
«quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza» (Th.W.Adorno) – «Sono invisibili, ma io li vedo./ A tentoni… giro una maniglia» (G. Linguaglossa)
Donatella Costantina Giancaspero
24 luglio 2018 alle 14:47
«quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza» (Th. W. Adorno)
Gentile Roberto Maggiani,
da quando sono ne L’Ombra, è in assoluto la prima volta che mi trovo in una situazione così incresciosa. E mi sorprende moltissimo! Mi sorprende ricevere tale genere di rimprovero: «l’educazione vorrebbe che…». Ehi, ehi, andiamoci piano con «l’educazione»! Mi pare di essere una persona attenta e corretta, e più di un esempio può testimoniarlo. Ma veniamo ai fatti:
1. l’«invito in casa» (per riprendere le Sue parole) l’ha stabilito il nostro coordinatore, Giorgio Linguaglossa;
2. questa «casa» (ovvero la rivista) è di tutti, è libera, è di chiunque voglia intervenire, apportando con onestà il proprio contributo;
3. i commenti, a volte, possono sembrare slegati dall’articolo proposto; e qui sottolineo “possono sembrare”, perché niente, in realtà, è «fuori tema», o nasce per caso (come andrò a dimostrare proprio riguardo all’intervento di Mario Gabriele e alla mia conseguente risposta. Vedrà quanto invece sia inerente a questo articolo il senso – attenzione, ho detto “senso” – di quelli che Lei definisce genericamente «altri temi»);
4. questa «casa» non è «mia»: semmai, se proprio di qualcuno dev’essere questa casa, vivaddio!, sarà della Poesia. E qui, ne L’Ombra delle Parole, tutti hanno considerazione per tutti, almeno «un minimo», anche attraverso il silenzio, se vuole, qualora si preferisca astenersi da ogni commento diretto. Una libera scelta anche questa. E va rispettata;
5. ne L’Ombra, il fatto di «parlare con i miei amici dei miei temi» non esiste proprio, perché il web offre altre piattaforme preposte a questo: Facebook, in primis. Viceversa, nella rivista, i cosiddetti «temi» riguardano tutti, coinvolgono tutti, perché affrontano problematiche estetiche, storiche, filosofiche… In pratica, tutto ciò che può riguardare la nostra comune ricerca finalizzata a una Nuova Ontologia.
Chiariti questi punti, dirò che mi sono sentita in dovere di rispondere all’interlocutore Mario Gabriele (badi bene, ho detto “interlocutore”, perché qui siamo tutti interlocutori, prima ancora di essere amici), insomma, ho sentito la necessità di intervenire, poiché ho compreso il “senso” implicito del suo commento. E, nella mia risposta, ho inteso esplicitare questo “senso”, riproponendo la posizione di Th. W. Adorno nella sua Dialettica negativa (1966), a proposito della Poesia e dell’Arte in generale, dopo Auschwitz, dopo l’Olocausto. Il filosofo dichiara:
«nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica».
Con queste parole, Adorno assume quella tragedia storica come simbolo universale della messa in scacco dell’idea di un «senso di ciò che è».
In questa condizione, il dovere del filosofo e, nondimeno, del poeta, è quello di farsi carico della realtà.
Sì, farsi carico della realtà. Quale realtà? Questa realtà. Questa nostra, del XXI secolo. Hic et Nunc il poeta deve farsi carico della propria epoca.
Molti cambiamenti epocali, e drammatici, si sono verificati nell’ultimo (quasi) ventennio. In particolare dopo le stragi delle Torri Gemelle. The day after l’11 settembre 2001, il mondo non è più, irreversibilmente, lo stesso di prima.
Dopo Auschwitz, dopo Hiroshima e Nagasaki (di cui si avvicina l’anniversario), la strage delle Torri Gemelle rappresenta la tragedia del XXI secolo che segna l’inizio della terza guerra mondiale “a pezzi” (l’ha detto Qualcuno…).
E l’Uomo? Che cosa è diventato l’Uomo? E la metafisica? «La metafisica è paralizzata, perché quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza», scriveva Adorno dopo Auschwitz.
E la poesia? Parafrasando Adorno potremmo dire: “quel che accade ha spezzato alla poesia la base della sua compatibilità con l’esperienza”.
A questo fanno eco le parole di Giorgio Linguaglossa nella sua «Ermeneutica» alle poesie di Roberto Maggiani: “Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate”.
Ecco il punto: dove sono le «parole diverse, nuove, non usurate», nella poesia di Roberto Maggiani? La sua poesia «è da tempo impegnata alla riunificazione del discorso umanistico e del discorso scientifico» (Linguaglossa): sì, vero!, ma non è più questo che oggi occorre alla poesia: «oggi la poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante…» (cit.).
Le parole appartenute all’ontologia estetica del Novecento risultano inadeguate al dire del XXI secolo. E già l’ultima parte del Novecento ha preparato la Storia al nostro cambiamento epocale. Ovvero, il «vecchio» ha spinto al «nuovo». Ora la Storia ci rovescia addosso i più tragici avvenimenti.
L’Occidente (in senso lato) è devastato. “In tutto l’Occidente”, il sole, quello che Roberto Maggiani vede “più luminoso”, “le cui dita tocchino i tetti e le strade/ come qui a Lisbona”, è morto. A Lisbona come in tutto il resto del mondo. Quella che gli appare, così elegiaca, è una visione di superficie, appunto, apparente. C’è qualcosa aldilà dei tetti, delle strade e perfino oltre le molecole, che la sua poetica non vede, non coglie. Forse sarebbe stato meglio soffermarsi su quel “sottile disagio” finale. E che il disagio, da sottile, fosse diventato “spesso”, “duro”. Invece, la poesia mette il punto e chiude. Trasvola proprio su quell’unica cosa importante: il disagio. Disagio di oggi, della nostra epoca. Disagio di vivere. Disagio che è dramma attuale dell’Uomo, al centro di un nuovo Esistenzialismo, che pone inquietanti interrogativi sulla condizione etico-civile dell’individuo. Tutti noi dobbiamo prendere atto di questo. Ma più di tutti deve farlo il poeta, perché senza tale consapevolezza non possiamo parlare di Poesia.
Il primo passo verso tale coscienza consiste nel farsi carico della realtà in cui siamo, salutando il Novecento. Senza rimpianto.

Versi di Lucio Mayoor Tosi – «quel che accade ha spezzato alla poesia la base della sua compatibilità con l’esperienza» (D.C. Giancaspero)
Donatella Costantina Giancaspero
Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.
Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.
Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.
Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.
Giorgio Linguaglossa
Omega
[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
[perché a destra (!?)]
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.
Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.
Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.
Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».
Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
Charles Simic
Scolari con la testa grigia
I vecchi fanno brutti sogni,
Per questo dormono poco.
Camminano scalzi
Senza accendere la luce,
O si alzano appoggiandosi
Ai loro tetri mobili,
Ascoltando il battito dei loro cuori.
L’unica finestra, all’altro lato della stanza
È nera come una lavagna.
Ogni anziano è solo
In questa classe, mentre sforza lo sguardo
Su quella sottile linea di gesso
Che divide l’essere-qui
Dal non-essere-più-qui.
Non importa. Era un bicchier d’acqua
Stavano per arrivare,
Ma non ancora.
Restano in ascolto dei topi nel muro,
Di un’auto che passa per la via,
Dei padri morti che si trascinano davanti a loro
Quando vanno in cucina
Ewa Lipska
La memoria
Cara signora Schubert, lei scrive che la memoria si dimentica di noi. Sì, è vero. In sua assenza ho ritirato le nostre carte valori, ho venduto le obbligazioni e la pelliccia di volpe nera con cui abbiamo superato la tempesta. Non so perché si tiene alla larga dai luoghi dei nostri incontri agognati e non riconosce gli indirizzi dove ha abitato. Qualcuno l’ha vista mentre, attorniata da monumenti di pietra, ci spargeva in giro per distrazione.
Tomas Tranströmer
Silenzio
Passa oltre, sono sepolti…
Una nuvola scivola sul disco del sole.
La fame è un edificio elevato
che si sposta nella notte
nella camera da letto si apre la colonna
scura della tromba di un ascensore verso le viscere.
Fiori nel fosso. Fanfara e silenzio.
Passa oltre, sono sepolti…
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
Commento di Gino Rago
Interpretiamo i 3 testi scelti dei 3 poeti messi a confronto [Charles Simic, Ewa Lipska, Tomas Tranströmer].
Da Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura, abbiamo da tempo appreso che lo studioso utilizza le lettere A, B e C per rappresentare alcuni attributi del linguaggio, che Barthes intende come decorativi, e che stanno a significare, rispettivamente, A il metro, B il ritmo e C il “rituale delle immagini”, vale a dire la sonorità e la forza di queste ultime, e possiamo insieme tentare di stabilire una sorta di equivalenze:
poesia = prosa +A+B+C A= metro; B= ritmo; C= ‘rituale delle immagini’ ovvero forza delle immagini e la loro sonorità
Poesia= Prosa+ metro+ ritmo+ rituale delle immagini
Prosa = Poesia -A-B-C
Sempre rimbalzando fra senso e suono, tra forma e contenuto, possiamo pronunciarci anche su due grandi generi contemporanei: la poesia in prosa e la prosa poetica.
Utilizzando lo schema barthesiano siamo in grado di tentare la differenza tra le due categorie nel modo seguente:
poesia in prosa = prosa -A+B+C
prosa poetica = poesia -A-B+C
La poesia in prosa, insomma, come la prosa poetica, non ha metro ma, al contrario di quest’ultima, ha ritmo (B) e una particolare densità (C) che endiadicamente, per dirla con Giorgio Linguaglossa, si sostengono a vicenda.
Prosa poetica, d’altissimo valore, di certo è ‘La memoria’ di Ewa Lipska, per esempio.
Mentre i testi di Charles Simic e di Tomas Tranströmer sono, accanto alla esattezza esemplare della parola, disseminati di metafore cinetiche, immagini metaforiche, ecc. Il testo di Roberto Maggiani tende verso questi alti esiti estetici ma sento che un grande lavoro attende questo poeta verso la verità del mondo che non coincide con il ruotare intorno agli stati d’animo e alle dinamiche piccole dell’Io. Salamov nell’omaggio a Mandels’tam a un certo punto di Cherry-brandy ci dà l’illuminazione che i poeti della NOE hanno da tempo fatta propria [e lo testimoniano i loro versi]:
“La vita entrava per conto suo dentro di lui [Mandels’tam], come una dispotica padrona: lui non la chiamava, ma lei gli pervadeva egualmente il corpo, il cervello, entrava come poesia, ispirazione. E, per la prima volta, il significato di questa parola gli si rivelò in tutta la sua pienezza. La poesia era la forza vivificante di cui lui viveva. Precisamente così. Lui non viveva per la poesia, viveva della poesia”
… Viveva della poesia… E qui c’è tutto il destino del poeta.
(Gino Rago)
Alfonso Cataldi
22 luglio 2018 alle 13.04
Versi nati inizialmente grazie all’ispirazione di Gino Rago, con il quale ho provato a contaminarmi, qui cercano una propria strada.
to be continued
la suzione mani avanti
non-ti-mollo
scopre all’alba un contadino curvo
a Sambacanou
soggiogato a sentimenti inaspettati
del suo terreno ostile.
La compagnia di Piero, un’ora al giorno,
non serve più
il ricovero degli animali
-un rompicapo al seno-
è scampato a un naufragio notturno
un sogno provvidenziale ha bruciato foglie e rami secchi.
La piscina al molo shopping 8.44 ha il fondo scuro
una bambina timorosa tutta l’estate
butta via i braccioli, sorprendendo la madre
si avvicina al bordo
chiede notizie dal mondo reale.
Aboubakar sta raccontando la riconsegna
di un investimento infranto
nella regione di Kayes
lungo il tragitto mostra il ricordo
di un pallone calciato
a una latitudine che taglia le radici.
Mauro Pierno
21 luglio 2018 alle 16.02
E mettici i resti della sostanza, che
avanza. Nelle suppellettili e nelle credenze.
Nei cucchiaini.
Nei buchi neri, nelle topaie.
Negli avanzi sotterranei,
nelle tranvie,
nelle metropolitane.
In fondo al mare,
per questo avanzano le parole.
Negli specchi muti delle sorgenti.
E nelle luci, più minuscole,
nei corridoi di ceramica
e nelle tazze
che sfarfallano.
Commento di Giorgio Linguaglossa
21 luglio 2018 alle 18.52
Complimenti Mauro Pierno,
questa è una composizione che sfarfalla un po’ da tutte le parti, scombiccherata com’è giusto che una poesia di oggi deve essere, ricca di humour e povera, poverissima di mimesis. Tuttavia, questo tuo sotto vuoto parla più chiaramente di tutte le poesie che vogliono esibire il «pieno», pieno di senso, pieno di significato, pieno di «io», pieno di «voi», di «loro»… come il pieno di benzina del serbatoio (con il combustibile che costa sempre di più), con la guerra dei dazi che sostituisce in modo incruento la guerra dei tank e delle bombe atomiche. Il fatto è che oggi la guerra (dei dazi) tra le superpotenze la si fa in vetrina, avviene nei monitor asettici dei nostri palazzi, negli appartamenti dei nostri condomini… e non è che la nuova guerra dei dazi sia meno cruenta di quella vecchia maniera, i morti li fa, eccome, e li farà sempre più numerosi, ma saranno i morti di fame, quelli contano niente, non fanno numero, siamo già troppi sul mappamondo del mondo. Forse dobbiamo dire grazie a quel mastino ignorante e zotico di Trump e dei suoi accoliti se pensiamo che il presidente americano ci ha messo davanti alla nuda e cruda realtà della bancarotta del realismo mimetico, forse l’unico modo di fare poesia oggi è questa tua: sottrarre senso al senso e al non-senso, sottrarsi, non stare al gioco… tutto sommato dobbiamo essere grati ai nostri piccoli e insulsi trumpini, Salvini e Di Maio e i loro accoliti, abbiamo molto da imparare da questa invasione dei nuovi barbari… ma i prodromi si erano già visti con quel figuro di Renzi e dei suoi accoliti…
Ardengo Soffici:
L’imbecillità è la legge mostruosa del Tutto-Nulla. […]
Il cuore ha chiuso gli sportelli, come le banche,
per una moratoria di tristezza.
Cara Donatella,
non capisco la necessità di risuonare in tal modo la sua risposta, poteva farlo benissimo nel contesto della pagina in cui le ho fatto il commento. Ma va bene, probabilmente c’è la necessità di affermare qualcosa di importante per lei e per il sito che ci ospita. In verità, a questo punto, ho la sensazione che, probabilmente, le mie poesie siano state prese a pretesto per affermare un pensiero su certa poesia contemporanea, al mio posto poteva esserci chiunque altro. In ogni caso non andrò per le lunghe, la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato. Obietto soltanto su questo passaggio:
“A questo fanno eco le parole di Giorgio Linguaglossa nella sua «Ermeneutica» alle poesie di Roberto Maggiani: “Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate”.
Ecco il punto: dove sono le «parole diverse, nuove, non usurate», nella poesia di Roberto Maggiani? La sua poesia «è da tempo impegnata alla riunificazione del discorso umanistico e del discorso scientifico» (Linguaglossa): sì, vero!, ma non è più questo che oggi occorre alla poesia: «oggi la poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante…» (cit.).”
Quel “ma non è più questo che oggi occorre alla poesia”, affermato in modo assoluto lo trovo assolutamente inopportuno e, scusami, un poco presuntuoso. Avrei scritto piuttosto così: “a mio avviso non è più questo che oggi occorre alla poesia”.
Gentile Roberto Maggiani,
chiunque quando parla, lo fa a suo avviso, non credo che sia necessario ogni volta sottolinearlo. Questa pagina apre con la risposta a lei, poi riporta un po’ tutte le interazioni nate nei commenti dell’articolo precedente (lo avevo già fatto notare che è una consuetudine) Evidentemente la rivista, e uno zoccolo duro di frequentatori, porta avanti convintamente una certa visione di poesia contemporanea, pur con sfumature e peculiarità diverse, a cui si può scegliere di aderire o no. Ognuno scrive la poesia che ritiene più opportuna e necessaria. Il dibattito è aperto a tutti. non ci sono vittime predestinate.
Chiedo scusa, un’ultima precisazione. Gino Rago, nel suo commento mette a confronto 4 poeti, uno di quelli sono io. Ecco il commento originale:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/21/roberto-maggiani-poesie-scelte-da-angoli-interni-passigli-2018-pp-138-e-16-50-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-la-pratica-della-poesia-come-percorso-eidetico/#comment-36698
Non capisco perché io sia stato tolto…
Signor Maggiani,
ho letto le sue controproposte ai commenti di Linguaglossa e Donatella.
E’ giusto replicare.Credo, e sono fermamente convinto, che ogni dialettica debba essere ricondotta nell’ambito di un maggiore rispetto con gli interlocutori, cosa che mi sembra lei non abbia tenuto in considerazione.Forse tutto dipende dal Carattere, dal Temperamento e dalla Personalità, come espressione della psiche e non di una giusta autocritica di ciò che scrive, sempre al limite della Superiorità rappresentativa di se stesso. Il carattere (il suo) è la risultante della interazione fra temperamento e ambiente, pur di esternare la potenzialità dell’ IO o del Super IO, che autocelebra nella poesia e si minimizza e disperde quando non riesce a dare una risposta al problema dell’Universo, ripiegando nel sincronismo Dio e Poesia.E’ la sua strada, non certamente la mia o di altri, Se la tenga per sé, senza infliggere canoni estetici a nessuno, con la sua identità psicologica e psicoreattiva.
Grazie.
caro Roberto,
ho tolto la tua poesia per il semplice fatto che si trova nel post cui si riferiva il commento di Gino Rago ed evitare una duplicazione. Non c’è nessun intento censorio…
Prendo lo spunto da questa recensione al libro di Enrico Castelli Gattinara, Pensare l’impensato. Roma, Meltemi, 2004, pp. 331, € 23,00, di Maurizio Der Suchende – 04/01/2006
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/25/donatella-costantina-giancaspero-lettera-a-un-poeta-poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-giorgio-linguaglossa-alfonso-cataldi-mauro-pierno-ewa-lipska-charles-simic-tomas-transtromer-c/comment-page-1/#comment-36794
«L’impensato finalmente pensato?
Il viaggio si inaugura con la scena della crisi della centralità dell’io nella cultura occidentale contemporanea e da qui si dispiega fra i bordi per lo più immaginari che delimitano le varie discipline della cultura umana: fisica, filosofia, psicologia, estetica, epistemologia, pratiche artistiche e pratiche scientifiche.
L’Autore ci suggerisce che non dobbiamo sgomentarci a causa dello spaesamento indotto dalla de-centralizzazione, anzi ‘a-centralizzazione’ del soggetto, dell’io, rinvenibile – guarda caso – quasi contestualmente nella letteratura e nell’arte in generale, nella filosofia, nelle discipline scientifiche. Anzi, ci invita a cogliere tutto ciò come una preziosa occasione per individuare e/o nutrire enormi potenzialità innovative, impensati percorsi di ricerca e azione.
Quindi, rivoluzione ‘a-centrica’: l’Autore ci rammenta che si può avere una prospettiva ‘centrata’ (per esempio, sulla Terra, sull’uomo), una prospettiva ‘de-centrata’ (il soggetto è ancora lì a far valere le sue istanze dogmatizzanti, sia pure in un rapporto dialettico con un altro da sé), ma soprattutto c’è una prospettiva ‘a-centrata’, dove il focus non si sposta da un centro ad un altro, ma dove – non essendoci centri di irradiazione o di statico e reiterato riferimento – sono presenti molteplici incroci da cui si distendono vie di incessante flusso esperenziale. Ed è questa, come ci ha già da tempo segnalato l’eretico Nolano, la prospettiva più feconda, ma soprattutto più aderente al vissuto materiale e antropologico di ciascun essere umano.
Accanto a questa a-centralizzazione dell’io va colta la sua “diluizione”, ma anche e soprattutto “la sua intima e inaggirabile complessità.” (p. 103)
E, allora, “cosa ci fa l’io nella scienza?” (cap. secondo, pp. 43-73). Posto che anche le scienze (ma, forse, sarebbe più rigoroso dire le discipline scientifiche?) sono un qualcosa di intimamente sociale, né solo soggettivo, né solo oggettivo, “esse sono prese in un tessuto di relazioni che ne rende ragione e al quale contribuiscono a dare ragione. L’io ne fa parte, a condizione di essere anche lui una cosa fra cose, un terzo e non più un primo. Né oggetto, né soggetto, ma crasi, incrinatura, o tramite, dove si svolgono effettivamente le cose, dove accade l’evento del conoscere e del capire. Dove si lascia un’impronta e s’incrociano le vie. L’io come un crocevia, un nodo della rete.” (p. 70)
È proprio questa diversa prospettiva, fra l’altro, a sollecitare un tuffo nelle sfumature di confine che segnano le relazioni fra arte in generale, le pratiche artistiche in particolare, ed epistemologia, o più concretamente le pratiche scientifiche. Sono sfumature che non annebbiano, ma che ci consentono di cogliere impensabili aspetti di concetti e pratiche rilevati da pochissimi artisti, pensatori e scienziati occidentali: per esempio, “la complessità del semplice” (cap. quarto, pp. 103-124); “s-delimitazioni scientifiche”, che (ri)guardano la verità come orizzonte infigurabile, dove si intravede un poliedrico incrocio fra filosofia, scienza e arte (cap. quinto, paragr. 6, pp. 153-158); altro terreno comune della filosofia, della pratica scientifica e di quella artistica, è l’esperienza (cfr. per es. il paragrafo ‘L’esperienza come gioco’, pp. 188-194); la costitutiva qualità relazionale di concetti come ‘spazio’, ‘corpo’ (che, fra l’altro, ci vien di domandare se sia anche origine e fonte dell’Etimologia), ‘forza’ (cfr. in particolare i capitoli decimo e undicesimo, rispettivamente pp. 249-264, 265-286).»1]
Quando noi (intendo della rivista) parliamo di de-angolazione prospettica, de-centralizzazione dell’io, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, quando utilizziamo la formula di «pensare l’impensato» per indicare un traguardo che sta oltre il «pensato» e il «visibile», ciò che rientra nella «visibilità», stiamo dicendo qualcosa che la migliore filosofia italiana ed europea sostiene da almeno un cinquantennio. È un segno di grande arretratezza culturale leggere romanzi o poesie dove queste problematiche sono cose sconosciute La direzione di ricerca della nostra rivista è da tempo instradata lungo questa direttrice di marcia… Bisogna dirlo: fuori da questa direzione di ricerca non c’è nulla di importante, c’è il talk show della chat poetry.
1] Enrico Castelli Gattinara insegna ‘Epistemologia della storia’ nella facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università “La Sapienza” di Roma (Italia); inoltre, svolge seminari presso l’ École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (Francia). È direttore dal 1996 della rivista semestrale di cultura, arte e filosofia, “Aperture” [aperture@tiscalinet.it – http://digilander.iol.it/aperture%5D.
Ha pubblicato Epistemologia e storia (1996); Les inquiétudes de la raison (1998); Strane alleanze (2003) e numerosi articoli di estetica, epistemologia, psicologia e storia su riviste specializzate italiane ed europee.
Seguo da molto l’Ombra. Quello che mi ha colpito è la civiltà che gli interlocutori adottano con il rispetto dovuto alle minime regole di etica. Sono veramente scossa di atteggiamenti di irruzione di alcuni ospiti come se il prurito alle dita da la continua sensazione di grattarsi. Mi chiedo se uno che non prende il provvedimento di smettere e, consapevole che a lungo andare si fa una lacerazione inguaribile? La mia è solo un’ottica personale. I suggerimenti di altri interlocutori sono dal mio punto di vista lezioni di apprendistato per chi vuole imparare, come me, e che non ha la presunzione di superiorità. La casa che ci ospita offre un posto adatto per ogni individuo presente nello spazio, però l’ospite non può concedersi all’infinito un comportamento di primo violino all’apertura dell’Opera e come dico in una poesia scritta tempo fa “C’è chi sale. C’è chi scende.” Bisogna sapere proprio autoconvincersi quando è il caso di cambiare direzione. L’Ombra l’ho vista da sempre come una scala di valori, priva di uno specchio comprensorio, ma con molti specchi dove confrontarsi con sé stessi in primis. Ognuno può fare da mediante tra sé e sé. Confrontarsi con gli interlocutori, secondo mio umile parere, dona possibilità di crescere o di affossarsi, se si continua con sguardo da Narciso a ammirarsi senza guardare in torno. Tra l’Ombra e le parole ci sta la coscienza che fa da bilancia. Salvo che ognuno l’abbia.
Buongiorno a “Che barba che noia!” Un abbraccio alla tristezza.
Lidia Popa
Buongiorno Lidia, immagino che si riferisca a me. Mi pare di avere semplicemente risposto agli interventi che sono stati fatti e che coinvolgono il mio nome. Non le sembra che se usano il mio nome debba in qualche modo avere la possibilità di intervenire? Non capisco il suo intervento. Posso avere un parere diverso rispetto a quello principale che vige in questo blog? Penso di sì e mi pare che mai sono andato oltre le righe di una normale dialettica. Mi spiace veramente se lei ha frainteso, o anche altri, il mio rispondere. Forse non ha letto tutto quanto come ho fatto io, visto che ero coinvolto in prima persona. Cordialmente.
[E’ la mia maniera di con-divisione della Lettera aperta di Costantina Donatella Giancaspero sull’etica e sull’estetica de L’Ombra delle Parole
questo
Tentativo di viaggio linguistico intorno a:
Rompiamo anfore ogni giorno,
ne incolliamo i cocci,
pretendiamo che siano nuove di zecca.
Quali forze sotterranee
tengono ancora in vita i matrimoni
dopo l’amore?
Che lasciamo quando lasciamo lei,
che lascia lei quando lascia lui?]
Gino Rago
La lingua come forma di esilio, l’esilio nel grande gelo linguistico
[dalla relazione che terrò il 12 agosto p.v. al Laboratorio delle idee in Cerchiara di Calabria]
2° Brandello
[…] E’ noto il caso umano e letterario di una narratrice di origini bengalesi che ha sempre scritto in inglese. Ma che per sua stessa ammissione ha sempre considerato la lingua della sua scrittura, l’inglese, come una matrigna, non essendo l’inglese la sua lingua madre.
Da poco questa narratrice ha adottato la lingua italiana, scrive direttamente in italiano. Alla domanda ‘Perché questa scelta?’ la sua risposta è stata laconica, chiara, indiscutibile: ‘Perché mi sento cittadina della parola, e sono sempre alla ricerca della parola giusta, della parola esatta’, paragonandosi a uno speleologo di parole nella miniera dell’animo umano.
Dopo i casi di Agota Kristof, di Hannah Arendt, di Iosif Brodskij, esaminati nelle loro condizioni di esilio nel grande gelo linguistico, quali le considerazioni possibili per chi come questa narratrice del Bengala sceglie liberamente una lingua straniera, l’italiano, nell’esercizio della sua scrittura?
Una prima considerazione potrebbe esser questa: una nuova lingua, anzi una ‘lingua nuova’ è una vita nuova perché la grammatica e la sintassi sono in grado di di ri-fondare una vita perché ti fanno scivolare in altri sentimenti, in un’altra logica, in un’altra maniera di sentire il mondo e di sentirti nel mondo, costringendoti a destrutturare la tua scrittura originaria che pure sentivi ben fondata e sicura.
Anche nel caso di due poeti a noi familiari, Edith Dzieduszycka e Gëzim Hajdari, l’una, Edith, il francese come lingua madre, l’altro, Gëzim, l’albanese come madre lingua, scrivendo da tempo i loro versi in italiano si sentono di avere acquistato o perso qualcosa? Sentono la lingua italiana come lingua straniera e/o di esilio linguistico? Destrutturando le lingue madri, il francese e l’albanese, Edith Dzieduszycka e Gëzim Hajdari, hanno anche destrutturato sentimenti e logica precedenti? Alle parole nuove della lingua nuova corrispondono le ‘cose’?
Cosa noi lasciamo quando lasciamo qualcuno o quando lasciamo una terra?
Un focolare, una casa, il passato, un paesaggio, una luce, un colore, un suono delle/nelle cose… un’idea o un progetto di futuro…
Vengono meno le stesse forze sotterranee in grado di tenere ancora in vita i matrimoni dopo l’amore, o altro?
Per un poeta che approda a un lingua nuova lasciando la propria lingua madre la questione linguistica forse è davvero lacerante, forse è come spaccare un vaso e incollarne i cocci, illudendosi che il vaso sia nuovo di zecca[…]
1- Edith Dzieduszycka
I senza nomi
In giacche d’ombra
e visiere di fango
arrancano
letali
i senza nomi
Sul ciglio del sentiero
su scogli e strapiombi
senza meta
a blocchi aggrovigliati
Le loro armature sono di pelle nuda.
Hanno perso la voce
la lingua
forse la voglia
Dai rovi
sornione s’alza
la brigata dei corvi iene sciacalli
L’orizzonte è fuggito
È andato lontano
dietro
più dietro ancora
Una mantella cupa
lo ricopre.
2- Gëzim Hajdari
Dove vanno questi uomini insanguinati
Dove vanno questi uomini insanguinati
giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
Dicono che provengono dal Delta del Niger
e non vogliono tornare indietro.
Che ne sarà dei loro destini?
Fuggono lungo il confine
insieme alle bestie impazzite
in balia delle dimore ignote
e delle voci dei defunti.
Di tutt’altro genere sono, al contrario, le considerazioni linguistiche su e per un poeta che, come per esempio Giorgio Linguaglossa, impiega la lingua madre nella scrittura dei suoi versi, come nella poesia ‘In nomine lucis’ [ che mi permetto di ri-proporre in distici per l’innegabile acquisto estetico che ne deriva]
3- Giorgio Linguaglossa
In nomine lucis
Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion
danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.
Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,
sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,
si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,
sotto gli alberi spogli.
[…]
Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.
Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…
– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…
– Dicono di aver bevuto tanta luce.
[…]
La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde
in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.
[…]
La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo
dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione
e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…
4- Agota Kristof
[da i chiodi]
«Qui le persone sono così felici
che nemmeno amano
sono realizzate non hanno bisogno
l’uno dell’altro nemmeno di dio
la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
e fino a sera aspettano la morte».
E n questi versi, bene si badi, dove si avverte tutta la fatica di chi non per scelta ma per le crudeltà della Storia è costretta come Agota a entrare in un’altra dimensione linguistica ed esistenziale, la Kristof si riferisce ai privilegiati della Svizzera… Per i più, per i tanti come lei, «la vita non è un regalo», ma può essere persino una condanna.
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gr
È giusto che ci facciamo delle domande. I vicoli ciechi sono problemi da rimodellare con coraggio. I silenzi possono diventare valide pause di riflessione. Vivere per la poesia significa amarla con un amore che non è altro che un esercizio sensuale dell’intelligenza.
E pure l’uomo vuole fortemente la vita (inedita)
Dopo aver battuto le strade e preso in considerazione gli altri,
l’Uomo rientra a casa sfinito con l’energia persa.
Fra tutte le paure che ha provato nessuna aveva fascino.
Spesso per rifuggire alle paure e alle lacrime
situa il suo essere all’intersecarsi tra i raggi solari e le ombre.
Teme la sincerità del sole come l’eclissi di luna.
Crudele il rotolarsi nel seno del dualismo.
Disgregato nel sogno nei giardini dell’universo,
l’Uomo si getta nell’panico dello splendore,
smantellando le certezze, arrestando le evoluzioni.
Abusa dei cieli crepuscolari
riducendo tutto ad un vicolo cieco.
L’idea della morte lo spinge a concedersi
ai momenti di un’intensità smisurata.
Con questa consistenza è forte e anche debole,
dalle cime direttamente all’abisso.
Con l’idea della morte non si può che morire,
e pure l’Uomo vuole fortemente la vita.
Se vuole perire vuole essere al di sopra di sé,
magari nel cielo, una stella vagante.
© Lidia Popa
Il panno del fiato sulla superficie
combatte i prospetti dal setto preciso,
se l’oggetto ha l’anima di un atomo
deruba tutto fra i sostantivi presenti
e l’odore acre della carne dal gene sano.
Lunghi fusti di canne fumose
è il fregio che tocca a noi patire
ora che la firma delle bandiere
scuote l’aria fiera verso il basso
senza neppure la gloria delle guerre.
(da IL SECCHIO E LO SPECCHIO, Francesco Lorusso, Manni Editori 2018)
Con umiltà mi sono permesso,
con cordialità saluto Tutti.
Francesco Lorusso
Non entro nella discussione teorica: mi pare comunque che queste poesie – in modi diversi – siano più che valide e ben caratterizzate. La parola in sé è certo usurata, ma non nella scrittura creativa le cui possibilità sono praticamente illimitate,
“ORA CHE LA FIRMA DELLE BANDIERE/SCUOTE L’ARIA FIERA VERSO IL BASSO/SENZA NEPPURE LA GLORIA DELLE GUERRE”, VERSI CHE CONDIVIDO PIENAMENTE,PERCHE’ MOLTO DICONO CIRCA L’IPOCRISIA DEL NOSTRO TEMPO
ORMAI TROPPO ABITUATO ALLA COMODITA’ DI UNA PACE FINTA, RETTA SOLO DALLA LEGGE DEL PROFITTO.LA GLORIA DELLE GUERRE VIENE AFFIDATA ALLE STRAGI TRA TRIBU’ OSTILI, COSI’ REMOTE CHE L’ECO DELLE LORO VICENDE NON RAGGIUNGE LE NOSTRE ORECCHIE SORDE, I NOSTRI CUORI PROTETTI DA FARMACI EFFICACI,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/07/25/donatella-costantina-giancaspero-lettera-a-un-poeta-poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-giorgio-linguaglossa-alfonso-cataldi-mauro-pierno-ewa-lipska-charles-simic-tomas-transtromer-c/comment-page-1/#comment-36809
A proposito della lettura di una poesia, di una nomologia dell’interpretazione dell’opera d’arte io mi arrischierei ad indicare il mio modello in una sorta di dialettica ermeneutica negativa, una sorta di dialettica incidentale legata all’evento, quindi evenemenziale, legata alla situazione storica contingente dell’interpretante. Al di là della condizione soggettiva dell’interprete posto nel suo mondo non è possibile andare a sindacare che cosa sia o cosa non sia un’opera esteticamente valida… potrei dire che propendo per un nichilismo ermeneutico e dialettico, se liberiamo le parole nichilismo ermeneutico e dialettico dalla loro valenza negativa, o meglio, se diamo alla semantica negativa una accezione positivamente orientata verso la comunicazione di un messaggio…
Secondo Mura, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, Roma 1997, «con il “nichilismo ermeneutico” o “ermeneutica negativa” ci troviamo agli antipodi dell’ermeneutica positiva, umanistica e veritativa [di] Gadamer» (Verità e metodo, Bompiani, 1980, p. 387). Si noti di sfuggita, a questo proposito, come lo stesso Gadamer in alcune occasioni abbia impiegato l’espressione «nichilismo ermeneutico (hermeneutischer Nihilismus)», al fine però di qualificare la concezione estetica, a suo giudizio «insostenibile (unhaltbar)», secondo la quale «un modo di interpretare un’opera [d’arte] non è meno legittimo di un altro» in quanto «non c’è alcun criterio di adeguatezza (es gibt keinen Maßstab der Angemessenheit)» cui attenersi nell’interpretazione.
Rispetto a tale questione, va anche detto che Gadamer, pur avendo più volte criticato la violenza interpretativa compiuta ai danni dei testi storici, letterari e filosofici, comunque non si è mai adoperato a fissare un «vero e proprio criterio […] per sapere se un’interpretazione è giusta o sbagliata», giudicando «fuorviante […] questo modo di pensare» (HE, 174 / RP, 193). Anzi, in alcune occasioni egli ha esplicitamente affermato che «non vi può essere alcuna interpretazione che possieda un carattere definitivo (Endgültigkeit)» (GW 9, 443 / CICT, 99), che «ogni opera d’arte rimane aperta alle interpretazioni più diverse ed egualmente legittime e [che] la sua esegesi è infinita» (GW 8, 58 / AB, 195). In questo modo, però, egli ha a sua volta attirato su di sé l’accusa di «non cura[rsi] delle regole concrete in opera nella lettura di un testo e nell’accertamento del suo significato», di non «giustificare la validità e obiettività di un’interpretazione», e quindi di portare avanti «una prospettiva fondamentalmente nichilista» (cfr. M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1997, pp. 361-362). Bisogna anche
dire, però, che Gadamer non ha mai ritenuto di aver così ceduto al «nichilismo ermeneutico» ed anzi ha sempre sostenuto che «l’impresa ermeneutica [possiede] un solido terreno su cui poggiare», rappresentato
dal fatto che se effettivamente «le opinioni sono una molteplicità plastica di possibilità, [comunque] entro questa molteplicità dell’opinabile (Vielfalt des Meinbaren) […] non tutto è possibile».
Verità e metodo (Wahrheit und Methode) è la principale opera filosofica di Hans-Georg Gadamer (1900 – 2002), pubblicata nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Il nucleo fondamentale della sua ricerca si muove sul terreno dell’ermeneutica.
Cito uno stralcio da un articolo pubblicato sul sito “I sentieri della ragione”
«La prima parte di Verità e metodo è insieme una critica della coscienza estetica e un’analisi ontologica dell’opera d’arte. Si tratta di una critica nei confronti delle tendenze prevalenti dell’estetica moderna e contemporanea, solidale con l’esperienza che la società moderna fa dell’arte, ossia con l’idea che l’opera d’arte appartenga, in contrapposizione alla verità scientifica, all’apparenza, sia cioè un’esperienza del soggetto che non incide sulla conoscenza scientifica della realtà, sulla verità dell’esperienza. L’arte in questa prospettiva è solo bella apparenza, regno ideale di cui il museo rappresenta la forma pubblica di espressione. La coscienza moderna dà un posto all’arte, collocandola in una posizione irreale. Tutto ciò si accompagna per Gadamer alla retorica dell’artista sradicato dal mondo, del “genio”, dell’eccezione secondo la visione romantica.
L’arte va pensata invece nella sua relazione con la realtà, come una forma di esperienza, di conoscenza, come un modo di auto-comprensione: in ciò Gadamer riprende Hegel, sebbene lo critichi per non aver determinato in modo adeguato la specificità dell’arte, il cui contenuto appare essere lo stesso di religione e filosofia.L’arte è dunque un’esperienza di verità. Per analizzare la sua specificità Gadamer usa, tra l’altro la nozione di “gioco” (Spiel): non siamo tanto noi a giocare, quanto è il gioco che ci gioca, noi partecipiamo alla logica del gioco, stiamo al gioco, altrimenti questo non funziona. L’intero ha qui una certa precedenza sul nostro contributo.Come nel gioco, anche nell’esperienza artistica si ha un coinvolgimento, un accadere che sfugge all’intenzionalità cosciente dei partecipanti, implicante il primato di ciò che accade o si rappresenta rispetto alla coscienza del giocatore o dello spettatore.
L’arte tende poi ad “autorappresentarsi”, è rivolta a uno spettatore ed è una “trasmutazione in forma”, in una struttura. L’arte è cioè mimesis, non nel senso di riproduzione o copia, ma del rapporto che intrattiene con il vero: lo imita trasmutandolo in forma, dandogli una configurazione che lo offre come articolato in struttura. Quei caratteri alla luce dei quali l’opera si distingue dal mondo quotidiano e appare come irreale, cioè la perfezione della forma, la sua conchiusività e definitezza, lungi dal rappresentare un elemento di irrealtà sono il segno che, nell’opera, la realtà si presenta con una verità che non possiede nell’esperienza comune.”Trasmutazione in forma è trasferimento del reale sul piano della verità”: l’opera è più vera della realtà proprio in quanto è Gebilde, una forma-immagine, struttura compiuta e conchiusa, liberata dalla causalità e dall’indefinitezza che caratterizza l’esperienza quotidiana.
L’opera d’arte è quindi un’esperienza nella forma dell’evento (Ereignis: cfr. Heidegger), un’esperienza (Erfahrung) nel senso hegeliano di “cammino fenomenologico” (cfr. “Introduzione” alla Fenomenologia dello spirito). L’esperienza dell’arte in Gadamer è tale quando è vissuta in profondità suscita un cambiamento nelle prospettive di chi la vive, sia esso spettatore sia esso artista: si tratta di un evento, di un’esperienza di verità nel senso hegeliano di esperienza che modifica il soggetto.In sintesi, potremmo dire a questo proposito che, se l’incontro con l’opera d’arte è capace di segnare così profondamente la vita di una persona, rappresentando per esempio l’inizio di un rinnovamento nel suo modo di vedere il mondo e di atteggiarsi in esso, non possiamo liquidare l’opera mediante il concetto di incanto, sogno, apparenza.
L’incontro con l’opera d’arte è ben altro che il perdersi provvisoriamente in un mondo di sogno, ma è piuttosto un effettivo riaggiustamento di tutto il nostro modo di stare al mondo: “l’esperienza estetica è un modo dell’autocomprensione”. Ma la fruizione artistica diventa problema della mediazione tra due mondi, il mondo dell’opera e il mondo del lettore, e cioè un problema ermeneutico concernente proprio il problema dell’integrazione tra questi due mondi.I paragrafi conclusivi della prima parte introducono così alla trattazione seguente, collocando il problema del comprendere in generale (anche quello riferito alle opere d’arte) all’interno della problematica ermeneutica del rapporto con il passato (“L’estetica deve risolversi nell’ermeneutica, VM, 202).Diversamente da Schleiermacher, Hegel – a cui, come sappiamo, Gadamer fa riferimento a questo proposito – ha il merito di intendere il rapporto con il passato non come meramente ricostruttivo ma come integrativo, ovvero come necessariamente mediato dalla storia.
Gadamer si chiede dunque come ci si rapporta alle opere d’arte. Se l’arte trasmette un’eredità spirituale, le opere comunque appartengono a un cammino storico rispetto a cui noi abbiamo una certa distanza. Così si conclude la prima parte di Verità e metodo e si apre la seconda parte riguardante la coscienza storica: non soltanto per l’arte, ma per tutta l’esperienza umana vale il fatto che noi siamo figli di un’eredità che ci viene consegnata nell’esperienza storica.Questa seconda parte si apre con un excursus sul problema dello statuto delle scienze dello spirito del romanticismo a Heidegger. In rapporto alla “coscienza estetica”, la “coscienza storica” pretende di poter oggettivare il passato astraendo dal continuum della storia.
Ma, contro i tentativi di fornire alle scienze dello spirito un’assicurazione metodologica sull’esempio delle scienze della natura, Gadamer ritiene, con Heidegger, che solo concependo la comprensione come un modo d’essere dell’Esserci, ovvero come un carattere ontologico della vita umana, è possibile pervenire a una riabilitazione della sua portata veritativa. Ciò richiede una teoria dell’esperienza ermeneutica che è in realtà una teoria del carattere ermeneutica dell’esperienza in generale. In base a questa teoria, “la comprensione non va intesa tanto come un’azione del soggetto, quanto come l’inserirsi nel vivo di un processo di trasmissione storica, nel quale passato e presente continuamente si sintetizzano” (VM, 340).Ciò comporta: la riabilitazione del pregiudizio e della tradizione (a); le nozioni connesse di storia degli effetti (b) e di fusione degli orizzonti (c).»
Gadamer:
«oggi la morte potrebbe essere offerta anche nei grandi magazzini, […] ne facciamo un affare». Noi cerchiamo di occultare il dato di fatto che «la morte rimane un mistero», siamo prigionieri di un’inquietante tendenza alla «rimozione sistematica della morte (systematische Verdrängung des Todes)». «La morte resta una domanda aperta (der Tod bleibt
eine Frage)», giacché «la certezza della nostra autocoscienza non è in grado di concepire se stessa all’interno di un rapporto che preveda il suo non-essere. […] Non esiste nessuno che abbia una risposta per questa domanda: come posso comprendere che la mia persona, in cui in questo momento è presente un’attività di pensiero, possa un giorno non esistere?». «il timore della morte non si lascia placare interamente. […] In una questione del genere l’uomo non può contare [sulla] certezza. […] Ciò si riallaccia alla grandiosa metafora del bambino, presente nell’uomo, che tutte le buone ragioni, di fronte alla sua paura della morte, non riescono a consolare interamente. […] Il fenomeno della morte deve venir compreso nella sua immensità dalla ragione e dall’intelligenza umana, ma esso tuttavia non cessa di provocare la risposta umana alla sua incomprensibilità».
La tipicità della nostra epoca per Gadamer è scritta nella nostra incapacità di porci davanti al problema della morte e davanti al problema dell’esistenza di un’opera d’arte, e quindi di una esperienza estetica. Due incapacità che si sommano e che annichilano il soggetto che le pensa.
Gino Rago
La lingua come forma di esilio, l’esilio nel grande gelo linguistico
Poesia dalla condizione dell’esilio:i viaggiatori per disgrazia
5- Božidar Stanišić
[Toledo]
[…] Toledo, diceva, talvolta, mio padre.
A quella parola per la casa spirava il vento dell’ovest.
Da mari a noi lontani, mai visti?
O era un’illusione, perché a mia madre piaceva,
dalla primavera all’autunno, tenere le finestre spalancate,
in casa, nella nostra casa, a Sarajevo? Non so, non lo so…
O forse non desidero nemmeno fare un passo verso la risposta?
In realtà, so cos’è: le illusioni sono dolci. La verità?
Meglio tacere, perché la verità…
Sono solo angosce e… Toledo, diceva mio padre,
come dicevano anche suo padre, e il padre di suo padre, e così tutti,
Toledo, Toledo, Toledo…, profondo, e lontano,
fino a quel giorno, quando un ordine si udì,
da Granada per la Spagna intera,
su una terra che fino allora era vasta,
dicono: molto vasta,
e, nell’impotenza dei nostri padri, una canzone si rinnovò,
la dura canzone di coloro che sono odiati,
dei viaggiatori per disgrazia,
sulle navi dalle vele tese dai venti, da occidente, verso oriente […]
————————————————————–
GR
5- Božidar Stanišić
[Toledo]
II° Stralcio
[…] Da occidente verso oriente, da occidente verso oriente…
E così a lungo, a lungo.
Chissà se quelli erano venti?
O era una corrente che, da un oscuro e abissale qualcosa,
colpiva le vele delle navi sul ponte,
per cui palpitavano i cuori
e in un sussurro una preghiera si riversava in mare
e verso le sponde, in lontananze così grigie e lontane per la pupilla,
come mai prima. […] Chiudo la porta.
La chiave giro nella serratura verso sinistra.
Così, così si deve. Piano, mano mia.
Dai ancora un giro, per sicurezza.
Che anche questa porta sia serrata, secondo un ordine
che mi è noto già da tempo nel mondo,
che, dicono i Libri, per tutti è uno.
Poi alzo gli occhi al cielo sopra Toledo,
in cui le nubi verso oriente navigano.
Avrò abbastanza lacrime
per calmare la sete di quegli occhi
che attraverso i miei occhi guardano,
di quegli occhi che sognano la casa di Toledo,
con ogni voce,
raccolta nelle abissali ceste della speranza:
Verrà, qualcuno, un giorno,
e si fermerà davanti alla porta di quella casa,
nella città il cui nome è Toledo,
a nome di noi tutti, che ce ne andammo,
come gli ultimi fra gli uomini, allora, dalla Spagna
che non voleva essere più anche nostra,
ma il cuore si ostinava ad amare la terra in cui odiarono noi […]
————————————————————–
GR
caro Gino,
il poeta da te proposto, Božidar Stanišić, fa una poesia tutta incentrata sull’io lirico, una poesia tutta fondata su una ontologia estetica rispettabilissima ma che noi abbiamo abbandonato da tempo. Con quel tipo di impostazione vocale e memoriale si può fare soltanto una nobile poesia elegiaca. E non è questo l’intendimento della ricerca della rivista. Rispettabilissima poesia elegiaca. Ma noi stiamo cercando qualcos’altro…
Božidar Stanišić fa parte di un’altra cultura, una cultura che non aveva ancora digerito «la crisi della centralità dell’io». La differenza tra «noi» e «loro» è tutta qui. Se non si fa tesoro di quello che andiamo dicendo e facendo e che la più attenta filosofia contemporanea ci dice da almeno cinquanta anni, si resta sordi e ciechi, si continua a fare una poesia centrata sull’io, ma così si fa del kitsch, della carta argentata…
Caro Giorgio,
condivido in pieno le tue affermazioni.
Confesso che gli stralci della poesia di Božidar Stanišić, bosniaco, costretto alla fuga dalla guerra balcanica nel 1992 e che si è stabilito nella provincia di Udine, l’ho proposta solo come esempio di poeta fermo alla volontà di mantenere la propria madrelingua e di continuare a esprimersi artisticamente con essa.
Tant’è che Stanišić non è compreso nella relazione del 12 agosto 2018 fra i poeti, pochi, da me scelti, accomunati dal fenomeno del translinguismo, avendo scelto l’adozione di lingue diverse dalla madrelingua [ Edith Dzieduszycka, Gëzim Hajdari, Agota Kristof] per le loro espressioni artistiche.
Più in là, caro Giorgio e cari poeti de L’Ombra delle Parole, vorrei poter indagare, dopo il paradigma dello specchio, il rapporto fra poeti e valigia,
fra poesia e armadio, perché so che ci sono stati e ci sono anche ai nostri giorni uomini e donne che hanno usato e usano unicamente la valigia per le loro ‘cose’ e non hanno saputo e non sanno che significhi potere riporre le proprie ‘cose’ in un armadio. Poeti e poesia della valigia, poeti e poesia dell’armadio… Che ne pensi?
Un interlocutore, che vuole rimanere anonimo, scrive alla mia email:
«caro Giorgio,
questo è l’inizio della tua poesia:
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
Lascia che te lo dica con franchezza, la poesia che hai postato è veramente brutta, è anti acustica, spezza il ritmo, è affettata (nel senso che fai a fette la sintassi), è artificiale (cerchi di spezzare la coda delle lucertole) perché spezzi in continuazione il flusso delle parole, è gratuita perché contrariamente a quello che dici qui si trova un Grande Io che interviene dappertutto nella sintassi e nella stesura prosodica con le forbici in maniera selvatica e con la lametta, tagli e spezzi tutto quello che c’è da tagliare e da spezzare. Alla fine rimane un singhiozzato spezzato intervallato da spazi. Il primo verso contiene 4 parole ed ha 4 punti. Non ti sembra un po’ eccessivo? E questa sarebbe la nuova poesia?».
La Verità
«Oltre la verità cartesiana, e i suoi effetti, non c’è alcuna verità che sia al contempo empirica e logica, senza appigli analitici, quegli appigli che portano all’altro tipo di verità, che va per la maggiore: quella ipotetica.
Mirare alla comprovazione dativa degli oggetti esterni è stato l’obiettivo diciamo ontologico. L’esito purtroppo è, al di là di ogni dubbio, solo ontico, cioè “ti penso dunque esisti”. Sì, se guardo o tocco la matita, cioè un dato esterno, la matita esiste e, se guardo e tocco, io, cioè il dato interno, non solo esisto ma sono, al di là di ogni dubbio. E se avvaloro l’io, se gli comprovo come causa effettiva dell’io funzionale ma la natura di questo io, per me materiale, è solo ipotetica), avvaloro anche il suo pensare, vedere, toccare. Di più non ci è dato avere come prova verace dell’ipotesi».1
1 R. Bertoldo La profondità della letteratura Mimesis 2016 p. 319
Il Niente
«La dialettica è tra niente ed entizzazione: è il Niente, ovvero l’essere, che vuole entizzarsi; in questo impasse dialettico si trova la condizione ontologica degli enti». «L’essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo NiEnte è, per postulato, la Materia».1]
1] R. Bertoldo La profondità della letteratura Mimesis 2016 p. 25 e 27
Nella vacanza. Questo ritmo.
Le onde arretrano.
Disseminano bacini.
Non affiorano ed i pesci
serpeggiano.
Le dune sovrappongono questo rumore d’aria e scuote il finito. Inganna un momento il tempo
così simile ad una costa sdraiata.
Tra le cosce una perfezione inutile.
Grazie, OMBRA.
Porte non aperte, saracinesche abbassate, inferriate, bianco che domina su tutto, bambini e pianoforte compresi… L’oblò non accompagnato da nessun aggettivo… Sul piano linguistico questi versi di Giorgio Linguaglossa sono la gloria definitiva dei sostantivi i quali gettano alle ortiche tutto il truismo e i significanti di tanta poesia [senza destino] di casa nostra, sul piano tematico si avverte invece tutta la condizione dell’uomo del post-postmoderno o del transumanesimo, un uomo senza tempo e senza spazio certi, riconoscibili,
assenza di memoria e assenza di una idea-progetto di futuro, un labirinto senza filo di Arianna di incomunicabilità totale… E’ la metafora dell’esilio più terribile, l’esilio dell’uomo a tentoni nel proprio corridoio.
Ogni lettore forse davvero vede e sente nell’altrui poesia ciò che è in grado di vedere e sentire, scaricando sui poeti-autori i propri limiti, le proprie inadeguatezze.
Anche in questi versi la proposta di essi in distici sono di alto rendimento estetico.
GR
Una breve precisazione
Nel brevissimo, precedente commento sui versi di Giorgio Linguaglossa ho usato l’espressione:
“E’ la metafora dell’esilio più terribile, l’esilio dell’uomo a tentoni nel proprio corridoio” perché ho tenuto presente György Lukács, il quale, in Teoria del romanzo, ha sostenuto, con lo stringente rigore che gli è proprio, che il romanzo quale forma letteraria nata dall’irrealtà dell’ambizione e della fantasia, è la forma di «spaesamento trascendentale».
Riferendosi al contrario alla Epica classica Lukács sostiene che essa deriva come forma letteraria direttamente da culture stanziali, culture nelle quali i valori sono chiari, le identità sono stabili, i valori sono chiari e condivisi, la vita è priva di cambiamenti.
Il romanzo europeo invece trae origine dalle condizioni esattamente opposte e cioè da quelle di una società in rapida trasformazione in cui un itinerante e/o un diseredato eroe (o eroina) della classe media cerca di costruire un nuovo mondo, un mondo-altro che in qualche misura somigli a quello vecchio lasciato per sempre alle spalle.
Per György Lukács nell’Epica non c’è un ‘altro’ mondo: Ulisse torna a Itaca dopo anni di erranza, mentre Achille dovrà morire perché non può sfuggire al proprio destino.
Il romanzo europeo, invece, esiste perché altri mondi potrebbero esistere, e con questi altri mondi possibili possono esistere anche ‘alternative’ per speculatori borghesi, per vagabondi, per migranti, per esuli.
Anche da qui l’affermarsi dei cosiddetti poeti e scrittori ‘translingui’.
GR
Complimenti a Gino Rago per il supporto culturale che ogni giorno offre alla Rivista.
Molti auguri per la relazione che terrà il prossimo 12 agosto!
Nella poesia “Omega” l’interlocutore è posto altrove, in un non-luogo. Si presume che stia ascoltando e registrando quanto gli viene riportato dalla visione dell’autore – operatore scientifico –; il quale autore scrive da speleologo, inabissato com’è nell’inconscio. Quando riemerge “c’è un terrazzo. / Una ringhiera si affaccia su un mare nero”.
Io che sono un lettore “della domenica” capisco che si tratta di un sogno; e che l’autore mi rassicura (perché va detto che le poesie di Giorgio Linguaglossa spesso sono incubi della significazione, ma sempre incubi sono).
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
E’ un verso che non sdrammatizza, dice soltanto che se un qualche significato c’è, sta nell’evento. E’ già trascorso. Qui nulla è rimasto di significato, significante, ritmo o quant’altro possa far pensare a qualcosa di esterno all’evento poesia.
L’anonimo interlocutore parla un linguaggio che non può più essere detto scambievole.
Leggendo “Omega” di G. Linguaglossa mi è venuto da chiedermi subito perché l’insistenza così evidente sul colore bianco che avvolge luoghi e persone, colore dell’invisibilità (come distinguere infatti, tra le pareti bianche, le figure bianche di bambini?) ma anche della mancanza, quasi l’ambiente descritto fosse quello asettico di un ospedale, luogo di sospensione e di attesa temporanea, prima del ritorno alla vita di sempre o del passaggio ad altra vita. Il mare scoperto dietro la porta è nero infatti, con tutto ciò che quel colore rappresenta in se stesso: il buio metaforico di quei “morti che hanno inghiottito il buio”, il rinvio a un mondo sprofondato, con i suoi templi diroccati, che è quindi anche il buio del Tempo (storia che inghiotte se stessa, lasciando i residui delle colonne), buio della memoria e del sotterraneo non così accessibile, ma per tornare al quale è necessario aprire, “con circospezione”, le porte sprangate del tempo.
Ho seguito la traccia di questi colori, passando da un testo all’altro: il buio in cui si aggirano i vecchi di Charles Simic, sprofondati nelle loro camere tetre, nelle stanze nere proprio come quel mare oscuro, delineate dalla sottile striscia di gesso bianco che divide i due mondi, quello visibile ed esterno e quello sconosciuto della morte che prende forse il passo implacabile e invisibile dei topi nascosti nel muro (il bicchiere d’acqua è lo stesso che hanno bevuto i padri morti che ci precedono di poco in cucina, con un’immagine presente anche in Ritsos).
Nera la pelliccia di volpe citata dalla Lipska che si vende per sottrarsi alla memoria smemorata che non pratica più i luoghi visibili e che si libera di noi spargendoci in frammenti sui luoghi della nostra vita, quelli che dovrebbero trattenere il tempo e i ricordi, nero l’Atlantico di Transtromer che si staglia su quella notte che avvolge il mondo, con quella tromba scura dell’ascensore che continua il suo viaggio verticale nelle viscere della terra, sfiorando forse gli strati delle ere geologiche, di un altro tempo in cui sono sepolte le generazioni e i ricordi, e avvolta dall’ombra è la metro sotterranea della Giancaspero, dove invano gli occhi scrutano l’equivoco di chi non ha più strade da tentare per raggiungere certezza di se’: scoprirsi sospesi nel mondo, estranei a se stessi, con una lingua incapace di ancorare al tempo e di dare consistenza al mondo esterno, quello dei corpi e dei giorni, significa anche dover esplorare, come accade in queste poesie pure tutte così diverse nelle immagini e nel ritmo, un mondo oscuro, sotterraneo, inquietante, ai confini della memoria e dell’ignoto, all’inseguimento di ricordi di tutto ciò che è sepolto “giù nel profondo”, al tempo stesso perduti ma anche troppo vicini a noi.
Grazie a Rossana Levati per questo commento così intenso e puntuale nel rilevare i caratteri salienti dei testi a confronto. Già in molte altre occasioni abbiamo avuto il piacere di apprezzare le sue qualità interpretative e quelle dei suoi studenti.
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Franco Donatoni (1927 – 2000)
Bruno Maderna (1920 – 1973) fu tra i precursori dello strutturalismo, assieme a Stockhausen, Boulez e Nono, così come fu tra i primi ad indagare le possibilità offerte dall’alea. A questo riguardo, la sua Serenata per un satellite del 1969 viene universalmente considerata come uno dei momenti di più alto lirismo ottenuti con l’utilizzo di tecniche aleatorie.
Buon ascolto!
PoSTO LA POESIA IN ARGOMENTO:
Omega
[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
[perché a destra (!?)]
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.
Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.
Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.
Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».
Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
In verità, nelle prime stesure della prima strofa di questa poesia saltava agli occhi che essa non era stata scritta con tutti quei punti a mo’ di spezzatino, ma era scritta come un’onda unica fonica e sintattica, alla maniera della ontologia estetica novecentesca. E la cosa non mi piaceva affatto, mi lasciava insoddisfatto. In seguito, nel corso degli ultimi 4 anni ho iniziato a segmentare il testo con dei punti, togliendo i verbi e gli aggettivi (che confondevano e ostacolavano a mio vedere il colpo d’occhio della lettura). La stesura in distici è stata l’ultimissima e decisiva modifica che ho apportato al testo.
La poesia è stata costruita in feroce inimicizia con il «suono», con la poesia fonologica e sonora della tradizione italiana che va da Pascoli e D’Annunzio a Franco Fortini di Composita solvantur (1995). Quello che è avvenuto dopo l’ultimo libro di Fortini nella poesia italiana non lo ritengo, da questo punto di vista, interessante… con l’eccezione di Stige di Maria Rosaria Madonna [1992 e adesso in Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018, pp. 148 € 12], la quale opera uno strappo vistosissimo con la poesia della tradizione novecentesca in senso lato.
La poesia in argomento è stata costruita nell’ambito della nuova concezione estetica della nuova ontologia estetica. Mi rendo benissimo conto che ad un orecchio abituato ed educato alla vecchia ontologia estetica la poesia possa sembrare brutta e cacofonica. Anzi, il fatto che venga recepita così mi convince sempre di più che mi trovo (ci troviamo) sulla strada giusta, la strada del rinnovamento di una stagnazione del pensiero poetico che si è protratta per più di 50 anni. Innanzitutto, nel mio testo, la fonologia, il suono ha perso la sua centralità, anzi, sono stati relegati in ultima posizione. Il suono complessivo delle parole, la Stimmung non è data dal suono del significante ma dal cozzo acustico della fonemica e dal cozzo dei significati.
Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con il «niente»… e questo è evidentissimo se rileggiamo per esempio la poesia di Mauro Pierno, di Alfonso Cataldi e di Donatella Costantina Giancaspero postate nell’articolo.
È avvenuta una rivoluzione, e non ce ne siamo accorti. Rectius, chi non la vede è perché non ha occhi e orecchi per avvedersene.
Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso» afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari
utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione intermediaria del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della nuova ontologia estetica.
Leggiamo cosa dice un maestro della teoria del linguaggio, Ferdinand de Sassure:
«Le sillabe che si articolano sono impressioni acustiche percepite dall’orecchio, ma i suoni non esisterebbero senza gli organi vocali; così una “n” esiste solo per la corrispondenza dei due aspetti. Non è dunque possibile ridurre la lingua al suono, né distaccare il suono dall’articolazione boccale; reciprocamente, i movimenti degli organi vocali non sono definibili se si fa astrazione dall’impressione acustica.
Ma ammettiamo anche che il suono sia una cosa semplice: è forse il suono che fa il linguaggio? No, il suono è soltanto uno strumento del pensiero e non esiste per se stesso. Sorge qui una nuova corrispondenza piena di pericoli: il suono, unità complessa acustico-vocale, forma a sua volta con l’idea una unità complessa, fisiologica e mentale. E non è ancora tutto.
Il linguaggio ha un lato individuale e un lato sociale, e non si può concepire l’uno senza l’altro.
Inoltre, in ogni istante il linguaggio implica sia un sistema stabile sia una evoluzione; in ogni momento è una istituzione attuale ed un prodotto del passato.
[…]
Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale… La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».1]
1] F. de Sassure, Corso di linguistica generale,, Paris, 1922, trad it. 1967. edizione del 2001, pp. 1-19
“Il linguaggio ha un lato individuale e uno sociale”, questo e innegabile; eppure, vorremmo credere che i due aspetti, talvolta, si fondano, dando luogo a un “unicum” in cui tutti si possano riconoscere, anche se ciascuno a suo modo. Apprendo che siano in corso (o in progetto) letture pubbliche di D’Arrigo; un inizio felice, che speriamo abbia un futuro fortunato.
a proposito dell’Occidente “devastato” (di cui sopra si dice) ricordo alcuni versi dell’amico Antonio Sagredo tratti dal volume CAPRICCI :
————————————————–
divano occidentale-orientale
Fattura occidentale!… ed è uno smorire di sconvolti Orfei sui cementi,
lire fuligginose tessono ghirlande d’ombre, e sono inermi i suoni
dei corni che nell’odierna Babilonia spargono avena per i morti!
Costruite muraglie contro chi invase il vostro cuore meridiano!
Contro chi celebrando una logora vittoria brilla di luttuosa luce!
La sordida Driade sbandiera il tirso. I grifoni a sciami saltano
su ponti impalpabili dove i carri tremuli, per l’afa e le palme inferme,
una scialba notte di petrolio incoronano con intrichi di giunchi e serti
di catrame! – sformati come i volti di chi l’indugio ha mutato in tradimento!
I soldati rosicchiano invano il sistro, come negromanti accecati dalla scossa!
La guerra è perduta! Ritiriamoci! Ma abbiamo vinto tutte le battaglie!
Quanta è nana la nostra tecnologia contro decine di secoli di pensiero!
Quanto è misero il nostro orgoglio davanti lo stendardo d’una palma!
La guerra non è perduta! Ritiriamoci! Nemmeno una battaglia abbiamo vinto!
Non ho né mani, né piedi! Non voglio il mio nome scolpito sui marmi infami!
Hanno mutilato il mio cervello e la mia terra! La colt ha fatto ci-lecca-ci-lecca!
La mia storia futura è la nuova frontiera sulla sedia a rotelle! Siamo stati fottuti!
Bistecche di carne al petrolio, petrolio al sangue di bistecche! Siamo stati fottuti!
antonio sagredo
Vermicino, 16 aprile 2007
[Dalla relazione da tenere il 12 agosto 2018 nella Sala Convegni del Laboratorio delle Idee nel corso della Festa dell’emigrante in Cerchiara di Calabria-la città del pane estraggo e condivido]:
Erranze-Dislocazioni-Esilio
Gino Rago
La lingua come forma di esilio, la «condizione di esilio» nel grande gelo linguistico
I° Brandello
[Agota Kristof, dal suo romanzo ‘L’analfabeta’]:
« “Ich bin müde”, dico a Fred. Il suo viso pallido e malinconico si stira in un sorriso. “Ich bin müde” è l’unica frase tedesca che per ora conosco. In questo momento non voglio nemmeno imparare altro. Imparare altro significa aprirsi. E io voglio restare chiusa ancora per qualche tempo».
Potremmo dedurne che il doversi mettere in gioco dal punto di vista linguistico può essere faticoso. Così come il desiderio di chiudersi dentro sé stessi, che per la Kristof è chiudersi nella propria lingua madre, è uno dei modi più diffusi ma forse non sempre efficaci di proteggersi.
In molti scrittori, il ricorso ad una lingua straniera rappresenta una forma d’esilio.
Scrivere in un’altra lingua, infatti, può essere vissuto perfino come una conquista, ma anche e soprattutto come una perdita[…]
La questione linguistica è centrale in Agota Kristof proprio nel suo romanzo ‘L’analfabeta’ che poi è un lungo racconto autobiografico.
In questo caso, l’esilio è lasciare la propria terra. Ma è anche seppellire la propria lingua, come fu anche per altri scrittori, in seguito alla fuga di moltissimi ungheresi dopo l’intervento russo del 1956…
(Altri scrittori, poeti, artisti, intellettuali, che hanno segnato il Novecento [Tzvetan Todorov e George Steiner, Salman Rushdie e Jacques Derrida, per citarne alcuni], e che in prima linea hanno vissuto la condizione dell’esilio, hanno seguito altri percorsi rispetto alla lingua materna, come Hannah Arendt che ripudiò tanto il francese, quanto l’inglese, rimanendo fedele alla lingua tedesca, anche se era la lingua dei carnefici.
Infatti, alla domanda:
« Cosa Le è rimasto dell’Europa pre-hitleriana…»,
la Arendt risponde: «La lingua».
Il rapporto con la lingua tedesca nonostante la fuga dalla Germania nazista è dichiarato in questo passaggio di una lunga intervista alla Arendt in cui dichiara il suo attaccamento al tedesco:
«Mi dicevo: che cosa si può fare? Non è la lingua tedesca ad essere impazzita! E poi, non esistono alternative alla lingua materna. Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere. C’è gente che parla le lingue straniere meglio di me. Io parlo ancora con un forte accento, e non riesco a parlare in modo idiomatico. Tutti lo sanno fare. Ma in questo modo si parla una lingua, in cui un cliché non fa che sostituirne altri, perché la creatività linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua».
Nel caso di Hannah Arendt appare chiara, netta la posizione nei confronti della propria madrelingua, benché si fosse trasferita in un paese anglofono (gli Stati Uniti) e scrivesse i suoi testi in inglese.
Il tedesco nella Arendt non viene cancellato dalle altre lingue, anzi queste, inglese e francese, conservano tutt’e due e portano nell’accento il segno del tedesco stesso. Perdere la lingua madre si traduce in un limitare la propria creatività, sarebbe una sorta di amputazione che Hannah Arendt sente di non poter accettare subire né accettare.
La condizione dell’esilio, come partenza, sradicamento, arrivo nella terra altra, nella mia breve relazione appare soprattutto come spaesamento, barriera linguistica, tentativo di ricostruzione identitaria attraverso l’opera letteraria, racconto, romanzo, poesia.
Ma la condizione di esilio, nei poeti scrittori considerati, Kristof, Arendt, Brodskij, emerge anche come impossibilità del ritorno nella terra della madre e come permanente sentimento di essere nella nuova terra e nella nuova lingua sempre out of place. Anche per queste vie la condizione di esilio è un evento linguistico.
Ne “Dall’esilio”, Iosif Brodskij, fuggito nel ‘72 negli U.S.A. scrive:
«Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era, per così dire, la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula. Quella che all’inizio era una liason privata, intima, col linguaggio, in esilio diventa destino – prima ancora di diventare un’ossessione o un dovere».
5 poeti contemporanei
[ Edith Dzieduszycka, Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Agota Kristof]
e 7 poesie sul tema
Erranze- Dislocazioni-Esilio linguistico
1- Edith Dzieduszycka
I senza nomi
In giacche d’ombra
e visiere di fango
arrancano
letali
i senza nomi
Sul ciglio del sentiero
su scogli e strapiombi
senza meta
a blocchi aggrovigliati
Le loro armature sono di pelle nuda.
Hanno perso la voce
la lingua
forse la voglia
Dai rovi
sornione s’alza
la brigata dei corvi iene sciacalli
L’orizzonte è fuggito
È andato lontano
dietro
più dietro ancora
Una mantella cupa
lo ricopre.
2- Gëzim Hajdari
Dove vanno questi uomini insanguinati
Dove vanno questi uomini insanguinati
giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
Dicono che provengono dal Delta del Niger
e non vogliono tornare indietro.
Che ne sarà dei loro destini?
Fuggono lungo il confine
insieme alle bestie impazzite
in balia delle dimore ignote
e delle voci dei defunti.
3- Giorgio Linguaglossa
In nomine lucis
Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion
danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.
Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,
sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,
si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,
sotto gli alberi spogli.
[…]
Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.
Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…
– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…
– Dicono di aver bevuto tanta luce.
[…]
La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde
in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.
[…]
La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo
dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione
e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…
4 –Gino Rago
L’esilio è un evento linguistico
Era d’inverno. Il villaggio dormiva più del solito,
ombre corte dai monti e dalla neve.
Una donna sognava di diventare un’altra persona.
Bisognava lasciare il villaggio, abbandonare la casa.
Sfidare il lago, attraversarlo dimenticando le sponde,
concentrandosi unicamente sull’altra sponda,
la più vicina. Agota diventò un’altra persona
ma non abbandonò il villaggio né sua madre.
Aveva intrapreso il viaggio in un’altra lingua.
La nuova lingua accolse la donna
come la nonna che ti attende e che ritrovi al di là dell’oceano.
La condizione che chiamiamo esilio è solo un fatto di lingua
[si può essere in esilio anche nel proprio villaggio,
nella lingua della madre, fra le ossa dei padri ]?
Agota ora scrive nuovi versi. L’esilio è in ogni lingua
che ti neghi la parola esatta.
5- L’esilio è un evento linguistico
[Valentina, “la cosa”]
Di notte [peggio d’una ladra] sei scappata dal paese,
quattro cose in una federa coi buchi,
i fichi, gli aranci, le noci ancora nei gusci,
le barche coi nomi dei Santi di vernice alle spalle.
Imparavi a chiamarla anche tu la-città-eterna,
il 19 al capolinea da Centocelle a Napoleone III.
[…]
Hai trovato la parola
per ciò che è capitato?
A volte potresti dirlo dramma o tragedia,
altre volte catastrofe.
[…]
Nella mente tutto questo è “la cosa”
perché per questa cosa non c’è ancora la parola
[l’assenza di parole per la cosa è il tuo esilio
non l’uccisione della lingua madre].
6- Agota Kristof
[da I chiodi]
«Qui le persone sono così felici
che nemmeno amano
sono realizzate non hanno bisogno
l’uno dell’altro nemmeno di dio
la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
e fino a sera aspettano la morte».
7- Agota Kristof
[da I chiodi]
«Nel crepuscolo che ha perso l’equilibrio
un uccello libero spicca un volo sghembo
a terra c’è solo il seminato
silenzio indicibile
e insopportabile
attesa
Ieri era tutto più bello il canto
tra le fronde degli alberi
tra le tue mani tese
il sole.
Ora nevica sulle mie palpebre
il mio corpo
è pesante come roccia
e non c’è motivo per cambiare marciapiede
e non c’è motivo
per andare alle montagne».
——————————————————————————
GR
Adam Zagajewski
I profughi
Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,
uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
-un ricordo- oppure l’ultimo tozzo di pane.
Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre ’39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel ’45,
la Somalia, l’Afghanistan o l’Egitto.
C’è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d’argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un’auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,
e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).
Trascinando i piedi,
vano lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.
(“Dalla vita degli oggetti”, Adelphi)
ERRANZE-DISLOCAZIONI-ESILIO (LINGUISTICO)
Gino Rago
La lingua come forma di esilio, l’esilio nel grande gelo linguistico
[dalla relazione che terrò il 12 agosto p.v. al Laboratorio delle idee in Cerchiara di Calabria-la-città del pane]
2° Brandello
[…] E’ noto il caso umano e letterario di una narratrice di origini bengalesi che ha sempre scritto in inglese. Ma che per sua stessa ammissione ha sempre considerato la lingua della sua scrittura, l’inglese, come una matrigna, non essendo l’inglese la sua lingua madre.
Da poco questa narratrice ha adottato la lingua italiana, scrive direttamente in italiano. Alla domanda ‘Perché questa scelta?’ la sua risposta è stata laconica, chiara, indiscutibile: ‘Perché mi sento cittadina della parola, e sono sempre alla ricerca della parola giusta, della parola esatta’, paragonandosi a uno speleologo di parole nella miniera dell’animo umano.
Dopo i casi di Agota Kristof, di Hannah Arendt, di Iosif Brodskij, esaminati nelle loro condizioni di esilio nel grande gelo linguistico, quali le considerazioni possibili per chi come questa narratrice del Bengala sceglie liberamente una lingua straniera, l’italiano, nell’esercizio della sua scrittura?
Una prima considerazione potrebbe esser questa: una nuova lingua, anzi una ‘lingua nuova’ può essere, è una vita nuova perché la grammatica e la sintassi sono in grado di di ri-fondare una vita poiché ti fanno scivolare in altri sentimenti, in un’altra logica, in un’altra maniera di sentire il mondo e di sentirti nel mondo, costringendoti a destrutturare la tua scrittura originaria che pure sentivi ben fondata e sicura.
Anche nel caso di due poeti a noi familiari, Edith Dzieduszycka e Gëzim Hajdari, l’una, Edith, il francese come lingua madre, l’altro, Gëzim, l’albanese come madre lingua, scrivendo da tempo i loro versi in italiano si sentono di avere acquistato o perso qualcosa?
Sentono la lingua italiana come lingua straniera e/o di esilio linguistico? Destrutturando le lingue madri, il francese e l’albanese, Edith Dzieduszycka e Gëzim Hajdari hanno anche destrutturato sentimenti e logica precedenti? Alle parole nuove della lingua nuova corrispondono le ‘cose’?
Cosa noi lasciamo quando lasciamo qualcuno o quando lasciamo una terra?
Un focolare, una casa, il passato, un paesaggio, una luce, un colore, un suono delle/nelle cose… un’idea o un progetto di futuro…
Vengono meno le stesse forze sotterranee in grado di tenere ancora in vita i matrimoni dopo l’amore, o altro?
Per un poeta che approda a un lingua nuova lasciando la propria lingua madre la questione linguistica forse è davvero lacerante, forse è come spaccare un vaso e incollarne i cocci, illudendosi che il vaso sia nuovo di zecca[…]
Gino Rago
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
3- Giorgio Linguaglossa
In nomine lucis
Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion
danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.
Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,
sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,
si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,
sotto gli alberi spogli.
[…]
Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.
Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…
– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…
– Dicono di aver bevuto tanta luce.
[…]
La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde
in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.
[…]
La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo
dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione
e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…
Un mio piccolo contributo:
l’esilio è essere lontani
la vicinanza è invece essere vicini
ma quando si è esiliati da vicinissimi
in una terra che ha slacciato i suoi legami
e dimenticato quello che era da ricordare
non è data più terribile lontananza,
Forse, per il fatto che ogni parola scritta è nuova, non fa differenza che sia domestica o avvenuta da nuove sponde. Il conflitto a me non sembra lacerante, tanto più se si ritiene che parole e sentimenti non sono la medesima cosa. In un nuovo vestito ti porti i sentimenti. Se mai è da comprendere quel che non cambia. Ammesso che l’essere possa restare per sempre se medesimo o come appare, inamovibile e inalterato… Quindi cambiare lingua, se intendo parte della questione posta da Gino Rago, pone domande sull’essere: questione ontologica, forse un piccolo scossone alla base dell’ente; senza esclusione di colpi fortuiti, momenti di meraviglia.
caro Guido Galdini,
permettimi di disporre la tua poesia in distici. penso che la poesia ne guadagni:
l’esilio è essere lontani
la vicinanza è invece essere vicini
ma quando si è esiliati da vicinissimi
in una terra che ha slacciato i suoi legami
e dimenticato quello che era da ricordare
non è data più terribile lontananza,
grazie Giorgio, perfetto.
La virgola dopo l’ultimo verso era un refuso, ma a rileggerla mi sembra che non sia fuori posto.
Per una ragione che ancora non ho capito bene (ma forse Lucio Mayoor Tosi me la può spiegare) la struttura in distici è quella meglio rispondente alle esigenze della poesia della nuova ontologia estetica. Ci dev’essere ovviamente una ragione. Dopo tanto girovagare in tutte le strutture strofiche, siamo approdati alla struttura in distici. Ci dev’essere un segreto.
Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso»1] afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari
utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione intermediaria del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della nuova ontologia estetica.
La scena della doccia in “Psyco” è stata girata con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio, esprime bene il modo di riprodurre un oggetto da una pluralità di sfaccettature o punti di vista.
1] op. cit. p. 22
Scusate il mio intervento, ma so che esistono anche i “monostici”,che come scrive sopra il Linguaglossa di “segreti nei distici”, per maggior ragione ce ne dovrebbero essere di più per i monostici. Spero che anche il signore che viene citato possa darcene una spiegazione.
Grazie. G. R.
Monostici e terzine; per quanto a mio avviso sia preferibile il primo, se si vuole intervallare. Le mie sono solo constatazioni, nulla che in sartoria non si sappia già; come il fatto che il doppio verso orizzontale sarebbe da intendersi, nel nostro caso, come derivato dal verso libero; del quale mantiene intatta appunto la libertà.
Che la stoffa di questo distico-della-frammentazione sia elastica e performante è piuttosto evidente: può ospitare più frammenti, sopportarne lo stress – tenuto conto che il frammento è quasi sempre un balzo spazio temporale – sulla beltà della tradizione – oppure discendere al terzo verso, primo del distico sottostante, senza problemi di sorta… Si presenta quindi come agile struttura, per altro riconoscibile, identitaria di un modo nuovo di concepire poesia.
Di contro ravviso due problemi, aspetti che non si possono trascurare:
uno, la noia della riproposizione visiva, specie su testi lunghi, alla quale si può ( si deve) rimediare ma al prezzo di uno sforzo immane: pena il calo di attenzione già a pagina tre, se va bene. Quindi bisogna scrivere snelli ( si sa che le righe orizzontali…). Ma questo dovrebbe essere un invito a nozze per molti di noi.
Due: la prevedibilità del punto di arrivo; perché, a meno di scomporre in distici un testo scritto in precedenza, un testo che non ne teneva conto, può accadere che si pensi e si scriva restando in misura. Fine del verso libero, ma anche del frammento dirompente, o sorprendente; per una poesia di libero accesso, il cui merito principale sarebbe quello di porre attenzione alla preziosità del distico; nel qual caso, se non altro, si otterrebbe un diffuso miglioramento del versificare, a tutto vantaggio della poesia sulla prosa.
Be’, non è poco.
Con questo non mi sento affatto certo di avere risposto alla domanda: per quale ragione la struttura in distici è quella meglio rispondente alle esigenze della poesia della nuova ontologia estetica?
Aspetterò il passo illuminante, probabilmente il prossimo discordante che metterà ulteriore distanza dalla riva. Già li vedo, i morti che si compiacciono.
«Di chi sei figlia, e di chi sei madre?»
Del vento in arrivo all’aeroporto. Non ho valige. Ho attraversato
velocemente il piazzale dei taxi. Un gatto.
Gli occhiali da sole nel taschino del blazer. Passato, futuro
e nel mezzo una croce.
Ti vedo malmesso. Hai piombato d’oscurità il tuo destino.
Non farlo con me.
Per me respira. Io sceglierò parole profumo di fiori del cimitero.
Finte banconote ti lascerò sul comodino
affinché ti possa disperare in libertà. E tu gli ultimi papaveri
di primavera. Ma che siano veri.
Da “L’intervista”. Poema in via di composizione.
copio e incollo da
http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-registro-bordo/
La struttura di questo testo si basa sui distici dove, con maggiore evidenza, si immette il frammento, con proprie sintesi progettuali.
Fly Me To The Moon
Signora Stefford i crickets sono andati via.
E’ rimasta solo l’upupa con i suoi up up up.
Non ce ne sbarazzeremo facilmente.
Ormai ha messo le ali sul tetto di Henry.
Ora ci si mette pure il cane Dillinger
a creare sobbalzi e paura.
La città ha una nuova urbanistica con piani terra
dove a sera dorme l’uomo senza nome.
Helen Britt, vicina ai 9o anni,
ha donato la casa ad una onlus.
Nel book-room è diventato best seller
il libro -50 sfumature di grigio- di E.L. James.
Anni 40 e nuovo secolo: che altro aspetti?
Fly me to the Moon!
Andiamo da Mc Lee a interpretare le centurie.
Mary si è fatto un vestito il giorno prima degli esami.
La giornata non è tra le più belle. Piove.
C’è una Street Art sulla A 16. Sembra Warhol.
Due niggers aprono il libro della sera
archiviando Burundi e Burkina Faso.
Anche la notte è passata con le ore.
Il colloquio con Sophy non è stato brillante.
Suona papà Doc il blues del Cotton Club,
è morto il canarino del Wisconsin.
Meg lo diceva che in casa c’era un clarinetto,
ma nessuno l’ascoltava.
5 thoughts on “INEDITO DI MARIO M. GABRIELE da Registro di bordo”
Lucio Mayoor Tosi says:
giugno 22, 2018 at 6:14 pm
Sembra dire: tutto è letteratura, finzione. Ma già che ci siamo facciamola bella.
mariomgabriele says:
giugno 22, 2018 at 7:22 pm
Grazie, Lucio, ma io veramente ho fatto questi distici sballottato dal titolo della canzone di Frank Sinatra cioè Fly me to the moon “Fammi volare fino alla Luna” per distaccarmi un po’ da questa terra. Grazie anche a Francesca Dono.
giorgio linguaglossa says:
giugno 22, 2018 at 6:46 pm
caro Mario,
con la scansione in distici la tua poesia ha trovato, a mio avviso, un equilibrio perfetto nel disequilibrio dell’impianto generale. Così la tua poesia ha raggiunto, anche da punto di vista visivo, una sua forma classica, gli spazi che suddividono i distici con regolarità sono funzionali ad un ordine direi trascendentale, all’ordine della civilizzazione che vuole che tutto sia ben amministrato e ben scandito mediante scansioni regolari. ed è proprio lì che tu intervieni inserendo nella prigione dorata della regola aurea del distico, l’irregolarità dell’irrazionale che balza fuori, dopo ogni distico con un formidabile impromptu. L’ordine amministrativo ama la regolarità dei moduli come ci insegna il design del moderno, predilige la scansione dorata i una regola aurea che si ripete, ricordo rimosso della violenza a cui soggiace l’irrigidito e il raggelato. In fin dei conti, l’irrigidito è il raggelato che ha trovato una forma, un vaso, una scansione. ed è qui che l’andamento sincopato stroficamente irregolare mette a nudo la costrizione ideologica del minimalismo che richiede che il tutto sia ordinato e lindo in ottime forme racchiuso.
mariomgabriele says:
giugno 22, 2018 at 7:03 pm
caro Giorgio,
nella tua pagina dedicata ai distici ho preferito non intervenire dovendo realizzare questo testo. Come vedi ho preso di sana pianta la tua proposta perché la mia poesia ha un ritmo narrativo. Sono intervenuto sui 60 testi di Registro di bordo, frazionando il ritmo con l’inserimento dei distici per dare maggiore pausa al frammento. Come vedi non soffro di ipoacusia e sono sempre attento ai buoni consigli, e i tuoi sono sempre “all’avanguardia” Grazie del commento
giorgio linguaglossa says:
giugno 23, 2018 at 10:59 am
caro Mario,
sono contento che il mio suggerimento sia stato accolto da te. D’altronde non avevo dubbi, tu sei uno dei pochissimi poeti autentici che ci sono in giro in Italia e hai una acutissima percezione e gestione del ritmo. Pensa che anch’io ho riscritto una mia raccolta, ancora inedita, in distici, e così mi sono accorto anche di alcuni errori di linea… È incredibile, stiamo andando tutti (anche Gino Rago e Donatella Costantina Giancaspero) verso delle soluzioni metriche molto ma molto simili, e so che anche Lucio Mayoor Tosi è attentissimo a questa nuova impostazione, però lui va con la sua sensibilità, senza fare copia e incolla del distico ma reinterpretandolo a suo modo personale. Questo vuol certo dire qualcosa, no?
Si aprono nuove strade. Come si sia arrivati al distico resta per me un mistero; forse, senza che me ne rendessi conto, un contributo devo averlo dato anch’io, quando mi inventai gli “strilli” per la rivista; ma l’intento era quello di evidenziare la poesia racchiusa nel segmento, come gemma estrapolata dal contesto.
Un valido contributo è anche la colonna a destra di questa pagina – l’idea è senz’altro di Giorgio – con foto, libri e un po’ di tutto; perché un po’ di tutto può entrare nella poesia NOE; segno di apertura, negozio online della migliore poesia. Ma attenzione a Salman Rushdie, l’indemoniato che sta fisso in fondo pagina: nulla verrà preso troppo sul serio…
caro Lucio,
Sassure scrive che «la lingua è una istituzione sociale»,1] mentre una poesia in distici è linguaggio articolato, è una istituzione stilistica; non che prima della nuova ontologia estetica non si scrivesse in distici ma, nella nuova poesia che designiamo ontologica, la struttura in distici appare preponderante, ed il perché è evidente: la struttura in distici consta semplicemente di un parallelismo di versi, cioè opera una razionalizzazione della versificazione. Tanto più la versificazione è accidentata, impiega stop and go, interrotta, segmentata, frammentata etc, quanto più la struttura in distici obbliga il testo a rispondere a condizioni di simmetria e di estensione quanto più ordinati, costringe in una successione ordinatoria un materiale verbale alquanto dissestato (sintatticamente e ritmicamente). Quindi si tratta di una struttura sovrastante che agisce come una forza «esterna» ordinatrice di forze «interne» telluriche, conflittuali e belligeranti. Ma, se vengono a mancare quelle condizioni che rendono il testo frammentato, irregolare e conflittuale, viene a mancare anche la necessità di adottare la struttura in distici, in quanto essa trova la propria giustificazione di esistenza soltanto in presenza di una versificazione in sé instabile, accidentata e conflittuale.
1] de Sassure, op cit. p. 25
Come si sia arrivati alla struttura in distici, non ricordo, forse… leggendo una poesia di Mario Gabriele, istintivamente, per mio divertimento, ho suddiviso la colonna unica di una poesia di Gabriele in distici e mi sono accorto che funzionava meglio. Così l’ho comunicato a Mario il quale si è convinto dell’idea e ha preso a riscrivere in distici la sua ultima raccolta ancora inedita, e anch’io ho iniziato a riscrivere una mia raccolta inedita in distici. La cosa è cominciata così… però l’idea è nata nella dialettica e nella ricerca dell’Ombra, l’idea era già nelle cose, in re. Aspettava solo la sua ostetrica.
Il merito ti va riconosciuto, come del resto anche l’aver dato vita al grande progetto iniziato ancor prima che nascesse l’Ombra.
Il distico è nelle corde della tua poesia, forse non tutta ma in larga parte sì.
Se possibile, ne guadagna anche poesia di Gabriele che qui hai postato. E vedo che Gino Rago ne sta scrivendo con grande entusiasmo. Io pure, ne sto sperimentando le proprietà: non eccedo nella lunghezza del testo, sento quando devo concludere, ma nell’animo si fa vivo un carabiniere: conta il numero dei distici e si aspetta che siano uguali nella strofa successiva. Ho letto non ricordo dove, che tutti i poeti finiscono inevitabilmente col dotarsi di una struttura, piuttosto che niente se la inventano.
Grazie per questa discussione sui trucchi del mestiere.
Si può dire che la struttura in distici incarna la razionalità strumentale, mentre i singoli versi (che rispondono alle esigenze del frammento e della segmentazione della sintassi) impersonano le pulsioni e le improvvisazioni proprie della psiche profonda, delle figure dell’inconscio, del linguaggio dell’inconscio che è organizzato con una sintassi a noi sconosciuta. Queste due forze contrastanti, una «esterna» e una «interna», possono sorgere soltanto all’unisono e possono convivere soltanto in modo conflittuale. In questo modo la struttura in distici agisce come un coperchio che tenta di chiudere e premere il ribollire delle fermentazioni profonde che si svolgono nella pentola. Insomma, è una questione di pentole e di coperchi. Una nuova struttura è indicativa di una nuova forma.
Seduti, in piedi!
Avvertono sillabanti destrieri
le corde innervano lontane inerpicate
parole che sostengono se stesse.
Adesso si batte! Ed i Frisoni contorcono
al trotto i reparti in corsa.
Sopraggiungono leggere,
rallentate, sottratte al momento dell’arrivo
immobili le nuvole che
acquetano rallentando e divenendo.
GRAZIE OMBRA.