Archivi del mese: aprile 2014

Adam Vaccaro SEEDS, SELECTED POEMS (1978-2006) Chelsea Editions, New York 2014 – Commento di Giorgio Linguaglossa

adam vaccaro Fronte Seeds 

Adam Vaccaro nasce a Bonefro nel 1940 per stabilirsi in giovinezza a Milano. Nel 1978 esordisce con La vita nonostante, cui seguirà Strappi e frazioni (1997), La casa sospesa (2003) e Labirinti e capricci della passione (2005). Poesie scelte dai quattro libri si trovano in La piuma e l’artiglio (2006).

adam vaccaro

adam vaccaro

Commento di Giorgio Linguaglossa

Scrive Adam Vaccaro a proposito di Seeds (Semi): «Un libro è progetto di attrazione e moltiplicazione di sensi dei singoli testi, che può coinvolgere anche testi già editi. Entro tali premesse e intenti, questo libro si articola in due parti.
La I parte intreccia narrazioni innervate nel moto migratorio degli anni ’50 e ’60 dai paesi del Centro-Sud. Microcosmi spesso travolti e sospinti a realtà degradate e disgregate dell’Italia attuale, della quale diventano metafora, in primo luogo delle carenze di una cultura con adeguate capacità etiche, creative e di visione di idee, da cui ripartire per reinventare un futuro che ci appare molto difficile. Il senso di questa parte sta perciò in questo: essere materia metaforica delle radici del degrado generale.
Se la poesia è bisogno di incarnare la complessità e totalità della vita, il suo nucleo centrale ricrea il moto incessante del nostos, quale memoria attiva e necessità di ritorno critico alle proprie origini, qualunque esse siano, per ridarle e ridarsi più vita. È un moto che tuttavia la vicenda storica degli ultimi sessant’anni ha reso difficile o impossibile. Condizione tragica singolare, in cui viviamo e con cui dobbiamo però fare i conti.

adam vaccaro

adam vaccaro

 Se Ulisse non può più tornare a Itaca, distrutta nella sua identità migliore da corruzioni e ignoranze indotte dall’ordine-caos dominante, occorre riprendere viaggio e misura con le forme dell’inferno contemporaneo. Inferno – per i più –, frutto di logiche economiche e di un pensiero unico declinato solo in modi diversi a destra e a sinistra.
Ulisse deve allora farsi Enea?, alla ricerca di orizzonti in cui rinnovare un senso e un telos, inattuali e ignoti rispetto al convulso pantano globale attuale? È la materia esperienziale ed espressiva della II parte.
Entrambe le parti vogliono – nonostante tutto – fare dei testi che li compongono un graal di semi offerti a un futuro, per quanto difficile da immaginare, più umano».

*
Dalla rurale Bonefro (piccolo paese del Molise) degli anni Cinquanta, Vaccaro si trasferisce a Milano, in pieno nord avviato alla tumultuosa modernizzazione industriale e post-industriale, evento questo che segnerà la poesia di Vaccaro in modo indelebile: da un lato le radici nel mondo rurale, dall’altro lo sviluppo intellettuale nella capitale del Nord; la sua poesia si muoverà lungo il solco della conservazione del passato preindustriale e della susseguente modernizzazione industriale prima e postindustriale poi, tra «adiacenza» alla «cosa» e la sua traslazione in un testo poetico moderno senza cadere nell’utopia di una modernizzazione meramente linguistica della poesia che costituirà il limite più vistoso della neoavanguardia. In questa strettoia la ricerca poetica di Adam Vaccaro si è mossa già dagli anni Settanta con grande rigore e tenacia: la scommessa che fosse possibile una terza via tra poesia dialettale o di origine dialettale, sperimentalismo, e una poesia di adeguazione linguistica alla rivoluzione industriale mediante una ristrutturazione linguistica del testo poetico; dunque una terza via che andasse oltre la «poesia degli oggetti» salvaguardando l’integrità degli oggetti.

adam vaccaro

adam vaccaro

 Era una via stretta e difficile, occorreva passare su un ponte di corda steso sull’abisso di un doppio vuoto; quello del passato rurale del paese di origine e quello del presente dell’industrializzazione accelerata del Nord. L’antica «cosa» della società rurale si è nel frattempo mutata in «oggetto» e l’«oggetto» in merce. Vaccaro proseguirà per questa via lungo un arco temporale di più di quaranta anni fedele all’assunto che dalla «cosa» sia possibile ripristinare l’equivalente linguistico che della «cosa», e che la «cosa» mantenga la scabra irriducibilità seriale degli oggetti linguistici. I personaggi di Clitennestra e di Ulisse sono emblematici di questa ricerca della vicinanza alla «cosa», sono colti nella loro problematicità ancestrale, nella loro impossibilità ad addivenire ad una soluzione che non sia il delitto, essi devono restare fedeli a ciò che furono, ai valori di un tempo ormai dissolto, che non esiste più. Per Vaccaro, il loro dolore è ancora il nostro. Sono personaggi «adiacenti» ad un mondo che è scomparso: Tra gli oggetti «adiacenti» c’è l’arte, il cui compito è di ripristinare l’ancestrale e di riportarlo a nuova vita; così Ulisse ritorna, dopo le note peripezie, al focolare domestico. Una sconfitta, dunque. La poesia di Adam Vaccaro trova la sua migliore ispirazione quando illustra questo conflitto senza soluzione, quando si muove tra l’«adiacenza» e l’impossibilità di restare fedeli agli antichi valori ormai sconvolti dalla modernizzazione accelerata del nostro mondo. Di qui gli accenti dal vigoroso tono di critica sociale e politica di tanti suoi testi «tra smisurate asperità e scorie». Di qui l’autenticità di artigiano che ha la sua poesia che sa evitare gli scogli dell’elegia e rimanere «adiacente» alla scabra rugosità dell’esistenza del soggetto e degli oggetti storici.

(Giorgio Linguaglossa)

*(alcuni testi, tra i quali con emersioni archeolinguistiche, sono anche in La casa sospesa, Joker, Novi Ligure 2003, e nell’autoantologia La piuma e l’artiglio, Editoria &Spettacolo, Roma 2006 – qui ripresi nelle loro articolazioni originarie, spero utili alla lettura delle scelte di Seeds – n.d.a)

Adam Vaccaro 2013

Adam Vaccaro 2013

il posto) 

C’era una volta un posto una cosa un paese
tanti sassi e mille case accoste
tante cose e persone piene di fame e di sogni
una voglia di vita con una collana dura intorno
uno splendore di luce in mano a tante mani scure

Ce steve ‘na vote ‘nu poste ‘na cose ‘nu pèése
préte ’n goppe préte e case app’cc’cate
cente cóse e cr’st’jane chîne de spranze e de fame
‘nu core de vite strette che ‘na cullane pesante èttorne
‘na jummelle lucende ‘m meze e tande mane nire

(La terra)

Ricordo cieli blu ricordo cieli viola
ricordo cieli grigi – sfumature capaci
di fomentare pensieri – potenti pensieri
Ma il tuo conico ripetuto assolo
era un sogno d’albume
magico latte del cielo
sull’uovo assetato della tua terra

Certi vóte me r’vènne ‘m mende
certi céle de murghénate e
cén’re culate – certi culúre e p’nzére
de nuv’le s’réne ch’è ‘u córe pèréve
z’èvije ap’rà cumme ‘na femm’ne préne
Me po’ ‘sta témbe de tèrre
me r’t’rave ‘n ddèrre – ‘na terre
sc’late e ‘uestate che ze sunnave
‘nu céle murghenate chepace d’ellèttà
cumme ‘na mamme eppéne sgrav’date

(Certe volte ritornano in mente / certi cieli di melograno e / cenere colata – certi colori e pensieri / di nuvole serene che il cuore pareva / si dovesse aprire come una donna ingravidata / / Ma poi questa zolla di terra / mi riportava a terra – una terra / insipida e guasta che sognava / un cielo di melograno capace d’allattare / come una mamma appena sgravata)

adam vaccaro 4

 

(La casa) – p.38

Questa casa così scura così attesa
questa casa che al buio diventa
le pareti dei miei sogni
Questa casa che esplode di voglie
ricoperta di fango e di foglie
delle mie scarpe assonnate e stanche

Sèpisce ‘a sére cumme espètte d’erruà
‘nde ‘sta case scúrd’je che z’eccòrde ch’u sonne e
quande sónne bélle fanne ‘a ‘móre ch’i múre
cumme ‘i muréje ‘mbriache d’u foche epp’cciate

sèpisce quande voglie che scopp’ne ‘nde ‘sta case
che pare chiéne sóle de lóte e de pagghie
chiane èmmasc’cate ‘m mócche ‘u ciúcce
de quarte ‘i scarpe ‘nzazzerate e slacche sótt’u lètte

(Sapessi la sera come aspetto di arrivare / in questa casa buia che s’accorda col sonno e / quanti sogni belli fanno l’amore coi muri / come le ombre ubriache del fuoco acceso // sapessi quante voglie che scoppiano in questa casa / che sembra piena solo di fango e di paglia / piano masticata in bocca all’asino / di fianco alle scarpe inzaccherate e sformate sotto al letto)

(Il confine) – p.40

Dunque tu mi dici che il mondo non finisce qui
che questo è solo un confine
e non una fine
Dammi allora una mano a seguire questo filo
che mi si perde tra le mani
dammi ancora una mano che non mi
faccia perdere tra le tue mani

Me staje d’cènne ch’u mónne
n’n f’nisce dècche
e che quéste è sole ‘na cunbíne
nno’ ‘na fine
Damme ellóre ‘na mane pe’ í’rréte e ‘stu file
che me ze pèrde ‘m meze ’i mane
damme ‘na mane pe n’n me fa perde
dend’i mane te’

Ricerche di Adiacenza

 

 

 

 

 

 

 

 

(L’acqua) – p.42

Lo sai che l’acqua era un prodigio
che allevava gli occhi Altrove
Verso un universo atteso
sorridente e muto da sempre

(scintille) – p.62

capitava a mio padre di affilare scalpelli
nella sua tana dalla volta gobbata
– schioppata dimenticata – di falegname.
la mola girava e sputava scintille e io giravo
giravo a manovella, più forte, diceva
mio padre, più forte, e la mano sugli occhi.
ma le scintille spulciavano l’aria
come pianeti finiti, o baciavano appena
il braccio, la fronte.
e se avessi potuto
spillarne uno, uno,
di quei momenti di lucefuoco.

Ci sono specie di giorni in cui succede
d’arrampare grani di sole, di sentire sul viso
uno sfrigolio più acuto
che preme e vorresti inchiodare
stralunato e sordo al comando
insistente mutourlante: gira, gira più forte!

Siamo qui – p.104

Siamo sempre qui, con un occhio
che piange e uno che ride
nel co(s)mico disastro
e rondellano le rotule
dei gomiti e i gemiti
dei ginocchi
uno contro l’altro
uno contro l’altro

città Roma, tram anni Sessanta

 

 

(Clitennestra) – pp.124-126

In cerca di semi piccoli e testardi
si muove intenta e cauta Clitennestra: io
che ho dato la vita e poi la morte
sono qui tra questi mucchi di rifiuti
travolta
dall’odio che ribolliva prima
di uccidere Agamennone e
quali semi di vita troverò qui
per altri solo un’isola di morte?
Qui
ai bordi della città che ancora dorme
oltre questa discarica di orme e silenzi
fino a quando scoppierà il frastuono
di centomila cavalli di lamiera.
Io
che per malfusso caso presi il nome
di un’assassina ho ucciso un’ora fa
chi ha fatto di me una regina
di questo viale quasi vallo o
fessura
che accostella inviti e luci di latte verso
il ventre-città. Io regina tradotta dalle
montagne aspre d’Albania e poi ridotta
a discarica di misere colline di piacere.
Lui
che altro Agamennone si disse ed erede
quando con un inchino apprese il mio
che sorridendo disse vedi che sono
sarò sempre il tuo re.
Lui
che scivolando con me da quelle
montagne di fame a questi sommersi
viali di pizze stracci fumi e giarrettiere
non poteva sapere l’odio feroce
l’odio
che divampava in me come le fiamme di quel
lanciafiamme visto al cinema mentre
lui con una mano nella cosa tra le cosce
mi sussurrava all’orecchio
sai
regginadicazzi che quel figlio di nessuno
te l’ho venduto…e uno sghignazzo senza
sorrisi e inchini gli squarciava il petto
che a me sbranava la gola che ora
in mezzo a questo pattume respira

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Giorgio Vigolo (Roma 1894 – ivi 1983) UNA POESIA “Notturnale” – Commento di Giorgio Linguaglossa

vigolo roma  

ritratto di giorgio vigolo

ritratto di giorgio vigolo

  

 

   

 

 

 

 

(da Conclave dei sogni, 1935)

 

 

Giorgio Vigolo

Notturnale

Sol ch’io possa vagar Roma notturna
per vie segrete antiche e in me risgorga
la memoria com’acqua di sotterra.
Profonda ai passi miei vibra la terra
d’un ridestato senso ed ogni casa
nel suo sonno di pietra odo parlare,
come parlare in sogno odo i mendichi
che nel portico dormono distesi
in compagnia di morti. Un lume solo
in questa valle altissima di chiese
vacilla nella grotta tra gli avelli
scolpiti e suda il marmo umido come
una fronte. Le nuvole discese
sono ai sepolcri con la nebbia bassa
che dalle grate allaga le cantine
col suo fiato di laghi e di boscose
campagne: ed ecco, le deserte strade
traboccano di folla, un silenzioso
fiume le invade d’anime: sciamanti
vengon meco nel soffio antelucano
riconoscendo le materne pietre.
A milioni s’addensano in anguste
straducole e milioni d’occhi, insieme
mirando, fan questo pallor dell’alba.
 
vigolo copertina

Leggiamo la più bella poesia di Conclave dei sogni (1935) e commentiamola. Giorgio Vìgolo (Roma, 1894 – ivi 1983), esordisce giovanissimo su “Lirica” e su “La Voce”, collabora poi a numerosi giornali e periodici, anche come critico musicale. Si forma nella poetica del “frammento” lirico e del “saggio”, inizialmente attratto dal fascino di Arturo Onofri, si distacca successivamente da quella poetica per volgersi verso un neoclassicismo con connotazioni esoteriche. La poesia che presentiamo risale al 1935, il fascismo si è stabilizzato, ha spento l’impulso vitale al rinnovamento della letteratura, chi può deve fare da solo. La stabilizzazione sociale si riflette nella stabilizzazione stilistica della poesia di quegli anni. Il ritorno a Leopardi di Cardarelli era destinata ad essere una poetica di corto respiro, e poi dal punto di vista strategico guardare al passato implicava non voler gettare l’occhio al futuro; una poetica fertile invece dovrebbe sempre vivere dentro la forbice passato-futuro, se guarda soltanto ad uno dei due poli, alla lunga, si isterilisce inevitabilmente.

giorgio vigolo

giorgio vigolo

 L’inizio, con quel “Sol”, è un manifesto incipit musicale, non è una parola del lessico, è una nota musicale. Tutta la poesia è un accompagnamento musicale alla «Roma notturna», e la città diventa musica, perde la sua referenza oggettiva per diventare aura paesaggistica del lessico. Accade a Cardarelli ciò che, in maniera più vistosa accade alla poesia di Vigolo. Vigolo è romano, c’è nelle volute delle sue frasi un certo gusto barocco per l’andirivieni, per gli arabeschi, il gioco di luce ed ombra, una classicità opulenta, sensuale, musicale che tende alla sovrabbondanza, alla eccipienza; anche il paesaggio romano viene come intorbidato da scelte lessicali fulve e corrusche, oppure eccessivamente letterarie («mendichi») che trovano la loro correlativa connotazione nella visionarietà della visione;  i verbi sono scelti per la loro super connotazione ma non per l’azione, per il segmento ultroneo («risgorga»), non per la significazione; le strade diventano «straducole», le parole vengono troncate per far acquisire loro una maggiore musicalità. La musica scivola sensibilmente nella musicalità, il lessico nella lessicologia. Il lessico diventa uno strumento, viene strumentalmente utilizzato per dare colore e musica e avvolgere il testo in una cortina nebbiosa. La conseguenza in sede stilistica è che il paesaggio diventa paesaggismo, così il rapporto con l’oggetto si dissolve e si annebbia (non c’è mai un oggetto preciso e identificabile nelle poesie di Vigolo); la Storia si dissolve in «milioni» di esseri che vivono lontano dal poeta e da se stessi, una moltitudine indifferenziata («le deserte strade traboccano di folla», « che vive «per vie segrete antiche», in «straducole»); lo stesso notturno diventa nel titolo della poesia «notturnale»; il «colore» del vezzeggiativo tende ad invadere il testo poetico come per aggraziarlo e renderlo più muliebre, più friabile, più nebbioso, più musicale. Il tessuto lessicale nella misura in cui deborda in esiti coloristici perde concisione, oggettività, comunicabilità e tutto viene avvolto in una atmosfera malinconica di eccipiente eccitazione lessicale e musicale. Continua a leggere

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TORNARE ALLA CORTE DI CESARE? – SUL TEMA DI ZBIGNIEV HERBERT: IL RITORNO DEL PROCONSOLE. Giuliana Lucchini, Antonio Sagredo, Inediti

pittura parietale stile pompeiano

pittura parietale stile pompeiano

 

Ipazia nel film agorà

Ipazia nel film agorà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuliana Lucchini

Selene (canzone)

Fu quando Giove disse che dovevo scendere dal cielo
fu quando Giove disse che dovevo scendere dal cielo.
Aveva riempito i miei occhi del miele delle stelle
aveva riempito i miei occhi del miele delle stelle.
– il mio petto era di scrigno
– il mio scudo un cimiero

Vocazione universale l’incantazione dei miei occhi
dilagò negli occhi di tutti i guardanti.
Fu allora che mi amasti per sempre, Romano.
Sulla vetta del tuo pensiero splendevo come spada
e la freccia del tuo amore governavo :
per tutta la terra e le acque ti tenevo.

La notte m’era diadema dai mille scintillii
la notte m’era diadema dai mille scintillii.
Trascinavi la bocca a bere alla mia fonte.
Trascinavi la bocca a bere alla mia fonte.
– tu superbo bastardo, fecondo di natura
– tu di gambe cordato a cavalcarmi, guerriero.

Nei miei occhi trovasti il pozzo dei tuoi incantamenti.
Bevevi in me l’acqua dei tuoi martirii.
E fosti per mia luce sull’Urbe vittorioso.
Alzasti l’aquila imperiale a offuscare
tutti gli altri alti uccelli del volo al tuo ritorno.
Capriccio di virtù fino ai confini.

Ai tuoi comandi le Idi d’Aprile.
Amasti, fino ad odiare.

 

statua romana l'imperatore Claudio

statua romana l’imperatore Claudio

 

l'imperatore Commodo e la sorella nel film Il gladiatore

l’imperatore Commodo e la sorella nel film Il gladiatore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Sagredo

Ora io in te, senza un corpo,
muovo…

L’orrore vitreo di una circonferenza deforma
gli oggetti e una camera nuziale – le pareti
esterrefatte sono indegne per gli arazzi,
i merletti decidono qual è il tempo dei commiati.

Non odo più, né dono gli imbelli disinganni,
né i doveri della carne sono quei sigilli incompiuti
che io e te stampiamo uniti e circoncisi,
come se i nostri amplessi fossero digiuni di chimere.

Il tuo diniego fu gelido, come un chiodo della Croce!
La tua parola dannata, come un verso dei Cantici!
Con quale astuzia e fattura hai dissolto il mio potere
perché la mia carne sapesse i tuoi pilastri d’ossa?

(Vermicino, 17 novembre 2003)

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UNA POESIA DI EUGENIO DE SIGNORIBUS, “approssimandosi il 2, un ancora incerto ricognitore” da “Ronda dei conversi”(2005) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

città miratram2

Minitram anni Cinquanta

da Ronda dei conversi, Eugenio De Signoribus, (2005)
Poesia scelta da Sandra Evangelisti

*

approssimandosi il 2, un ancora incerto ricognitore

dall’alto mostra i resti dei disgregati camminamenti….:
ne escono, liberati e storti, fitti ganci ferrosi,
alzate mani, uno stilizzato scheletrario senza crani
*
per tutto il tempo dell’1 sul calendario è segnato così:
piantati più semi di piombo che alberi, soppressi più
umani di quanti liberati….
tanti, sorgenti dal fango o
dalla sabbia, annunciano la resa appena aperti gli occhi:
viaggiano da un pozzo all’altro dentro le tracolle
materne….e in quei cullamenti è premiata la loro
nascita…poi, messi a terra, offrono a chi li guarda
le loro antiche pupille
*
ma chi più li guarda i trascurati quando è diverso
il peso dei vivi e dei morti? Quando la lingua s’infalsa
fino a truccare pubblicamente i tabulati?….
Nell’odierno imperio è stabilito che alla violazione di
un corpo di serie A subito si risponda con una vendetta
moltiplicata…. cioè che sia scorporata, sotto un corto
mantello, un’indefinita genìa di serie minore…
Dentro l’odierno imperio, si narri più forte, per carità,
un altro sentimento: quello che contiene ogni oscurata
vita. La spina su di essa inflitta percorra tutto il corpo e
trasveni il sangue per l’arido campo…
che almeno la morte non sia sola
e si tema la colpa più del lutto

chi potrò ringraziare d’essere giunto alla fine dell’1?….
c’è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza, un
marchio indistinto e illeggibile…., la sua forma dolorosa
dal profondo dice: mi sentirai nell’ovatta e nel gelo, nel
clamore e nella polvere… andrai avanti per questo
*
dell’ignobile secolo dei secoli t’accompagna una bolla di
sgomento: tutte le magnificenti riedifiche avvengono
sopra sette strati di simboli e cadaveri…
i morti sono le fondamenta del tempo ventunesimo
dopo Cristo… e la soddisfazione dei rinnalzatori e
dei riabitatori non può essere pienamente sicura:
perché nessuna casa può più appartenere veramente
a qualcuno

de signoribus ronde dei converside signoribus copertina trinità

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Ho scritto di recente che ci sono degli autori i quali modellano lo stile come un abito da indossare alle forme del corpo, del proprio corpo; «costoro – scrivevo – non si accorgono di fare del narcisismo, di indossare un abito manieristico, fanno del manierismo e del narcisismo un bell’abito da indossare, si vestono a festa, assumono sovratoni ieratici, teologali, sacrali, vogliono sedurre il lettore mostrandogli i dettagli dell’abito linguistico, le sue qualità, le sue profondità, le sue quintessenze, le sue insostanziali qualità auratiche e spirituali. Prendiamo la poesia di un De Signoribus, che è la tipica poesia di chi vuole prendere le distanze da tutto, che vuole eccedere in zelo, nello zelo profumato del manierismo e dell’eufuismo, c’è molto profumo in questo tipo di poesia. Con il che si corre il rischio di fare un esercizio di stile, magari ben cucito e confezionato, ma di stile. È una antica forma di retorica che ha luogo, con tutto l’appannaggio di retorismi e di preziosismi, di inversioni sintattiche e semantiche. La poesia rischia così di diventare una particolare confezione di retorismi e di barocchismi».

Giorgio Linguaglossa in-campagna1

Giorgio Linguaglosa, 2013

Anche in questa sequenza di poesia scelta da Sandra Evangelisti, a suo parere le migliori del libro, si nota come l’autore immerga la materia poetica in una atmosfera di sortilegio, quasi sacrale, magico-auratica; l’«io» e il «tu» sono circonfusi da un alone piovigginoso e polveroso, non si comprende nemmeno se a parlare sia l’«io» e a chi si rivolga l’autore: c’è un «tu» che sottintende un «voi», c’è un «voi» additato ad esecrazione teologale, un’accusa peccaminosa e numinosa di incombente minaccia ma come sospesa, interlocutoria; il lettore non riesce a capire di quale colpa si tratti e se davvero il destinatario sia davvero colpevole, e di quale «reato»; c’è un indistinto sibillino profferire, un alludere, un sotto dire, un sopra dire, un velato minacciare, una circonlocuzione di frasari che sai dove cominciano e non capisci dove vanno a finire, che vogliono dire più di quanto non dicano, e di meno; c’è, niente affatto dissimulata, una intenzione cogitante, assertoria, ipnotizzatrice, moralizzatrice, teologale, interamente posticcia e artefatta.

giorgio_3

Giorgio Linguaglossa, 2010

Certo, c’è sagacia letteraria in ciò, e anche abilità retorica, non lo nego, De Signoribus ha appreso la lezione di Montale, ma l’ha appresa male; moralizza il lessico montaliano, lo teologizza, affetta e allude a una degradazione morale che ha avuto luogo (ma manca sempre la personificazione simbolica che invece in Montale c’è sempre), affetta un tono da sermone letterario, prosciuga il montalismo post-Satura e lo converte in sermone, in discorso suasorio ondulatorio, intimidatorio, in uno strofeggiare spinoso e spugnoso; come dire, c’è un eccesso di voce, di tono, un sopra tono e, spesso, un sotto tono, che vuole tonificare, pontificare e moralizzare le parole, mondarle e renderle insormontabili, ma c’è anche un posticcio alambicco linguistico: il voler dimidiare il dire per poterlo caricare di un di più di sopra sensi moralistici e teologali, un invitare il dire in forma aforismatica ciò cui invece il giro frastico non è in grado di dire.

Botero Dejeuner sur l'erbe

Botero Dejeuner sur l’erbe

C’è una incapacità del giro frastico di De Signoribus di trovare una soluzione e uno sviluppo al giro frastico tardo montaliano una volta che ne prosciuga e ne dissecca il pentagramma tonale e il giro lessicale, in Montale sempre preciso e scandito nella tessitura sintattica. De Signoribus adotta con abilità la soluzione cinico scettica del tardo Montale ma con l’aggiunta di una componente morale di indubbia derivazione teologica; intende la poesia come un accorgimento per moralizzare la vita pubblica, innesta nel pentagramma cinico-scettico del ligure un elemento pseudo teologico, alza così il tono salmodiante ad un andamento liturgico, ortogonale, prezioso, ieratico, apofantico ma manca il bersaglio, non raggiunge la significazione simbolica, si ha la sensazione di un ruminare, di un brontolare attorno al giro frastico finendo per renderlo invece ancora più frastico, più arzigogolato, finendo per perdere il filo del ragionamento e sbucare nell’irrazionalismo, nel misticismo, nel teologismo… di qui gli evidenti scarti del discorso: i sopra pensieri (alto allocati), il passare con disinvoltura da un piano all’altro del discorso suasorio ordinatorio, senza però che l’abilità letteraria riesca a dissimulare la debolezza dell’impianto economico complessivo di questo modo di intendere il discorso poetico: come veicolo di una volontà riformatrice, moralizzatrice e teologale. Ma l’intento teologale lo tradisce, l’intenzione resta troppo scoperta, lo stile diventa maniera, il tono scade ad eccesso di tono, il lessico assume una connotazione ieratica, apofantica, numinosa.

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TORNARE ALLA CORTE DI CESARE? TRE POESIE INEDITE – RISPOSTA DI GIULIO DECIMO A GERMANICO di Francesco Tarantino

legionario sul set

legionario sul set

statua di giulio-cesare

statua di giulio-cesare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Tarantino

Ancora a Germanico
da Giulio Decimo che non si rassegna

Non vidi corvi alzarsi in volo,
tanto meno aquile cadere,
e i leoni restan sugli spalti
confusi tra la folla e i gladiatori
con la massa di plebei che attende
il responso del divino e la morte.
¿Che cosa speri, Germanico,
che si scateni l’inferno al tuo segnale?
Son finiti i tempi degli incantatori
e Cesare stavolta ti ha tradito:
è vero, ti teme ma non sa
che dietro a ogni maschera
ci sta un avvinazzato
che non ascolta più il comando
del suo imperatore.
Rinfodera la spada, Germanico,
e corri via, lontano
dalla corte e dai serpenti,
dai cornuti incesarati
e dalle mogli compiacenti.

Quando s’alzarono in volo i sette corvi
e io vidi lo strascico dei martiri:
i crocefissi con le gambe spezzate,
e un pianto di madri a brevi singhiozzi
inciampare tra i denti e la gola arsa
e l’umana pietà tradursi in risate
verso un Dio che non ama i profeti,
ebbi un sussulto e un conato di vomito!

¿Odi, Germanico, i venti contrari
e le torme di barbari ai confini?
Non andare in nome del tuo Cesare
deponi le lance ai loro piedi
e con scudi e spade fanne pure un falò:
starò ad aspettarti finché ritorni
e ti terrò con me finché lo vorrai.

Roma statua
A Selene per intercessione

 

Mia, tu unica e dolce riva,
ti scrivo in un giorno che è già domani
da un posto lontano dal mare
dove non sono accampati soldati
né cortigiane a tendere tranelli.
Non è facile incamminarsi
in un vortice di amarezza
tra le delusioni di gente andata
ormai impercettibile: estranea!
Quasi a vergognarsi girano muti
e arrancano sugli scalini
patibolari e insanguinati
che trasudano morte,
singhiozzi, lacrime e maledizioni:
l’eco d’accuse senza assoluzioni
con il beneplacito delle folle
genuflessanti al Cesare divino.
Tu, che di riconoscenza sei piena,
ascolta Giulio Decimo, l’amico:
ferma Germanico prima del tardi!
Anch’egli tuo amico e liberatore;
la follia lo sta invadendo,
quel suo sogno di abbattere Cesare
– la sua unica ragione di vita –
lo conquisterà e diverrà un despota
al pari di chi pensa essere il migliore.
Tu, schiava un tempo, oggi libera,
intercedi presso il mio comandante
e strappagli dal cuore questa voglia
di andare a morire e con lui: ¿quanti altri?
Tu che puoi acceca la sua distruzione
e non aver timore: ti ascolterà!
Perché sente le vibrazioni
delle tue pene e delle tue memorie,
il sangue caldo che ti scorre dentro
e che ti fa libera.
Intercedi per un amico
presso un amico: preservalo
dalla morte e dalla malinconia.
Ti resterò devoto come sempre
e t’innamorerò d’un altro sogno. Continua a leggere

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TORNARE ALLA CORTE DI CESARE? – TRE POESIE INEDITE di Giorgio Linguaglossa

statua di romano epoca imperiale

statua di romano epoca imperiale

Gruppo-Storico-romano-Senatori

Gruppo-Storico-romano-Senatori

Giorgio Linguaglossa

Nuova epistola di Germanico a Giulio Decimo

Come Mitridate ogni giorno bere un sorso
di veleno…
so aspettare mio amato Giulio Decimo
l’attimo propizio, so attendere il tempo,
so aggiungere tempo al tempo,
non temere, Chronos è più antico della Notte
e la Notte più antica dell’Erebo;
mi affiderò a Chronos dunque,
saprò essere saggio ed anfibio, prudente
ed audace, come Odisseo mi travestirò da
mendicante ed entrerò nella corte di Cesare
tra i faccendieri e i navigonelloro,
dirò che gli àuguri hanno preannunciato
i fasti del mio arrivo, dirò che sette corvi
volano dall’alba sul Foro ed hanno beccato
il fegato di sette colombi, dirò della imminente
vittoria delle legioni del nord,
che il generale Germanico è pronto
con le armate a vendicare i morti romani,
lo stuzzicherò nella vanità di cui è guasto,
predirò che i profeti di sventura verranno
puniti e i codardi soppressi in un lago di sangue
che l’immortalità dei Campi Elisi
è il pegno per gli audaci
dirò che Cesare è un poeta degno dei posteri,
dirò tante menzogne che stordirò
il Cesare di argilla, plaudirò alla sua astuzia,
simulerò plauso e dissimulerò l’obbrobrio
che mi incute il suo torbido faccione
impomatato con la malta del mar Morto,
applaudirò i suoi osceni versi…
e lo colpirò con la daga tra la scapola e il collo,
un solo colpo, e la testa di Cesare rotolerà
nel fango da cui è venuto, e Roma
sarà libera, libera di tornare alla repubblica,
e ai parchi costumi di Catone l’uticense.

roma Esercito in battagliaRoma statua2

Dedico queste parole alla carneficina che avverrà

Dedico queste parole alla carneficina
che avverrà.
Nottetempo, quando sette corvi si alzeranno
in volo sul Foro, quello sarà il segnale,
e il Tevere sarà rosso di sangue.
Druso si è soffocato con un acino d’uva,
Lucio Vero è caduto; lo so, hanno detto
che è inciampato su una daga,
anche Gaio Duilio hanno colpito alle spalle,
il Prefetto del Pretorio ha chiuso
le indagini contro ignoti;
afferma, il malvissuto, che sono stati
dei cani sciolti, dei briganti…
Gli amici di un tempo si sono dileguati,
Selene rimpiange gli amorazzi di Cesare
e tu Giulio Decimo, anche tu mi hai abbandonato.
Ma non temere, tutto è pronto,
un corvo gracchia sul frontone del Foro
e un gabbiano, dicono, ha posato un uovo d’oro
sul tempio di Vesta. Il piano aspetta
i suoi interpreti come la cetra i suoi musici,
tra poco, mio amato Giulio Decimo,
vedrai la testa di Cesare spiccata dal corpo
sul vassoio delle vivande, gli dirò:
«Un tempo sei stato Cesare, tra breve sarai Nessuno»,
un solo colpo sotto la pappagorgia
e sarà Germanico ad invitare la sordida
feccia della plebe con il codazzo dei suoi
falsi tribuni al banchetto
che verrà… Continua a leggere

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Carlo Diano APPUNTI CRITICI SUL CONCETTO DI “EVENTO E DI FORMA” e SULLA “CHIUSURA DELLA FORMA”Estratti a cura di Giorgio Linguaglossa

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

picasso donna seduta

picasso donna seduta

Carlo Diano

Carlo Diano

Estratti a cura di Giorgio Linguaglossa dal libro di Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell’arte Neri Pozza, 1968

SUL CONCETTO DI EVENTO

Comincio dall’evento. Evento  preso dal latino e traduce il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit. Che qualcosa accada, non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me.

Di evento non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto e dall’ambito stesso di questo soggetto.

La dottrina stoica ripone l’essenza della proposizione nel verbo e considera il nome secondario – laddove per Aristotele “l’uomo cammina” è uguale a “l’uomo camminante” – ha la sua origine prima nel sentimento linguistico di Zenone che era un semita.

Come id quod cuique èvenit, l’evento è sempre hic et nunc. Un fulmine ha colpito un albero nella notte, io lo vedo al mattino: il fatto, ove sia per me un evento, non lo è se non in quanto l’evènit si fa attuale in un èvenit e l’albero non è uno dei tanti punti dello spazio ma il mio hic. (…) è chiaro che non sono l’ hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che localizza l’hic e temporalizza il nunc. (…) Nella mentalità primitiva… spazio e tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario. Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi in cui l’evènit del mito si rifà èvenit nel rito, che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella data è attuale e presente come evento. Solo per questo «le cose» possono essere sentite come eventi e i nomi confondersi con i verbi. Ma sul piano obbiettivo della coscienza il rapporto si rovescia, perché lo spazio è rappresentabile.

Statua romana

Statua romana

testa di Esculapio

testa di Esculapio

SULLA “CHIUSURA” DELLA FORMA

La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatigli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento.

Forma è ciò che i greci da Omero a Plotino chiamarono eidos, ed eidos è la «cosa veduta», e assolutamente veduta. Ciò che la caratterizza è l’essere «per sé». Solo essa è per sé, e quello che è lo è in se stessa e per se stessa, ed esclude la relazione. Come tale esaurisce la sua essenza nella sua contemplabilità: tutto quello che essa  è contemplabile, e ciò che in essa non è contemplabile, non è.

Ma la contemplabilità non esaurisce la loro essenza, è solo un mezzo per attingere ciò che in esse non appare, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e non eide, forme eventiche e non le «forme».

«Simbolo» (da symballein, «mettere insieme») è in origine la tessera ospitale, di cui ciascuno dei due ospiti conserva una parte. Separate, le due parti non significano nulla, il loro significato non l’acquistano se non nell’atto in cui vengono «messe insieme». Lo stesso vale per il mito e di tutte le forme date all’evento. Ciascuna di esse, resa separatamente, è una figura, ma il suo significato non è in quella figura, cì nell’unione con l«l’altro» che la giustifica e che essa ha la funzione di rifare presente. Se questo «altro» fosse rappresentabile, avremmo l’unione di due figure, e quindi l’allegoria. Ma il mito non è allegoria.

«L’altro» è l’evento, e cioè un èvenit, che è sempre hic et nunc e sempre è centro di un periechon infinito, e che pertanto non può essere che vissuto. (..) l’hic nasce dal nunc.

La più semplice forma di chiusura è il nome… Ma questo medesimo nome, che dà forma all’evento, permette anche di riprodurlo.

Quanto al mito, esso è insieme «al principio» del tempo e «in ogni tempo», che è come dire nel tempo del periechon. E, poiché il mito non è «reale» se non nella «ripetizione» che ne viene fatta dal rito, e il tempo del rito coincide sempre col tempo del mito, rito e mito non sono che i mezzi per riprodurre il rapporto dell’ hic et nunc e dell’ ubique et semper vissuto in atto nell’evento. (..) Già per gli Orfici la teogonia così detta «rapsodica» pone al principio non il Chaos, ma Chronos-Kronos, e da esso deriva il Chaos e l’Etere.

Cogito Poseidon

«Che cos’è il pensiero astratto?» si domandava Kierkegaard. E rispondeva: «È il pensiero in cui il pensante non c’è». E così Gentile scriveva che «gli occhi non ce li possiamo vedere che allo specchio». Né altrimenti parla Wittgenstein: «il soggetto non appartiene al ‘mondo’ ma è un limite del ‘mondo’. Dov’è mai che nel mondo un soggetto metafisico si lascia osservare? Tu dici che è come con l’occhio e il campo visivo. Ma l’occhio non lo vedi. E nulla del campo visivo ti permette di concludere che esso è visto da un occhio»1

La forma non si deduce e non si induce: è o non è. E perciò ha valore di categoria, e l’altra è l’evento, e tra loro sono irriducibili: tutti i tentativi fatti dalla storia del pensiero per ricondurli a un unico principio, sono andati falliti, a partire da Platone, che riconfermando l’antinomia dell’àletheia e della doxa rivelata da Parmenide, ne denunciò alla fine l’impossibilità.

L’evento dissolve le «cose» e unifica tutto. Nella sfera della forma, invece, non esistono che «cose» e tutto è separato, perché «la sostanza separa». Lo spazio e il tempo nell’evento fanno uno, ed è il tempo che è primario, che solo l’evento rompe la continuità della durata e si rivela come istante… ma questa convergenza è, insieme, divergenza, poiché l’uno dei due estremi trascende l’altro, convergenza e divergenza non si dialettizzano.

Carlo Diano

Carlo Diano

Con la forma appaiono le «cose» e lo spazio si separa dal tempo.. Per Aristotele il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c’è spazio se non come «intervallo» rispetto a un’altra figura. A questo spazio è ridotto il tempo, definito da Aristotele come «numero del movimento secondo il prima e il poi». Ora, la forma di per se stessa è immobile: anche se occupa sempre nuove posizioni, giacché lo spazio esterno le è assolutamente irrelativo, e non è che mera possibilità.

Poiché appaia il tempo secondo il prima e il poi, è necessario che una forma, per la possibilità che ha di essere in qualunque punto dello spazio, s’incontri con un’altra forma (l’urto degli atomi di Leucippo e Democrito), ma, ogni forma essendo irrelativa all’altra… l’incontro è accidentale e il tempo è contingente. Solo questo tempo si dispone sulla linea retta, e solo esso è irreversibile (factum infectum fieri nequit), e sostanzializza l’istante.

Pericle

Pericle

LUCE E FORMA NELL’ESPERIENZA DEI GRECI

La forma è di per se stessa luminosa, la luminosità non essendo altro se non la visibilità che ne costituisce l’essenza. Nella tradizione poetica ed artistica greca forma e luce fanno uno, e la luce non è esterna, è interna alla forma. Ma è particolarmente sensibile al limite, che ne è la parte più precaria: è come una aureola… Numi ed eroi splendono e appaiono aureolati di luce.

L’arte dunque non è forma, ma forma ed evento in uno, e l’una essendo contemplabile e l’altro potendo essere solo vissuto, è insieme contemplata e vissuta.

L’opera d’arte è insieme nel tempo e non è nel tempo, è nello spazio e non è nello spazio, e, in quanto è nel tempo e nello spazio, è insieme nell’hic et nunc e nell’ubique et semper, e, chiunque l’abbia «fatta» e a qualunque tempo rimonti… è la «mia» e non è la mia, come fu la sua e non la sua per colui che la «fece»…

1 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus

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Salvatore Martino – Autoantologia – Poesie (1969 -2013)

salvatore martino col sigaro salvatore martino copertina la fondazione di ninivoSalvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969) , La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012) .
È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010 ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

salvatore martino 2 Da La fondazione di Ninive 1977

Questa notte mi hanno visitato le formiche

Hanno preso le mani
imbavagliati i piedi
stretto d’assedio il letto

Che sia solo la stanza a respirare?

Il resto giace Inerte
tenuto insieme da robusti negri
il lago infame e la memoria

Estraneo alla vicenda
il viaggiatore ride
acquattato nell’angolo

E aspetta
Che tutto si cancelli?!
Divorato nel sangue

Una brezza invadente increspa l’aria

Ci sono stati morbidi passi nella scala
parole sussurrate incantamenti e riti
una musica dolce sulla soglia

Il viaggiatore infìdo arriva dritto dall’Ade

Ma non ci paralizza l’ignoto grido
o l’avvicinarsi del branco
né il richiamo ingannevole col nome

L’occhio dentro l’occhio
avvitato dalla morsa che sai e non conosci
e decifri il mandante l’involucro lo scopo

Mi hanno visitato questa notte
gente partita da lontano emersa in superficie
attraverso i rigori dell’inverno
e navigando cristalline montagne
prati innevati e case crocefissi e paludi

adesso è qui

Olio sopra la fronte l’orecchio e il labbro

 

François Clouet

François Clouet

copertina salvatore martino metamorfosi del buio

 

 

 

 

 

 

 

Da Il guardiano dei cobra 1992

La delazione

I

In uno dei loro ultimi avatàra
attorno a un fragile fuoco di fascine
cadeva come d’obbligo la sera
ombre allungavano
l’imbarazzo gli sguardi
Giuda di Kiriat
un tempo noto per la sua bellezza
riconobbe nell’uomo
che gli sedeva accanto
immerso in lontane previsioni
il maestro baciato quella notte
nel segno estremo della riconoscenza

Erano mutati nel frattempo
l’occhio del Rabbi divenuto scuro
i suoi capelli rossi ora corvini
proprio come li aveva
il figlio del cambiavalute

Tacevano entrambi
in questa interminabile partita
dentro la consuetudine eterna delle stelle

Jeshua a un tratto tese la mano
per toccare quel volto
così tragicamente conosciuto
Assomigliava all’altro familiare
che per trent’anni
l’aveva accerchiato d’ogni parte
ombra inquieta nella via
immagine nell’acqua
in un metallo colpito dalla luce
il vetro minaccioso di un negozio

Arrestò a mezza strada il movimento
perché non risuonasse equivoco il suo gesto

– Non mi domandi se ti ho perdonato? –

– Non vedo ragione ch’io lo faccia
la tua delazione presso il Padre
incominciò avanti la mia colpa
io conclusi un disegno
irrevocabile già prima di essere
come adesso ch’è stato
e tu non comprendesti o fu solo finzione?
quanto nessuno io ti amavo
e questo cieco amore mi ha perduto
affinché si compisse il tuo destino –

Riconoscendo il Rabbi
in quel compagno occasionale
la propria antica faccia

– Non ti ha perduto se siamo ancora qui
a ragionare insieme come un tempo
Io non ti scelsi è vero
né tu scegliesti me
come distinguere l’identico dal doppio?
Chi ci guidò nel bianco della sorte?
Invenzione sublime
il bieco pomeriggio sulla croce
la salvezza degli uomini –

– Io rinunciai all’amore
all’anfora della mia pace
al regno dei cieli in cui credevo
cercai l’inferno
perché la tua felicità mi bastava
perché la felicità è attributo divino
che gli uomini non debbono usurpare

Chiara più tardi l’altra verità

Come ultimo degli uomini sprezzato
uomo di dolore esperto in afflizione
era questi il Messia
il Dio incarnato
nell’atroce avvenire
nel tempo e nell’eternità
il Dio che si fa uomo fino all’infamia
e sceglie un infimo destino
s’incarna in Giuda il delatore –

Con un lieve sorriso il Nazareno

accettava quelle dure parole
poi a mala pena udibile
in un soffio

– La nostra vita oscura
perfino a noi stessi la celiamo
il raggiro sincero dello specchio
il tradimento della parte ombra

Anche il respiro è sale
qualunque azione inganno
Non potevamo esercitare
la disciplina della vendetta
costringere su noi la perdizione
sorridere mentre l’Altro affondava
Lo scambio di consegne
comunque da entrambi rispettato
Forse nel prossimo avatàra
riconquistando le sembianze
portate quei giorni in Galilea
sarò io a baciarti nel Getsemani –

copertina salvatore martino le città dalla luna II

La luna trafiggeva il fosso desolato

Dopo una lunga attesa
in quel chiarore talmente innaturale
che ricorda
ogni perfetta forma d’increato
il Rabbi disse

– Sì io sapevo
e mi prestai al gioco
perché la volontà del Padre si compisse
nell’ultimo avatàra che ci resta
prima di ritornare e sempre nel silenzio
rivelerò il mio il tuo segreto
perché duri l’oblio su questa storia –

Salite da un mattino di calce
le stelle scomparivano
Stanchi del viaggio
i due si abbandonarono alla luce
le strade in tanti secoli
confuse sotto cieli diversi
decidevano di sciogliersi
per circoli lontani

Giuda guardò dritto nel cuore
il suo Maestro
con un sorriso complice alle labbra

Adesso si sentiva Uno
in quella solitudine
marea dell’infinito

Si aggiustò la djellaba
guardò all’orizzonte
dove la Città Santa dileguava
lo baciò sulla bocca
per cancellare il proprio antico gesto
e verso l’albero ascese dentro il cielo

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Da Libro della cancellazione”2004

Libro della cancellazione

Mi chiedo a volte
quando dal fiume salgono i vapori
e il paesaggio assume
i colori tonali del risveglio
mi chiedo a volte
dove si disperde il sentiero fissato
se il carcere ossessivo
del piacere dell’armonia del bello
possa esorcizzare
quest’aggrumo di segni
quest’abitare dentro la ferita

Chi siamo mi domando?
Quale fato ci guida?

Diventano risposte le domande
senza mai esserlo
che importa?

Forse siamo quel fuoco immaginario
la montagna coperta di ghiacciai
la scala dimenticata contro l’albero
la tormenta e la luna
Siamo i depositari dell’assurdo
il viandante emerso dalle crete
il vuoto di un addio
la sabbia che purifica i peccati
il faro intravisto di lontano

Siamo l’acqua del fiume dei dannati
la cronaca infinita delle lotte
l’arbitrio e la dimenticanza
siamo l’isola ormai disabitata
siamo la strada alata
la cancellazione

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

COPERTINA SALVATORE MARTINO sonetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da La prigione azzurra del sonetto 2009

IX
Sopra un cavallo rosso s’avventura
all’incontro temuto e così forte
il più invocato quello della morte
ma il cavaliere va senza paura

Farnetica una strana congettura
di scardinare le temute porte
il bastione invocato tante volte
domestico rifugio di sventura

Il viaggio della vita è così breve
e così lunga la dimenticanza
la cenere che plasma i nostri corpi

Nel bozzolo di seta siamo avvolti
dal tempo e così privi di speranza
ma il cavallo nel vento è così lieve

 

LXIV
Il vento di ponente ha rilanciato
nell’ora maledetta la sua sfida
suonavano le tre era salita
la freccia che nel mondo m’ha lanciato

nel più profondo sud che sono nato
l’incredibile isola fiorita
da civiltà straniere imbarbarita
da genti diversissime marchiato

La terra di Toscana m’ha ghermito
adolescente intriso di speranze
per incidere un segno nel cammino

Non lo sapevo che non c’è destino
più atroce di colui che nell’istante
mentre legge l’oscuro è già smarrito

copertina salvatore martino cancellazione

 

 

 

 

 

 

 

Da La metamorfosi del buio 2012

Muto dialogo con l’Altro

a Pepito Torres

regalame esta noche
retrasame la muerte
Abbiamo tanto camminato insieme
elogiato il tempo della nostra fatica
le molte incomprensioni
non hanno scardinato
la nostra fedeltà
bambino amaro e felice
custode del mio sangue
asceta delle mie paure

Le guerre non ci hanno separati
le miserie e nemmeno il successo
i riconoscimenti che ci hanno accomunati
atroce bambino mio consolatore
specchio del mio diaframma
oltre il quotidiano insulto delle parole

Ci sveliamo da sempre i nostri enigmi
nella notte come nella primavera
nel meriggio accecato e nell’autunno
nel pallore dell’alba e dell’estate
nel bagliore meridiano dell’inverno

Quanti alberi e conchiglie
e per quanti anni
ci vedranno procedere appaiati
un passo altro passo un altro ancora
in totale armonia

Certo lo so
Dovrò lasciarti

Siamo stati bene
e accanto a te ho creduto talvolta
di essere immortale

E quando non ci sarò più
cosa avverrà
delle nostre lotte e delle contumelie
degli amori e gli inganni i desideri
questo diuturno generarsi dalla morte?
Cosa sarà di te e di me
che non hai deciso di partire
che non ho deciso di partire
di abbandonare
alla solitudine il compagno

Nondimeno non posso intercedere
perché non so con chi
perché le mie preghiere
come le tue del resto
non giungono a nessuno
e non c’è vento che le inchiodi
al dirupo del cielo
Quanto mi mancherai
quanto ti mancherò
perché senza di te
persino la morte è inconcepibile

Addio mio compagno
mio padrone mio schiavo

A questo non eravamo preparati
Ma siamo pronti

 

 

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Milo De Angelis UNA POESIA “Fuori c’è la storia” (1973) commento di Walter Siti

 Milo De Angelis 2 foto Viviana-Nicodemo

(da la Repubblica 30 marzo 2014)

Quando nel 1976 uscì Somiglianze (la raccolta a cui questo testo del ’73 appartiene) ricordo di aver provato un senso di liberazione: nei dieci anni precedenti la poesia in Italia aveva rischiato il soffocamento. Prima la neoavanguardia l’aveva spolpata e razionalizzata, poi l’aveva colpevolizzata il Sessantotto; i due poeti forse più in vista, Montale e Pasolini, per motivi diversi avevano smontato i loro versi con ironia o con rabbia. L’impegno politico sembrava così urgente che perder fiato e intelligenza con la poesia era roba da vergognarsi come di un passatempo per reazionari. (Solo un’antologia di Cordelli e Berandinelli, l’anno prima, aveva lasciato intravedere un fermento). E invece ecco, un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che nonostante il titolo non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i giorni. Dunque si poteva ancora fare?

Milo de Angelis1

“Fuori c’è la storia…”

 Un perdente

Fuori c’è la storia,
le classi che lottano.
Cosa fare dunque una volta per tutte
rifiutando il mondo
accettandolo al mattino
(“Era vero, sai, era profondo
il litigio con lei. Ma c’era un solo letto
e prevalsero i corpi”).
C’erano i confini
biologici e le grandi leggi del profitto.
Perciò inventò gli dei e l’interiore.
Alla sera, durante l’erezione
pretese anche un destino
(“dove sei stata
per tutta la mia vita ?”).

1973  (da “Somiglianze”)

milo_de_angelisQuel venticinquenne poi, a guardar bene, era meno alieno di quel che sembrasse; aveva letto gli ermetici italiani e i francesi, Char e Bonnefoy; durante il liceo a Milano aveva avuto come professore Francesco Leonetti, poeta marxista e engagé  quant’altri mai (portando all’esame di maturità il libretto rosso di Mao); Leonetti gli aveva presentato Franco Fortini, eretico della sinistra, maestro di dubbi e di forme chiuse. Il lessico dell’ideologia comunista è lì che preme: “le classi che lottano”, “le grandi leggi del profitto ”  –  il protagonista si definisce un perdente perché lascia queste cose fuori dalla finestra. Preferisce il privato, la blanda soddisfazione del sesso: con la ragazza si litiga, sinceramente, per cose che sembrano importanti, poi se c’è un solo letto si sa come va a finire. Ma perde pure nel privato, perché non domina la situazione: lui che vorrebbe essere stratega e definitivo (“cosa fare” risente del “che fare” leninista, “una volta per tutte” richiama l’amato Pavese che definiva il mito “lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte”  –  e forse anche un recente titolo fortiniano,
Una volta per sempre), lui rifiuta il mondo per accettarlo la mattina dopo. Non sa diventare mitico, contrapporre agli adulti ideologi una propria certezza.

Il presente assoluto si trasforma in un imperfetto narrativo, ed è nelle minuzie degli episodi quotidiani che la fragilità esistenziale si manifesta. È troppo duro accettare, oltre alle leggi economiche, anche i limiti biologici e la morte.

copertina milo de angelis

Così il doppio perdente si inventa la religione e l’interiorità: non come i grandi, come Freud o Kierkegaard, che ne scoprono le leggi, ma come ripiego e sotterfugio psicologico. Durante l’erezione, sorpreso al vivo della debolezza animale, pretende di trasfigurare il sesso in amore e addirittura in destino (ancora Pavese e la sua idea triste che i poeti “riducono a destino”, cioè a simbolo, la potenza selvaggia della vita). Sceglie una frase che dovrebbe impressionare la ragazza: una frase che De Angelis ripeterà seriamente, vent’anni dopo, in Cartina muta e in Scavalcamento ventrale, due poesie di memoria e d’amore dedicate alla saltatrice e poetessa Nadia Campana; ma qui la frase non nasconde la propria origine sentimentale e pop (“dove siete stata per tutta la mia vita?”, chiede William Holden alla Hepburn in Sabrina, ballando cheek-tocheek).

Smarrimento di un giovane che sa a che cosa opporsi ma non sa ancora come, eppure non si nasconde dietro l’alibi della tradizione retorica; la sua musica è elementare. Versi liberi ma sicuri nell’andare a capo, ogni verso uno snodo; qualche rima quasi casuale (mondo/profondo; mattino/destino), grumi di consonanti a fine verso (lottano  –  tutte  –  letto  –  profitto); perfino un endecasillabo e settenario regolari nel sottofinale; come segno di una necessità che si impone contro l’inerzia della prosa. I frammenti di discorso diretto tra parentesi, che sono una sua sigla in tutto il libro, si ispirano forse a Su fondamenti invisibili,
il libro di Luzi del 1971; ma in Luzi le frasi tra virgolette erano oracolari, un dialogo coi morti: qui è piuttosto un dialogo con la stupidità, schegge rubate al vero a cui concedere pietosamente la chance di diventare significative.

Tutto il libro è teso sul discrimine tra insignificanza e decisione, tra capire e accadere; c’è l’ossessione del kairòs, dell’attimo che passato quello si ricade nell’impotenza (“Forse è ora, è quasi ora./ La guarda, chiude gli occhi, sbaglia”). Ma insieme si insiste sul diaframma che impedisce all’azione di compiersi, che “divide il pugnale/ dal gesto “). De Angelis interpreterà questo divario come distanza tra il contingente e il metafisico, la sua poesia si farà più consapevolmente tragica (poesia dell’agonismo e del vuoto) e sarà imitata da molti. Io preferisco fotografarla qui, nella confusione di un perdente che in modo paradossale interpreta la stagione politica: quegli anni Settanta che sono gli ultimi in Italia in cui l’azione radicale sia parsa ancora possibile. Tra la tentazione di rifugiarsi nel privato per disertare dal pubblico, e quella di rifugiarsi nel pubblico per disertare dal privato.

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POESIE SCELTE DI KARL KRAUS  da “Worte in Versen” (Parole in versi, 1916-1930) traduzione di Katerina Zoufalova e Alberto Di Paola (psed. Antonio Sagredo)

 

Brutto schimdtt2

schimdtt, volti

(trad. di Kateřina Zoufalová e di  Alberto Di Paola (pseud. Antonio Sagredo) – 1989)

 Karl Kraus nasce a Jicin [Boemia] nel 1874 e muore a Vienna nel 1936 da una agiata famiglia ebrea. Fu a Vienna dal 1877 svolgendo una intensa attività giornalistica. Nel 1899 fondò «Die Fackel» (La Fiaccola) che fu subito popolarissimo e a cui nei primi anni collaborarono tra i tanti Wedekind, Liliencron, Altenberg, Strindberg. Dal 1912 ne fu direttore unico. Famose le sue letture pubbliche durante le quali presentava scritti suoi e di altri. Kraus divenne coscienza e giudice del suo tempo, temuto odiato e venerato.

Stabilitosi in Svizzera nell’estate del 1915, iniziò qui il suo sterminato dramma satirico-apocalittico contro la guerra, Gli ultimi giorni dell’umanità (Die letzen Tage der Menschheit, 1922). Pubblicò anche nove quaderni di liriche Parole in versi (Worte in Versen, 1916-1930). Alla fine della guerra aderì alla socialdemocrazia. Memorabili le sue battaglie contro il giornalismo corrotto e la repressione poliziesca dei movimenti operai, riflesse nella commedia Gli invincibili (Die Unüberwindlichen, 1928); la polemica contro il giornalismo condannato come prosti tuzione dello spirito dell’affarismo si trova in Tramonto del mondo per magie nere (Untergang del Welt durch schwarze Magie, 1922). Ha scritto volumi di aforismi, e scritti sul linguaggio (Letteratura e menzogna , Literatur und Lüge, 1929; La lingua , Die Sprache, 1937). La sua tendenza è verso il satirico, con una raffinata tecnica della citazione e una scrittura rapida e incisiva, incline al paradosso.

Per il centoquarantesimo anno dalla nascita di Karl Kraus pubblichiamo in anteprima in traduzione italiana sue poesie tratte da Worte in Versen .

 sidonie nadherny

sidonie nadherny

 

 

Il prato nel parco*

Come tutto mi diviene senza tempo. E là dietro indugio
sbalordito e nel disegno del prato sto fermo,

come il cigno nello specchio verde.
E questa era la mia terra.

Quante campanule! Ascolta e guarda!
Lui, l’ammiraglio, sta su questa pietra
da molto tempo. Deve essere domenica
e tutto risuona d’azzurro.

Non voglio continuare. Fermati, piede vanitoso!
Finisci la tua corsa davanti a questo miracolo.
Un morto giorno si sveglia.
E tutto resta così antico.

16 novembre 1915

 

Viaggio nella valle Fextal

Quando il tuo sole illuminò la mia neve
era domenica nell’azzurra Engandina.

Ardeva l’inverno e il gelo era cocente,
spruzzavano senza fine le scintille dal ghiaccio.

Tutto il presente irrompeva scricchiando,
danzava la luce con la musica della slitta in corsa.

Andavamo da qualche parte nel passato,
al di là d’ogni stagione.

Ogni cosa che iniziò sgarbatamente, ci attraversava sereno,
un giorno d’argento ringraziava il raggio dorato.

In un regno sommerso conduce l’incanto.
Come morbida prepara la vita il sogno infantile!

Colma di antichi giochi è la bianca valle;
i monti raccogliamo come cristalli di rocca.

Nessun abisso divide oggi gli elementi?
Un fiume di fuoco lega la terra e l’aria.

Viviamo diversamente. Se continua così
è come essere in un altro pianeta!

Svanisce ondeggiando ogni spazio nella luce.
Così il sogno scivola lieve verso la morte.

Il tempo non recinta nella riserva alcun dolore per noi.
Se i capelli sbiancano, ci sarà buona neve.

L’inverno ci riscalda. La vita è un giorno,
che il vento di Silvaplana ama chetare.

Nessuna meta, è soltanto un riposo che si donava felicità,
se una volta la slitta s’arresta davanti a una tomba.

29 gennaio 1916

Brutto SCHMIDT-ROTTLUFF_Jahre

SCHMIDT-ROTTLUFF_Jahre

Per l’onomastico

Dimmi, non ha il tuo nome, ogni giorno
che vivi, nella mia vita?
Non ringrazia la mia semina il tuo buon seme,
se oggi, se domani, cercherai di raggiungermi?
Ancora sento come tu sollevi
nel senza-nome, nel senza-giorno, il paralitico,
Iddio crede in te. Così dico amen!

25 giugno 1916

All’ascoltatrice

Che nessuno disturbi la mia ultima gioia!
La gioia, leggere a lei? No.
Ma lei vuole essere più grande, dell’ ascoltare me.
Ho solo per me una gioia:
guardarla, come mi sente leggere!
29 ottobre 1917

Quando cade una stella

Qualsiasi cosa che io abbia mai detto nelle altezze,
mi rigetta indietro?
Oggi s’è frantumata una stella
e resta un pezzo di terra.

Ogni cosa che si sottrasse allora
nella mia notte dalla sfera del cielo
e si decise in un istante per un viaggio
in un paese troppo terrestre –

ah, splende in una direzione,
che mi disturbò profondamente il cuore.
E la mia poesia
non mi appartenne, non mi ha ascoltato.

Dolori, come al di là di tutte le frontiere
strappai la natura all’universo!
Quale ingannevole splendore!
Ahimè, accompagna questa caduta.

Quale rivolta sotto le stelle,
lacera l’eternità!
Tutte le altezze, tutte le lontananze,
tutti i cuori sono abbandonati.

E si lamentano per l’ora,
dove con limpida furia
trasfigurato dal cerchio adesso
s’affretta un ospite amato da Dio.

Memore del grande passato,
pieno di luce, cosciente del valore
piangiamo la perdita imperscrutabile
delle sorelle smarrite.

E noi miriamo delle loro strade
ancora l’ultima traccia luminosa.
Che addio! Che rimprovero
alla mortale natura!

Quale caduta nella barbarie,
così le mostra il ritorno a casa!
Una volta generò una creazione ariosa
per la sua voglia di formare lo spirito.

Imbrunisce. L’occhio non vede più
la splendente meteora.
E verso il non folle sentire
guardo io nella notte, lassù.
9 aprile 1920

*Per Karl Kraus il Parco di Janovitz, separato dal mondo da «un muro dove si posa il cielo», era il paradiso, Vienna l’inferno. Là, nella splendida proprietà dei baroni Nádherný von Borutin, non lontana da Praga, tra lillà in fiore, faggi, abeti, piccoli corsi d’ acqua che sfociano in uno stagno solcato da cigni, tutto era perfetto, incorrotto, tutto era poesia e magia, mentre nella capitale dell’ Impero austro-ungarico dilagavano irrimediabilmente corruzione, stupidità, pregiudizi, ipocrisia, doppia morale. Così, tra due poli estremi, all’inferno e in paradiso, «l’irato mago, il bianco pontefice della verità dalla voce di cristallo», autore dei più celebri e graffianti aforismi del Novecento, visse la sua esistenza fatta di battaglie in nome della giustizia, di odio feroce contro il governo e la stampa, di incessante guerra alla guerra. Ma anche di amore, di un’ unica, grande passione, sofferta e senza limiti, per Sidonie, la bella e sensibile castellana di Janovitz. Una storia d’ amore d’ altri tempi, venuta alla luce solo negli anni Settanta del Novecento, che rivela, come scrisse Elias Canetti, un «nuovo Kraus», tenero, appassionato, implorante. Iniziò con il classico colpo di fulmine per entrambi, fu avversata dal fratello della giovane baronessa, Karl, che le faceva da tutore, da pregiudizi di classe e anche razzisti, da malevole insinuazioni. Fu costellata di colpi di scena come il matrimonio di Sidonie con il conte Guicciardini di Firenze, andato a monte all’ ultimo momento, nel maggio del 1915, per l’ entrata in guerra dell’ Italia, e quello da operetta con il fatuo cugino Max Thun, che non durò nemmeno sei mesi. In pubblico Karl e “Sidi” si davano del lei, nessuno doveva sapere dei loro incontri clandestini, delle loro romantiche passeggiate notturne per il parco, delle loro fughe improvvise in automobile in Svizzera e nelle Dolomiti. Si conobbero a Vienna l’ 8 settembre del 1913 al Café Imperial e fu proprio Max Thun a presentarli. Kraus allora, a trentanove anni, con la sua rivista Die Fackel, era diventato lo scrittore austriaco più popolare e più temuto del suo tempo; lei, a ventotto, aveva una discreta cultura, era sportiva, collezionava viaggi per il mondo e teneva un diario in cui registrava i suoi incontri. In quella prima, memorabile serata andarono al Prater in carrozza, sotto le stelle. «Lui riconosce la mia natura», annotò subito lei commossa e più tardi ammise che «Kraus le era entrato nel sangue». Nel novembre dello stesso anno lo invitò a Janovitz e lui ne rimase incantato, passarono insieme il Natale e il fine anno; la notte, quando il fratello di Sidi e la servitù dormivano, lui scivolava di nascosto nella sua stanza da letto, poi passeggiava con lei nel buio sul grande prato che cantò in una sua celebre lirica ( Wiese im Park ). Da allora il Parco di Janovitz divenne parte integrante di un grande amore a cui solo la morte pose fine, fu lo scenario da favola di una storia drammatica a cui la guerra fece da contrappunto, come attestano le oltre mille lettere che lo scrittore inviò a Sidonie Nádherný per ventitré anni (furono pubblicate in Germania nel 1974).

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UNA POESIA DI ADAM VACCARO “feroci innocenze e oltre” – Commento di Giorgio Linguaglossa

adam vaccaro Fronte Seeds

adam vaccaro

adam vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

da Adam Vaccaro Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014

Adam Vaccaro nasce a Bonefro nel 1940 per stabilirsi in giovinezza a Milano. Nel 1978 esordisce con La vita nonostante, cui seguirà Strappi e frazioni (1997), La casa sospesa (2003) e Labirinti e capricci della passione (2005). Poesie scelte dai quattro libri si trovano in La piuma e l’artiglio (2006).

feroci innocenze e oltre

guardavamo scannare i maiali
con allegra tranquilla innocenza
lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno
eppure già (di)versi cantando
m’illumino d’immenso

e nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e
nel letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo
o s’aprì in quei primilampi di parole un oltre
possibile
nel vortice sempre nuovo
sempre vecchio di questi decenni
pur avendo già un grido nel cuore
che poi la curva ridiscende
ed è subito sera

adam vaccaro

adam vaccaro

 La poesia inizia subito con una immagine truculenta, arcaico-rurale: « guardavamo scannare i maiali»; il secondo verso ci riporta invece alla situazione dell’infanzia, accenna alla «allegra tranquilla innocenza» con cui i bambini assistevano al rito ancestrale dello scannamento dei maiali nelle società contadine di tutte le latitudini; i quattro versi che seguono ci introducono ai crudeli giochi dei bambini nei confronti di animali propri di un’età arcaica, un mondo non ancora contagiato dalla accelerazione del tempo prodotto dalla freccia del progresso e dello sviluppo. È un mondo arcaico, crudele ma accettato da tutti i membri della comunità. È un mondo felice della propria innocenza, un mondo visto con gli occhi di un bambino. E questo è detto in versi elementari e scorbutici in forma di endecasillabi. Non c’è alcuna accentuazione del terribile o compiacimento della scena evocata, la narrazione si sviluppa secondo un tempo mitico, un tempo circolare, diremmo dell’eterno ritorno e della orizzontalità. Il tempo dell’infanzia felice (in quanto innocente, cioè priva di Storia) è riprodotto in versi come scolpiti che narrano la «cosa», i giochi dei bambini innocenti che pongono in essere il loro rito arcaico, crudele e sanguinoso:

lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno…

adam vaccaro

adam vaccaro

Dopo questo introibo, c’è un accenno ironico e autoironico, quel «m’illumino d’immenso» con tanto di citazione di Ungaretti quasi a sottolineare l’antinomia della condizione astorica dei bambini con l’ideologia della illuminazione interiore che si pasce di ciò che è «immenso» mentre il mondo arcaico in realtà è immobile nella sua ancestrale bruttura e crudeltà. Non c’è alcun compiacimento dicevamo o nota elegiaca in questa rimembranza, soltanto una oggettiva narrazione, con pochi essenziali tratti, a quel tempo mitico caratterizzato dalla assenza della Storia e dalla temporalità dell’infanzia. È una poesia dura, oggettiva, crudele, con un lessico scabro, irsuto, scorbutico.

La parte centrale del componimento si apre con la terza persona, con quel «nessuno» «può dire», come dire: nessuno si può accampare il diritto di pronunciare un giudizio di valore verso un mondo che nel frattempo è scomparso: non c’è né valore né disvalore in quel mondo, è un mondo ormai scomparso quando l’autore scrive il componimento, che fa parte del passato remoto. E qui il tono dominante si fa più morbido, quasi elegiaco, quasi l’autore volesse accarezzare quel tempo trascorso senza rimuoverlo del tutto dalla coscienza ma quasi tentando di riportarlo e di riaccreditarlo nell’ordine della Storia del progresso e della civilizzazione.

adam vaccaro 2014

adam vaccaro 2014

 La parte finale si apre con l’immagine del «vortice» che tutto inghiotte, a rendere l’idea che il tempo trascorso è finito in un «vortice» che non può più restituire nulla al presente, un «vortice» «sempre nuovo» (domina ancora la macro simbologia del tempo che inghiotte i propri figli), «questi decenni» che hanno triturato tutto, la memoria e il vissuto, le generazioni arcaiche del Sud e la loro Storia innocente.
Il verso finale è una nota citazione del poeta ermetico Quasimodo con quel «ed è subito sera» che qui non sta a giustificazione di alcunché, non è inserita in quanto correlativo giustificazionista ma per il suo valore di ideologema, quasi un ologramma dell’elegia dell’io.

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Antonio Sagredo: “Dedico queste poesie all’anno 1914 – inizio delle carneficine” (inediti, 1996, 2003)

Antonio Sagredo: “Dedico queste poesie all’anno 1914 – inizio delle carneficine” (inediti, 1996, 2003). Antonio Sagredo è un poeta inedito in italiano, di lui aspettiamo una Antologia che uscirà in traduzione inglese con testo a fronte a New York con Chelsea Editions, ed una in italiano per le Edizioni EdiLet di Roma.

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

Dedico queste poesie all’anno 2014 – inizio delle carneficine
Vi sono altre poesie con versi più spietati, ma ho compassione dei lettori.
Vi sono ancora poeti che cantano la luna e la natura e stronzate di questo genere…. che scrivono ”cadono le foglie” invece di “crollano le foglie”!
a. s.
Antonio Sagredo

Io sono lo sterminio in mezzo ai suoi principi,
tradotto alla parola come alla propria esecuzione.
Poesia, tu vivi di interiora!
Tutte le sofferenze ti somigliano.
Dall’ordine ti ritiri fino alla sorgente,
di notte soffro la parola che subisco.
Di cera mi è dato di vivere nel caos.
E se legato ancora al sangue umano
(indebolito e unto dalla madre al capezzale)
sui ceppi divinizzi i patiboli più che la tortura.
Le bende sulle lancette dei rauchi quadranti.
Nelle stanze le soglie sono altrove dolorose:
ho traversato il grido da uno estremo all’altro.
E creo in ogni istante un Dio,
il suo terrore vendico con la mia mano.
Mi girano intorno i luoghi delle esecuzioni.
Quale festa contare i vivi!
Allontanate da me ogni diniego di potenza,
quel calice che penetra la mia carne.
Poesia, dammi la tua bocca e la tua lingua!
Non mi resta che il sangue con cui parlare.
Darò ordini al sangue!
Mi offrono le mie mani, i miei occhi,
a me, a me, che mai arrivo in tempo alla mia ora!
Perché generare una memoria
se le forche fanno appelli
a chi non pesa la parola come i morti?
Io che sono al di fuori d’ogni linguaggio,
restituitemi le labbra e la mia bocca!
Agli dei il silenzio che non mi è dato,
l’uomo si scordi almeno il proprio nome.
Darò ordini al sangue:
che non venga crocefisso il cuore!
Non ha capito nulla, Iddio, dell’uomo…
la funebre offerta dei suoi misteri…
il nostro arbitrio
non preserva il becchino della corruzione,
le stelle dalla luce delle necropoli.
Possa io baciare gli occhi di mio Padre,
con la sua bocca!
Io sono la mia corazza!
Concedetemi il trionfo d’essere mai nato,
le trasformazioni da cui sono soggiogato.
Quando i rimorsi giungono a una fine
le stazioni marciano verso una memoria.
Sangue: libro che ti sorveglia e aspetta,
a noi mai noto!
E io, terribile, come l’agnello originario,
coperto di bende dalla propria Madre!

Roma, 27- 29 gennaio 1994 Continua a leggere

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Ottavio Rossani “Riti di seduzione” (2013), Nomos – Commento di Giorgio Linguaglossa

copertina ottavio rossaniOttavio Rossani Riti di seduzione Nomos, Milano, 2013, pp. 104 € 14

Ha pubblicato le raccolte di poesia: Le deformazioni (1976), Falsi confini (1989), Teatrino delle scomparse (1992), Hogueras (1998), L’ignota battaglia (2005), Finestre aperte (plaquette, 2011); i saggi: L’industria dei sequestri (1978), Leonardo Sciascia (1990), Le parole dei pentiti (2000), Stato società e briganti nel Risorgimento italiano (2002); il racconto storico: Servitore vostro humilissimo et devotissimo (1995).
Collabora con diverse riviste letterarie. È stato uno dei fondatori e direttore responsabile della rivista di “poesia e ricerca” Il Monte Analogo. Per il teatro ha curato la regia di Disobbedienza d’amore di Mariella De Santis al Sipario Spazio Studio (Milano, 1998). Ha realizzato una “mise en espace” delle poesie di Federico Garcia Lorca per il centenario della nascita, con musica e ballo di flamenco: Se mueren de amor los ramos (Caffè Letterario, Milano, 1998). Ha scritto il monologo Se mi vengono i brividi che è stato portato in scena da Edgardo Melchiorri a Buenos Aires nel 2000, con la regia dell’autore. Dipinge. Al suo attivo molte mostre personali e collettive. Dal 2007 si occupa del blog POESIA sul sito on line del Corriere della Sera (poesia.corriere.it).

ottavio rossani 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Percorrenza

Per sopravvivere
nella tempesta
seguo la traiettoria
disegnata da un fischio
persistente e fastidioso
nella totale assenza di luce.
Andrò molto lontano.
Lungo il tragitto troverò
qualche buon compagno.
Anche da solo tuttavia
arriverò. Arriverò.

*

La mareggiata, implacabile,
erose una parte della spiaggia
e alcuni casotti per la pesca.
In cambio restituì un bastimento.
Nei giorni seguenti andavamo
a rovistare nel tesoro della stiva.
Giulio trovò intatto un cappello
a forma di rosa che regalò alla madre.

ottavio rossani 3 ottavio rossaniLa poesia di Ottavio Rossani scaturisce dalla problematica scoperta del mondo: piccole, trascurabili cose che chiamiamo esperienze di cui sono fatti il dolore, la gioia, l’inizio dell’inverno, la fine dell’estate, la scoperta del sesso, una casa ricordo d’infanzia, i giocatori attorno ad un tavolo da gioco, due amanti segreti etc. Cose elementari, semplici, primordiali, cose senza epoca, o meglio, che si ripresentano in ogni epoca, grigie e dimesse, misteriose, inesplicabili in quanto, appunto, grigie, invisibili. Non c’è nulla di trascendentale tantomeno di sublime in questo libro di «cartoline» delle anamnesi di Ottavio Rossani, non ci sono tratti sopra segmentali, le composizioni hanno un andamento lineare, narrativo, colloquiale; le rime, assenti, come affondate per sempre nel mare magnum che il plurilinguismo del Moderno ha indotto nel linguaggio poetico, designano bene con la loro scomparsa la sobria prosaicità del mondo; le composizioni sono brevi, essenziali, sintetiche, anamnestiche, provengono dalla materia grezza della scrittura, e la scrittura proviene dalla materia grezza del mondo. L’andamento narrativo e strofico (suddiviso per lo più in strofe irregolari e singole ma anche in colonne libere) garantisce una mobilità e una variabilità di alternanze di toni e di sfumature congeniale a modulare il lessico ed i toni alla situazione concreta di ogni composizione; il metro, modellato sul calco dell’endecasillabo, del decasillabo, fino all’endecasillabo ipermetro, ha la funzione di mettere a fuoco, volta per volta, l’oggetto da inquadrare alla vista dell’osservatore. Ne deriva un impulso ritmico rallentato, leggermente sfocato, ora ovattato ora mosso con una dislocazione morbida degli ictus e delle pause severamente intervallate e come controllate e sorvegliate.

 Occhieggiava le gambe delle ragazze
nel pellegrinaggio sul sentiero sassoso.
Si partiva a mezzanotte quando scendeva
il primo fresco dopo la calura.
Si saliva a frotte, si diventava amici,
nascevano e si rompevano amori.
Si arrivava all’alba sfiniti e affamati.
Com’erano buone salsicce e patate
arrostite su fuochi improvvisati.
Scampagnata, devozione, eros
erano il bagaglio del sacrificio.
Una piena, poi, l’allegria del ritorno.

 

ottavio rossani 2I vocaboli del tutto comuni e prosaici trovano alloggiamenti ben periodati e rifiniti nella scaffalatura del metro. Il metro è considerato come una scaffalatura dove sistemare le parole e le parole sono scatole insonore. Il registro basso permette inoltre all’autore di sondare tutte le sfumature del grigio senza esondare in colori accesi o in pericolosi eccessi di toni. Poesia in abito grigio, elegante e dimessa, e dimessa in quanto sobria, sobria in quanto nostalgica di un tempo lontano che il passato ha reso ancora più grigia, fatta di cartoline consunte dal tempo. L’ultima sezione del libro, quella a mio avviso più riuscita, da cui sono tratte le composizioni riportate, sono tutte indicizzate sul contrappunto del detto e del non-detto, di ciò che è sobrio dire in poesia e di ciò che non conviene riferire, ma per una intima ritrosia del dire in ordine a ciò che non può essere pronunciato e che viene lasciato alla immaginazione del lettore che completa con l’atto della lettura ciò che «manca» alle composizioni testuali. L’etica di questa poesia sta qui: nel non poter dire tutto ciò che si vorrebbe poter dire; da questa censura interiore nasce, appunto, la poesia di Ottavio Rossani. Continua a leggere

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“Il Barone rampante” di Italo Calvino letto da Umberto Eco

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

italo calvino

italo calvino

da Il Sole 24 Ore – Domenica 26 maggio 2013

«Il Barone rampante» nel 1957 forgiò in Eco l’idea del ruolo dell’intellettuale, né organico né pifferaio della rivoluzione ma distaccato osservatore critico della realtà.

Vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.
Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che II visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista.

Roma, 1960. Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini con Italo Calvino al Caffe' Rosati in piazza del Popolo

Roma, 1960. Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini con Italo Calvino al Caffe’ Rosati in piazza del Popolo

 Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente II sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.
Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi II barone rampante nel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, «catturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e di diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.
Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo. Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica – il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.

umberto eco5 Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme «Il menabò», una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, «Il Politecnico». Ovviamente venne considerato un traditore del proletariato. «Il Politecnico» morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.

Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dal Barone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.

calvino-italo11 Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sè, che assume come proprio fardello». Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società. Continua a leggere

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Nina Berberova QUATTRO POESIE (San Pietroburgo 1901- Philadelphia 1993)

nina berberova Vladislav Chodasevic

nina berberova Vladislav Chodasevic

 

nina berberova hotel jardins d'eiffel

nina berberova hotel jardins d’eiffel

nina berberova adelphitraduzioni di Maurizia Calusio
Nina Berberova Antologia personale 1921-1933 Passigli, 2006

È morta nel 1993 negli Stati Uniti la scrittrice nata a San Pietroburgo nel 1901. Racconta, da raffinata testimone, la cultura e gli eventi di un secolo TITOLO: Nina Berberova, una leggenda del Novecento. L’Ottobre e la tragedia degli artisti. La fuga nella boheme parigina e l’America Visse la Rivoluzione e il dramma che travolse poeti come Esenin e Majakovskij. Tornò in patria solo nell’89. “Che tristezza, che squallore” . La scrittrice russa Nina Berberova è morta domenica a Filadelfia, in Pennsylvania. La Berberova, 92 anni, era in cura da qualche settimana per una caduta che le aveva procurato una commozione cerebrale. “NEW YORK. Io appartengo a quella categoria di persone per le quali la casa in cui sono nate e cresciute non è mai diventata il simbolo della protezione, del fascino e della solidità della vita; anzi la sua distruzione mi ha portato una gioia immensa. Io non ho né “tombe di famiglia”, né i resti di una casa distrutta, nel cui ricordo trovare conforto nei momenti difficili…”. Così Nina Berberova, scrittrice russa nata nel 1901, passata dalla Rivoluzione all’emigrazione di Parigi, all’occupazione nazista, alla fame, a un lavoro oscuro in America, all’insegnamento universitario, alla fama letteraria, fino alla morte dell’ altro ieri. Continuava a vivere da sola, come aveva fatto per anni a Filadelfia. “…Il mio adattarmi al mondo provoca in me la felicità, perché nel mondo ci sono gli elementi dell’ordine interno e dello sviluppo”. Nata in una famiglia “liberale”, prima della Rivoluzione d’Ottobre, la Berberova narra della propria vita in quello che resta il suo più bel libro, “Il corsivo è mio” (Adelphi 1989).

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

 L’incontro con la poetessa Anna Achmatova e con Aleksandr Blok: “La Achmatova indossava un vestito bianco con il colletto alla Maria Stuarda (come si usava allora), era sottile, bella, elegante, con i capelli neri…ci fu un altro intervallo…scorsi all’improvviso Tatjana Viktorovna a braccetto con la Achmatova: “È la ragazza di cui le avevo parlato. Scrive poesie…”. Quando incontrai la Berberova nella sua casa di Filadelfia, a picco sulla città vecchia, mi raccontò , facendo un po’ la civetta tra le rughe di un viso arguto e stagionato dagli orrori del secolo: “Nel 1989 sono tornata in Russia per la prima volta dal 1922. Che squallore, che tristezza. Casa dei miei a Leningrado grigia, sporca, fumosa. Ho fatto un giro, poi via. Mi stupivano le ragazzine, a Mosca e a Leningrado. Si facevano vicine vicine e mi volevano toccare, come fossi Madonna. Perché secondo lei?”. “Signora”, le dissi, “le ragazzine volevano toccarla perché lei ha toccato la Achmatova, Blok, ha conosciuto Gorkij ed è stata l’amante del poeta Vladislav Chodasevic. Volevano carezzare la vecchia Russia, la Santa Madre, la Storia, il Secolo che ci scivola da sotto i piedi”.

nina berberova giovane

nina berberova giovane

 

 

 

 

 

 

 

Quel giorno ci fu un tramonto così insolitamente prolungato,
nel cielo rosso erano nere le case e il nostro giardino deserto.
Quella notte il cuore non ce la faceva più per le innumerevoli stelle
e spalancammo le finestre sulla vasta notte caldissima.
E al mattino un vento leggero portò il fresco dei mari,
ci furono troppi colori per via dei glicini e delle rose in fiore.
E quella sera me ne andai, pensavo al nostro destino,
pensavo al mio amore, di nuovo – a me e a te.

nina berberova

nina berberova

 

 

 

 

 

 

Non serve questa discrezione,
ma come avrò il coraggio di dirlo?
A me è dato respirare
in una felicità non passeggera,
a me è dato vivere
in una giovinezza non soddisfatta,
e scegliere e amare
in una libertà fuorilegge.

nina berberova copertina passigli

 

P.P.M.

Prima del triste e difficile addio
non dire che non ci sarà un altro incontro.
Ho il dono segreto e strano
di farmi da te ricordare.
In un altro paese, nell’esilio lontano
un tempo, quando verrà il tempo,
ti ripeterò con un’unica allusione,
un verso, un moto della penna.
E tu leggi come il pensiero mio ha ridato
e le tue parole di un tempo e l’ombra,
guarda di lontano come ho trasfigurati
questo giorno o quello appena trascorso.
Quale altro incontro vuoi per noi?
Con un unico verso ti restituisco
i tuoi passi, inchini, sguardi, parole
di più da te non mi è dato. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa: KAREL KOSIK IL FILOSOFO DELLA PRIMAVERA DI PRAGA 

(Karel Kosík Saggi di pensiero critico 1964-2000 a cura di Gabriella Fusi e Francesco Tava, Mimesis, pp. 278 € 24)

 

 

Karel Kosik è nato a Praga nel 1926 ed è morto nel 2003 nella sua città di nascita, è stato uno dei testimoni ed interpreti più acuti del nostro tempo, ovviamente nella versione e dal punto di vista ceco-praghese. Protagonista centrale della Primavera di Praga, ha praticato una originale sintesi del pensiero di Heidegger e del giovane Marx culminata nell’opera «La dialettica del concreto», in particolare, ha analizzato il problema della «pseudoconcretezza» nell’epoca della globalizzazione. Il nucleo centrale del suo pensiero è la dialettica del concreto. Con le sue parole: «Nell’economia capitalistica, si verifica il reciproco scambio di persone e cose, la personalizzazione delle cose e la cosificazione delle persone».

L’elaborazione della teoria della dialettica del concreto risale al 1963 quando il giovane pensatore si misura con il problema del Totalitarismo nelle sue due varianti, del nazismo e del socialismo stalinista. Giovanissimo, si oppone al nazismo, viene catturato e rinchiuso nel campo di concentramento di Terezin, anticamera di Auschwitz. Subisce la repressione di Stalin. All’avvento del capitalismo, dopo il 1989, si sottrae al coro dei sostenitori del nuovo corso dell’economia neoliberista e viene di nuovo isolato dagli apparati culturali del suo paese. Adesso questa interessante raccolta di scritti del filosofo ci consegna la fisionomia di un intellettuale che non si è mai piegato alla dittatura della maggioranza. Belle e profonde le pagine di riflessione che dedica alla «Metamorfosi» di Kafka sull’uomo che cambia aspetto e si adatta alle idee maggioritarie di volta in volta in voga. E qui compare Milena Jesenska, l’amica di Kafka: «Il suo destino consiste nel fatto che, in quella situazione senza uscita che fu il breve periodo dell’autunno del 1938 all’autunno 1939, lei si è opposta contemporaneamente a tutte le tre forme del male allora presenti: sia al male del nazismo tedesco, sia al male del bolscevismo russo, sia al male della viltà europea di Monaco». Milena finì nel campo di concentramento di Ravensbruck, non stava mai in fila, si ribellava all’ordine imposto, come ci racconta Margarete Buber Neumann. Kosík aveva per lei il sentimento di un fratello per una sorella, e si batté per l’accettazione del valore dell’opera di Kafka che i funzionari intellettuali del socialismo reale vedevano come un piccolo borghese decadente.

La Primavera di Praga

Kosík era stato protagonista della Primavera di Praga quando i carri armati sovietici entrano in piazza Venceslao con i cingolati e i soldati sulle torrette dei carri armati T65. «La Primavera di Praga a suo tempo dovette essere soffocata, oggi deve essere minimizzata o lasciata cadere nel dimenticatoio: recava l’embrione di una alternativa storica». «Se l’esperimento cecoslovacco dovesse riuscire -scriveva nel 1968 Kosík – noi ci troveremmo di fronte alla prova pratica che il sistema della manipolazione generale può essere superato, e in ambedue le forme storiche oggi dominanti: tanto in quella dello stalinismo burocratico quanto in quella del capitalismo democratico».

 

duchamp-bicycle-wheel

duchamp bicycle wheel

La costruzione dell’embrione di una alternativa storica è il compito che Kosík assegna al suo marxismo rivoluzionario e umanistico: «La filosofia è la festosa iniziazione ai segreti della realtà: perciò è, al tempo stesso, critica della mera apparenza, è distruzione della pseudoconcretezza onnipervasiva che come un chiaroscuro di verità e di inganno plasma le nostre vite, una pseudoconcretezza onnipervasiva in cui siamo risucchiati, che assorbe tutte le nostre energie, smarriti in una prassi di “cura” che ci impedisce di vederne il carattere derivato, sociale, non fisso… La cura è la mera attività dell’individuo sociale isolato» che, accecato dalla pseudoconcretezza, non riesce a vedere le cose come prodotti sociali, che siano le merci, lo Stato, il mercato etc.

In ceco, rammenta Kosík, la parola mercato risulta dalla combinazione di tre lettere magiche TRH, a cui tutti celebrano un rito che ha del magico.

«La caratteristica del tempo in cui viviamo non è  il mercato, bensì la globalizzazione capitalistica, il dominio planetario del supercapitale. Chi confonde il mercato con il capitalismo nega l’esistenza del supercapitalismo come potenza planetaria. Per esso il mercato è soltanto uno strumento subordinato al proprio funzionamento». C’è una superpotenza che governa oggi il mondo, il latifondo planetario, reclutata fra i nuovi ricchi e che «unisce imprenditorialità con la mafiosità, la truffaldinità con la criminalità organizzata. La lumpenborghesia è un’enclave combattiva, apertamente antidemocratica all’interno di una democrazia funzionante, ma imperfetta e irresoluta». La critica della «pseudoconcretezza», dell’apparenza del reale, resta l’incompiuto dovere della filosofia. Questo è il messaggio della riflessione che Kosík venne elaborando a metà degli anni Novanta con il dichiarato intento di combattere la omologazione del pensiero dei nostri tempi. Il «Presente» attende dunque la sua «Primavera»: «Ciò che libera, germoglia e matura lentamente, sullo sfondo, e all’inizio si manifesta come esiguità risibile. Ma la storia ci fornisce esempi di inizi in-significanti dai quali sono derivati grandi avvenimenti. Per quanto possa sembrare esiguo, importante è l’inizio».

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Antonio Coppola   DODICI POESIE EROTICHE “Specchio di malie”

antonio coppola

antonio coppola

 

Laura Antonelli nel film mamma mia come sono caduta in basso

Laura Antonelli nel film mamma mia come sono caduta in basso

Antonio Coppola è nato a Reggio Calabria vive a Roma dal 1970. Si laurea all’Università di Roma La Sapienza in Lettere Moderne, giornalista-pubblicista dal 1972, ha scritto su quotidiani Nazionali, quali: Momento sera, Avanti, Il Secolo, Giornale d’Italia, Giornale di Calabria e riviste: La fiera Letteraria, Il Veltro, Libri e riviste d’Italia, La Vallisa, Capoverso, Lettere Meridiane, Quaderni di Rassegna Sindacale e Medicina dei Lavoratori (editi dalla CGIL). Ha pubblicato Terre al bivio; Frontiera di maschere (con pref. di Saverio Vollaro) in successione: Caro Enigma, A colloquio con il padre, La memoria profonda, Da Emmaus le parole, Morte ad Halabja, Gli angeli del Bonamico, La Poesia nella Scuola (incontro con l’autore), L’ombra dei gigli infranti, Nei vivai di Dio. Di recente (a cura di Coppola) esce La luce trasgressiva e, successivamente, Voci contro nella poesia contemporanea italiana e straniera. Ha fondato ed è direttore responsabile de I fiori del male prima “foglio di poesia” poi Quaderno quadrimestrale di Poesia Cultura letteraria e Arte. Gli sono state dedicate due monografie di approfondimento alla sua opera poetica, la prima di Maria Grazia Lenisa, l’altra, più recente, da Francesco Dell’Apa. Ha scritto saggi su autori italiani e stranieri.

 

laura antonelli sul set

laura antonelli sul set

Oh amore, mia cascata
di voglie non m’impedire
che nulla avvenga:
io sono già sogno,
vento di Calabria
che si prepara alla notte.
 

 

 

 

 

Un secolo fu soltanto ieri,
poi fummo turbine
e dardo di Cupido amante;
ora qualunque omaggio
mi venisse darò un poco
di furia del mio sangue.

 

laura antonelli sul set

laura antonelli sul set

 

L’onda va tra i tuoi seni,
giunge a me il profumo
dei meli, su gli arenili
la bellezza di Eurione
languì vicino al mio corpo.

 

*

 

Mia fanciulla dai seni azzurri
scaldami e giaci sopra me,
come è intensa la vita,
in che modo il passar degli anni
attira visioni che tornano amore.

 

laura antonelli

laura antonelli

 

 

 

Brucio di te, amata amante
e ti guardo mistero su me,
fumo in me trattengo
posseduta donna, inclita.

 

*

 

Non so di te che l’impercettibile
inconscio, unica malia
gli occhi felini da preda possibile;
oh vicina o lontana amata
che muovi e sorpassi il tempo! Continua a leggere

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Sauro Albisani QUATTRO POESIE da “LA VALLE DELLE VISIONI” (Passigli, 2012)

cop sauro Albisani la-valle

sauro albisani

sauro albisani

Sauro Albisani (Ronta 1956), poeta e drammaturgo, ha curato l’edizione delle Poesie del sabato (1980) di Carlo Betocchi, al quale è stato profondamente legato, come amico e discepolo. Ha scritto con Miklos Hubay il dramma I segugi da un frammento sofocleo, pubblicato su “Sipario”. È stato assistente alla regia di Orazio Costa Giovangigli, che egli considera, dopo Betocchi, il suo secondo maestro. A Costa Albisani deve alcune memorabili letture drammatiche del proprio teatro e importanti interventi critici. Ha pubblicato drammi: Campo del sangue (1987), Il santo inganno (1997); saggi: Il cacciatore di allodole. Per Carlo Betocchi (1989) Ippocrene. Riflessioni sull’ispirazione poetica (1991), Verso casa. Soliloqui sulla poesia (1992) Cieli di Betocchi (2006); poesia: Terra e cenere (2002), La valle delle visioni (2012), Orografie (2014); traduzioni: Vangelo secondo Giovanni (1994), Marziale Roma liberatutti (2010).  Premi: Lericipea, Viareggio-giuria e Gradiva-New York.

Sito ufficiale: http://www.sauroalbisani.com

sauro Albisani 4

 

 

 

 

 

 

 

SULLA FELICITA’

Andavano da Cervia a Cesenatico
sulla battigia quando la marea
si ritira e rimangono le arselle
a boccheggiare nella sabbia. Il rischio,
pensava, è di forare e dover spingere
la bici a mano col peso del bambino.
Erano troppo piccoli per chiedergli
di farla a piedi.
Lui pedalava pensando: verrà,
verrà prima o poi quella che chiamo
felicità e non so cosa sia
se non, immagino, sentirmi a mio agio
in questo corpo. Un surf
là davanti faceva una cosa sola
di una vela e di un uomo. Il primogenito
pensava alle navi. La mamma
pensava alla cena pedalando. L’ultimo nato,
nel suo seggiolino, accompagnava la corsa
come tutte le sere
gorgheggiando. Ancora non parlava. L’uomo,
inquieto, stupidamente, continuava a pensare
alla felicità, credeva d’avere solo dei pedali
sotto le suole.

Che cosa aveva sotto le suole,
sul manubrio e a destra, dalla parte del mare,
e lì davanti, a pochi metri, fra i capelli
di quella giovane mamma
lo avrebbe capito solo molti anni dopo
provando a fare una poesia. Continua a leggere

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CHIARA MOIMAS DIECI POESIE SULLA METRO di PARIGI (Inediti)

Chiara Moimas

Chiara Moimas

parigi metro 4Chiara Moimas è nata e vive a Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia. E’ stata insegnante ed è attualmente impegnata in un’organizzazione sindacale che si occupa di docenti.
Ha ottenuto il Premio speciale M.Stefani al concorso di poesia erotica di Venezia 2012;l’Attestato di merito ad “Un sonetto per Siena” 2013; Primo premio poesia “La seduzione e l’eros” Roma 2013;
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Metamorfosi:donna (1989), L’angelo della morte e altre poesie (Scettro del Re, 2005). CURRICULUM VITAE” (Joker edizioni, 2012); premio della critica concorso “Le nuvole – Peter Russel” 2014. Sue poesie su riviste, antologie e siti web. Scrive su pubblicazioni locali in dialetto bisiac.

parigi metro2

METRO PARIS

IL VENTRE DI PARIGI

Varca le porte
di floreali intrecci,
scendi negli antri grigi
e penetra con il mètro
nel “ventre di Parigi”.
Da un luogo all’altro
viaggia con gran velocità;
avesse potuto farlo Zola!
Avrebbe descritto
con magica penna
la fervida vita
sotto la Senna,
avrebbe ritratto
con grande maestria
la fretta, la paura, la follia.

Cunicoli bui ed accese stazioni
dove ognuno insegue mete e direzioni
ed impilato su scale semoventi
accede al regno del sole e dei venti.

 

parigi biciLINEA 1

La Dèfense (Grande Arche) – Chateau de Vincennes

CHATEAU DE VINCENNES,

maniero medievale,
da qui la 1 (uno) Parigi risale.
Sosta obbligata
al “Train Bleu” de LYON
per la degustazione del bon ton
e per un assaggio di rivoluzione
una ed ancora un’altra stazione.
Libertè si grida alla BASTILLE
e l’eco giunge sino
all’ HOTEL DE VILLE.
La Storia nasconde il volto,
esibisce l’audacia
come a LOUVRE la pietra
di Samotracia,
mentre il pensiero sfida
le regole del volo
e alla DEFENSE s’inarca,
superbo e solo.

parigi metro
LINEA 2

Nation – Porte Dauphine

Quattro passi
senza fretta,
Montmartre è lì
che aspetta.
Al Sacro Cuore
il métro non sale,
la linea 2
ti abbandona alle scale!
Ma PIGALLE non è
come tutte le stazioni
ti getta nelle pale
di mille tentazioni…
…che tu rifuggi
(intellettuale impegnato)
e scendi a BELVILLE
per sentirti appagato;
qui non c’è più niente
così come era prima,
ma il passerotto (piaf) ancora
saluta la mattina. Continua a leggere

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Fernando Pessoa  UNA POESIA È uma brisa leve  “È una brezza leggera” letta da Walter Siti 

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da  la Repubblica 16 febbraio 2014

Fernando Pessoa  È uma brisa leve (da Poemas 1921-1930, a cura di Ivo Castro, 1922)

.

 

Pessoa

È una brezza leggera
che l’aria un momento ebbe
e che passa senza avere
quasi avuto bisogno di essere.

.
Chi amo non esiste.
Vivo indeciso e triste.
Chi volli essere già mi dimentica.
Chi sono non mi conosce.

.
E in mezzo a questo l’aroma
portato dalla brezza, mi affiora
un momento alla coscienza
come una confidenza.

*

.
È uma brisa leve
que o ar um momento teve
e que passa sem ter
quase que tido ser.

.
Quem amo não existe.
Vivo indeciso e triste.
Quem quis ser já me esquece.
Quem sou não me conhece.

.
E em meio disto o aroma
que a brisa traz me assoma
um momento à consciência
como uma confidência.

*

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La prima strofa è la più difficile da tradurre: c’è una brezza così leggera che è come un’affezione dell’aria, come se l’aria avesse avuto un brivido. Passa senza “ter” – “ter”, cioè tenere, in portoghese significa anche avere, come nei nostri dialetti meridionali (“tenho fome”, ho fame); ma esprime anche un dovere (“tenho que estudar”, devo studiare) e inoltre può funzionare da verbo ausiliare (“tenho dormido”, ho dormito). Qui il gioco in rima è tra i due ausiliari, poi c’è un bisticcio legato a ben tre forme del verbo tenere (“teve”,” ter”, “tido”): la brezza passa senza quasi aver avuto bisogno di essere. La brezza è stata avuta ma non ha avuto, è stata passiva e non attiva, e proprio nella sua passività ha vinto sull’aria che voleva trattenerla. Meno si esiste e più si è liberi. Se c’è un segreto in Pessoa, è dire con leggerezza le cose più gravi.
Questo testo sembra un idillio insignificante: una folata di vento, un po’ di profumo e di tristezza. Ma Pessoa non si limita a descrivere: lui è quella folata di vento. Come confessa in una lettera, una delle sue paure è sempre stata che la propria riconosciuta passività spirituale diventasse passività sessuale. Come la brezza, anche lui oscilla tra la tentazione di essere tutto (superiore al timore e alla speranza) e la voglia di sparire, di non essere niente. “Chi amo non esiste”’ – ma in altri testi ammette che essere amato gli dà fastidio. La rima “triste/esiste” gli torna sotto la penna spesso, il fatto di esistere è tristezza. L’io è un incidente momentaneo, il vuoto d’aria che si crea tra una proiezione di sé e l’altra: “chi volli essere già mi dimentica”. La tipica frase scettica “io non conosco chi sono” si rovescia in un inquietante “chi sono non mi conosce”. Continua a leggere

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UNA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI “(incomunicazione)” (1967) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoStrilli De Palchi Fuori dal giro del poeta

Strilli De Palchi La poesia anticomplessa e commerciale

Citazioni dall’opera di Alfredo de Palchi, grafica di Lucio Mayoor Tosi

(incomunicazione)

frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –

(stesura del 1964)

 

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Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa 2011, Roma

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi.

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alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, claudia marini e luigi manzi – Roma, 2011

È vero che la poesia e la pittura contemporanee si prestano più di ogni altra arte ad esemplificare la perdita del senso o smarrimento del senso. La poesia classica, fino a L’infinito (1821) di Leopardi, si prestava ad una sola interpretazione, il senso era innervato nell’atto della lettura. Con l’avvento del Moderno accade qualcosa di apparentemente insolito e disturbante, di inspiegabile: il testo poetico perde la sua centralità, non è più la sede del senso, il senso non è più rinvenibile mediante una e una sola interpretazione ma sarà visibile attraverso il conflitto delle letture e delle interpretazioni, esso si dà a vedere soltanto mediante la problematica del conflitto. Il senso sbircia tra i segni del testo (poetico, musicale, figurativo), tenta di affiorare alla superficie, ma si ritrae, si allontana, tende al nascondimento. La struttura del senso esisterà soltanto nella tensione tra l’affioramento e il nascondimento, essa non si dà più come scoperta della «verità», perché non c’è più alcun «contenuto di verità» stabile e definitivo, ma ci si trova davanti ad un contenuto di verità instabile, aleatorio, effettuale, eventuale, residuale. La struttura del senso si dà soltanto tramite il proprio carattere residuale, di scarto; questo è la sua marca, il suo segno di autenticità o, quantomeno, segno della sua provenienza autentica, cioè che proviene dall’autore.

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Si è così affermata la convinzione secondo cui il testo (poetico, figurativo, musicale etc.) si presta a molteplici letture e interpretazioni, il testo diventa una struttura significativa attraversata dalle molteplicità delle letture. Quanto andiamo dicendo diventerà evidente per la poesia italiana già negli anni Sessanta. Sono gli anni chiave. Sono anni di svolta repentina. Sono anni di boom economico, la società di massa è alle porte, la piccola borghesia ambisce ad uno status di benessere, sarà l’invasione degli elettrodomestici a fare la prima e unica rivoluzione della società italiana dello stato unitario,  la faranno il televisore, la lavatrice e il frigorifero. Se leggiamo la poesia riportata, che fa parte della raccolta Sessioni con l’analista (1964-1966) di Alfredo De Palchi, abbiamo la esemplificazione di come il linguaggio poetico sia diventato il terreno di scontro di fortissime tensioni testuali, di fibrillazioni emotive, di disconnessioni metriche, sintattiche e semantiche. Ne La buia danza di scorpione, scritto dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951, è preponderante l’atto dissacrante della gestualità ingovernabile, il testo è l’espressione del gesto dissacrante; con l’opera successiva, con Sessioni con l’analista, che sarà pubblicata in Italia nel 1970, lo smarrimento del senso e dell’interrogazione che lo segue diventa fatto testuale, oggettivo. In una parola l’atto della scrittura si è de-soggettivato.

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POESIE RUSSE SUGLI STRUMENTI MUSICALI TRADOTTE DA PAOLO STATUTI – Vladimir Majakovskij, Mirra Lochvizkaja, Ljudmila Desjatnikova

majakovskij-brik-pasternak

majakovskij-brik-pasternak

Majakovskij lilia Brik jalta-1926

Majakovskij lilia Brik jalta-1926

 

 

 
Vladimir Majakovskij (1893-1930)

 

Il violino e un po’ nervosamente
Il violino coi nervi tesi, supplicando,
a un tratto scoppiò in pianto
così infantilmente,
che il tamburo non resse:
“Bene, bene, bene!”
E lui stesso si stancò,
non finì di ascoltare il violino,
sgattaiolò in fretta
e se ne andò.
L’orchestra estraneamente guardava
il violino che si sfogava nel pianto
senza parole
senza tempo,
e solo chissà dove
uno stupido piatto
strepitava:
“Cos’è?”
“Com’è?”
E quando il flicorno –
cornoramato,
sudato,
gridò:
“Scemo,
piagnone,
asciugati!” –
io mi alzai,
barcollando, mi arrampicai tra le note,
tra i leggii curvi per lo spavento,
chissà perché gridai:
“Mio Dio!”,
mi buttai al collo di legno:
“Sai una cosa, violino?
Noi ci somigliamo tremendamente:
ecco anch’io
urlo –
ma non so dimostrare nulla!”
I musicisti ridono:
“S’è invischiato e come!
E’ venuto dalla fidanzata di legno!
Che testa!”
Ma io – me ne frego!
Io – sono un bel tipo.
“Sai una cosa, violino?
Dai –
Vivremo insieme!
Sì?” Continua a leggere

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INDAGINE INTORNO AL “SUICIDIO” DI VLADIMIR MAJAKOVSKIJ a cura di Antonio Sagredo e UNA POESIA: ” Alcune parole su mia madre”

 

manifesto

manifesto

manifesto di Rodcenko

manifesto di Rodcenko

 

majakovskij

majakovskij

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alcune parole su mia madre                                               

 

Io ho una madre su carta da parati fiordaliso.
E passeggio in pavonesse variopinte,
torturo, misurando col passo, arruffate margherite.
La sera prende a suonare su oboe arrugginiti,
mi avvicino alla finestra,
credendo,
che vedrò di nuovo
una nuvola
posatasi
sulla casa.
E alla mamma malata
passano i bisbigli della gente
dal letto all’angolo vuoto.
La mamma sa –
che questi sono mucchi di pensiero demente
che strisciano fuori da dietro ai tetti della fabbrica Šustov.
E quando la cornice della finestra insanguinerà
la mia fronte, incoronata da un cappello di feltro,
io dirò,
scostato con voce di basso l’ululato nel vento:
“ Mamma.
Se io avrò compassione
del vaso del vostro tormento,
pestato dai tacchi di una danza di nuvole, –
chi carezzerà le mani d’oro,
storte da una insegna presso le vetrine “Avanzo”? .

1913

(traduzione di A.M. Ripellino)

majakovskij volto

Nel capitolo Enciclopedia russa, in Cimiteri – Storie di rimpianti e di follie di G. Marcenaro, B. Mondadori, 2008, è descritta la storia che Majakovskij ebbe con Elizaveta Petrovna (nata in un paese degli Urali) già sposata nel 1923 con l’inglese George Jones, e che una volta in America diviene Helen Jones, Elly Jones) da cui sarebbe nata la loro figlia (dapprima Patricia Jones Thompson) poi Elena Vladimirovna Majakovskaja. Il poeta incontra Elly Jones a New York nel 1925. A Nizza nel 1928 Majakovskij incontra Elly e sua figlia Elena. Questi da adulta più volte si recherà a Mosca, sotto Patricia Jones Thompson, al cimitero di Novodevičij, dove intorno alla tomba di suo padre spargerà le ceneri di sua madre Elly.

Vari sono i motivi  e  fortissimi i dubbi circa il suicidio di Majakovskij: le riflessioni di Cesare De Michelis nel suo articolo, sul quotidiano “la Repubblica” del 13 aprile 2000 riportano anche quelle ricostruzioni “verosimili“ (elaborate tra il 1989 e il 1994) del giornalista-scrittore  Valentin Skorjatin che scrisse nel suo libro: “Il mistero della fine di Majakovskij”.

Elena Vladimirovna Majakovskaja

Elena Vladimirovna Majakovskaja

E iniziano:

1) l’ultima lettera del poeta fu scritta a matita (cosa mai fatta) perché preferiva la penna;

2) la lettera è datata 12 aprile e non 14 aprile, e fa pensare che il fatto doveva accadere il 12, ma poi accadde il 14;

3) i versi nella lettera riprendono frammenti di due anni prima (1928);

4) il tono della stessa non è il suo e non ha mai scritto nulla di simile, così dichiarò l’amico regista Ejzenštejn in appunto

Elena Vladimirovna Majakovskaja

Elena Vladimirovna Majakovskaja

trovato nel 1940 da Valentin Skorjatin;

5) il visto rifiutato al poeta per Parigi (ma non è vero per accuratissime ricerche), ma il poeta decise di non più partire lo stesso;

6) le dichiarazioni piene di enigmi  contraddizioni della Veronika Polonskaja (l’ultima sua donna) alla polizia;

7) perché tre agenti dei servizi segreti più la polizia per le prime indagini?;

.

carmelo bene recita poesie di majakovskij

carmelo bene recita poesie di majakovskij

8) la posizione del cadavere, e la testa rivolta verso la porta o verso la finestra?; 8) quali macchie di sangue si scorgevano dalla camicia?;

10) in che direzione era stato esploso il colpo e quali segni c’erano sul volto?;

11) chi era l’autista che lo riportò a casa dopo una serata passata dal suo biografo Vasilij  Kataev?, e chi era il commesso che portò al poeta dei libri il mattino del 14 aprile?;

12) nel verbale della polizia del 14 aprile si legge che ai piedi del morto era stata rinvenuta una mauser col n. 312045 (che il poeta non aveva mai posseduto), ma nei rapporti dei servizi si dice che il poeta s’era sparato con la sua browning n. 268979, poi consegnata agli atti dell’inchiesta;

scatto di Rodcenko

scatto di Rodcenko

13) le trame dei due Brik verso il poeta (poi che una vera passione per una donna altra non avrebbe dato loro più la possibilità di controllare il poeta!) passano attraverso due loro donne: Tat’jana Jakovleva presentata al poeta dalla sorella di Lilja, Elsa Triolet (moglie di Aragon); e poi Veronica Polonskaja – presentata da Osip Brik al poeta nel maggio 1929, e che il governo sovietico esclude dalla eredità majakovskiana, perché? Perché sua agente segreto?!;

14) anni prima i due Brik mettono il poeta in contatto con due agenti del OGPU: Jakov Agranov e Lev El’bert (primo e ultimo firmatario del necrologio apparso sulla Pravda del 15 aprile).

majakovskij e lilia brik

majakovskij e lilia brik

Majakovskij sembra aver confidato all’amico poeta Michail Svetlov il timore di essere arrestato: questo fa capire come i rapporti tra il poeta e il potere sovietico erano tesissimi! Ma la trappola si sta chiudendo: i due Brik se ne vanno all’estero, e sapranno a Berlino del suicido, ma da chi?.

Il giorno 14 aprile: l’agente El’bert gira  nella casa di coabitazione coi Brik, mentre il poeta se ne va, o si rifugia?, nel suo studio; c’è una uscita di servizio dalla cucina… la Polonskaja scende le scale verso le 10,15 dopo aver parlato col poeta… la porta dello studio si apre e compare qualcuno con la pistola, una mauser?,  in mano… il poeta cade e si rompe il setto nasale (come risulterebbe dalla maschera mortuaria). Questo qualcuno, dopo aver messo la lettera del poeta sulla scrivania e la pistola accanto al corpo fugge dalla porta di servizio; scende in strada e poco dopo  incontra due amici del poeta (Michail Kol’cov e Serghej Trat’jakov) già avvertiti, ma da chi?, dal secondo agente Agranov?; il qualcuno ritorna indietro con quei due fino alla stanza dove giace Majakovskij. Questa ricostruzione la ritengo pochissimo fantasiosa: essa per me si avvicina molto a quella io ho sempre pensato come vera o veritiera secondo le informazioni che allora possedevo. Il libro dello Skorjatin riporta anche alcune obiezioni dello studioso svedese Bengt Jangenfeldet, che nel 1985 pubblicò da Mondadori il carteggio tra il poeta e Lilja Brik. — Riferii le mie perplessità a Angelo Maria Ripellino (parecchi mesi prima della sua morte: 21 aprile del 1978), circa il fatto che il poeta si fosse ucciso di mano propria; e se così sarebbe stato costretto; e se non così, ucciso per mano altrui – che per me è più veritiero -. Lo slavista, ricordo, che mi fissò come allibito, era turbato, non so se a lui piacesse di più la morte romantica: il suicidio! Certo è che aveva i suoi forti dubbi se mi rispose più o meno:  “ si, è possibile, sia andata così, ma è così terribile! E il terribile era una cosa normale, consueta, a quei tempi!”.

 Majakovskij seduto   Ancora nel febbraio del 1978 dissi a Ripellino, durante una passeggiata in auto per Roma, che non ero molto d’accordo col “presagio” e che, invece, Majakovskij fu indotto ad uccidersi o fu addirittura ucciso! – Ripellino, non mi rispose. Così scrisse  Pasternàk: ”Secondo la mia opinione,  Majakovskij si è sparato per orgoglio, per aver condannato qualcosa in sé, qualcosa con cui non poteva  conciliarsi il suo amore proprio”; in  Pasternàk, Autobiografia, op.cit. p 77.

Ma c’è da restare di stucco se già nel poema del 1916-17 Uomo (*)(quadro: Majakovskij ai secoli) il poeta stesso ha il presagio dello stato dei suoi sentimenti in cui avvenne il suo suicidio; i versi recitano:

Questa è via Žukovskij?… Questa è via Majakovskij da millenni:/qui si è sparato davanti alla casa della donna amata”.

Lilia Brik

Lilia Brik

   Il rifiuto della sua ultima donna, Veronika Polonskaja (che se ne esce dalla casa del poeta quasi sbattendo la porta) di vivere stabilmente con Majakovskij (che l’aveva implorata di restare con lui) fu soltanto l’ultima concausa che lo portò pochi istanti dopo a spararsi. – Non si sa in effetti cosa pensare. Pesa su Majakovskij tutta una tradizione (quasi fosse obbligato a rispettarla!), una serie di morti di poeti: da Puškin in poi… suicidi mascherati da omicidi!

Ma la figlia di Majakovskij [Elena Vladimirovna (Patricia J. Thompson)] afferma: “Sur le suicide de Maïakovski, Patricia J. Thompson a une version intéressante. Pour elle, un homme de cette trempe ne pouvait mettre fin à ses jours pour une histoire sentimentale”. ( intervista del 26 ott. 2004). Continua a leggere

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FASLLI HALITI – POESIE SCELTE a cura di Gëzim Hajdari

gezim hajdari

gezim hajdari

(Tratto dal saggio Gjëmë.Genocidi i poezisë shqipe/Epicedio albanese di Gëzim Hajdari. Shtëpia botuese Mësonjëtorja, Tirana 2010)

Faslli Haliti è nato nel 1935 a Lushnje. Si è diplomato al Liceo Artistico. All’università statale di Tirana ha studiato Lingua e Letteratura Albanese.
E’ vincitore di importanti premi letterari. Ha pubblicato numerose raccolte, tra cui: Oggi, Messaggi di campagna, Non so tacere, Addio miei capitani, Rovescio, Delirio, Se n’è andato, nonché autore di diversi saggi. Ha tradotto in albanese Esenin, Cechov, Imenez, Prevert, Vaghenas.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Il poeta di Lushnje Faslli Haliti (1935) credeva in un socialismo dal volto umano. Fece la sua apparizione nel panorama poetico albanese con la raccolta Sot (Oggi), una delle più interessanti degli anni ’60. Egli resta uno dei poeti più originali della poesia contemporanea albanese. La sua poesia, che si distingue subito per l’intensità delle parole e la particolarità dello stile e del tono, è piena di vita e affonda le radici nelle profondità del pensiero mitico. Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano il cuore della burocrazia comunista. Forse la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi:

Faslli Haliti

Faslli Haliti

gezim hajdari

gezim hajdari

«Lui aspetta che tiri vento/ Non per vedere gli alberi spogli/ Non per veder cadere le foglie gialle/ Ma per far alzare il lembo della giacca/ E far vedere la pistola nella cintola./ Lui aspetta che venga la primavera/ Non per mietere e falciare/ Ma per togliere la giacca/ E far vedere sotto la giacca/ La pistola ».

Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista e aspramente criticato durante il IV° plenum del PCA nel ’73. All’autore venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi e fu mandato in campagna per essere «rieducato».
Per diversi anni il professore d’italiano e di francese lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore ed indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Quest’ultimi organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista./ Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine/ con il pugno della classe operaia/ spezzate i denti/ ai compagni/ Per spezzarli ci vogliono pietre/ che non abbiamo » I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale « Shkëndija» (La scintilla) , organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono i poeti Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e il regista di teatro Tahsin Xh. Demiraj.
In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha in per protestare contro la condanna del poeta Haliti e Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino .
L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella rivista che curava, « Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».
Faslli Haliti 4Nonostante tutto questo il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo) e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola “una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria” . Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» (Il percorso del Partito» (Rruga e Partisë), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) . Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi.
Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La presentazione del libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Ricordo quel pomeriggio.
Solo dopo il crollo del regime Haliti è riuscito a pubblicare i suoi libri e la traduzione in albanese di vari autori italiani, russi e francesi. Continua a leggere

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La poesia di Mariella De Santis “La cordialità (Poesie 2005-2013)” – Commento di Giorgio Linguaglossa

 

acrilico su tela, anni Sessanta, di Giuseppe Pedota

acrilico su tela, anni Sessanta, di Giuseppe Pedota

Mariella DeSantis copertina  Mariella De Santis La cordialità (Poesie 2005-2013) Nomos, Milano, 2014 pp. 116 € 14

La scrittura di Mariella De Santis è interna ad una campitura domestica e diaristica, incede a rallentatore, indugia su alcuni particolari inosservati del «quadro» che improvvisamente ritornano alla mente per abreazione, che sfuggono alla distrazione dell’io; parte spesso da eventi del quotidiano per introdurre delle «variazioni», delle «deviazioni». La cordialità è un ossimoro in re, è la cordialità della scrittura poetica che mima il discorso suasorio, insegue il discorso asseverativo; suo compito è scavare nei gangli e nei cunicoli delle campiture non addomesticate del quotidiano, nelle fratture che si aprono nella falsa coscienza del quotidiano. Il punto convincente del libro è la consapevolezza che la poesia si costruisce con i mattoni del quotidiano  ma anche con uno sfondo simbolico  all’interno del quale possa scoccare l’evento: uno spazio di compresenza e di  contaminazioni del poetico e dell’impoetico. Mariella De Santis intende la poiesis come un luogo contaminato, zona incongrua. Non c’è mai una «separazione» tra il linguaggio poetico e tutto ciò che sta all’esterno di esso come «comunicabilità» tra il poetico e l’impoetico come tra vasi comunicanti.

roma donna acconciatura 3Se la forma di abolizione  del mondo quaternario, cibernetico e combinatorio, è l’implosione, all’interno della minima entropia dei microcosmi affettivi ed emotivi entro i quali questa poesia si muove, a ciò corrisponde l’assottigliamento dei materiali «interni» ed «intimi», così consueti e familiari un tempo lontano alla poesia lirica.

Dai rappresentanti della poesia femminile del tardo Novecento Mariella De Santis eredita la camera con vista del proprio «vicolo privato». Non è un caso che la più evoluta poesia femminile degli ultimi vent’anni (ad esempio Giovanna Sicari con Sigillo del 1985,  Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992 e Giorgia Stecher con Altre foto per album del 1996), abbia privilegiato il resoconto del privato, il discorso diretto dell’io, più la metonimia che la metafora; a volte ha privilegiato invece il discorso traslato, il «taglio» sulla tela che non l’effusione narrativa, al contrario delle ultime generazioni della poesia al femminile, attente agli aspetti privati, gastronomici, ironici, sublimati o caricaturali del «quotidiano», con un linguaggio il più vicino possibile al «vissuto»: una scelta della via più agevole, quella senza ostacoli.

roma donna acconciatura 4In conformità a una linea ascendente stilistica, la poesia di Mariella De Santis saggiamente non elegge la via della comunione con la materia infiammabile contenuta nel serbatoio del proprio motore immobile,  ma una poesia che si apparenta alla linea ascendente della migliore poesia femminile dell’epoca della transizione dalla affluent society  alla affluent stagflation (economica, stilistica e spirituale). Là dove ad un basso tasso di inflazione dell’economia monetaria dell’epoca della stagnazione, corrisponde un incremento della detassazione degli istituti stilistici, un incremento delle scritture attraversate da una deterritorializzazione (magari in sé, a volte, fatto pure positivo) e denaturalizzazione dell’impianto testuale. Oggi siamo tutti diventati piccolo-borghesi nella misura in cui la piccola borghesia è finita, è questo credo il motivo che spinge in modo diffuso alla adozione delle tematiche piccolo-borghesi con relativo idioletto privato, da cui un concetto privatistico del fare poetico.

roma donna acconciaturaNon c’è in queste poesie di Mariella De Santis quell’effetto di deriva delle tematiche in tematismi e del privato in privatismo in chiave ludico-ironica, ludico-iconica e scettico-urbana, con consentanea derubricazione in chiave minimalista del discorso poetico. È questo un punto di forza dei testi.

C’è da dire che una ragione ci dev’essere se la più consapevole poesia femminile già dagli anni Novanta, invece di imboccare la via della detassazione intensiva (diretta e indiretta) degli istituti stilistici pregressi ha eletto l’elezione del genere della poesia-confessione ad alto consumo di combustibile stilistico, dove la lingua «privata» è funzione e finzione di una posizione di «autenticità», di contro all’uso sconsiderato e acritico di idioletti e lingue «privatissime», di tematiche privatistiche (tipiche di una certa clericatura), proprie di una cultura che nel frattempo andava al macero della propria irrilevanza culturale, che scriveva in una sorta di «latino» commestibile e comprensibile da Gorizia a Lampedusa e traducibile nelle esperienze denaturate di ogni latitudine.

                               (Giorgio Linguaglossa)

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CORDIALITA’ (poesie 2005- 2013)

Ammuina      L’Imperatrice disse all’imperatore:    “Ho ricevuto in dono un libro bellissimo”.    “Di cosa parla?”    disse l’Imperatore all’Imperatrice.    L’Imperatrice strinse le rosse labbra sottili sino a che furono livide.    “Di cosa parla?”    chiese ancora l’Imperatore all’Imperatrice.    L’Imperatrice sospirò, sciogliendo il nodo della bocca e rispose:    “Parla di storie terribili e crudeli, belle come può esserlo solo la vita”.    L’Imperatore ebbe un tremito nel piede sinistro e con un grande sforzo ancora parlò:    “E perché è stato fatto dono a te e solo a te di questo libro?”    “Perché è un libro di poesie mio sposo e tu non ami la poesia”    replicò altera l’Imperatrice.    L’Imperatore disse:    “Voglio quel libro”.    “Ne ho solo uno”    gli rispose lei.    “Mi darai il tuo”.    “No!”    L’Imperatore si spostò verso la finestra, guardò i ciliegi e una vena gli si gonfiò sulla tempia. Chiuse stretti gli occhi e disse in un soffio:    “Non rovinare la nostra felicità, dammi quel libro”.    “No!”    lei rispose ancora divenendo esangue.    L’Imperatore sollevò il braccio sulla testa e il ventaglio si aprì. Due guardie entrarono con le spade sguainate. L’Imperatrice si girò, offrendosi alle lame.    Cadde in un vortice di sangue che si placò sulle pagine aperte del libro. Continua a leggere

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Salvatore Di Giacomo Una Poesia, “Na tavernella” (1901) – Commento di Walter Siti

Napoli milionaria Scarpellini

Napoli milionaria Scarpellini

 

salvatore di giacomo

salvatore di giacomo

da la Repubblica 16 marzo 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da “Vierze nuove” (1901)

 

Maggio. Na tavernella
ncopp’ ‘Antignano: ‘addore
d’ ‘anèpeta nuvella;
‘o cane d’ ‘o trattore

c’abbaia: ‘o fusto ‘e vino
nnanz’ ‘a porta: ‘a gallina
ca strilla ‘o pulicino:
e n’aria fresca e ffina

ca vene ‘a copp’ ‘e monte,
ca se mmesca c’ ‘o viento,
e a sti capille nfronte
nun fa truvà cchiù abbiento…

Stammo a na tavulella
tutte e dduie. Chiano chiano
s’allonga sta manella
e mm’accarezza ‘a mano…

Ma ‘o bbì ca dint’ ‘o piatto
se fa fredda ‘a frettata ?…
Comme me sò distratto !
Comme te sì ncantata !…

(1901)

 

salvatore di giacomo

salvatore di giacomo

 Cinque quartine che sembrano fatte d’aria, rarefatte come un soffio; i settenari corrono via veloci, resi più svelti dalle vocali indistinte del dialetto napoletano. Le rime alternate sono facili, qualcuna facilissima e legata alla grazia leziosa dei diminutivi; le pause spezzano i versi facendoli ancora più mobili. Gli enjambements tra un verso e l’altro smagliano la nettezza della visione, segnando il passaggio dalla pittura alla musica; l’aria fresca scavalca la divisione metrica e occupa per intero la terza strofa, mimando il contenuto col ritmo. Solo alla fine del testo la voce è costretta a fermarsi e a pronunciare i due ultimi versi lentissimamente, per riprodurre l’incantamento degli innamorati. La composizione ha un andamento cinematografico: prima la descrizione ambientale, topograficamente precisa  –  una trattoriola sopra Antignano (nucleo storico dell’attuale Vomero, allora amena zona collinare e campestre), la location rustica. Poi l’aria fresca mista a vento serve da freccia direzionale e quasi da zoom, fino al primissimo piano dei capelli di lei che non trovano “abbiento”, cioè pace, mentre la panoramica si blocca. Dai capelli di lei un breve stacco in campo medio, loro due seduti, per ritornare subito sul particolare ingrandito delle mani che si incontrano. Nell’ultima quartina non c’è più descrizione, ma non c’è neanche un vero dialogo: la domanda è interiore, non aspetta risposta. C’è solo lo stupore dell’intesa erotica che ha cancellato tutto, la magia ambientale ha agito: i due participi passati di genere diverso sigillano l’unione di maschile e femminile con la stessa simmetria con cui sigillano la rima alterna, in una coppia sintattica perfettamente parallela.

auto d'epoca

auto d’epoca

auto d'epoca

auto d’epoca

 Dove c’è il cambio di registro, dopo i puntini del v. 16, la descrizione avrebbe potuto continuare col viso di lei, con gli occhi che si parlano, e magari con frasi d’amore; tutto è sostituito, più efficacemente, dalla frittata che si raffredda nel piatto. Lo scatto realistico e anti-sentimentale è invece sentimentale al quadrato perché descrive l’attrazione nella sua volatile essenza, l’innamorarsi dell’amore. L’ellissi, coi due versi finali a specchio, passando dall’indicativo all’esclamativo suggerisce l’emozione in atto. Di Giacomo ha scritto molte canzoni (suoi i testi di Marechiare, Era de maggio, ‘E spingule frangese) e molti suoi testi autonomi sono stati musicati; il nostro testo lo è stato solo recentemente, e con timoroso pudore. Troppo intimo il canto, troppo sospeso il silenzio degli ultimi versi  –  degni di quelle che Verlaine un ventennio prima aveva chiamato “Romanze senza parole”. Continua a leggere

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Jean Clair  L’ARTE È UN FALSO  

jeff koons Balloons dog rosso

jeff koons Balloons dog rosso

jeff koons camera da letto rosa salmoneda la Repubblica mercoledì 23 ottobre 2013

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L’opera contemporanea tra tecniche seriali e mercato impazzito. Autenticità impossibile da stabilire. Prezzi a livelli assurdi e ingiustificati. La provocazione del famoso critico. Il testo di Jean Clair qui anticipato è parte del suo intervento alla giornata di studi  Il falso, specchio della realtà  che si è svolta il 24 ottobre 2012 a Bologna alla fondazione Federico Zer a cura di Anna Ottani Cavina.

Ci sono due professioni che hanno sempre rifiutato di lasciarsi inquadrare: gli psicanalisti e gli esperti d’arte. Chiunque può dirsi psicanalista o esperto e appendere alla propria porta una targa di ottone con la menzione della propria autorità. L’oggetto o la persona di cui le due professioni si occupano rilevano della categoria dell’unico, che appunto non è soggetta alla regola comune. Ogni caso sottoposto all’attenzione fluttuante dello psicanalista è irriducibile alla norma, come il quadro sotto lo sguardo dell’esperto. Ma vi sono casi in cui l’esercizio della perizia artistica o della maieutica psicanalitica somiglia piuttosto ad una pratica sofistica o alla logica falsata di un ragionamento fallace, fondato sull’emotività dell’amatore o del nevrotico, e sull’argomento d’autorità di uno specialista autoproclamato. Al paziente rimane il compito di districare, è proprio il caso di dirlo, il vero dal falso.

jeff_koons cicciolina

jeff koons nudo in bagno

jeff koons nudo in bagno

Per secoli e secoli, l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e non da una sola mano, unica e inimitabile; era inoltre diffusa, copiata, riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier, che mettevano in circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo significa usare deliberatamente un vocabolario religioso che risale a Bisanzio e alla controversia delle immagini: il prototipo, che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza (eikon) di Dio, permette la ri-produzione all’infinito dell’immagine che ne è al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglianza è identità. L’adorazione dell’immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel campo del gusto (delectare) né del sapere (docere), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede.

Jeff Koons Ballon dog

Jeff Koons Ballon dog

Da qualche anno, questa fede vacilla, si fa meno forte, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo degli iconclasmi, da Bisanzio alla Rivoluzione francese.

Nel mezzo di queste querele di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad accettare che delle pastiglie multicolori siano vendute a qualche centinaia di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst. La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza in un genio incomparabile, fascino del “fare” singolare, lavori interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie…

picasso astratto musica

picasso astratto musica

L’ultimo, l’estremo stadio è stato raggiunto quando la presenza dell’artista moderno, l’artista posseduto dal furor divinus, non è più richiesta solamente nella sua “mano” ma nella forma ancora più diretta: simile al Dio che offre il proprio corpo agli umani, l’artista offre in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di “opere d’arte”, scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i peli, i capelli, le unghie, l’urina, e infine gli escrementi saranno proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori dell’arte contemporaneo. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp, Salvador Dalì, Piero Manzoni, per la sua “Merda d’artista”, Kurt Schwitters, Louise Bourgeois, Gina Pane, Günter Brus, Hermann Nitsch, André Serrano, Wim Delvoye… la lista è senza fine.

picasso donna seduta

picasso donna seduta

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva, in una rivista, o in un catalogo di esposizione, darle una forma, un nome, attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera insomma come la veggente fa parlare le carte. Ora, perché il critico d’arte diventi un personaggio essenziale, credibile, di questa manipolazione, occorre un’operazione singolare che farà della sua parola un dogma. L’effetto di “doxa” sarà ottenuto accostandogli due figure essenziali: lo storico d’arte e il mercante. Il mercante fornirà la merce, lo storico d’arte ne attesterà la provenienza e ne ricostruirà la storia.

picasso Sogno

picasso Sogno

picasso donnaLe operazioni intraprese per far montare il prezzo delle opere verso vette illimitate, il cui valore diventa indiscernibile agli occhi dell’onest’uomo, somiglieranno allora stranamente alle operazioni inaugurate dagli hedge funds nel campo bancario o fiduciario, attribuendo un prezzo a dei beni inesistenti, a dei prodotti fantasma, o più ancora al processo di titolarizzazione che trasforma un credito dubbio e che non sarà mai saldato in un titolo finanziario garantito e suscettibile di essere immesso nel mercato dei capitali. Continua a leggere

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DIALOGO SULLA LENTEZZA DELLA POESIA, VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa

cinese L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Baicinese dona con ventaglioGiorgio Linguaglossa 

Quello che salta agli occhi ad una prima lettura della poesia  di un poeta bilingue (inglese e italiano) come Steven Grieco, è la sua lontananza dai modelli stilistici invalsi nella poesia italiana di questi ultimi decenni. È questo elemento che fa della poesia di Grieco una poesia non agevolmente ricevibile, non facilmente assimilabile, eppure è questa la ricchezza che la poesia di Grieco Rathgeb porta in dono alla tradizione italiana, in un certo senso costituisce l’estraneo, l’antipodo, ciò che è da riconoscere in quanto diverso. L’importanza di questa poesia risiede, dunque, a mio avviso proprio in quell’elemento che ce la rende estranea, che ci obbliga a rimettere in discussione i parametri stilistici cui siamo abituati, che ci obbliga a riparametrare di nuovo i nostri organi percettivi: la sua lentezza. Insomma, è un modo di fare poesia che ci spinge ad una formulazione più aggiornata delle nostre capacità percettive e ricettive organizzate secondo l’importazione acritica di «automodelli» sostanzialmente invalidanti e resistenti alla loro messa in discussione.

Ora che sei sorta, luna cinerea, quasi
invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.

C’è come il ricordo della luna lepardiana in questi versi ma come caduto sotto la scure di una «amnesia». C’è una “lentezza” tipica della poesia orientale, in particolare della poesia cinese dell’epoca T’ang, Nei primi due versi quasi “vediamo” la “luna” “quasi invisibile” che si mostra; ma è un qualcosa a mezzo tra il nascondimento e lo svelamento, a metà tra il “silenzio” e “lo stupore del pensiero”, appena un “orlo di luce”. La “lentezza” di questa poesia è una necessità interna al meccanismo di costruzione dell’immagine, non è un qualcosa che viene appiccicato sopra dall’esterno. La strofe si regge sul parallelismo tra la «luna cinerea» e la «quiete del pensiero», tra «l’oscura pienezza» della prima e lo «sferico splendore» della seconda. C’è molto spazio tra le parole e le immagini, come se il tragitto più lungo che unisce due punti non fosse la retta ma un lunghissimo arco, una linea ondivaga e zigzagante che si allontana e che improvvisamente si avvicina. C’è questo metronomo che indica il ritmo del tempo e dello spazio che non è il metronomo della poesia cui siamo abituati, c’è in essa un divario, un divergere appena percettibile, un clinamen. Ci manca, mi rendo conto, un modello di sottosistema della cultura per aderire a questa poesia, per leggerla con il giusto quantitativo di distanza critica dal rumore di fondo delle scritture prosastiche che hanno invaso gli «invasi» stilistici decretandone la loro esondazione e la loro fine.

cinese drago coloratoNon si dimentichi che per Fenollosa la poesia cinese «è arte del tempo», è la diversa velocità o lentezza del tempo che fluisce a dettare il ritmo delle immagini. È quello che accade nella poesia di Steven Grieco: è la lentezza del tempo delle immagini che suggerisce la modulazione delle immagini. C’è come una «lentezza» propria della poesia che è la sua caratteristica precipua, la «lentezza» che è la sua propria velocità, quel suo non corrispondere alla velocità delle letture veloci. È il testo di Grieco che impone al lettore la sua propria «lentezza», che gli chiede di fermarsi, di accostarsi, ma con la gentilezza dello sguardo e la modestia delle cose semplicissime, elementari, appena dette, appena pronunciate:

 

 

La luce della sera riporta gli uomini
ai loro giardini fitti di fiori.

Anche la luce torna a se stessa.

gif-man-mistery

Steven Grieco Rathgeb

 Caro Giorgio, il tuo commento sulla mia poesia, l’ho letto più volte. Perché mi ha sorpreso, e allora cerco di rispondere.
C’era un re che era in realtà un avvoltoio. Fin dalla sua infanzia i suoi consiglieri-rettili (cobra, boa, pitone, etc.) anche loro però presenti nella fiaba in forma umana, gli avevano fatto credere di essere come loro un serpente. Fermo restando che ciascuno di questi due animali è unico e insostituibile, meraviglioso nelle sue qualità specifiche, quanta distanza e opposizione ci sono tra un avvoltoio, che vola più in alto di quasi tutti gli uccelli (con l’eccezione forse del pellicano, che si libra altissimo sopra il Golfo Amvracico, in una mattina accecante di maggio) e un serpente, che striscia sulla superficie della terra e conosce i misteri inferi? Niente di più totale. Ma il re ignora tutto ciò. I suoi consiglieri sanno benissimo che in un futuro remoto del tutto irreale egli scoprirà la sua vera natura, e cercano per vari motivi di ritardare quel momento più possibile. Ecco, questa è una fiaba che ho scritto in inglese, e forse è emblematica di quello che ho vissuto io nella mia vita.

Caballo-China-Sig57716Le lingue che conosco non sono mie, di tutte sono un semplice ospite, e l’ho capito relativamente tardi nella mia vita. Ciò vale perfino per l’inglese, la mia lingua madre a tutti gli effetti, la lingua anche dei miei studi. Shakespeare è sempre stato per me un’influenza profondissima, forse lo scrittore più nascosto e vicino a me negli anni, soprattutto per il suo abbraccio immenso della realtà umana in tutti i suoi risvolti, ma non ho mai potuto dire di “possederlo” – né culturalmente, né linguisticamente. C’è soltanto un sottilissimo filo: quando inseguo questo in fondo, avverto la presenza di un’ombra, e l’ombra deve essere del drammaturgo. Ma quel filo, nella lingua inglese, mi dà tutto quello di cui ho bisogno, e soprattutto mi lascia anche andare lontanissimo dall’inglese, e tornarvi, carico di doni.
La “lentezza”, come tu hai notato, della mia poesia penso sia dovuta in gran parte a uno studio attentissimo, durato una vita, del movimento dell’alap, il primo movimento del raga indostano, che non solo si sviluppa con questa densissima, stupefacente lentezza, ma ha un’intensità, che invece di scoppiare o risolversi in qualche modo, tira l’ascoltatore più giù nella sua totale quiete, ricordandogli che ogni suono nasce dal rumore, e ogni pensiero nasce da quella zona pre-cogitativa della mente che contiene tutte le potenzialità immaginifiche e analitiche del pensiero umano in stato immanifesto (l’attimo prima che iniziano ad “essere”). Il pensiero come “nuotatore oscuro”.

Per quanto poi riguarda “paesaggio”, ho fatto l’agricoltore in Toscana per sette anni, imparando lì il miracolo della nascita e crescita delle piante. Seguire attimo per attimo questo fenomeno ti lascia senza parole, ti cambia profondamente e in modo duraturo.

Caballo-china-Sig11186Il paesaggio italiano in genere, è del tutto aperto allo sguardo, in tutte le sue mille incredibili sfumature, suggestioni e sottigliezze. Quello greco, e in particolare quello epirota (dove è nata mia figlia 29 anni fa), nasconde non so quanti elementi appena sotto la soglia della percezione. Trema, vibra, fa delle distanze una cosa inafferrabile, invisibilità stratificate. Perché il paesaggio greco, certamente, è intriso dei 450 anni di dolore e sofferenza che i greci patirono per essere stati soggiogati da un popolo a loro alieno per etnia, cultura e religione. Allo stesso tempo, luoghi come Dodona, oracolo visitato dagli eroi omerici in epoca precedente a Delfi, luoghi come questo mormorano un’antichità che non ho incontrato da nessun’altra parte in Europa. I monumenti sono quasi tutti scomparsi, ma nello stormire delle foglie di una quercia, per esempio, è tutto presente quel passato eroico, tragico, quella presenza di voci sommerse.

Anni di lettura di poeti cinesi (in tutte le traduzioni possibili), e in seguito, il lavoro con un collega giapponese sulla traduzione di waka, mi hanno portato a capire abbastanza bene quale è la funzione del paesaggio nella sensibilità estetica di quella parte del mondo (seppure molto diversa la visione cinese dalla giapponese): è l’immagine, spesso di incantevole suggestione, che letteralmente inghiotte dentro se stessa l’animo umano con tutti i suoi pensieri crucci e gioie. Un sentire che penso di aver abbracciato, negli anni, senza quasi accorgermene. Quei poeti raramente scissero l’elemento paesaggistico dall’animo umano, reputando che le due cose fossero due aspetti della stessa realtà composita, allargata.

Si dice che il waka giapponese del periodo classico sia soltanto una celebrazione della natura, della bellezza, della brevità della vita umana. Tutto ciò è vero, ma io ho avuto la somma buona fortuna di lavorare e dialogare a lungo con uno studioso giapponese, che invece va più a fondo nel senso di questa poesia (la migliore, s’intende), scoprendovi la reale profondità di pensiero, la dimensione metafisica che generazioni di miopia filologica non hanno saputo cogliere.

Ki no Tsurayuki (IX-X sec)
hito shirezu koyu to omoishi ashihiki no yama shita mizu ni kage wa mietsutsu

senza che nessuno mi vedesse, così pensavo,
attraversai il monte: tutte le acque laggiù mi rispecchiavano

La questione del paesaggio è un po’ come quella del dialogo muto fra il poeta e l’albero fiorito. Il poeta gli chiede il perché delle cose, soprattutto del suo proprio insondabile sentimento per quelle cose. Gli chiede perché, se il mondo è uno e indivisibile, e lui e l’albero una sola cosa, allora perché questo pathos. L’albero non risponde, e nello stormire dei rami fioriti il poeta ravvisa una meravigliosa “bellezza”. Ma l’albero non è bello, l’albero semplicemente sta lì. E quello stare lì è come uno specchio, un invito a te di guardare più profondamente in te stesso, un invito a capire come anche tu rispecchi l’albero.

cinese paesaggio

.

In questo senso, provo estraneità per la tradizionale visione in Occidente, che a tutti gli effetti ha scisso le due realtà in soggetto e oggetto. “Soggetto” e “oggetto” esistono anche nell’atteggiamento asiatico verso la realtà (come si capisce dal paragrafo precedente): ma l’uomo sta all’interno di una realtà completa, non al di fuori di essa. “Soggetto” e “oggetto” sono sempre presenti, ma è necessario anche sempre ricordarsi che si tratta di realtà parziali.
Penso che negli ultimi decenni la riflessione sulla complessità di Edgar Morin abbia iniziato a smantellare questo aspetto primitivo e deterministico di un pensiero per altri versi così forte, geniale, creatore, come quello occidentale.
Un raga indostano (ma ugualmente una composizione musicale di Giacinto Scelsi) ci suggerisce che, almeno in arte, l’uomo non tanto fa le opere (seppure non possiamo mai liberarci del tutto da questa illusione, anzi dobbiamo sempre misurarci con essa), quanto osserva il loro farsi. Esiste un compiersi delle cose.

La poesia sulla luna che tu hai citato ho iniziato a scriverla nel 1995. Subito dopo aver scritto i versi iniziali, e aver fatto un certo numero di appunti per capire come dovevo continuarla, capii che non potevo ancora dire quello che avevo in animo, non avevo a quanto pare, allora, gli strumenti per farlo. L’ho ripresa nel 2012, e dopo qualche mese di tornarci e ritornarci sopra, ho finalmente potuto dire: la poesia è scritta. (Poi l’ho tradotta in italiano)
Ho anche scritto poesia in italiano, e una raccolta è stata pubblicata nel 1997 nella collana Biblioteca Cominiana di Enzo Mazza e Bino Rebellato. Precedentemente, avevo più volte provato a interessare riviste letterarie italiane alle mie composizioni, ricevendo sempre pareri negativi – emblematica la frase di un noto poeta milanese, allora anche direttore di una rivista di poesia, che mi scrisse, “la sua poesia non rientra nel solco della tradizione letteraria italiana”. Due esempi di quella mia poesia straniera:

donna cinese antica

VOLTO E RISVOLTO

Nella sala del museo lui guardò
attentamente l’antico quadro,
poi s’incamminò verso il suo infinito.

Giunto in fondo – in un baleno, avresti detto –
con un dito ne sfiorò la superficie
(un’altra fuga di stanze), e disse: «di là
non c’è niente.
Tutto quello che possiamo vedere,
afferrare, sta qui.»

Tu lo guardi e lo compatisci. Sai bene
quanto più complessa è questa realtà,
le asimmetrie nascoste nel suo cielo splendido,
nelle montagne e foreste, e grandi
città affacciate sugli oceani.

E mentre lui è fermo, rigido dentro il quadro,
tu spazi e ti libri, ma da ogni lato
la realtà avanza impetuosa, raggiungendo
anche in te il suo punto infinito.

1993

cinese donna con gonna

.

SENZA TITOLO V

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso del vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.

                                                 1992

Penso che quel poeta milanese avesse ragione, senz’altro. Ma forse è anche possibile essere ospiti della poesia italiana, senza appartenervi del tutto? Giorgio Linguaglossa, mi è sembrato, dà a questa domanda una risposta affermativa, e di questo lo ringrazio.

 

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Nazario Pardini  DUE POESIE SUI MITI “Apollo e Dafne” e “Verso Itaca”

pittura parietale stile pompeiano

pittura parietale stile pompeiano

Minotauro

Minotauro

Poseidone

Poseidone

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

Da Le simulazioni dell’azzurro. Edizioni ETS. Pisa. 2002. Pagg. 128. € 10,00

 

Vipsania Agrippina

Vipsania Agrippina

 

pittura parietale stile pompeiano

pittura parietale stile pompeiano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Apollo e Dafne

 

Il dio Apollo scorse Dafne che senza compagnia
vagava tra le selve del Parnaso.
Ne lodò le bellezze e innamorato
la inseguì con ardua corsa per valli e boschi ombrosi.
Vestita di un esile velo
balzava tra farnie ed acacie,
tra cespi di mirto, corbezzoli e rovi.
La veste leggera le volava oltre le cosce e le forme
invaghivano sempre di più il dio incalzante.
Così implorò la terra
– Madre eterna ascolta la mia preghiera;
tanto svelte non sono queste gambe
e a niente giovano.
è la tua Dafne che ti chiede aiuto -.
La madre impietosita l’esaudì e trasformò
le sue fattezze in lauro. Tentò di tutto il dio
per ridarle la vita, ma invano
e per serbare un ricordo
recise un verde ramo dalla pianta.
Si rivide il dio Apollo vagare
con la fronte adornata.

Come io vago
tra i rappi scarniti da un mare
che sembra cinga di verde silenzio
il ricordo che è in me del tuo sapore. Continua a leggere

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POESIE SUL TEMA DEL SIGNOR COGITO – Zbigniev Herbert, Ryszard Krynicki, Giorgio Linguaglossa, Francesco Tarantino, Sandra Evangelisti

Cogito Esculapio

 

testa bronzea di Augusto

testa bronzea di Augusto

Il Signor Cogito è l’uomo dell’Occidente. Colui che pensa dunque è. Herbert in questa poesia lo invita ad agire, perché il pensiero guida l’azione e, quest’ultima è un atto insieme etico, politico e, soprattutto, estetico. Gli rispondono, sul tema, Ryszard Krynicki, Giorgio Linguaglossa, Francesco Tarantino e Sandra Evangelisti.

(traduzioni dal polacco di Paolo Statuti)

 

 

 

Cogito soldati romani

Scuola di Atene, Raffaello i filosofi

Scuola di Atene, Raffaello i filosofi

 Zbigniev Herbert

Il sermone del signor Cogito

Va’ dove andaron quelli fino all’oscura meta
cercando il vello d’oro del nulla – tuo ultimo premio

va’ fiero tra quelli che stanno inginocchiati
tra spalle voltate e nella polvere abbattute

non per vivere ti sei salvato
hai poco tempo devi testimoniare

abbi coraggio quando il senno delude abbi coraggio
in fin dei conti questo solo è importante

e la tua Rabbia impotente sia come il mare
ogni volta che udrai la voce degli oppressi e dei frustati

non ti abbandoni tuo fratello lo Sdegno
per le spie i boia e i vili – essi vinceranno
sulla tua bara con sollievo getteranno una zolla
e il tarlo descriverà la tua vita allineata
e non perdonare invero non è in tuo potere
perdonare in nome di quelli traditi all’alba

ma guardati dall’inutile orgoglio
osserva allo specchio la tua faccia da pagliaccio
ripeti: m’hanno chiamato – non credo ch’io sia il migliore

fuggi l’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro il fulgore del cielo

ad essi non serve il tuo caldo respiro
son solo per dirti: nessuno ti consolerà

bada – quando la luna sui monti darà il segnale – alzati e va’
finché il sangue nel petto rivolgerà la tua scura stella

ripeti gli antichi scongiuri dell’uomo fiabe e leggende
raggiungerai così quel bene che non raggiungerai

ripeti solenni parole ripetile con tenacia
come quelli che andaron nel deserto perendo nella sabbia

e ti premieranno per questo come altrimenti non possono
con la sferza della beffa con la morte nel letamaio

va’ perché solo così sarai ammesso tra quei gelidi teschi
nel manipolo dei tuoi avi: Ghilgamesh, Ettore, Rolando
che difendono un regno sconfinato e città di ceneri
sii fedele va’ Continua a leggere

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Aldo Mastropasqua IL CONTRASTO PASOLINI – SANGUINETI

p.p. Pasoini e peppino de filippo in totò diabolicus

totò e peppino de filippo in totò diabolicus

p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

ninetto davoli in Canterbury di p.p. Pasolini

ninetto davoli in Canterbury di p.p. Pasolini

da leretidedalus.it

Mezzo secolo fa, 1963, nasceva il gruppo 63, al centro oggi di giuste celebrazioni. Ma il 1963 è anche l’anno in cui Pier Paolo Pasolini firmava la sua terza regia cinematografica dopo Accattone (1961)e Mamma Roma (1962). Si trattava – come è noto – della Ricotta, terzo episodio del film Ro.Go.Pa.G. che prendeva il titolo dalle iniziali dei quattro registi coinvolti: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti.  Non starò qui a ricordare le caratteristiche di questo film, nel quale i quattro registi si confrontavano con il tema della perdita d’identità nell’Italia della modernizzazione, del boom e della incipiente società  del consumo.  Pasolini toccava il tema della perdita del sacro, inventando, con il sarcastico stratagemma del cinema nel cinema, le figure contrapposte di Stracci, sottoproletario eternamente affamato, che nel film sulla passione di Cristo deve interpretare la parte del buon ladrone, e del regista, affidata al mitico Orson Welles, doppiato dalla voce di Giorgio Bassani. Non sto qui a ricordare gli elementi che rendono memorabile questo episodio del film collettivo, dall’uso insieme del colore e del bianco e nero, alle innumerevoli citazioni figurative (le deposizioni di Pontormo e di Rosso Fiorentino), letterarie e filosofiche (da Jacopone da Todi al Capitale di Marx, fino alle autocitazioni) e anche musicali (da uno scatenato twist, alla Traviata, fino a Bach, Scarlatti e Gluck) per non parlare di quelle cinematografiche.  Mi voglio riferire invece all’intervista che sul set, appollaiato sulla sua sedia, il regista rilascia controvoglia a un impacciato e intimidito giornalista di Teglie-sera. Eccone il testo:

 

p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

 

pasolini orson welles-ne-la-ricotta

pasolini e orson welles sul set de La ricotta

orson welles legge Mamma Roma di Pasolini

orson welles legge Mamma Roma di Pasolini

Tegliesera: – Permette una parola? Scusi tanto, forse disturbo? Sono Pedoti del Tegliesera.

Regista: – Dica, dica.

Tegliesera: – Permette? Vorrei da lei una piccola intervista.

Regista: – Ma non più di quattro domande.

Tegliesera FC: – Aaaah! …Grazie.

Tegliesera: – La prima domanda sarebbe: che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?

Regista: – Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.

Tegliesera FC: – … arcaico cattolicesimo.

Tegliesera: – E…cosa ne pensa della società italiana?

Regista: – Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.

 

Terminata l’intervista con altre due domande, una sulla morte e una su Federico Fellini, il giornalista dopo aver ringraziato sta andando via, quando il regista lo richiama e inizia a leggere una poesia: «Io sono una forza del passato…», al termine della quale chiede al malcapitato che cosa ha capito. Al balbettamento del giornalista , il regista, imperiosamente:

 

Accattone film di p.p. pasolini

Accattone film di p.p. pasolini

 Scriva, scriva quello che le dico: lei non ha capito niente perché è un uomo medio. È così?

pasolini orson welles io sono una forza del passato

pasolini con orson welles sul set di La ricotta

pasolini giovane con il padre

pasolini giovane con il padre a Roma

Tegliesera: – Beh, sì…

Regista: – Ma lei non sa cos’è un uomo medio? È un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista! Colonialista! Razzista! Schiavista! Qualunquista!

Tegliesera: – Ah ah ah ah!

Regista: – È malato di cuore, lei?

Tegliesera: – No, no facendo le corna!

Regista: – Peccato, perché se mi crepava qui davanti, sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film. Tanto lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera, se non quando serve la produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale!… Addio! Continua a leggere

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SUL TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI  di Böcklin (Stige o Acheronte) – Poesie di Giuliana Lucchini, Salvatore Martino, Silvana Baroni, Gian Piero Stefanoni, Ivan Pozzoni, Ambra Simeone

arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga. L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi. Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

 

Isola dei morti, quarta versione

Isola dei morti, quarta versione

giuliana lucchini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuliana Lucchini

Ashes in the Museum

(a mia sorella Ilva)

 

Portammo
ceneri al museo, in una cripta d’argento,
raccolte dentro il cuore di una tela,

ceneri dalle rive d’Acheronte.

Nella trasparenza della luce
il velo sulla forma, il velo
che si stampò della bellezza

nella sua bara :

la tua creatura di cenere, Alma-Tadema*,
che si sbriciola tra le dita
appena implode al solco dello Stige.

Via della Croce sopra le spume,
struggente raffinatezza del deperibile
che la mano dell’artista eterna :

abbandona il peso, esce dal chiostro,
brilla di tutte le stagioni,
cammina da sola verso l’immateriale.
* (mostra al Chiostro del Bramante)
** “Sei nell’anima
e lì ti lascio per sempre ..” (canta Gianna Nannini)

 

opera di Dalì

opera di Dalì

 

 

 

 

 

 

 

 

salvatore martino col sigaro

Salvatore Martino

Sopra un quadro di Böcklin

Ritornato dal caotico inferno
e dalla solitudine
l’immagine appare
schiacciata contro il muro
affatto rettilineo il tracciato del cuore
privo di ossigeno il cervello

Dopo quaranta giorni nel deserto
a combattere l’assenza di me stesso
muta discende una preghiera

– Angelo atterrito
che abiti le caverne del mio fiato
tieni lontana
dall’orma del mio piede dall’approdo
la bianca figura dell’Isola dei morti
riportala nel gorgo della sua tela
con l’alito atroce della tua parola- Continua a leggere

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Luigi Manzi- LA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI, IL CORPO A CORPO CON LA PAROLA POETICA

  

pittura Mark Baum (American, 1903–1997). Seventh Avenue and 16th Street, New York, 1932. The Metropolitan Museum of Art, New York. Edith C. Blum Fund, 1983

Mark Baum (American, 1903–1997). Seventh Avenue and 16th Street, New York, 1932. The Metropolitan Museum of Art, New York

Molti dei poeti maledetti o irregolari che continuano a trasmetterci passioni e emozioni hanno subìto nel corso della vita l’isolamento in spazi talmente opprimenti da provocare in loro una dilatazione della sensibilità. È accaduto spesso che i poeti, in condizioni di deprivazione (la prigione, il convitto, il manicomio; l’esilio in una torre, in una stanza), abbiano dovuto sopperire alla limitazione corporale con la virtualità dell’altrove. A volte la segregazione è stata perpetrata attraverso un’ingiusta condanna. Allora la parola poetica si è trasformata nell’altro oltre che nell’altrove: la scrittura ha finito col flettersi in se stessa e ipostatizzarsi per diventare la controparte simbolica e intimamente antagonista con la quale combattere un corpo a corpo esiziale. In questo senso Villon e Rimbaud, Maldel’stam e Hikmet, Dylan Thomas e Trakl, Sa-Carneiro e Celan, Dino Campana e Gregory Corso, hanno ben poco in comune con Petrarca e Valéry, con Rilke e Bonnefoy, con  Ritsos e Claudel, con Sbarbaro e Cardarelli, con Luzi e Solmi.

alfredo de palchi Paradigm-5 Alfredo De Palchi ha iniziato a scrivere nel 1947, nel penitenziario di  Procida. È giusto l’anno in cui Giuseppe Ungaretti pubblica Il Dolore, Salvatore Quasimodo dà alle stampe Giorno dopo giorno, e Mario Luzi Quaderno gotico; Eugenio Montale collabora al Corriere della sera. Come può, De Palchi, in simile temperie, scrivere versi tanto innovativi, estranei alle poetiche contemporanee. Come può aver trovato già un suo stile dirompente e debordante, solcato da crepe intrusive, da pertugi ottici e sottili cavità auscultatorie? Non è sufficiente ricorrere a riferimenti stilistici contigui, a suggestivi rimandi e contaminazioni. La scrittura poetica depalchiana, acuminata e revulsiva, non è in nessun modo epigonica, non obbedisce ad alcun manierismo stilistico; è autarchica e anarchica, rivoluzionaria e ribelle: è carne viva contrapposta alla furia distruttiva di chi non ha altro con cui lottare per liberare, giorno dopo giorno (a ogni “richiamo del gallo”),  il proprio io murato.

alfredo de palchi e roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

 Non è agevole riportare alla luce le ascendenze letterarie di de Palchi, oltre quelle orgogliosamente reclamate. Vale la pena soffermarsi con maggiore attenzione sulle poesie d’esordio, raccolte in La buia danza di scorpione che contiene i versi scritti nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951. Tutta la successiva poesia ne conserverà l’imprinting e le ulcerazioni; esclusi forse i momenti in cui torna la figura fantasmatica dell’antico torturatore o quelli suffragati dall’analista. Paradossalmente allora in De Palchi la memoria e la narrazione dei momenti più drammatici della vita (Un ricordo del 1945; L’assenza, in Paradigma) distendono l’impeto, diluiscono il tossico, riconciliano con il consesso sociale: la scrittura poetica diviene accondiscendente e articolata. Ciò invece non vale per le successive raccolte, da Costellazione anonima a Le viziose avversioni, fino alle più recenti, dove la lingua è di nuovo torturata, sebbene i nessi sintattici siano mantenuti aderenti e consecutivi.

poeti_serata__(26) Il poeta contemporaneo a De Palchi che appare con più evidenza nei versi d’esordio è Ungaretti, i cui stilemi riaffiorano in castoni dentro sequenze eterogenee . Ne La buia danza dello scorpione si rinviene: “convulsioni di case”, oppure: “ Fra le quattro ali di muro”, o anche: “ Pane è pietra”, “scontare un vivere”, “l’immensità della pena più grande”, “questa lastra di fiume”, fino all’esplicito: “la morte/ che si sconta vivendo” in Foemina tellus. Continua a leggere

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UNA  «POESIA MISTERIOSA… AFFASCINANTE» DI OSIP MANDEL’ŠTAM traduzione e commento di Angelo Maria Ripellino con note di Antonio Sagredo

« E sopra il bosco quando fa sera
s’alza una luna di rame;
perché mai così poca musica,
perché mai un tale silenzio? »
(Osip Mandel’štam, da Kamen, 1919)
Onto mandelstam

Osip Mandel’stam, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (in russo Осип Эмильевич Мандельштам) (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) poeta, esponente di spicco dell’acmeismo. Osip Mandel’štam nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica che, poco dopo, si trasferisce a San Pietroburgo. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, apparve la sua prima poesia. Nel 1908  decise di entrare alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg per poi passare, nel 191, a quella di San Pietroburgo. Sempre nel 1911 si converte al cristianesimo metodista. Nel 1911 aderisce alla “Gilda dei poeti”, fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij. Intorno a questo gruppo si sviluppa il movimento letterario dell’Acmeismo: Mandel’štam nel 1913 è tra gli autori del manifesto della corrente, pubblicato solo nel 1919. Nello stesso anno pubblica la sua prima raccolta di poesie, La pietra.

Mandel'stam a Firenze, 1913

Mandel’stam a Firenze, 1913

 mandel'stam giovaneNel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente, mentre a Berlino viene pubblicata la sua seconda raccolta, Tristia. In seguito, e per diversi anni, trascura la poesia per dedicarsi principalmente a saggistica, critica letteraria, memorie (Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925), e brevi testi in prosa (Il francobollo egiziano, 1928). Per sostenersi si dedica a

copertina di Kamen, 1919

copertina di Kamen, 1919

 numerose traduzioni e collaborazioni giornalistiche.

Le tendenze anticonformiste e di critica al sistema staliniano di Mandel’štam, che pure nei primi anni aveva convintamente aderito al Bolscevismo, deflagrano nel novembre del 1933, quando compone e diffonde il celebre Epigramma di Stalin. Si trattava di una feroce e sarcastica critica del regime comunista, dove il poeta denunciava la grande carestia provocata in Ucraina dalla collettivizzazione forzata. Mandel’štam aveva osservato i drammatici effetti della carestia durante il suo viaggio in Crimea dell’estate di quell’anno. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dall’Nkvd, ma schivò la condanna al campo di lavoro: un evento sorprendente, generalmente interpretato come segno di un interessamento personale di Stalin al suo caso. Mandel’štam viene tuttavia inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Cerdin. In seguito a un suo tentativo di suicidio, la pena viene attenuata al divieto di ingresso nelle grandi città e con Nadezda  sceglie di stabilirsi a Voronež.

Mandel'stam e la Achmatova

Mandel’stam e la Achmatova

 Nel 1938 viene nuovamente arrestato; condannato ai lavori forzati, è trasferito nell’estremità orientale della Siberia . Muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja recka, un campo di transito presso Vladivostok, ufficialmente a causa di una non meglio specificata malattia. Il suo ricordo viene conservato, per lungo tempo clandestinamente, dalla moglie Nadežda, che aveva imparato a memoria numerosi testi poetici del marito.

osip mandel'stam foto varie

« Mia cara bambina,
non c’è praticamente nessuna speranza che questa lettera ti arrivi. Prego Dio che tu capisca quello che sto per dirti: piccola, io non posso né voglio vivere senza di te, tu sei tutta la mia gioia, sei la mia tutta mia, per me è chiaro come la luce del giorno. Mi sei diventata così vicina che parlo tutto il tempo con te, ti chiamo, mi lamento con te»
(da una lettera di Osip Ė. Mandel’štam a Nadežda Jakovlevna)

*

A chi l’inverno, l’arak e il punch dagli occhi azzurri,
a chi il vino fragrante con la cannella,
a chi gli ordini salati delle crudeli stelle,
è  dato di portare nella fumosa capanna.

Un poco di caldo sterco di gallina
e di assurdo calore pecorile;
io darò tutto per la vita – mi è così necessaria la pena,
anche uno zolfanello potrebbe riscaldarmi.

Guarda, nella mia mano c’è solo un orcio di argilla,
quando il pigolio delle stelle solletica il debole udito,
ma non si può non amare attraverso questa meschina lanugine
il giallo dell’erba e il colore dell’argilla.

Pian piano carezzare la lana e rivoltare la foglia,
come un melo d’inverno avvolto in una stucia aver fame,
tendere con tenerezza assurdamente all’altrui
e frugare nel vuoto e con pazienza aspettare.

I congiurati si affrettino per la neve
come un gregge di pecore, e la friabile crosta scricchioli.
A chi l’inverno è assenzio e fumo amaro per rifugio notturno,
a chi il crudele sale delle offese solenni.

O poter alzare una lanterna su un lungo bastone,
con il cane avanti andare sotto il sole delle stelle,
e con un galletto nella pentola recarsi nel cortile dell’indovina.
E la bianca, bianca neve fino a dolermi gli occhi.

  (1922) Continua a leggere

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TORNARE ALLA CORTE DI CESARE? – SUL TEMA DI ZBIGNIEV HERBERT: IL RITORNO DEL PROCONSOLE – Francesco Tarantino EPISTOLA DI GIULIO DECIMO AL GENERALE GERMANICO – Inedito

roma cesare

roma lupa capitolina

 

 

 

 

 

 

Il comandante di coorte Giulio Decimo risponde alla epistola del suo generale Germanico, compagno d’armi d’un tempo, che lo incita alla rivolta contro Cesare «padrone del mondo», con un rifiuto, gli dice che preferisce restare in provincia con «gente d’ulivo e falegnami» piuttosto che svernare a Roma «tra gli accattoni e gli arrampicatori», «puzzoni, infami mangiatori di cani, d’uccelli e di pollastrelle».

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Cogito a Roma

 

 

 

 

 

 

Francesco Tarantino

Un addio? Forse.
da Giulio Decimo a Germanico

Si, Germanico, raccontagli pure
le cazzate che vuoi e altre menzogne,
le improbabili vendette e le corna;
raccontagli il sangue versato e versa
veleno nella sua obnubilata
coscienza (se mai ne ha avuta una)
e tappagli le orecchie ché non senta
le grida, i lamenti di tutti i lutti
seminati e raccolti dalle madri
d’ignari soldati e dei centurioni,
da spose e sorelle e teneri amori.
Consolalo, nelle notti d’angoscia,
il tuo Cesare padrone del mondo,
il condottiero assetato di sangue,
il Deo del verminaio romanico,
il cinto d’alloro tra i senatori:
altri puzzoni, infami mangiatori
di cani, d’uccelli e di pollastrelle.
¿Ma dimmi, Germanico, sei sicuro
ch’è questa la volontà degli dei?
Forse dei tuoi che non sono, certo, i miei!
Tranquillo, amico di un tempo, ora non so!
Me ne resto qui, in questo esilio d’oro,
però non gioco a dadi coi bifolchi
– noi non siamo compagni di merende –
infatti non stiamo nella tua Roma
tra gli accattoni e gli arrampicatori.
Siamo gente d’ulivo e falegnami
piantatori di vigne e di memorie,
seminatori di sementi e pace,
falciatori di grano e di erbe amare,
coltivatori di orti ed altre essenze,
costruttori di flauti, di arpe e cetre.
E alla bella Selene non mentirle:
liberala da assurde devozioni
e lasciala vivere nuovi amori.
¿Dimenticarti? No, non potrei farlo!

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Steven Grieco AUTOANTOLOGIA (poesie inedite 1980-2014)

 

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

Steven GriecoSteven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni; indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com

Steven Grieco 2

 

 

 

 

 

 

IL MOLO AL PORTO DI IGOUMENITSA

il corpo

Andare verso la salvezza. Quale salvezza?

Dove sta la liberazione cosmica
se non nella conchiglia vuota del suo celarsi,
nell’inganno della nostra carne negata.

Questa nave dall’alta prua
scivolando sulle acque lucide
pronta a entrare nel porto,
ci sembrò un dio venuto
a portarci a casa.

Così, sempre, ricordammo
l’approdo deserto
che si spalanca in tutte le direzioni.

l’anima

E se l’universo fosse “un basamento
intorno alla bocca del pozzo”: e quella base
fosse costruita con le grandi pietre tagliate
dal brillio di tutte le stelle lontane!
Prossimi all’orlo,
così prossimi, facile sarebbe per noi intravedere
acqua limpida in fondo a quell’abisso,
e berla con i nostri occhi!

(trad. dall’inglese dell’autore)

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

PER ASHA BAHINJI
Udaipur, inverno

 

Ashaji! Sedevo di fronte a te,
mi parlavi di mito e archeologia,
illuminandomi
del tuo cenno inviolabile.

Più d’una volta
nel mattino splendente
volò la nectarinia in giardino,
attratta dal cupo fiore del banano,
come l’anima dal corpo:
un frullare policromo tra le foglie,
segreto tendere
verso il grave petalo purpureo.

Me ne stupii.
Seppure anch’io, da sempre,
nuotassi in quell’oceano. Continua a leggere

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“L’incontro di Telgte” romanzo di Günter Grass, letto da Marco Onofrio

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Il romanzo L’incontro di Telgte (1979), di Günter Grass, comincia con una frase emblematica: «Ieri sarà quel che domani è stato». La storia, cioè, è sottoposta a un fluire irresistibile di eventi concatenati, che trasforma in “ieri” ogni “domani”. Grass capovolge questo univoco scorrere attribuendo il futuro al passato, o viceversa; per questo pone a soglia del libro la “cifra” storica incarnata nella sua stessa operazione narrativa: di un recente “ieri” (il 1947) fa un tempo remoto, affidandolo alle ricorrenze – eterne, e forse immutabili – della vicenda umana. Nella Germania sconvolta dalla catastrofe bellica, due giovani scrittori, Hans Werner Richter e Alfred Andersch, fondano a Monaco, nel 1946, la rivista “Der Ruf”(cioè “Il grido di richiamo”). La rivista viene presto bloccata dal governo militare americano, ma fa in tempo a proclamarsi organo della generazione dei reduci (da cui il romanzo cosiddetto “lemurico”, che rappresenta lo smarrimento e la disperazione dei prigionieri di guerra, traumatizzati da ciò che hanno visto e vissuto) e di chiunque creda in un’Europa socialista unita, sotto la guida di équipes intellettuali. Nel settembre del 1947 nasce intorno a Richter il “Gruppo 47”.

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Ne L’incontro di Telgte Grass trasferisce l’esperienza (ormai trentennale) del “Gruppo 47” nella Germania del 1647, altrettanto provata dalla guerra dei Trent’anni. A Telgte si radunano i principali letterati del Barocco tedesco, in un fittizio incontro di fondazione che anticipa di tre secoli quello effettivo. Grass legge la storia in senso anti-hegeliano, come costante riprodursi delle medesime occasioni: gli esiti sono volta a volta diversi solo perché tutto è caos dominato dal caso, al di là dei patetici, disperati tentativi che l’uomo attua per imporre la misura di un “ordine”, che la forza stessa delle cose inesorabilmente scompone e poi dissolve, come i castelli di sabbia in riva al mare. Anche la mancata fondazione seicentesca del “Gruppo 47” è dovuta al caso, sotto forma di enigmatico incendio che distrugge la locanda della riunione e il manifesto politico tanto faticosamente stilato dai letterati. L’occasione perduta verrà appunto afferrata tre secoli dopo. Continua a leggere

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ANTOLOGIA DI POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA – Antonio Sagredo, Chiara Moimas, Meeten Nasr, Franco Fresi, Lucia Gaddo Zanovello, Vincenzo Mascolo, Ambra Simeone, Patrizia Pallotta

Parnaso 1

Parnaso1

 

 

 

 

 

 

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Sagredo

La metamorfosi della finzione

 

Quando il tempo il vuoto dei miei atti scorre umile e inquieto
possa io convertire il passo umano in ambio dislocato,
il ferro equino calzare come una corona non domata la giostra
di un torneo che muterà rogo e croce in volto circense e scespiriano.

La clessidra il vuoto del tempo e dei miei atti mescola con la cenere,
con una figura che abiura il tratto secco, la matita e il disegno non ornato,
ma le dita schizzano scellerato il segno e la visione di un pensiero declinato
per quella fede perduta nel perdono, per il rimorso di un palco non calcato!

Saprò io con ferrigna mente disseccare un salice e le lacrime custodire
io in un ricordo collassato e nello schianto attutito di un’arteria terminale
cedere io a una stella vespertina la struttura di un marcio crocefisso…
ah, vorrei una misericordia non divina, ma umana per Cristo e Giulio!

E un linguaggio cordigliero da un pulpito d’avorio alle navate vorrei
risonare come vessilli tra ostie insanguinate e mitrate angeliche parole,
quando una clessidra vuota inquieta scorre la gerarchia dei miei atti –
libertini se volete condannarmi, ma pietosi, lacrimosi – come Pierrot!

Roma, 28 marzo 2014
(all’ora quarta)

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

antonio sagredo Teatro Politecnico 1974

 

 

 

 

 

 

 

*

Stermini, e ti lasci andare al sogno ovunque e rosicchiano i secoli
il chiavistello della tranquillità, e t’accorgi inerme come la voce assenta
la lingua nei deserti della consapevolezza e il raccapriccio inventa
un mestiere al poeta, la sua parola tu bevi dal calice dell’inconsistenza.

E i suoni non hanno senso sui ghiacciai, liquidi cessano d’essere Maestri
di canto all’uomo… l’ugola non regge l’errata corrige di una volta che ci sovrasta
e marcia è la matematica e i disegni di un linguaggio che non sai… sfacelo
delle laringi, e il cerebro e il vuoto e il pensiero si specchiano in contumacia!

Non puoi dire se giostra è la finzione, se circo e tornei una imitazione,
i versi, le parole e i sensi sono meno di una tavoletta d’argilla che squilla
adesso come una lanterna antelucana – per l’aurora è un azzardo il giorno!
e i tramonti non hanno più una tazza dove affogare la propria morte recidiva.

E il lutto non s’addice più alle nostalgie dei nastri funebri, a quegli angeli
che sui feretri sono marionette… il conforto agli umani avanzi non è più
un dono e i loro occhi e le lacrime e quelle mani… non sappiamo nulla…
non sappiamo nulla… e il riso è solo un ricordo cartapestato… logoramento

delle felicità e delle tristezze ci corrode il futuro… non è il caos, né la rovina,
né gli stermini – e il divino ci disturba, ci ha succhiato la coscienza, ci ha rubato
la storia e la nostra stessa essenza e la natura e quella terra… io la miravo, e non
è più la mia origine, non più la sede di dei che mai furono – e io, interdetto, me ne vado!

Roma, 10 aprile 2014

Chiara Moimas

Chiara Moimas

 

 

 

 

 

 

 

 

Chiara Moimas

Dafne

Rincorsa da Apollo invaghito
Dafne braccata non sa che fare
inconsapevole d’ essere un mito
vergine e pura vuole restare.

Il dio è vicino stanco e sfinito
già la ghermisce: non può scappare.
– Che il desiderio venga punito.
Che la bellezza possa mutare-.

La chioma fulgida fronda diventa
e già le dita alloro si fanno.
Non è l’ignoto che la spaventa

è l’ansimare d’Apollo, l’affanno.
E’ la sua bocca che il pube rasenta
e trova corteccia. Mirabile inganno. Continua a leggere

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“LA GRANDE BELLEZZA” DI ROMA – Marisa Papa Ruggiero UNA POESIA “Io, il Gladiatore” – Inedito

roma il gladiatore

roma soldati romaniroma Il-GladiatoreMarisa Papa Ruggiero è nata a Roma nel 1943, ma vive a Napoli, dove ha insegnato per un trentennio nei Licei. La sua attività creativa (poesia lineare-visuale, prosa e critica) è documentata in diverse pubblicazioni antologiche e in riviste quali: «L’area di Broca», «Offerta Speciale», «Oltranza», «Lettera Internazionale», «Novilunio», «Risvolti», «AD HOC», «Paradossi Visuali», «Accenti Mundus». In «Poesia» è apparsa nella rubrica a cura di Mariella Bettarini: «Donne e poesia». Tre sue raccolte poetiche: Terra emersa (1991); Limite interdetto (1993); Origine inversa (1995, Premio Minturno); Campo giroscopico (1998); Persephonia (2001, presentato più volte come evento teatrale); Oblique ubiquità (in Locus solus –2003); Energie di campo (in Al di là del labirinto, 2010); Paesaggi di confine (L’Arca felice, 2012); Di volo e di lava (puntoacapo, 2013). Tra i libri d’artista: Il passaggio dei segni (2003); tra le opere in prosa: Le verità bugiarde (2008). È stata redattrice delle riviste: «Oltranza» e «Risvolti». Ha collaborato come redattrice alla fondazione della rivista di letteratura «Levania».

marisa papa ruggiero 1
Io, il Gladiatore

Le stelle a quest’ora hanno inondato l’arena
ma da dietro le sbarre vedo la notte cadere
dentro il mio corpo
il nuovo giorno tra poco
spingerà il suo passo dagli orti lontani
e incendierà i profili dei templi…
io, il lottatore più amato, l’atteso
da tutte le folle, io il trofeo designato
per festeggiare il Proconsole,
a me è dato il privilegio supremo:
sarà la belva più fiera e possente
la svolta finale del mio fato
in questa scheggia del tempo,
in questa piccola piega dell’universo
che fu il faro eterno del mondo…

Ma qui su questa terra fradicia di stragi
che esala tanfo di morte
corvi e sciacalli inferociti fiutano
la miseria lurida del sangue
il contagio eretico in ogni cellula,

a me è dato conoscerlo
io lo conosco
quell’urlo vivo imploso nella cenere,

io lo conosco nella carne

cos’è lo strazio che smembra e squarta
cos’è la morte,
tu inginocchiati
dal tuo colle olimpico
se puoi inginocchiati,
a te racconto cos’è la grandezza di un uomo
e lo racconto a te che oscenamente ti allunghi
sulle gradinate di questo stadio circolare,
a te bestia immonda che dal mio
sangue ti nutri e ti riproduci

Dove sono i Lari miei tutelari,
le tentatrici ninfe, gli erborari sacri?
Io su questo giaciglio sento
il gelo dell’abbandono in ogni osso
come un lungo grido sott’acqua
che nessuno sente,
la cetra della mia donna è da tempo muta:
quel giorno lei, la cantatrice, sulla mia sorte
ne strappò le corde e si recise la gola
ma ancora morde alle tempie
il suo canto tra le sbarre
come lapilli infuocati!

Fuori di qui altra strage si appresta,
l’eccitazione lascivamente striscia dai vicoli
e sale oscura dalle fondamenta;
si dà olio ai carri da guerra
si affilano le onorate armi,
guerrieri baciano le spose, non sanno
che il mostro viene da dentro,
romperà selvaggio gli argini ed è
cieco furore e caos

Io domani
oltrepasserò l’intero stadio della carne,
sì, le stelle hanno già inondato l’arena,
servirò d’immagine al coraggio
di molti e sarò in una sola volta
tutti i miei rami spezzati e
rinati, ogni albero
nato da me e
ogni mia morte
io sono il seme che lotta divenendo
orma e memoria, divenendo fiato e furore Continua a leggere

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