello è architettura.
(…)
Quando non fa le recite
o non scrive, si confeziona costumi
portentosi. Lei non segue la moda,
ma l’impone: vanno in molti a spiare
i suoi drappeggi, le cuciture a vista,
i tagli trasversali. La sua eleganza
è quasi una minaccia, passarle accanto
coi propri vestitucci un po’ si trema
e un po’ ci si vergogna. Io non oso parlarle,
ma la guardo, la guardo sempre,
discosta e laterale. Ogni giorno
ho bisogno di vederla, se non la vedo
la vado a cercare, se non la trovo,
provo paura e noia. Temo che muoia,
temo che scompaia.

*

Anche quando sembra che la giornata
sia passata come un’ala di rondine,
come una manciata di polvere
gettata e che non è possibile
raccogliere e la descrizione
il racconto non trovano necessità
né ascolto, c’è sempre una parola
una paroletta da dire
magari per dire
che non c’è niente da dire.

*

Nel cesto della biancheria sporca
riconosco l’estate,
i pantaloni leggeri le magliette.

Avevo troppa fretta di partire
per potermi fermare a ripulire
le tracce della corsa.

Ma prima bisogna liberarsi
dall’avarizia esatta che ci produce,
che me produce seduta
nell’angolo di un bar
ad aspettare con passione impiegatizia
il momento preciso nel quale
il focarello azzurro degli occhi
opposti degli occhi acclimatati
al rischio, calcolata la traiettoria,
pretenderà un rossore
dal mio viso. E un rossore otterrà.

*

Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.

*

Dolcissimo è rimanere
e guardare nella immobilità
sovrana la bellezza di una parete
dove il filo della luce e la lampada
esistono da sempre
a garantire la loro permanenza.

Montagna di luce ventaglio,
paesaggi paesaggi! come potrò
sciogliere i miei piedi, come
discendere – regina delle rupi
e degli abissi – al passo involontario,
alla mano che apre una porta, alla voce
che chiede dove andrò a mangiare.

diabolik particolare di  Eva Kant R. Lichtenstein

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

Ah sì, per tua disgrazia,
invece di partire
sono rimasta a letto.

Io sola padrona della casa
ho chiuso la porta
ho tirato le tende.
E fuori i quattro canarini
ingabbiati sembravano quattro foreste
e le quattromila voci dei risvegli
confuse dal ritorno della luce.
Ma al di là della porta
nei corridoi bui, nelle stanze
quasi vuote che catturano
i suoni più lontani
i passi miserabili di languidi ritorni
a casa, si accendevano nascite
e pericoli, si consumavano
morti losche e indifferenti.

E cosa credi che io non t’abbia visto
morire dietro un angolo
con il bicchiere che ti cadeva dalle mani
il collo rosso e gonfio
vergognandoti un poco
per essere stata sorpresa
ancora una volta
dopo tanto tempo
nella stessa posizione nella stessa condizione
pallida tremante piena di scuse?

Ma se poi penso veramente alla tua morte
in quale letto d’ospedale o casa o albergo,
in quale strada, magari in aria
o in una galleria; ai tuoi che cedono
sotto l’invasione, all’estrema terribile bugia
con la quale vorrai respingere l’attacco
o l’infiltrazione, al tuo sangue pulsare indeciso
e forsennato nell’ultima immensa visione
di un insetto di passaggio, di una piega di lenzuolo,
di un sasso o di una ruota
che ti sopravviveranno,
allora come faccio a lasciarti andar via?

*

Sarebbe certo andato tutto bene,
una passeggiata un caffè, al cinema
qualche volta insieme, le cene
a casa o al ristorante; sarebbe stato
insomma tutto regolare
se all’improvviso togliendosi gli occhiali
non si fosse seduta sorridendo
con un’aria leggermente impaurita
e i capelli un po’ spettinati
che la facevano sembrare appena uscita
da un sonno o da una corsa.

*

Per questo sono nata, per scendere
da una macchina dopo una corsa
in una strada qualunque e trafficata
e guidata dagli angeli piegarmi
attraverso il finestrino
sopra quei capelli e in silenzio
sentire l’odore di quel viso
dove poco prima avevo visto
come la bocca e gli occhi
si passavano un sorrido che non si apriva mai
e correndo veloce scompariva
in un attimo e tornava.

bello varietà

Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.

*

Mi ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,
aggiustata la piega destra della bocca, assottigliato
il corpo, alzata la statura. Avevo anche regalato
alle spalle un ammiccamento trionfante. Ecco ragazza
ragazzo
di nuovo, per le strade, il passo del lavoratore,
niente abbellimenti superflui. Ma non avevo dimenticato
il languore della sedia, la nuvola della vista.
E spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo
segreto intoccabile. Nelle reni
si condensava l’attesa senza soddisfazione; nei giardini
le passeggiate, la ripetizione dei consigli,
il cielo qualche volta azzurro
e qualche volta no.

*

Adesso che il tempo sembra tutto mio
e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
adesso che posso rimanere a guardare
come si scioglie una nuvola e come si scolora,
come cammina un gatto per il tetto
nel lusso immenso di una esplorazione, adesso
che ogni giorno mi aspetta
la sconfinata lunghezza di una notte
dove non c’è richiamo e non c’è più ragione
di spogliarsi in fretta per riposare dentro
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,
adesso che il mattino non ha mai principio
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
a tutte le cadenze della voce, adesso
vorrei improvvisamente la prigione.

 Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50x100-vernice-effetto-pennellate

Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50×100-vernice-effetto-pennellate

Di essere ormai adulta l’ho capito
da come la notte vado al gabinetto.
Sicura di tornare al grande caldo, prima
era un’interruzione quasi a occhi chiusi,
veloce e trasognata. Ora è un viaggio lento
e freddo, staccato dal sonno, dove guardo
sapendo di guardare le stesse mattonelle
lo stesso muro screpolato, lo stesso secchio
lasciato in mezzo al corridoio,
e confusa nell’estatico disordine
riconosco il percorso in un codice
di piccoli sussulti finché mi riconsegno
a un tiepido torpore castigato.

*

Nella febbretta cuposa dei risvegli
il sudore del sonno si ingiallisce
e cola addosso alle finestre, al cielo
anche se è azzurro. E quando esco
dal sibilo dei sogni
che ha lasciato le mie orecchie ottuse
intossicate dalla ripetizione e riconquisto
lentamente i gesti
che mi portino a un’altra posizione
(forse se metto una camicia a righe
e i pantaloni bianchi, camminerò più in fretta,
avrò un’andatura eretta) dove io non sia
il recinto inerme dei terrori,
l’impresario di scontri clandestini
che alla fine si innamora dei suoi attori,
trovo una mimosa oro antico
il suo turno di splendore ormai finito,
il gregge come una nuvola piatta e mobile
sul prato senza più la frangetta degli agnelli
e il caprone capo col campanaccio al collo
abituato ormai a credere
che muoversi sia il suono.

*

Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.

(da Poesie, Einaudi 1999)

50 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

QUATTRO POESIE SCELTE di Annamaria de Pietro La discesa,  La landa, Il piano inclinato, L’imboscata, SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

giuseppe pedota acrilico su perplex anni Novanta Esopianeta

Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta Esopianeta

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale  paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012).

Appunto di Giorgio Linguaglossa

C’è una traccia sottesa nella versificazione di queste poesie che è come un significante sotterraneo che scorre e contamina il linguaggio con la sua struttura di presenza-assenza, di doppio movimento di “protensione e ritenzione”. La struttura metrica chiusa della de Pietro vuole chiudere il concatenarsi delle differenze ma, ogni tentativo di chiusura è costretto a fallire per il rimando ad un altro significante, e così via all’infinito. È possibile l’apparire del senso, solo in quella scrittura che fugge qualsiasi situazione di stasi o di presenza assoluta, che eccede (o de-cede) qualsiasi domanda d’essenza, e che, eppure, non è nulla, che sembra evaporare, non è inesistente o insensata, ma non è neanche esistente (da intendersi nel senso della semplice presenza) e permette una qualche forma di senso (che non è quello pieno, sostanziale ed assoluto che consentiva la lirica della «presenza», fin quando almeno ciò poteva essere inteso ammissibile), C’è un significante-traccia che si incarica di guidare il lettore verso il senso, che si rivela essere neppure l’unico significato di un significante senza significato, di un significante che non ha altra funzione se non quella di significare un altro significante. C’è un dileguarsi di questo significante-traccia, un’erosione che accade, come dice Derrida, alla “maniera del ladro”, che “svuota sempre la parola nella sottrazione di sé”, la potenzialità espropriante del linguaggio che ruba in fretta le parole che il soggetto ritiene di avere trovato, “molto in fretta, perché deve scivolare invisibilmente nel nulla che mi separa dalle mie parole, e trafugarmele prima ancora che io le abbia trovate, perché, avendole trovate, io abbia la certezza di esserne già sempre stato spogliato”.

Per Derrida, ogni parola, da quando è parola, è infatti “originariamente ripetuta”, istantaneamente sottratta, “senza mai essere tolta”, a colui che parla e che se ne crede padrone; e tale sottrazione si produce come un’enigma, come una parola che nasconde la sua origine e il suo senso, che non dice mai da dove viene o dove va “perché non lo sa”, perché questa ignoranza, quest’assenza del suo proprio soggetto le è costitutiva. Allora quello che si chiama il “soggetto parlante” non è più “quello stesso e quello solo che parla”: facendo esperienza della parola, si scopre da sempre in una situazione di irriducibile secondarietà, di espropriazione radicale rispetto al luogo organizzato del linguaggio in cui ogni tentativo di collocazione è vano perché il posto è sempre mancante.

opera di Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

opera di Giuseppe Pedota, Esopianeta, anni Novanta

La discesa

Alla prima transenna la supplente
chiese il lasciapassare. Non lo avevo.
Tentai l’imbroglio di una carta bianca.
Lei si volse di fianco, e fu evidente
che era quella la carta, che potevo.
Cosí passai alla terra di nessuno
esca di una transenna, che si allarga
a coltivi selvaggi e a gigli d’acqua
fra prode asciutte che palude sfianca.
E tutto il verde sfinito vedevo,
e gli specchi dei serpi a umido fumo
doppi altamente in fermissima targa –
e il passare tardante di un canale
di costa dal fogliame in trita placca
riversa da una patria naturale –
e il filare avversario alla corrente
di alti pioppi seguaci che urge e ranca
per l’acqua lenta in celeste rilievo.

Alla seconda transenna la spia
finse di non conoscermi. Io sapevo
che era un trucco segreto, un gioco d’anca
in danza di curiale prosodia,
e a quella curia io fui sagace allievo
al passo per la terra di qualcuno.
Entrai passando una feroce marga
che pascolavano pecora e vacca,
che inverdivano piante a ricca branca
e vigne vaste d’impianto longevo,
e a cinque petali ventava il pruno.
Era dolce passare quella larga
fascia di pausa da ogni avaro male,
dove la mela e la mora di macchia
diversamente di un giardino uguale
erano sconfinata sagrestia.
E me ne andai per quella terra franca
finché la notte impose il suo prelievo.

Alla terza transenna il bracconiere
mi chiese caccia, ma io non volevo
perdere penna e sangue di vivanda,
unico patrimonio, unico avere
secco dal tempo che fuggí leggero,
per quella terra dubbia di digiuno,
per quella notte non decisa parca.
Fitta al fucile gli mostrai la tacca
che la mia sola preda segna e vanta,
e gli bastò per negare il diniego.
La terra era un tristissimo raduno
di baracche sottili come carta,
sole a ridosso di croci di scale,
pallide come neve e come biacca –
e luce non passava davanzale,
e voce non batteva le ringhiere.
Dentro la notte filava una stanca
bava di vento un labile sentiero.

Alla quarta transenna quattro cani
molossi rigiravano il severo
giro delle catene per la lanca
umida di confine. Le mie mani
sguardo quadruplice di acuto spiedo
guardava, e dalle lingue scolo bruno
gocciava fame come il cuore squarta.
Non avevo che l’offa di una bacca,
e in guerra l’uno e l’altro latra e scianca,
di me perduta rabbia di pensiero.
La terra era le strade a cerchio, e uno
era il centro del centro per cui varca
unica strada di spina radiale,
ma non di qua, ma non di là si stacca
dalla circonferenza equatoriale.
Al mezzo sta la casa dei divani
e del grammofono acceso che canta
un canto che potrebbe essere vero.

(inedito)

annamaria de pietro

annamaria de pietro

La landa

La landa è dove la lancia degli uccelli
che passano da un dove a un altro dove
non lascia ombra né traccia, perché assorbe
traccia e ombra nebbiosa erba di torbe,
perché la stinge via l’acqua che piove –
e se ne vanno via passando quelli
dal cielo bianco inospitale come
se ne va via la rosa dalla neve.
Pendono ghiacci in fuga alle cimase
dall’una all’altra paratia di case
e l’acqua se ne va per strada breve
dove nessuno ha notizia del tuo nome.

(da Magdeburgo in Ratisbona, Milanocosa Edizioni, Trezzano S/N 2012)
Il piano inclinato

Sposta il viaggio il luogo il piombo che pesa
fluttuando all’andare, cucendo i segmenti
inattingibili fino all’attimo segnato.
Volgi lo sguardo non sapendo non credendo
come chi cerca accordo e tregua da intesa
e una borsa pesante porti a lato.
Intorno, molte le vedute sorgenti
dall’estremo fondale dello specchio
posto ovunque sul cristallo spiegato.
E fai fatica non riconoscendo
dentro le direzioni sicurezza d’intenti,
mete lontane parlanti all’orecchio
con chiari richiami, con segnali evidenti.
Tu sei nel centro, da qui ogni parte è distesa
oltre i possibili passi, al confine inviolato
che raccoglie dalle carte e dalle scritte e dagli eventi
una sola parola, e due distanti, ciascuna l’altra escludendo.
Forse un mondo altro diversamente disegnato
osa una curva amplissima, tenta e aggira un crescendo –
intanto, qui, la linea impone al moto l’orrendo
unico gioco che alterna e scambia la sorpresa
di un unico colore e del suo fermo duplicato.
E tu non sai se questo piano inclinato
sia una salita o una discesa.

(da Dubbi a Flora, Edizioni La Copia, Siena 2000)

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

L’imboscata

Ora non freme fronda. È calmo il luogo.
Strette strida di uccelli e acute solo
furiose ai polsi svenano la luce.
Acqua sorgente taglia dentro ai sassi
strade di serpi, frange d’erbe inclina.
Zampe di bestie frugano. La luce
scande ventagli e inonda i fondi bassi,
foglia secante l’ansa spessa affina.

Un’aurora passò, prima, di volo,
sopra l’intrico verde. Una mattina
svolse le sciarpe in scintillato rogo,
disciolse il miele in dorati salassi.
Un meriggio distorse l’ombra, e luce
scarnì rami diversi, ad altri passi.

Così sera si posa, ora. Lo stuolo
dei testimoni alati s’indovina,
se passi, stretto e confinato al giogo
delle ramate occluse, e finge luce
la favilla degli occhi. Sfiora i massi
un’acqua fredda scoria di crogiolo.

Un’esile valanga di sconquassi
ora, se ascolti, piano si avvicina
al riparo del folto, e contrappassi
di buio e di spento bucano la luce.
Forse è solo la morte, o è una faina.

(da Dubbi a Flora, Edizioni La Copia, Siena 2000)

7 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

POESIE SCELTE di Michele Arcangelo Firinu Chris Steven, l’ambasciatore ucciso, Mark e Eddy, gemelli, Volano Angeli, Ave Maria, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

 Michele Arcangelo Firinu è sardo di Santulussurgiu, nato nel 1945, e vive a Roma. Ha insegnato Lettere nella Scuola Media fino alla pensione. Nel 1974 ha collaborato con Bruno Corà alla realizzazione della Mostra d’arte Contemporanea a Roma. Negli anni ’80, a Milano, è stato redattore del periodico letterario il bagordo. Negli stessi anni, con il gruppo Orfeo80, è stato tra i promotori di alcuni tra i primi laboratori di scrittura creativa in Italia. Come titolare della Oximoria (piccola casa editrice, estinta con il bagordo, che editava) ha curato due piccole collane di narrativa e poesia, tra le quali la collanina Taschino e ha collaborato all’uscita del catalogo antologico di poeti Centodue (’86). Ha prefato e ha curato l’editing di alcuni libri di narrativa della editrice Polistampa Pagliai di Firenze. Nella seconda metà degli anni ’90 ha presieduto a Roma l’associazione culturale CEPAA – Teatro del Centro. Ha organizzato e curato svariate attività culturali, convegni, mostre d’arte, concerti di musica classica ed operistica, rassegne teatrali, corsi di università popolare, conferenze, rassegne e letture pubbliche di letteratura. Nel 2008 a Santulussurgiu ha diretto A libro aperto, uno degli 8 festival letterari della Sardegna. Ha pubblicato poesie su il bagordo, l’Avanti, Poiesis, il giornale nazionale COBAS dei Comitati di base della scuola e divulgato mediante letture in circoli, radio e su Internet. Un unico suo librino è dato alle stampe: Luminescenze, con sette disegni di Luigi Dragoni, il 174 della Collana dei Numeri, Editrice Signum d’arte diretta dal pittore Claudio Granaroli – michelearcangelo.firinu@fastwebnet.it

Chris Steven l'ambasciatore americano assassinato

Chris Steven l’ambasciatore americano assassinato

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

C’è una oggettività tutta brechtiana nel modo di porsi davanti agli eventi della cronaca da parte di Michele Arcangelo Firinu, il distacco e, insieme, la partecipazione ad eventi dolorosi e assurdi che capitano agli esseri umani delle classi subalterne. Firinu ha il merito di restare ai fatti, ritiene che una delle consegne a cui deve restare fedele il poeta sia quello di aderenza ai fatti e di doverli soltanto commentare con una poesia che sta a mezzo tra la filastrocca e lo strofeggiare finto assorto dei poeti laureati. Ma c’è anche il sarcasmo del poeta che prende ad oggetto delle sue poesie d’amore proprio i disperati operai morti nel cantiere, o i due gemelli che hanno chiesto l’eutanasia, o una prostituta di nome Maria. Le poesie d’amore di Firinu sono anche e soprattutto poesie di sarcasmo contro l’ipocrisia della pubblica opinione e della stampa che, com’è noto, dopo i fatti truculenti di cronaca passano con disinvoltura al commento di altri fatti rosa. È un modo, questo di Firinu, per mettere sotto i riflettori della poesia eventi che altri poeti più politicamente corretti si guardano bene dal trattare, preferendo tematiche più rispondenti a ciò che la pubblica opinio ritiene debbano essere gli argomenti statutari della poesia.
Una particolare nota di merito va fatta al trattamento del metro libero di Firinu, sempre accortamente studiato e variato secondo gli strumenti della reiterazione, dell’anafora e della anadiplosi con una particolare interpretazione della variatio di strumenti metrici molto diversi.
Una poesia che vuole in apparenza presentarsi come accompagnamento ai fatti si dimostra invece essere uno strumento di straniamento e di smascheramento dell’ipocrisia generale della società nella quale viviamo.

Poesie di Michele Arcangelo Firinu

Chris Steven, l’ambasciatore ucciso1

Muore ben pettinato l’ambasciatore,
eppure muore
e pare, nell’impietosa foto
che lo esibisce al mondo, un ecce homo,
un cristo povero deposto
dalla vita e dal suo posto,
che gli fu onore e gloria
e ora croce
di supplizio e di guerra,
come l’onorificenza postuma,
che appenderà la vedova
in salotto,
sotto il ritratto lustro,
e che dirà feroce
che a se medesimo l’ambasciatore
portò pena,
dopo che ai suoi nemici,
nell’imperiale guerra.

(Roma, 12 settembre 2012)

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Mark e Eddy, gemelli*

Nel pancione-aerostato di Mary
con amore Romy depose il seme,
affinché nelle azzurre acque della sposa
si cullasse la sua progenie.

Nella voliera liquida
staccata dalla terra,
come in una campana vitrea, silente,
due esserini monozigoti maturarono
e galleggiavano,
stretti stretti tra loro,
nel calore dell’amnios.

Nati, crebbero interpretarono
il film della loro esistenza
senza colonna sonora alcuna,
l’uno rivolto all’altro
a grammaticarsi sguardi,
i sogni ben ficcati nelle palpebre
e letti a specchio da iride a iride.

Scorre la polvere dei giorni
e riempie le clessidre sorde.
I due calzolai siedono al desco, ridono,
piantano chiodi su tacchi e suole
senza rumore.

Colma la polvere le ampolle:
quarantacinque anni nelle clessidre sorde.

Ma ora muore anche la luce
nelle pupille dei due fratelli.

Nelle loro silenti campane di vetro
non tollerano che il glaucoma
gli cali la mannaia del buio. Rattrappirsi
annichiliti, ognuno dei due in un singolo bozzolo,
come monadi senza finestre,
non sarebbe più vita.

Indossano per l’ultima foto, dopo il caffè,
un sorriso tenue, dolce, sbiadito,
dentro le tute e le scarpe nuove.
Il fratello Dirk, il papà e la mamma
li stritolano mentre li abbracciano,
serrano i denti, che non sfuggano lacrime.
Mark e Eddy Verbessen, gemelli, salutano:
“Ci vediamo in cielo”
e si coricano vicini,
come due bambini buoni
in una poesia pascoliana,
tenendosi stretti la mano.

Per due anni hanno implorato le cliniche
che non li lasciassero soli a cercar la finestra,
lo sparo, lo sfracello da un ponte.

Rispetta il loro volere
il dottor Distlemans Wim, pietoso.
Al Bruxelles University Hospital Jette Campus,
il quattordici dicembre duemiladodici,
fa scorrere nelle loro vene l’eterno riposo.

Erano in tale sintonia, i due gemelli,
che con la morte si son voluti siamesi.

(Roma, 24.02 – 5.03.2013)

Pittura Stefano Di Stasio 10

Stefano Di Stasio

Volano Angeli

Ai caduti sul lavoro, moltitudine;
All’Osservatorio di Bologna sulle morti sul lavoro in Italia, morti bianche, infortuni mortali sul lavoro, che di tale moltitudine tiene conto e memoria.

Come volano gli angeli
che volano,
che volano dai tetti,
che volano e non hanno ali,
che sfidano i marciapiedi incatramati.

Come volano gli angeli
quando li sprecano, non li proteggono;
come volano gli angeli dai palchetti
e non hanno ali,
non hanno freni si sfracellano
nei cortili dei cantieri desolati.

Come volano gli angeli
nei cieli delle fiamme torinesi:
l’ala di fuoco, la mano di dio
li ghermisce,
li solleva,
li sbatacchia,
li sublima
nell’ordalia della linea cinque
degli altiforni della ThyssenKrupp.1

Come non volano gli angeli,
come non volano:
s’addormono dentro la Saras,
s’infetano dentro quell’amnios,
dentro quell’utero metallo-chimico,
nella bestemmia di desolforazione
al Mildhydrocracking 1;
come non volano quando s’accasciano,
sono tre e restano gli orfani: tre
in un amen.2

Oh, come volano, saettano gli angeli,
in un tempo molle che gli s’affloscia
sopra la testa dentro lo schianto
del capannone; com’è volato
nella buriana quell’angelo sfranto
a Tortolì.3

Come volano gli angeli che volano
dentro le tute,
che gli s’inzuppano del loro sangue;
sono alle macchine, sono alle isole,
quando s’impigliano alle catene
e gli ingranaggi coi loro sorrisi
di acciai dentati
bene li masticano,
bene li mangiano,
bene li sputano,
bene li vomitano.

Volano pezzi, falangi
di angeli; volano mani,
decollano gambe,
saettano braccia:
quanto sarebbe vasto
il campo non-santo
delle tombe degli arti?
Sprizza il sangue degli angeli bastardi,
annaffia campi e hangar, nutre
pance di macchine ebbre.

Come volano gli angeli migratori:
mettono ali ai loro pensieri
sciolgono vele ai desideri;
per un pane sfidano il mare;
angeli belli, angeli neri,
nessuno li vuole coi loro fuscelli;
volano dentro l’azzurra voliera,
non trovano pane, bevono sale,
saziano pesci, saziano squali
in quella liquida profondità.

Oh, come volano gli angeli delle riserve
che non lavorano,
che non li vogliono,
che non li pagano,
che non consumano,
che non dimorano,
che non si lavano,
che mal si vestono,
che molto tanfano;
nei marciapiedi dormono,
nei marciapiedi siedono,
nei marciapiedi questuano,
nelle panchine ubriacano,
e negli inverni ghiacciano,
di quando in quando bruciano
e nelle fiamme crepitano
e nelle fiamme strepitano
e nelle fiamme crepano
e negli inferni involano.

Com’è silente nel gelo il volo
degli angioletti di carbone e cenere:4
bruciavano stracci imbevuti nell’alcol
nella baracca, per riscaldarsi.
Volano nell’ombra del cupolone
nel cielo arrossato dalla nostra vergogna,
in questa gogna grassa, la Roma empia,
che ha eletto l’oro come cuore di dio.

Com’è volato l’angelo Ion5
messo al servizio di un bel rottweiler,
Mema il romeno, placido e docile,
metteva il cane alla catena;
ma un giorno quel cane si è rivoltato
e ha messo l’uomo alla catena;
come volava la testa di Ion:
correva il cane figlio d’un cane,
giocava nel prato e beveva quel sangue.
Non vide il Natale mentre volava
la testa spiccata dell’angelo Ion.

Oh, come volano gli angeli
che nei tralicci salgono,
che ci lavorano,
che vi si folgorano,
che vi si bruciano,
che vi si cuociono,
che poi li calano,
che poi li interrano,
che poi gli mancano,
che li ripiangono nei Ferragosti,
dentro gli odori dei loro arrosti.6

Come volteggiano,
quanti ne volano
e non manca giorno,
in ogni refolo,
in ogni angolo,
in ogni spasimo,
anno per anno, in ogni mondo:
come in battaglia in una tonnara,
come in mattanza a Little Bighorn7!

Volarono angeli di argenti, ori,
zinco, silicio, quarzo, azzurrite;
volarono angeli a Monteponi
a Trubba Niedda, Perda Majori,
al Salto di Quirra di Gerrei,
a Monte Pisano8 e un battaglione
nelle budelle di carbone;
erano tanti a Marcinelle9:
ci fu un boato, li tirarono su,
avevano ali di grisù.

Oh come volano,
volano gli angeli,
e come folano,
come s’affollano
dentro i silenzi,
dentro l’oblio,
privi di un angelo,
privi di un dio.

(Roma, 28.12.10 – 16.03.20) Continua a leggere

9 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento

Roma, Giovedì, 12 febbraio 2015 ore 18 Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3 – Incontro con gli Autori di Chelsea Editions: Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli, Contributi di Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark, Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi – Coordina Adam Vaccaro

Roma, Giovedì, 12 febbraio 2015 ore 18 Casa delle Letterature Piazza dell’Orologio, 3 – Incontro con gli Autori di Chelsea Editions: Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli, Contributi di Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark, Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi – Coordina Adam Vaccaro

Associazione Milanocosa

 

invita all’Incontro

con gli Autori di Chelsea Editions:

Franco Buffoni, Annamaria Ferramosca, Valerio Magrelli,

Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli

coordina Adam Vaccaro

 

con contributi e testimonianze di:

 Cecilia Bello Minciacchi, Donato Di Stasi, Sean Mark,

Giuseppe Panella, Giorgio Patrizi  

 

Chelsea Editions, New York, fondata e diretta da Alfredo De Palchi, svolge da decenni una funzione preziosa volta alla conoscenza in America della poesia italiana contemporanea.

Autrici e Autori di Roma e Milano delle prestigiose edizioni newyorkesi dedicano un incontro di testimonianza e riflessione critica, in un momento in cui la cultura più attenta agli orizzonti internazionali impone anche all’espressione poetica aperture e rinnovamenti adeguati.

 

                                                                                                                    ChelseaEditions            

  

Giovedì 12 febbraio 2015 – ore 18.00

 Roma

Casa delle Letterature

Piazza dell’Orologio, 3

 Info: 

Associazione MILANOCOSA c/o A. Vaccaro, Via Lambro 1 – 20090 Trezzano S/N (MI);

  1. 347 7104584 – www.milanocosa.it; Email: info@milanocosa.it adam.vaccaro@tiscali.it


giorgio (6)
giorgio (5)giorgio (4)giorgio (3)giorgio (2)

19 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

SETTE POESIE di Ekaterina Josifova (1941) Poesia bulgara, traduzione di Alessandra Bertuccelli con un Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

https://www.youtube.com/watch?v=_cnGUT9n5iQ 

Ekaterina Josifova è una delle voci più autorevoli della poesia bulgara contemporanea. Nata nel 1941 nella cittadina di Kjustendil, nella Bulgaria sud-occidentale, si laurea in russo presso l’università di Sofia, lavora come insegnante, giornalista, redattrice e, tra il 1972 e il 1981, come drammaturgo nel teatro della sua città natale. Oltre ad essere una delle figure più significative e innovatrici della poesia bulgara contemporanea, è anche senza dubbio la voce più influente sulle giovani generazioni. Il ventennio tra il 1969 e il 1989 è quello in cui si colloca la sua prima produzione poetica, la quale è fortemente legata all’attività dei poeti Konstantin Pavlov, Nikolaj Kanchev, Bin’o Ivanov, Stefan Gechev, Ivan Teofilov, Ivan Dinkov, Hristo Fotev, Ivan Canev. Ekaterina Josifova è l’unica voce femminile all’interno di questo gruppo intento a sviluppare modalità stilistiche e temi alternativi rispetto a quelli della lirica ufficiale. Gli autori che nel corso degli anni ’90 vengono fatti confluire nel nov avtentizam, espressione coniata dal critico Plamen Dojnov, che letteralmente significa nuova autenticità, si ispirano a temi e a strategie stilistiche le cui basi sono ben rintracciabili nel gruppo dei poeti sopracitati. Del nov avtentizam Ekaterina Josifova è il maggiore esponente. Fra le due tendenze principali di questa corrente  – intimizzazione/ interiorizzazione del mondo vs esternazione/ pubblicizzazione del privato – la Josifova si colloca nella prima. La sfera personale e la normale quotidianeità permeano lo spazio. Nei suoi versi, spesso brevi e spiazzanti, talvolta enigmatici, risiedono ironia e disincanto. (Michail Nedelchev a questo proposito parla di “stoica normalità”).

Le sue poesie, pubblicate in 12 raccolte, sono tradotte in diverse lingue, tra cui il russo, il tedesco, l’inglese, il macedone, il francese, l’ungherese, il turco e l’italiano (La pioggia fuori è la prima raccolta di poesie scelte tradotta in italiano e vincitrice del premio Ciampi “Valigie Rosse”, 2013). Tra le più recenti pubblicazioni dell’autrice: Su e giù (2004), Mani (2006), Questo serpente (2010). precisazioni sulle poesie di Ekaterina Josifova – glinguaglossa@gmail.com – Gmail

“Mi metto in posizione comoda”, “In cerchio” e “Un grido” sono tratte dalla raccolta “La pioggia fuori”. Tutte le altre sono state pubblicate in traduzione per la prima volta sul num. 17 della rivista di poesia “L’Ulisse” nel  2014
Ekaterina Josifova

Ekaterina Josifova

Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

La scrittura letteraria è uno «spazio di morte» ha scritto Blanchot ma uno «spazio» dove protagonista assoluta è la vita. Dal corpo morto della scrittura adesso risorge la vita.
I saggi di questi ultimi anni sul post-contemporaneo di Roberto Bertoldo affrontano una serie di questioni. La domanda che si pone l’opera poetica è: chi è colui che parla e a chi lo dice?

Il post-contemporaneo è una categoria problematica,

priva di collocazione spazio temporale essa abita il «presente» ablativo e il suo luogo di applicazione ermeneutico è l’opera poetica e artistica. Il fatto che salta agli occhi è che la parola della poesia non fonda né stabilisce nulla tranne la propria interrogazione. Un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù, oggi questa è una domanda che la poesia rivolge a se stessa. Questa domanda può essere un atto di fede, ma preferirei parlare di dubbio, di ricerca; diciamo che l’interrogazione poetica abita di preferenza il traslato, il discorso indiretto, il discorso implicito, il meta discorso, c’è una sfiducia diffusa sulle capacità discorsive della forma-poesia. Alcuni segni si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili. Il significato di questi segni non può essere conosciuto dal poeta, i segni viaggiano nel tempo, o meglio, si diramano in più temporalità, ma l’interpretazione di ciò che il tempo dice diventa sempre più problematico. Il tempo dice: nulla. Dunque, nichilismo.

La «secolarizzazione» che ha investito il discorso poetico lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, di aproblematica identificazione; tutti i luoghi sono simili, si assomigliano, gli aeroporti,, i cavalcavia, le stazioni ferroviarie, i cinema, gli interni ammobiliati delle nostre abitazioni, le carlinghe degli aerei, i portabagagli delle nostre automobili, le nostre valigette ventiquattrore… tutti i luoghi della nostra vita quotidiana si assomigliano, viviamo in non-luoghi, siamo noi stessi il precipitato dei non-luoghi, di non-eventi, viviamo in temporalità terribilmente somiglianti. Ecco, direi che è esattamente questo il post-contemporaneo.

Nella poesia di Ekaterina Josifova abbiamo in primo piano tutti i dettagli del nostro mondo occidentale: gli interni (divano, cuscino, coperta morbida etc.) per lo più elencati come didascalia di un testo a venire, o che si sta per rappresentare; poi ci sono come ospiti la Musa la quale si fa avanti a dice: «posso aggiustare il fornello. / Posso smontare la serratura», oppure Eraclito di Efeso che gioca agli aliossi con i bambini nel tempio di Artemide; oppure siamo nell’attimo che precede la caduta di un balcone mentre noi stiamo lì; oppure, c’è  «un grido umano», o forse è quello «un uccello notturno»; c’è anche Jack London che scrive qualcosa di irriconoscibile. Tutte situazioni che oscillano tra la normalità e l’assurdo, il quotidiano e l’onirico. Tutte situazioni compossibili. Eventi immaginati, eventi mancati, eventi realizzati che ci dicono molto e di scorcio sulla nostra situazione di contemporanei.

La Josifova dice il silenzio che sottintende il linguaggio, riempie il simbolismo vuoto che marca il tempo morto del testo, il linguaggio,  è la rottura stessa della totalità. Ciò che la lettera dice è nell’involgersi su di sé del linguaggio, che è nel vuoto che il linguaggio ottiene la possibilità di essere significante.

L’«evento» nella scrittura della poetessa bulgara è uno spazio bianco dove qualcosa potrebbe biforcarsi in più direzioni, o non avvenire affatto, dove tutto è sospeso nell’aleatorio. Direi che la scrittura è uno spazio di morte che ci informa su quel pianeta lontano e sconosciuto dove abbiamo ben saldi i piedi. Fare poesia con il metro libero è simile a camminare su una corda a 100 metri dal pavimento. La Josifova ci riesce con una naturalezza sorprendente, cammina sul filo senza ricorrere ad appoggi (a zeppe, ai facili tropi), sta qui la classe di una poesia, che sa camminare con le proprie gambe senza avere la supponenza di voler pronunciare parole o sentenze definitive, senza voler apparire gnomica o aforismatica, dice cose assolutamente normali, con una voce assolutamente normale, non alza mai il tono, non carica mai il lessico, non alza mai la voce. È la poesia di un eccellente poeta, inoltre, non è poesia né maschile né femminile (come va di moda presso il sottobosco italiano), non pretende di disvelare verità sbalorditive o transmentali. Sì, è vero, non usa la metafora perché la Josifova preferisce la fedeltà alla parola referente, è una scelta di posizione, una opzione estetica. E poi lo straordinario coraggio di pronunciare una vocale e andare subito dopo a capo. A me sembra di una audacia straordinaria, quanti poeti possono permettersi una simile disinvoltura? 

 traduzioni  a cura di Alessandra Bertuccelli

Mi metto in una posizione comoda

Sul divano, il cuscino, la coperta morbida,
i libri.
Anche l’illuminazione è buona.
Non viene nessuno,
ma non perdo la speranza
che entri e che dica
in tono di rimprovero:
e anche questo governo è caduto
e tu leggi Lao Tsu.
Al che rispondo:
esattamente.

Doni

Hai una scure e un’isola.
L’isola ha un albero.
Proprio quanto basta per scavare una piroga.
Sali nella barca.
Ti stacchi dalla riva puntandovi il ramo più dritto dell’ex albero.
La corrente giusta afferra la barca.
La ferma sulla costa del continente.
Ti metti a vivere lì. No, non sulla riva, in città.
La barca è marcita da tempo.
Non sai il nome – non lo chiedi -di quell’isola.
Né di quell’albero.

Ekaterina Josifova

Ekaterina Josifova

Coercizione

Ti chiede lei, nel caso ideale, in una cella singola
con uno strumento, ad esempio un violino
e ti dice: esci di qui quando saprai suonare.
O in una cella con un cinese:
uscirai quando inizierai a parlare il cinese.
Non hai mai voluto che scrivessi una poesia.
Ma è utile:
posso aggiustare il fornello.
Posso smontare la serratura.

Gioco degli aliossi

Il gioco degli aliossi esige destrezza, velocità e allegria.
Eraclito di Efeso
amava giocare agli aliossi con i bambini di Efeso, e per di più
nel tempio di Artemide. Per quanto la conosco
penso non avesse niente in contrario. I giochi
degli adulti sono non solo giochi, le opinioni
preconcette e non meritevoli di attenzione.
Quello che invece merita sgorga dal
Dissenso.
Questo scrisse quello stesso Eraclito,
accusato di volontaria cripticità e chiamato l’Oscuro.

Ekaterina Josifova

Ekaterina Josifova

Ci siamo buttati

Gli strumenti sono impazziti, sono apparse delle scritte
Pericolo di collisione! – con l’esclamativo
Sugli schermi non si vede nulla
Trenta secondi alla collisione, annuncia la voce regolare
Tutti gli allarmi sono accesi
Ma sugli schermi niente
Nella confusione
Il genio ha gridato: datemi
Una finestra normale!
Ci siamo buttati
Io più vicino, sono saltata per prima sul bancone e
Ho visto sul normalissimo tetto di fronte
Un normalissimo gatto e su di lui,
In picchiata,
Normalissime rondini
Tre secondi alla collisione
In quell’attimo
Il balcone ha cominciato a cedere.

.
In cerchio

Jack London, l’allegro Jack, l’uomo di successo,
forse segretamente annoiato
—–dagli uomini forti e dai lupi
(e un po’ prima della fine)
scrisse approssimativamente una cosa del genere:
In una clinica psichiatrica,
di pomeriggio, in un momento vuoto
(all’incirca,
—-quando inizia a riempirsi il circolo)
ogni giorno una grassa, una brutta,
———-ragazza minorata,
seduta beatamente con le mani in grembo,
———-in cerchio con un’altra
decina di grasse, brutte
———-ragazze minorate,
dice:
“Quanto sono fortunata
———-a non essere minorata.”
Poco dopo un’altra grassa,
———-brutta, ragazza
minorata dice:
“Quanto sono fortunata
———-a non essere minorata.”
Dopo un altro po’ si sente la terza:
“Quanto sono…”
E così
via.

Ekaterina Josifova copertina

Un grido

Non è così vicino, non può capire uno
Che è un grido umano?
Può essere un uccello notturno o un uccello in generale
Che imita
Il grido umano,
Un uccello canterino
O qualcosa di totalmente diverso, ad esempio
Un grido umano
immaginato
o
un grido umano, ma
addormentato, un grido nel sonno e
quindi niente di male,
è
solo qualcosa di notturno,
l’ho sentito.

29 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia europea

QUATTRO POESIE INEDITE di Steven Grieco “All’usignolo”, “Tradizione orale”, “Girasoli neri” “La protopoesia” – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa, Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Email: protokavi@gmail.com

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

È difficoltoso, per un lettore italiano, entrare dentro la poesia di Steven Grieco, poeta bilingue, inglese italiano, che ha vissuto e studiato per gran parte della sua vita in Asia, a contatto con culture antiche e un mondo in sviluppo tumultuoso come l’India dove lo sviluppo industriale convive con un mondo antichissimo e statico. Grieco, proprio per questa sua duplicità e la sua cultura cosmopolita, riesce a fare un discorso poetico complesso, che oscilla tra poesia e metapoesia, poliedrico, indiretto, allusivo, non immediatamente comunicativo, oserei dire trans-comunicativo (cioè che punta ad un surplus di comunicazione poetica mediante una apparente sottrazione di parole-referenti), che alterna il testo base con un testo (o sotto testo) parallelo, sottostante. Entrambi i testi (base e parallelo) si articolano tra serie di parole e di immagini, talora omonime o imparentate, a volte affini nell’aspetto fonico o in quello semantico, a volte diverse; le immagini vengono assemblate per omologia e isotopia, e anche per contrasto, così il testo, oltre che e prima che nella sua compagine sintattico-semantica, ci si rivela come un complesso schema di richiami e di rimandi tra parole, enunciati e immagini tra il testo base ed il testo sottostante, o parallelo (sottostante o soprastante o lasciato lievitare in sospeso tra le righe del testo base), suddiviso in strofe (che hanno anche una funzione fotogrammatica) che si susseguono secondo il concetto di variazione di ciò che è invariante.

Tutta intima, rastremata, interna e internalizzata su un letto di degenza, la poesia di Steven Grieco-Rathgeb sta nella camera operatoria della poesia in auscultazione di minimi cenni, di minimi trasalimenti, di sottili indizi e ossessioni che ritornano alla coscienza non per essere rivelate quanto per essere tradite. Alla luce del giorno (giacché la poesia di Grieco è intrisa di luce), la Poesia si incarica di ricacciare indietro alcune parole nell’oscurità, farle riposare all’ombra, nel crepuscolo, per poi, all’improvviso, osservarle nella piena luce del giorno con i loro colori splendenti. Grieco-Rathgeb lascia che le parole vengano a lui dopo una lunga trasmigrazione nel mondo e nel suo pensiero, soltanto dopo questa lunga trasmigrazione accetta le parole: «il loro germinare, / così le migrazioni rivelano orizzonti impensati». Nell’ode «all’usignolo», Grieco-Rathgeb si pone alla ricerca dell’origine, dell’inizio del canto, perché nessun canto è più puro di quello dell’usignolo in quanto libero dall’usura  del commercio semantico:

Nessuno meglio di voi canta
che il canto non ha inizio
 

– non laringe, non gola, non lingua –
questa follia avvampa
                                     si propaga!

Nell’usignolo c’è tutto il mistero della voce e del canto. Il mistero delle parole prive di semantica. Quali parole utilizzare e perché, si chiede costantemente Steven Grieco mentre accenna quasi distrattamente a parlare d’altro. Perché la voce precede il canto, mentre il canto si volge verso l’origine, come Orfeo che si volta a guardare Euridice. Ma è in questo labilissimo atto del volgersi indietro che il canto scompare e la magia si dissolve, ed Orfeo ripiomba nel buio. La poesia di Steven Grieco nasce, come ogni poesia che proviene da un pensiero poetante, da un divieto, da una proibizione, da una interdizione all’ingresso nel «sacro»; vuole oltrepassare la soglia, scardinare il divieto, sconfiggere la morte delle parole. È una lotta titanica quella che qui si intraprende. La poesia di Grieco non ha un oggetto come non ha un soggetto individuabili e stabili. Guarda da un luogo dell’aria e tende verso l’aria, misteriosa e guardinga, timida e ritrosa, vorrebbe il tutto e subito ma non può nulla, perché nulla è in suo potere. Avanza con passo da psicopompo e da vestale del tempio di Vesta con un verso anagogico lungo il precipizio di una scala a chiocciola, sempre più a fondo, sempre più ripida e scoscesa. Danse macabre attorno ad un fuoco fatuo, ad un girasole nero.

E mentre vi ascolto, non posso mai conoscere gli alberi che si
frappongono agli alberi

mai conoscere la luce gorgheggiata, il vostro cantare
che canta l’Io

Gli «alberi che si frappongono agli alberi» e che ottundono la visione. Un antico ideogramma cinese rappresenta l’Essere come un bosco pieno di foglie, foglie che impediscono la visione del lettore a spingersi al di là. «La luce gorgheggiata» del misterioso usignolo ci parla dal luogo che ottunde la nostra visione del bosco.

E gli alberi sulla collina, in questa tenebra così assorta, sono l’altro
da se stessi…

Steven Grieco

Steven Grieco

All’usignolo

1.

Nessuno meglio di voi canta
che il canto non ha inizio

– non laringe, non gola, non lingua –
questa follia avvampa
si propaga!

e per quanto possiamo desiderarne la scintilla
essa non è che una scintilla
insidia all’abbandono

che acquieta
le voci concitate
il pesticciare di passi in sogno

così che nella notte
stupefatto
arriva
questo suono illuminato

per dire infine
il suo, il nostro sparire

sempre radioso sempre magnifico
sempre luogo dell’inudito

vascello senza ormeggio,
naufrago e oscuro

soltanto per noi

2.

Minuscoli buchi di luce che ruota, sussurri che spargono solo se stessi

dilagando fuori dall’oscurità, ad occhi spalancati, l’imprevisto
essere così

Ovunque, adesso, in sempre più luoghi – buchi di luce che gorgheggia,
fissano, rispenti dentro la notte

E gli alberi sulla collina, in questa tenebra così assorta, sono l’altro
da se stessi, sono la propria incenerita nerezza che ti canta

Mentre ascolto, risuona l’inimmaginabile – la trasparenza d’ogni
nostro vissuto, questo sapiente fremente specchio-crepuscolo.

Il mio corpo fruscia, e penso “voi-ed-Io”; poi tutto tace, e ancora
cantate interni: e questo inganno, questo segreto svelato,
è soltanto loro sulla muta collina

E mentre vi ascolto, non posso mai conoscere gli alberi che si
frappongono agli alberi

mai conoscere la luce gorgheggiata, il vostro cantare
che canta l’Io

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Tradizione orale *

L’etimo di leggere: questo conosci.
E’ raggiungersi dentro e oltre,
sfiorare in ogni attimo l’estremo ardire?
O esiste chissà dove una soglia
che noi varchiamo verso un’origine nascosta?
Perché le parole che da ogni lato si volgono
ingannevoli,
non mostrano tutto il visibile
(visto che lo stesso guardare così presto
si vanifica)

Dunque non dire è “scritto”; non cercarvi
un tesoro favoloso, un senso
che mai nessuno pensò di dargli –

qualcosa è volato più in alto,
balenando oltre la propria ombra,
colpo d’ala
all’interno di una cupola:

e anche “cupola” è solo sordità, eppure
freme nello splendore di quell’eco,
risuona nella gioia che non ha eco.
Dopo, l’ala rabbuia.

Questa scala che sale così ripida
non potrà mai salire al proprio vertice.
Emozione di luce: un giardino, chissà.

.
*Il senso della poesia si muove fra tradizione orale e tradizione scritta. Il primo verso in inglese allude all’etimo antico germanico “rede” “eloquio”, da cui discende il verbo “to read” “leggere”. Vi è qui un curioso parallelo con la parola italiana “leggere”, che risalirebbe al greco “leg-ein” “discorrere”, “lexis” “parola”, e in ultima istanza al termine “logos”.

 

Girasoli neri

L’utile sulla perdita è stato grande,
il mondo s’è aperto come un libro aperto.

Ovunque guardo ci sono girasoli neri,
il loro splendore risucchiato nei propri abissi.

Incredibile che questa, la progenie della luce,
stia al nostro cospetto come ciechi in un campo:
semi neri, a miriadi, pronti a involarsi.

Come il loro germinare,
così le migrazioni rivelano orizzonti impensati
dopo la fine di ogni attesa

quando è il volo ulteriore di quegli stormi
a definire ogni cielo, ogni paesaggio.

E dopo il viaggio così lontano da se stesse
queste parole, pronunciate, le sappiamo poesie:

ma lasciandoci dietro perfino le parole – girasole, seme, poesia –
sono perdita, solo perdita.

 

steven grieco il quadrato

steven grieco il quadrato

La protopoesia

ricordo di Anuradha Beri

Prima di entrare in questa sala illuminata a giorno
potevo ancora dire che in te stava il nostro ultimo calore:
ancora vivevamo nell’abbraccio della tua
notte.

Adesso cammini e cammini al piano di sopra,
nell’antico poema mistico che è la mia mente
ascolto il tuoi passi echeggiare sul pavimento di marmo lucente.
Qualcuno lo trova strano?
Per me ci sono segni e riferimenti:
e io torno, volta dopo volta, in segreto,
alla tua sala dagli alti soffitti
dove la luce diurna non si spegne mai
ma è notte
con tutte le macchine parcheggiate fuori
e ogni cosa
dimora del silenzio.

In questa chiarezza, le vie subito si perdono, il mio sguardo acuto
sfuoca; i pericoli stanno ovunque, il dolore
soltanto ricopre di un velo
la stretta fessura,
il grembo tra veglia e sonno
dove tenevi in braccio il tuo bimbo,
nella voragine tra due mondi.

Ma chi sono per negare
questa mia immagine di uno spazio aperto?
Perché odiare me stesso per un tale inganno
se è qui che sto,
nella tua sala dagli alti soffitti
dove la luce non si spegne mai
e io ispiro la tua notte

che vive: la tua notte
che mi toglie il respiro: dentro, fuori,
senza ormai alcun senso.

Mi siedo, libero da ogni pensiero.
Mi siedo, tormentato oltre ogni pensiero.

(2012)

giorgio linguaglossa 2011

giorgio linguaglossa 2011

 Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2005 esce il romanzo breve 24 Tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. nel 2014 cura la pubblicazione dell’Antologia di poesia Poeti del Sud (EdiLet, Roma) e nel 2016 cura l’Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma)>; sempre nel 2016 esce il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la rivista internazionale di letteratura lombradelleparole.wordpress.com – sito  personale http://www.giorgiolinguaglossa.com e-mail: glinguaglossa.@gmail.com

12 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

TRE POESIE INEDITE di Pasquale Vitagliano SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

roberto cicchinè untitled 2009

roberto cicchinè untitled 2009

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Pasquale Vitagliano

Pasquale Vitagliano

Pasquale Vitagliano. È nato a Lecce. Vive a Terlizzi (BA) e lavora nella Giustizia. Giornalista e critico letterario per riviste locali e nazionali. Ha scritto per Italialibri, Lapoesiaelospirito, Reb Stein, Nazione Indiana, Neobar. Sul settimanale Diva e donna ha scritto di cinema e letteratura per la rubrica Scandali e Passioni. Nel 2006 ha curato la sezione riservata a Italialibri dell’Antologia della Poesia Erotica (Atì editore). Ha pubblicato le raccolte Amnesie amniotiche (Lietocolle, 2009) e Il cibo senza nome (Lietocolle, 2011). Nel 2010 la silloge di poesie civili Europa è stata inserita nell’antologia Pugliamondo – un viaggio in versi, curata da Abele Longo (Edizioni Accademia di Terra d’Otranto Neobar). Nel 2011 ha partecipato alle opere collettive Impoetico mafioso – 100 poeti contro la mafia, curata da Gianmario Lucini (Edizioni CFR) e La versione di Giuseppe – poeti per Don Tonino Bello, curata da Abele Longo, (Edizioni Accademia di Terra d’Otranto). Nel 2012 la silloge Dieci Camei è stata inserita nell’antologia Retrobottega 2, curata da Gianmario Lucini (Edizioni CFR). Sempre nel 2012 è uscito il romanzo d’esordio, Volevamo essere statue (Sottovoce). E’ presente nell’antologia di racconti del  Dicò Erotique per Lite-edition, curata da Francesco Forlani su ispirazione del Dizionario di sessuologia pubblicato dal francese Jean-Jacques Pauvert. E’ tra i poeti antologizzati nello studio A Sud del Sud dei Santi. Sinopsie, Immagini e Forme della Puglia Poetica, a cura di Michelangelo Zizzi (Lietocolle, 2013). Sempre nel 2013 è uscita l’ultima raccolta di poesie, Come i corpi le cose (Lietocolle).

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

L’iconoclasta

Ho pensato per tanto tempo
che l’immagine di me stesso
fosse la fonte della mia salvezza.
Il maglione blu e una camicia celeste,
ecco questa è la mia identità,
perfetta identità di imperium et sacerdotio
sulla mia vita, questa vita, la sola vita che conosco.
Ed invece ho scoperto per caso che l’immagine
si staccava dalla pellicola di carta adesiva
e non si incollava più, inservibile e anonima,
tutt’altro che un idolo, era la mia quota di sacro,
l’impronta autentica di un’universale unicità.
Mi avevano convinto che dovevo combattere
la mia immagine, il look retrò dell’apparire
per servire la sostanza, per separarmi
dalla moltitudine, insomma andare in giro
con addosso con tre colori e anche più.
Devo ringraziare quella commessa coi capelli lisci
se ho capito che sbagliavo, che l’immagine
ci salva, è un’icona, ci copre con uno straccio di sacro,
apre l’immaginazione alla vita di ciascuno
e allo stesso tempo ci distingue
in una immagine, una taglia, un profilo
irriducibile, unico e comune, intero.
Quante volte mi sono sentito perso
entrando in uno spaccio di abiti appesi.
Non mi sono mai perso. Ho sempre scelto.
Mi sono salvato.

Not Vital, 700 Snowballs

Not Vital, 700 Snowballs

Fine di un’epoca

Sono fatto di pellicola,
sottile, quasi di carta,
il digitale non è ancora arrivato.
Non mi è dato di tornare indietro
quando sbaglio, ricorro ancora
al bianchetto,
ed è incredibile che sia ancora
vietato.
Sugli errori spalmo un occhio di gesso,
fermo, lo fisso, s’insecchisce, sembra
una macchia di guano. Spero
che gli errori portino fortuna.
Ho visto una donna che piange,
la scena dura sette minuti,
qualcuno ha chiesto di tagliarla,
ma il suo uomo ha voluto così.
Non siamo pietre, dice lui,
lei infatti continua e piange per sette minuti.

.
Anche i fiori passano di moda

e muoiono prima di appassire,
con i garofani ci fecero le rivoluzioni
e provarono pure a comprarci il voto.

Adesso chi li vede più i garofani
ed anche scriverci una poesia
è azzardato, nemmeno i gerani
uno legge più sui balconi all’ultimo piano.

Addio ai tulipani che fanno un bel gioco
ma non vincono mai, ed ai papaveri che
a cantarli viene da ridere. Sono rimaste
le rose senza pane, le spine, le rime, la fine.

Allora i garofani i ragazzi li sbottonavano
dentro le serre più calde delle spiagge affollate,
assediati dai sigari fumati per darsi un tono,
mentre è meglio uno zippo in bocca che non puzza.

23 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria