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foto Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci – Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Gino Rago

Un tentativo di risposta alle 3 domande

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Gino Rago

Polittico in distici sotto forma di conversazione immaginaria
Tra John Taylor, Alfredo de Palchi, Lars Gustafsson, Giorgio Linguaglossa

Tutto comincia dalla moglie che dice al marito:
«Sei un fallito»

“Fat Man” su Nagasaki…
Stoccolma, luglio 2019,

dalla cronaca del quotidiano di Svezia:
“Oggi è morto anche il suo cane.

Prima se ne andarono il figlio e la moglie.
La casa. Un museo di cianfrusaglie,

Di rimanenze di ciò che è stato.
Il piastrellista-di-Uppsala va in pensione

Ai margini dell’esistenza.”
[…]
Il Signor A. d. P.* si è ritirato
Ai confini del vivere,

Dichiarata inappartenenza
Alla società, al mondo, alla vita.

«Uomo della possibilità»
Costretto in un mondo di congiuntivi,

di affermazioni precedute da un “forse”
Seguite da un punto interrogativo,

A. d. P.-piastrellista-poeta
Mette il vento nelle vele

Per un viaggio a ritroso
Alla ricerca di come giungere a sé stesso.

In quali luoghi è andato smarrito
Ciò che dava realtà e senso alla sua vita?

Il Signor A. d. P. accetta soltanto lavori in nero.
Nella casa dell’amico da restaurare

Entrano personaggi veri o sognati.
Il piastrellista di Uppsala-Verona li conosce tutti.

«Storia di un uomo della possibilità….»
Storia di un poeta. Di una vita nella estraneazione

Nella rivolta degli oggetti smarriti.
[…]
La sua vita disciolta nei versi…
Ci ha detto:« Con la poesia uccidete la morte.

Fatelo per la libertà di tutti.
Dello sfruttato e dello sfruttatore».

Alfredo ha attraversato un Secolo di orrori,
Il dolore di Vallejo è stato il suo dolore

Nel petto. Nel bavero. Nel pane. Nel bicchiere.
Nei versi ha dato i baci che non poteva dare,

Soltanto la morte morirà
E la formica porterà briciole

Alla bestia incatenata,
Alla sua bruta delicatezza:

«Uccidiamo la morte con i versi, solo la morte morirà».
[…]
Da una e-mail di Alfredo de Palchi
Al Direttore di Il Mangiaparole:

“Caro signor poeta,
Crede ancora al mondo dei miti?

Dal 6 agosto del 1945
Dopo “Little Boy” su Hiroshima

I vincitori e i vinti di Troia
Sono a New York con le loro donne.

Ecuba in cucina prepara marmellate,
Cassandra legge i giornali ogni mattina,

Priamo gioca in borsa.
Paride con i dreadlock

Porta il cane al Central Park.
Presso i Greci si diffonde l’Aids,

Un guerriero travestito da Clitemnestra
sgozza il Re nella vasca da bagno.

Ettore lo incontro sui 10 chilometri della Fifth Avenue
Mentre Andromaca fa acquisti da mille e una notte.

Astianatte gioca col pc. E’ sempre solo a casa.
I miti sono l’inganno d’Occidente,

“Fat Man” su Nagasaki ha cambiato il mondo…
Ma per Lei forse i miti sono l’aria.

Chi vivrebbe senz’aria…”
[…]
Lars Gustafsson: «Caro John Taylor,
Come è finita la guerra di Troia…

Nessuno lo sa. Quella guerra non è mai cominciata.
Presto ti spedirò a New York

I diari di un giudice fallimentare del Texas
E la storia di un cane.

Non smettere mai di interrogarti,
Le parole sanno più di noi,

Ciò che pensi ti precede,
Tutto quello che pensiamo

Già sa qualcosa che noi non sappiamo».
[…]
Mister J. T.** ce l’ha con la luna
Perché non mostra a nessuno il suo lato oscuro.

È lì che s’annida il mistero del vivere?
A. d. P a Lars Gustafsson:

«Caro Signor L. G***.,
L’uomo sulla bicicletta blu

Può cambiare la sua vita
In ogni momento,

I messaggi attraversano la storia
Come codici travestiti da idee.

Nella Grande Mela mi ha salvato
Lo stupore contro la banalità del quotidiano».

Una barca di vivi o di morti
Dondola sulla calma di un lago.

.
* A. d. P. è Alfredo de Palchi
* * Mister J. T. è John Taylor
*** L. G. è Lars Gustafsson

Foto Come arredare una parete bianca e noiosa

Priamo gioca in borsa./ Paride con i dreadlock//
Porta il cane al Central Park./ Presso i Greci si diffonde l’Aids,

Guglielmo Peralta

A proposito del nulla, questa mia poesia

Il volto buono del nulla

Si squarcia oltre il visibile
la caliginosa coltre
se lo sguardo trasogna
e gravido di stelle
illumina la notte
Là dove tutto tace ed ombreggia
come un sole irrompe
il pensiero e dall’assenza
sorge una forma
si distende la materia
Creare è sognare
l’Impensato
che da infinita distanza
si svela e si dona all’Aperto
Nel flusso di luce
dimora un’altra vita
si schiude nel frutto che matura
ogni essenza
e mi raccolgo e mi addentro
nell’essere delle cose
E benedicendo
l’Increato
contemplo nello specchio del mondo
il volto buono del Nulla

Mauro Pierno

un ulteriore passo. doble. un fiato enorme.
hai detto o no che è eterno il presente?

e che ci fai allora con quella lente in mano?
con questo spazio che continua, la storia

ingrandita ad arte e un microscopio puntato sopra un calco?
hai letto ancora. hai accompagnato la virgola nel gorgo,

il punto esclamativo dentro l’attico, la stanza ammaestrata
sopra un puntaspilli. disotterrato, un frego sottile che ride sopra versi.

.

Alfonso Cataldi

Una margherita spunta fuori dal cappello a cilindro
Il pubblico pagante applaude e scappa via

Nel camerino Mauro Pierno si strugge al di là del trucco
«NOE… non NOE… NOE… non NOE»

Assediata, la prima profezia
lascia i piedi fuori dalla tenda.

Le stelle sono torsoli di mela
il muso della scrofa ha gli anni luce contati.

Alla fashion week si denuda il duomo di Monreale.
Dolce&Gabbana ripiantano il carrubo sul tesoro di monete disperse.

Sofia ha scoperto i videogiochi splatter
«guarda: il sangue schizza dappertutto, con tutte le tabelline.
Domani aiuterò la maestra a darsi lo smalto sulle unghie»

La sveglia delle 20.30 segnala che la donna d’altri è rientrata in casa.
Da due anni Tomek posiziona il telescopio alla finestra.

– Si, è stato dimesso, col divieto assoluto di osservare chicchessia
è un amore calcaneale e non può essere operato.

 

Lettera di Giorgio Linguaglossa ad un giovane poeta

caro Simone Carunchio,

la metafisica del novecento è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere, ma adesso siamo entrati in un nuovo eone, siamo entrati dentro una nuova nuvola gravida di pioggia: l’oblio dell’oblio, l’oblio della memoria. È questo l’evento fondamentale sul quale si devono misurare la nuova arte e la nuova filosofia del secondo decennio del nuovo millennio, sottovalutare, non vedere, non voler capire, evitare di prendere nota di questo iceberg vuol dire semplicemente non voler vedere, essere incapaci di prendere in carico ciò che il nuovo eone porta con sé.

Penso ad esempio che le poesie sopra postate siano la testimonianza di quanto qui si dice: l’oblio della memoria porta uno sconvolgimento totale nelle menti e nelle parole degli uomini di oggi, di qui il frammento e la de-soggettivazione dell’io e la de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Non dobbiamo commettere l’errore di non guardare bene in faccia la fisionomia di questo ospite non gradito, dobbiamo essere consapevoli di colui che viene, della novella che ci consegna. Non voler accettare il suo messaggio, non voler vedere la gravità di questo messaggio è un atto di debolezza, della «debolezza della ragione poetica», come titolerò il mio prossimo libro di riflessioni sulla NOE che darò alle stampe l’anno entrante.

Scrive Roberto Terzi:

“Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che destina l’essere, quel che viene meno ora, in un certo senso, è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale pertanto alla fine di questa storia della sottrazione. […] Ma il velamento, il quale appartiene alla metafisica come suo limite, deve essere attribuito in proprietà all’evento stesso. Ciò vuol dire che la sottrazione […] si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero vi presta attenzione.

[…] L’evento è in se stesso una Enteignis, «espropriazione»”

Ed ora la parola a Giorgio Agamben:

https://www.raiplayradio.it/audio/2019/09/quotLa-parola-che-vienequot—-Incontro-con-Giorgio-Agamben–63345dbc-9e1c-4a10-93aa-9a5cc1d38596.html?fbclid=IwAR1Il_wMGWfVq-AvpdOYYlS0tcWFI7PA6krmU5G6vUZsKpsoEfIxvnO7w6g

Michele Di Martino

L’evento dal punto di vista del soggetto

«…il suo [dell’evento, ndr.] carattere pre-soggettivo o addirittura a-soggettivo. Assieme alla metafisica, in effetti, cade anche il concetto di soggetto, che in maniera sempre più imponente da Descartes a Husserl si era fatto strada al suo interno.

È forse possibile parlare di un soggetto dell’evento, di un soggetto che di diritto precede e registra l’evento che gli accade? In un senso trascendentale certamente no, non più, è evidente. Sarebbe il sintomo lampante di un modo ragionare ancora metafisico, ancorato alla figura del fondamento stabile, immobile. Il primum è piuttosto l’evento, assolutamente libero da tutte quelle categorie, come passato-futuro o causa-effetto e così via, che trovano il loro senso unicamente in relazione al soggetto che le esperisce.

Nella misura in cui il soggetto, l’«attore», cessa di costituire la prospettiva della filosofia, è l’evento, con le categorie impersonali che porta con sé, a dettare i termini della prospettiva. Il compito dell’individuo, per parte sua, è di saper diventare«figlio dei propri eventi [o degli eventi che fa propri] e non delle proprie opere», facendosene carico, una volta che li ha incarnati. In questo senso l’evento, come singolarità assoluta, non ha nessun qui ed ora, poiché il qui ed ora è sempre in riferimento ad un soggetto.

J. Derrida, La scommessa, una prefazione, forse una trappola, prefazione a S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Jaca Book, Milano, pp. 11-12. J. Derrida,
J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, p. 99

da https://www.academia.edu/29169147/Il_ritorno_dellevento

Gennaro Imbriani

“Paura” e “angoscia” in Essere e Tempo di Heidegger

Nella sua opera più nota, che inaugura alla fine degli anni Venti del Novecento l’apertura di una nuova stagione del pensiero filosofico europeo, Heidegger lavora ad una concezione dell’esistenza e della vita umana che si pone l’obiettivo di scardinare le vecchie filosofie del soggetto, descritto dalla tradizione filosofica, a giudizio dello stesso Heidegger, solamente come una sostanzialità astratta. L’intento dell’autore è invece quello di arrivare a pensare l’uomo nella sua concretezza vivente, nella sua fatticità [Faktizität], al cui interno l’esserci [Dasein], in quanto è già da sempre apertura al mondo e essere-nel-mondo In-der-Welt-sein], si trova gettato in una determinata «tonalità emotiva» [Stimmung], che ne specifica la «situazione emotiva», il «trovarsi» [Befindlichkeit] e ne determina al contempo la collocazione e lo stare al mondo.

La cifra dell’operazione di Essere e tempo (1927), che è appunto quella dell’elaborazione dell’analitica esistenziale, risiede precisamente nel tratteggiare le linee fondamentali di una «ermeneutica della fatticità», che colga l’esserci dell’uomo nelle sue dimensioni vitali più fattive, concrete, e che dunque non contempli solamente il piano della descrizione del soggetto trascendentale della tradizione neokantiana e husserliana, ma che ponga capo ad una descrizione della vita in quanto esistenza.

È all’interno di questo piano teorico che i concetti di paura e angoscia diventano dal punto di vista di Heidegger fondamentali, ovvero “esistenziali” che definiscono l’esserci nella sua dimensione reale, nella sua unità vivente. La «paura» è infatti definita in Essere e tempo come «modo della situazione emotiva [Befindlichkeit ]» [ET, p. 173]. Heidegger ne svolge il concetto secondo «tre aspetti», che vengono definiti come il«davanti-a-che [das Wovor] della paura, l’aver-paura [das Fürchten] e il per-che [das Worum] della paura» [ET, p. 173].

Seguiamo la descrizione heideggeriana del concetto in questione secondo questi tre riguardi.Il «davanti-a-che» della paura è ciò di cui concretamente si ha paura. Questo è «sempre un ente che si incontra nel mondo, sia esso un utilizzabile, una semplice-presenza o un con-esserci» [ET, p. 174], che, in ogni caso, possiede «il carattere della minacciosità [Bedrohlichkeit]».

https://www.academia.edu/35317383/PAURA_E_ANGOSCIA_NEL_PENSIER

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Roberto Terzi, La storia dell’essere è alla fine, L’Ereignis, l’ultima Figura del pensiero, Il Geviert, la Quadratura, La Pop-poesia, Poesie inedite di Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini, L’Oblio della Memoria quale ultima figura dell’Oblio dell’essere, L’Oblio dell’oblio,

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«La storia dell’essere è alla fine»

Roberto Terzi

«La storia dell’essere è alla fine»

Questa problematica può essere riformulata a proposito della questione della storia, che è sempre stata inseparabile dal pensiero dell’essere. Affermando che con l’Ereignis il pensiero non si trova di fronte all’ultima figura dell’essere ma, in un certo senso, alla «verità» di tutte le figure storiche dell’essere, “a Quello che ha destinato a lui le diverse forme epocali dell’essere”, Heidegger giunge alla conclusione che «la storia dell’essere è alla fine». Interpretando unitariamente la storia della metafisica e dell’essere, esibendola come tale, Heidegger la «totalizza», la rimette a se stessa e solleva così la domanda su quale altra configurazione storica si apra nella contemporaneità: l’Ereignis apre cioè la prospettiva di un’altra storia, di una storia che dovrebbe essere «altra» non solo nel suo contenuto, ma nella sua «forma» stessa di storia, per quanto questa distinzione possa qui valere.

Non si tratta evidentemente di una fine della storia in senso hegeliano (anche se il confine tra le due posizioni non è netto e lineare): se l’espropriazione è costitutiva dell’evento stesso, non si dà qui né sapere assoluto né manifestazione piena e definitiva dell’essere nella presenza. Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che destina l’essere, quel che viene meno ora, in un certo senso, è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale pertanto alla fine di questa storia della sottrazione. […] Ma il velamento, il quale appartiene alla metafisica come suo limite, deve essere attribuito in proprietà all’evento stesso. Ciò vuol dire che la sottrazione […] si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero vi presta attenzione.

[…] L’evento è in se stesso una Enteignis, «espropriazione» […] quel che al pensiero si mostra come ciò che è da-pensare è prima di tutto la modalità di mobilità che è più propria dell’evento, ossia la sua dedizione nel mentre si sottrae. Dicendo questo, però, si dice anche che per il pensiero che si raccoglie nell’evento la storia dell’essere, in quanto è ciò che è da-pensare, giunge alla sua fine, per quanto possa ben continuare ancora a esistere la metafisica.
Il pensiero dell’evento non rimane più semplicemente preso all’interno del gioco epocale, nell’abbaglio della propria epoca storica con i suoi significati, e nell’oblio correlativo di quel che in questa epoca si sottrae, dell’evento di quei significati. Il suo compito sarebbe quello di pensare come tale la dinamica di donazione-sottrazione che fa accadere la storia e ogni epoca, per potersi muovere consapevolmente in essa e mantenersi esposto all’espropriazione.

Ma il fatto che con il pensiero dell’evento si esaurisca la questione e la storia dell’essere non concerne soltanto un’astratta speculazione filosofica. Si tratta piuttosto di un sommovimento di tutta quanta la nostra storia europeo-occidentale, che, per Heidegger, è stata essenzialmente una storia «greca», perché greca era la questione dell’essere che l’ha inaugurata. Se, come è noto, buona parte della meditazione heideggeriana è consistita in un confronto serrato proprio con la filosofia greca, bisogna tuttavia ben comprendere il senso e il fine ultimo di questo confronto – il che contribuisce anche a chiarire ulteriormente lo statuto dell’Ereignis.

È stato lo stesso Heidegger a fornire un’indicazione decisiva a questo proposito: «il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare ciò che è stato pensato in modo greco ancora più grecamente»; si tratta di pensare l’impensato del pensiero greco volgendo lo sguardo alla sua provenienza, ma ciò significa che «questo sguardo (Blick) è a suo modo greco ma, considerato in rapporto a ciò che è guardato (hinsichtlich des Erblickten), non è più greco e non lo sarà mai più». L’Ereignis è precisamente quel che si colloca «al di là dei Greci», ciò che rompe con il privilegio storico-epocale del greco: «non si riuscirà a pensare l’evento con i concetti di essere e di storia dell’essere; tanto meno con l’aiuto del greco (si tratta precisamente di “andare oltre” esso). […] Con l’evento non si pensa più affatto in greco».

Quale sarà allora l’elemento e il linguaggio del pensiero dell’evento, quale rapporto si instaura tra il logos greco e i suoi «altri» già-stati e a venire? Più in generale, quale storicità quale configurazione storica e quale pensiero storico si aprono dopo questa «fine», nel momento in cui il pensiero «si raccoglie (einkehrt) nell’Ereignis»?. «Il pensiero che si raccoglie nell’evento» «Che cosa si può dire allora? Solo questo: l’Ereignis ereignet» vale a dire, secondo le diverse traduzioni e accentazioni possibili: l’evento avviene, l’evento fa avvenire, l’evento appropriante appropria. L’ambiguità di questa formula riflette quella del pensiero dell’ Ereignis.

Dell’evento, punto estremo o limite della ricerca heideggeriana dell’origine, resterebbe infine da dire solo una tautologia. Questa affermazione è l’espressione di un pensiero che si trasforma in misticismo, affermando con una tautologia l’ineffabilità del proprio «oggetto»? O è l’indice del rigore e dell’estrema consapevolezza filosofica raggiunta da questo pensiero? Quale prospettiva apre il pensiero dell’Ereignis? È un punto di arrivo insuperabile o la base per una nuova partenza? La risposta a queste domande non può essere semplice e univoca.

Da una parte, Heidegger fornisce effettivamente alcune indicazioni essenziali sull’ambito di pensiero che si apre a partire dalla questione dell’Ereignis e, nel seminario che segue Tempo ed essere, lo fa proprio discutendo la formula das Ereignis ereignet e affrontando la questione che abbiamo posto: «che cos’è assegnato come compito da-pensare al pensiero raccolto nell’evento e quale può essere la maniera adeguata del dire che vi corrisponde?». La formula das Ereignis ereignet, «l’evento fa avvenire», ha innanzitutto la funzione di mettere in guardia «da come non va pensato l’evento», ma lascia aperto il problema di come pensar-lo «in positivo», problema che si riformula nella domanda: «che cosa fa avvenire l’evento? Che cos’è fatto avvenire dall’evento?

Gif Monna lisa

das Ereignis ereignet, «l’evento fa avvenire»

E inoltre: il pensiero, che pensa l’evento, è il ripensare su ciò che è fatto avvenire dall’evento?». Che dell’evento si possa dire solo tautologicamente «l’evento fa avvenire», «non esclude dunque, ma anzi include il fatto di pensare un’intera ricchezza di ciò che è da-pensare nell’evento stesso». In questa direzione, il pensiero dovrebbe dunque impegnarsi nell’esplorare il campo di ciò che l’evento fa avvenire, l’ambito di esperienza dischiuso dall’evento.

L’evento fa avvenire la coappartenenza tra essere e uomo e dona l’essere stesso nella sua differenza dall’ente. Ma se l’essere «svanisce» nell’Ereignis trovandovi il proprio luogo, anche la coappartenenza uomo-essere e la differenza ontologica non dovrebbero mutarsi seguendo un percorso analogo?È quello che Heidegger riconosce in due passi del seminario. L’Ereignis fa avvenire la coappartenenza di essere e uomo, tuttavia «in questo coappartenersi, i coappartenenti non sono più allora l’essere e l’uomo, ma – in quanto fatti avvenire e appropriati (als Ereignete) – sono i “mortali” nella Quadratura (Geviert) del mondo». Questa connessione è confermata dal passo sulla differenza: «è necessario rimettere (Verlassen) la differenza ontologica al pensiero. Ora, dalla prospettiva dell’evento, invece, tale rapporto si mostra come il rapporto fra mondo e cosa – un rapporto che di primo acchito potrebbe in un certo qual modo essere ancora concepito come il rapporto fra essere ed ente, ma concependolo così si perderebbe la sua peculiarità».

Il riferimento è al tema del mondo in quanto Geviert, esposto in diversi testi della fine degli anni Quaranta e degli anni Cinquanta: il mondo nel suo «mondeggiare» è dato dal reciproco rimando e dal gioco di specchi (Spiegel-Spiel) delle sue quattro regioni (terra e cielo, divini e mortali), che si dispiegano dinamicamente nella loro differenza a partire dall’unità della loro implicazione reciproca. Questo gioco, che disegna le diverse figure del mondo nel quale l’uomo abita in quanto mortale, implica inoltre il legame essenziale tra mondo e cosa: il mondo è dato dal dispiegamento delle quattro regioni, che si «raccolgono» nelle singole cose; le cose ricevono la loro essenza solo nella costellazione di rimandi della Quadratura, in un’implicazione reciproca con il mondo, per cui le cose «custodiscono» e «generano» il mondo, il mondo «consente» le cose.
[…]
Heidegger indica dunque nel mondo in quanto Geviert  il«risultato» del pensiero dell’Ereignis, ciò che è «fatto avvenire»o «appropriato» dall’evento, la trasformazione che il pensiero dell’Ereignis produce e il compito che così apre: il pensiero post-metafisico, che prende dimora nell’evento, è pensiero «cosmologico» del dispiegarsi del mondo nel suo gioco e dell’abitare umano in esso (corsivo del redattore). Con lo svanire dell’essere, anche i rapporti essere-uomo ed essere-ente si dissolvono verso l’ambito della loro provenienza: l’abitare dell’uomo in quanto mortale nel mondo, il quale a sua volta si dà nel dispiegarsi della differenza tra mondo e cose.

Il mondeggiare del mondo è l’ereignen, l’accadere dell’evento in cui ogni cosa ha luogo venendo appropriata a se stessa nel mentre viene espropriata verso tutte le altre e verso il mondo come ambito del loro comune accadere. Come Heidegger afferma in una formula icastica, «l’evento della radura è il mondo (Das Ereignis der Lichtung ist die Welt)»: il mondo non è una cosa né la somma delle cose né una totalità statica, ma un evento, l’evento dell’apertura in cui possiamo incontrare le cose e fare qualsiasi esperienza. La Quadratura non è un’ultima versione per la questione dell’essere dopo le precedenti, così come l’essere non si dà o dispiega come Quadratura, ma piuttosto, a seconda della prospettiva, ha luogo in essa o vi svanisce. E forse bisognerà allora giungere a dire che la considerazione delle cose come enti da indagare nel loro essere sarebbe già il primo ricoprimento, l’inizio della distruzione del mondo e delle cose. Se da una parte Heidegger indica dunque nel mondo come Geviert l’ambito aperto dall’ Ereignis, dall’altra parte i suoi ultimi testi sembrano per lo più concentrarsi in una meditazione«preparatoria» dell’Ereignis «come tale»: la tautologia das Ereignis ereignet rischia allora di diventare la parola ultima, parola che si cancella da sé nell’allusione a un’ineffabilità, nell’attesa di una svolta epocale e di un pensiero più adeguato all’evento stesso.

Con un gesto di cui si possono ben comprendere le ragioni teoriche, ma che non può infine non lasciare perplessi, Heidegger giunge a individuare nel pensiero tautologico «il senso originario della fenomenologia». Detto in altri termini, nel corso degli anni l’Ereignis sembra irretirsi nella forma di un punto d’arrivo altro, finale, unico. Per quanto mostri di essere consapevole che l’evento non è un «oggetto inconoscibile», Heidegger sembra spesso descrivere l’ Ereignis nei termini di un’alterità radicalmente contrapposta all’ente, correndo il rischio di «sostanzializzarlo» indirettamente e di cadere in un atteggiamento di pensiero che ricorda da vicino quello della teologia negativa.

Di fronte a questa alterità il pensiero sembra giunto alla sua stazione finale, non tanto nel senso che non si potrebbe più pensare, quanto perché l’ Ereignis assume nel testo di Heidegger la forma più di un punto d’arrivo che di una base per un nuovo sviluppo: Heidegger sembra «arrestarsi»nell’Ereignis. Malgrado le indicazioni sulla via «cosmologica» aperta dall’Ereignis/Geviert, resta difficile comprendere quali compiti concreti per il pensiero si aprano dopo l’Ereignis e anche quale importanza una simile questione abbia agli occhi di Heidegger: la questione «che cosa fa avvenire l’evento?» rischia di rimanere subordinata al pensiero «negativo» della tautologia «das Ereignis ereignet », che lascerebbe il campo aperto per la svolta a-venire.

I testi di Heidegger sembrano descrivere spesso la svolta nell’evento come qualcosa che resta ancora a-venire. Tutta l’elaborazione dello stesso Heidegger a proposito dell’Ereignis sarebbe formulata «solo in maniera provvisoria e per cenni anticipatori», perché «questo pensiero può essere soltanto una preparazione al raccogliersi nell’evento», «può soltanto indicare, cioè dare indicazioni tali da permettere di indirizzare il raccogliersi nella località dell’evento», nell’attesa che «l’Ereignis – certo nessuno sa quando e come – [divenga] lo sguardo improvviso il cui lampo illuminante porta a ciò che è». La svolta nell’evento assume così una collocazione ambigua e paradossale: essa dovrebbe essere «fuori» dal tempo (perché l’evento non è qualcosa di temporale), ma è anche rinviata all’avvenire. Può accadere qui e ora, nella fine del primo inizio della metafisica, ma resta anche da attendere in una trasformazione radicale, rispetto alla quale gli attuali tentativi sono insufficienti. Di fronte a questa svolta radicale a-venire il pensiero giunge ad un punto d’arrivo, perlomeno nel senso che ogni altro compito rischia di venire subordinato o sospeso rispetto a questa «attesa».

In ultima analisi, non sempre i testi di Heidegger sembrano corrispondere alla consapevolezza dell’«immanenza» dell’evento, per cui esso accade in ogni figura e in ogni dire, il quale certo è per questo finito, ma non insufficiente o meramente «preparatorio» se compreso nel suo statuto. Bisognerebbe, in altri termini, seguire fino in fondo la via che lo stesso Heidegger traccia in altri passi, quando afferma che dell’evento non si dà una teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’esperienza non è qualcosa che mistico […] ma è il raccogliersi che porta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimento che può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» è già esso stesso esperienza dell’evento. Solo assumendo questa prospettiva diventerebbe peraltro possibile mettere a frutto le potenzialità fenomenologiche dell’Ereignis e perseguire fino in fondo quel pensiero, evocato in precedenza, di un’evenemenzialità generale dei fenomeni: pensiero che richiede che l’Ereignis non sia il termine unico, altro, finale e insieme a-venire di un’attesa epocale (rispetto al quale ogni altro «evento» diventa secondario), ma ciò che, essendo inscritto in tutta l’esperienza, conferisce a ogni fenomeno un carattere di evento.

Abbiamo voluto qui delineare i termini di questioni che restano aperte e probabilmente indecidibili all’interno dell’orizzonte esclusivo dell’opera di Heidegger, chiamando a un lavoro di confronto tra l’eredità heideggeriana e il pensiero successivo. Abbiamo utilizzato il termine «indecidibili» non
solo per questi motivi, ma anche per alludere al fatto che forse è proprio dove si presenta un indecidibile che si è chiamati veramente alla decisione. Il carattere problematico di diversi testi tardi di Heidegger è invece proprio la loro tendenza ad arrestarsi nell’indecidibile come tale, rappresentato in modo
emblematico dalla tautologia das Ereignis ereignet – ad arrestarsi quindi nell’indecisione tra la meditazione insistente ma paralizzata su questa tautologia e la sua messa in opera in un nuovo pensiero.

Roberto Terzi
r_terzi@hotmail.com da
https://www.academia.edu/6007917/Esperienza_o_tautologia_La_questione_

Lucio Mayoor Tosi

Tutto ha inizio con la morte del dio degli umani: il crollo delle ideologie, il venir meno del pensare metafisico… e a parer mio c’entra con il Torso di Mileto, perché esso raffigura e simboleggia l’unità di corpo-mente per come probabilmente vissuto nell’antichità, esatto opposto del nostro essere disuniti – corpo servo della mente, semidistrutta e desiderante.
Occorre quindi che siano le parole, oggi, in quanto “cose” della memoria, che siano esse portatrici di un pensiero riparatore adatto al superamento del corpo-mente; ma non più nella direzione astratta metafisica, quanto se mai nella direzione del testimone – super-Io nella concezione occidentale, ciò che sovrintende la coscienza (im)morale. Che poi sarebbe lo stato dell’essere in vita, per me tanto simile all’essere morti. Si andrebbe oltre lo pscichismo, nella direzione dell’essere puro che osserva; come nel Torso di Mileto, ma senza specchi che ci riflettano super umani.

Un inedito di Mario M. Gabriele

http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-7/#comment-227

Fuori il buio. La luce che torna. Che abbaglia.
Qualcosa rimane. Sabbia nella sabbia.

Ricordi su display.
Trauma per un vestito in disuso. .

Fuori e ovunque il buio. La luce che torna.
Oh Shery, ricordi Parigi?

Et c’est la Nuit, Madame, la Nuit!
Je le jure, sans ironie! :

Una tavolozza con l’arcobaleno.
La piastra sul fuoco. Go, go!

Fast Food e Hamburger
ai tavolini della Conad.

Aria grigia, pesante. Smoke in the eyes.
Ma dove è finito Chagall? *

Un passo all’indietro. Reperti fossili.
Fonemi e poliscritture.

Sogno di una notte di mezza estate
con Sara Kestelman e David Waller.

Le calze di Nancy sul sofà.
La vita: una garrota!

Piccole voci a chiusura del coro.
Uno zufolo nel bosco.

Ketty Borromeo con gli occhi di lince.
Gli anni nel libro del vento.

Scatti di Nikon ad Auschwitz
e sulle scarpe di Ninì il Rosso.

Stilmann che dice?
Aspetta il Washington Post.

Candelabri su Hebron,
come i ceri di una volta a Detroit.

Shalom!

tu scrivi, caro Mario, «fonemi, reperti fossili e poliscritture», ed hai già dato la chiave per l’ermeneutica del tuo pezzo jazz. La tua è poesia pop-spot, pop-bitcoin, pop-jazz, pop-corn, pop-poesia, poesia da tavolino da bar, nuovissima, da gustare con un Campari soda e una quisquilia del TG in mezzo ai rumori di fondo: intermezzi, nanalismi, banalismi, gargarismi, truismi, incipit, explicit, inserti pubblicitari. Sei il Warhol della pop-poesia italiana. Il che non è poco. La pop-poesia che si gusta con le patatine fritte del Mc Donald’s e un caffè al Ginseng la mattina…

(Giorgio Linguaglossa)

Mario M. Gabriele

carissimo Giorgio, aver riportato questo mio testo inedito, su L’ombra delle parole, mi ha molto sorpreso, per le varie tipologie espressive riscontrate nella lettura, allargando la tua ermeneutica, con una pluralità di percezioni originali e tutte interconnesse tra loro, Il mio pantografo cerebrale, per mia fortuna, registra ancora interiorità ed esteriorità.Il Nulla me lo porto sulle spalle, tanto comanda Lui!

Giorgio Linguaglossa

Una poesia inedita da La notte è la tomba di Dio.

«Come si fa a catturare il nulla?»

Fece alcuni passi avanti e indietro.
Girò in tondo, in senso contrario all’ordine del tempo,

per la stanza soffiandosi il naso e starnutendo.
Una gardenia sullo sparato bianco. Brillava.

Frugò nell’armadio, esaminò con attenzione tutti i cassetti,
gettò all’aria camicie, calzini e polsini.

Poi, afferrò una sputacchiera degli anni sessanta,
ci spense il torzolo del sigaro toscano

e mi osservò da dietro il fondo di bottiglia degli occhiali.

«Come si fa a catturare il nulla? Semplice, rinunciando a volerlo catturare, facendo un passo indietro rispetto al linguaggio, facendo un passo indietro rispetto all’io plenipotenziario… questo Volere Potere di cui è piena la pseudo poesia e la pseudo arte dei giorni nostri, questo voler mettere delle «cose» dentro la poesia lo trovo puerile oltre che supponente, la supponenza degli imbonitori e degli stupidi; questo voler fare delle installazioni del nulla lo trovo un controsenso, il nulla non si lascia mettere in una installazione, non lo si può inscatolare e mettere sotto vuoto spinto. Il nulla non si può conservare in frigorifero, non lo si può mettere in lavatrice o nella centrifuga, non lo si può nominare, non ha nome, non ha un luogo, non ha un mittente né un destinatario, non è un messaggio che si deve recapitare. Il nulla non è Dio, non c’entra niente con Dio. Il Nihil absolutum non è ed è al contempo. È ciò che assicura la sopravvivenza dell’essere fin tanto che l’essere ci sarà. Il nulla non abita lo spazio-tempo. Piuttosto è lo spazio-tempo che abita il mondo grazie alla generosità del nulla.
Una poesia che non dialoghi con il nulla, è una para-poesia o una pseudo-poesia».

 

Mario M. Gabriele

«La notte è la tomba di Dio».

Basta questo verso che per me ne racchiude cento, per entrare di diritto, caro Giorgio, nella Nuova Ontologia Estetica. So che stai pensando ad una Antologia di questo genere. L’impresa è difficile, con gli stessi problemi che incontrarono Guglielmi e Sanguineti quando presentarono I Novissimi. Ciò che importa, una volta superati certi ostacoli,è di essere presenti nella Storia delle documentazioni poetiche che si sono alternate, lasciando il segno. Mi auguro,come tutti gli Amici, degni di questo Progetto, che anche la Fortuna ci dia una mano. Auguri.

Francesco Paolo Intini

SPALLE AL MURO

Si poteva scrivere diversamente e farne un poema ma non si cambiò
Organesson per un volto di Re.

Furono decisi a inventarsi una discendenza.
Tanti per il martirio quanti per la forza dei chiodi.

Ulivi più densi nel torcersi il corpo
E schernimento per i mari da creare.

Continuarono a riempire caselle con elementi umani, torce che si spegnevano al passaggio dell’io. Così concordi nel tradire i millenni.

Elemosinare con la tensione di domani,
il cuore in un martello che percuote il Sahara.

Pantheon e acciaio stesi sul muro
Grondano lo stesso sangue di venti secoli di storia.

Il Bene sottratto ha bisogno di un nome.
Non si può desistere dalla ricostruzione delle mura.

Ci sono gallerie che crescono nel letto di sposo,
mentre l’amore resiste.

Idrogeno dopo idrogeno.
Ha il sapore di mammella nella bocca.

Metallo nobile circola nelle lenzuola
Fusione e dolcezza negli occhi di ottobre.

Per troppo tempo il conto è partito daccapo
Si tratta di lasciare il male seppellire il male.

Ora tocca al diamante. Come potrà evolvere
Se c’è Serse a turbare il Partenone.

O inquieta la mente
Uno zero perfetto.

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Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Poesie di Francesco Paolo Intini, Carlo Livia, Roberto Terzi, Fenomenologia dell’inapparente,  L’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, categoria di Giorgio Agamben, Commenti di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

foto mani multiple

Faust chiama Mefistofele per una metastasi

Francesco Paolo Intini

[di prossima pubblicazione, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, con Progetto Cultura, Roma]

QUANTO XI

Si trattò di competere con un seme di papavero. Lotta tra Re e nano.
Migliaia di funzionari per i feudi, a spiegare il nero degli stami.

Farneticava la ghigliottina perché aveva furore di avvenire.
Era il ciompo che segnava la gioventù con una lama intorno al collo.

Si cadeva così facilmente che furono necessari rinforzi di ortiche
Leggi mercenarie a regolare il sacco.

Arrivarono con i carichi di mitra
Trascinando l’asino di Gesù nel giorno delle Palme.

ACHTUNG! ACHTUNG!

Cambio vita è il salto di cerchio.
Quanto XI che eccita Nicodemo, il bolscevico.

Il carico di pallottole nelle vene giù per la giugulare
a capofitto nelle mani. Stimmate di ferro ai piedi.

Poi nel risalire un martellare chiodi. Torsione di dorso
Che non voleva saperne di spingersi oltre la Luce.

Nemmeno una piccola fermata a rigirare il Tempo
Miracolo di un esploso che torna nel tritolo.

Carlo Livia

 [di prossima pubblicazione, La prigione celeste, con Progetto Cultura, Roma]

From here to nothing

Attraverso la notte sacramentale, nuda, trascinando l’anima del bambino
morto. Un vecchio mi vede da lontano e grida. Vuole uccidermi, ma diventa di marmo.

Cado nel groviglio francese. E’ piacevole. Il dolore cresce lontano. Divento
Auschwitz. Con le cosce dell’uragano Gloria, e un sesso trionfale con precipizi in fiore. Ritorno nel parco giochi. Un cipresso cieco, furioso, mi sbarra la strada. Ha tutti i morti in mano.

La rugiada delle fanciulle è spesso un addio viola. Segue le croci verso il buco nero, senza domande.

La veste vergine si affaccia dall’incesto, spargendo protoni mortali. Sul
davanzale intermedio traducono i morti in euro.

Dall’amplesso centrale cade un si minore. Biondissimo. Inestricabile dai
lunghi serpenti del profondo. Si staglia nel cielo lastricato di dei. Sul viale
ormonale appena risorto.

Nell’aria un uccello infelice. Diventa un peccato. O un flauto celeste, troppo
sottile. Mi trafigge il cuore. Per fortuna mi addormento. In sogno attraverso le
cascate.

Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata.

Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Intini è evidente che il venire-alla-presenza delle parole nell’ordine del discorso poetico equivale all’apparire degli enti. Si può allora vedere nella questione dell’evento il momento centrale di questa poesia, un’ultima ed estrema radicalizzazione della problematica fenomenologica dell’apparire delle parole nell’ordine del discorso umano. Dell’apparire e dello scomparire delle parole e del senso eventuale loro connesso e concesso da un io che si è ritirato nel nascondimento.

La parola è evento, è il luogo nel quale si mostra l’evento. La parola ci guarda, sta lì da sempre, attende un nostro cenno, un accoglimento, impedito da sempre da una resistenza che noi opponiamo con pervicacia e supponenza. Allora dobbiamo chiederci: si dà un evento senza la parola che lo nomina? La risposta è NO, è la parola che chiama l’evento. È perché siamo «guardati» dall’evento che siamo anche «guidati», condotti dall’evento.

Scrive Roberto Terzi:

«L’uomo in quanto esserci è il Ci, il luogo di questa manifestatività, ma non è colui che la costituisce o padroneggia, perché l’evento accade all’uomo prima di ogni sua iniziativa e l’uomo stesso,come vedremo tra breve, appartiene all’evento in cui diviene ciò che è. Ma concepire il fenomeno in termini evenemenziali significa anche indicare il cuore di nascondimento e sottrazione insito in ogni manifestazione, l’impossibilità di portare l’essere ad un disvelamento completo o ad una «evidenza». È significativo allora che nel suo ultimo seminario Heidegger si confronti nuovamente con la fenomenologia e parli programmaticamente di una «fenomenologia dell’inapparente»: gli enti appaiono, ma l’apparire degli enti non appare a sua volta, non perché sia qualcosa fuori dagli enti, ma perché è l’evento ritraentesi di ciò che appare. Diviene così comprensibile anche il senso del richiamo all’etimologia di Ereignis da eräugen (mostrare, far vedere, o anche guardare, adocchiare) e da Eräugnis (ciò che è messo sotto gli occhi): l’Ereignis è il movimento del venire-alla-visibilità, l’evento che «ostende» qualcosa portandolo alla manifestazione e conducendolo così al suo proprio. È ciò che rende possibile la nostra stessa visione, perché se bisogna parlare qui di un «guardare» e di uno «sguardo», si tratta innanzitutto dello sguardo dell’evento verso l’uomo e non viceversa. È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.» Continua a leggere

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Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

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