Saggio di Ivane Amirkhanashvili
In Pshavi, regione montuosa a nord-ovest della Georgia, c’è il culto della rima. Chi vuole essere ascoltato, parla in versi. Gli pshavi, praticamente, parlano in rime. Questo recitare poetico si chiama kaphioba (poetare a braccio).
La prima cosa che gli pshavi cercano in poesia è un effetto euristico: una scoperta, una trovata, lo scorgere di un senso che altrimenti resterebbe nascosto. Nella kaphia (poesia a braccio) c’è qualcosa di primordiale, costante, archetipico e, al tempo stesso, qualcosa che esprime la coscienza collettiva e la coscienza collettiva è creata dalla poesia o dalla filosofia.
I georgiani hanno scelto la poesia, oppure lo stato intellettuale chiamato ragione libera. Il loro modo di ragionare è poetico. Ciò potrebbe spiegare il fatto che in Georgia la filosofia ha sempre avuto uno sviluppo discontinuo e irregolare.
La cultura georgiana si è sviluppata sul crocevia delle civiltà occidentale e orientale, per cui sempre costretta a difendere la propria originalità. L’arma principale in questa lotta è stata la lingua, rifugio dell’essere sociale nazionale.
Nel III secolo a.C. il re Pharnavaz proclamò il georgiano come lingua ufficiale e ne stabilì la scrittura. A partire da quel periodo, fino all’età cristiana, non è sopravvissuto nessun testo georgiano, anche se, ovviamente, in Georgia si creavano opere letterarie. Ippolito di Roma (170-235), consigliere culturale dell’Imperatore romano, nelle sue cronache segnala che i georgiani scrivono i libri nella propria lingua.
Nel 326, il re di Kartli, Mirian, abbracciò ufficialmente il cristianesimo. Questo fatto diede inizio alla storia della letteratura georgiana. La prima opera considerata un piccolo capolavoro Il martirio di Shushanik scritta da Jakob Khutsessi (Presbitero) tra gli anni 476 e 483 è un testo agiografico che attinge a un profondo pensiero cristiano e che con il suo altissimo valore letterario testimonia l’esistenza di una grande dimestichezza con i testi biblici. Per quanto sia perfetta, quest’opera dà prova sicura di essere preceduta da una robusta tradizione letteraria.
Il cristianesimo assimilò in profondità la cultura dell’epoca pagana. Per esempio, trasformò i culti del sole e della luna in quelli della Madre di Dio e di San Giorgio. Negli abitanti dei monti si ritrova ancora oggi la simbiosi pagano-cristiana.
L’energia poetica georgiana si nascose a lungo nel grembo della letteratura sacra. Nelle vite dei santi e nei testi agiografici spesso emergevano dal discorso religioso, come le trote dal fiume, immagini poetiche, ad indicare il fatto che la lirica, anche nelle condizioni informali, conservava uno spirito autonomo, aspettando il proprio tempo.
“Mi farò notte per il giorno” – disse moribonda Santa Nino, evangelizzatrice dei georgiani. Con questo paradosso letterario, il poeta del IV secolo esprime un fatto particolare. Ioane Minchkhi l’innografo del X secolo descrive la morte di Cristo con la lingua della poesia sacra: “Come un leone, si addormentò appoggiato”.
Per sei secoli, l’uditorio georgiano stava ad ascoltare inni sacri e infine venne la crisi: l’innografo doveva tacere, passando alla filosofia, oppure cominciare ad esprimersi con altri canti per diventare poeta. Lo spirito della creatività prevalse: l’eccezione diventò regola. La prospettiva inversa fu sostituita da quella diretta.
Nel X secolo, anche in Georgia cominciò il processo poetico, già in corso in Iran, in India, nell’Asia Centrale e nel Caucaso Meridionale, denominato, per maggiore espressività, “rinascimento orientale”. Niente di strano, visto che questa innovazione si distingueva soprattutto per la visione umanistica del mondo.

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All’inizio del XII secolo (1187-1207 ) venne scritto Il Cavaliere dalla pelle di leopardo di Shota Rustaveli, opera epica cavalleresca di portata mondiale che esprime nel modo migliore la spiritualità georgiana. Non a caso l’opera apparve nell’epoca della Regina Tamara, nell’“età d’oro”, quando la Georgia raggiunse lo sviluppo e la forza mai visti prima nella sua storia.
La visione del mondo di Rustaveli si sviluppò nel grembo della cultura nazionale, la quale associava alla visione cristiana le acquisizioni del pensiero filosofico contemporaneo. La filosofia georgiana di quel tempo s’appoggiava a tre “balene”: la teoria di Pseudo-Dionigi l’Areopagita, il neoplatonismo e la filosofia antica greca.
Rustaveli creò le immagini, dense di analisi psicologica, dei personaggi che rappresentano l’amore globale, manifestazione suprema di energia viva.
Per quanto riguarda la lingua, Il Cavaliere raggiunse l’apice dello sviluppo della lingua poetica georgiana. Né prima, né dopo la lingua georgiana ha raggiunto una simile perfezione. Il poeta colse la genialità della lingua georgiana, creando, tramite la sintesi di elementi dell’innografia e della poesia popolare, una raffinata forma poetica: versi a sedici sillabe, una specie di paradigma che dominò incondizionatamente per ben sei secoli nella letteratura georgiana.
Solo nel XVIII secolo ci si riuscì a liberare dall’enorme influenza di Rustaveli. Per primi ci riuscirono David Guramishvili, poeta mistico-religioso che per temperamento si avvicina allo stile preromantico, e Besik Gabashvili, poeta di maniera erotico-amorosa, il quale elevò l’aspetto musicale della lingua ad un altissimo livello.
Il romanticismo bussò alla porta della letteratura georgiana negli ultimi anni del XVIII secolo e assunse la forma classica negli Anni Venti del XIX secolo, quando si fece chiaro che la Georgia non avrebbe potuto evitare il giogo dell’impero russo. Nell’élite intellettuale prevalsero tematiche legate alla disperazione. Il Romanticismo, pertanto, nacque dalla frustrazione nazionale.
I poeti rivelarono una caratteristica specifica: si esprimevano in modo duplice: con i fatti si posero al servizio del conquistatore, ma con le parole piangevano la mala sorte della patria. Il primo romantico che presenta una tale sensibilità, è il general-tenente Aleksandre Chavchavadze, entrato in trionfo a Parigi nel 1815, quando l’armata degli Alleati destituì Napoleone dal trono; il secondo è il generale di fanteria Grigol Orbeliani, il quale aiutò i russi a sconfiggere Shamil, capo della resistenza nordcaucasica. L’unica persona veramente integra, refrattaria e monolitica, Nikoloz Baratashvili, il cui servizio non uscì mai fuori dalle mura della cancelleria del tribunale, morì prematuramente, ma lasciò opere geniali. Nella letteratura georgiana non pochi autori posseggono il dono della chiarezza ed esattezza stilistica, Baratashvili si segnala per la felicità espressiva.

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I romantici posero sul tappeto la questione nazionale, mentre i Realisti si impegnarono a trovare una soluzione come Ilia Chavchavadze e Akaki Tsereteli, i due autori che svegliarono la Georgia nella seconda metà del XIX secolo. In quel tempo in Italia si svolgeva la lotta per la libertà nazionale, guidata da Giuseppe Garibaldi, che ebbe una grande risonanza in Georgia: “Dio, Dio, fammi sentire questo dolce suono nella mia Patria” – scrisse entusiasmato Ilia Chavchavadze.
I Realisti crearono una nuova lingua letteraria e guadagnarono alla poesia uno status sociale. Il poeta diventò una figura carismatica, un capo del popolo, un sacerdote che consegue obiettivi laici. Venne privilegiato l’aspetto pragmatico, piuttosto che quello estetico-poetico. Eppure la responsabilità di fronte alla lingua restò un dovere supremo.
A cavallo del XIX e XX secolo, va collocato, ad un’altezza particolare, Vazha-Pshavela, il poeta più originale nella letteratura georgiana. Le sue opere cariche dell’energia dei monti di Pshavi, ci stupiscono per la loro ampiezza umanistica, etica ed estetica.
Nel 1907 gli avversari politici uccisero Ilia Chavchavadze, poeta e deputato del Consiglio Statale di Russia, considerato “il re senza corona” della Georgia. Questo fatto rappresentò lo spartiacque tra due epoche, lasciando i georgiani di fronte a una triste realtà. Finì l’epoca teorico-romantica della lotta di liberazione nazionale e cominciò quella pratico-politica, culminata nel 1918, nel modo assolutamente inaspettato, con la formazione della Repubblica di Georgia. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, in Russia avvenne la rivoluzione e lo zar fu detronizzato. Alcune parti dell’impero, inclusa la Georgia, ne approfittarono e proclamarono la propria indipendenza. La Repubblica Democratica di Georgia, però, visse solo tre anni. Nel 1921 fu di nuovo conquistata dalla Russia bolscevica, divenne una delle quindici repubbliche dell’Unione Sovietica, nuovo impero esteso sulla sesta parte della terra.
L’Unione Sovietica non poté costruire il comunismo, utopia marxista, ma riuscì a creare un nuovo sistema politico-statale basato sulle tre T: totalitarismo, tirannia, terrore.
Durante un periodo di settant’anni la poesia georgiana si eclissò, ma riuscì a sopravvivere, dimostrando una qualità fondamentale – l’istinto dell’autoconservazione.
Questo excursus storico ci aiuta ad inquadrarne lo sviluppo negli ultimi cento anni.
La nascita della nuova poesia risale agli Anni Dieci del XX secolo. Lo spirito modernistico, nel quale prevalsero i sentimenti simbolistici, contrastò i cliché realistici dell’Ottocento, fortemente sostenuti fin allora dal prestigio di Akaki Tsereteli. Il “vangelo” del modernismo fu predicato in Georgia da Grigol Robakidze, ma il precedente stile fu definitivamente distrutto da Galaktion Tabidze, genio intraducibile.
Molto importante è il contributo dato dal movimento letterario di Corna blu, costituitosi nel 1915 a Kutaisi e trasferitosi più tardi a Tbilisi. Paolo Iashvili, Tizian Tabidze, Valerian Gaprindashvili, Kolau Nadiradze e i loro confratelli rianimarono la vita culturale, si misero a restaurare la mentalità nazionale georgiana, ripristinarono il culto della poesia, stabilirono la scala dei valori, definirono i criteri del buon gusto e, quello che è più importante, rinnovarono il verso georgiano dal punto di vista artistico e strutturale.
Si dicevano “simbolisti”, anche se praticamente rappresentavano una generazione ispirata al modernismo, che si prefiggeva di costruire il verso georgiano “con il raggio europeo” (T. Tabidze).
Per alcuni anni, il boom poetico regnò in Georgia. Nel clima di emulazione e rivalità si impose l’avanguardia georgiana: simbolismo, futurismo, imagismo ed espressionismo, impressionismo e modernismo.
Sembra strano ma nell’epoca delle associazioni emersero grandi individualisti. Galaktion Tabidze e Terenti Graneli, pur non avendo aderito a nessun movimento, diventarono i poeti più adorati: il primo per la sua poesia estremamente raffinata e melodiosa, il secondo per le visioni mistiche e la tristezza esistenziale. Galaktion Tabidze è ritenuto il poeta georgiano più grande del XX secolo. Sotto il profilo stilistico assomiglia a Paul Verlaine ma, purtroppo, è “intraducibile”: le sfumature melodiche della lingua georgiana, da lui scoperte, non si possono riprodurre in lingue straniere. Invece, Terenti Graneli, “poeta maledetto”, vale per la poesia georgiana tanto, quanto Hölderlin in Germania, Mandel’stam in Russia o Dino Campana in Italia.
Nel fatale mese di febbraio 1921, Paolo Iashvili e Tizian Tabidze, montati su cavalli bianchi, salutarono gli occupanti: un gesto pacifistico, da una parte, e un segno di rassegnazione al destino, dall’altra.
La congiuntura ideologica strinse la morsa sul libero pensiero poetico, togliendo spazio vitale alla creatività. Ogni resistenza e protesta era considerata dal governo come un segno di ostilità. In breve, le autorità hanno deciso di “domare la letteratura” (Akaki Bakradze). “Cominciò l’elettrificazione inversa del verso” – scrisse Tizian Tabidze che si congedò prima dal simbolismo e poi dalla vita: fu fucilato nel 1937.
“Meglio impazzire, se finisce la miniera di parole” – disse Paolo Iashvili, costretto più tardi a suicidarsi.
Il regime, praticamente, fece tacere la musa poetica. La critica ufficiale perseguitava la volontà creativa libera e promuoveva la congiuntura pubblicistica, aspersione assolutamente estranea alla poesia.
A partire dal 1960, nell’Unione Sovietica si avviò il cosiddetto “disgelo”, una sorta di liberalismo razionato concesso dall’alto, e questo rianimò la vita letteraria.
Il poema lirico diventò uno dei generi più popolari. Anche qui, però, troviamo un dualismo, perché tale forma fu usata dai dissidenti per le riflessioni celate, mentre i poeti ideologicamente impegnati la usavano per la propaganda del comunismo o, meglio, per la propria affermazione.
Svalutato il poema lirico, i dissidenti tentarono di introdurre il verso libero. Si trattava di un’opposizione nascosta, una tendenza antiideologica, un undeground semiufficiale, con lo scopo di depurare la cultura poetica dal surrogato. Alla fine, il processo si trasformò in un contrasto permanente e piuttosto sterile fra il verso libero e quello convenzionale e diventò l’oggetto delle discussioni pubbliche. Ciò sembra anche naturale, visto che in Georgia la poesia non si era mai espressa solo sotto l’aspetto estetico, aveva costantemente mantenuto uno status sociale/politico/etico/etnico, essendo parte organica della vita.
Nel 1991 la Georgia apparve di nuovo sulla mappa politica del mondo. La “trasformazione” dell’Unione Sovietica e, in genere, di tutta l’Eurasia socialista portò l’indipendenza statale e uno shoc causato dalla libertà, il quale dura tutt’oggi.
Questa raccolta comprende i rappresentanti di quattro generazioni di poeti di vari stili e visioni. Li uniscono il tempo e lo spazio, in cui hanno creato insieme, per un certo periodo, il volto della letteratura georgiana moderna. Ovviamente, la lista è incompleta: oltre a loro si potrebbero aggiungere altri nomi che non appaiono in questo libro. La pubblicazione, ifatti, non pretende di essere esauriente, anche perché il carattere di piccola antologia non lo permette.
Ogni autore ha un proprio stile, una propria sorte.
Ana Kalandadze è creatrice della nuova lirica georgiana. La sua poesia è un fenomeno particolare nella letteratura georgiana ed è caratterizzata da una perfetta tecnica poetica, una rima raffinata, un ritmo moderato, una musica armoniosa, metafore leggere e colorate che sembrano librarsi in aria, invitando anche il lettore a volare sopra le candide nuvole, nello sconosciuto azzurro celeste; le parole sanno di Bibbia, inni sacri e manoscritti antichi.
Otar Chiladze ha conquistato la fama con i suoi romanzi. La sua prosa riflessiva è stata molto apprezzata ed è divenuta popolare nell’URSS e all’Estero. Eppure, prima di dedicarsi alla prosa, era considerato uno dei poeti più letti. Ė un innovatore d’ispirazione sincera, un creatore di umori esistenziali. Le sue opere, sia i versi che i poemi, si distinguono per uno stile romantico, emozionale, sensato, lucido. Egli ha scoperto quel contenuto della parola capace di imprimere una svolta nella letteratura georgiana. Riuscì a sottrarsi alle influenze dei predecessori, creando un mondo originale, nel quale vediamo la natura interiore dell’uomo georgiano, il suo destino tragico, la storia della sua aspirazione alla libertà.

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Se oggi nella poesia georgiana sono popolari umori ironico-parodistici, il merito, in gran parte, va attribuito a Vakhtang Javakhadze. Importante il suo interessamento per la poesia visuale: ha scritto (disegnato) un intero ciclo di versi figurali – “lirica grafica”. Inoltre, alcuni anni fa ha pubblicato una raccolta di palindromi disegnati, “33 azabaza”. Eppure la sua opera più importante è in prosa: per trent’anni ha lavorato sul libro “Lo sconosciuto”, romanzo biografico su Galaktion Tabidze, che descrive in modo analitico, mediante sfumature psicologiche e scoperte sensazionali, la vita e le opere del grande poeta.
Isa Orjonikidze – poetessa di grande potenzialità, che non è ancora ben studiata. Le sue composizioni sono caratterizzate, da una parte, da rigidità stilistica e, dall’altra parte, da una malinconia permanente che accompagna, come una melodia, i versi e le rime. La scrittrice possiede una delicata percezione della parola. Questa capacità deriva, con tutta probabilità, dal vissuto infantile: è cresciuta in campagna in un ambiente caratterizzato dalla koinè georgiana, il ricco linguaggio dei nonni pieno di sole e di fragranza dei campi, caratterizzato da locuzioni colorate e da una meravigliosa plasticità dei verbi. La poetessa stessa diceva di aver imparato dalla nonna tante metafore e di aver fatto testo di tanti suggerimenti Un consiglio, in particolare, le si era impresso nella mente: “Ascolta la serenità, ascolta il silenzio, quello che essi diranno, non lo sentirai da nessuna parte”. E nelle sue poesie si sente davvero la voce del silenzio, come il fruscio delle onde nella conchiglia.
Besik Kharanauli è considerato il padre del verso libero georgiano moderno. Ad un primo sguardo non sembra un poeta: un viso cupo, come di bronzo, capelli folti e ruvidi, tirati indietro, una cicatrice sul labbro superiore, a destra. A guardarlo bene, però, scorgi un carattere strano, nascosto dagli occhi vivaci e inquieti, dalla fronte luminosa e dal naso aquilino, il quale, di profilo, assomiglia, se si vuole, a quello di Dante Alighieri. A sentire, poi, la sua voce sonora, quasi canticchiante, ci si accorge che si tratta di ununa persona decisamente originale. Si è poeti quando non si assomiglia a nessuno. Il verso di Besik Kharanauli è molto semplice, ma profondo come un pozzo. Trasmette, in modo diretto , i sentimenti che tutti noi vorremmo esprimere senza riuscirci. La vera poesia è proprio questa: esprimere quello che non tutti riescono ad esprimere, vedere quello che non tutti vedono, sentire quello che non tutti sentono. Nella letteratura georgiana, Besik Kharanauli ha una sua voce e un suo posto, assegnati dalla Provvidenza. “Sono nato perché mancavo a questa terra” – scrive in un suo verso. La libertà è sempre stato il suo ideale sia sotto il profilo stilistico, e proprio questo ha scelto il verso libero, sia sotto il profilo esistenziale. Ultimamente si è dedicato alla sperimentazione: crea i testi, nei quali la poesia e la prosa sono sinteticamente unite. Egli definisce questa modalità come “meta poesia”, anche se i critici non accettano questa definizione.
Lia Sturua è segno di contraddizione: da alcuni è amata in modo esclusivo, da altri valutata diversamente. Alcuni amano il suo tipo di verso, altri non sono d’accordo. Nessun poeta dell’ultimo periodo ha suscitato tante dispute, quanto lei. C’è da chiedere, però: “Qual è l’oggetto di queste dispute, la forma o il contenuto”? Ė strano ma la risposta riguarda tutti e due gli elementi! Gli oppositori le rimproverano le immagini insolite e le idee bizzarre. I sostenitori, invece, la apprezzano proprio per quello. Il fatto è che Lia Sturua è surrealista. Leggendo le sue composizioni credi di essere in sogno, librandoti in uno spazio virtuale, insieme alle cose, ed entra in te un’armonia strana e mistica. Non capisci il significato letterale, ma averti con chiarezza la musica estremamente emozionante che proviene da queste strane immagini e che rianima sotto i tuoi occhi, colori e tonalità di ogni genere. E proprio il colore e la musica sono una chiave con cui si può aprire il mondo e i sogni surrealistici di Lia Sturua e la profondità e la bellezza dei suoi sonetti, versi liberi o sciolti.

Paul Delvaux, Landscape with Lanterns, 1958
Qual è la caratteristica specifica della poesia di Givi Alkhazishvili? Senz’altro, il dolore, nel senso classico della parola. Ė vero che senza dolore non c’è poesia, ma nei suoi versi questo sentimento assume una forma e un contenuto particolare: delicatezza, modestia e dignità. Le metafore e le situazioni poetiche si alternano sul confine tra realtà e irrealtà, creando un orizzonte colorato, in cui si scorge, come luce di speranza, il motivo principale del movimento interno – la vita. Tutte le componenti del verso indicano che l’autore si affida unicamente all’ispirazione. Ė interessante anche il modo in cui si equilibrano le rime. Qui troviamo un effetto sorpresa e una tecnica virtuosa. Non viene ricercato l’effetto in sé ma quello a servizio dell’integrità. Proprio a tale integrità sono finalizzati anche altri elementi e, specialmente, i riporti armonici, gli enjambement di versi e di strofe. Come altra caratteristica del poeta va indicata l’ironia, condizione indispensabile dell’estetismo. In lui riflessione, concezione estetica e perfezione prosodica creano un principio di triunità.
Borena Jachvliani, poetessa dalle ali distrutte, ispirata dallo spirito del dolore e perciò profonda conoscitrice della bellezza della vita, percepiva intuitivamente il mistero dell’esistenza. La poesia era la sua casa e il suo rifugio. Avrebbe potuto acquistare la popolarità, ma preferiva stare nell’ombra. Superava molti per talento e per gusto, ma non si proponeva di gareggiare con altri: gareggiava con sé stessa, lottava con il proprio io, passava la vita nell’autoflagellazione, anche se avrebbe potuto allevare dentro di sé una regina. Ha terminato, come un sogno amaro, la sua vita che meritava di essere molto più lunga e bella. Stanca di sogni e di versi, si lasciò sfuggire la felicità, la quale le passò davanti, come la nave notturna il Rex, in un famoso film di Fellini. Amava molto questa immagine, ritenendola desunta dai tesori di alti valori umani che rendono più facile l’esistenza terrena. Scriveva poco e pubblicava ancora meno. Era troppo esigente con sé stessa e con gli altri. Era una conoscitrice del verso, una letterata di alto gusto. Valutava la poesia con criteri severissimi. Ha lasciato poca eredità, ma quel poco è un modello di vera creatività e di responsabilità nei confronti della letteratura.
Gigi Sulakauri compone versi liberi con accento lirico. Il suo eroe è un speculatore tranquillo che cerca di alleggerirsi del fardello esistenziale e di crearsi, assecondato dal mondo esterno, un’esistenza pacifica e serena. Le fantasie poetiche di G. Sulakauri provengono dagli strati più profondi della psiche. Forse per questo le sue immagini artistiche risultano brusche e rozze, audaci e imprevedibili. In genere, l’imprevedibilità ha sempre accompagnato la sua vita. Era imprevista la sua apparizione nel campo letterario, benché appartenesse ad una famiglia di artisti; imprevisto anche il suo passaggio alla prosa e, purtroppo, imprevista la sua morte.
Manana Chitishvili ha uno stile rigido e semplice. Sono qualità innate che dopo, non si acquistano più, perché si aggiungono solo affettazioni e complessità. Dalle profondità empiriche all’altezza della concettualizzazione: ecco la sua dinamica stilistica. Non la tendenza, ma il movimento verso il fine elevato e nobile, dove il dolore viene poeticamente domato. Qui non c’è il trionfo dell’essere: qui regnano solo l’amore e l’energia vitale. Il verso è soltanto una sigla del dolore. Più lontano, nel profondo dei sentimenti, si vede un’eterna immagine georgiana – Amiran (Prometeo), eroe mitologico, incatenato a una roccia del Caucaso, e il corvo che gli becca il fegato. Nella letteratura georgiana esiste sicuramente una cultura poetica del tragico e Manana Chitishvili ne è continuatrice. Ogni suo suono è ispirato alla percezione del drama; quasi in tutte le sue poesie appare la nuvola del dolore, ma non si tratta di disperazione, né di sconfitta o capitolazione interna, bensì di responsabilità verso la vita e verso l’amore. Nelle sue composizioni appaiono prima la melodia e il ritmo, e dopo nasce la parola, come un fatto conscio. Proprio dentro di lei, nel suo mondo interiore sta l’istinto creativo della natura. Il miscuglio dei motivi epici e lirici genera un recitativo rigido, semplice e moderato.

palazzo con finestre illuminate e buie
Tamaz Badzagua ha creato una forma particolare del verso metafisico, diverso dalle forme prima esistite nella letteratura georgiana. Anzi, la forma da lui trovata si è dimostrata vitale: non solo ha mantenuto forza e importanza, ma ha anche conquistato nuovi spazi, oltrepassando il suo tempo. Basta dare un’occhiata alla moderna letteratura giovanile georgiana per scorgervi la continuazione di una strada da lui tracciata nei primi anni 1980. La struttura del verso si pone al servizio dell’espressione dell’idea: righe libere, ritmo moderato, metafore complesse, intonazioni leggere, tonalità malinconiche, pathos mistico, fatalismo. Eppure anche la sua espressione più pessimistica non scade in un pianto disperato, ma si presenta come la voce di uno che nel labirinto della disperazione invoca la speranza. Per questo motivo egli attribuisce una funzione speciale alla plastica delle mani, simbolo di luce e spiritualità. Dopo il matrimonio ha trovato un altro e ultimo spiraglio di ispirazione: l’Italia. Nel settembre 1984, infatti, ha viaggiato attraverso gli Appennini, ha visitato Roma, Firenze, Venezia, Padova, Milano. Ė rientrato felice in Georgia. Raccontava le sue impressioni con entusiasmo infantile. Nello stesso anno ha progettato di tradurre e pubblicare, in tre volumi, la poesia italiana del novecento. Si è messo a studiare la lingua italiana. Questo avvenimento ha cambiato la sua vita… Purtroppo nel novembre 1987 è accaduta una tragedia: è stato coinvolto in un terribile incidente stradale, insieme a sua moglie, al suo bambino e alla moglie di un amico. Del progetto incompiuto sono rimaste le sue traduzioni di G. D’Annunzio, S. Corazzini, C. Govoni, A. Palazzeschi, C. Rebora, D. Campana, U. Saba, V. Cardarelli, G. Ungaretti, S. Quasimodo, V. Sereni, E. Montale, M. Luzi. Già prima aveva tradotto le opere di Petrarca e Leopardi. Fa piacere che lo spirito poetico di Tamaz Badzagua rinasca nelle traduzioni italiane.
Ela Gochiashvili è una delle poetesse piùriconoscibili. Tratta con attenzione la parola. Pubblica poco ma di alta qualità. Ė oltremodo autocritica. Per lei la poesia è una forma di vita. Come si dice, vive di versi. Crea senza rumore, senza pretese. Non è socialmente attiva ma non disdegna di affrontare le tematiche socialpolitiche piùurgenti. Più sembra calma e tranquilla personalmente, più agitate e emozionanti sono le intonazioni delle sue poesie. Può generalizzare e attualizzare problemi etici. Ė maestra delle visioni metafisiche. Possiede un’ottima tecnica versificatoria. Conosc con esattezza i suoi obiettivi e il modo in cui realizzarsi.
Di Mariam Tsiklauri ultimamente si parla molto. Ciò significa che nelle sue poesie soddisfa le atteso dal lettore. Se il coraggio è la parola che esprime la specificità della sua poesia, diventa difficile presentare il suo ritratto poetico. Il coraggio è una caratteristica generica, senza la quale non si scrive neanche una parola, né si crea un’opera importante, ma qui si tratta di una facoltà di dire e fare in modo chiaro e tondo, di ardimento, di un disprezzo del pericolo. La poetessa si avvicina in profondità agli oggetti per evitare la tentazione di usare leziosaggini, alle quali si ricorre quando non si riesce a dissipare la nebbia di estraneità che avvolge le cose. Nelle sue concettualizzazioni è molto naturale e immediata, va sempre dritta al fondo: fare cerimonie non è nel suo carattere. Il pensiero tropologico ha regole proprie: ti offre una metafora, la segui, vai, le avvicini lo sguardo, l’osservi, credi di averla afferrata ma, all’improvviso, ti sfugge di mano, come una trota, e si perde nelle righe, per poi mostrarsi da qualche altra parte e sparire di nuovo. Prendiamo come esempio la poesia “Il fiume”. Qui non si capisce se sia il fiume a farsi uomo, o, al contrario, sia l’uomo che si fa fiume. Eppure non c’è bisogno di chiarire, perché nel tratto compreso tra queste due figure si legge e si sente un esito valido, un apprezzabile risultato dell’ardire poetico.
Zviad Ratiani appartiene alla generazione che negli Anni Novanta ha introdotto una nuova mentalità poetica all’interno di una nuova coscienza letteraria. Il poeta e i suoi amici hanno tentato di far conoscere al vasto pubblico alcuni importanti poeti europei ed americani del XX secolo e, parallelamente, pubblicizzare le concezioni moderne degli studi letterari. Perciò, egli è conosciuto piuttosto come un divulgatore culturale e traduttore. Eppure, è autore di ottime poesie. Riesce a proiettare la coscienza dell’uomo moderno sul nuovo schermo letterario. I suoi versi sono caratterizzati da una precisione quasi matematica.
François Clouet
pittura erotica persiana
Lela Samniashvili e Rezo Getiashvili sono le personalità più giovani dell’antologia. Hanno molti tratti in comune, anzitutto, la famiglia: sono coniugi; poi, il gusto letterario, la visione del mondo, la tematica, la problematica. Tutti e due rivelano chiarezza di posizioni estetiche, non solo nel settore poetico ma, in genere, in quello culturale. La loro prassi creativa si può determinare in due parole: idea e valore. Naturalmente, dimostrano stili diversi: Lela va dritta alle cose, per cui in lei eccede l’elemento di sensitività. Il suo linguaggio poetico è sempre incisivo, vigoroso e flessibile allo stesso tempo. La sua caratteristica principale è l’innovazione delle immagini poetiche; evita i cliché, se li usa, è solo per decostruzione. È ampio l’Universo della poesia di L. Samniashvili ampio di contenuti, di colori e di sfumature, caratteristiche che rappresentano in modo persuasivo la realtà del mondo contemporaneo.
Lo stile di R. Getiashvili, invece, è complesso, multiforme. Nella sua generazione la sua poesia ha segnalato una svolta con una voce e una “grammatica poetica” estremamente innovativa. Egli ha modificato la sintassi poetica rimuovendo e rovesciando gli strati induriti del linguaggio e, per mezzo di un dettato improntato su valenze fonosimboliche, ha ideato una poetica originale, estranea ai “poetismi”, alla retorica e alle metafore gratuite.
Questo è uno dei possibili quadri della poesia georgiana dell’ultimo secolo, quadro tracciato secondo i lineamenti degli autori presentati, perché ritenuti voci autentiche del vivere odierno. Nella letteratura georgiana non succede niente di diverso dalle altre: anche qui si cerca, si sperimenta, si sente la crisi globale e l’attesa del nuovo.
Nei Primi Anni Novanta, durante le interminabili manifestazioni politiche, ci si rivolgeva spesso una domanda ironico-retorica: “Dove sono gli scrittori georgiani?!”. Sono passati vent’anni e diventa attuale una domanda: “Dov’è la poesia georgiana?!”.
Dov’è la poesia? “La poesia è nell’erba” – diceva Boris Pasternak. Dov’è oggi? Forse nel popolo, nella vita, nella creatività, è là dove c’è la vita.
Recentemente, in Pshavi, nella casa museo di Vazha-Pshavela, al tradizionale banchetto georgiano, famosi studiosi e poeti, anche stranieri, disputando sulla domanda “Dov’è la poesia”? hanno ribadito che la poesia georgiana è proprio a Pshavi con Vazha-Pshavela e a Tbilisi con Galaktion Tabidze.
Sì, là dove ci sono i nomi venerati dei poeti ancora recitati dal popolo a memoria, là dove c’è la tradizione e la cultura multisecolare, c’è la poesia. La poesia georgiana esiste e si sviluppa. La presente antologia ne è la prova.

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Lia Sturua
Ė nata il 15 maggio 1939 a Tbilisi. Si è laureata all’Università Statale di Tbilisi, facoltà di filologia (1962). Nel 1974 ha sostenuto la tesi per il titolo scientifico di candidato delle scienze sul tema: “Funzione artistica del colore nella poesia di Galaktion Tabidze”. Insegnava alla stessa università. Ha lavorato presso l’Istituto della Letteratura Georgiana Shota Rustaveli (1981-2006). Attualmente è consulente della casa museo di Galaktion Tabidze. Ha pubblicato il primo libro di poesie (“Gli alberi in città”) nel 1965. In tutto, ha pubblicato quindici raccolte poetiche. Inoltre, è autrice del romanzo “Il sasso caduto nel latte”. Titolare del premio di Stato, del premio Galaktion Tabidze e del premio Shota Rustaveli.
Per far sentire alle rupi
Fermate il tempo!
Cuocete l’orologio
come l’uovo alla coque a colazione!
Verrà la notte, lo stesso,
ma avrà sapore di metallo.
Non puoi esimerti dal conflitto
con la scrivania, “lavoro” –
parola eterna e ingenua!
Non sei più in grado di dipingere,
cosa ti rimane – mangiare i colori?!
Al limite potresti addomesticarli con la saliva.
Ma qualcuno mozza il proprio orecchio
ed è finita – si venderà in milioni,
si venderà il quadro dipinto col sangue.
Ormai comprano tutto lo stesso,
pure un quadro intriso della luridezza, –
siamo nel secolo ventunesimo.
Le fognature sono imbottite dalle rose –
che schiaffo alla poesia!
Ritorna l’ ordine del giorno:
“Togliete pure il monte Elbrus
se vi osteggia”;
chi vuoi incolpare –
c’è scritto da tempo sul bianco in nero.
Ma se versassi l’inchiostro rosso?
Non riusciranno a inserire il grido nella crestomazia.
Parlare con i monti –
l’ultima chance di poetare in Georgia,
ma questo non è la magniloquenza,
è genetico piuttosto, come la nitidezza
di un topolino sull’erba inglese…
L’erba è così lattea che
potresti anche mungerla,
ma chi vorrebbe bere
la luce verde e il latte di neve
delle mie montagne?!
Da qui il salto, in teoria,
significa frantumarsi le ali,
in realtà sarebbe un’oscenità
così futile e così stupida
che se la pioggia subito non la laverà
ammorbidirà anche le rupi…
Non riusciranno a inserire
il grido nella crestomazia.
***
Un bambino che cammina per strada,
ha dei passi colorati
e ogni regola rifiuta,
persino il ritmo.
Lo invidia il mio camminar incatenato,
escludendo la mia prima infanzia,
quando mi versavo come un latte
sul pavimento annerito…
Di continuo mi ficcavano in un alveo
di marce, di doveri e di regime;
pure l’amore aveva leggi precise:
i campanacci – sui piedi, il caos – nella testa,
un bouquet di ortiche in mano.
E come al caldo di 40 gradi
non potevi fuggire da nessuna parte;
dovevi vivere condizionato:
nella prigione dell’immaginario
in Via d’Argento,
aprire la porta con chiave di violino
e appena suonava
la Marcia Nuziale di Mendelson
dovevi ricordare un poeta
che trascurando moglie e figli
preferiva scrivere le poesie,
ma amava la sua famiglia
così come amava le viole
e con i passi di color viola
la propria libertà
imprimeva sulla terra.

mariam-tsiklauri
Mariam Tsiklauri
Ė nata il 18 marzo 1960 a Tbilisi. Nel 1983 si è laureata all’Università Statale di Tbilisi, facoltà di chimica. Ha lavorato come insegnante, ingegnere del laboratorio repubblicano di ecologia. Era redattrice di varie case editrici, conduttrice di trasmissioni letterarie d’autore in radio. Attualmente dirige i programmi della casa editrice “Saunje”. Inoltre, è redattrice responsabile della rivista “Akhali Saunje” (“Nuova Saunje”). Su sua iniziativa è stata istituita la fondazione per lo sviluppo della letteratura infantile “Libo”. Era redattrice della “raccolta letteraria per ragazzi” che usciva negli anni 2006-2007 sotto il patrocinio della stessa fondazione. Ha pubblicato circa venti raccolte poetiche e libri per l’infanzia. Ha tradotto poesie liriche e infantili di autori cinesi, russi, polacchi, inglesi, norvegesi, lituani, greci. Queste traduzioni fanno parte di varie raccolte. La sua poesia è tradotta in inglese, russo e lituano. Le traduzioni inglesi sono contenute nella raccolta della poesia mondiale del 2011. Ha vinto il Gran Premio del concorso letterario “Shotaoba – 2009”, il premio Makvala Mrevlishvili per la fruttuosa attività svolta nella letteratura infantile (2010), il premio letterario di Sakrebulo (giunta comunale) di Tbilisi “Gala” (2011), il premio “Saguramo” (2013), il premio del terzo festival del libro infantile per l’autore del “miglior libro infantile dell’anno” (2014), ecc.
Cosa diciamo ai figli?!
Cosa diciamo ai figli,
quando ritorneremo dalla guerra,
quando ritorneremo anche dalla pace,
quando ritorneremo pur dalla morte.
Cosa diremo ai figli –
che cercavamo amore in ogni dove
e non trovammo da nessuna parte?!
Che la libertà cercavamo e
nella schiavitù la reperimmo?!
Bramavamo la felicità e
la sventura sposammo?!
Cosa diremo ai figli
che non trovammo Dio in cielo
e la dimora sulla terra;
che si scucirono i nostri orizzonti,
e non riuscimmo a mantenere
la quiete delle nostre chiese?!
Cosa diremo ai figli,
perché li abbiamo generati –
per reggerci sulle loro tenere anime
come sui gradini della scala,
per strisciare su, miserabili noi,
verso il cielo,
nonostante esserci rivestiti
di una coltre della terra?!
Ecco la nuova sofferenza –
il vostro Betlemme!
Fate nascere Dio voi stessi,
sarà Egli il vostro coevo
e vi difenderà meglio
poiché siete stanchi.
Io sono… neppure sono…
Lascio la casa e scappo
a vagare in me stessa.
Sono una donna incantata
di novità del vetusto,
di antichità del nuovo!..
Ora abbandono anche me stessa,
e l’onda mi butta fuori
come se fossi una conchiglia
son figlioccia di noia dalla barba bianca,
ingiusta e giusta con me stessa.
Prendete in mano la vecchia conchiglia,
date ascolto al suo canto arcano;
sono una saggia pusillanime,
che i segreti divini
ai venti rivela.
Io sono…Neppure sono…
Sono un’eco di vita
nella conchiglia imprigionata …
Voglio rumoreggiare
come silenzio,
i sonagli dell’animo far tintinnare.

lela-samniashvili
Lela Samniashvili
Ė nata il 17 marzo 1977 a Gori. Ha pubblicato le prime poesie e traduzioni all’età di 12 anni. Nel 1999 si è laureata all’Università Ilia Chavchavadze, facoltà di lingua inglese, e nel 2001 alla sezione di traduzione simultanea. Negli anni 2002-2004 ha fatto ricerche nella letteratura americana presso l’Università della California, a Berkeley. Nel 2007 all’Università di Oslo le è stato assegnato il grado magistrale nella filosofia dell’istruzione superiore. Attualmente insegna all’Accademia Americana Givi Zaldastanishvili e all’Università Statale di Tbilisi. Ė stata candidata e titolare di vari premi letterari. Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: “Foto-pillole” (Merani, 2000), “L’anno del serpente” (Casa Caucasica, 2004), “Il tatuaggio permanente” (Siesta, 2007), “I frattali” (Siesta, 2010), “Preghiera in astratto” (Intellekt, 2014). Ha tradotto le poesie di Silvia Plath (Merani, 1999), “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf (Taso, 2007), “La campana di vetro” di Silvia Plath (Taso, 2009; Diogene, 2014)
Il canto della sposa cecena
Questa anima mia è accoppiata al fuoco –
il lutto mi ha turato bocca e respiro.
Il pane delle mine che mi seminaste nella rupe
tengo nel seno e lo accarezzo con le dita –
come se fosse il petto del giovane mio marito.
Né un ciglio, né una goccia di lacrima
cadrà dalla mia pupilla di ferro.
È avvolta la mia treccia sul polso di Allah,
tengo nel seno un lembo di rupe e lo accarezzo con le dita,
come se fosse la fronte di mio figlio morto.
Sono ostaggio di questi ostaggi. Ostaggio –
della sala colma degli echi d’applausi – degli echi di proiettili
mitragliati nella sala di rupe avvolta dalla disgrazia ostile.
Tengo nel seno l’odio e lo accarezzo con le dita
come se fosse la memoria del mio amore morto.
È morto in me il grido della donna morta –
da voi gradita – della Patria morta, di Dio morto,
e se il mio fardello sarà sepolto nella vostra steppa,
traete giovamento dal pane della mina,
dal lembo di rupe, dall’odio – estratto dal mio seno.
***
Intanto che si asciughino
gli occhi verdi sull’acquerello –
e conti Adamo
le mele – di giorno,
di notte – le stelle…
Ti prenderà la voglia
stridula e ardente
che stiano nell’Eden
due poeti –
Eva e il serpente.

nunu-geladze
Nunu Geladze Fusco nata in Georgia, laureata in filologia all’Università statale di Tbilisi, è giornalista e traduttrice, Presidente dell’Associazione italo-georgiana “Con la Georgia nel cuore” di Milano, Ambasciatore di Pace nominata nel 2013 dall’Universum Academy e Università della pace Swizerland. Nel 2006 in Svizzera le è stata conferita il Premio Internazionale Donna dell’anno “Per aver onorato la cultura italiana nel mondo e per il suo lodevole ed instancabile impegno nel campo didattico e sociale, atto a tenere sempre vivo il rapporto di amicizia e di fratellanza fra le genti”. Iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti Georgiani dal 1986 e all’Ordine Nazionale degli Scrittori Georgiani dal 2007.
Ha tradotto in georgiano alcune opere degli autori italiani quali: G. Papini, A. Palazzeschi, L. Pirandello, D. Buzzati, A. Moravia, I. Calvino, C. Cassola, E. Morante, L. Sciascia, C. Pavese,
- Quasimodo, U. Eco, T. Guerra, San Francesco D’Assisi, M. Luzi, V. Cardarelli, D. Bisutti, C. Pozzani.
Tra i libri pubblicati: Frasario georgiano- italiano, con breve dizionario georgiano- italiano e informazioni sull’Italia; Dalle Dolomiti al Caucaso, lettere tardive in georgiano e in italiano; SALVE – silloge delle poesie di Dato Magradze dal georgiano in italiano; La marcia delle ombre raccolta delle poesie di Claudio Pozzani dall’ italiano in georgiano; I passi sull’acqua silloge delle poesie di Dato Magradze dal georgiano in italiano; Certificato di residenza poemetto di dato Magradze, dal georgiano in italiano; Giaccomo Ponti poemetto di Dato Magradze, dal georgiano in italiano; Vite e tralci antologia dei poeti georgiani contemporanei, dal georgiano in italiano; ECO – raccolta di poesie di Dato Magradze.
giorgio linguaglossa
A PROPOSITO DEL GRANDE PROGETTO. GLI ANNI OTTANTA. I MIEI DUBBI LE MIE CERTEZZE
Nel 1985, dopo aver girovagato per le carceri di Treviso, Pistoia, Firenze in qualità di direttore di carcere, tornai a Roma dopo un periodo di sei anni di assenza dalla capitale, e la trovai profondamente cambiata. Capii che eravamo entrati nel decennio della falsa opulenza. L’italia all’epoca era dominata dal centro sinistra Craxi Andreotti Forlani. A quel tempo adoperavo ancora le categorie adorniane della falsa coscienza e di alienazione. Cominciai allora a ristudiare filosofia e a rileggere opere di letteratura dopo sei anni di abbandono totale da quelle che ritenevo letture quisquilie, dei fiorellini che la borghesia si mette nel taschino della giacca per apparire presentabile. Compresi che la borghesia italiana aveva rinunciato a indossare qualsiasi fiorellino perché non gli serviva più, anzi, che aveva mandato al macero tutti i fiorellini. Compresi che la poesia di Sandro Penna era un perfetto esempio di fiorellino che piace alle anime gentili, compresi che i rigurgiti dello sperimentalismo erano espressione dell’eterno petrarchismo delle italiane lettere. Compresi che bisognava cambiare direzione di marcia, anzi, bisognava cambiare strada. Pensavo che bisognasse imboccare un’altra autostrada, Ma, come fare? Ripresi in mano i libri di Zanzotto e sorridevo al suo disperato sperimentalismo qualunquoide, sorridevo a quella ideologia della natura incontaminata, a quel suo sperimentalismo eufonico e modulato… che spettinava le anime gentili…
Ripresi in mano il Montale di Satura (1971) e cominciai ad insospettirmi. Mi chiedevo: ma non è che qui Montale si è messo a giocare a fare finta poesia? Non è che qui Montale ha iniziato a gettare a terra tutto l’armamentario della vecchia poesia perché non più utilizzabile nelle nuove condizioni del capitalismo? Iniziai a dubitare della bontà di quella apertura al linguaggio di tutti i giorni. Il dubbio cartesiano mi ossessionò per alcuni anni. E intanto leggevo e leggevo la poesia di tutti quegli anni, dai milanesi ai sudisti. E mi rendevo conto che i conti non tornavano. Che in quell’equazione tracciata dalla Antologia di Cucchi e Giovanardi nel 1996 c’era una incognita, anzi, numerose incognite, Cominciai a pensare che tutta quella ricostruzione della poesia italiana del Novecento fosse tutta fatta ad usum delfini. Nel frattempo i miei dubbi si infittivano e si ingigantivano, fino al punto che chiusi i miei dubbi in una certezza: la vera questione della poesia italiana stava nell’abbandono, da parte di Montale e di Pasolini, i due più grandi poeti dell’epoca viventi in Italia e teorici, della trincea della poesia. La poesia fu considerata inutile, e gettata alle ortiche, e sostituita, con smaliziata strategia, dalla finta poesia di Satura (1971) e di Trasumanar e organizzar (1968). Fine delle trasmissioni. Il dubbio era diventato certezza.
Adesso (cioè nel 1988 circa) il problema era quello di ritornare indietro e ri-mettere le cose a posto. Ritornare indietro per ripartire dal punto dove Montale e Pasolini avevano gettato la spugna.
Ancora oggi, nel 2016, sono convinto che la mia intuizione fosse quella esatta. Il problema della poesia italiana è ancora quello: uscire fuori da unna cultura dello scetticismo e del riduzionismo e rifondare la forma-poesia. Circumnavigare Montale e Pasolini per rifondare la tematizzazione della forma-poesia. Era un compito di spaventosa problematicità, era come voler azzerare tutto ciò che nel frattempo si era fatto e scritto in poesia in Italia in questi questi ultimi cinquanta anni.
Un progetto ambizioso, non c’è che dire. Ho letto da qualche parte la domanda che qualcuno si è posto. Suonava più o meno così: «Perché la poesia italiana dopo Montale non ha più prodotto un altro Montale?»,
La domanda è valida, credo. E la risposta la lascio ai lettori.
A un certo punto di questo percorso, negli anni Novanta, su suggerimento di Roberto Bertoldo, lessi la poesia di de Palchi, e cominciai a capire qualcosa…
Giuseppe Talia
A PROPOSITO DEL “GRANDE PROGETTO”
Caro Giorgio,
stanotte ho avuto un’illuminazione nel dormiveglia e credo di aver capito cosa intendi per Grande Progetto. Prima di entrare nel merito delle considerazione che ho fatto sulla tua idea di progetto, ti vorrei raccontare questo.
Quest’estate, sollecitato da alcune tue osservazioni sul Montale di Satura (1971) e dell’ultimo Pasolini, mi sono armato del libro di tutte le poesie di Montale, collana i Meridiani, e ho iniziato a studiare. Di Montale nel tempo avevo letto quasi tutta la produzione, ma a spizzichi e bocconi e alle volte superficialmente. Man mano che andavo avanti la novità e la grandezza degli Ossi di seppia (1925) mi apparivano nella loro assolutezza di forma e di poesia. Ogni componimento contiene un paesaggio, il lessico arricchito da termini di una natura vivida, le strutture metriche dilatate e in alcuni casi ristrette nella tradizione, come le onde del mare che si ritraggono e si allungano a lambire la spiaggia. Mi sono ricordato di quanto scrisse G. Nascimbeni nella biografia del poeta: “Basta dire araucarie, pitosfori, eucalipti, tamarischi, agavi, carrubi, sambuchi, e subito ci si sente dentro la poesia di Montale.”
Anche in Le Occasioni (1939) ancora il paesaggio “austero e roccioso” predomina nel corso delle liriche, con una nuova e inedita forma-poesia chiaramente dichiarata nella poesia “Nuove Stanze”. Quest’ultima poesia significativa anche perché prefigura, come quasi tutta la quarta parte della raccolta, la catastrofe imminente: “Là in fondo,/ altro stormo si muove: una tregenda/ d’uomini che non sa questo tuo incenso,/ nella scacchiera di cui puoi tu sola/ comporre il senso”.
E anche la Bufera (1956), strutturalmente in endecasillabi, comincia a perdere la “bellezza scarna, scabra, allucinante” delle precedenti raccolte. I carrubi diventano scheletriti, “troppo straziato è il bosco umano”, “tra le guerre dei nati-morti”. In quest’ultima raccolta si attua una certa deformazione, un cupo dolore l’attraversa, e soprattutto nella silloge Flashes e dediche si preannuncia Satura.
E sia arriva all’anno 1962. Una data da ricordare. Esce Satura. Pasolini in quella data entra in “crisi metrica” dopo l’uscita di La religione del mio tempo (1960), crisi che si compie con Poesie in forma di rosa, (1964) per cui sente che qualcosa si è esaurito, esautorato, “Saturato”, allo stesso modo come Montale nella sua raccolta vira verso il “privatismo” che pure difenderà fino all’età matura.
Satura? Che significa? Perché il 1962 è un anno di spartiacque nella poesia italiana maggioritaria? Si sente l’arrivo del ?68? Cosa fa scrivere a Montale una poesia come questa: «I critici ripetono,/da me depistati,/ che il mio tu è un istituto./ Senza questa mia colpa avrebbero saputo/ che in me i tanti sono uno anche se appaiono/ moltiplicati dagli specchi. Il male/È che l’uccello preso nel paretaio/ non sa se lui sia lui o uno dei troppi/ suoi duplicati.»
Mentre formulavo queste domande ho guardato il disegno di Perigli della copertina esterna dei Meridiani, Montale e la sua sigaretta, e ho capito che ci ha preso in giro. Sì, Montale dal disegno se la ride di gusto perché ha raggiunto l’obiettivo : quello di gettare alle ortiche tradizione, canto, lirica, altezze, natura, pianeta, sacrificando tutti ad uno sdoppiamento, all’inautentico.
Non so se queste mie intuizioni ti trovano d’accordo, Giorgio, se il 1962 cabalisticamente porta in sé una geminazione. Se teniamo in conto che Sessioni con l’analista di de Palchi esce nel 1967 e che la Buia danza di scorpione è stata composta tra il 1947 e il 1951, e che articoli sulla sua poesia sono presenti già dal 1960, tutto torna. Un Poeta si esaurisce (Montale e Pasolini) e uno nuovo si affaccia sulla scena con un carico innovativo. Il nuovo poeta genuino, discendente da Villon, con il carico di immagini taglienti, con franchezza disarmante, lo stile conciso,: “Il principio/ innesta l’aorta nebulosa/ e precipita la coscienza/ con l’abietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni.”
Sono ancora troppo emotivamente legato a de Palchi per riuscire a scrivere sulla sua poesia, un timore reverenziale mi impedisce di entrare nel tessuto profondo. E non vorrei certo ripetere continuamente la sua storia biografica fatta di carcere e riscatto, di migrazione e di divulgazione della poesia italiana, ma piuttosto entrare dentro il suo lessico, perché al pari del carrubo, del pitosforo, dell’agave di Montale, anche lo sputo, l’Adige, il ranocchiare, le “uccelle”, croci, cristi e crocifissi, la menzogna, il tradimento, l’invettiva, immediatamente ricordano la poesia di Alfredo.
Quest’estate ho pensato di prepararmi a far domanda di dottorato di ricerca con una ricerca appunto sui canali di divulgazione della poesia italiana negli USA, da Gradiva a Chelsea, solo per esemplificare, in modo da poter trattare di de Palchi, il quale ancora non accettato dai prof universitari non mi permetterebbero mai una ricerca solo sulla sua opera. Credo. Spero di riuscirci. Io già presto servizio come tutor coordinatore di tirocinio a Firenze, Dipartimento di scienze della formazione e psicologia, ma la domanda di dottorato la farei per Letteratura italiana.
E veniamo al Grande Progetto. Ho capito cosa intendi. Non è una scuola, è un sommovimento d’anime, un gruppo di ricerca capace di restaurare la poesia italiana dopo la crisi, riportarla a trattare temi alti, della complessità, dell’ambiente, della conservazione, dei mutamenti, delle migrazioni, contro ogni barriera, muro, confine, contro ogni mafia, per una nuova ecologia della forma-poesia. E questo lavoro va fatto individualmente, come è giusto che sia, avendo in comunione principi alti che, partendo da De Palchi, ultimo grande in ordine di apparizione, riformuli la nuova poesia. Un gruppo di studiosi, poeti, letterati capaci di uscire dai confini dell’orticello per un più ampio respiro a servizio dell’umanità. Stanotte pensavo a quanto Alfredo spesso mi ripete cioè di nutrirmi di radici invece che cibarmi di cadaveri.