
La vita… è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba
Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).
Una poesia Sandro Penna
La vita… è ricordarsi di un risveglio…
La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)
Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno
Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer
Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.
Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.
Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.
Leggiamo quest’altra strofa:
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».
Carlo Livia
13 novembre 2017 alle 12.59
Caro Giorgio, condivido metodo e fine della tua analisi comparata, e anche aver scelto Penna come esemplare di maggior risultanza icastica di un atteggiamento espressivo ancora fatalmente imbrigliato nei vincoli della vecchia onto-logia, cioè di un rapporto pensiero-essere che non può svincolarsi dalle tradizionali codificazioni mimetiche, che presuppongono non solo isomorfismo, ma subordinazione del pensiero- linguaggio ai (presunti) immutabili caratteri e confini del reale. Che tra logica e ontologia regni totale eteronomia è inconfutabilmente acquisito dalla riflessione dell’analitica del linguaggio (Frege, Wittgenstein, ecc.); ciò ha avuto importanti riflessi anche nella riformulazione estetica, etica, assiologica, di strumenti e destini creativi, culturali e antropologici.
In passato abbiamo spesso polemizzato, come ricorderai, soprattutto perché non condividevo la tua faziosità e le tue furiose stroncature, per me eccessive, ma devo riconoscere che mi sbagliavo: si tratta effettivamente di farsi protagonisti di una svolta epocale, che passa anche per l’arte e la letteratura, la sua funzione, la sua analisi critica, il suo contributo all’evoluzione di configurazioni psichiche e prassi culturali e sociali.
Il pensiero poetico (dove l’essere, attraverso il linguaggio, accade, sorge alla luce) ha da sempre un funzione insostituibile nel rinnovare e liberare da codici, norme e ideologie fossilizzate e violente; non è casuale l’ossessiva volontà, da parte di tutti i totalitarismi (compreso quello consumistico-tecnologico in cui sopravviviamo emarginati, nascosti nell’…ombra!) di perseguitare e sterminare i poeti.
C’è un solo particolare da cui dissento, che la svolta sia stata compiuta dall’opera di Tranströmer, che è certamente, anche perché psicologo del profondo, uno dei più consapevoli esegeti delle nuove dinamiche intrapsichiche e delle mutazioni linguistiche che le determinano e descrivono: Ma Rimbaud ha fatto qualcosa di simile un secolo prima:
Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante
e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque
e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono,
nel loro silenzio atrocemente agitato…
(Da Illuminazioni)
Per non parlare dei paesaggi onirici e deliranti dei surrealisti, specialmente francesi e spagnoli:
”A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove piange la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate…
(F. G. Lorca da Piccolo valzer viennese, L. Cohen ne ha fatto una versione inglese in musica)

Entrammo. Un’unica enorme sala,/ silenziosa e vuota
Giorgio Linguaglossa
13 novembre 2017 alle 14.59
Riprendiamo la strofa di Tranströmer:
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
La poesia inizia con il verbo declinato alla prima persona plurale sottintesa: «noi». Tranströmer scrive solo: «Entrammo», seguito da un punto. Nulla si dice sulle ragioni per le quali i «noi» sottintesi entrarono nella «sala», perché ciò ai fini dell’economia estetica è superfluo. Massima economia estetica e massima economia linguistica. Qui siamo all’opposto della prassi poetica di un Sandro Penna e della tradizione che obbedisce alle regole sindacali del pentagramma sonoro, Penna mai si sarebbe immaginato di iniziare un componimento con il solo verbo seguito da un punto. Ma qui in Tranströmer il punto è assolutamente essenziale, serve a delimitare di netto il perimetro di un fatto o atto. La «nuova ontologia estetica» prende abbrivio da qui, dall’impiego della punteggiatura al massimo profitto di economia estetica. In Tranströmer economia estetica significa anche economia lessicale e stilistica.
La restante parte del verso è occupata dalla indicazione geografica di «Un’unica enorme sala»; poi troviamo due aggettivi insieme, fatto molto raro nella poesia tranströmeriana di solito assai sparagnina in proposito; però, subito dopo gli aggettivi troviamo una similitudine che apre la composizione. Il poeta ci dice cha la «sala» era «come una pista da pattinaggio abbandonata». Una similitudine che chiude, che contraddice il principio di identità introdotto di solito dalla copula «è». In questo caso la similitudine introduce una differenza abissale tra la «sala» e la «pista da pattinaggio», dove l’aggettivo «abbandonata» è un segnale rafforzativo dei due primi aggettivi («silenziosa e vuota»). Segue il punto, a segnare una forte demarcazione.
L’ultimo verso è formato da due spezzoni, direi due frammenti:
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Siamo nell’ambito di una filosofia della composizione più sparagnina e severa del secondo novecento. Non si sarebbe potuto dire come meno parole. Ogni frammento è un pensiero compiuto ed il punto opera come un muro divisorio tra un frammento e l’altro. Una filosofia della composizione certamente lontanissima dalla fludificazione acustica dei versi penniani che obbediscono alle sirene dell’isomorfismo acustico. E la poesia è finita.
Ma, finita la poesia, il lettore si chiede: che cosa significa? Tranströmer non dice nulla in proposito, non offre nessun appiglio alla comprensione. Il poeta svedese obbliga il lettore a viaggiare alla sua altezza, lo obbliga ad uno sforzo ermeneutico notevole. È il lettore che deve farsi una idea di ciò di cui qui è questione.
Antonio Sagredo
12 novembre 2017 alle 20.15
Non c’è dubbio che qui, in questo blog, c’è una vitalità che non trovo e né vedo altrove; più che OMBRA , questa la definirei “LUCE DELLE PAROLE” !
Questo magma tumultuoso inventato, creato, realizzato, ecc. è vitalissimo ed è un pregio della A S = Avanguardia Senile (alias A. S.) Bisognerebbe quindi disciplinare questo virtuosissimo magma in una sorta di MANIFESTO, dove le linee essenziali devono essere appunto più MANIFESTAMENTE CHIARE a chi non ha orecchia e occhi.
Quanto ai versi della Costantina G. devo affermare uno sguardo diverso di riferire in versi la “quotidianità”, una prospettiva geometrica del cantare,ed ha ragione la Colonna Mariella a decantarla.
Sul concetto di “frammento” è stato detto abbastanza, ma non lo sarà mai! E sugli altri concetti e principi che reggono la NOE bisogna insistere – con la filosofia fino ad un certo confine: pena la pesantezza –
sulle varie e diverse costruzioni versificatorie… insomma bisogna superare le vecchie figurazioni metriche e mutarle in visionarietà concrete e materiali.
Finisco (sopportatemi !!!) con darVi dono della Prima Legione (1989) :
I
Io, qui, nella tua maschera rosa
oltre la forma dello specchio montone
òrbito i due centri al di fuori delle leggi
dove a stento la morte s’inarca come un ponte.
In altre stanze, arrivi disattesi, già sento
vagiti in lotta, smarriti, beffati dal cavo gioco
di perle ofidiche, perché uno solo è pronto per l’orrore:
il premio di una maschera, una medaglia, il tallone
dietro l’anima, il grumo dell’ultimo respiro.
Crestati imbonitori, rospi di luce, siete gravidi
d’applausi oltre la soglia coi primi passi
del bardo inglese vestito di gramaglie,
per essere in uno altare e ostia, sacerdote albino
geloso di fonemi e di frattali. E sono ratti
comparse spettri, viscido sudario
sotto i tori di ciechi simulacri,
ruggiti di rame contro i nostri morti,
giocatori d’azzardo, astragali di vermi quando la notte,
chiusa al canto, notifica con lingua mercuriale
il malgoverno e il tuo sguardo simili a monete
di menzogna.
A proposito del mio prossimo libro, 500 pagine: Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), – Roma, Progetto Cultura, 2018 – che riassume e rilancia la questione della Nuova Poesia
Per Andrea Emo, «ogni verità è sempre in sé contraddittoria (ciò spesso si chiama paradossale), eppure mediante questa contraddittorietà riesce a esprimere qualche profonda unità. […] Quale altro modo per esprimere una unità, che la contraddittorietà? Quale altra espressione è possibile per questa intuizione dell’uno?».1]
Occorre concepire anche l’Uno come identico col Nulla, in quanto Uno non vuol dir altro che Indistinzione pura, e dunque il coincidere assoluto con l’indeterminazione del niente.È forse, il motivo per cui Emo ritiene che «l’uno puro è lo zero», poiché l’Inizio proprio in quanto si annulla, in quanto si eclissa, insomma «essendo zero, crea la diversità».
Qui, forse, Andrea Emo mostra un tratto «nichilistico»:
«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?» 2]
«L’ultima parola sulla Fine è la stessa di quella sull’Inizio: anche qui, l’autentica Icona della verità contraddittoria dell’Assoluto è il paradosso; paradosso che, ovviamente, per i suoi caratteri di insolubilità e assoluta intrattabilità con gli strumenti logici non-contraddittori, può essere colto solo attraverso l’apertura alla ‘sovra-razionalità’ come dimensione in cui il logos nel suo auto-annullamento (già visto come esito del neoplatonico Damascio), andrebbe a ‘nozze’, se così si può dire, col lato notturno del pensare, e cioè il mito. Emo, infatti, ribadisce ancora una volta che «nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso».1]
Occorre rilevare, ai fini della nuova ontologia estetica, l’importanza della valorizzazione del linguaggio mitico come espressione di una verità profondamente paradossale. E quindi l’importanza del paradosso con i suoi equivalenti sul piano del discorso poetico e dei suoi strumenti retorici…
La nuova ontologia estetica abita il paradosso quale luogo della peritropè, (del capovolgimento): ciò che è bianco è anche nero, ciò che è nero è anche bianco. Il linguaggio paradossale per eccellenza è il linguaggio mitico, nel mito infatti le categorie del pensiero non contraddittorio e del principio di non contraddizione, vengono meno, sono inutilizzabili. L’esperienza e l’esistenza sono per eccellenza il terreno del contraddittorio. Anche la forma-poesia dunque, deve farsi carico del contraddittorio e del paradosso quali proprietà di ciò che è e di ciò che non è. Di qui la necessità di costruirsi una procedura altamente conflittuale e contraddittoria che congiunga ciò che è contraddittorio come elemento ineliminabile della contraddittorietà incontraddittoria.
1] Adalberto Coltelluccio, https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
In ordine alla cosa chiamata «nuova poesia» o meglio «nuova ontologia estetica», ecco il Retro di copertina del libro di critica in corso di stampa (500 pagine) presso l’editore Progetto Cultura:
Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.
1] Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989. p. 75 e segg.
2] Ivi, p. 76
Alfonso Cataldi (2° versione)
14 novembre 2017
Lievitazione. Il tabacco traversa l’incudine
sul freddo lineare.
La febbre disvela il tratto denutrito delle pietre.
Nello scorcio, il suo trascorso infranto.
Il disagio acutizza processi incontinenti
lo sciroppo ha un sapore inerte
è un deserto ampio sette anni.
Rinviene l’esatto crepitio del lume
lontano dagli abbrivi;
più forte la voce di lei
corteggiata tra due guerre in una sola settimana
protegge la natura delle cose.
Giorgio Linguaglossa
Così la poesia è più compatta, appare misteriosa, direi incomprensibile, colta in una lontananza abissale, seppellita da un oblio sconfinato di cui sono rimasti soltanto degli spezzoni, quegli spezzoni che affiorano alla superficie della pagina come relitti di un naufragio. Complimenti.

Questa è la preghiera per un’ombra./ Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,/ la sua personale Odissea
Gino Rago
12 novembre 2917 alle 18.01
Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa ovvero la PERMANENZA della poesia nello Spazio Espressivo integrale.
Preghiera per un’Ombra
Questa è la preghiera per un’ombra.
Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,
la sua personale Odissea.
Ci sono cavalieri ariosteschi al posto degli eroi omerici
e il Teatro dei pupi.
L’illusorietà delle illusioni.
[…]
«Le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio
– mi dice l’ombra –
così, stoltezza e saggezza si equivalgono,
eroismo e viltà condividono lo stesso equanime destino.
Noi tutti siamo ombre fuggevoli, inconsapevoli
della nostra condizione di fantasmi.
Gli uomini non sanno di essere mortali, dimenticano
e vivono come se fossero immortali;
il pensiero più fugace obbedisce ad un geroglifico
imperscrutabile,
un fragile gioco di specchi inventato dagli dèi.
Tutto è preziosamente precario, tranne la morte,
sconosciuta ai mortali, perché quando viene noi non ci siamo;
tranne l’amore, una pena vietata agli Immortali».
[…]
«Queste cose Omero le ha narrate», mi dice l’ombra,
«come un re vecchio che parla ai bambini
che giocano con gli eroi omerici
credendoli loro pari, perché degli dèi irrazionali
che governano le cose del mondo nulla sappiamo
se non che anch’essi sono bambini che giocano
con i mortali come se fossero immortali;
perché Omero dopo aver poetato gli immortali
cantò la guerra delle rane e dei topi,
degli uccelli e dei vermi,
come un dio che avesse creato il cosmo
e subito dopo il caos.
Fu così che abbandonò Ulisse alle ire di Poseidone
nel mare vasto e oleoso.
E gli dèi abbandonarono l’ultimo degli immortali,
Asterione, alle pareti bianche del Labirinto
perché si desse finalmente la morte per mano di Teseo.
In fin dei conti, tutti gli uomini sono immortali,
solo che essi non lo sanno.
Non c’è strumento più prezioso dello specchio
nel quale ciò che è precario diventa immagine.
A questa condizione soltanto gli uomini accettano di essere uomini».
[…]
«Giunto all’isola dei Feaci abbandonai Ulisse al suo dramma.
Perché il suo destino non era il mio.
Il suo specchio non era il mio».
[…]
«Il tempo è il regno di un fanciullo che si trastulla
con gli uomini e le Parche.
Non c’è un principio da cui tutto si corrompe.
Il firmamento è già in sé corrotto, corruzione di una corruzione.
Un fanciullo cieco gioca con il tavoliere.
Come ha fatto Omero con i suoi eroi omerici.
Come farai tu».
[…]
«Quell’uomo – mi disse l’ombra – era un ciarlatano,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta…».2
1○ Riferimento a mio padre calzolaio che mi raccontava da bambino storie di cavalieri ariosteschi
2] versi di Sergej Esenin “l’uomo nero” (1925)

Noi tutti siamo ombre fuggevoli…
Commento di Gino Rago
“Noi tutti siamo ombre fuggevoli…” è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il componimento ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa “Preghiera per un’ombra” non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna,con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza.
Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché , questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna.
Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna. Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “ verità “delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa).
E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti ma con le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna?
Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia),
fino a quando non giungono alla “conoscenza”.
Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma singolari parole-chiave:
forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio;
metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia.
Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello Spazio Espressivo Integrale, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.
Lo “spazio espressivo integrale” della “Preghiera per un’ombra” è il campo in cui “Nomi”, “Tempo”, “Immagine”, “Proposizione” vengono rifondati, ridefiniti, spingendo il nuovo fare poetico verso paradigmi fin qui esplorati da pochi poeti del nostro tempo a costituire un “nuovo” poetico da far sentire “vecchia” ogni altra esperienza di poesia contemporanea, esterna a tale campo. Ovvero, esterna alla NOE.

In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith
(dal poeta J. Haddad al poeta Francesca Dono)
“Mi hai chiamata Lilith…”
In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith.
perché incateni gli uomini e poi piangi perché tornino alla loro libertà.
Sei la luce dell’ alba la cui nudità destini solo ai ciechi.
Sei donna libera. Libera persino dalla libertà.
La prima donna di Adamo. La prima disobbedienza.
La fusione del sonno e della veglia.
Ti ha chiamata Lilith quel poeta.
Perché sei il segreto delle dita insistenti.
Scettro della libertà. Sigillo dell’amore-conoscenza.
Sposa del mito e della verità.
Canto di colomba per domare i leoni.

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011
Giorgio Linguaglossa
14 novembre 2017 alle 11.15
Il traduttore in inglese della mia monografia sulla poesia di Alfredo de Palchi, John Rugman mi ha chiesto di scrivere per il lettore americano una breve nota su cosa intendo per «tempo interno» nella poesia.
Ecco qua la mia Nota succinta sul concetto di «tempo interno» nella poesia della nuova ontologia estetica:
(Nota)
Sul problema del «tempo interno» (inner time) della poesia, è in corso in Italia un dibattito intorno ad una «nuova ontologia estetica» basata sul concetto di «tempo interno» della parola poetica nell’ambito della costruzione di una «nuova poesia», costruzione poetica intesa come sedimentazione di «tempi interni», come «quadridimensionalità», integrazione del mondo tridimensionale più la «memoria», cioè una poesia che non corrisponde più all’andamento lineare della sintassi della poesia del novecento, ovvero, ad un «tempo esterno» valido per tutto e per tutti, ma che assume la forma di «frammento», la forma di una singolarità assoluta. Una poesia dunque intesa come costruzione e composizione di frammenti, di singolarità.
Thomas Stearns Eliot
The burial of the dead
[ da: The Waste Land, 1922 ]
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/15/un-confronto-tra-lo-spazio-espressivo-integrale-di-sandro-penna-tipico-del-realismo-lirico-novecentesco-e-una-strofa-di-tomas-transtromer-del-1954-poesie-di-alfonso-cataldi-antonio-sagredo-giorgio/comment-page-1/#comment-26913
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the arch-duke’s,
My cousin’s, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.
Commento, alla maniera della nuova ontologia estetica
Ho diviso in tre strofe la prima parte della poesia forse più famosa del novecento mondiale, questo per far capire come la costruzione di un «nuovo» tipo di poesia (come questa di Eliot indubbiamente), non passa attraverso la riproposizione di schemi metrici fissi (ottave, sonetti, strofe con numero di versi fissati, etc.), tanto è vero che le tre parti della prima strofa sono costituite da «pezzi» che hanno un numero di versi diversi l’uno dall’altro.
Il primo «pezzo», costituito da sette versi si occupa della rappresentazione di un «esterno», diciamo, paesaggistico. Potrebbe sembrare una poesia alla vecchia maniera, una poesia di descrizione del «di fuori», infatti ha tutto l’andamento e tutte le caratteristiche di una poesia tradizionale, cioè, descrittiva di un «esterno». Almeno, questo ad una analisi superficiale.
Il secondo «pezzo» introduce all’improvviso una stranezza (compositiva), introduce un «noi» “us” mentre che veniamo dallo «Starnbergersee». La stranezza diventa ancora più grande quando incontriamo una evidente contraddizione: «noi», che veniamo colpiti da «uno scroscio di pioggia» (a shower of rain), a seguito del quale siamo costretti a ripararci «sotto il colonnato» (in the colonnade); ma la nostra sorpresa raggiunge l’apice quando nel verso seguente Eliot ci informa che: «noi andammo in pieno sole» (went on in sunlight). Ma, allora, il lettore si chiede: ma c’era la pioggia o c’era il sole? Si tratta di una evidente contraddizione logica e temporale. Andiamo avanti. Subito dopo il poeta ci informa che «bevemmo un caffè e parlammo per un’ora» (And drank coffee, and talked for an hour). Subito dopo segue una citazione che possiamo saltare perché Eliot si diverte a confondere il lettore con una frase in tedesco che non ha alcun appiglio con tutto ciò che precede.
Il terzo «pezzo» ci sorprende e ci disorienta ancora di più perché Eliot ci informa che «quando eravamo bambini e stavamo dall’arciduca» (when we were children, staying at the arch-duke’s) un cugino dello scrittore «mi portò in slitta e mi presi uno spavento», «E ne fui spaventato» (And I was frightened)… seguono altre annotazione davvero bizzarre che sembrano casuali e del tutto immotivate rispetto a tutto quanto c’è scritto nella composizione che precede, Eliot dice che «ci gettammo giù. Tra le montagne» (And down we went. In the mountains), per sorprenderci ancora di nuovo quando reintroduce l’io informandoci che «Leggo molto la notte, e in inverno vado al sud» (I read, much of the night, and go south in the winter), scrivendo una frase che non c’entra affatto con tutto ciò che precede nella composizione.
Che dire? È il primo esempio compiuto di applicazione di una «nuova ontologia estetica» alla poesia europea. La poesia descrittiva che si faceva in precedenza è stata mandata in soffitta, d’ora in poi è cambiata la procedura della composizione; ma non solo, è mutato l’ordine del tempo, anzi, dei tempi. Nella composizione si rintracciamo più tempi (sarebbe più preciso parlare di temporalità) e più spazi geografici. Credo che questo sia indubbio.
(Giorgio Linguaglossa)
Per comodità, ecco tutta la poesia
Thomas Stearns Eliot
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/15/un-confronto-tra-lo-spazio-espressivo-integrale-di-sandro-penna-tipico-del-realismo-lirico-novecentesco-e-una-strofa-di-tomas-transtromer-del-1954-poesie-di-alfonso-cataldi-antonio-sagredo-giorgio/comment-page-1/#comment-26914
The burial of the dead
[ da: The Waste Land, 1922 ]
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the arch-duke’s,
My cousin’s, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.
What are the roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images, where the sun beats,
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,
And the dry stone no sound of water. Only
There is a shadow under this red rock,
(Come in under the shadow of this red rock),
And I will show you something different from either
Your shadow at morning striding behind you
Or your shadow at evening rising to meet you;
I will show you fear in a handful of dust.
Frisch weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind
Wo weilest du?
« You gave hyacinths first a year ago;
They called me the hyacinth girl. »
– Yet when we came back, late, from the hyacinth garden,
Your arms full, and your hair wet, I could not
Speak, and my eyes failed, I was neither
Living nor dead, and I knew nothing,
Looking into the heart of light, the silence.
Oed’ und leer das Meer.
Madame Sosostris, famous clairvoyante,
Had a bad cold, nevertheless
Is known to be the wisest woman in Europe,
With a wicked pack of cards. Here, said she,
Is your card, the drowned Phoenician Sailor,
(Those are pearls that were his eyes. Look!)
Here is Belladonna, the Lady of the Rocks,
The lady of situations.
Here is the man with three staves, and here the Wheel,
And here is the one-eyed merchant, and this card,
Which is blank, is something he carries on his back,
Which I am forbidden to see. I do not find
The Hanged Man. Fear death by water.
I see crowds of people, walking round in a ring.
Thank you. If you see dear Mrs. Equitone,
Tell her I bring the horoscope myself:
One must be so careful these days.
Unreal city,
Under the brown fog of a winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many
I had not thought death had undone so many.
Sighs, short and infrequent, were exhaled,
And each man fixed his eyes before his feet.
Flowed up the hill and down King William Street,
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours
With a dead sound on the final stroke of nine.
There I saw one I knew, and stopped him crying: « Stetson!
You who were with me in the ships at Mylae!
That corpse you planted last year in your garden,
Has it begun to sprout? Will it bloom this year?
Or has the sudden frost disturbed its bed?
O keep the Dog far hence, that’s friend to men,
Or with his nails he’ll dig it up again!
You! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère! »
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/15/un-confronto-tra-lo-spazio-espressivo-integrale-di-sandro-penna-tipico-del-realismo-lirico-novecentesco-e-una-strofa-di-tomas-transtromer-del-1954-poesie-di-alfonso-cataldi-antonio-sagredo-giorgio/comment-page-1/#comment-26932
Questa non è solo poesia sublime, è un miracolo di intuizione e rivelazione, che riformula antichi mitologemi convertendoli in una sintassi individuale, una teofania tradotta in sintagmi laici, post-metafisici; in particolare i primi versi, con le melodiose assonanze irriproducibili in italiano, sanno di misticismo orfico, pagano, nutrito di una verità emozionale irriducibile a codici razionali, inadatti a contenere l’aleteia, la verità trans-egoica che vede nella primavera che irrompe una incontenibile e divina crudeltà che distoglie dalla pace della forgetful snow.
Rispolvero un mio vecchio Commento:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/15/un-confronto-tra-lo-spazio-espressivo-integrale-di-sandro-penna-tipico-del-realismo-lirico-novecentesco-e-una-strofa-di-tomas-transtromer-del-1954-poesie-di-alfonso-cataldi-antonio-sagredo-giorgio/comment-page-1/#comment-26915
giorgio linguaglossa
19 settembre 2015 alle 19:49
Caro Mario Gabriele,
Nel mio libro “Dalla lirica al discorso poetico. La poesia italiana 1945-2010“, ho formulato la tesi secondo cui la poesia di Vittorio Sereni ha costituito una “Riforma moderata” del linguaggio poetico degli anni sessanta e settanta. In quel giudizio c’era un mio convincimento che quel tipo di riforma, pur plausibile e valida entro certi limiti, peccava di una ristrettezza di visione, di un campo visivo insufficiente. Volevo dire che entro il cono di luce della riforma moderata di Sereni era sicuramente possibile operare, ma che quella strada, a lungo andare, sarebbe inevitabilmente finita a sbattere contro il muro della nuova società mediatica che già si profilava all’orizzonte. Intendevo dire che la società mediatica avrebbe spazzato via con grande energia i piccoli congegni di orologeria linguistica e di ingegneria linguistica sia della linea post-lombarda sia di quella delle poetiche del post-sperimentalismo. Intendevo dire che quella via si sarebbe rivelata essere una via sempre più ristretta e, alla lunga, anche epigonica.
È stato Berardinelli che ha scritto che la poesia, il romanzo e in genere l’arte della seconda metà del Novecento, sono da considerarsi episodi, anelli di una linea epigonica. Era già stato tutto detto e fatto nella prima metà del Novecento. Tutto quello che verrà nella seconda metà sarebbe stata arte epigonica. Aggiungo io: intimamente decorativa, da salotto, culinaria nel peggiore dei casi, da intrattenimento nel migliore dei casi, giornalistica nei casi di mezzo: cioè una pseudo arte leggera, affabile, effabile, ironica, gnomica, che ammicca alla subcultura di massa del lettore mediatico. Ma tutto ciò non mi stupisce né mi stupiva. Più leggevo poesia e romanzi del nostro tempo epigonico più mi accorgevo che eravamo (e siamo) tutti nipotini di un lunghissimo periodo di epigonismo, di un’arte democratica, che tenta disperatamente di dilettare e di épater les bourgeois, un concetto ormai davvero da salotto piccolo borghese.
Montale (il più grande poeta del Novecento, il più acuto) si avvede da subito dell’andazzo dei nuovi tempi e si accostuma di conseguenza: con “Satura” (1971) e da “Satura” in poi la sua poesia si democraticizza, diventa post-poesia, poesia-commento, di occasione, poesia-diario con ironico svelamento delle suppellettili di casa, poesia da voyeur. Insomma, Montale smobilita, licenzia la sua grande poesia del primo periodo e inizia un nuovo ciclo della poesia italiana, la poesia della privacy, dei rapporti di coppia, delle delusioni esistenziali, degli intrattenimenti intellettuali, dell’interludio, dei cammei pseudo lirici etc.
Caro Mario Gabriele, questa è la situazione. Vogliamo ancora proseguire con un’arte democratica? Con una poesia che vada bene per tutti i palati? Con una poesia che piaccia ai professori universitari? (come scaltramente ha fatto Zanzotto), con le Post-post-avanguardie desultorie e sussultorie come il gruppo 93? e con i ritorni della poesia della Bellezza?
Ecco, io mi limito a porre degli interrogativi e vorrei ascoltare i pareri dei lettori del blog.
Nostalgia della morte
di © Franco Di Carlo
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ho dato spazio al mondo nella bianca
terra arida radura dove prorompe
la rude immagine, violenza verbale
dell’autobiografia intellettuale
pensiero istantaneo e poetante
risorge dalle sue ceneri nella
notte talismanica, quando le foglie
rosse, di soglia in soglia ricoprono
di papaveri i lamenti della luna
donne al fondo, la memoria e soccombe
ultimo canto sacro sulla tomba
di Isidore, mentre il suo sguardo di seta
accresceva il caos e la discordanza
delle voci dorate, citazioni
infinite, sovversive esplosioni
postmoderne, spogliate di ogni orpello
quando l’incontrai oltre il monte della
follia, s’abolirono i confini tra
essere e nulla e impersonale voce
nacque originaria e distaccata.
Profezia di silenzio e parodie
retoriche autodistruttive fittizie
divinità, sregolata umanità
priva di un ordinato narratore
onnisciente, dove tutto si decompone
oltre il senso e la struttura, distruzione
immane perire di ogni punto di vista
isolati stereotipi surrealisti
metaforiche combinazioni auratiche
distinte stilizzate forme arcaiche
suggestioni teatrali cariche
di persuasioni espressionistiche
prosaiche borghesi allusioni Magiche,
si svegliò Friedrich sul sepolcro
di Sophie, fonte notturna di vita
e verità, splendida nostalgia
dell’oscurità opera del cuore.
Traduzione in rumeno di © Lidia Popa
Nostalgia morții
de © Franco Di Carlo
am dat spațiu lumii in albul
sol arid rariște în care suflă
imaginea brută, violența verbală
a autobiografiei intelectuale
gândire instantanee și poetică
se ridică din cenușa ei în
talismanică noapte, când frunzele
roșii, din prag în prag acoperă
de maci lamentările lunii
femei în fond, memoria iar sucombă
ultimul cântec sacru pe mormântul
Isidorei, în timp ce privirea ei de mătase
creștea haosul și discordanța
vocilor aurii, citate
infinite, explozii subversive
postmoderne, dezbrăcate de fiecare capcană
când am cunoscut-o dincolo de muntele
nebuniei, s-au abolit limitele dintre
ființă și nimic iar voce impersonală
s-a născut inițial și detașată.
Profeția tăcerii și parodia
retorică auto-distructivă fictivă
divinitate, umanitate nereglementată
lipsită de un narator ordonat
omniscient, unde totul se descompune
dincolo de sensul și structura, distrugere
trebuincioasă pieire din toate punctele de vedere
izolate stereotipuri suprarealiste
metaforice combinații de aure
disctinte stilizate forme arhaice
încărcate sugestii teatrale
de persuasiuni expresioniste
prozaice burgheze aluzii Magice,
s-a trezit Friedrich pe mormântul
Sophiei, un izvor nocturn de viață
și adevăr, superbă nostalgie
a întunericului operei inimii.
Traducere în limba română de © Lidia Popa
Una delle tante poesie di Franco Di Carlo che mi ha colpito, che ho la fortuna di avere la possibilità di apprezzare. Una visione nostalgica della morte della società moderna di quale facciamo parte, dove lo spazio non ci appartiene più, diventando terra infertile ad ogni forma d’arte e alla cultura stessa. Ci sentiamo stereotipati come personaggi surreali di un folle ingranaggio.
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Ho ricevuto e apprezzato molto il volume di Mario Gabriele; spero di poterne parlare in una nota critica degna di un testo di tale impegno, Per ora, molti complimenti e auguri per il successo che merita pienamente.
Un omaggio a Franco Di Carlo, con sincera stima, credo in sintonia con la sua denuncia di degrado spirituale, ma con una mutazione di spettro stilistico, dalla sua integrazione neoclassica-modernista, ad una provocatoria accentuazione della desublimazione linguistica.
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NEL BLU DELLE MADONNE SILENZIOSE
Alle vetrate l’alba era eterna, ma la ragione svenne nel vento delle donne praterie.
Il cielo senza redini, l’anima senza confine, il mare che sognava e profumava come una bestia indomata si disputavano l’ultima frase.
Disse alle dolci prospettive del sogno non vi credo, loro risposero non sai vivere né morire.
Quel candido corpo nudo colorato d’oboe voleva risanare la follia dei santuari, ma gli angeli erano sterili, le nubi vascelli immoti, le anime precipizi di cartapesta, così la sua prigione si riempì di vento e lui salpò tremante di musica nella notte viola, coi santi che fumavano e deliravano nei loro dipinti.
Il gelo dei paradisi scomparsi ristagnava nei cuori delle belle viaggiatrici, che ridevano lontane fra bandiere e velari d’estate.
Io non credo nella morte, disse quel campanile che ora non è più vivo, per questo posso comprendere tante capigliature d’angeli senza peccare, lui invece rasentava i giardini dell’Eden senza sconfinare in nessun corpo e si ammalò di vergogna.
Non capiva perché la Dea doveva frantumarsi in tanta follia di ragazzine, in tanta plastica e zucchero filato, ma doveva crederci!
L’alba accecata d’incenso lo afferrava con lunghe mani sonnambule, lui sognava disteso su putride canzoni d’amore, la morte sorrideva nel lucernaio di miele turchino, l’organo fabbricava prove false d’immortalità.
Ma anime ubriache di sesso battevano alle finestre dell’addio,
e il tempo digiunava e il destino era pieno di spettri obesi,
e il terrore scavava precipizi e preghiere nell’alba,
e le brezze sacrileghe lasciavano la sacra mensa,
e gli Dei malati si allontanavano e gli angeli gridavano,
e i crepuscoli svenivano d’amore e le stelle protestavano,
e il tempo o il sogno scivolavano sul binario di nostalgia blu.
Uscì dal film per baciare la musica malata.
Sopra di lui nostalgie di mare ornavano il baratro di paranoie seminude e bionde nostalgie.
Il cielo sconvolto si spalancò in mezzo al’offertorio, offrendo candide carnagioni ai pugnali del sogno uragano.
Macchine ubriache mobiliarono di amplessi fugaci il covo dei risorti e lune ossidate partorirono convogli in lutto pieni di voci di universi scomparsi.
La stagione si convertì, baciò il suo amore scomparso e lo salvò dal tempo.
Qui, caro Carlo Livia,
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hai superato ogni aspettativa, te ne sei andato per i volteggi di un onirismo sfrenato dove la categoria centrale sembra essere proprio la peritropè (il capovolgimento) tra gli attanti, sicché la poesia rivive e muore di continuo mediante immagini che si succedono e si sovrappongono, immagini come quelle di Frantisek Halas commentate da Ripellino.
Anche nella tua poesia metafore abbaglianti si succedono a catacresi a dir poco estreme, un po’ come avviene anche nella poesia di Antonio Sagredo, solo che nel poeta salentino le santocchierie si trovano insieme agli apparati tombali e alle litanie mentre nella tua poesia c’è questa angelologia desessuata, questa atmosfera da cloroformio e quei cieli «sconvolti» da bagliori fugaci e «paranoie seminude». Tu e Sagredo siete speculari nella diversità, la poesia dell’uno prende evidenza dalla poesia dell’altro, siete una coppia di assi dell’onirismo più sfrenato…
Complimenti.
Io ti suggerirei di sopprimere le “e” di congiunzione perché indeboliscono il costrutto in quanto non c’è bisogno di nessuna congiunzione, nella tua poesia già le immagini si succedono a ritmo vertiginoso… non so, è come se tu volessi mettere un po’ di ordine nella costruzione…
complimenti a tutti.
MARINA IVANOVNA CVETAEVA
(Mosca, 1892 – Elabuga, 1941)
(da segnalazione e scelta, secondo il suo gusto, coincidente perfettamente con il mio, di Rossana Levati, che qui pubblicamente ringrazio)
Il poeta
1
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Da lontano- il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.
Per pianeti, sogni, segni…Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacchè il suo
è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della causalità è il suo nesso. Disperate-
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello
che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,
che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
è quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacchè il suo
è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…
8 aprile 1923
2
Ci sono al mondo esseri superflui,
creature in più, aggiunte senza peso.
(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,
inquilini dei pozzi più neri)
Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi
a spinte, muti: letame
e chiodo per gli strascichi della seta.
Ripugnano anche al fango delle ruote.
Ci sono al mondo diafani, invisibili:
(screziati dal marchio della lebbra!)
Ci sono Giobbe che potrebbero invidiare
Giobbe…ma ai poeti, a noi poeti,
noi paria e pari a Dio –
è dato, straripando dalle rive,
rotti gli argini, rubare
anche le vergini agli dei.
22 aprile 1923
3
Cieca e figliastra – che farò nel mondo
dei figli e dei vedenti? Dove la passione
arranca su scarpate di anatemi?
Dove chiamano pianto
il raffreddore?
Canora di corpo e di mestiere
cosa farò – afa in Siberia, neve nel Sahara! –
di tutte le lievi mie ossessioni
nel ponderoso regno delle stadere?
Cosa farò – primogenito e cantore-
nel mondo dove il più nero è grigio,
dove tengono il cuore sottovetro?
Cosa farò, smisurata, nell’impero
delle misure?
23 aprile 1923
da “Dopo la Russia” , a cura di Serena Vitale
Nota.
Estraggo da una nota critica questo frammento:
“(…) Marina Ivanovna,
rimasta sola in casa dopo l’arresto di Sergej e di Mur,
sale su una sedia e si impicca a una trave.
Lascia un biglietto. Parole d’addio. Parole d’amore. Era l’agosto del 1941.
Aveva quarantanove anni.”
Invito Antonio Sagredo a intervenire dalla sua specola privilegiata di
slavista ripelliano.
Gino Rago
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incautamente sopravvenni a pattinare
sulle strofe slegate del talamo .
mi stesi, dipinto d’un Goya taciturno,
che le lenzuola scaltre
sfiorivano, come Circe
desnuda. avenne di ubriacarmi ignaro
del tempo che non ha menzione
e padre proce provato da inutile prova
rinvenni Telemaco
che sopravvisse.
Un paracadute fiorí.
la Circe desnuda…
meglio di un pollo freddo
E adesso alcune prose del grande poeta ceco Petr Kral da Nozioni di base traduzione dal ceco di Laura Angeloni Ed. Miraggi, 2017
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L’attaccapanni
Essere solidali con l’attaccapanni e con la sua nudità,
che mantiene intatta sotto il peso provvisorio dei nostri
vestiti da clown.
Il cappello
Quando riposano insieme in vetrina – un cappello di paglia
frivolmente estivo, un altro, scettico, in tessuto impermeabile,
un provinciale cappello tirolese e subito accanto
un mondano borsalino – essi compongono un mondo intero
e un potenziale racconto in cui, immobili e imprevedibili,
si spartiscono i ruoli come carte da gioco. Nella grigia
corrente con cui i cappelli fanno ondeggiare sullo schermo
una strada piovosa, uno di loro nasconde il nostro ignoto
assassino, ma quale?
Tutti quelli che indossiamo sono veri amori, estranei e
complici allo stesso tempo. Quando a un angolo di strada
lo solleviamo dalla testa in segno di saluto o in onore del
pomeriggio, uno stralunato infinito sorride di sfuggita tra
la testa e il cappello.
Il caffè
Il sabato, dopo aver dormito a lungo, usciamo e scivoliamo
indietro nel tempo con la morbida indeterminatezza
che solo la mattina meno impegnata della settimana
consente; ci uniamo ai vivi, un po’ di sbieco, solo quando,
appoggiati al bancone del bar, ordiniamo un caffè che berremo
osservando incuranti la strada e il suo sfocato viavai
dietro il vetro. Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso
bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci
scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa
concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la
propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza
dei nostri gesti e la sonnolenza del momento.
Lo spettacolo
Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo
del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili
misurano la pianura del tavolo.
Radersi
Prima di raderci spalmiamo la schiuma bianca sul viso,
come clown prima di entrare in scena, sotto di essa ci è più
facile trovare la nostra pelle nuda; come in una parentesi di
breve eternità ci attardiamo soli con noi stessi ai margini del
tempo, nella cui corrente stiamo per immergerci. Proprio
come accade al momento del risveglio è in quell’attimo
che ci sovvengono i pensieri più profondi e originali della
giornata e ancora meglio: mentre ci radiamo e misuriamo
senza fretta l’estensione della nostra nudità, sappiamo tutto.
Mentre il corpo è occupato nella cura di sé, concentrato su
ogni suo minimo aneddoto, l’anima, come un’ape libera,
sorvola il mondo intero, e osserva i suoi nascondigli sconosciuti.
Un impercettibile tremito nell’aria o in noi stessi, un
semplice niente, deciderà della riuscita della rasatura – e
allo stesso modo dell’atto d’amore che in fondo ora, con il
rasoio, offriamo a noi stessi. Niente è anche la brezza che
sfiora la guancia con una goccia di colonia, come l’ultimo
fremito dell’abisso che, grazie alla rasatura, abbiamo felicemente
oltrepassato.
La camicia
a Milan Schulz
Una camicia pulita è la nostra seconda – e miglior – pelle:
i suoi ondeggiamenti e rigonfiamenti dilatano il respiro
di quella che ci è data una volta per sempre, la onorano e la
cullano quasi affettuosamente. Anche il giorno che ci circonda,
insinuandosi con un colpo d’aria sotto la camicia,
sembra quasi accarezzarci. Quando una camicia ha ormai
fatto il suo tempo ci congediamo da lei lentamente, come
fosse una donna. La camicia ci è più vicina di un cappotto,
nelle cui tasche già vaghiamo a volte desolati come nel
mondo. E con i pantaloni, che ogni mattina sono lontani
quanto la stazione, non va certo meglio.
Gli orologi
Le grandi città sarebbero di certo incomplete senza i
grandi orologi che svettano all’improvviso per strada sul
viavai dei passanti; ma la conferma che gli occhi cercano
nel loro quadrante va molto al di là dell’accertamento
dell’ora esatta. Lo sguardo che in risposta ci rivolge il
quadrante, aperto e sereno dietro le lancette che con la
loro posizione evocano non tanto l’ora precisa, quanto
uno sbadiglio segreto del tempo – quello sguardo ci sostiene
in un certo senso grazie solo alla sua impassibilità;
il tempo di cui ci dà notizia è solo quella durata infinita,
estesa in ogni direzione, che fa da sfondo a tutto ciò che
esiste, l’assenza di colore sparsa in tutto il quadrante ci
rammenta semplicemente che siamo al mondo.
Lo spazio di numerose città – soprattutto meridionali
– si rivela ancor più chiaramente perché viene demarcato
dagli orologi che mostrano a ogni angolo di strada
qualcosa di diverso, un altro tempo, un’altra stagione
– senza nemmeno sembrare imprecisi per il luogo e il
quartiere in cui si trovano, ognuno col suo movimento e
il suo ritmo. L’orologio sul piccolo municipio di un quartiere
di Bruxelles – particolarmente esemplare – ha continuato
per anni a mantenere ostinatamente le lancette
fisse sulle dodici, un simbolo dell’ora zero che include
tutte le altre.
Di Petr Kral ha scritto Milan Kundera:
È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo
che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione,
ce lo svela. Pur sapendo che cosa vuol dire la parola “fumare”,
non eravamo in grado di vedere quel che “fumare”
significa in concreto, in che modo gesti banali e automatici ci
legano al mondo o ci permettono di allontanarcene, come
testimonia la storia del non fumatore Lenin che chiede una
sigaretta a Trockij allo scopo di dimenticare per un minuto
la rivoluzione. Pur sapendo che cosa vuol dire “solitudine”,
la cecità esistenziale ci impediva di renderci conto
che soltanto una porta sottile separa la nostra “stanza della
solitudine” dal salone dove rumorosamente la festa continua.
Quante volte, alla fine di una serata, abbiamo visto
una donna andarsene, ma tutto ciò che riempiva l’ultimo
sguardo che gettavamo su di lei lo dimenticavamo un secondo
dopo. È sorprendente come tutte queste situazioni
quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino
così poco influenzare dall’originalità di una psicologia.
Esse ci attendono, ci sottomettono. È una lezione di modestia
che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita
quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo.
(Milan Kundera)
«Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo
del portacenere, dei bicchieri e della caraffa, che
immobili disegnano la pianura del tavolo».
Questa “nozione di base” di Petr Král è tra le più brevi
composte dal poeta. Per questo rivela l’essenza di tutte le
altre, anche di quelle più lunghe.
Che si parli di una camicia che «ha fatto il suo tempo»
e che ci ispira un «addio così commosso» quale quello che
daremmo a «un’amante», o di una porta che durante una
visita ad alcuni amici ci introduce in una stanza «attrezzata
ma vacante» che «estende il nostro soggiorno» su questa
terra di uno «spazio supplementare», o ancora di una vasca
da bagno che improvvisamente da letto d’amore si trasforma
«nella nostra tomba», tutto ciò che Petr Král tocca
diventa spettacolo, spectaculum, ovvero, apparenza.
È grazie al suo stupore davanti agli oggetti e alle situazioni
della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta
scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo.
La regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo
una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella
pianura sconosciuta dove ci abbraccia come un’amante
dimenticata.
Ma da dove viene lo stupore del poeta che libera le cose
dalla loro funzione e che gli permette di camminare senza
quel pesante fardello per le strade della prosa? Da dove
viene questa grazia?
Non si è mai tanto vicini alla grazia come durante quei
mattini quando si assiste «stupiti allo spettacolo» di ciò che
si conosce a memoria. È durante quei risvegli che tutti gli
oggetti e tutte le situazioni della vita quotidiana mostrano
quel che potrebbero essere, che il presente ama contemplarsi
davanti allo specchio delle sue possibilità.
Così Petr Král, indossando ogni giorno una camicia
bianca fresca di bucato, saluta il volto mattutino di quell’amante
che ogni notte dimentichiamo: l’esistenza.
(Massimo Rizzante)
D’improvviso l’estate
l’unica asola dell’anima;
un piccolo ombelico di felicità,
un fiore senza petali;
calvizie prematura
d’un uomo.
Najednou v létě
jediný slot duše
Malé pupek štěstí
květina bez lístků
předčasná plešatost
muže
(un omaggio sventatamente tradotto da Google per Petr Král)
Grazie HOMBRE!
Lo stupore di Kral riguardo agli oggetti assomiglia a quello dei bambini,degli innocenti, di quei”poveri di spirito”ai quali è promesso il regno dei cieli; del quale non hanno alcun bisogno,perchè lo hanno già raggiunto sulla terra
Auguri affettuosi a Giorgio Linguaglossa, che in un giorno novembrino di alcuni anni fa è arrivato sulla terra.Per avviare presto un cammino in salita,tra rocce,erbe avvolgenti ,acque torrenziali,e qualche fiore.Ne raccolgo un mazzetto: sono tutti per te.
buon compleanno Giorgio!!!
Gli auguri sono tanti, ma anche i riconoscimenti, Giorgio, come critico e poeta. Oggi c’è doppia torta Chantilly al Bar delle Rimembranze!
cari amici, il mio compleanno è il 28 novembre, prego non fatemi più vecchio di quel che sono!!! Grazie a tutti cmq e un abbraccio
però un pezzo di torta fa sempre bene alla linea….
Anche insegnante. Giorgio si spende a leggere tutto. a dare consigli. indicazioni.
sinceramente si signor Cataldi.
Intanto anche io sono stato affetto da “angelologia”, tanto infine da scannarli questi angeli!!!
Purtroppo a mia insaputa ricorrono ben 78 volte! Dal 1968 fino a quasi oggi, insomma fino a trasformarli in oggetti di cartapesta inutili.
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dalla X Legione :
Iene non nate, Orfeo muore!
E mi congedo dai dettagli e dagli elogi,
dalle sinistre bontà, come un negarsi
ai tragitti e ai banchetti. Sono consunto
dagli arcani. In ceppi, ginestre e palpebre
sotto tumuli di riti.
Consacro la gioia! Celebro la grazia!
Altari di stupori! Scabrosi miti, leggende!
Vigilia, epifanie, attutite le cadute!
Narciso, affossa gli specchi e scanna
l’angelo!
Respiro, io sono figlio della mia Parola!
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ecc. non continuo di finire questa decima legione poiché temo degli inquinamenti
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Lavori di rime
come tergicristalli sulle note
straboccano
come diavoli e angeli in gara.
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Amo
il silenzio d’ardesia
il legno che sigilla nel vuoto la domanda
il ventre piombato degli angeli.
I becchini hanno occhi ossidati nella gola,
ridono ! giocano con le funi!
I ponti si gettano nell’acqua.
Unica, prima, umida poesia nei sotterranei.
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Forse che l’Appeso
esclude dal patibolo le proprie parole
o il boia s’infervora se la corda
è tenace e non vuole più impiccare?
So che gli angeli non amano gli Ordini
se non hanno per coda un concetto divino,
ma stragi, tormenti e scale
per uncinare legioni di battiti d’ali.
Sono quelli ovipari dalla spada onnisciente!
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Ah, quanto mi mancate, Angeli!
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(presi per mano quel buon diavolo
di Dio, lo accompagnai per portarlo
sulla buona strada: poverino, come un orfano
s’era smarrito da quando gli angeli
non lo avevano più riconosciuto).
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Caro Gino Rago, parlando di Marina Cvetaeva, io cado in deliquio e mi manca il respiro… più volte ricorre nei miei versi.
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Da una recentissima intervista a Serena Vitale del 7 novembre 2017:
“La Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida.
Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi
deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha
saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante
l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto
di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme
per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure
amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico.”
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Il grande filosofo-poeta ateista Andrzej Nowicki (1919-2011) dedica alla Cvetaeva questi straordinari versi:
Cvet
Fuggiva dalla gente e negli alberi
si rifugiava, e quando con le scuri
gli alberi abbatterono, notò
che nel tavolo dove i versi scriveva
un albero ancora viveva,
un albero che era stato,
che era e che sempre sarà,
non solo là dov’era, ma
ovunque
leggeranno le sue parole,
dove il colloquio della poetessa
con l’albero è registrato.
Ma non solo lei parlava,
perché anche il tavolo parlava molto
con la sua lingua peculiare –
con la melodia degli alberi,
quindi per capire le sue parole
il suo canto devi bene ascoltare.
Il tavolo che le parlava
era cresciuto in Cina,
quindi si può facilmente immaginare
che una fanciulla cinese vi abitava.
Quella stessa che un giorno
su una tavola dipinse
incantevole per colori e forma
il suo autoritratto,
sapendo che un giorno verrà
qualcuno che s’innamorerà di esso
e meriterà che ella
emerga dal ritratto
tendendo le braccia.
Tu sai che sono un albero,
e io so che tu sei un fiore
e che verrà qualcuno per il quale tu sarai
il più degno di ammirazione, di stima,
e del suo amore ergantropico –
un mondo
incantevole.
Dunque scrivi versi incantevoli
e trasformati in questi versi
per riconoscerti in essi
con lo sguardo, con l’udito, con il tatto
e con le braccia del cervello –
per afferrarli e assorbirli in te.
Ma tu, o Lettore, riuscirai
come Marina Cvetaeva
a sentire e capire
il canto di un albero?
2.12.2010
[trad. dal polacco di Paolo Statuti
(vedi suo blog. : Un’anima e tre ali”)
su suggerimento di A. Sagredo)].
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Mandel’stam e Cvetaeva insieme su una slitta
(il poeta rievoca con questi versi quell’incontro)
Su una slitta coperta di paglia,
appena appena coperti da una stuoia fatale,
dalle Montagne dei Passeri alla chiesetta sconosciuta,
noi andammo per l’enorme Mosca.
Ma a Uglič giocano i bambini a dadi,
e odora il pane lasciato nel forno.
Per le strade mi portano senza berretto
e nella cappella mandano fioca luce tre candele.
Non tre candele bruciavano ma tre incontri,
una di esse lo stesso Dio la benedisse,
la quarta non ci sarà, e Roma sarà lontana,
ed egli non amò mai Roma.
Si tuffava la slitta nei neri fossati,
e tornava il popolo dalla fiera.
Magri mužiki e cattive donnette
ciondolavano accanto alle porte.
L’umida lontananza per gli stormi d’uccelli nereggiava,
e le mani legate s’intorbidivano.
Portano lo zarevič, è terribilmente muto il suo corpo,
ed hanno dato fuoco alla rossiccia paglia.
1916
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(commento di AMR su questa poesia di Mandel’stam – Corso del 1974-75 a cura di A. S.)
[ “ Questa poesia è dedicata a Marina Cvetaeva, scritta nel 1916, quando la Cvetaeva condusse per Mosca più volte Mandel’štam facendogliela (come dice lui) conoscere – non perché era lì per la prima volta, ma perché la Cvetaeva lo introdusse in tutte le minuzie storiche e architettoniche di Mosca (vedi mia nota 295). Ci sono delle implicazioni continue di storia: c’è la sua passeggiata per Mosca , e Mosca gli ricorda tutta una serie di avvenimenti lontani della storia, non solo di Mosca, ma anche di altri paesi. Si riferisce soprattutto al periodo della morte di Ivan IV° il Terribile, quando erano ancora in vita i suoi figli, Fëdor della prima moglie, e Dmitrij, che era minorenne. La paglia e la slitta coperta di paglia sono il segno della vecchia Russia: c’è odore di contadino. Il popolo coi suoi divertimenti rozzi e la neve che copre la Russia; e infine c’è lui che viene portato senza berretto, e poi ci sono le chiese di Mosca, e c’è una piccola chiesetta con tre candele, che poi sono tre incontri, tre incontri con la Cvetaeva. I Tre incontri di Vladìmir Solovëv è un suo poemetto… e quindi non amava Roma… quindi la quarta Roma non ci sarà.
Paglia contadina, questo mondo di rude stoffa, di stuoia, di izba; ci sono gli incendi della vecchia Russia specialmente nel periodo di Boris Godunov, poi c’è la contrapparizione della Mosca dei boiari e Uglič dove viene confinato lo zarevič, c’è l’infanzia dello zarevič che coincide con l’infanzia del poeta; poi c’è la terza Roma dello slavofilismo assorbito da Solovëv e il fatto che la quarta Roma non verrà. E poi c’è questo popolo avvinazzato, turbolento, mužiko, che passa da un sovrano all’altro con estrema felicità.” ]
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Da una mia nota 295, p. 25 a questa poesia >>>>>>
>>>>>> “ I due poeti, Osip e Marina, sono in slitta e “la stuoia è fatale”. Perché? È ovvio che fra i due c’è più che una simpatia, e la stuoia è come il libro galeotto dantesco: i corpi loro si toccano: questo è fatale! Vanno in giro per Mosca: gelo e caldo e luce fioca s’intrecciano… i pensieri cominciano a formarsi e per loro due le tre candele, come le tre Rome, non possono essere che tre: non ci sarà mai una quarta candela-Roma pronta a dar luce al futuro. Finisce qui la loro riflessione storica, perché il rumore sordo della slitta li richiama al presente: e osservano mužiki non più grassi come una volta e prostitute che ciondolano come lanterne rosse. I loro occhi guardano centinaia di uccelli neri che offuscano le lontananze, quasi un tramonto nerastro come la gente che accompagna il feretro, dopo di che l’incendio che distrugge per costruire una novella storia, con un nuovo zar. Non si può non pensare talvolta là dove c’è odore di contadino e paglia ad Esenin, a questo suo mondo destinato a scomparire.”<<<<<<
–
Una poesia di Gino Rago
(dal poeta J. Haddad al poeta Francesca Dono)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/11/15/un-confronto-tra-lo-spazio-espressivo-integrale-di-sandro-penna-tipico-del-realismo-lirico-novecentesco-e-una-strofa-di-tomas-transtromer-del-1954-poesie-di-alfonso-cataldi-antonio-sagredo-giorgio/comment-page-1/#comment-26986
“Mi hai chiamata Lilith…”
In quel ‘silenzio unito al vuoto’ il poeta ti ha chiamata Lilith
perché incateni gli uomini e poi piangi perché tornino alla loro libertà.
Sei la luce dell’ alba la cui nudità destini solo ai ciechi.
Sei donna libera. Libera persino dalla libertà.
La prima donna di Adamo. La prima disobbedienza.
La fusione del sonno e della veglia.
Ti ha chiamata Lilith quel poeta.
Perché sei il segreto delle dita insistenti.
Scettro della libertà. Sigillo dell’amore-conoscenza.
Sposa del mito e della verità.
Canto di colomba per domare i leoni.
bellissima la poesia dell’amico Gino ….
Grazie Gino Rago, per questi versi aurorali che a noi, spose del mito, toccano le corde profonde dell’agnizione..
Grazie per la forza visionaria della tua Lilith, eroe eleutherica e disvelante,
Per l’amore di verità e per la verità dell’amore che incarna.
Grazie per le ombre e i segreti di Lilith, che sono quelle delle donne immerse nel mito.
Charis soi!
Gabriella Cinti
versi che fanno pensare e sognare, ritmi profondamente segreti che si rivelano all’improvviso e ti lasciano senza fiato. Grazie Gino Rago!
“…Scettro della libertà. Sigillo dell’amore-conoscenza.
Sposa del mito e della verità.
Canto di colomba per domare i leoni…”
Mariella
– Ringrazio Antonio Sagredo il quale, accogliendo con generosa tempestività
il mio invito, inanella un intervento ricco di pathos e di dottrina.
La privilegiata specola ripelliniana da cui il più ripelliniano poeta del nostro
tempo (Antonio Sagredo) muove i suoi commenti ha maturato per noi una altro frutto denso e succulento.
– Ringrazio Giorgio Linguaglossa per aver proposto i miei versi nella più
attraente delle forme possibili all’interno di una pagina, quella odierna,
di altissima civiltà poetica e di assai fine critica letteraria.
– Ringrazio Francesca Dono sia come destinataria dei miei versi scaturiti
dai suoi, “Mi hai chiamata Lilith” e “silenzio unito al vuoto”, sia per il suo
graditissimo apprezzamento.
– Meglio di come non si può lo ha già evidenziato Giorgio Linguaglossa nel suo pertinente commento, ma credo che giovi ribadirlo:
Sandro Penna nella sua “istintività sognante e fermata in un nitido gusto
epigrammatico, di perfetto alessandrino” non ha nulla a che spartire con
lo spazio espressivo integrale proprio, come notò anche Mengaldo,
per il suo ‘monolinguismo’ sviluppato ed espresso in un ” unitario e
impassibile mono- linguaggio melodico ” che si estranea sia dalla
‘forma di poesia senza forma’, sia dal ‘linguaggio di molti linguaggi’
dell’autentico Spazio espressivo Integrale, supporto della NOE.
Gino Rago
Caro Rago, non sono un poeta “ripelliniano”: tutt’altro!. E insistere sarebbe un gravissimo errore.
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Quanto a Eliot insisto i lettori a leggere il mio poemetto “Bistrot” ; così si comprende meglio Eliot!
Credo che il poemetto nessuno lo ha letto.!!!
Ciò significa che Eliot non si è compreso abbastanza.
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Berardinelli, chi?
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Montale: il più… il più… il più…. ma resta un piccolo poeta provinciale senza alcun valore universale. Come dire il capo riconosciuto dei poeti provinciali italiani.
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tradurre dal ceco : “Najednou v létě” come “D’improvviso l’estate” non è propriamente esatto… e allora “D’improvviso in estate”… e si ha un altro senso, quello più consono a ciò che segue…., ecc.
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caro Antonio,
Berardinelli ha la stima mia e di tutta la redazione e Montale è il maggiore poeta del novecento. Poi… di tutto si può discutere… ma non con battute di spirito, con ragionamenti…
Eugenio Montale
Due nel crepuscolo
Fluisce fra te e me sul belvedere
un chiarore subacqueo che deforma
col profilo dei colli anche il tuo viso.
Sta in un fondo sfuggevole, reciso
da te ogni gesto tuo; entra senz’orma,
e sparisce, nel mezzo che ricolma
ogni solco e si chiude sul tuo passo:
con me tu qui, dentro quest’aria scesa
a sigillare
il torpore dei massi.
Ed io riverso
nel potere che grava attorno, cedo
al sortilegio di non riconoscere
di me più nulla fuor di me; s’io levo
appena il braccio, mi si fa diverso
l’atto, si spezza su un cristallo, ignota
e impallidita sua memoria, e il gesto
già più non m’appartiene;
se parlo, ascolto quella voce attonito,
scendere alla sua gamma più remota
o spenta all’aria che non la sostiene.
Tale nel punto che resiste all’ultima
consunzione del giorno
dura lo smarrimento; poi un soffio
risolleva le valli in un frenetico
moto e deriva dalle fronde un tinnulo
suono che si disperde
tra rapide fumate e i primi lumi
disegnano gli scali.
… le parole
tra noi leggere cadono. Ti guardo
in un molle riverbero. Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo tardo
ritorno. Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorchè due volti, due
maschere che s’incidono, sforzate
di un sorriso.
Eugenio Montale
(Genova, 1892 – Milano, 1981)
Eugenio Montale è tutto in quel ritratto di Ugo Mulas del 1970. Quella immagine è diventata uno dei ritratti letterari più famosi ed eloquenti di tutti i tempi: Montale di fronte all’upupa impagliata donata al poeta da Goffredo Parise.
Non funambolo della parola ma autore di una scrittura priva di qualsiasi
orpello.
E’ il poeta che dà poca fiducia al mondo. Ma ha bisogno di nominarlo,
avverte il bisogno di descriverlo. E’ il poeta che appassiona alla vita
nonostante i suoi dubbi sull’esistenza, in una scrittura che non elargisce
suggestioni né alchimie verbali…
Troppo spesso si giudicano i poeti senza visitare l’essenza vera dei
loro versi. E’ un vero peccato.
Gino Rago
Le mie non sono mai battute di spirito. Io lo spirito non l’ho mai posseduto… i miei giudizi sono consapevoli, e alla fine emergono solo le punte degli iceberg: perché ancora tornare indietro coi fossili? Questi poeti del passato remoto e presente li metterei tutti in un museo compresi i critici (non tutti ovviamente, salverei L.G., p.e.) con la loro maniera critica di farli apparire contemporanei e moderni.
Io sono un poeta risoluto, e voglio io stesso parlare coi posteri, senza aspettare quel che racconteranno loro, nell’avvenire, i miei critici. Perciò mi rivolgo direttamente ai posteri nei miei componimenti più risoluti.