
noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo
Vincenzo Vitiello scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).
Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?
Vincenzo Vitiello: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.
[ Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente? ]
Vincenzo Vitiello: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.
Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.
Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.

Quando sorge un nuovo linguaggio poetico?
[ Quando sorge un nuovo linguaggio poetico? Ecco due versi del poeta Tomas Tranströmer:
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
In questa immagine a solenoide del poeta svedese abbiamo la rappresentazione a-prospettica di UNA temporalità, una temporalità che, per paradosso, ha bisogno di riferimenti spaziali e simbolici per poter essere avvertita e rappresentata. Anzi, il simbolo è il nesso (concretamente linguistico) che unifica la dimensione temporale e quella spaziale. E qui si cela il paradosso del tempo. Il tempo, nella cognizione ontologica che l’uomo ne ha nella sua vita quotidiana, non è portato da una dimensione temporale ma da una Esperienza che ha abitato la dimensione temporale. Il paradosso è tutto qui: noi percepiamo lo scorrere del tempo e la distanza temporale non mediante la dimensione temporale che, di per sé, è vuota, ma attraverso le esperienze che hanno abitato la dimensione temporale. Nella dimensione del linguaggio poetico di Tranströmer, ad esempio, il simbolo si dà in una o più immagini concatenate che, tutte insieme, concorrono a modellizzare linguisticamente il tempo. Ed il tempo diventa «interno», si internalizza, prende ad abitare le immagini. Nella poesia sottostante di Donatella Giancaspero abbiamo uno «stato di cose» (Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde) che è nel tempo e nello spazio ma, paradossalmente, fuoriesce sia dal tempo che dallo spazio. Che cos’è uno «stato di cose»? Dove abita? Nel tempo? Nello spazio?, o fuori dal tempo e fuori dello spazio?
Una poesia di
Donatella Giancaspero
Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde:
a colpo d’occhio, una scodella di corti steli marroni
piantati nel brodo di polvere.
Accanto al posacenere, l’ora di Armonia,
in attesa di salire col fumo al mentolo.
Alla fine dell’estate, un nido di vespe nel lampadario.
Un enigma al telefono.
Il problema logistico che sposta l’inizio delle lezioni.
La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano.
Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.
Vincenzo Vitiello: il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero. L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.
Prendiamo la prima parte dell’enunciato: noi abitiamo lo spazio. Non però nel senso in cui diciamo che abitiamo in una casa, in una città. Casa e città già ci sono perché noi si possa abitare in esse. Lo spazio, invece, è per l’abitare. È per l’abitare che c’è spazio. E se “abitare” dice: prendersi cura delle cose, allora è per il prendersi cura che lo spazio è. Stiamo qui capovolgendo l’argomento kantiano dell’“apriorità” dello spazio, per il quale in tanto possono esserci sopra e sotto, vicino e lontano, destra e sinistra – e cioè relazioni spaziali – in quanto c’è, c’è già, la forma pura dello spazio. Vero è che Kant muove dalla concezione dello spazio (e del tempo) elaborata dalla scienza moderna: la concezione dello spazio come contenitore universale di tutti i fenomeni esterni. È lo stare in esso che determina la spazialità degli enti, i rapporti cioè di vicinanza e lontananza, tra “su” e “giù”, “davanti” e “dietro”… Non si tratta, chiaramente, di un contenitore “inerte”, al contrario, lo spazio è forma attiva, forma formante: esso spazializza tutto quanto accoglie in sé. Sin dall’inizio Kant antepone la “forma” al “contenuto”, la relazione ai suoi termini, l’attività alla passività. Questo ci permette di dire che Kant non pone il problema del “costituirsi” di questa forma formante, del sorgere dell’esperienza dello spazio. Lo spazio c’è, c’è già, da sempre – si dice. E sia pure. Ma come accade a noi di fare esperienza dello spazio?
La domanda è ineludibile. Kant stesso inizia chiamando in causa “chi” può fare esperienza dello spazio. Soltanto un ente sensibile – risponde –, ossia un ente ricettivo e quindi “finito”, in quanto rinvia ad “altro”, a ciò da cui “riceve”. La “finitezza” dell’ente, la sua ricettività, il suo riferimento ad altro, implica la sua spazialità a priori, il suo essere già – già da sempre – nello spazio (qual forza spazializzante passiva e attiva insieme). Del tutto evidente che è dalla determinazione dello spazio che viene ricavata la determinazione dell’ente che ne fa esperienza, il “noi”, e non viceversa. Né vale replicare che l’esperienza dello spazio – e cioè la conoscenza che l’ente sensibile finito ha della sua spazialità a priori – è una ri-flessione, un ripiegamento dell’ente finito sulla propria apriorica costituzione spaziale. Non vale, perché la replica conferma l’obiezione, e cioè l’asserita presupposizione della spazialità dell’ente sensibile finito. Ma: è sufficiente la “ricettività” a definire l’ente che fa esperienza dello spazio?
il linguaggio è pieno di metafore, di trasposizioni. E non è necessario evocare il linguaggio della poesia, basta avere una qualche confidenza col linguaggio popolare o dialettale. Il passaggio dallo spazio al tempo comporta altro “salto” nella continuità dell’esperienza.
Giorgio Linguaglossa: Lo spazio, il tempo e la memoria, la memoria che apre all’uomo l’esperienza della quadri dimensionalità. Scrive in proposito Giacomo Marramao:
«I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene a incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come “qualcosa” di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali […] Coordinata-tempo e coordinata-spazio, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui e ora dell’Ego. Tale modello è documentabile non solo in sede metaforologica e iconologica, ma anche linguistica e glottologica. È sintomatico al riguardo che non soltanto filosofi come Henri Bergson o Heidegger, ma anche epistemologi e scienziati contemporanei, come per esempio René Thom, si siano appellati al linguaggio naturale per comparare le relative “profondità ontologiche” dello spazio e del tempo (…) Thom ritiene di poter pervenire alla conclusione che “il tempo abbia una ‘profondità ontologica’ superiore a quella dello spazio”. Un opposto scenario ci viene prospettato da quei glottologi che si sono soffermati sugli aspetti linguistici della modellizzazione del tempo. Essi non si limitano a constatare che il principale ostacolo nel cogliere l’enigma della dimensione temporale sta nel fatto che i “precetti” che la compongono “possono essere confrontati tra loro solo memorialmente”: e che pertanto a essere comparate sono “le esperienze portate dal tempo, non la dimensione che lo porta”. Ma ritengono addirittura di poterne concludere che il solo modello “percepibile nella sua interezza” a cui l’”insieme dei riferimenti temporali”, sarebbe, per l’appunto, “lo spazio” (Giorgio R. Cardona)».
In tutte le rappresentazioni del tempo, siano esse “linguistiche” o “iconiche”, entra dunque il gioco un “fattore soggettivo” strettamente interconnesso al punto di osservazione “rispetto a Ego”, nota sempre Cardona, “il tempo è visto come un asse orientato nel senso davanti-dietro: ego rappresenta l’adesso (così come rappresenta il qui nel modello spaziale), davanti gli giace il futuro, alle sue spalle sta il passato” […]».1]
Vorrei dire, per inciso, che la poesia proposizionale che fa affidamento al tempo lineare unidirezionale si taglia fuori da questa visione ontologica delle cose. Ancorata ad una visione prospettica e unilineare essa si affida ad una vecchia ontologia non più adeguata alle nuove cognizioni scientifiche e filosofiche dell’universo e della psiche.
Nei due versi citati di Tranströmer è visibile una nuova intuizione della ontologia estetica: tra significato letterale e significato metaforico, si apre un abisso. È chiaro che quando il poeta svedese parla di «posate d’argento» non si riferisce al servizio di posate di argenteria che ogni buona famiglia borghese tiene in bella mostra nella credenza del salotto, ma a qualcosa d’altro che ha a che fare con il «mondo di retroscena». Il significato letterale del «mondo di avanscena» si scolla, diverge dal significato di retroscena, assume una risonanza simbolica e temporale. Ed è essa risonanza che amplifica la portata della significazione simbolica a un livello inusitato per la poesia pre-tranströmeriana.
Vincenzo Vitiello: Arithmós kinéseos katà tò próteron kaì hysteron («il “numero” del movimento secondo il prima e il dopo»): è la celeberrima definizione aristotelica del tempo. Cominciamo col dire – a chiarimento di quanto sopra s’è detto – che il “prima” e il “dopo” non sono “propri” del tempo, dacché sono già proprietà del luogo: próton kaì hysteron en tópo prôtón estin («prima e dopo sono originariamente nel luogo»). È il “numero”, l’arithmós, quindi il proprio del tempo, ciò che lo distingue dallo spazio determinato (dal luogo, tópos), oltreché dal movimento. Aristotele si premura di precisare che con arithmós indica ciò che è numerato o numerabile, tò arithmoúmenon kaì tò arithmetón, non ciò con cui numeriamo, ouch hô arithmoûmen. Ora, in quanto oggetto e non soggetto di numerazione e misura, in quanto numerato e/o numerabile, misurato e/o misurabile, arithmós è anche la voce articolata, scandita, la frase ritmata, il verso. Pertanto ciò che differenzia il tempo dal movimento, e più in generale dal mutamento (kínesis indica entrambi), è proprio la scansione, che nella voce è il ritmo, che «risulta dalla alternante medietà e unificazione (schwebende Mitte und Vereinigung) di metro e accento». E dunque, perché il tempo sia – il tempo, non il mutamento o movimento; il tempo, non il divenire – non sono sufficienti il “prima” e il “dopo”, è necessario il loro ritmo, la misurata scansione di movimento e pausa, transito e sosta, passaggio e permanenza, assenza e presenza. Ove è solo transito, non c’è tempo, non c’è conservazione del passato, non c’è memoria – non la memoria consapevole della riflessione, però, ma la memoria inconscia della vita. Del pari, ove è solo permanenza, non c’è tempo, ma soltanto spazio. Non è dunque incongruo affermare che può avere esperienza del tempo soltanto quel vivente la cui vita è scandita dal ritmo del conservare e del respingere insieme, dell’accoglienza e del rifiuto: quel vivente che inspira e espira, che ha respiro e voce.

Noi, chi siamo? – Siamo sempre in attesa del treno…
Vincenzo Vitiello: Torniamo all’esperienza dello spazio, così come si è rivelata nell’indagine topologico-genealogica. In questa lo spazio non è presupposto ma costruzione dell’esperienza. Ovvero: la relazione tra i termini – prendiamo i più semplici: “vicino”/”lontano” – non precede i termini. Perché l’animale leone ha “fame” insegue la gazzella, quella che nella corsa gli “appare” – per ripetuta esperienza della distanza – più vicina. È la vista e la potenza di corsa dell’animale che misura la distanza, la relazione, cioè, all’altro animale oggetto dell’appetito. I termini della relazione spaziale non sono “luoghi” inerti, sono potenze vitali, che nella “trasposizione” dell’esperienza spaziale all’ambito delle scienze naturali (fisica, chimica…) vengono rappresentate come potenze dinamiche, Substanzen-Kräfte. In quanto potenze dinamiche, i tópoi (= i termini attivi della relazione spaziale) hanno in sé, nella propria costituzione d’essere, il rapporto all’altro. Apriori, dunque, non è lo spazio; apriori è la potenza spazializzante dei singoli essenti, che denominiamo topoi, proprio per questa loro costitutiva potenza. (Potenza, sia detto en passant, che appartiene non all’“Io”, bensì ad ogni “fenomeno”, che è tale perché in relazione ad altro, e non al supposto “Io”). Lo spazio, lo spazio “esteso”, lo “spazio-contenitore”, è sempre aposteriori, è sempre, cioè, una, e solo una, realizzazione, “attuazione”, della potenza spazializzante dei tópoi. Non c’è uno spazio, vi sono molteplici spazi. E non è necessario evocare la teoria della relatività e la fisica dei quanta, è sufficiente riflettere che altro è lo spazio del gioco degli scacchi, altro quello della geometria, altro lo spazio dei sentimenti.
Spazio dei sentimenti? Cosa mai ha da dividere lo spazio del gioco degli scacchi con lo spazio dei sentimenti?
Nulla e tutto. Nulla – come nulla ha da dividere lo spazio della scacchiera con lo spazio del campo di calcio. Tutto – se si considera ciò che è costitutivo dell’essente spaziale: la potenza relazionale. E non credo che i sentimenti non abbiano questa potenza. Cos’è l’amore se non la potenza che contrasta l’odio? E viceversa.
Noi, dunque, siamo quello che gli “altri”, venendoci incontro, ci donano. Gli “altri” che vengono all’essere nell’atto stesso di donare quello stesso che essi sono. Gli uomini: le loro storie, i loro tempi, le loro regole, giuridiche, economiche, politiche. Storie, tempi e regole che sono se e in quanto narrate, se e in quanto condivisi, se e in quanto messe in comune. Gli alberi, che ci donano il senso più originario dell’abitare, trasformando in Terra il suolo in cui si radicano. Le pietre, che con il loro semplice stare, mute, isolate, impartecipi, “accanto” a noi e alle cose tutte del mondo, ci donano il sentimento di un’apertura oltre i tempi, le storie, le regole della comunità umana. Uomini e piante ci donano il senso della nostra appartenenza alla polis e alla Terra: il sentimento di non essere ek hemôn, per-noi, da-noi, ma per-altri, da-altri, ek állon. Il silenzio della pietra ci infonde il più profondo sentire di essere-per-“altro”, da “altro”, ek hetérou.
1] Giacomo Marramao Minima temporalia Luca Sossella editore, 20005 p. 23
Le risposte di Vincenzo Vitiello sono tratte da http://www.spaziofilosofico.it/wp-content/uploads/2014/06/Vitiello1.pdf
A un certo punto della dotta intervista di Giorgio Linguaglossa al filosofo Vincenzo Vitiello l’intervistatore incalza l’intervistato con la domanda delle domande [perché tira in ballo il tema che più mi coinvolge nella militanza poetica nella Nuova Ontologia Estetica, il quadridimensionalismo]
Domanda di Giorgio Linguaglossa a Vincenzo Vitiello:
Lo spazio, il tempo e la memoria, la memoria che apre all’uomo l’esperienza della quadri dimensionalità[…]
Non mi sento di sottrarmi a questo snodo decisivo del dialogo Linguaglossa-Vitiello e propongo questo mio contributo,:
“Gino Rago, A proposito del Quadridimensionalismo [Brano tratto da Giorgio Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica – Progetto Cultura, 2018, pp. 512, € 21.00, pp. 74/75]
[…]
Esemplare appare in Critica della Ragione Sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, il botta e risposta fra Giorgio Linguaglossa e Maurizio Ferraris ” Sul Quadridimensionalismo “, secondo l’osservatore proustiano de «La Recherche».
Soffermandoci su questo tema, (Pagine 74/75), Giorgio Linguaglossa dà la parola a Maurizio Ferraris (da ‘Emergenza’, Einaudi, Torino, 2016, pag.127).
Sostiene Maurizio Ferraris:
«[…] Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica «che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spaziotempo?» si ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria. Ecco perché Proust sostiene che la vera vita sia la letteratura: perché è la vita registrata,fissata in un documento e resa quadridimensionale…[…] A ben vedere, però, la quadridimensionalità fa parte di individui comuni che rientrano nella nostra esperienza più ordinaria…»
Chiosa Giorgio Linguaglossa:
«Per rispondere a Maurizio Ferraris, il problema che si pone a noi oggi, a distanza di cento anni da ‘ La Recherche ‘ è questo: ma noi sappiamo che esso [il segno] esiste come «traccia» di un qualcosa che non le preesiste, di un passato che non è mai stato presente e che non può essere rievocato. Vale a dire che non possiamo ripetere l’operazione di Proust, la quadridimensionalità si deve vestire di nuovi modi di rappresentazione […]”
Gino Rago
Meditations about “on Quadridimensionalismo”
“The madeleine. The pavement disjointed.
The Jangles of cutlery.
House keys lost in a lawn.
Do they become the resurrection of the past?
making time reappear in space?
[…]
Thanks to memory the past repeats itself inside matter
If time lost comes back again
from the quadri-dimensional depth.
Because man itself is spacetime.
Because to the depth, length and width
only man can bind what has been
[lost time. Time passed].
The infinite points of space and the infinite moments of time
can only vibrate together in memory.
And the present is a fragment of time recalling the past.
Death has nothing to do with this. […]”
© 2018 English re-translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem Meditazioni intorno a “Sulla quarta dimensione” by Gino Rago. All Rights Reserved,
Gino Rago
Sulla quadri dimensionalità
“La madeleine*. Il selciato sconnesso.
Il tintinnio di una posata.
Le chiavi di casa perdute in un prato.
Diventano in noi la resurrezione del passato?
Fanno riapparire il tempo nello spazio?
[…]
Il passato si ripete nella materia grazie alla memoria.
Il tempo perduto esce dalla profondità delle quattro dimensioni.
Perché l’uomo è spaziotempo.
Perché al profondo, nel lungo e nel largo
soltanto l’uomo lega ciò che è stato
[il tempo perduto, il tempo passato].
Gli infiniti punti dello spazio e gli infiniti istanti del tempo
possono vibrare insieme solo nella Memoria.
E il presente è la scheggia di tempo che ricorda il passato.
La morte qui non c’entra. […]”
*La madeleine è il dolce di Marcel Proust
E se infine consideriamo questi riuscitissimi versi di Costantina Donatella Giancaspero, estratti dalla sua poesia [alla quale avrei imposto il titolo “La matita alticcia”] nella pagina di oggi:
“[…]La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano].”
non procediamo senza esitazioni verso il quadridensionalismo, visto che il poeta affianca armonicamente [grazie anche alla sua assai fine educazione musicale] alla altezza, alla lunghezza, alla profondità delle ‘cose’ (il quaderno pentagrammato, la matita ebbra, il divano), accostate con la cura di un Giorgio Morandi in una sua natura morta con bottiglie, la quarta dimensione e cioè ‘la memoria’, nella tessitura color ocra del divano?
Gino Rago
Un enigma ci parla, vuole essere significato, Qualcosa ci parla ma noi non comprendiamo quella lingua
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/24/domande-di-giorgio-linguaglossa-al-filosofo-vincenzo-vitiello-sulletica-dello-spazio-il-nesso-dello-spazio-con-il-tempo-quando-sorge-un-nuovo-linguaggio-poetico-lo-spazio-il-tempo-e-la-m/comment-page-1/#comment-34306
Il linguaggio della Giancaspero sorge quando muore il linguaggio di Zanzotto. Un nuovo linguaggio non può sorgere fintantoché il vecchio linguaggio è in auge; il nuovo linguaggio è uno spazio che si apre e si apre; è lo spazio che è per il linguaggio, non è mai prima o dopo il linguaggio, lo spazio è il prodotto del dispiegarsi del nuovo linguaggio. Nella poesia citata della Giancaspero vediamo il linguaggio allo statu nascendi, assistiamo al dispiegamento dello spazio sullo spazio, lo spazio si fa spazio sul linguaggio che lo porta e lo fa esistere. Mentre il linguaggio zanzottiano è ancora un linguaggio semantico e fonologico, quello giancasperiano non lo è più, ha chiuso per sempre il pentagramma fonologico e semantico delle parole, le nuove parole abitano uno spazio deprivato di fonologia e di semantica. Ma, direte voi, come fa uno spazio siffatto a stare in piedi da solo? È che lo spazio è il portato del nuovo linguaggio. Tutto qui. Molto semplice. Leggiamo:
Una poesia di
Donatella Costantina Giancaspero
Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde:
a colpo d’occhio, una scodella di corti steli marroni
piantati nel brodo di polvere.
Accanto al posacenere, l’ora di Armonia,
in attesa di salire col fumo al mentolo.
Alla fine dell’estate, un nido di vespe nel lampadario.
Un enigma al telefono.
Il problema logistico che sposta l’inizio delle lezioni.
La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano.
Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.
È la memoria che tiene insieme le «cose» così costipate. La memoria è come il calcestruzzo, immobilizza le cose che esistono come un ologramma in un istante dello spazio-tempo: «Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso / contro un’ombra fluttuante». La poesia espone uno «stato di cose», ma uno stato di cose, la «questità», è sempre un enigma, perché le cose stanno in un insieme a prescindere dall’io che non c’è più. le cose galleggiano nel nulla da cui sembrerebbero provenire. Se si legge bene la poesia ci accorgiamo che l’io è scomparso, la costruzione sintattica è costruita senza far ricorso ai predicati, cioè ai verbi che designano una azione; i verbi sono stati eliminati, sono caduti insieme alla eliminazione dell’io. Quello che resta è un insieme di enigmi che coincidono con un insieme di cose. Le cose sono enigmi che, in quanto tali, non possono essere in alcun modo risolti in quanto sono stati vissuti, sono ormai nel passato e, in quanto tali, sono già stati dissolti. È la memoria che ha il compito di tenere insieme la sottilissima rete filamentosa nella quale le cose sono rimaste impigliate.
Ma torniamo all’«enigma» che nella poesia viene menzionato: «un nido di vespe nel lampadario./ Un enigma al telefono». Qui ci troviamo davanti ad una metafora, che è anche un problema ermeneutico; perché «un nido di vespe»?, e perché sul «lampadario»? Tutta la poesia ruota attorno al suo baricentro, ma il baricentro è una metafora, ovvero, un «enigma». Qualcosa ha bucato il filtro della coscienza auto organizzatoria dell’io, qualcosa che viene dall’inconscio, una pulsione cieca si è manifestata ed ha preso il vestito linguistico, nient’altro che questo è una metafora: qualcosa riceve un vestito linguistico, ma quel qualcosa è muto, o meglio, parla un altro linguaggio, un linguaggio che l’io auto organizzatorio non conosce; il «nido di vespe» parla attraverso un ronzio minaccioso, ci parla «al telefono», un ronzio che viene dall’alto e che incombe insieme alla luce che proviene dal «lampadario»; ogni volta che si accende la luce si ripresenta e si ripropone quel ronzio minaccioso che non è possibile eliminare. C’è come un rumore di fondo ineliminabile, questo ci dice la metafora. Qualcosa ci parla ma non con il linguaggio delle parole ma con un altro linguaggio, è il linguaggio dell’inconscio che, per poter essere esplicato, ha bisogno di un vestito linguistico; ma già in sé il vestito linguistico è fatto per coprire, tradurre e falsificare quel «qualcosa» di minaccioso e innominabile che ha preso la propria residenza in quella metafora. In quel ronzio minaccioso, in quell’acufene che può essere udito soltanto dal parlante, risiede tutta l’algebrica significazione di quel mistero. In fin dei conti l’«enigma» è un mistero che non può essere risolto ma che pur sempre vuole significare… però può essere rappresentato, raffigurato, oggettivato. È quello che fa la poesia. Qualcosa ci parla, ma noi non intendiamo quella lingua sconosciuta che proviene dal di dentro di noi, qualcosa vuole prendere un vestito linguistico, ma ciò che esce da questa vestizione è un «enigma», un mistero che non può essere attraversato dall’ermeneutica. Ciò che resiste all’ermeneutica, lì c’è lo zoccolo duro del «reale», quel «reale» che sta dentro di noi, e che sta fuori di noi, e che non può essere eliminato con un decreto prefettizio dell’io.
Edith Dzieduszycka
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/24/domande-di-giorgio-linguaglossa-al-filosofo-vincenzo-vitiello-sulletica-dello-spazio-il-nesso-dello-spazio-con-il-tempo-quando-sorge-un-nuovo-linguaggio-poetico-lo-spazio-il-tempo-e-la-m/comment-page-1/#comment-34307
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate
a distanza normale
– che vuol dire normale? –
s’erano sistemati su scomodi sgabelli due pescatori.
A terra il materiale scatola per le esche, mosche, vermicellini,
ami e mulinelli, canne, grande cestino.
In tuta verde loro, con capelli a visiera.
Mollemente distese su pieghevoli sdraie le mogli
in disparte, si annoiavano
leggendo poesie, forse facendo finta.
Più passava il tempo meno mordeva
preda, malgrado gli ampi gesti
da mulino a vento per buttare l’arpione.
Si alzò irritato uno dei pescatori.
S’avvicinò all’altro con fronte corrucciata.
“Mi dica – se lo sa – da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero. Forse sono venuti
il posto e il momento per domandarci
da dove ci arriva la Coscienza del Sé?
Chi ci ha caricati sulle spalle quel peso?
Mi dica – se lo sa – di quale utilità per noi
è il capire che ora, qui ci siamo, tra che cosa
e chi sa quale altra cosa poi? Ben presto
dall’arpione verremo acciuffati
e non ci sarà modo di dire non vogliamo.”
Che cosa ci dice la poesia? Ci dice che «un bel giorno d’estate» «sulla riva del fiume» ci sono «due pescatori» che stanno pescando. «Mollemente distese su pieghevoli sdraie le mogli» si annoiano, forse leggono poesie o altro. La poesia assume la forma della parabola, che è un tropo retorico dove si dice qualcosa per intenderne un’altra; infatti si dice che due pescatori stanno pescando mentre le mogli, in attesa, si annoiano. Sembra un quadro di Edward Hopper, un tranquillo quadretto di spensierata vita borghese, limpido e chiaro… talmente chiaro che «qualcosa» ci dice che il quadretto è troppo idillico per essere vero, «qualcosa» ci suggerisce che «qualcuno» sta mentendo, che la «cosa» rappresentata non equivale alla «cosa» significata. Si avverte una discrasia, una differenza tra il rappresentato e il «qualcosa» che, ostinatamente, non si lascia rappresentare per via diretta ma soltanto per via indiretta e per allusione. Siamo in «un bel giorno d’estate», ci informa la didascalia, è sì perché Edith Dzieduszycka ama esporre in maniera didascalica le situazioni che descrivono l’irruzione misteriosa dell’inconscio nella istanza auto organizzatoria dell’io. I personaggi sono immersi in una situazione di attesa, attendono che i pesci abbocchino all’amo. All’improvviso, si dice che «si alzò irritato uno dei pescatori» il quale, in modo del tutto immotivato e anti convenzionale, si rivolge all’altro pescatore e gli pone una domanda agghiacciante:
“Mi dica – se lo sa – da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero. Forse sono venuti
il posto e il momento per domandarci
da dove ci arriva la Coscienza del Sé?
Chi ci ha caricati sulle spalle quel peso?
Siamo arrivati al clou della poesia. Posto in una situazione di inazione e di attesa uno dei pescatori si rivolge all’altro con una domanda agghiacciante per la ingenuità con la quale è posta, chiede nientemeno: « da dove ci arriva la Coscienza del Sé?». Qui interviene la peritropè (il capovolgimento), non sono più i pesci che verranno presi all’amo ma siamo noi, sono i due pescatori che «…ben presto/ dall’arpione verremo acciuffati/ e non ci sarà modo di dire non vogliamo».
La quarta dimensione e il tempo psichico-interno in alcuni versi di Costantina Donatella Giancaspero e di Edith Dzieduszycka
E’ noto che lo spazio sia stato regolato dalla geometria euclidea e che il tempo [come fenomeno fisico] sia stato misurato rispetto alla rotazione terra-sole. Tempo e spazio sono stati per secoli due campi totalmente separati.
Poi giunse Einstein e tempo e spazio divennero un tutt’uno, e l’uno, il tempo, influenzava l’altro, lo spazio. E se prima di Einstein bastavano tre misure x,y e z, per misurare qualsiasi punto nello spazio euclideo, essendo ancora lo spazio euclideo uno spazio a 3 dimensioni [tridimensionalità x, y, z], con l’irruzione in fisica di Albert Einstein, l’uomo nuovo ha dovuto immaginare un nuovo spazio, uno spazio a quattro dimensioni.
Dunque, accanto a un’altezza, una lunghezza e una profondità, per definire il nuovo spazio non più euclideo occorre [e non è facile farlo] immaginare una quarta dimensione. Quale è questa quarta dimensione? E’ il tempo.
E il tempo può essere “tempo fisico” o esterno, e “tempo psichico” o interno. E i due tempi, quello fisico-esterno e quello psichico-interno, sono entrambi assoggettati alla relatività.
Ed è grazie alla quadridimensionalità dello spazio che Giorgio Linguaglossa può giustamente affermare, commentando la poesia davvero ‘nuova’ di Costantina Donatella Giancaspero,
“È la memoria che tiene insieme le «cose» così costipate. La memoria è come il calcestruzzo, immobilizza le cose che esistono come un ologramma in un istante dello spazio-tempo […]”,
assumendo necessariamente come quarta dimensione temporale dello spazio il tempo, ma non il tempo fisico-esterno, bensì il tempo psichico-interno del poeta, mostrando così di possedere anche in questo commento odierno pienamente il senso racchiuso nel cosiddetto “paradosso dei gemelli” usato da Einstein per spiegare la relatività del tempo-spazio.
E se consideriamo, per adesso a rapido volo di procellaria, questi ben costruiti versi di Edith Dzieduszycka
Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate
“[…[da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero. Forse sono venuti
il posto e il momento per domandarci
da dove ci arriva la Coscienza del Sé?
Chi ci ha caricati sulle spalle quel peso?[…]”
non è difficile affermare che il poeta è cosciente tanto della quarta dimensione, quanto del tempo psichico-interno del poeta stesso, anche se Edith tende a mettere a dura prova ogni lettore per quella domanda implicita che i suoi versi pongono ed è la difficile materia del “Prima”.
Gino Rago
Edith Dzieduszycka
Che facevamo nel paese del Prima?
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/24/domande-di-giorgio-linguaglossa-al-filosofo-vincenzo-vitiello-sulletica-dello-spazio-il-nesso-dello-spazio-con-il-tempo-quando-sorge-un-nuovo-linguaggio-poetico-lo-spazio-il-tempo-e-la-m/comment-page-1/#comment-34311
Caro signor Raggiro,
tra rosa fra le dita e fetido concime,
tra brandelli e stracci,
ma con il cuor in mano,
la schiena curva dall’artrite sotto il vestito nuovo,
quello che concia per la festa,
mi dica, signor Raggiro,
quanti siamo, scongelati,
con tacchi a spillo o luride ciabatte,
a chiedere… a chi?
a quale meccanico di quale Quartiere Generale,
dove, quando andremo nel paese del Dopo ?
Credo siamo in tanti.
Caro signor Raggiro,
però, mi dica,
ha notato una cosa che trovo io ben strana?
Mi dica Lei, questa cosa
se mai ci ha pensato,
è che nessuno, salvo pochi eletti,
mai si chiedono:
del Dopo sì, va bene,
ma noi, cibo da vermi,
inquinati frammenti ,
che facevamo alla bassa marea
nel paese del Prima?
(Edith Dzieduszycka
23.9.2017)
Nei racconti poetici di Edith Dzieduszycka si verifica che la catastrofe annunciata non avviene mai, che essa venga sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es.
La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io.
«Penso dove non sono e sono dove non penso».
Questo paradossale motto lacaniano ci indica allusivamente la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come quella di Edith Dzieduszycka e quella della «nuova ontologia estetica» (in modo generalissimo) non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico.
Negli autori della «nuova ontologia estetica» un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica; noi sappiamo che l’Es rifugge dai concetti di «bello»-«brutto», accettabile non-accettabile, di buon-gusto non-di-buon-gusto, erotico o pornografico, tutte categorie ideologiche proprie dell’Io che è una istanza eminentemente auto organizzatoria, dedita alla organizzazione dell’auto conservazione e del regolare usufrutto delle categorie grammaticali.
L’Es è quanto resta della struttura dell’io penso – È l’insieme del discorso meno (con il segno -): «io non penso» ergo «io non sono», quel ribaltamento dell’assunto cartesiano che rappresenta la verità dell’alienazione, il «resto» dell’operazione di divisione del soggetto, ossia tutto ciò che è «non-io».
Non a caso, una volta arrivati a individuare il luogo dell’Es, Lacan introduce la questione del «fantasma».
Quando la parola da rappresentativa diventa enunciativa? Lo diventa, ci dice Lacan, quando giura, promette, indica, asserisce, quando utilizziamo un linguaggio domestico, per eccellenza il linguaggio politico. La parola suasoria sarebbe così quella parola che in un certo modo vuole ricucire la frattura tra enunciato ed enunciazione, l’atto illocutorio di Austin, la parola che dice e allo stesso tempo dice di dire. «Tu sei mia moglie», «Tu se il mio maestro», «Tu sei colui che mi seguirà», «Tu sei questo», «tu sei quello»: tutti esempi di parola piena, rivelatrice, persuasiva; la parola che dice la verità del soggetto sullo sfondo di finzione inaugurato dal linguaggio.
Il tempo
Il passato non esiste. Né può esistere il futuro.
Come fa ad esistere il presente
se deve separare due inesistenze.
Non esiste il dopo né può esistere il prima
perché l’universo non è infinito
curvo com’è nella quarta dimensione.
Esiste l’eternità. ma come tempo che non passa mai
non come successione senza fine di secoli.
Eternità di massa infinita. Massa immobile.
Eternità di tempo senza moto, senza fine.
La retta si chiude su sé stessa.
Il dopo coincide con il prima
[sullo sfondo il Nulla a quattro dimensioni?].
GR
Antonio e Sabino. I gemelli più invidiati e ammirati del villaggio.
Antonio seguì un corso durissimo. Alla fine fu giudicato idoneo per una missione aerospaziale. Sabino rimase in terra. Scelse di fare l’impiegato di banca. Nel 1980 i due gemelli, Antonio e Sabino, avevano la stessa età, avevano trent’anni. La missione interstellare di Antonio su una navicella in grado di viaggiare a una velocità prossima a quella della luce ebbe inizio proprio nel 1980. Dopo 20 anni nello spazio, Antonio fece ritorno sulla terra.
Scese con un sorriso giovane dalla navicella e andò gioioso verso Sabino che ansioso lo attendeva in terra. Confrontarono gli orologi.
Quello di Sabino rimasto in terra e per venti anni in banca segnava l’anno
2000. Quello di Antonio, di ritorno dopo venti anni nello spazio a velocità prossima a quella della luce, segnava l’anno 1992… Antonio sembrava più giovane di Sabino perché per lui nello spazio erano passati 12 anni e non 20
come per Sabino rimasto a lavorare in banca sulla terra.
GR
Hai spiegato perfettamente “l’immobile dinamica” del testo, Giorgio, come anche tu Gino. Siamo noi i pesci e le mosche presi nella rete e la tela del tempo e dello spazio… Credo non esista cosa più incomprensibile e più affascinante di quel mistero: la nostra presenza a un dato momento, in un dato luogo. Perché lì e ora, posati in mezzo a quell’insensato e turbinoso meccanismo, senza la minima ragione né la minima spiegazione? Lo so, sono domande quasi infantili, ma chi non se li pone, un giorno o l’altro della sua vita, anche se consapevole della non risposta?
Il Tempo è continua trasformazione, è il mutare delle cose. Da questo fatto si può comprendere perché nella nuova ontologia estetica si pensi più al tempo che allo spazio: perché trasformazione è continuo evento.
Non è dello stesso avviso il filosofo Vincenzo Vitiello, il quale compie una scelta etica a favore dello spazio in quanto fattore o luogo per l’organizzazione sociale, quindi la polis.
Questo potrebbe far pensare che, se lo spazio è ordine e organizzazione, allora il fattore T-tempo sia disordine, anarchia. Non è così.
Si è detto che tra i fattori centrali della nuova ontologia estetica vi siano eventi (nella scrittura e nell’esistere) e cose, gli oggetti inanimati. Entrambi questi fattori ci parlano del tempo, di passato e memoria. Le cose mostrano il passato evento, che la scrittura, di solito al presente, vivifica.
La scelta etica di Vincenzo Vitiello a me sembra teoretica, quella della NOE empirica o, per meglio dire, scientifica. Trovo infatti che la parola Tempo sia più adatta a indicare la natura delle cose e la loro fisicità, anche scientifica, molecolare o subatomica; mentre lo spazio è relativo alle Distanze, le quali rimandano al Tutto, quindi all’Ente, il quale sta a un passo dal Divino. Senza poi alcun eccetera.
Tempo e Spazio sono parole fredde, neutre e del tutto teoriche. In realtà la pienezza di Tempo e Spazio è dovuta a un terzo elemento, che pervade ed è costitutivo di entrambi, sebbene sia a questi estraneo, nel senso che non ne dipende, né può essere suscettibile di alcuna modifica. La fantomatica molecola di Dio, la quale sembrerebbe esperibile, anche se non ancora dimostrabile.
Si sta nel paradosso per cui il tempo non esiste ma esiste il tempo esistito. Il passato, che non esiste, è ed è stato. Ecco perché termini come Tempo e Spazio a me sembrano non del tutto adeguati. Si potrebbe allora parlare di formicolio del tempo, di mortalità dello spazio… ma per poterlo fare bisogna ampliare gli orizzonti della percezione: il primate deve potersi evolvere, verso il nulla, o il pieno, che lo costituisce.
Così come la parola Universo andrebbe modificata con Multiverso: il tempo ora e qui e là.
Un mirabile esempio ci viene offerto dalle poesie di Ma.R. Madonna, quando la poeta entra in contatto tele-sensoriale, telepatico, con una suora…
La poesia di Donatella C. Giancaspero è l’interno di un quadro cubista. Multidimensionale, appunto.
Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.
Descrizione precisa, che piacerebbe molto a T. Tranströmer.
“Sulla riva del fiume, un bel giorno d’estate” di Edith Dzieduszycka
è poesia molto NOE già nell’apparente semplicità del titolo (due frammenti separati da virgola). Il racconto poetico, senza darlo a vedere, cerca e trova la sua forma in numerosi punti. Anche se di accento straniero, è una bella poesia. Domande e risposte da mozzare il fiato.
Non so se in poesia sia giusto parlare di generi, certo che le personalità femminili su questa scena sono davvero diverse e prorompenti.
Caro Lucio Tosi,
le teorie di Erik Verlinde ci stanno dando una nuova visione delle forze fondamentali della natura, una delle 4 forze, la gravità, in realtà sarebbe semplicemente un «fenomeno emergente», come la temperatura che indica il calore contenuto in una materia…
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/24/domande-di-giorgio-linguaglossa-al-filosofo-vincenzo-vitiello-sulletica-dello-spazio-il-nesso-dello-spazio-con-il-tempo-quando-sorge-un-nuovo-linguaggio-poetico-lo-spazio-il-tempo-e-la-m/comment-page-1/#comment-34326
Non è un caso che la «nuova ontologia estetica», cioè alcuni poeti italiani, si sia messa sulle tracce del Tempo… questi bizzarri poeti pensano in termini di tempo e di temporalità, ma che idea bizzarra (!?) – Ebbene, questi poeti sanno, intuiscono che è all’interno della questione «tempo» che si cela uno dei segreti più grandi (forse il più grande) dell’universo; questi poeti fanno un tipo di poesia che si fonda sul concetto (empirico, tu dici) di Tempo. E io sono d’accordo, penso che questo sia un elemento di grandissima novità della poesia degli «ontologistes» come ci chiama Petr Kral. Una poesia che ospita il tempo, una poesia orologio, una poesia che vuole catturare il tempo, metterlo in bacheca, in provetta. Ecco spiegata la predilezione delle poetesse «ontologistes» (Maria Rosaria Madonna, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka e altre) verso la questione-tempo.
Vincenzo Vitiello è un filosofo, lui intende lo spazio secondo il concetto di una «etica dello spazio», forse ci vuole suggerire una idea di uno «spazio etico»? Forse. Resta però il fatto che nessun filosofo potrebbe suggerirci l’idea di un «tempo etico» o di una «etica del tempo», perché il tempo è refrattario all’etica come anche all’estetica, il tempo è lì, è un fattore ontologico paradossale perché, come tu dici, come fa ad esistere il presente del tempo se non esistono il passato del tempo e il futuro del tempo? Che contraddizione paradossale è questa?
Leggiamo questa poesia, anche qui si vuole mettere il tempo in provetta, si vuole catturare il tempo:
…ma così sia. Un suono di cornetta
dialoga con gli sciami del querceto.
Nella valva che il vespero riflette
un vulcano dipinto fuma lieto.
La moneta incassata nella lava
brilla anch’essa sul tavolo e trattiene
pochi fogli. La vita che sembrava
vasta è più breve del tuo fazzoletto.
*
Si legga questo distico. Si tratta di un correlativo oggettivo (che oggi nessun poeta usa più) dove appare manifesto un grumo di temporalità:
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
*
Una nuova teoria della gravità potrebbe spiegare i curiosi moti delle stelle nelle galassie. O, più precisamente, alcune deviazioni nei movimenti stellari che, al momento, i fisici giustificano appellandosi all’esistenza della materia oscura. A metterla a punto è stato Erik Verlinde, fisico dell’Università di Amsterdam, che ne ha illustrato i dettagli in uno studio pubblicato su ArXiv (un server di pre-print non sottoposto a processo di revisione dei pari): il modello, chiamato Emergent Gravity, si discosta parecchio dalle teorie tradizionali della gravitazione e, almeno da un punto di vista teorico, sembra essere consistente con le deviazioni nei moti delle stelle.
L’idea di Verlinde, in realtà, non è nuovissima. E neppure semplice da comprendere. Già nel 2010, lo scienziato aveva sorpreso il mondo con una nuova teoria della gravità, secondo la quale questa non sarebbe una forza fondamentale della natura, ma un cosiddetto fenomeno emergente: così come la temperatura è legata alla velocità con cui si muovono le molecole, la gravità emergerebbe dai cambiamenti di una sorta di blocchi fondamentali di informazione memorizzati nella struttura dello spazio-tempo. In un altro articolo, pubblicato sempre su ArXiv, (On the origin of gravity and the laws of Newton) Verlinde aveva infatti postulato che la famosa seconda legge di Newton della gravità, che descrive perché le mele cadono dagli alberi e i satelliti orbitano attorno ai pianeti, potesse essere derivata matematicamente partendo dalle dinamiche di questi blocchi fondamentali di informazione.
In questo nuovo studio, Verlinde si è concentrato sui movimenti di stelle e galassie: le regioni più esterne delle galassie, come la Via Lattea, ruotano infatti molto più velocemente intorno al centro di quanto non possa essere predetto misurando la quantità di materia come stelle, pianeti e gas interstellari. Per questo, i fisici hanno postulato l’esistenza della materia oscura, che dovrebbe costituire oltre l’80% della materia presente nell’Universo e dovrebbe essere responsabile della rotazione accelerata delle galassie. Tuttavia, al momento non esiste alcuna prova sperimentale diretta dell’esistenza di tale materia oscura. E qui entra in gioco la curiosa teoria di Verlinde: secondo lo scienziato, la velocità nella rotazione delle galassie si potrebbe spiegare ripensando la teoria della gravità, andando addirittura oltre la relatività generale di Einstein: “Abbiamo le prove che questa nuova visione della gravità è in realtà in accordo con le osservazioni”, spiega Verlinde. “A grandi scale, la gravità semplicemente non si comporta nel modo in cui la teoria di Einstein prevedeva”.
In ogni caso, al momento quella di Verlinde è poco più di un’ipotesi, per la quale non esiste alcuna evidenza sperimentale. Quel che è certo è ancora non si è scoperto come inserire in un unico quadro i due pilastri fondamentali della fisica moderna, la relatività generale di Einstein (che descrive la gravità in termini di deformazioni dello spazio-tempo), per l’appunto, e la meccanica quantistica: i tentativi di quantizzare la gravità, per ora, non hanno ancora portato a un risultato definitivo e consistente. Resta da capire se la strada intrapresa da Verlinde potrà gettare nuova luce su questo problema insoluto della fisica contemporanea.“Molti fisici teorici come me stanno lavorando su una revisione della teoria della gravità, e stiamo compiendo notevoli progressi in questa direzione”, spiega l’esperto. “Potremmo essere sull’orlo di una nuova rivoluzione scientifica che cambierà radicalmente le nostre opinioni sulla natura dello spazio, del tempo e della gravità”.
(da http://www.wired.it)
La sintonia di pensiero non
ha risposta
ma batte la consapevolezza di
tempie accarezzate. Così come
“alticce matite”
che accarezzano il tempo,
l’illuminato
disputa la sua idea. Arretra
l’attesa.
Accanto per se i resti della
memoria.
Scorgere mondi in contrappunto.
Pregustare l’errore.
…(Ieri attendendo la prenotazione al CUP pensavo…
non ad una poesia o ad un post in particolare…ma ad una tendenza della contemporaneità poetica…alla perfezione stessa della parola in poesia.Come dire che nel racconto poetico, cosi come assunto,
come via percorribile,
è presente, deve essere presente un errore trasmettibile…evidente. Lo stesso che si percepisce quando si è tra la gente, come stamani nel mio caso.
È l’errore che percepiamo,
l’imperfetto storico,
il dato inconfutabile delle nostre vite a confronto dei resoconti, giornalistici, politici, giornalieri, che fa scaturire la verità. Troppa perfezione uguale troppa menzogna!
Grazie OMBRA.
Luigina Bigon
Una poesia per il 25 aprile
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/24/domande-di-giorgio-linguaglossa-al-filosofo-vincenzo-vitiello-sulletica-dello-spazio-il-nesso-dello-spazio-con-il-tempo-quando-sorge-un-nuovo-linguaggio-poetico-lo-spazio-il-tempo-e-la-m/comment-page-1/#comment-34330
25 Aprile 1945, i non sepolti
Alito di morte lungo il percorso
di campagna, pali della luce
ruote carri cigolanti l’andare
lento dei bovi. Strappavo fiori
lungo i fianchi della strada:
erano margherite, steli viola
e gialli ad improvvisare tombe
a porre una croce senza nome
sulla terra segnata dalla morte;
un segno di pietà, una preghiera
per i tanti non sepolti.
Le ombre degli alberi sfrondavano
la polvere, il sole giaceva nei fossi.
Bossoli spari e schegge di bombe,
il cuore sotto un ombrello nero.
© Luigina Bigon
18 giugno 2006
Avevo 9 anni, provavo un dolore profondo per le tante persone uccise nel conflitto bellico, nemici compresi: per me erano tutti padri fratelli mariti zii cugini amici… Una grande pietà per tutti. Uno dei giorni prima del 25 aprile, mentre rientravo da scuola camminando sullo sterrato di campagna, sentii d’improvviso l’impulso di dar loro una qualche sepoltura creando tombe simboliche con steli di margherite, fiori viola, bianchi e gialli che raccoglievo lungo il ciglio erboso della strada. In lontananza una donna vide la scena e si mise ad inseguirmi come una furia devastando a pedate ogni traccia di sepolcro, gridandomi insulti e puntandomi contro un minaccioso ombrello nero, pronta a colpirmi. Sentii fin dal profondo che quella donna imbestialita raffigurava il male, la morte, senza compassione per nessuno… Ho cercato tante volte di esprimere la sacralità del momento, ma soltanto oggi sono scaturite le parole che hanno dato vita al ‘ricordo’.
Esiste poi una frenesia nel dire in luoghi angusti o di sofferenza, dove anche il pensiero va stretto e bisogna prenderlo in capsule.
L’ora di tempo.
Comprende quel che si è fatto e non fatto
nel segmento che vogliamo considerare.
Ma è solo un’ ipotesi. Sappiamo tutti che il tempo
non esiste. E che l’hanno inventato i filosofi.
Dunque, non lasciamoci intimidire dalle bolle piene d’acqua
che volteggiano nello spazio qui e ora. Il tempo va immaginato.
Una partita di calcio. Il dramma di essere arrivati con tanto anticipo.
In anticamera, davanti alla Presidenza. O in questura.
– Trovato rifugio contemporaneamente al pianoterra di un edificio
in San Francisco-USA; a Parigi, sera, le 22: ubriaco sul marciapiede
in zona Chat noir. Un covo di barboni.
La struttura molecolare del tempo è sempre percepibile
dai corpi sensibili, afferrare l’estremità della maniglia premere con forza.
Il tempo aggiusta gli squilibri. Non arriva come uppercut
piuttosto sembra un nota di violino. Profumi, incensi e fiori sul ballatoio.
Ecco, così è il tempo.
Giorgio, Lucio, Edith,
tutto dipende in noi e intorno a noi dal secondo principio della termodinamica.Cioè, dalla entropia. In ogni trasformazione di materia in energia una parte di questa energia ottenuta non è utilizzabile perché va ad aumentare il disordine dell’ambiente. La grandezza termodinamica che misura il disordine è l’entropia. Il destino del mondo e della umanità è legato al rapporto disordine/ordine. Quando il disordine dell’universo sarà uguale al suo ordine saremo alla morte perché tutto sarà perfettamente immobile.
Tant’è che un filosofo, scherzando, ma non troppo, un giorno affermò che il vero anatema terribile di Dio ad Adamo ed Eva, scacciandoli dal Giardino, non fu:”Tu donna partorirai con dolore, tu uomo lavorerai con sudore”, ma fu quest’altro:” E tu uomo, e tu donna, sarete perseguitati dal secondo principio della termodinamica nei secoli dei secoli…”
GR
Caro Gino,
quando scrivi “tutto dipende in noi e intorno a noi”, cosa intendi per “in noi”? Quale relazione può esserci tra un macro fenomeno riscontrabile e una singola unità, oltre naturalmente a quella tragica di una catastrofe?
Lucio, perdonami, ma davvero ti sfugge che il nostro corpo è il più complesso e delicato reattore chimico del mondo? Che anche quando dormiamo il nostro corpo è sottoposto a inarrestabili processi di trasformazione di molecole di cibo [dunque materia] in energia?
Giorgio Linguaglossa e io conosciamo o abbiamo conosciuto molti poeti coppoloni, altri panzoni e anche qualcuno che contemporaneamente era panzone, coppollone e scorreggione. Costui fu ricoverato d’urgenza al pronto soccorso per sbloccare il rapporto disordine[gas]/ordine[energia pulita] che si era instaurato nel suo corpo perché non per una settimana o per un mese, ma per 3 giorni, dico 3 giorni, non riusciva più, scusami se lo dico così con franchezza, a scorreggiare e i gas di combustione rimasti all’interno del suo corpo ne avevano alterato il fisiologico rapporto disordine/ordine.
Il nostro corpo Lucio è il sistema termodinamico modello, esemplare, in continuo processo trasformativo materia-energia…
Del “nostro ” corpo so poco, del mio quale unico contenitore di verifica posso dire che la percezione delle energie sottili – tra queste il tempo degli accadimenti interiori per processi di diversa sensorialità, ottenuti forzosamente con tecniche principalmente zen – si è rivelata utilissima per comprendere, quasi toccare con mano, l’elemento che ci costituisce (come per i pesci è l’acqua). Il rapporto con l’energia, indipendentemente dal grado di entropia, a mio avviso non può fermarsi al piano concettuale, nemmeno su quello scientificamente dimostrato, ma deve poter essere esperibile. Persone come Buddha, Lao Tzu, Ramana Maharshi, per fare qualche nome hanno fatto in vita questa esperienza.
Caro Gino,
scusa se torno ancora sull’argomento: come puoi essere certo che “Quando il disordine dell’universo sarà uguale al suo ordine saremo alla morte perché tutto sarà perfettamente immobile” ? Perché dovremmo temere la non attività e lo stato di equilibrio, forse dovuto alla compresenza di forze avverse? Non mi torna; ancor più se aggiungi: “Tant’è che un filosofo, scherzando, ma non troppo, un giorno affermò che il vero anatema terribile di Dio ad Adamo ed Eva, scacciandoli dal Giardino, non fu:”Tu donna partorirai con dolore, tu uomo lavorerai con sudore”, ma fu quest’altro:” E tu uomo, e tu donna, sarete perseguitati dal secondo principio della termodinamica nei secoli dei secoli…”. Perdona me non trovo affatto casuale che la conseguenza a questo tuo discorso porti a contenuti biblici, di mentalità cristiana. Nulla di male in questo – qui siamo tutti cristiani, in origine – non trovi che questo principio sia in contraddizione con l’esperienza di vuoto? Se in balia di forze avverse e mutanti, come possiamo sperare di poter osservare, e magari frequentare, l’insieme? Filosoficamente, o dovrei dire esistenzialmente, io propendo a credere che essere ed esserci si possano incontrare, ad esempio nell’unità dell’osservatore… Mah, ci penserò. Mai avuto simpatia per gli anatemi.
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
mauro pierno su 25 aprile 2018 alle 14:24
La sintonia di pensiero non
ha risposta
ma batte la consapevolezza di
tempie accarezzate. Così come
“alticce matite”
che accarezzano il tempo,
l’illuminato
disputa la sua idea. Arretra
l’attesa.
Accanto per se i resti della
memoria.
Scorgere mondi in contrappunto.
Pregustare l’errore.
…(Ieri attendendo la prenotazione al CUP pensavo…
non ad una poesia o ad un post in particolare…ma ad una tendenza della contemporaneità poetica…alla perfezione stessa della parola in poesia.Come dire che nel racconto poetico, cosi come assunto,
come via percorribile,
è presente, deve essere presente un errore trasmettibile…evidente. Lo stesso che si percepisce quando si è tra la gente, come stamani nel mio caso.
È l’errore che percepiamo,
l’imperfetto storico,
il dato inconfutabile delle nostre vite a confronto dei resoconti, giornalistici, politici, giornalieri, che fa scaturire la verità. Troppa perfezione uguale troppa menzogna!
Grazie OMBRA.