Archivi del mese: febbraio 2023

Quattro Autori kitchen Marie Laure Colasson, Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone, Francesco Paolo Intini, Sul montaggio, una sequenza di vuoti, di spaziature, di amnesie, di lapsus, di interferenze, di rumori di fondo, di non detti, di sfondi laterali latenti che delimitano il susseguirsi degli enunciati e delle icone. Il lavoro di montaggio va fatto esattamente in quello spazio della percezione che possiede contemporaneamente il compito di separare e unire, di isolare e ricomporre. Quello spazio Warburg lo chiamava «Denkraum», lo spazio tra un pensiero e l’altro, lo spazio dell’intervallo che si configura proprio a partire da quegli spazi vuoti che attendono di essere connessi

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita
foto di Eliot Elisofon, La vita come ripetizione infinita

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Giorgio Linguaglossa

Sulla natura delle formazioni discorsive kitchen

Il montaggio richiede di comporre la sequenza come una pellicola cinematografica in 3D; una sequenza non è costituita soltanto di immagini o solo di spazi pieni, ma soprattutto di vuoti, di spaziature, di amnesie, di lapsus, di interferenze, di rumori di fondo, di non detti, di sfondi laterali visibili e/o latenti che delimitano il susseguirsi degli enunciati e delle icone. Il lavoro di montaggio va fatto esattamente in quello spazio della percezione che possiede contemporaneamente il compito di separare e unire, di isolare e ricomporre. Quello spazio Warburg lo chiamava «Denkraum», lo spazio tra un pensiero e l’altro, lo spazio dell’intervallo che si configura proprio a partire da quegli spazi vuoti che attendono di venire connessi. L’approccio di demistificazione delle poesie kitchen dei quattro autori implica la consapevolezza di una poiesis effetto di demistificazione in quanto il linguaggio viene impegnato in una contesa con il senso chiaro e distinto della poiesis del novecento, quella del soggetto cartesiano. Non si dà né maschera né menzogna né verità perché non c’è alcuna pretesa di verità, si ha semmai un effetto di verità che non può mai valere per il soggetto in quanto esso è stato già espropriato a monte della propria soggettità in quanto il soggetto è già da sempre decentrato e lateralizzato, nasce già come effetto di linguaggio, effetto di significanti. Essendo infatti il soggetto nient’altro che un effetto del linguaggio. Asserire che il linguaggio è il luogo dell’equivoco e che tuttavia nella sua equivocità, esso purtuttavia dice e mostra qualcosa, equivale ad affermare con Aristotele che «l’essere si dice in molti modi». Ne deriva che il discorso poetico è quel discorso che dice l’essere in molti modi. Da un esame dell’«asse verticale» di una formazione discorsiva kitchen emergerà  il legame strutturato con altre pratiche extra discorsive, se poi passiamo all’esame dell’«asse orizzontale», giungiamo alla visione dei rapporti interdiscorsivi, ovvero, delle forme di connessione interattiva tra i due assi. Il kitchen è il risultato dell’intima e indissolubile interconnessione tra i due assi,  e l’unico giudizio ammissibile sarà la condizione di realtà o di possibilità degli enunciati. Non si tratta quindi di condizioni di validità degli enunciati ma unicamente di condizioni di realtà, di possibilità. Il «senso», se senso v’è in un testo kitchen, si dà soltanto dall’improvvisa apparizione di un enunciato, nel bagliore di un attimo; questo senso dis-senziente può sorgere sempre e soltanto nel campo di esercizio di una funzione enunciativa, senza riguardo per alcuna soggettività reale perché gli enunciati abitano sempre e soltanto l’eventuale del reale. L’ordine del discorso e l’ordine del pensiero, lo spazio in cui pensiamo, può essere lacerato: è la situazione limite delle «eterotopie», ovvero, sorta di «contro-spazi» di cui le culture dispongono e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati»1; tali eterotopie sono talvolta luoghi fisici (ad esempio i cimiteri) oppure ideali, che si trovano  solo sulla carta, come nel caso dell’«enciclopedia cinese» di Borges da cui prende l’incipit l’intero progetto teorico de Le parole e le cose di Foucault. Le «eterotopie» svolgono un ruolo epistemologico speciale nella misura in cui denudano l’essere del discorso e con esso del pensiero, proprio «perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruiscele frasi, ma anche quella meno manifesta che fa “tenere assieme” (a fianco e difronte le une alle altre) le parole e le cose»2. Sorgono due domande: chi parla? e cos’è ciò che dice? Si tratta di due quesiti radicali, perché pongono in questione allo stesso tempo l’essere del discorso e l’essere del soggetto Parlante. Ma è bene ribadire che non c’è alcun mistero né alcuna anteriorità nel Parlante, il senso del suo discorso sarà all’interno del discorso stesso, non oltre e meno che mai nelle cose le quali sono altrettanto equivoche quanto il linguaggio che le esprime. Giunti a questa conclusione possiamo asserire una volta per tutte che il linguaggio poetico kitchen abita integralmente le «eterotopie», che altro non sono che quei luoghi che consentono l’irruzione evenemenziale dell’atto enunciativo.

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1 Id., Eterotopie, in  Archivio Foucault III, a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.
2 M. Foucault,  Les mots et les choses, Gallimard, Paris, 1966, trad. it. di E. Panaintescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967, p. 8.
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Strilli Lucio Ricordi

[poesia di Lucio Mayoor Tosi]

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Marie Laure Colasson

Cito da Paul Valéry: «L’arte nel mercato universale è più ottusa e meno libera»

«L’Arte, considerata come attività svolta nell’epoca attuale, si è dovuta sottomettere alle condizioni della vita sociale di questi nostri tempi. Ha preso posto nell’economia universale. La produzione e il consumo delle opere d’Arte non sono più indipendenti l’una dall’altro. Tendono ad organizzarsi. La carriera dell’artista ridiventa quella che fu all’epoca in cui egli era considerato un professionista: cioè un mestiere riconosciuto. Lo Stato, in molti Paesi, cerca di amministrare le arti; procura di conservarne le opere, le «sostiene» come può. Sotto certi regimi politici, tenta di associarle alla sua azione di persuasione, imitando quel che fu praticato in ogni tempo da ogni religione. L’Arte ha ricevuto dai legislatori uno statuto che definisce la proprietà delle opere e le condizioni di esercizio, e che consacra il paradosso di una durata limitata assegnata a un diritto ben più fondato di quelli che le leggi rendono eterni. L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, etcetera…

L’Arte si pone così a lato dell’Industria. D’altra parte, le numerose e stupefacenti modifiche della tecnica, che rendono impossibile ogni ordine di previsione, devono necessariamente influire sull’Arte stessa, creando mezzi del tutto inediti di esercizio della sensibilità. Già le invenzioni della Fotografia e del Cinematografo trasformano la nostra nozione delle arti plastiche. Non è del tutto impossibile che l’analisi estremamente sottile delle sensazioni che certi modi di osservazione o di registrazione fanno prevedere conduca a immaginare dei procedimenti di azione sui sensi accanto ai quali la musica stessa, quella delle «onde», apparirà complicata nel suo meccanismo e superata nei suoi obiettivi. Diversi indizi, tuttavia, possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata.»

Strilli Tosi

Strilli Tranströmer1

Una poesia

Umwelt fait en 2004, durée 1 h et 6 mn coreografie Maguy Marin
musique Denis Mariotte pour le Festival Equilibrio 2022

Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent

*

Pannelli a specchio e sei personaggi
suono musicale assordante ripetitivo
infernale il soffio del vento fra i pannelli

Frammenti del tourbillon della vita
una mela morsicata a trentadue denti
un sandwich divorato
uno strofinaccio schiavo della pulizia
una defecazione di 3 pantaloni abbassati
delle lampade elettriche che frugano il suolo
delle chiappe di donne illuminate a crudo
di schiena 3 chador color arancia
delle bretelle di salopette che si aggiustano
dei sacchi di immondizia
le corone del potere
dei cappelli per tutte le stagioni
dei vestiti insolenti unisex rossi gialli bianchi
delle dispute degli stupri
degli atti amorosi sessuali
dei rifiuti gettati sulla scena

Il tutto il poco il niente
le mascelle digrignano

Strilli Talia2

Strilli Busacca Vedo la vampa

Raffaele Ciccarone
13 gennaio 2023 alle 17:00

Miscellanea

Della miscellanea dorata gli zoccoli delle alture,
solo lo sposalizio tra elettroni garantisce
l’emicrania del mazzo di fiori.

Algoritmo del profumo in affanno di acuto piedistallo
senza burro non c’è felicità per il risotto.

La pioggia di clorofilla rigenera missili opachi
nel purè di patate inattesi i rilievi glicemici
pur dalla cottura dei cavoli verdi nei piani cartesiani.

Riparate le congiunture, le mappe di Pick liberano farfalle
che sfuggono da ogni dove
al momento l’esibizione dei cuscini porta alle suite migliori.

Ci risiamo col motore per la formula uno
generato da slalom di successi dovuti
a pannelli solari sotto spinta fotonica, ma solo per ora!

 

Mimmo Pugliese
13 gennaio 2023 alle 19:27

CUCCHIAI

Un fascio di cucchiai misura
la distanza tra un tampone ed il cratere di una bomba

Sotto un cielo di ontani
strambano soldati e streghe

Cigni neri ingoiano la strada
in un congelatore sagome conservano bruchi

Ideogrammi entrano ed escono dal muro
origami di carne prosciugano il faro

Una piuma sospende gli ordini del giorno
basta un secchio di vernice per impiccare i tulipani

Hai composto il numero sbagliato
le ante degli stivali seducono sedativi

Arrivi in tempo per assistere al sole
che inciampa su una pertica e si suicida

Strilli LeoneFrancesco Paolo Intini
13 gennaio 2023 alle 21:22

MA QUALE ESPERIMENTO? LA POESIA È REVERSIBILE

La scorribanda è stata micidiale.
Tutto un susseguirsi di corvi e passeri feroci

Difficile competere con Lucifero
Sul fronte Ovest.

Le bordate di droni alla ricerca di cosa salvare
e missili che fanno zig zag sulla nutella.

Da qui si vede un azzurro appena accennato su un visetto d’ elefante
Poi inizia l’ignoto, re dei clandestini.

Perché uscirsene con un collasso?
Non è più nero l’arresto del miocardio?

Bisogna prendere una pompa di benzina
E farle sputare gli anni di piombo.

In un angolo blindato c’è Obama, di fronte l’ipotenusa
Ma è possibile, o porco di un cane, che non abiti Pitagora?

Interroghi un cateto ti risponde il Sole
Con una barzelletta sul pigreco.

Qui nel cuore dei teoremi manca Mike.
E picchi martellano l’intonaco.

Ripareremo la sua coronaria destra con bostik
poi aizzeremo i pirati contro i boat people
tra spruzzi di vodka e il mar di coca cola

Nessuno è mai fuggito da Kabul
Senza portarsi dietro uno stent, anche piccolo.
Arriveremo al Don con un bypass.

Il gatto nero sistemò i cuscini sul motore
Le lune di Marte si eclissarono all’ Air Force
E un filo d’erba strozzò il do di petto nella culla. Continua a leggere

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Kari Hotakainen (1957), 70 chili di prove a cura di Viola Parente-Čapková, poesie scelte, La Nuova Poesia Finlandese

Kari Hotakainen

Kari Hotakainen nasce nel 1957 a Pori, nella Finlandia occidentale, e attualmente vive ad Helsinki. È tra le voci più vigorose della letteratura finlandese contemporanea ed è forse il più versatile scrittore in lingua finlandese: dal suo debutto, all’inizio degli anni 1980, ha pubblicato articoli, saggi, poesie, libri per bambini e per ragazzi, romanzi, sceneggiature televisive e teatrali, drammi radiofonici per adulti e per bambini. Ha studiato letteratura, ha lavorato come redattore, ha fatto esperienza anche nel campo pubblicitario, e dalla seconda metà degli anni 1990 è scrittore freelance. Hotakainen è tra i rari autori le cui opere sono apprezzate e riconosciute dalla critica (tra i vari premi ricevuti, possiamo citare almeno il Premio nazionale per la letteratura, il Finlandia, il Premio del Consiglio Nordico e il Premio Nordico per l’opera drammatica) e allo stesso tempo godono del favore di un vasto pubblico di lettori – il romanzo Juoksuhaudantie, (2002; Via della trincea, 2009, trad. Nicola Rainò) è uno dei romanzi finlandesi più venduti in assoluto.

            Debuttò con alcune raccolte di poesia: I fastidiosi colpi sotto la cintura (Harmittavat takaiskut, 1982), Chi ha paura dell’uomo nero (Kuka pelkää mustaa miestä, 1985), Hot (1987) e Poesie (Runoja, 1988). Nel 2000 è uscita una scelta delle sue poesie edite intitolata Mucchio di ceppi (Kalikkakasa), dalla quale sono tratti molti dei testi che qui presentiamo. Le sue poesie (e anche più in generale i suoi testi in prosa) sono caratterizzate dall’uso di nonsense, umorismo secco, assurdo, surreale e fantastico, riflessioni aforistiche e laconicità d’espressione, aspetto questo comune a molti altri scrittori finlandesi. Il titolo della raccolta Mucchio di ceppi, secondo l’autore, sottolinea sintomaticamente il carattere delle sue poesie. Più che alla lezione dei maestri del modernismo finlandese del dopoguerra, Hotakainen dichiara però di ispirarsi, più o meno direttamente, ad autori successivi, quali Ilpo Tiihonen (1950 – 2021) e Sirkka Turkka (1939 – 2021); in particolar modo a quest’ultima, della quale, come lui stesso ammette, ammira soprattutto quella crudezza d’espressione che ritroviamo anche nei lavori in prosa di Hotakainen.

            Ad una lettura superficiale, l’uso di iperboli e, allo stesso tempo, un certo minimalismo e un umorismo sottile potrebbero suggerire paragoni con altri autori finlandesi famosi, come il regista Aki Kaurismäki, con il quale però, come lui stesso dichiara, condivide pochi tratti: “Forse è possibile trovare delle similitudini a livello di dialoghi e per il fatto che entrambi raccontiamo della solitudine; d’altro canto, però, il tema della solitudine è trattato anche da migliaia di altri autori nel mondo. La Finlandia è un paese così piccolo che quando qualcuno di noi sfonda sulla scena mondiale fa un po’ il lavoro di uno spalaneve: apre la strada agli altri. Un’altra possibilità sarebbe di paragonarmi ad Arto Paasilinna, perché lui è un altro finlandese che ha fama mondiale. A meno che non consideriamo anche i piloti di Formula 1.” Leggendo i suoi testi poetici di fine anni 1980, la strada dell’autore sembra ormai segnata e lo spostamento verso la prosa diviene sempre più accentuato: le poesie hanno una trama, gli slanci lirici si affievoliscono e più che fotogrammi offrono una breve storia visiva completa, sono dei veri e propri cortometraggi. E anche i temi che fanno capolino in queste poesie, come il conflitto tra civiltà e natura, la difficoltà di comunicazione tra i sessi e tra le generazioni, la solitudine, l’analisi della mascolinità contemporanea e della società finlandese, in generale, li ritroviamo nei suoi lavori successivi in prosa. In ogni testo di Hotakainen emergono un ritmo e una musicalità accentuati; egli stesso, del resto, dichiara apertamente l’importanza della musica come fonte di ispirazione per i suoi testi: “Nella musica cerco un’esperienza forte, di abbandono, la struttura e i ritornelli. La struttura la si impara dalla musica classica, tutto il resto dalla musica pop.” E proprio la musica pop rappresenta per l’autore non soltanto una fonte di ispirazione formale, ma anche tematica, com’è possibile notare, ad esempio, nel romanzo Il sacco dei peccati (Syntisäkki, 1995) e soprattutto nelle poesie su Johnny Cash, presenti appunto nella raccolta Mucchio di ceppi. Come per il suo debutto prosaico, Buster Keaton, Vita e fatti (Buster keaton, Elämä ja teot, 1991), una variazione postmoderna e fittizia dell’autobiografia di una personaggio famoso della cultura pop, situata in parte in America e in parte in Finlandia e caratterizzata dall’ammirazione per il mondo delle comiche, anche le poesie su Johnny Cash offrono un’analisi indiretta dei vari aspetti della società e della cultura finlandesi e, allo stesso tempo, dimostrano il fascino che su Hotakainen esercita la popular culture americana, come anche l’interesse dell’autore per l’impatto che questa cultura ha sull’Europa. Riferendosi all’album di Cash American Recordings (1994), Hotakainen afferma: “Il disco si è impresso nel mio subconscio, confermando il mio sospetto che non tutta la musica definita leggera debba per forza esserlo.” Analizzando le poesie su Johnny Cash, si nota subito che sono nate nel periodo in cui Hotakainen scriveva prevalentemente in prosa, vale a dire durante la seconda metà degli anni ’90. Lo stesso autore le caratterizza nel seguente modo: “Questi brani sono prosa più che poesia, parlano di me più che di Cash.”

            Nel 2007 esce la raccolta di testi brevi Finnhits, quello che possiamo considerare il culmine del suo stile brusco e laconico, e che sembrerebbe un personale omaggio dell’autore alle celebrazioni per il novantesimo anniversario dell’indipendenza della Finlandia. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a microstorie poetiche che coprono i vari temi cari all’autore già citati in precedenza, narrate con il classico stile di iperboli surreali e umoristiche. Nel suo modo di osservare il mondo c’è qualcosa di poeticamente fanciullesco: l’abbattimento di convenzioni, l’assurdità e la gioia sono le stesse espressioni del mondo dei bambini, e non è forse un caso che ritroviamo queste qualità, oltre che nei suoi testi poetici, anche in quelli che si potrebbero definire “libri per l’infanzia”, anche se, essendo il suo un genere molto specifico, a volte verrebbe da chiedersi se essi siano davvero adatti come libri per bambini.

            Pur avendo acquisito un passo ormai da prosatore, la poesia rimane se non il genere, almeno il punto di vista a lui più vicino: “La poesia mette il sigillo a tutto ciò che l’essere umano compie. Quando un autore debutta come poeta, continuerà a guardare il mondo come un poeta. Spero che lo si veda anche nella mia prosa; le mie opere sono un po’ come me: inquiete ed impazienti. Non riesco ad immaginare di poter continuare a scrivere soltanto romanzi, e anche se è difficile che torni ad usare una forma “pura” di poesia, cerco sempre di includere dei passaggi poetici nei miei scritti.”

            In ogni nuovo testo, Hotakainen cerca di presentare qualcosa di diverso, pur essendo consapevole di come sia difficile, se non impossibile, evitare che nello stile prevalga una certa maniera. Come scrive in un suo aforisma: “Prima lo scrittore cerca di trovare un suo stile. Quando lo trova, quello stile si trasforma in maniera. Il resto della vita lo passa a cercare di liberarsene.”

                                                                       (Viola Parente-Čapková)

 [Testi di Kari Hotakainen sono stati pubblicati in italiano su”Poesia” n°9 di Crocetti, Settembre 2010]

Kari Hotakainen cover

Fotografia

 

Ci fecero

una foto: tu in piedi in un fiore di vestito

che copre tutto, dai tuoi occhi si intuisce

che sotto non c’è niente.

I seni flosci sfregano il cotone.

Le gambe unite, strette: ti sei concessa

ma non cederai più, almeno non prima delle quattro.

Io severamente in piedi accanto

come una fragorosa risata ricucita,

nella gamba un caldo mucchio di carne arrivata lontano.

Sullo sfondo si vede un po’ di società.

Quella si trova in ogni foto.

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Alfabeto

 

La luna è vermiglia.

La macchina non la si può guidare giù dalla scarpata

senza ferire i parenti.

La donna è piccola.

Bisogna stringerla con discrezione tra le braccia,

si libera dalle catene

e diventa indipendente, in solitudine.

Il cielo è azzurro.

Lì conduce una scala a pioli.

Sulla scala ci sono puntine, chiodi,

cotone e relazioni umane.

La terra è grigia.

Da qui si parte.

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Poesia

 

Un corvo

pennello nero

pulisce il cielo sfregandolo

con lunghe traiettorie terse

Il gelo sbatte i tappeti

il più variopinto lo stende

ad arieggiare sul filo dell’orizzonte

Il gatto accoccolato a terra

su un vettore aereo nelle cui viscere si stilano programmi

perché c’è una fede infinita

che i topi non attaccheranno

ma avranno paura per tutta la vita

Un bracciante fuggito dallo spaventapasseri

avvia con la manovella

il cavallo congelato

il cui zoccolo si trasforma a sua volta

in luce azzurra sotto la sella

Il sole riscalda il padrone indolente

la padrona matura svapora sul prato

mi faccio strada a fatica tra i tuoi capelli

sulla ciglia si arresta un semi rimorchio

chiedo un passaggio: strizza l’occhio

fallo cadere tra le tue montagne

a riposare

* * *

Manderei un sms, ma il cellulare è in fondo alla fontana di Piazza mercato. Scriverei, ma due dita della mano destra sono rimaste sotto la sega circolare. Ti chiamerei, ma dopo il trasloco non riesco più a trovare il telefono di casa. Verrei a trovarti, ma non ricordo più se sia il 34 G 78 o il 32 C 78. Chiedo agli amici. Parlo con sconosciuti ai distributori di benzina. Mostro la tua foto ad ogni angolo di strada, come si fa nei film polizieschi. Ti cerco, un abbraccio vuoto. Il tuo profumo in me, la doccia non funziona.

* * *

La Lukoil ha comprato la Teboil ma non i suoi clienti. La compagnia russa ha condotto un’indagine sulla clientela ed è giunta alla conclusione che di clienti così ne ha già abbastanza. Non volevano avere inutili duplicati. La decisione dell’acquirente è stata accolta con gioia al tavolo dello snack della Teboil. Repa, Jukkis e Tane hanno festeggiato la notizia con un caffè supplementare, continuando il simposio, i cui temi principali erano il prezzo della benzina, la tassa sulle automobili e la politica d’immigrazione. Sulla benzina e le automobili raggiunsero presto l’unanimità, e dopo un lungo dibattito fu deciso di accogliere quattro profughi. A condizione che conoscessero la lingua, avessero mezzi finanziari per comprare un appartamento e la qualifica di idraulico.

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Valerio Magrelli, La guerra, la pace, disegni di Alessandro Sanna, Rizzoli 2022, pp.48, € 16, Nei linguaggi del Grande Labirinto di Giorgio Linguaglossa, Per Magrelli, che ha sempre aspirato a perdersi come i bambini all’interno dei linguaggi e che interpreta da sempre una narrativa e una poesia che non considera più necessaria alcuna ermeneutica, l’approccio ad una poesia per bambini è stato un risultato agevole perché essi non hanno bisogno di una guida ermeneutica, Ma almeno a Magrelli va il merito di non averci affibbiato del modernariato in piena epoca di ipermoderno metalmediatico

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valerio magrelli

Nei linguaggi del Grande Labirinto

di Giorgio Linguaglossa

Oggi tutto è compreso nel presente. 1 vale 1. 2 vale 2. È tutto compreso, prendi tre paghi uno. Viviamo tutti in una Grande Dimensione polifrastica, un Grande Labirinto dove si parla una Babele di linguaggi disparati nei quali i bambini si perdono. I bambini non sanno nulla dei generi poetici e dei sottogeneri narrativi, però capiscono tutto, tutto l’essenziale. Così, in un panorama in cui i parametri fideistici che fino in pieno novecento indicavano i conflitti estetici tra forme poetiche e i generi romanzeschi, oggi quei parametri indicano l’impiego che si fa di essi per restare editorialmente sulla cresta dell’onda con tanto di iniezioni nella narrazione di massicce dosi di déjà-vu, di cronaca e di situazioni maramaldesche. La partita della immaginazione senza fili è relegata alla sfera dei bambini e l’ultroneo del pensiero infantile viene derubricato dagli adulti a modello autoriflessivo, così il «successo» non si gioca più all’interno della letteratura, perché passa per altri e ben più potenti media, attraverso le stanze dei bottoni e dei salotti televisivi. Ma i bambini nulla sanno del linguaggio degli adulti, per loro il linguaggio è una palestra della immaginazione senza fili, ma gli adulti che vivono stabilmente nella zona di compromissione che chiamano libertà, non sono più capaci di dialogare con i bambini, mancano di un linguaggio idoneo perché hanno perduto il senso del gioco.
Dopo Il pubblico della poesia, antologia di autori di poesia pubblicata nel 1975 da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, siamo ormai giunti al pubblico del varietà privatistico e mediatico che nel frattempo è diventato pubblico della chatpoetry e del romanzo chat; l’indotto conta più del dotto e del prodotto e l’affiliazione più del merito, i linguaggi tendono a diventare una efficiente organizzazione, all’interno del Grande Labirinto, della “Ditta” di riferimento.
Sopra tutto questo panorama giunge la luce fioca dal lampione della Ragione. C’è una platea in chiaroscuro che chiede ai libri di essere bianchi e, soprattutto, blasoni sociali, etichette e benemerenze, i libri sono considerati non più che dei videogiochi. Più lontano ancora, l’angusto cortile di casa che è la letteratura delle benemerenze, sfuma nelle galassie dello storytelling e nella glaciazione di una generica scrittura creativa in promozione generalizzata a televendita. La letteratura, che nella modernità era una lingua speciale, è diventata oggi comunicazione ordinaria, il modo più spiccio per affermare il proprio Ego, la propria autorialità e la propria autostoricizzazione.
Per Magrelli, che ha sempre aspirato a perdersi come i bambini all’interno dei linguaggi e che interpreta da sempre una narrativa e una poesia che non considera più necessaria alcuna ermeneutica, l’approccio ad una poesia per bambini è stato un risultato agevole, diciamo così naturale, perché essi non hanno bisogno di alcuna guida ermeneutica, sono già diventati anzitempo sufficientemente e precocemente adulti da aver preso a prestito dagli adulti il loro cinismo e la loro ipocrisia; per il poeta romano che ha da sempre preferito agire tra i piani sconnessi della paraletteratura, della letteratura, del midcult e delle (rarissime) opere complesse, non è stato disagevole trovare un linguaggio che corrispondesse alle esigenze dei bambini. Ma almeno a Magrelli va il merito di non averci affibbiato del modernariato in piena epoca di ipermoderno metalmediatico, lui almeno è sincero: adotta il registro del minimalismo del linguaggio infantile che è una modalità plausibile e presentabile: quello delle micro storie e delle piccole morali con cui il poeta romano presenta la Storia degli eventi bellici di oggi ai bambini. Magrelli questo compito lo esegue con perspicacia e acume, forse il suo libro migliore, perché qui l’autore non utilizza gli stereotipi della cronaca ma accenna soltanto e di sfuggita alla Storia con la maiuscola, la Storia che ci minaccia di estinzione con la guerra nucleare.
La frase di Lacan: «Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto», Magrelli la risolve facendo poesie per bambini, perdendosi nel linguaggio solo come un bambino può perdercisi, le sue poesie per fanciulli sono un eccellente interludio alla assurdità e alla incredibilità della guerra, e la forma-poesia diventa un congegno davvero assurdo, ultroneo, anzi il miglior congegno linguistico atto a descrivere l’assurdità e la barbarie della guerra vista dal punto di vista dei bambini con la psicologia dei bambini; l’autore romano si cimenta nel compito di presentare ai bambini i lati assurdi di quella cosa orribile che chiamiamo guerra. Che però, dal punto di vista psicologico dei bambini appare come un mondo capovolto. E Magrelli ci riesce al meglio, fa una poesia in modalità infantile.
Scrive l’autore in una didascalia in calce al volume:

«Fino a oggi, non avevo mai scritto versi dedicati ai bambini. Avevo soltanto composto poesie sui bambini, e soprattutto un saggio sui disegni dei bambini. Ciò significa che adesso succederà qualcosa di opposto: saranno loro a osservare i disegni che Alessandro Sanna ha creato a partire dai miei testi. Ma cosa implica “Scrivere per i bambini”?
Visto che non l’ho fatto mai prima di ora, sono l’ultimo a poterlo dire. Posso però raccontare come mi sono regolato personalmente ho giocato su forti contrapposizioni, ricorrendo a soggetti precisi attraverso un linguaggio preciso. Ognuno ha una sua propria idea del bambino: io lo immagino curioso, avido di sapere, il “polimorfo perverso” di cui parlava Freud. Certo, me lo figuro ancora svantaggiato rispetto all’adulto, in quanto dotato di meno strumenti a sua disposizione – pochi, ma assai più potenti (basterebbe pensare alla sua forza di immaginazione!).
Dunque, ho cercato di stabilire un ponte radio in grado di unire le mie parole, illustrate, al suo ascolto. Ecco, io spero esattamente nel miracolo di una sintonizzazione, nel miracolo di un canale che si apra tra il mio lavoro e lo splendore infantile.
(v.m.)

Scrive Marie Laure Colasson:

«È vero, qualcuno, leggi la poetry kitchen, ha smobilitato il discorso poetico del Grande Labirinto, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo. Nessuno di noi (adulti) fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce. Il bello della modalità kitchen (o infantile) è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaci che partono dal principio di affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice.
Questa poesia per bambini è nata felice, perché scritta con un linguaggio infantilizzato, minimal, sembra scritta durante un terremoto della 9a scala Mercalli. Sei stato per caso in Turchia? (attento allo tsunami!). Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci più sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci e degli adulti che parlano la Lingua del Labirinto, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo possiamo dire, senza innaffiarci di «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci».

Valerio Magrelli la guerra la pace

testi scelti da La guerra, la pace, (2022)

La guerra nella neve

La guerra nella neve
ha un non so che di irreale.
Tutto viene attutito:
anche i colpi di cannone
vengono fuori avvolti nell’ovatta.
C’è un’aria bianca, frizzante, natalizia,
ma nessuno che nasce,
anzi, il contrario.

.

La Pace nella neve

La Pace nella neve
ha un non so che di irreale.
Tutto viene attutito:
anche i saluti
vengono fuori avvolti nell’ovatta.
C’è un’aria bianca, frizzante, natalizia,
che spinge il mondo a rinascere,
anche se tutto sembra seppellito.

.

La guerra in riva al mare

La guerra in riva al mare
è soltanto ridicola.
Le spiagge bianche, le onde, il sole fresco,
e invece di sdraiarci mezzi nudi
soffochiamo coi caschi, le divise,
la sabbia che si infila nelle scarpe
e quelli che ci sparano acquattati
dalla pineta.
La guerra in riva al mare è una vergogna.

.

La Pace in riva al mare

La Pace in riva al mare!
Ignorarla, è ridicolo.
Le spiagge bianche, le onde, il sole fresco,
e noi sdraiati mezzi nudi,
la sabbia che ci indora,
e qualche pecorella acquattatella
nella pineta.
La Pace in riva al mare…
rinunciarci, è un peccato.

.

La guerra in città

la guerra in città
non ha senso.
Appena arriva, saltano le regole.
Adesso vanno tutti contromano
e senza che nessuno glielo vieti.
Sono spariti i divieti:
come è possibile circolare così?

.

La Pace in città

La Pace in città
è la festa dei sensi
Teatri, cinama, palestre, librerie,
ristoranti, caffè, pasticcerie.
E tutto regolato come un orologio,
frecce, semafori, strisce pedonali…
Chi viola le leggi, viene sempre multato.
Si può vivere meglio di così?

.

La guerra in campagna

la guerra in campagna
fa meno impressione.
Sembra di più una caccia
a qualche animale nascosto.
Anche i vestiti sono quasi uguali,
mimetici, per non farci scoprire.
E c’è un’eccitazione in tutti noi,
per questa specie di gioco a nascondino.
Anche se dopo è brutto,
vedere l’altro giocatore a pezzi.

.

La Pace in campagna

La Pace in campagna
è il paradiso.
Finalmente vietata la caccia,
l’animale si mostra, non più timoroso,
mentre l’uomo si mostra sapendo
di non suscitare timore.
E c’è un’eccitazione in tutti noi,
per questa festa unanime.
Abbiamo superato la ferocia della natura,
siamo natura spogliata del suo male.

.

La guerra nella pioggia

La guerra nella pioggia
è un doppio schifo.
fa freddo e sei bagnato,
ma l’ombrello è vietato:
si è mai visto un soldato con l’ombrello?
Potremmo addirittura definire “soldato”
chi non porta l’ombrello.
Perché l’ombrello si usa in tempi dolci,
dove ci si protegge dalla pioggia.
In guerra, invece, nessuna protezione,
nessuna cura, nessuna attenzione.

.

La nebbia in tempo di pace

La nebbia in tempo di pace:
liquido amniotico.
Tutto è dolce e indistinto,
tutto è attutito
cullati nella pancia della mamma.

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Antonio Sagredo, La Gorgiera e il Delirio, Schena, 2019, pp. 170 € 18, Ermeneutica di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari, un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e affidabilità. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto

Promenade notturna Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage 30×40, 2023 –
La poesia è fare il giro del giorno in ottanta mondi  (Anonimo romano)

.

L’eternità è una perdita di tempo

(Antonio Sagredo)

La perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione

Questo volume è una antologia della poesia di Antonio Sagredo (poeta salentino trapiantato a Roma) che raccoglie le sue poesie dal 1989 al 2018. Il titolo rimanda alla «gorgiera» dei ritratti di Velazquez e al «delirio» di cui quei ritratti sono stati attinti dopo che Freud ha scoperchiato che sotto la «maschera» c’era il vuoto dell’inconscio, un abisso che avrebbe dato la stura alle peggiori nequizie della storia del novecento. La foto in copertina ritrae il giovane poeta sul palcoscenico truccato  in modo vistoso con della biacca sul volto e un cappello a cilindro. Per rappresentare il «vuoto» era necessario un locutore che ne parlasse in un suo esclusivo e personalissimo idioletto che facesse scoccare diapason acustici e mixage di registri linguistici dal plebeo al sublime, con il lessico chiesastico che fa scintille con quello da ebreo errante dell’impero asburgico, un linguaggio poetico quello di Sagredo che non sembra avere parentele o filiazioni rispetto alla tradizione poetica italiana. Un libro, dunque, sortito fuori dal nulla del «valore» (da cui l’abisso dell’inconscio) e dal nulla della tradizione poetica (numerosissime sono le recriminazioni di Sagredo contro la triade Ungaretti-Quasimodo-Montale e avverso i riformismi moderati del tardo novecento). Sagredo è davvero un caso di incompatibilità con tutto ciò che gli è attiguo, non è ragguagliabile a nessun altro poeta del novecento italiano, nel bene e nel male, se così si può dire. Il poeta salentino (ma anche romano di adozione) riprende la «linea innica» dei Canti orfici di  Dino Campana opportunamente restaurata in un linguaggio inventato di sana pianta salmodiando insieme l’osceno e lo sguaiato con il rococò, sceneggiando il ribrezzo per gli scheletri, i tabernacoli, esaltando la Morte barocca e la putredine degli Angeli in crescendi che sconfinano in una miriade di punti esclamativi. Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari. Il «folle» flusso di parole di Sagredo elaborato senza alcuna geometria euclidea buca lo spazio curvo e la pluralità dei tempi, la costruzione si muta continuamente in de-costruzione, l’autore conduce l’orchestra in un «sapiente» delirio abitato da «Santa Clitoride», «Dulcinea», «Don Chisciotte», il «Minotauro» etc. governato e sorvegliato da un io dispotico e psicotico che, in un certo senso, anticipa la nuova fenomenologia del poetico o poetry kitchen e le si avvicina tangenzialmente; ma Sagredo è Sagredo, il suo linguaggio è un abito tagliato su misura su di lui e su nessun altro. In tal senso, il suo modo di operare linguisticamente è il tipico modus di un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e autorevolezza. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto.

Ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico

Se è lecito affermare che ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico, ne deriva che la forma-narrativa e la forma-poesia di base sono quelle «anti-edipica» e «antimetafisica» come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari; vale a dire che la forma dello storytelling è diventata una narrazione priva di un limite esterno, di un confine, e priva anche di un confine interno; così la forma-racconto e la forma-poesia si presentano come un intreccio virtuosisticamente alimentabile all’infinito, al pari della marxiana «catena del valore» che non può mai arrestarsi e che alimenta nel capitalismo cognitivo la produzione di beni e servizi  pena il crollo simultaneo del sistema tutto. Il sistema lavora come una catena di eventi nella quale sarà sempre possibile aggiungere nuovi anelli, nuove tessere al mosaico, nuove varianti al «valore» e al «disvalore». Sarà sempre possibile aggiungere una piccola tessera alla catastrofe e al disastro.

La catena del valore perde valore

La simmetria stilistica tracima e trasborda in virtuosismo e in anti simmetria. La catena del valore perde valore, diciamo così, ma anche la anti-simmetria perde valore, accumula perdite su perdite. Ne sono tipici esempi nel postmoderno classico i romanzi di Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1923), Musil L’uomo senza qualità (1930,1933, 1943) e Il maestro e Margherita (scritto tra il 1928 e il 1940) di Bulgakov, e, nei tempi recenti, I figli della mezzanotte (1981) di Salman Rushdie e Museo dell’innocenza (2008) di Orhan Pamuk. Quello che è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale si può riassumere così: nel secondo postmoderno cioè all’avvento dell’età anti edipica e anti metafisica è avvenuto che la forma-narrativa liberatasi dalle pastoie del senso e del consenso ha contaminato la forma-poesia sgretolandola al suo interno: distruggendo l’Autore-locutore, ha determinato il decesso della autorialità, con la conseguenza che sono saltate in aria tutta una serie di retoriche che contraddistinguevano il romanzo e la poesia dell’ottocento e del primo novecento. La jouissance ha sostituito il desiderio, un desiderio lacanianamente forcluso che è strasbordato dagli argini in seguito alla forclusione del Nome-del-Padre e di Thanatos riducendosi a mero symptôme, mera ridondanza, mero mot-valise, mero refrain; così la trama (romanzesca e poetica una volta liberata dalla obeissance al plot e alla ratio del racconto), se ne è andata per i fatti suoi, è stata defenestrata piuttosto che liberata, e così la funzione-autore ha assunto i connotati tipici dello storytelling con ipertrofia e disseminazione dell’Io «smargiasso», «cafonesco» e «derisorio», ovvero, diventando mero elemento accessorio dello storytelling, intreccio senza conclusione, scherzo ludico, patema derisorio e auto derisorio.

Si impone così una nuova concezione della trama: essa, in tempi di miseria simbolica, non viene più intesa come condizione strutturale del desiderio, non chiede più di essere considerata come un elemento determinato dal Finale, tant’è che un critico, Calabrese, parodiando il titolo del celebre lavoro di Kermode, parla di un «sense of a nonending» che dilaga nel romanzo postmodernista e nelle recenti «poesie privatistiche» postate dalle anime sensibili di moda oggi che si cibano di camembert e di vitel tonnè, e magari con tanto di targa pacifista che fa sempre bon ton; quindi: nessun epilogo, nessun archetipo «clausulare» hanno sorretto nel postmodernismo il sogno infranto di un Fine che coincidesse con la Fine. Senza una conclusione (ma con l’intervenuta forclusione), e quindi senza una finalità né un momento di determinazione del senso, il plot deve ricercare la propria ragione testuale nelle variazioni, nelle biforcazioni, nelle deviazioni. A parte ciò, una testualità dovrebbe a questo punto ipotizzare la possibilità di un nuovo tipo di testualità conseguente alla fine della condizione postmoderna, se è vero, come scrive Karl Marx, che «Alles was fest ist, schmilzt in der Luft» (Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria);1 è lecito quindi definire questa forma-narrativa o forma-poesia come «evaporata», «dissolta» «in der Luft» (in aria), con tanto di benedizione marxiana per tutto ciò che appare nella poststoria in quanto volatile, diffusa ovunque negli spazi aperti, priva di una forma specifica, poiché mancante di una figura che la articoli come faceva un tempo lontano l’autore che garantiva l’autorialità del testo. Tutto ciò è evaporato e con essa evaporazione sono evaporate le «forme» e le «parole». Tutto ciò richiama alla mente la «evaporazione del Padre» cara a Lacan.

Miseria del Simbolico

Eliminato il Padre, eliminato il Figlio, eliminato Edipo, eliminato l’Autore, eliminato il Lettore, eliminato Creonte, eliminato il Plot, eliminata la Forma-poesia, eliminata la Parola significante, pontificante, eliminata la Legge del Finale e dell’Inizio sono rimaste le parole nude, quelle gratuite, smargiasse, ipoveritative, idiolettiche, quelle con la blefarite negli occhi e con gli aculei, quelle professionali della catena del valore; resta la Miseria del Simbolico del privatismo riduzionista dei fatti gli affari tuoi, resta la jouissance (rimossa, indecente, onanista: le parole baldracche) la quale, in nome dell’Io (l’Autore) e dell’Anima bella ha iniziato a proliferare in modo incontrollabile e dissennato sotto gli archi della post-storia. La storialità si nutre della Miseria del Simbolico.

Per quanto concerne lo scadimento della dimensione del plot (filmico, narrativo, poetico e narrazionale), si legga il famoso romanzo a puntate che Salman Rushdie sta facendo al computer chiedendo la collaborazione dei lettori della rete per quanto concerne verianti e colpi di scena da inserire nella trama. Tutto ciò è un fatto di enorme importanza, il fatto che un computer sia in grado di scrivere un romanzo anche senza l’apporto guida di un Autore in quanto l’Autore non c’è più, è scomparso. Occorre pensare una teoria plausibile per questa inedita modalità del récit e delle sue ripercussioni sul sociale che sono già in atto da tempo. Nella poesia kitchen ad esempio è già possibile fare una mappatura dei caratteri e delle maschere in nacchere  che la forma-narrativa e la forma-poesia hanno ereditato dall’avvento dello storytelling privatistico oggi divenuto quintessenza della poiesis comunicazionale. Il fatto è che la narrazione si è dissolta «in der Luft» (nell’aria) «evaporata» e «dissolta»; la spia di ciò sta in un’ossessiva attenzione alle «parole» gratuite, opportunamente privatizzate e sterilizzate (eufoniche o cacofoniche fa lo stesso) anche a discapito del significato, infatti, nella forma-poesia di Antonio Sagredo e, in modo ancor più vistoso nelle poesie in modalità kitchen, il senso è estroiettato dalla logica narrazionale della forma-poesia del novecento. Il senso del testo è un fuori-senso, un non-senso ultroneo che non dipende più dalla trama in sé (come nella forma-romanzo del novecento), né dalla successione e dalla combinazione degli eventi linguistici (come nella forma-poesia del novecento). Nella poesia che promana dalla Miseria del Simbolico non si può pensare se non in termini di locutore e di locuzione, di grammatizzazioni, di idioletti e non più di successione dei significati e/o di ragionamenti dell’Io empirico (come nella poesia dell’ottocento e del novecento, si pensi alla poesia-ragionamento di Leopardi); in Sagredo e nella poesia in modalità kitchen è la mancanza stessa del Finale e dell’Inizio, la mancanza del Padre e del Figlio, di Edipo e di Creonte che agisce retroattivamente inficiando la grammatizzazione, il logos narrazionale, la forma-poesia che conoscevamo. Forse Sagredo e il Kitchen hanno preso in parola le parole di Heidegger: «Das Nicht nichtet» (Il Nulla nientifica), e operano di conseguenza.

(Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa)

1 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei [1848], Severus, Berlino, 2017, trad it. Manifesto del Partito comunista, p. 18.

Antonio Sagredo La gorgiera e il delirio

III

Là, rantoli di muffa, delizie, torce
e broccati, ciarle di accesi candelabri,
come sulla via dei misteri fittizie sfingi, Tamerlano
con tamburi e denti le stanze acquetasse
e fosse il tempo solo rostri d’ossa non scarniti.
Lascia che i vermi aspettino!
Perché possano infiniti digitali annullare
i miti con domande e corde, fustigare visioni
e abbracci di Orfei.
E’ solo, è solo il gallo sui crateri!
Le Madri su stampi di fauno, sbiadite, Tommaso!
La tela dei neurini manipoliamo come banderuole:
sono visite cortesi, maschere corazzate
di colomba, surrogati di corone o gemiti imperiali.
Quando la pietra più che al volo
all’indugio spezza l’asta della luce, il tuo cranio
possa lacrimare in barba ai veri morti tra giostre
rinascimenti lutti e spine, renderti giustizia
tra tumuli e tumulti. Caccerò il roditore d’ossa,
non spezzerò il pane,
né il vino offrirò, né il sale,
né il cantico dal passo di lumaca, ma il morso
di un’àncora… col sonno tra le mani, alle analisi
di neve sui divani, la lira e il libro opporrò,
urla fossili, grumi di nere frecce,
il sangue strizzato da una perla al dio compatto. Continua a leggere

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Andrea Temporelli, Plusvalenze letterarie ovvero Amicizia e letteratura. Oltre l’amichettismo in 5 passi, Video L’apprendista genio, corso di scrittura creativa

Plusvalenze letterarie
di Andrea Temporelli 11 febbraio 2023

Plusvalenze letterarie

Si discute spesso, e ancor più si fanno pettegolezzi, intorno alle cricche letterarie, ai giochi di scambi di favore di taluni che si considerano “amici”. Senza cadere nel moralismo, cerchiamo di puntualizzare cinque buone prassi, per difendere sia l’amicizia sia la credibilità letteraria

Plusvalenze letterarie ovvero Amicizia e letteratura. Oltre l’amichettismo in 5 passi

Recentemente, si è tornato a discutere di una questione da sempre presente nella società letteraria, ovvero dei rapporti di amicizia, che talvolta sembrano scadere in un legame interessato, una specie di alleanza strategica per promuoversi a vicenda. Si è parlato di amichettismo letterario per identificare la pratica di scambi di favori, ossia di recensioni, inviti, fascette, pubblicazioni e quant’altro. Così Luigi Mascheroni, su “Il Giornale” (La sciamana prodigio dell’amichettismo intelligente, 28 novembre 2022):

Funziona così. Per dire. Chiara Valerio chiama Teresa Ciabatti, la quale poi ricambia intervistandola per quattro pagine su «7» del Corriere della sera, a pubblicare nella collana «PassaParola» che dirige per Marsilio, dove ospita, tra gli altri, sia Carlotta Vagnoli (con la quale colloquia su l’Espresso e che presenta al Salone del libro di Torino) sia Michela Murgia (dalla quale viene intervistata sull’Espresso e insieme alla quale mette in scena lo spettacolo Istruzioni per l’uso al teatro Carcano di Milano, la cui direzione artistica è di Lella Costa, che prima o poi pubblicherà per «PassaParola») sia Annalisa De Simone, che a sua volta invita Chiara Valerio e Teresa Ciabatti all’Italian Pavilion per la mostra del cinema di Venezia, istituzione con cui lavora Chiara Tagliaferri (moglie di Nicola Lagioia e amica di podcast di Michela Murgia), e dove quest’anno era in giuria Nadia Terranova, mentre su Radio 3 Chiara Valerio invita nella sua rubrica «L’isola della sera» sia Carlotta Vagnoli sia Michela Murgia sia Teresa Ciabatti e tutte insieme scrivono un racconto per l’antologia Le Nuove Eroidi e uno per l’antologia I figli che non voglio, tirando dentro anche Nadia Terranova e Loredana Lipperini, e così mentre su Repubblica e la Stampa si recensiscono a vicenda – la Murgia scrive del libro della Ciabatti la quale invece parla di quello della Valerio che viene intervistata dalla Lipperini – poi tutte scrivono dei libri che escono da Solferino, cinghia di trasmissione editoriale della sinistra di penna e di potere, e intanto fanno una settimana estiva in vacanza al festival dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e una invernale alla “Nuvola” di Roma per la fiera della piccola e media editoria, ma in realtà una sorta di convention ombra del Pd, «Più libri più liberi». Curata da Chiara Valerio.

L’ambiente letterario, che una volta poteva identificarsi idealmente in un salotto, ora pare ridursi a un privé esclusivo, a cui si può accedere se si appartiene alla stessa area politica, alla stessa agenzia, alla stessa casa editrice, oppure se si dirige una collana o un festival o una scuola di scrittura a cui poter invitare altri scrittori sulla cresta dell’onda e via dicendo.

Dovendo prendere spunto dalla cronaca di questi mesi e cercando un tema popolare per rendere l’idea, verrebbe da parlare di un sistema predisposto per garantirsi a vicenda delle plusvalenze letterarie.

Ma se affrontare questo tema senza scivolare in un atteggiamento moralistico è complicato, tentiamo comunque qualche considerazione elementare.

Intanto, a livello linguistico, abbiamo un problema, nella lingua italiana. La parola amicizia è diventata terribilmente ambivalente. Rivendicare di “avere degli amici” è in pratica una viscida minaccia. Ci manca una parola adeguata per riferirci a quei rapporti magari “amichevoli”, ma che non si scostano poi molto dal vasto giro delle “conoscenze”, delle relazioni sociali più o meno stabili e costanti. L’amicizia è altra cosa. È per natura esclusiva, elettiva, riservata a pochissimi. Quanti? C’è chi arriva a sostenere che di amici non se ne possano avere più di due e tre. Ma già uno sarebbe un tesoro inestimabile. E si può vivere, perché no, anche senza averne.

Auspicherei in tal senso che si tornasse, al posto del termine “amicizia”, a usare con più frequenza parole come “stima” o “ammirazione”, che vanno bene persino in riferimento a certi presunti “nemici” letterari (ovvero per coloro i quali, si presume, siano posizionati in una diversa prospettiva culturale o stilistica e sim.) o in riferimento a individui che non si conoscono di persona, e di cui si apprezzano le opere.

Nello scollamento sempre più evidente che si nota fra una ipotetica classe “vip” di scrittori e una massa di scrittori da “sottobosco” e di aspiranti, c’è da notare che l’amichettismo ai piani alti stimola un – talvolta più ingenuo, ma del tutto analogo – amichettismo ai piani bassi. L’idea di stringersi in rapporti più autentici perché non invischiati con la gestione di poteri, reali o presunti, è subdola. E Loredana Lipperini ha ricordato l’esistenza anche del nemichettismo, che traccia ulteriori steccati, diffonde ombre e spesso veri e propri pregiudizi, intossica le relazioni umane.

Eppure, chi può permettersi a cuor leggero di giudicare i rapporti altrui? Perché non credere e anzi plaudire i rapporti di amicizia autentica? In altri termini: come gestire e difendere le amicizie, in ambito culturale, affinché non si confondano con la semplice cricca?

Per quel che mi riguarda, promuoverei in qualsiasi modo queste semplici pratiche.

Anzitutto, sarebbe opportuno giocare a carte scoperte: dichiarare l’amicizia, non nascondere i fatti e i rapporti. Portarla a tema, perché si riconosca nella sua genuinità.
Ma il primo punto ha poco senso se non comporta anche, in seconda battuta, una ricerca di moderazione e di sobrietà. Ecco, non è opportuno che le relazioni siano così stabilmente esercitate negli ambienti letterari. Con gli amici si esce anche senza un ricorrenza specifica da celebrare, ci si ritrova in occasioni informali. Anzi, due amici sono più a loro agio seduti in platea, anziché sotto i riflettori del palco.
Quando si parla dell’opera di un amico, è importante ricordarsi di argomentare. L’elogio scoperto, in fin dei conti, è poco elegante e, alla fine, poco efficace, forse persino controproducente. Il presupposto è che l’amicizia non deve impedire lo sguardo oggettivo sui testi. L’opera e l’autore vanno separati sempre, anche nel caso di un amico.
Anzi, l’amico è per certi versi la persona più esigente, il primo che ti ricorda chi sei, quanto vali, quanto puoi puntare in alto. E dunque è quello che sa criticarti con dolcezza e fermezza, in modo costruttivo, per tenerti sulla giusta strada, quando ai suoi occhi stai sbandando. “Se non hai un amico che ti critica, paga un nemico perché lo faccia”, dice il saggio.
Infine, quando si celebra un amico, quando lo si promuove, quando lo si difende, è bene dimostrare in qualche modo che lo si fa non per il bene di due sole persone o di una piccola comunità, ma per un bene comune, per valori che dovrebbero stare a cuore a tutti.
Al di là di queste e altre pratiche, poi, ci sarebbe da ricordare quanto pesi la “credibilità” che ogni singola persona si costruisce, in ogni ambito in cui si spende. Ma per non correre il rischio, anche su questo versante, di cadere nel moralismo, annotiamo soltanto l’opportunità di coltivare il senso dell’apertura al confronto, della curiosità anche verso chi non frequenta gli stessi salotti e non mette regolarmente like ai tuoi post, insomma verso chi non “fa parte del giro”. Ecco, sarebbe salutare saltare più spesso steccati, togliere tag, infrangere pregiudizi. Guardare, insieme agli amici, oltre sé stessi – dal momento che l’amico non ti ostruisce la vista sul mondo, ma semmai ne fomenta uno sguardo attento. Per esempio, promuovendo qualcuno che “non ha potere”, che non può ricambiare. Farlo solo perché si crede veramente in lui o, meglio ancora, si apprezza disinteressatamente la sua opera.

Ma a questo livello, che pure sarebbe il livello minimo per certificare la persistenza di un’autentica “tradizione letteraria”, si innescano già nuovi problemi: il rischio di dar adito, anche implicitamente, al clientelismo e suscitare nuovi pregiudizi…

Commento

Dal privato al privè il passo è breve, in realtà siamo tutti invischiati in un modo o nell’altro in una zona di compromissione generalizzata, una sorta di privè e non mi stupisce che un politico esperto e autorevole come Bersani chiamasse il partito cui un tempo apparteneva “la Ditta”, quasi fosse una sua pertinenza privata, una location di cui si ha le chiavi in tasca… in letteratura vale il principio della “Ditta” chi appartiene alla mia “Ditta” avrà degli sconti e dei lasciapassare, gli altri, chi non appartiene alla mia “Ditta”, saranno tassati ed esclusi. Questa idea della “Ditta” è qualcosa che insudicia la mente, una vera pandemia che ammorba il nostro Paese in tutti i suoi risvolti.

Le parole del direttore di “Repubblica” Maurizio Molinari ospite di Myrta Merlino a L’Aria che tira su La77: «Il 60 per cento di astensioni è un dato agghiacciante per la nostra democrazia»

«L’idea di descrivere la realtà con le battute è un modo di fare giornalismo che si commenta da sé. La realtà vera è che gli italiani hanno seguito Sanremo come fanno ogni anno, è un momento di identificazione nazionale che ha a che vedere con la tradizione del nostro Paese. In questo caso il tema sono stati i diritti ma lo è stato anche al Super Bowl. Il risultato elettorale è tutt’altra cosa. Ha a che vedere con la vittoria schiacciante di Giogia Meloni e di Fratelli d’Italia e con il dato agghiacciante dell’astensione che punisce soprattutto l’opposizione ma anche la maggioranza – ha aggiunto Molinari -. Perché nessuno è riuscito a giocare il fattore entusiasmo a proprio vantaggio. Il risultato è quello di una minor partecipazione degli italiani alla vita pubblica e quindi di una democrazia indebolita».

Anche la poesia in Italia vive da decenni in una situazione di «democrazia indebolita», ciascun attore di quel palcoscenico gioca una propria partita nella quale il criterio base è assecondare sempre la propria posizione per indebolire quella di qualsiasi altro attore considerato al pari di un usurpatore al trono di legno della auto storicizzazione.

(Giorgio Linguaglossa)

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Slavoj Žižek, da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp, dal Quadrato nero su fondo bianco al ready made c’è già scritto il destino del modernismo con le sue avanguardie e le sue postavanguardie. Il Novecento è finito, e con esso anche le stagioni delle avanguardie e delle retroguardie, Che cos’è il Reale? Il Reale è sempre parallattico, Sul concetto di parallasse

Foto Malevitch Quadrato

Kazimir Malevič Quadrato nero, 1915, olio su lino, 79.5 x 79.5 cm, Galleria Tret’jakovMosca[1]

Slavoj Žižek

da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp 

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

(S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

pittura marcel duchamp 1

Marcel Duchamp

Slavoj Zizek, Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

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Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. Le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo sono potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

* (S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37)

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

** (S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

Sul concetto di parallasse

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

La definizione comune di parallasse è: lo spostamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto a uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che fornisce una nuova linea di visione. La svolta filosofica da aggiungere, ovviamente, è che la differenza osservata non è semplicemente “soggettiva”, a causa del fatto che lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse stazioni o punti di vista. È piuttosto che […] uno spostamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre uno spostamento “ontologico” nell’oggetto stesso. O, per dirla in Lacanese, lo sguardo del soggetto è sempre-già inscritto nell’oggetto stesso percepito, nelle vesti del suo ‘punto cieco’, quello che è ‘nell’oggetto più che nell’oggetto stesso’, il punto da cui il oggetto stesso restituisce lo sguardo

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

Il Reale parallattico

«Il “Reale” non è la disposizione effettiva, ma il nucleo traumatico di un antagonismo sociale che deforma la percezione dei membri della tribù della disposizione attuale delle case nel loro villaggio. Il reale è la X rimossa in base alla quale la nostra visione della realtà viene distorta anamorficamente, è al tempo stesso la Cosa a cui non si può accedere direttamente e l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto, la Cosa che elude la nostra comprensione e lo schermo deformante che ci impedisce di cogliere la Cosa. Il definitiva, il reale è lo spostamento di prospettiva dal primo punto di osservazione al secondo. Pensiamo alla celebre frase di Adorno del carattere antagonista del concetto di società (quella individualista-nominalista anglosassone e quella organicista di Durkheim  della società come totalità che preesiste agli individui) appare irriducibile e sembra di avere a che fare con una vera antinomia kantiana che non può essere risolta tramite una “sintesi dialettica superiore e che eleva la società a una Cosa-in sé inaccessibile. Ad un secondo approccio, però, bisognerebbe notare come questa antinomia radicale che sembra precludere ogni accesso alla Cosa sia già la Cosa stessa: la caratteristica fondamentale della società di oggi è l’antagonismo inconciliabile tra il Tutto e l’individuo. Ciò significa che in fondo lo statuto del Reale è puramente parallattico e, in quanto tale, non sostanziale: non ha densità sostanziale di per sé, è solo uno scarto tra due punti prospettici, percepibile solo nello spostamento da un punto all’altro. Il Reale parallattico si contrappone così alla tradizionale nozione (lacaniana) del Reale come ciò che “ritorna sempre al suo posto”, come ciò che in tutti gli universi (simbolici) possibili rimane costante: il Reale parallattico è piuttosto ciò che rende conto della moltitudine di manifestazioni della stesso Reale sottostante».*

(da The Parallax View, 2006, trad. it. La visione di parallasse, il melangolo, 2013, pp. 41-42)

Žižek, Slavoj. – Filosofo e psicoanalista sloveno (n. Lubiana 1949). Tra i più importanti e incisivi pensatori contemporanei, docente di Filosofia e psicoanalisi all’European graduate school (Svizzera) e visiting professor presso numerosi atenei europei e statunitensi, muovendosi dalle teorie lacaniane ha sottoposto a una serrata revisione critica conflitti e contraddizioni della contemporaneità per come essi emergono dai modelli culturali proposti dalla letteratura popolare e dal cinema; di quest’ultimo ha indagato il gioco di sguardi incrociati tra autore, spettatore e oggetti in Gaze and voice as love objects (2004; trad. it. Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, 2004), analizzandone il ruolo di strumento di formazione del desiderio e dedicando approfonditi saggi al lavoro di singoli registi – quali In his bold gaze my ruin is writ large (1992; trad. it. L’universo di Hitchcock, 2008), The fright of real tears, Kieslowski and the future (2001; trad. it. Paura delle lacrime vere. Krzysztof Kieslowski fra teoria e post-teoria, 2010), The art of the ridiculous sublime. On David Lynch’s lost highway (2000; trad. it. Lynch. Il ridicolo sublime, 2011). Pensatore a tutto campo, in anni più recenti Z. ha esteso la sua analisi a temi politici e sociali quali la guerra in Iraq (Iraq. The borrowed kettle, 2004; trad. it. 2004), la crisi del marxismo (First as tragedy, then as farce, 2009; trad. it. 2010), e dei modelli di sviluppo contemporanei (Living in the end times, 2010; trad. it. 2011). Autore estremamente prolifico, tra i suoi saggi più recenti occorre citare almento Less than nothing. Hegel and the shadow of dialectical materialism (2012; trad. it. 2013); The year of dreaming dangerously (2012; trad. it. 2013); Žižek’s jokes (Did you hear the one about Hegel and negation?) (2014; trad. it. 107 storielle di Žižek (La sai quella su Hegel e la negazione?), 2014); Islam and modernity. Some blasphemic reflexions (2015; trad. it. 2015); entrambi nel 2017, The courage of hopelessness: chronicles of a year of acting dangerously (trad. it. 2017) e Disparities (trad. it. 2017); Like a thief in broad daylight (2018; trad. it. 2019); nel 2020 la raccolta di articoli Virus, catastrofe e solidarietà e Pandemic! Covid-19 shakes the worldHegel in a wired brain (2020; trad. it. Hegel e il cervello postumano, 2021); Heaven in disorder (2022; trad. it. Guida perversa alla politica globale, 2022). Nel 2017 il filosofo è stato insignito del Premio Hemingway per “l’avventura del pensiero”. (Treccani)

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Il collasso del Simbolico, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Jacopo Ricciardi e Giorgio Linguaglossa, Il doppio, il triplo, il sosia a cui rimanda storicamente il concetto di persona, che come sappiamo ha nella teatralità della maschera la sua scaturigine e su cui si fonda gran parte della politica e della teologia occidentale o, secondo l’indicazione di Carl Schmitt, della teologia politica, negli avatar non ha più ragion d’essere. Gli avatar non sono persone, non compiono azioni, non possono essere responsabili di nulla, non gli si può imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità, la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare e parlare a vanvera

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Il collasso del Simbolico di Giorgio Linguaglossa

Nella vicenda che la poiesis mette in scena nella poetry kitchen, è evidente la disconnessione da ogni visione tragica dell’esistenza a cui rimanda la nozione di destino, in quanto ogni gesto della «maschera», ogni sua parola è una messa in mora dell’azione, del crimine, della colpa e dell’imputazione; ancora più significativo in tale vicenda è il superamento della dialettica tra maschera e volto, che costituisce il presupposto di ogni rappresentazione del comico e del drammatico. Gli avatar, al di là di ogni possibile dubbio, sono totalmente maschera; essi non possono gettare la maschera, in quanto sono privi di azione, privi di identità, privi di psicologia, non sono emblemi simbolici, dietro di essa non c’è nulla, c’è un fondale vuoto. Per converso, divenire «maschera» significa assumere totalmente l’apparenza come cifra dell’esistenza, significa perdere ogni personalità, ogni identità, ogni certezza in favore della identità della maschera. Il doppio, il triplo, il sosia a cui rimanda storicamente il concetto di persona, che come sappiamo ha nella teatralità della maschera la sua scaturigine e su cui si fonda gran parte della politica e della teologia occidentale o, secondo l’indicazione di Carl Schmitt, della teologia politica, negli avatar non ha più ragion d’essere. Gli avatar non sono persone, non compiono azioni, non possono essere responsabili di nulla, non gli si può imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità, la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare e parlare a vanvera. Vuoto di rappresentazione, vuoto di identità, vuoto di rappresentazione. Di conseguenza, abbiamo il collasso della politica, collasso dell’etica e collasso della poetica, il collasso della rappresentazione.
In due parole: il collasso del Simbolico. (Giorgio Linguaglossa)

Domanda Di Mariella Bettarini e Risposta di Giorgio Linguaglossa su:

Che cosa identifica una poesia da una non-poesia?

In una recentissima intervista di Mariella Bettarini rivolta ad alcuni autori di poesia contemporanei le cui risposte sono state pubblicate sui n. 106-107 “L’area di Broca” 2019, alla domanda “Come si identifica oggi il linguaggio della poesia?”, rispondevo:

«Non c’è nessun criterio per identificare il linguaggio della poesia. Ma c’è un concetto. La poesia è una idea che inerisce ad un concetto. Ma, in assenza di un supporto critico credibile e attendibile, chi o che cosa – mi chiedo – riscatterà la «poesia» da questa condizione di mancanza di concetto?».

Alla successiva domanda della Bettarini:

Oralità, scrittura, virtualità: come interagiscono i differenti canali nella realizzazione del testo poetico?
Rispondevo così:

«”Oralità, scrittura, virtualità” non hanno alcuna interazione con la poesia. La poesia di una comunità di parlanti interagisce con la lingua della comunità nel suo complesso e con le condizioni storiche e sociali di quella comunità linguistica».
La mia convinzione è che rispondere come ha risposto Maurizio Cucchi: “Ogni forma o aspetto del reale può diventare materia di poesia”, sia fuorviante perché manca di un nesso essenziale, perché equivale a dire che è inutile munirsi di un concetto, cioè di una poetica in quanto tutto può entrare nella forma-poesia. Il che sarebbe anche vero ma per il tramite di un «filtro», ovvero, come si diceva una volta: di una «poetica», o, come si scriveva un tempo: di una «ricerca».
Rilevo come questa posizione panlogistica tipicamente tardo novecentesca aumenti la confusione invece di ridurla, non si sa più che cosa distingua la forma-poesia da una forma giornalistico-mediatica con degli a-capo, non tiene conto del fatto che anche la forma giornalistico-mediatica non può contenere tutto di tutto, nel senso che anche la scrittura giornalistica o informativa deve operare una selezione di argomenti e di esposizione, si deve attenere a rigorosi principi guida e a rigorosi limiti tematici ed investigativi. Il che mi sembra inequivocabile.
La mia impressione è che si operi in mezzo ad una confusione concettuale che rende ancora più confuso il criterio per mezzo del quale possiamo individuare la forma-poesia per distinguerla dalla non poesia. In tal senso ci viene in soccorso la domanda chiarificatrice formulata dal «giornalaio della critica, ovvero il me stesso»:

«Pongo un interrogativo, lo pongo a me stesso e ai lettori: in quale direzione deve avviarsi la poesia contemporanea? C’è una direzione di ricerca privilegiata? Come quella della nuova ontologia estetica o nuova fenomenologia del poetico? Oppure, tutte le ricerche sono, a parità di diritto, ammissibili ed equipollenti?».

A mio avviso il nodo di Gordio della problematica è questo: sono tutte le direzioni di ricerca equipollenti ed equivalenti?
La risposta non potrà essere ambigua o salomonica, o ipocrita e generalista, bisognerà rispondere a questa domanda con un «sì, sì», o con un «no, no».

Una mia Kitsch poetry del 2019

Stanza n. 93

La crossdresser Gipsy Fox, nuda, con la gabbia per il pene,
oscilla sull’altalena, manda dei kiss kiss e dei cuoricini
al gentile pubblico di Facebook.

Il Commissario con la mascherina interroga Ençeladon.
Il pappagallo giallo-verde sventola la bandiera italiana alla finestra.
Ripete ossessivamente:
«Preferiti, Commenti, Scarica, Condividi, Chi siamo!»

Il trans Aurelio Bang augura a tutti: «Merry Christmas!».
La femboy Barbie si dichiara credente, fa sesso con il macho Zozzilla
davanti alla webcam.

Lady Malipierno porta al guinzaglio la tgirl Andrea
con manette dorate fetish.
Chiede spesso al cagnolino di abbaiare.
Si è fatto anche assumere come buttafuori o buttadentro,
lì all’ “OfficinaBar”,
quel locale equivoco, qui alla Piramide,
frequentato da transgender, lesbiche ed etero…
In seguito ne persi le tracce…

So, per sentito dire, che divenne l’amante di Lady Malipierno,
che lo introdusse nelle segrete stanze della sua alcova
e delle sue adiacenze negli ambienti del sottobosco politico…
che riceveva con un senatino di crossdresser…

Fanno ingresso in scena il Commissario e il filosofo Cogito.
Si accomodano in poltrona e guardano un film porno.
«I comunisti sono scomparsi», dice il Commissario.
«Il salotto color fucsia invece era tenuto da Madame Hanska,
ma era riservato agli ufficiali della Gestapo», disse il filosofo.
«Questo però è il racconto di un’altra epoca il cui ricordo
sbiadisce lentamente…»

La subgirl Korra Del Rio prende il caffè before bondage banging.
Le gemelle Kessler agitano le gambe sul palcoscenico.
al ritmo della musichetta da Carosello “Da-da-un-pa”

«Abbiamo interrotto il telefono senza fili della pandemia»,
dice l’assessore alla sanità della Lombardia.
Così il Covid19 se ne va in giro da 39 giorni
a braccetto con Gina Lollobrigida.
«Outbreak in Lombardy, Italy», titolano i giornali esteri.

La tigre dello zoo di New York ha il Coronavirus.
Il pappagallo dichiara all’erario che ha fatto l’autocertificazione.

Lady Fremdy boy passeggia in via Sistina con collarino nero in pizzo,
stringatura in lacci e borchie di metallo ai seni,
l’anello fallico vibrante gold con un set per bondage
e un kit sadomaso new style.

Il Signor Spectator dice: «Nella foto la pipa è sempre una pipa»,
si fa un selfie con la crossdresser Andrea Lou Salomè.
Barry Friedman, un mio vecchio amico vive a New York, un bellimbusto…
che esercita il mestiere di dogsitter e copula con madame Altighieri.
All’epoca faceva il giocoliere agli angoli della 33a Street…
Un illusionista di successo.
Rammento che poi si dedicò al mestiere di squillositter di madame annoiate,
ben più remunerativo.

Il vento del meriggio accompagna i passi pensierosi del filosofo.
Cogito torna a casa nella Marketstrasse n. 7.
Accende la radio.
Fischietta un ritornello da avanspettacolo degli anni sessanta:
«La notte è piccola per noi, troppo piccolina!…»

Jacopo Ricciardi

1.
Dal crepitare di un falò esce un passo di gatto.
Il gatto arde tranquillo.
È vestito da molte fiammelle –
dalle sue zampette morbide
si sollevano smosse quattro fiamme
(Lì dentro arretrato
il passo ha più passi.
Nel passo un lentissimo passo –
in avanti la corsa non può fermarsi.
Indietro la corsa non può fermarsi.
È il ritmo di una forza che non può arrestarsi.
Oltrepassa una membrana che non può muoversi
e non incontra mai nessuno.
La membrana è sempre attraversata.
È la superficie immobile di un respiro
che si increspa e permane.).

9.
molti passanti passarono entrando nel semaforo
e lì dentro il gallo cantò formicolando,
si aggrappò un’arca che passava di lì,
ne scese un Sansone stralunato
che raccontava di peripezie tra globi e con persone,
nessuno ascoltava ovviamente,
il vuoto lo faceva transitare, caldo o freddo come un motore,
ridicolo il vuoto,
lacrimevole, ascella alga, frammento di un carro, scocca di un polipo,
un ermafrodito cantante di favole ritorte,
belle come appendiabiti che aspettano,
vólti che sono solo pellicole di vólti
che pure hanno intere giornate di soli da dire senza notti,
lì molti alberghi in fila uno accanto all’altro, e baraonde nelle vie,
canottiere sedute ai bar
con a fronte bignè dialoganti, repertori di storie lunghissime,
solo a raccontarle si spezzerebbe l’olio,
oggetti di ogni genere con diversissime personalità transitanti
si affidavano spintonandosi per strada,
un cinema e un solo teatro in quei reticoli introvabile
eppure colmo di cose di ogni tipo
che uscivano dall’entrata o entravano nell’uscita
dell’immagine mutante,
lì soggiornava con un cesto di fragole, mangiandosele mature,
un nastro trasportatore,
era fatto da più menti e non sapeva dove tornava indietro
e quante volte, questa perdita di memoria non lo affaticava
anzi remava sempre nella giusta direzione
là dov’era, lungo un babà surgelato,
latrina di latte prezioso e venduto
molto spesso
arabico genitoriale assassino invecchiato
bene
come quel palazzo su Marte.

Francesco Paolo Intini

5 febbraio 2023 alle 11:09
«L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una verità di natura sfuggevole, probabile più che certa, una verità ‘al limite’, che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino ad un certo punto e soccorre una illuminazione; una folgorazione improvvisa. Scienza e poesia non possono camminare su strade divergenti.»  (Nanni Balestrini)

Chiaramente i versi della mia poesia, messi nell’ AI, hanno germinato altri versi alla rinfusa come apparirebbe un frullato se invece di metterci frutta di fragole ci mettessimo melanzane, chiodi e cemento armato. Nessun riferimento al Re Nasone, né alla tomba di Tutankhamon, violata e maledetta, messi in libertà nel teatro dell’immaginazione e delle passioni (esecrando il primo quanto misterioso e affascinante il secondo). In quanto al rapporto tra scienza e poesia , esso rimane tutto da esplorare ma se c’è una indicazione da seguire, almeno per me, è in questa verità probabilistica e plasmatica, indicata da Balestrini, che lascia nell’osservatore\ scrittore prima ancora che nel lettore, sempre un senso d’incompiutezza e di mancanza di senso, ma lontanissimo dal calcolo, dall’algoritmo, dalla progettazione di alcunchè.
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La famosa poesia composta da Nanni Balestrini con un computer IBM nel 1962 giovandosi dell’uso di un algoritmo, forse l’operazione più rivoluzionaria e contestatrice della neoavanguardia bene mette in mostra i due elementi fondanti della operazione avanguardistica: il Fattore caosmatico e il Fattore parodistico della poesia neoermetica ancora in vigore negli anni sessanta, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese – La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale», ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situa all’interno tra le due cornici, dove tra le due cornici si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis priva di essenza

foto I drink coffee

foto pubblicitaria presa dal web

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Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2023 alle 10:10

Ecco adesso la famosa poesia composta da Nanni Balestrini con un computer IBM nel 1962 giovandosi dell’uso di un algoritmo, forse l’operazione più rivoluzionaria e contestatrice della neoavanguardia che bene mette in mostra i due elementi fondanti della operazione avanguardistica : il Fattore caosmatico e il Fattore parodistico della poesia neoermetica ancora in vigore negli anni sessanta.

Nanni Balestrini

TAPE MARK I

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

I capelli tra le labbra, esse tornano tutte
alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco
io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita
lentamente, e malgrado che le cose fioriscano
assume la ben nota forma di fungo, cercando
di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.

Nell’accecante globo di fuoco io contemplo
il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine
delle cose accade, la testa premuta
sulla spalla: trenta volte più luminose del sole
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.

Giacquero immobili senza parlare,
trenta volte più luminosi del sole essi tornano tutti
alla loro radice, la testa premuta sulla spalla
assumono la ben nota forma di fungo cercando
di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano
si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.

Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante
globo di fuoco, esse tornano tutte
alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse
le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera
e giacque immobile senza parlare, trenta volte più luminoso del sole, cercando di afferrare.

Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita
lentamente nell’accecante globo di fuoco:
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole
giacquero immobili senza parlare, si espandono
rapidamente cercando di afferrare la sommità.

Come si vede, la neoavanguardia lavora sulla trama, sul plot plurilingue, sulla versificazione con taglio narrativo, sulla demifisticazione, sulla imitatio derisoria della poesia postermetica; siamo in presenza di una contraffazione, di un raffreddamento semantico del discorso, di una riscrittura, di una soprascrittura, di una evidente una falsificazione che sfocia nella caricatura del verso poetico neoermetico auto celebrativo ed elegiaco.
Come si può notare, le differenze tra i testi della poetry kitchen e i testi della neoavanguardia sono abissali. È l’abissalità della storia che si presenta capovolta. Dal punto di vista della neoavanguardia la poetry kitchen appartiene ad un altro mondo. E viceversa.

Testi della Poetry kitchen

Francesco Paolo Intini

LAUDATO SIA IL TORTELLINO IN SCATOLA AL MASTERCHEF

Ma quale sliding story, il suo piatto è una merda!

MENZIONE O MINZIONE D’ONORE?

Sarebbe bastato fare un’aggiunta a una battuta di caccia del re Nasone
più cruenta del solito.
Meno cani al seguito e fagiani e corde d’impiccati
Tutto perché non si è fatto in tempo a prenotare sulla Ferdinandea
Dove pisciare e affogare in grande.

SEGNALATO O SEGNATO?

Tra le pillole rosse ce n’è una blu. Scrollare il tamburo prima dell’uso.
La storia del giustiziere notturno tra avvertenze e indicazioni.
Evitare in gravidanza. Potrebbe far male a Maria Carolina
E dunque non partorire mitraglie e forche e nodi scorsoi.

GIURIA O GIUNTA?

Si alzi signora. Non ha mai sentito che ci sono rotule obbedienti alla 104?
Avanzano le sedie a rotelle nell’ Asl. Proclamano indipendenza dall’osso sacro.
Ah lazzaroni che fate al collo della Sanfelice?
Morire a giugno è cosa possibile
Ma vincerà la lotteria di capodanno, come piace al re.

MOTIVAZIONE O MORTIFICAZIONE?

Eburneo sarà lei. Il mio nome è colesterolo.
Il vademecum parla chiaro: luna a pois prima di morire e niente filo per le sottane.
Consulti il medico e non si faccia prendere dall’esaltazione.
Un colpo al cuore, un altro a Leonora

INSINDACABILE O ETERNO RITORNO?

Un dente maledice la mascella.
La mandibola difende la gengiva
La carie benedice il nervo.
-Alle pinze. Disse il dentista ma google scrisse panze
E riempì di bolo lo schermo del computer.

Carri, missili, aerei avanzarono sulla tastiera tranciando lettere e consonanti.
Cosa scriveranno adesso?
Lascia che i nervi si arrangino da soli. Tra correnti ci s’intende.
E mentre gli ampere risalgono gli scoli
avanza nel buio l’ascia del macellaio .

PRIMO PREMIO O VITTORIA?

Qui giace Tutankhamon sepolto con l’arco di Diana al mignolo
la passione per il fucile a tromba, il coccodrillo nell’ intestino.
Risalendo il Nilo pervenne il potenziale a una decisione.
Meglio sarebbe non rivelare la ricetta, ma tant’è!

Giorgio Linguaglossa

La fine dell’arte nel tempo della storialità

In Dopo la fine dell’arte (1997) Danto compie una rivoluzionaria operazione culturale, pone il problema seguente: cosa pensare dell’arte dopo la caduta dell’idea di un progresso storico dell’arte? In un primo momento, all’epoca delle avanguardie europee dei primi anni del novecento, l’arte diventa improvvisamente autocosciente, riflette su se stessa e sul proprio destino, diventa insomma auto-riflessiva, cessa di operare una rappresentazione del mondo per concentrarsi esclusivamente su alcuni aspetti del mondo così come essi si presentano e così come essi sono visti. «L’Età dei Manifesti», peculiarità dell’epoca “moderna” (poco meno di un secolo dall’Impressionismo al Brillo box di Warhol del 1964), si caratterizza per la raggiunta caducazione del concetto di «mondo»: l’arte è arte ogni volta che prende se stessa a parametro di riferimento di se stessa, quello che conta è se stessa come verità del proprio concetto. L’arte viene prima del concetto di se stessa. L’arte è ciò che l’autore o le istituzioni che contano dicono di essa. In questa scorciatoia speculativa che è, tra l’altro, una tautologia, l’arte afferma se stessa in quanto non è nulla di nulla, non conta più nulla ed è fatta di nulla. L’arte del periodo post-storico è quella in cui «tutto è possibile» (l’everything goes di Danto). Di conseguenza ogni ermeneutica che la tratta si dovrà necessariamente schiantare sulla superficie del nulla di cui è fatta l’arte moderna dopo Brillo box di Warhol. Per Danto1 si deve porre la domanda seguente: perché la critica dell’arte dopo la fine dell’arte?

La risposta che al momento possiamo dare è che oggi, nel 2023, non si può porre mano ad alcuna ermeneutica dell’arte a seguito della Fine della poiesis, di quella che un tempo si chiamava «arte» nel tempo della storia progressiva; oggi, nel tempo della storialità (cioè della storia non-progressiva), la fine dell’«arte» trascina con sé anche la fine della critica d’arte. E qui il discorso si chiude. La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale», ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situa all’interno tra le due cornici, dove tra le due cornici si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis ovviamente priva di «essenza».

1 A. Danto, After the end of art, Priceton Bollingen 1997, pag. 198: «One does not escape the constraints of history by entering the post-historical period».

Giorgio Linguaglossa

Il poliptoto è entrato nel retto di Putler

Bum! il poliptoto è entrato nel retto di Putler lanciato dall’incrociatore Moskvà
L’Elefante suona l’olifante
Ne esce il pesce Lavrov con squame e sopracciglia dipinte
Odisseo commercia con il petrolio e il gas dei russi, manduca fagiani e noccioline del Ponto Eusino
Confonde Churchill con Fausto Coppi, però ha un occhio peritissimo per la valuta pregiata della Signora Circe
Il pesce Lavrov tirò per la giacca il Signor Putler
Ne uscì una marmellata di essenze all’isotopo di deuterio e un rotolo di carta igienica con impresso l’aureo sigillo della defecatio del Tirannosauro
Accadde nel Cetaceo che una proboscide con squame di coccodrillo prese a crescere dal retto dell’Ibrido

«It is high time to put this on the agenda», disse Odisseo appena uscito dall’antro di Polifemo aggrottando le sopracciglia.
«The event has occurred», così chiuse la questione l’itacense alla conferenza stampa convocata da Penelope.

Dopo aver ingoiato il poliptoto il pesce Lavrov non trovò di meglio che rifugiarsi di nuovo nel retto del Signor Putler
Ed ivi compì la defecatio e la prolificatio

Il topo saltellò sul piattino con del formaggio bucherellato, morse un fiordo di Emmental Switzerland e lo trangugiò
Dal retto uscì un minuscolo Putler al plutonio in forma di supposta o di Sputnik
Lo psicozoico tossì e crebbero delle margherite all’intorno

«Benvenuti – esclamò il manigoldo – alla fine dell’Antropocene, ovvero, l’Età della Catastrofe Permanente!»

Marie Laure Colasson
27 gennaio 2023 alle 19:48

La concisione delle brevi stofe rende un vantaggio a Francesco Intini in quanto gli consente una concentrazione massima delle parole. E in effetti, la differenza tra la scrittura del Computer di Nanni Balestrini del 1962 e quella kitchen di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa o Raffaele Ciccarone del 2023 è un salto, ma un salto storico, l’operazione derisoria di Balestrini garantisce il successo della operazione che la segue a distanza di sessanta anni, la Poetry kitchen. Il derisorio chiama al telefono il derisorio a distanza di sessanta anni. Le operazioni di rinnovamento artistiche sono sempre “telefonate”, il Futuro è sempre in collegamento con il Presente, e il Presente è sempre in collegamento con il Passato, in specie ora che il Passato ha cessato di coincidere con la Tradizione. La Tradizione oggi è il Futuro. Il Futuro è diventato rocambolesco. E derisorio.

13.

Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent Continua a leggere

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