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Poesie per bambini di Osip Mandel’štam,  prima traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova da ”Il fornello a petrolio”, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, la struttura sincipitale della poesia per bambini

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Giorgio Linguaglossa

Sulla scrittura delle Poesie per bambini di  Osip Mandel’štam

Osip Ėmil’evič Mandel’štam nasce a Varsavia da una famiglia della media borghesia ebraica. I primi versi Osip li pubblica nel 1910 su «Apollon», la rivista della nuova scuola poetica: l’acmeismo. Nikolaj Gumilëv, l’inventore dell’acmeismo, nel 1913 scriveva: «In cambio del simbolismo sorge una nuova tendenza, comunque la si voglia chiamare: acmeismo (dalla parola acmè, il più alto grado di qualcosa, il fiore, la stagione del rigoglio), oppure adamismo (visione virilmente ferma e chiara della vita), che in ogni caso esige un maggior equilibrio di forze e una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto di quanto non sia avvenuto nel simbolismo».

Nel 1912 Mandel’štam entra nella prima “Corporazione dei poeti acmeisti”, si lega con Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Nel 1913 pubblica Kamen (Pietra), nel 1922 Tristia. Le poesie per bambini Il fornello a petrolio di cui qui si presentano un congruo numero, sono del 1925. Nel 1923 Mandel’štam viene colpito dal primo «invito» a non pubblicare versi. Di qui in avanti il poeta vivrà unicamente dei magri redditi che gli derivano da traduzioni e da qualche sporadica collaborazione letteraria.

Nella notte tra il 13 il 14 maggio 1934 il poeta viene arrestato dagli agenti della polizia segreta. Durante gli interrogatori gli contestano una sua poesia scritta contro Stalin. Mandel’štam trascorre tre anni di confino a Voronež, durante i quali scrive le grandi poesie della maturità. Scontata la pena il poeta e la moglie tornano a Mosca, dove il 2 maggio 1938 Mandel’štam viene arrestato e deportato. Ufficialmente, la data della morte è il 27 dicembre 1938.

Tutta la poesia della maturità di Mandel’štam, se si fa eccezione di Pietra, che pur rivela una perfetta levigatezza del verso di squisita fattura ellenistica, poggia sulla consapevolezza che la concezione del mondo del poeta si trova sempre in contrasto con il proprio tempo, «contropelo rispetto al mondo». Nel Discorso su Dante egli parla di una capacità visiva affatto speciale e specifica del poeta che gli permette, al pari degli uccelli rapaci e dei defunti della Commedia, di distinguere gli oggetti lontani, di scorgere i particolari a distanze enormi, pagando lo scotto di ciò con la cecità verso il presente. Già in uno dei suoi primi saggi, Sull’Interlocutore, l’allora ventiduenne poeta parlava della «preziosa consapevolezza della verità poetica»; sin da giovane si considerava un «costruttore»: «dalla triste gravezza anch’io un giorno creerò il bello». Nessun disgusto per la materia grezza, la acuta percezione della sua pesantezza, delle sue qualità intrinseche (la solidità, il peso, il colore, l’incastro): di qui l’idea di una poetica non «di tipo normativo», bensì «biologica», basata cioè sulle qualità originarie, fisiologiche, della materia. Mandel’štam non usava mai il termine «creazione», né il verbo «creare», concetti questi che gli erano totalmente estranei; l’acmeista ha bisogno dello spazio tridimensionale, per lui la terra «non è un fardello, non è un caso infausto, bensì il palazzo donatoci da Dio». Se per Mandel’štam si può costruire soltanto nell’ambito della tridimensionalità, ne consegue che muta radicalmente lo sguardo dell’artista verso il mondo degli oggetti: questo mondo può essere ostile all’artista, ovvero al «costruttore», perché gli oggetti ci sono dati per fungere da materiale da costruzione. La pietra ne è un esempio eloquente. È «come se essa agognasse ad una esistenza diversa» e si volesse inserire «nella volta a crociera» di una «cattedrale gotica». E proprio come la cattedrale gotica rappresenta il compimento della pietra, «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento, come il martello nelle mani del muratore; l’unica realtà è l’opera stessa» (Il mattino dell’acmeismo).

Mandel’štam aveva un concetto corporeo della parola, distingueva «la forma interna della parola dalla parola-segno e dalla parola-simbolo» cara ai poeti simbolisti. Accolse freddamente i celebri versi di Gumilëv sulla «parola» ma senza spiegarne mai il motivo; diversamente da Gumilëv intendeva anche l’importanza del numero dei versi e delle strofe di una composizione. Infatti, usava contare il numero delle righe e delle strofe di una poesia ed il numero dei capitoli nella prosa. A Voronež, Mandel’štam assiste meravigliato alla nascita di poesie di sette, nove, dieci, undici versi che entravano in azione gli uni con gli altri fino a comporre poesie più lunghe: stava nascendo una nuova forma. Venivano alla luce di getto, misteriosamente, nuove poesie di una lunghezza inusitata.

Nelle composizioni de Il fornello a petrolio si assiste ad una peculiarissima fusione delle immagini, dei concetti e delle rime dal punto di vista dell’occhio infantile. È il nuovo tipo di sguardo che determina la nuova forma della poesia.

Le poesie qui tradotte fanno parte di un ciclo di composizioni di genere «leggero», da non intendere nel senso di «cose minori», bensì nel senso di «esercitazioni», esercizi tematici con i quali spesso i poeti provano il proprio bagaglio tecnico in relazione ad oggetti «semplici», prima facie, ma che nascondono in sé notevolissime difficoltà di costruzione e di assemblaggio. Di tale natura è per l’appunto il tentativo compiuto con le poesie del ciclo Il fornello a petrolio. Innanzitutto, un oggetto di uso quotidiano (il fornello a petrolio, il ferro da stiro, le galline «parlanti» etc.), per un interlocutore letterariamente non smaliziato: i bambini, per i quali sarebbe superfluo approntare poesie stilisticamente elevate che rimarrebbero del tutto incomprese, meglio puntare sulla semplicità, mediante tecnicismi elementari ed universali che formano la base per la comprensione della poesia «alta», ossia i giochi di parole, i lapsus ed i giochi di immagini, con le parole di Mandel’štam, una struttura «sincipitale». Orbene, non si creda che un poeta del calibro di Mandel’štam voglia unicamente occuparsi di esercizi fonematici o di equilibrismi di immagini. Niente di più alieno dalle sue vere intenzioni. Il poeta russo tenta qui una vera e propria «muscolatura» delle immagini, pone in essere una ricca strumentazione di nervature interne sotto forma di gioco, di sciocchezze, di nugae. Ormai vicino alla morte, Mandel’štam in una lettera a Tynianov ci chiarisce il concetto di certa sua produzione: «È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, io sputo sulla poesia russa, ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo…». C’è in queste poesie una sorta di sospensione del mondo degli adulti, dove le leggi stesse della gravità e della connessione spazio-temporale sembrano saltate. Ma non è Mandel’štam il poeta che aveva scritto: «L’uomo non è più padrone a casa sua… Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire… Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi?». Sì, è il poeta russo che si prova qui con il mondo degli oggetti che non obbediscono più alle leggi della fisica degli adulti. Gli oggetti sembrano essersi ammutinati e si comportano in modo bizzarro.

Dunque, «sciocchezze» di tipo superiore, «sciocchezze» per l’educazione estetica dell’umanità futura. L’interesse dei poeti verso l’infanzia lo si può riscontrare, in generale, quando le sorti dell’umanità seguono momenti di criticità, e non è un caso che un poeta come Mandel’štam si rivolga ai bambini russi quale concreto «interlocutore» della poesia a venire, quando la lotta per l’imposizione di un nuovo modello di poesia è divenuta problematica e l’esito stesso, la stessa sopravvivenza della poesia nel «nuovo» mondo appariva problematica. D’altra parte, Mandel’štam non aveva bisogno di un lettore qualsiasi. Non certo che disprezzasse i lettori come detestava gli attori che solevano recitare versi in stile «trombonesco», aveva bisogno di un «interlocutore», di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi appena composti. Ma per questo ufficio era sufficiente la moglie Nadežda. L’educazione estetica dei lettori era un concetto che lo faceva sorridere di scherno; a questo ci pensavano già i simbolisti con la loro aura sacrale, i futuristi e i lefovci con l’estetizzazione della politica. Mandel’štam preferiva parlare degli «uomini», non dei «lettori»: «gli uomini conserveranno le poesie… se ne avranno bisogno, le troveranno da soli, trovano sempre quello di cui hanno bisogno».

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Nell’isola di Sevan, Mandel’štam aveva notato che le lenti del binocolo “Zeiss” aumentavano l’intensità del colore, lo rendevano più puro. Mandel’štam non si stancava mai di lodare le capacità di questo binocolo, finché non lo citò in una delle sue poesie più belle.

In un certo senso, l’operazione che il poeta compie in queste Poesie per bambini è di riuscire ad ottenere una poesia più immediata, ingenua, che lo conduca più in prossimità degli oggetti e ne sveli la particolare nobiltà «fisiologica»; tutto ciò senza ricorrere al alcuna nobiltà denominativa. Non per nulla Mandel’štam possedeva un acutissimo senso del tatto, come i bambini, toccare le cose lo aiutava a riconoscerle. Per lui il poeta «tocca» la forma interna degli oggetti ancor prima che questi si materializzino in parole. Il toccare lo aiutava a ricordare, ed il ricordo era lo stadio che immediatamente precedeva il vestito di parola. In queste poesie per bambini, Mandel’štam per prima cosa ricompone per lo sguardo infantile oggetti ad essi familiari, che nella vita quotidiana dell’epoca essi avevano continuamente sotto gli occhi (per esempio, il ferro da stiro incandescente che le nostre nonne ponevano sul davanzale della finestra per farlo raffreddare; il fornello a petrolio con le sue particolarità costruttive, etc.).Questi oggetti vengono animati dall’interno come se fossero delle entità viventi e parlanti: così l’elettricità è paragonata ad un «fuoco freddo» che fa illuminare la lampadina; il latte non bollito si trasforma in yogurt per via di trasmutazione quasi magica, e così via. Ovviamente, nella versione in italiano raramente è stato possibile rendere i parallelismi fonetici che stigmatizzano le trasmutazioni; cionondimeno, non tutta la freschezza e l’agilità di queste composizioni viene perduta; ciò che resta è sufficiente a farci apprezzare l’alta qualità della manifattura poetica che è alla loro base. Ad esempio, nella composizione numero dieci è stato possibile conservare la rima del testo russo con una analoga in italiano. Tanto basta a rendere lo squisito sapore dell’originale, nonché, degno di nota è il raffinatissimo nesso incrociato dei «violinisti» e dei «trombettieri» legati dalla giuntura della rima in «elle» e dall’unità di luogo e di tempo dell’azione: il mercato.

L’interesse per la poesia infantile era comune ai poeti della generazione di Mandel’štam; ricordiamo qui per inciso le poesie della bambina ucraina che Velimir Chlébnikov commentò già prima degli anni ’20, dove la ingenua «trasgressione… solleva il velo dai versi monotonamente rivestiti dal metro». Lo sforzo di Chlébnikov era orientato verso la rottura della struttura sillabico-tonica della versificazione simbolista. La trasgressione consapevole e ingenua era intesa nel senso di un recupero del parlato quotidiano. Se Chlébnikov fu il primo ad introdurre nella poesia russa le rime «marginali», prima di lui repertorio della poesia comica, un grande continuatore di questo indirizzo è rappresentato da Majakovskij e dalla rivista “Novij Satirikon”, nonché dal poeta umoristico Sasa Cërnyj, autore, tra l’altro, di uno splendido racconto lungo, Diario di un cane, pubblicato a Parigi nel 1926, dove il mondo degli adulti è illuminato dal riflettore del punto di vista dello sguardo infantile. Ad esempio, anche nella prosa il punto di vista infantile-ingenuo produrrà i racconti stranianti di Daniil Charms. La teorizzazione di Chlébnikov sulla lingua come di «un gioco alle bambole», così che «la parola è una bambola sonora e il dizionario una raccolta di giocattoli», fu una delle più feconde per la poesia russa. Poiché «la lingua si è naturalmente sviluppata a partire da poche unità basilari dell’alfabeto», compito del poeta per Chlébnikov sarà di riassemblare, sulla base di pochi «straccetti sonori» una lingua transmentale che si sviluppi a partire da pochi radicali con l’aggiunta di suffissi e affissi, in direzione di un linguaggio «stellare», «pentaraggiale», universale, dove i tradizionali nessi semantici e sintattici si affievoliscono per far posto ad un nuovo processo di etimologizzazione e semasiologizzazione dei testi. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua, in Mandel’štam lo sguardo infantile costruisce gli oggetti. Mandel’štam invidiava nei bambini quella loro particolare attitudine ottica che permette loro di ricostruire, da oggetti immobili gli oggetti in movimento; impadronirsi di questa facoltà avrebbe significato una grande acquisizione per un poeta. Affinare la facoltà ottica e tattile significava poter padroneggiare in misura eccelsa gli oggetti, riconoscerli in ogni loro istante, riuscire a rappresentarli in modo più icastico, completo. Per Mandel’štam i cinque sensi erano una «finestra sul mondo», in particolare, la vista ed il tatto, i più sublimi; facoltà che nell’uomo moderno erano ormai in declino. Tratti infantili erano presenti anche nella personalità di Mandel’štam, il quale era solito vantarsi, dinanzi all’Achmatova, delle prodigiose capacità della propria vista, e di frequente, per le strade di Pietroburgo, sfidava la amica poetessa a chi leggeva per primo il numero dei tram in arrivo. La moglie di Mandel’štam fungeva da arbitro. Con grande scorno di quest’ultimo, vinceva sempre la Achmatova. Mandel’štam era solito chiamarla la «piccola vespa», si era convinto della suprema acutezza della vista della Achmatova e la ammirava. Nessuno riusciva a capire perché mai Mandel’štam frequentasse assiduamente il museo zoologico di Pietroburgo: per sfogliare libri e studiare la struttura della vista di uccelli, insetti, lucertole, mammiferi. Fu così che «l’occhio sincipitale» degli insetti entrò in una delle sue poesie più alte. Mandel’štam era convinto che i bambini vedessero meglio e più in profondità degli adulti, fu per questo che intraprese a scrivere un ciclo di poesie per bambini, per tentare di impadronirsi di questa suprema capacità visiva. Era convinto che per poter costruire una grande poesia fosse necessario riconoscere gli oggetti in modo sintetico e diacronico, con sguardo plastico ed animistico, con occhio parallattico e sincipitale.

Risposta all’inchiesta “lo scrittore sovietico e l’ottobre” inaugurata dalla rivista “Citatel’ i pisatel’” (Lettore e scrittore) del 1928

La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la «biografia», la sensazione di un significato personale.

Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono, per ora, necessari.
La domanda su come debba essere uno scrittore, mi è del tutto incomprensibile: per rispondere dovrei inventare uno scrittore, il che significherebbe scrivere le sue opere in sua vece.
Sono altresì profondamente convinto che, sebbene gli scrittori dipendano dai rapporti di forza sociali e ne siano condizionati, la scienza moderna non possegga alcun mezzo per evocare la comparsa di questo o quell’autore che ritiene auspicabile. Dato lo stadio embrionale dell’eugeneutica, gli incroci e gli innesti culturali possono dare i risultati più inaspettati. È invece possibile una produzione in massa dei lettori. Per questo esiste un mezzo diretto: la scuola.

Mandel’štam aveva compreso un fatto fondamentale: che per fare poesia occorre ritornare ad avere uno sguardo, in un certo senso, «infantile» (dizione di Mandel’štam), che occorre ripristinare uno «sguardo sincipitale» (dizione di Mandel’štam) delle api e delle lucertole, e «stereometrico» (dizione di Mandel’štam), che occorre vedere la «parola» (del linguaggio poetico) dall’interno e dal di fuori, da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso (dizioni di Mandel’štam)… e che questa particolare attitudine del linguaggio umano e di quello poetico è una attitudine naturale… soltanto le stratificazioni culturali ottundono lo sguardo costringendoci ad un VEDERE istituzionalizzato ed nomologato.. La poetica dell’acmeismo, nelle intenzioni del poeta russo mirava a mettere in risalto le cose non solo perché esse sono cose in senso ontologico ma perché le cose nel linguaggio sono altra cosa dalle cose in sé. Mandel’štam diceva che «bisogna considerare la parola come un fascio, ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza però dirigersi verso alcun punto ufficiale».

Straordinaria e acutissima intuizione.

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da Il fornello a petrolio di Osip Mandel’štam
I
Le belle gallinelle andarono dalle spocchiose pavonesse:
“Dateci almeno una pennuccia, suvvia, coccodè – coccodè”
“Ci mancherebbe altro!
Che vi siete messe in testa?
Pensate: a cosa vi serve?
Noi non siamo vostre amiche: ma pensa, coccodè – coccodè”

II

Un pan di zucchero
né morto né vivo.
Hanno preparato del tè fresco:
serviteci pure lo zucchero!

III

Per guarire e lavare
Il vecchio dorato fornello a petrolio,
gli tolgono la testolina
e lo riempiono d’acqua.

Il ramaio, dottore del fornello a petrolio,
guarirà il fornello malato:
lo pulisce con l’ago sottile.

IV

Amo molto la biancheria,
sono amico di una camicia;
non appena la vedo –
stiro, ripasso, scivolo:
– Se voi sapeste quanto
mi fa male stare sul fuoco!

V

“Per me che sono non bollito, rozzo,
è facile diventare yogurth!”
diceva a quello bollito
il latte non bollito.

Ma quello bollito
risponde con dolcezza:
“Io non sono un completo rammollito:
ho la pellicina”. Continua a leggere

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Antologia della poesia di Nikolaj Gumilëv (1886-1921), Prima traduzione in italiano, a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova 

          

Nikolaj Stepanovič Gumilëv nacque a Kronnstadt, nel 1886 e morì nel 1921 fucilato dai bolscevichi. Studiò in un liceo diretto dal poeta Annenskij. Cominciò a pubblicare poesie dal 1902. Nel 1905, ancora al liceo, uscì la sua prima raccolta poetica, Il cammino dei conquistatori. In seguito si trasferì a Parigi per studiare alla Sorbona. Nel 1909 fonda il giornale “Apollon”.
Nel 1910, alle celebrazioni del poeta simbolista Ivanov incontrò la poetessa Anna Achmatova che sposò pochi mesi dopo. Nel 1911 fondò con Gorodeckij l’associazione “Gilda dei poeti” per tornare alla concretezza e alla solidità del lavoro dell’artigiano. Presero parte della Gilda anche Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, il movimento fu denominato Adamismo ma passerà alla storia come acmeismo (da acmé, vertice).
Gumilëv tradusse in russo Gilgamesh, Leopardi, Gautier, Shakespeare, Baudelaire, Browing e altri. Dopo la Achmatova, nel 1919, sposò Anna Engel’gardt, L’ultimo libro è Colonna di fuoco del 1921. Arrestato il 3 agosto 1921 con la falsa accusa di partecipazione a un complotto monarchico, della congiura di Tangacev – fu fucilato il 25 agosto con altri compagni. Un aneddoto raccontato dalla moglie di Mandel’štam, Nadezda, lo descrive bene. Siamo nel gelido inverno di Pietroburgo, nel 1919, la temperatura è abbondantemente sotto i venti gradi. Un ricevimento in un salone terribilmente gelido. Si presenta Gumilëv con un leggerissimo abito estivo (non possedeva abiti invernali), e cammina senza battere ciglio nel salone gelido come se nulla fosse. Ufficiale zarista, era stato insignito di una importante onorificenza di guerra per il coraggio mostrato in combattimento. Parteggiò per i bianchi. Fu arrestato la sera e la mattina seguente venne ucciso dai bolscevichi.

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Nel ringraziare Giorgio Linguaglossa e “L’ombra delle parole“ per l’ospitalità data al nostro lavoro su un poeta poco tradotto e, di conseguenza, poco conosciuto in Italia, vorremmo attirare l’attenzione del lettore sulla poesia “Il tram che si era perso” che è considerata una delle più misteriose della poesia russa. Lo stesso Gumilëv raccontò che l’aveva scritta in pochi minuti come se qualcuno “dal di dentro” gli dettasse i versi che combinano i due generi della visione e della ballata. Come il protagonista della “Commedia” di Dante, l’io lirico della composizione si trova fin dall’inizio in un luogo sconosciuto ma, se Dante vede dinanzi a sé un bosco, Gumilëv delinea un paesaggio fortemente urbanizzato.

In una sorta di reincarnazione (tema già affrontato nella poesia “Il ricordo”) il poeta rivive tre rivoluzioni: quella francese, la rivolta di Pugacëv del 1773 e la rivoluzione bolscevica. Per la prima notiamo i rimandi alla figura del boia (raffigurato qui per licenza poetica in camicia rossa e non nella consueta camicia bianca), le teste mozzate, la cesta sul cui fondo giacciono, le insegne insanguinate. La rievocazione della figura di Mar’ja (Mascia), la protagonista del racconto di Puskin La figlia del capitano, ci riporta all’epopea di Pugacëv: anche qui una licenza poetica. Gumilëv “inventa” un altro finale, dal momento che nell’originale la nostra eroina non muore ma sposa felicemente il suo amato. Ma in Mascia si compone l’immagine della Russia prerivoluzionaria, quella che Gumilëv tanto amava e riteneva essere la vera Russia.

L’immagine del tram simboleggia la rivoluzione del 1917 e l’invocazione “Fermate, conducente// fermate il vagone” esprime compiutamente la posizione del poeta nei confronti dell’epoca che viveva e che, come è noto, lo portò davanti al plotone d’esecuzione. Ma nessuno ormai poteva fermare il vagone e Gumilëv doveva andare avanti, riconoscendo con amarezza che “la casa con tre finestre e il prato grigio” che baluginavano sarebbero rimaste per sempre nel passato: “Non ho mai pensato// che si possa amare così ed essere tristi”.

Anna Achmatova scrisse: “Gumilëv è un poeta ancora non compiutamente letto. E’ un visionario, un profeta. Predisse la sua morte con ogni particolare fino all’erba autunnale”.

Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Poesie di Nikolaj Stepanovič Gumilëv

Cosa ho letto? Vi annoiate, Leri, *
E se ne sta sotto il tavolo Socrate.
Siete stufa dell’antica fede?
– Che bel ballo in maschera!
Eccomi nella mia angusta stanzuccia
mi rallegro per la vostra lettera.
Com’è adorabile il cappello di Faust
sul caro volto di fanciulla.
Ero con voi, completamente innamorato,
me ne andai, stringendomi per la nostalgia.
E’ più terribile di un cappello calzato
Il gesto di una mano che si allontana.
Ma serbai il ricordo
Dei giorni stupendi e inquieti,
il mio pavido fantasticare
sui vostri dolci occhi.
Davvero li rivedrò di nuovo
e resterò immobile per il dolore e l’amore
e a loro, splendenti, avvicinerò
i miei occhi tartari?!
E di nuovo ricominceranno i nostri incontri,
il vagabondaggio notturno a casaccio
e le nostre chiacchierate maliziose
e le Isole e il Giardino d’Estate?
Ma, ah, potrò forse io non essere cupo,
posso forse scacciare il dubbio?
Eppure la malinconia può
essere appena
una bella avventura.
e, giustamente, il giorno ingrigendo colse
di nuovo Socrate sul tavolo,
perciò “Emaux et carmees”
con “La faretra” nella stessa polverosa foschia.
E così voi, simile ad un gatto,
dicevate al notturno: “Addio!”
e vi porta velocemente verso la Psiconeuroska, **
risuonando e saltando, un tram.

(1916)

* Larissa M. Rejsner
** istituto dove la Rejner studiava

*

ad  Anna Achmatova 

Mi avete dato un album aperto, *
vi cantavano corde di lunghi versi,
io lo portai via e, arrabbiato,
lungo il cammino chiusi di scatto la serratura.
Brutto segno! Mi tormentavo,
dinanzi a lui leggevo versi,
pregavo ma non si aprì,
era più spietato delle furie della natura.
E mi toccherà abituarmi
alla consapevolezza, colma di nostalgia,
che devo penetrarvi dentro
come nel vostro cuore – come un ladro.

(maggio 1917)

UN SOGNO

Cominciai a gemere per un brutto sogno
E mi svegliai davvero afflitto:
sognai che amavi un altro
e che lui ti aveva offesa.

Correvo via dal mio letto,
come un assassino dal suo patibolo
e osservavo come fiocamente rilucevano
i lampioni con occhi di fiera.

Ah, forse, così randagio
non vagava nessuno
in quella notte per le vie oscure,
lungo letti di fiumi asciutti.

Ecco, starò davanti alla tua porta,
non mi è concessa altra via
sebbene io sappia che mai
oserò oltrepassare questa porta.

Lui ti ha offeso, lo so,
sebbene fosse solo un sogno
tuttavia sto morendo
dinanzi alla tua finestra chiusa.

(1917)

MEMORIALE

Ed eccola tutta la vita! Turbinio, canto,
mari, deserti, città,
immagine baluginante
del per sempre perduto.

Infuria la fiamma, suonano le trombe
e volano rossi cavalli,
poi labbra che emozionano
parlano, sembra, della felicità.

Ed ecco di nuovo estasi e dolore
di nuovo, come sempre, come sempre
Il mare agita la canuta criniera,
si alzano deserti, città.

Quando alla fine, ribellatomi
al sonno, io sarò di nuovo io –
un semplice indiano che si è assopito
nella notte sacra vicino al ruscello?

(1917) Continua a leggere

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Franco Di Carlo, Poesia inedita, Il pensiero poetante, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – La verità è diventata precaria

 

Foto uomo verde sulla strada

Tutto è in ordine nella casa.

 Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria(1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) 

Foto uomo collage

il morto/ pensa e vive direzioni senza via

Il pensiero poetante

Tutto è in ordine nella casa. Gli umani
si avvicinano ai divini e al cielo, visitati
dalle cose. Insieme al mondo vengono
chiamati, si fanno vicini, si compongono
nella differenza, compiendo l’unità
nella divisione del dolore che riunisce.
Pura luce dorata acquieta e raduna,
raccoglie gli eventi al suono della quiete.
Indica il luogo del cammino del pensare
e del dire, l’osserva sorgere l’essenza
occulta. L’anima solitaria scende
al tramonto, nel fiume azzurro, tra verdi
rami intrecciati. Procede pallido il passo
del morto, oscuro e silenzioso, imbruna
il bosco, distrutto nell’ora crepuscolare.
Declina lieve il giorno e l’anno appare,
saldo ricordo del processo nella notte d’argento.
Scivola via il celeste oblìo nella sera autunnale.
Tenero riluce il suono chiaro e azzurro del fascio
sacro di fiori e di fiere, rigidi volti nella
muta potenza della pietra del dolore,
sfrenatezza dei sensi bestiali e dei sessi,
genere umano duale e abbrutito che cerca
in una mite duplicità, la giusta via,
della semplice unità. Nuova umanità
nasce perciò inseguendo l’Altro, quello
che è sparito via, in alto è partito.
Perduto nell’azzurro crepuscolo, scomparso
nella dolce sera vespertina tra pareti
lacerate, infuocate mura, putride querce.
Perviene a una parola nuova il volto nascosto
su cui meditano i filosofi e cambia senso
e forma su cui cantano i poeti, il loro
parlare conduce all’inizio il declino
della sera, dove tutto confluisce, è salvato
custodito preparato al nuovo giorno,
quando la parola dice il canto della partenza,
lo sguardo medita nel suo destino.
Folli sentieri in altri luoghi, il morto
pensa e vive direzioni senza via, segue
il mite fanciullino alla ricerca della quiete,
ora è dipartito nel mattino d’inverno
che raccoglie il placato e mite animale
che pensa, non ancora espresso pienamente
né ancora giunto al suo luogo d’origine.
Stirpe inquieta e disfatta, caduta antica,
bestia che si trasforma tra fredde oscure
selve metalliche, notturni boschi brucianti
smarriti tormenti, nella perduta via sporge
una figura umana? Di selvaggia natura
fatta di spine aggrovigliate, anima senza
cammino e senza vento nel nero sentiero
che il morto percorre nel buio velame.
Quando silenziosi, i dolci violini nel lago
stellato, tacciono i loro lamenti, s’ode
soltanto la fresca voce della luna e
il tenue dileguarsi dell’anima invernale
dell’anno spirituale, attinge la terra
e la sua linfa pura, umanità maledetta
e sfatta nella sua decomposizione, colpita
dal conflitto tra fratello e sorella.
Separati dagli altri, i viandanti seguono
il Diverso, discordia dirompente, cieca
donando calma e riposo all’arsura
e alla devastazione dell’invecchiato genere
umano, quando prende vita l’oscura forma
e la voce dorata dell’altro. Oltre il cimitero
silvestre ha attraversato il petroso ponte
purgatoriale sanguinante, lontani Miti
ormai dimenticati che raccontano strane leggende
di boschi fiumi laghi celesti e ninfe.
E’ passato al di là, senza morire, ma nella
vita del nulla lucente, un folle volo verso
l’inizio dell’essere ancora non nato
che conserva sereno la quiete della puerizia
spirituale, promettendo il risveglio in letizia
della stirpe impreparata e in disfacimento.
L’impronta azzurra di un bianco congedo straniero
tra gli umani, solo e pensoso, mite il suo
distacco navigando dolcemente, nulla detraendo
al vero, sulla barca dorata un unico
sentiero che porta alla giustizia. Un tempo
unico, singolare, i cui giorni tutti conducono
alla partenza senza svolgimento né durata
o successione. Un avvenimento primordiale
di ciò che è andato e raccoglie il presente
e lo nasconde nel lago di stelle mattutine,
pazienti sorelle della notte e del suo silenzio.
Pallido ricordare di venti leggeri e dormienti
che alimentano la Fiamma che arde e dà
luce, tormenta, incenerisce e risplende,
indica il cammino verso il linguaggio.
Una vita nuova. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

————————————————————————
mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
————————————————
dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

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UNA POESIA di Osip Mandel’štam (1891-1938) «Trovando un ferro di cavallo» (1933) Traduzione di Serena Vitale Commento di Giorgio Linguaglossa

osip mandel'stam

 Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908  entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938  viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja  rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

Trovando un ferro di cavallo

Guardando il bosco diciamo:
ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,
pini rosati
liberi fino in cima dal ruvido fardello,
a loro di gemere nella burrasca
solitarie conifere
nell’imbestialita aria non boschiva:
sotto il salato tallone del vento resiste l’archipendolo fissato alla tolda danzante.

E il navigatore dei mari nella sua smisurata ansia di spazio
trascinando per umidi solchi il fragile strumento del geometra
confronta l’attrazione del grembo terrestre
con lo scabro livello delle acque

e respirando l’odore
di lacrime di resina dal fasciame della nave,
ammirando le tavole
inchiodate, composte in paratie
non dal buon falegname di Betlemme, ma dall’altro
– il padre dei viaggi, l’amico dell’andar per mari –
diciamo:
anche loro stavano sulla terra,
scomoda come la spina dorsale di un asino,
per le cime dimenticando le radici,
dritti sul famoso crinale,
e vociavano sotto l’insipido acquazzone,
proponendo invano al cielo di scambiare con una manciata di sale
il loro carico prezioso.

Da dove cominciare?
Tutto si incrina e oscilla.
l’aria trema di paragoni.
Nessuna parola vale più di un’altra,
la terra romba di metafore,
e bighe leggere
nei vistosi finimenti di uccelli in stormi densi per lo sforzo
finiscono in frantumi
a gara con gli sbuffanti beniamini degli ippodromi.

Tre volte benedetto chi porta un nome al suo canto:
adornata di un nome la canzone
vive più a lungo delle altre,
un nastro sulla fronte la fa eletta fra le compagne
salvandola dall’oblio, profumo troppo forte che stordisce
– foss’anche la prossimità del maschio
o il profumo della pelle di una bestia forte
o anche soltanto la fragranza della santoreggia sgualcita fra le mani.
L’aria sa essere scura come l’acqua, e ogni cosa vivente vi nuota dentro come un pesce
scuotendo con le pinne la sfera,
compatta, elastica, appena riscaldata,
cristallo dove girano ruote e scartano i cavalli,

Umida terra-nera della Neera ogni notte di nuovo disossata
da forche tridenti, zappe, aratri.
L’aria è coinvolta non meno densamente della terra,
non si può uscirne, si fa fatica a entrare.
Il fruscio zampe-verdi corre fra gli alberi:
i bambini giocano agli aliossi con vertebre di animali morti.
Il fragile calendario della nostra era si avvicina alla fine.
Grazie per ciò che è stato:
sono io che ho sbagliato, ho fatto male i conti, ho perso il filo
l’era tintinnava come una sfera d’oro, cava, fusa, nessuno la reggeva,
ogni volta a sfiorarla rispondeva “si” o “no”
come un bambino risponde:
“ti do la mela” o “non ti do la mela”
e il suo viso è il calco preciso della voce che pronuncia le parole.

C’è ancora il suono, ma la causa del suono non c’è più.
Il cavallo giace nella polvere e rantola schiumando,
ma il ripido stacco dell’incollatura
serba ancora il ricordo della corsa con le zampe da ogni parte protese
– quando non erano quattro
ma quante le pietre della strada,
moltiplicate ancora quattro volte
quante ritraeva dal suolo l’ambio lucido di calore.

Così
trovando un ferro di cavallo
si soffia via la polvere,
lo si strofina sulla lana finché brilla,
allora lo si appende sulla soglia
perché riposi
e non gli tocchi più strappare scintille dal selciato.

Labbra umane che più non hanno da dire
conservano la forma dell’ultima parola pronunciata
e la mano sente ancora il peso
anche se la brocca è traboccata a mezzo
nel cammino verso casa.
Quello che dico adesso non sono io a dirlo,
ma si strappa alla terra come grani di grano pietrificato.
Alcuni
sulle monete disegnano un leone,
altri
una testa:
pastiglie d’ogni sorta – di rame, oro, bronzo
stanno sepolte nella terra con gli stessi onori.
Il secolo, a furia di morderle, ci ha lasciato l’impronta dei suoi denti.
Il tempo mi lima come una moneta,
e ormai manco a me stesso.

(trad. Serena Vitale)

Osip Mandel'stam a Firenze 1913

Osip Mandel’stam a Firenze 1913

Commento di Giorgio Linguaglossa

Ora che dovrei tentare un commento a questa che è tra le cinque o sei composizioni più grandi del Novecento, avverto tutto l’imbarazzo e l’insufficienza del mio tentativo. Letteralmente, non saprei da dove iniziare; se da quel gerundio della traduzione di Serena Vitale (ma in russo il verbo è al presente), e poi “il bosco”, segnato da quel rituale da preghiera: “diciamo”. E siamo già proiettati nel tempo mitico della costruzione delle navi, nel tempo omerico di Ulisse che fabbrica «gli alberi maestri», fino a «l’archipendolo fissato alla tolda danzante».

«Il linguaggio poetico – scrive Mandel’štam nel Discorso su Danteè un processo ibrido, e consiste di due sonorità. La prima è il mutamento che noi udiamo e sentiamo negli strumenti del discorso poetico, il quale sorge nel processo del suo impulso. La seconda sonorità è il discorso, cioè, il lavoro fonetico e tonale rappresentato dai detti strumenti».

Se il concetto base dei simbolisti era le «corrispondenze» fra l’alto e il basso; quello di Mandel’štam, detto con le sue stesse parole, era la «trasformabilità o convertibilità» di oggetti disparati legati tra loro da un rapporto di inerenza (rapporto per eccellenza storico). Così, «il buon falegname di Betlemme» è legato storicamente ad Ulisse, «il padre dei viaggi [perché] anche loro stavano sulla terra,/ scomoda come la spina dorsale d’un asino». In Mandel’štam nessuna metafora è gratuita, essa non è ornamento, ricerca del bello o del nuovo; la correlazione tra gli oggetti è data dalla legge di “trasformabilità o convertibilità”, è una legge che ha la stessa stringente cogenza della legge di gravità; una legge fisica alla stregua della legge dei vasi comunicanti. Per Mandel’štam “soltanto la realtà può dar luogo ad un’altra realtà”, e il linguaggio poetico non differisce, né può derogare, a suo avviso, alle leggi della fisica: “L’aria trema di paragoni” in quanto sottoposta alla forza di attrazione che ogni oggetto fisico esercita su qualsiasi altro oggetto fisico. «La terra romba di metafore»; onore al poeta dunque («tre volte benedetto») che dà nome alle metafore.

Mandel’štam aveva studiato con troppa intelligenza la tecnica cinematografica per non capire che il «cinema moderno… volge in maliziosa parodia le funzioni degli strumenti del discorso poetico», poiché il suo montaggio si svolge senza alcun conflitto e ogni fotogramma segue il precedente. Mandel’štam comprende, con larghissimo anticipo su tutti i suoi contemporanei, che il discorso poetico non potrà né dovrà imitare lo scorrere quieto (o accelerato) e rettilineo dei fotogrammi del montaggio cinematografico; egli avverte tutto il pericolo di tale seducente imitazione, ed intuisce che la strada da imboccare è esattamente l’opposta: fotogrammi di specie e genere diversi devono interagire gli uni con gli altri come sorgenti energetiche in atto.

Stalin

Stalin

«Immaginiamo che qualcosa sia stato compreso, afferrato, tolto dall’oscurità di un linguaggio volontariamente dimenticato immediatamente dopo la realizzazione dell’atto di apprendimento ed esecuzione. In poesia, soltanto l’atto dell’intellezione esecutoria ha una qualche importanza, e non l’intellezione passiva, mimetica, parafrasante. La soddisfazione semantica è equivalente alla sensazione di aver eseguito un ordine. I segnali ondeggianti del significato scompaiono una volta che essi hanno svolto il loro compito: tanto più forti essi sono, tanto più duttili, tanto meno risultano indecisi. Diversamente non si potrebbe fuggire l’irretimento meccanico, il martellamento in quei chiodi prefabbricati chiamati immagini ‘poetico-culturali’… La qualità della poesia è determinata dalla rapidità e decisione con le quali essa instilla i suoi ordini, il suo piano di azione nella… natura della formazione della parole. È come se uno dovesse correre attraverso l’intera estensione di un fiume, incastrato in mezzo a veloci giunche cinesi che veleggiano in varie direzioni. Questo è come il significato del discorso poetico viene creato. La sua rotta non può essere ricostruita interrogando i barcaioli: essi non vi diranno come e perché noi saltavamo da una giunca all’altra. Il discorso poetico è una fabbrica di tappeti con una moltitudine di orditi tessili che differiscono l’uno dall’altro» (Discorso su Dante).

Il concetto di «discorso poetico» che Mandel’štam ha in mente è qualcosa di notevolmente più profondo ed ampio dei coevi concetti di ambiguità e di indirezionalità della parola poetica: viene detto a chiare lettere che “la sua rotta non può essere ricostruita interrogando i barcaioli”. E qui viene spazzata via, d’un colpo, tutta la metafisica della odierna critica reader oriented, come anche l’impostazione acritica che privilegia la “soggettività poetica” vista come una entità data e immodificabile. Mandel’štam sopportava con orrore l’indagine inquisitoria della polizia segreta e dei delatori, che chiedevano: “che significa questa parola?”, “e quest’altra?”; Mandel’štam diffidava della rozzezza inquisitoria che certi critici impiegavano nell’indagine ermeneutica, perché la parola è una “forma chiusa” non si stancava di predicare – ed è impossibile penetrare nella struttura tettonica della parola se non con il martelletto del geologo.

Nadezda Mandel'stam

Nadezda Mandel’stam

Bisogna aver rispetto per la «fisiologia» – non si stancava di ripetere Mandel’štam – «noi siamo degli smysloviki» (da smysl=significato, da cui “significazionista”) soleva ripetere Mandel’štam, criticando implicitamente sia la critica di scuola formalista russa che quella di ascendenza sociologica. Il poeta russo si augurava che qualcuno si accostasse all’opera di Dante «con il martelletto del geologo, allo scopo di accertare la struttura cristallina della sua roccia e studiare le particelle degli altri minerali contenuti in essa, studiare il suo colore combusto… giudicarla come un cristallo minerale che è stato soggetto di una grande varietà di accidenti» (op. cit.)

Questo scandagliare il campo della mineralogia alla ricerca di paragoni e metafore per rendere il senso esatto del suo pensiero, non è un vezzo di Mandel’štam, ma una procedura ermeneutica: la mineralogia gli svela la reale concrezione della parola: la mineralogia richiede, per essere compresa, la meteorologia, e quest’ultima permette la comprensione della struttura tettonica delle rocce (leggi parole). La «forma cristallografica» della parola è simile alla struttura cristallina della roccia.

Non v’è «corrispondenza» tra i due termini del reale nel senso inteso dai simbolisti, v’è “corrispondenza” nel senso inteso dagli acmeisti, di unione, come tra “vasi comunicanti”, tra due entità fisiche “in opposizione al non essere”. Erano questi i motivi che conducevano Mandel’štam ad invocare una “scienza della cristallografia” interamente “derivabile dallo spazio tridimensionale”; ed erano queste le ragioni che lo inducevano ad aborrire ogni forma di interrogazione inquisitoria del testo poetico.

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

Anche nell’Achmàtova c’è lo stesso ribrezzo per l’indagine inquisitoria: “Là, dietro il filo spinato,/ nel cuore dell’impenetrabile tajgà,/ conducono all’interrogatorio la mia ombra.

Non per vezzo Mandel’štam conduceva una battaglia indiretta contro le teorie dei formalisti, prevedendo il piano inclinato che quelle teorizzazioni sarebbero state costrette ad imboccare, fino alla nota formula della funzione autoreferenziale del testo poetico. In una parola: la funzione poetica. Concetto che segna il punto di massima problematicità della teorizzazione formalista e, al contempo, il suo risultato artistico più seducente.

Il saggio su Dante è del 1933, la poesia Trovando un ferro di cavallo è stata scritta nel 1923, molto prima che le acquisizioni teoriche fossero chiaramente impresse sulla carta e nella mente del poeta. Ma è sempre così, la poesia precede sempre, nella consapevolezza, la ragione teorica, e Mandel’štam non fa eccezione.

Per un poeta una «nuova concezione del mondo» è sempre coeva al sorgere di una nuova poesia; sono due vasi comunicanti che si alimentano a vicenda: il nuovo sguardo «cristallografico» coglie il mondo nei gangli delle sue concrezioni fisico-fossili, geologico-atmosferiche.

«Nel combinare ciò che non è combinabile, Dante alterò la struttura del tempo» (op. cit.). Questo pensiero ci porta dentro il nucleo concettuale della metafora mandelstamiana: la metafora modifica la struttura fisico-temporale del tempo nella misura in cui ordina secondo un nuovo ordine il “sincronismo di eventi, nomi e tradizioni separate da secoli” (op. cit.). Dunque, la metafora quale ponte fisico sottoposto alla «legge dei vasi comunicanti», unisce ciò che il «sincronismo di eventi» del tempo ha reso ostile alla riunificazione.

«Se mi chiedessero schiettamente cos’è la metafora dantesca? Io risponderei: non so, perché una metafora può essere definita solo metaforicamente… ma a me sembra che la metafora di Dante designi l’immobilità, il punto fermo del tempo. La sua radice non è nella piccola parola come, ma nella parola quando. Il suo quando suona simile a come» (op. cit.).

«Il Tempo, per Dante, è il contenuto della storia, intesa come un singolo, sincronico atto… Dante è un antimodernista» (op. cit.).

La figura e l’opera di Dante forniscono al poeta russo il paradigma di come deve essere-nel-mondo un poeta; fornisce anche una metodologia di resistenza al tempo in chiave politica ed estetica. Nell’antimodernismo di Dante c’è la chiave per comprendere l’antimodernismo di Mandel’štam.

«Una pietra è un diario impressionistico del tempo atmosferico, accumulato da milioni di anni di disastri, ma esso è non solo il passato ma anche il futuro: v’è una periodicità in esso. È la lampada di Aladino che penetra nelle tenebre geologiche delle età future» (op. cit.).

anna achmatova

anna achmatova

Il «discorso poetico» è per il poeta russo un ponte che collega passato e futuro. Una mosca ha cessato di vivere nell’ambra e, nel nuovo composto organico, riprende a vivere. In maniera analoga «il discorso poetico non è mai pacificato; anche dopo molti secoli vi si scoprono antichi dissidi; esso è l’ambra in cui ronza una mosca invischiata nella resina, in cui il corpo estraneo continua a vivere pur nella fossilizzazione» (op. cit.). La parola-minerale di Osip Emilevic è quella entità che continua a vivere anche dopo il decesso delle sue parti costituenti; è quindi una entità che sfida il tempo e lo supera. Il significato profondo della parola poetica risiede proprio in questa sua qualità di superare il tempo che l’ha generata; quindi “forma chiusa”, sottratta all’uso manipolatorio della quotidianità. «La parola è diventata una zampogna, (nel Discorso sarà organo, violoncello, orchestra) non a sette, ma a mille canne in cui soffia il respiro simultaneo di tutti i secoli», «Forma chiusa» come capacità di creare immagini per partenogenesi.

Sempre nel Discorso su Dante Mandel’štam mette giù alcuni appunti che sono di importanza fondamentale per l’elaborazione di un nuovo concetto di “colonna sonora”: «Il valzer – egli scrive – è essenzialmente una danza ondulatoria, neppur lontanamente immaginabile nelle civiltà ellenica o egizia, possibile invece nella civiltà cinese e pienamente legittima in quella europea moderna. (Sono debitore a Spengler di questo raffronto). Principio fondamentale del valzer è la predilezione, tipicamente europea, per i movimenti ondulatori continui, l’attenzione all’onda che pervade la nostra dottrina della materia, la nostra poesia e la nostra musica». Subito dopo, il poeta russo passa all’indagine del concetto di poesia tridimensionale: «Poesia, invidia la cristallografia, morditi le dita per l’ira e l’impotenza! Infatti, le combinazioni matematiche che presiedono alla cristallogenesi non possono prescindere dalla tridimensionalità dello spazio» (corsivo nostro).

Osip Mandel'stam 1913

Osip Mandel’stam 1913

In modo indiretto, Mandel’štam ci vuole invitare a riflettere su questo punto, che il “discorso poetico” segue sempre l’attenzione all’onda ma non può prescindere dalla concezione geologica della materia, dalla stratificazione tettonica della materia appunto perché «Dante e i suoi contemporanei non conoscevano il tempo geologico; ignoravano le ore della paleontologia, le ore del carbon fossile…». Per il poeta russo l’onda sonora è sempre inscritta nel calendario del tempo, nella stratificazione tettonica delle ere della materia: l’onda sonora è la materia stessa colta nel momento del suo slancio vitale, del suo movimento e della sedimentazione di quel movimento! Ma c’è di più, per Mandel’štam «Il discorso o pensiero poetico può essere chiamato sonoro soltanto in via convenzionale; infatti ciò che udiamo è unicamente l’interferenza di due linee, una delle quali, presa da sola, è assolutamente muta, mentre l’altra, senza il sostegno del movimento delle immagini è priva di ogni significazione e interesse e si presta alla parafrasi, sintomo certissimo, a mio vedere, dell’assenza di poesia: dove è possibile la parafrasi, le lenzuola non sono gualcite, la poesia non ha pernottato (Discorso su Dante corsivo nostro)».

Commentando il XVII canto dell’Inferno Mandel’štam ci suggerisce l’immagine di un razzo che costruisca durante il volo e lanci in orbita un secondo apparecchio, e questo ne lanci a sua volta un terzo, e così via. Dunque, autoproduzione delle immagini legate da un rapporto di filiazione (parentela semantica e fonetica delle parole). Siamo qui molto distanti da quelle poetiche novecentesche che predicheranno il «libero» gioco delle immagini, il «libero» gioco dei significanti e da tutte quelle poetiche che teorizzeranno, a più riprese, nuove modalità di écriture automatique. Siamo in un momento cruciale del Novecento, ad una svolta determinante: in un modo o nell’altro Mandel’štam viene messo a tacere, la poesia europea smarrirà il bandolo della matassa, perderà un sofisticatissimo intelletto in grado di passare a rigorosissimo vaglio critico tutte le principali contraddizioni delle poetiche del suo tempo. Significativamente, Mandel’štam scrive: «Oggi, nel 1023, l’acmeismo non è più quello del 1913. O meglio, l’acmeismo non è mai esistito. Voleva essere soltanto la coscienza della poesia. Era giudice della poesia, non la poesia stessa». In questa lettera di risposta ad un giovane poeta possiamo misurare tutto il disincanto, la disillusione del poeta verso la propria epoca («No, mai di nessuno fui contemporaneo», scriverà in una famosa poesia). «Coscienza della poesia», significa per il poeta russo la consapevolezza di un rigorosissimo vaglio critico al quale bisogna sottoporre la poesia del proprio tempo; forse c’era anche la consapevolezza di essere “postumi”, di essere giunti troppo tardi all’appuntamento con la Storia, con il «secolo cane-lupo».

La morte di un poeta non è un semplice accadimento ma il suo ultimo atto creativo, che getta, retrospettivamente, una luce inquietante sul suo tragitto artistico. Quando il giovane Mandel’štam scrive: «Solo nelle battaglie ci colpisce il fato», non poteva immaginare che presagisse la propria morte. V’è nella grande poesia una capacità di antivedere il futuro, senza possibilità di equivoci; questa veggenza, da non confondere mai con il misticismo a buon prezzo, è la spia segnaletica della grande poesia.

Le parole della poesia sono saggezza e veggenza insieme: concrezione minerale di precipitazioni atmosferiche, tragitto destinale, esistenza che incontra un destino. Ciò non toglie che il poeta tenti disperatamente di vivere, di sottrarsi al proprio destino.

  • Nadezda Mandel’štam L’epoca e i lupi Milano, 1990
  • Osip Mandel’štam Sulla natura della parola, pubblicato sul n. 4 di “Poiesis” quadrimestrale di letteratura, 1994

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NOVE POESIE di Anna Andreevna Achmatova da “Il silenzio dell’amore. Poesie” nuova traduzione di Manuela Giabardo e Presentazione di Paolo Ruffilli

 

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

 Anna Andreevna Achmatova (1889-1966) pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko nacque a Bol’soj Fontan, un elegante quartiere di Odessa, il 23 giugno1889, terza dei cinque figli di Andreij Antonovich Gorenko, funzionario pubblico, e di Inna Erazmovna Stogova, entrambi di nobile famiglia. Il padre, ingegnere meccanico di marina, si trasferì prima nei sobborghi di Pietroburgo, a Pavlovsk, e poi a Càrskoe Selò.

Precoce, Anna a cinque anni parlava perfettamente il francese ed era una grande lettrice. A dieci, superata una grave malattia, cominciò a scrivere: un diario, piccole storie, ritratti di compagni di gioco. Nel 1905 i genitori si erano separati e Anna si era trasferita a Kiev, dove nel 1907 terminò il liceo e si iscrisse alla facoltà di Legge. Nel frattempo, avendo cominciato a comporre poesie e manifestando il desiderio di pubblicarle, il padre le suggerì di ricorrere a uno pseudonimo letterario e la scelta cadde sul nome della bisnonna materna, Achmatova. La sua prima poesia è datata 1900, a undici anni, e la prima pubblicata apparve sulla rivista parigina “Sirus”, edita da Gumilëv, nel 1907.

Nel 1903 cominciò la storia sentimentale con il poeta Nikolàj Gumilëv, maggiore di tre anni rispetto a lei ed ex allievo di un insegnante ginnasiale di Anna. Anna era coinvolta (“Prego il raggio che dalla finestra / entra pallido, sottile, dritto. / Da stamattina non parlo, / il cuore spezzato in due”), ma appariva discontinua (“l’ho fatto ubriacare / di aspra malinconia”) e Gumilëv era innamorato a tal punto da tentare il suicidio per superare le sue resistenze (“Scherzavo. / È stato tutto uno scherzo. Se te ne vai, muoio”).

Si sposarono nel 1910 e il matrimonio durò fino al 1918 e nel 1912 nacque il figlio Lev Nikolaevič Gumilëv, che divenne geografo, antropologo e storico, e che fu arrestato ingiustamente per tre volte e visse ben diciotto anni in un campo di lavoro e solo dopo la morte di Stalin poté cominciare la sua carriera accademica (nel periodo della perestroika i suoi lavori raccolsero un ampio consenso, tanto che, dopo la sua morte, si decise di intitolare a lui l’Università statale a Astana, capitale del Kazakistan).

anna-achmatovaAnna faceva parte della corporazione “La Gilda dei poeti” (Cech poetov), nata nel 1911 e orbitante intorno alla rivista “Apollon” dalle cui pagine Gumilëv insieme con Sergej Mitrofanovič Gorodeckij teorizzavano i principi del così detto “acmeismo”. Il nome del movimento, che intendeva alludere al punto estremo della lucidità espressiva, si alternava con quello di “adamismo”, più propriamente voluto da Gumilëv, in opposizione al simbolismo, sviluppando una diversa tematica e un nuovo stile espressivo fondati sulla chiarezza rappresentativa, sulla concretezza dei contenuti ancorati alla “realtà” dei sensi e sullo studio dei valori formali del verso.

L’acmeismo, che non riusciva a tenere il passo con gli avvenimenti determinati dalla rivoluzione per l’inadeguatezza delle sue componenti ideologiche, superato nell’attenzione generale dal futurismo, rappresentava il momento drammatico di una generazione che cercava di adeguarsi all’accelerazione imposta dagli eventi della storia. Pur avendovi aderito due poeti di grande talento come l’Achmatova e Mandel’štam, il movimento ebbe vita breve, travolto poi dall’arresto del suo fondatore e dall’accusa di tradimento che lo portò alla condanna a morte.

Anna aveva composto la  sua prima opera, La sera, nel 1912, Nello stesso anno fece un viaggio a Parigi, dove conobbe tra gli altri Amedeo Modigliani, che la ritrasse in numerosi disegni (eseguiti a memoria, uno dei quali è conservato a San Pietroburgo). Venne in Italia, visitando numerose città: Venezia, Genova, Padova, Bologna, Pisa e Firenze. E dirà che la pittura e l’architettura italiana sono “simili a un sogno che poi ti ricordi per tutta la vita”.

La produzione poetica continuò fervida negli anni seguenti: al primo libro seguirono Rosario nel 1914, con cui ottenne una vastissima popolarità, e poi  Lo stormo bianco nel 1917, la sua terza raccolta di poesie, che ebbe con il favore dei lettori l’adesione di molti critici. L’anno seguente divorziò da Gumilëv, partito volontario per il fronte, e finì un rapporto importante che segnerà per sempre la vita e la produzione dell’Achmatova. Dopo il divorzio, Anna lavorò alla biblioteca dell’Istituto di Agronomia, e nel 1918 sposò il poeta e assirologo Vladimir Šilejko, uomo patologicamente geloso e possessivo. Anche questa unione terminò, nel 1921, l’anno in cui Gumilëv, che nel frattempo si era risposato, venne accusato di aver preso parte ad un complotto sovversivo monarchico e venne fucilato il 25 agosto.

anna achmatova

anna achmatova

Nel 1921 uscirono Piantaggine e, a breve distanza, Proprio sul mare e, nel 1922, Anno Domini MCMXXI: raccolte di versi ispirate da una forte nostalgia delle vicende passate, una sorta di elegia dolorante che spesso assumeva quasi la cadenza di una preghiera. Anno Domini fu l’ultima raccolta dell’Achmatova e nei quarantaquattro anni che seguirono nessun libro nuovo vide la luce (dal 1922 al 1966, anno della sua morte, non poté pubblicare un libro “veramente suo”). Negli anni del dopoguerra furono proposte solo due antologie selezionate e censurate dalla casa editrice di Stato, con testi della prima produzione e con le poesie di guerra, allo scopo di attestare al pubblico soprattutto straniero che l’autrice era viva e fedele al regime.

Nella Russia sovietica, l’Achmatova era vista con sospetto come ex-moglie di un poeta controrivoluzionario. Oltre tutto, negli anni tra il 1917 ed il 1921, non si era espressa in alcun modo riguardo ad una adesione personale alla Rivoluzione, pur scegliendo di non emigrare dal paese. Si ritrovava fondamentalmente sola, in una Russia che non la condannava ancora ufficialmente, ma che le era comunque palesemente ostile. Per sopravvivere, contava come l’amico Mandel’štam sull’appoggio di Boris Pasternak, svolgendo sporadicamente la professione di traduttrice e dedicandosi intanto allo studio dell’opera di Puskin. Ma i tragici sviluppi del regime stalinista le serbavano ulteriori e drammatiche sofferenze.

Nel 1925 nacque la nuova infelice relazione con Nikolàj Punin, critico e studioso d’arte e la poetessa si trasferì, a causa della crisi degli alloggi, nella casa della Fontanka a Leningrado, dove conviveva con lo studioso, la sua ex moglie e la figlia, e suo figlio Lev. La situazione familiare era, insomma, innegabilmente difficile e la vita nella Russia sovietica contraddistinta da una crescente politica del terrore (“ma noi abbiamo imparato, una volta per tutte / che sa di sangue, soltanto, il sangue…”).

Si determinò per l’Achmatova un’interruzione dell’attività poetica, che si protrasse fino alla fine degli anni trenta. È alla vigilia dell’apertura dei campi staliniani e delle deportazioni che Anna riprese a poetare, dopo la separazione da Punin, avvenuta nel 1938. Raccolse i versi in un’antologia di poesie scritte fra il 1924 e il 1941, Il salice, che nella realtà non uscì mai.

Il 13 marzo 1938 suo figlio venne arrestato e condannato a morte (condanna poi convertita in deportazione) a causa probabilmente del cognome del padre. Anna si recò, come molte madri russe, al carcere delle Croci per avere notizie di Lev. Ne nacque il poemetto Requiem, che le migliori amiche provvidero a imparare a memoria, sicure dell’intolleranza del governo. Era un canto straziato che, seppure non dato alle stampe, si guadagnò, anche solo in forma orale, una fama vastissima. Il ciclo di poesie era uno spietato atto di accusa contro la dittatura di Stalin.

Pubblicandolo vent’anni dopo, l’Achmatova scrisse nella prefazione: “Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): Ma questo lei può descriverlo? E io dissi: Posso. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto” (Leningrado, primo aprile 1957).

Nel 1941 incontrò Marina Cvetaeva, in un intenso reciproco scambio di visioni e di umori. “Due poesie diverse, radicate nello stesso terreno sconvolto della Russia novecentesca, quella dell’Achmatova e quella della Cvetaeva: classica e apollinea la prima, trasgressiva e dionisiaca la seconda. E due vite diverse, anche se entrambe tempestose di amori e piagate di dolori”, come ebbe a dire Vittorio Strada.

Achmatova e Gumilev

Achmatova e Gumilev

Il poemetto Lungo tutta la Terra risaliva a quello stesso periodo. Nel 1941 la Germania aveva invaso la Russia e Stalin fece ricorso a tutti quei nomi che, da tempo in disgrazia, potevano tornare utili. L’Achmatova, con il prestigio e la fama che aveva sia pure per vie del tutto clandestine, parlò alla radio per favorire l’unità del popolo russo contro la minaccia hitleriana. Nel frattempo il nemico avanzava e Anna fu evacuata, insieme con altri intellettuali, da Leningrado a Taskènt. Qui scrisse Luna allo zenit, e il tema centrale della produzione poetica divenne la guerra, come anche nella serie Il vento della guerra.

Compose, negli anni 1942-43, le Elegie del Nord. Nel 1944 tornò a Leningrado, nella casa della Fontanka. Continuava intanto a lavorare al Poema senza eroe, iniziato nel 1942, al quale continuerà a dedicarsi per ondate fino al 1962. Nello stesso anno il figlio Lev venne liberato perché costretto ad arruolarsi nell’Armata Rossa e raggiunse poi la madre alla fine della guerra, ma venne arrestato di nuovo nel 1949.

Nello stesso periodo Anna riprese a pubblicare su diverse riviste. La risonanza di una breve relazione con il primo segretario dell’ambasciata inglese Isaiah Berlin (1945), resa pubblica dal giornalista Randolph Churchill (il figlio di Winston), insieme con l’arresto e l’esilio in Siberia di Punin, contribuì all’espulsione della poetessa dall’Unione degli scrittori sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico, sulla scia delle critiche ždanoviane di pessimismo nevrotico, misticismo e culto per il passato (divenne famosa la definizione che Ždanov diede dell’Achmatova: “mezza suora e mezza puttana”). Circostanze, tutte, che provocarono in lei un periodo nero di isolamento, come appare evidente in Frantumi: “Appendetemi al gancio sanguinolento, / come una belva uccisa, / perché increduli e ridacchiando / gli stranieri mi girino attorno / e scrivano in fogli autorevoli / che si è spento il mio impareggiabile dono, / e che io ero poeta tra i poeti, / ma è scoccata / la mia tredicesima ora.”

Nel 1950, terrorizzata dal pensiero che il figlio potesse essere ucciso, scrisse su consiglio degli amici, quindici liriche dedicate a Stalin, il ciclo di poesie Slava Miru (Gloria alla Pace), in ossequio al “comunismo radioso”.  Lev fu infatti risparmiato molto probabilmente grazie a questo intervento e venne liberato tre anni dopo la morte del dittatore, quando per Anna l’incubo cessò definitivamente.

Anna Achmatova copAnche dopo la morte di Stalin nel 1953, l’Achmatova continuò ad essere sottoposta ad una severa censura in patria e fu parzialmente riabilitata dopo il Congresso del Pcus del 1956. Lei, del resto, in pubblico continuava a considerare negativamente il realismo socialista dominante in letteratura e a ritenere veramente decisiva solo la produzione degli scrittori dissidenti. Nel 1961, cinque anni prima di morire, in un breve componimento intitolato “Noi quattro”, insisteva a riconoscere, senza enfasi ma con piena consapevolezza, il valore letterario fondamentale dei pochi che non si erano piegati ai dettami del regime, accostando alla sua le voci di Osip Mandel’štam, Boris Pasternak e Marina Cvetaeva.

Pubblicò nel 1962 un’opera alla quale lavorava già dal 1942, il Poema senza eroe, un nostalgico ricordo del passato russo, rielaborato attraverso la drammaticità che la nuova visione della Storia imponeva. Sulla sua poetica continuavano ad esercitare influenza le opere della tradizione non solo russa, tra cui in particolare la Divina commedia di Dante, che Anna rileggeva di continuo direttamente in italiano. Come testimonia il filosofo Vladimir Kantor: «Quando chiesero ad Anna Achmatova, la matriarca della poesia russa, se aveva letto Dante, con il suo tono da grande regina della poesia rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”».

Nel 1964 la poetessa ebbe il permesso di lasciare la Russia per ritirare, in Sicilia, il premio “Etna – Taormina”. L’anno seguente presso l’università di Oxford ricevette la laurea honoris causa. Le associazioni culturali russe la riabilitarono del tutto come una dei massimi poeti sovietici del secolo e nel 1965 uscì una nuova raccolta, La corsa del tempo, che contiene tra l’altro le liriche degli ultimi anni, i cicli “La rosa di macchia fiorisce” e “Ghirlanda per i morti”.

Anna Achmàtova, già sofferente di cuore, è morta di una crisi cardiaca a Domodedovo (Mosca) il 5 maggio 1966.

 (Paolo Ruffilli)

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

 

 

(da Anna Achmatova Il silenzio dell’amore. Poesie Biblioteca dei leoni 2014 pp. 122 € 14)

 

 

*

Ho stretto le mani sotto il velo scuro
“Perché sei pallida oggi?”
Perché l’ho fatto ubriacare
d’aspra malinconia.

Come potrò dimenticare? È uscito, barcollando,
con una smorfia penosa sulla faccia..
Sono scesa di corsa, senza sfiorare il corrimano,
l’ho raggiunto in un balzo, giù alla porta.

In affanno, ho gridato: “Scherzavo, dai.
È stato tutto uno scherzo. Muoio, se te ne vai.”
Con un sorriso freddo, mi ha risposto
tranquillo: “Non startene lì al vento”.

.
(1911)

*

La porta accostata,
il lieve ondeggio degli alberi di tiglio…
Sul tavolo, chissà dimenticati,
un frustino e un guanto.

L’alone giallo della lampada…
Sento un fruscio.
Perché sei andato via?
Io non capisco…

Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.

Sei così stanco,
rallenta, batti piano…
Pensa, ho letto
che l’anima è immortale.

(1911)

mandel'stam e la achmatova

mandel’stam e la achmatova

 

 

 

 

 

 

 

 

Poesia dell’ultimo incontro

Il petto senza forza raggelava,
eppure leggeri erano i passi.
Ho infilato il guanto di sinistra
nel posto della destra.

Sembrava che i gradini fossero tanti,
ma io sapevo che erano soltanto tre!
Nell’autunnale sussurro degli aceri
mi ha chiesto: “Muori con me!

Mi ha ingannato infatti il triste,
incostante, crudele mio destino”.
Gli ho risposto: “Caro, caro!
Anche me ha ingannato. E morirò con te…”

Questo è il canto del nostro ultimo incontro.
Ho guardato la casa buia all’ultimo istante.
Solo nella camera ardevano candele,
di una luce gialla, indifferente.

(1911)

*

Bevi la mia anima con la cannuccia.
Conosco il suo sapore amaro d’alcol.
Ma non ti pregherò di smettere nella tortura.
Oh, io sono in pace da settimane ormai.

Avvertimi però quando hai finito. E
non importa se non avrò più l’anima.
Prenderò la via qui accanto,
guarderò i bambini che stanno lì giocando.

Fioriscono i cespugli di uva spina,
e qualcuno porta i mattoni nel recinto.
Chi sei: fratello o amante?
Non lo ricordo, e non serve d’altra parte ricordare.

Quanta luce qui, e come è inospitale.
Il corpo stanco intanto si riposa.
Ma, turbati, pensano i passanti: è vero sì,
è rimasta vedova ieri soltanto.

(1911)

*

Delle mie gambe non so più che fare,
in coda di pesce perciò siano mutate!
Che gioia e che freschezza nel nuotare,
e da lontano biancheggia pallido un ponte.

A che mi serve quest’anima paziente,
che vada pure in fumo
e in tenere volute azzurre si alzi in volo
dal lungofiume buio.

Guarda, mi tuffo giù e solo aggrappata
a un’alga scivolo via.
Non ripeto, no, parole d’altri
né mi imprigiona l’altrui nostalgia.

Ma possibile che tu, mio assente,
sia impallidito e la tristezza t’abbia reso muto?
Che cosa sento? Tre settimane intere,
non fai che bisbigliare: “Povera te, perché?”

anna achmatova

anna achmatova

 

*

Vivo come il cucù dell’orologio,
non invidio gli uccelli dei boschi tuttavia.
Mi danno carica e io faccio cucù.
Però, lo sai che a un nemico soltanto
un tale destino augurerei.

(1911)

 

 

 

Inganno

I
Il mattino è ubriaco di sole a primavera
e il terrazzo profuma denso di rose
il cielo, poi, splende più di una ceramica turchina.
Sul quaderno rivestito in cuoio morbido
leggo le stanze e le elegie
che ho scritto per mia nonna.

Vedo la strada fino al portone e le colonne
bianche sull’erba di smeraldo.
Oh, il mio cuore ama con dolcezza, cieco amore!
E mi rallegrano le aiuole colorate
l’alto grido del corvo nel cielo buio
perfino l’arco del sepolcro, in fondo al viale.

.
II
Soffia un vento afoso, di tempesta.
Il sole mi ha scottato sulle braccia,
sopra di me, la volta di questo cielo
è una vetrata di turchino,

i semprevivi profumano appena
nella treccia sfatta.
Sul tronco nodoso dell’abete
le formiche vanno in fila.

Lo stagno manda pigri bagliori argento,
la vita ha leggerezza tutta nuova…
Chi mi appare oggi in sogno,
sulla rete colorata dell’amaca?

.
III
Placida serata. Cala il vento piano piano,
una luce intensa mi richiama verso casa.
Provo a indovinare: “Tu chi sei?
Sei forse tu, il mio amato?”

Sul terrazzo c’è un profilo che conosco,
si ode appena un dialogo sommesso.
Non avevo finora mai provato
un tale incantevole languore.

A stormire inquieti i pioppi,
visitati da sogni di dolcezza.
Il cielo del colore dell’acciaio,
le stelle, scialbe, impallidite.

Porto un mazzetto di violaciocche bianche,
in loro brucia un fuoco indefinito
per lui che, ricevendole dalle mie mani timide,
ne sfiora il palmo intiepidito.

.
IV
Ho scritto parole che per tanto tempo
non ho osato pronunciare.
La testa mi fa un male sordo,
stranamente insensibile è il mio corpo.

Tace il corno da lontano,
gli stessi enigmi sempre dentro al cuore,
un leggero nevischio dell’autunno
è sceso a ricoprire il campo da croquet.

Stormire con le ultime foglie in sintonia!
Tormentarsi con gli ultimi pensieri.
Non volevo disturbarlo
abituato com’è lui a divertirsi.

Ho perdonato già alle labbra amate
il crudele loro scherzo.
Su, venite domani con la slitta.

Accenderanno le candele nel soggiorno,
brillano di giorno più soavi,
e porteranno un mazzo intero
di rose dalle serre.

(1910)

achmatova profilo a sinistra

achmatova profilo a sinistra

*

Mio marito mi picchiava,
con una cinghia doppia, arabescata.
Per te, rimango alla finestra
tutta la notte, con la lanterna accesa.

Albeggia. Si alza il fumo
sulla fucina.
Neppure questa volta sei rimasto
con me triste prigioniera.

Per te ho accolto un destino amaro,
un destino di tortura.
E tu, chissà, ami una bionda
o una bella rossa?

Potessi smetterla di piangere così!
Nel cuore ho un’ebbrezza soffocante,
ma i raggi del sole si stendono sottili
sopra il letto intatto.

(1911)

Canzoncina

Allo spuntar del sole
canto all’amore
in ginocchio nell’orto mentre
annaffio la grande bietola rossa.

Strappo il secco e lo getto,
che mi perdoni lei.
Vedo accanto alla siepe
una bambina che piange scalza.

Che spavento quelle grida
e la voce piena di strazio,
l’odore caldo, più intenso della bietola
che appassisce intanto.

Avrò pietre invece che pane
a crudele ricompensa.
Sopra di me soltanto il cielo,
la tua voce accanto a me.

(1911)

Nella notte bianca

Non ho chiuso la porta,
non ho acceso le candele,
non lo sai ma, per quanto fossi stanca,
non riuscivo ad andarmene più a letto.

Guardare, come si smarriscono i sentieri
dentro al bosco, all’imbrunire ormai del giorno,
ebbra del suono di una voce
che è simile alla tua.

E sapere che tutto è già perduto,
che la vita è un tremendo inferno.

Ero certa
che saresti ritornato.

(1911)

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UNA  «POESIA MISTERIOSA… AFFASCINANTE» DI OSIP MANDEL’ŠTAM traduzione e commento di Angelo Maria Ripellino con note di Antonio Sagredo

« E sopra il bosco quando fa sera
s’alza una luna di rame;
perché mai così poca musica,
perché mai un tale silenzio? »
(Osip Mandel’štam, da Kamen, 1919)
Onto mandelstam

Osip Mandel’stam, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (in russo Осип Эмильевич Мандельштам) (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) poeta, esponente di spicco dell’acmeismo. Osip Mandel’štam nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica che, poco dopo, si trasferisce a San Pietroburgo. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, apparve la sua prima poesia. Nel 1908  decise di entrare alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg per poi passare, nel 191, a quella di San Pietroburgo. Sempre nel 1911 si converte al cristianesimo metodista. Nel 1911 aderisce alla “Gilda dei poeti”, fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij. Intorno a questo gruppo si sviluppa il movimento letterario dell’Acmeismo: Mandel’štam nel 1913 è tra gli autori del manifesto della corrente, pubblicato solo nel 1919. Nello stesso anno pubblica la sua prima raccolta di poesie, La pietra.

Mandel'stam a Firenze, 1913

Mandel’stam a Firenze, 1913

 mandel'stam giovaneNel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente, mentre a Berlino viene pubblicata la sua seconda raccolta, Tristia. In seguito, e per diversi anni, trascura la poesia per dedicarsi principalmente a saggistica, critica letteraria, memorie (Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925), e brevi testi in prosa (Il francobollo egiziano, 1928). Per sostenersi si dedica a

copertina di Kamen, 1919

copertina di Kamen, 1919

 numerose traduzioni e collaborazioni giornalistiche.

Le tendenze anticonformiste e di critica al sistema staliniano di Mandel’štam, che pure nei primi anni aveva convintamente aderito al Bolscevismo, deflagrano nel novembre del 1933, quando compone e diffonde il celebre Epigramma di Stalin. Si trattava di una feroce e sarcastica critica del regime comunista, dove il poeta denunciava la grande carestia provocata in Ucraina dalla collettivizzazione forzata. Mandel’štam aveva osservato i drammatici effetti della carestia durante il suo viaggio in Crimea dell’estate di quell’anno. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dall’Nkvd, ma schivò la condanna al campo di lavoro: un evento sorprendente, generalmente interpretato come segno di un interessamento personale di Stalin al suo caso. Mandel’štam viene tuttavia inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Cerdin. In seguito a un suo tentativo di suicidio, la pena viene attenuata al divieto di ingresso nelle grandi città e con Nadezda  sceglie di stabilirsi a Voronež.

Mandel'stam e la Achmatova

Mandel’stam e la Achmatova

 Nel 1938 viene nuovamente arrestato; condannato ai lavori forzati, è trasferito nell’estremità orientale della Siberia . Muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja recka, un campo di transito presso Vladivostok, ufficialmente a causa di una non meglio specificata malattia. Il suo ricordo viene conservato, per lungo tempo clandestinamente, dalla moglie Nadežda, che aveva imparato a memoria numerosi testi poetici del marito.

osip mandel'stam foto varie

« Mia cara bambina,
non c’è praticamente nessuna speranza che questa lettera ti arrivi. Prego Dio che tu capisca quello che sto per dirti: piccola, io non posso né voglio vivere senza di te, tu sei tutta la mia gioia, sei la mia tutta mia, per me è chiaro come la luce del giorno. Mi sei diventata così vicina che parlo tutto il tempo con te, ti chiamo, mi lamento con te»
(da una lettera di Osip Ė. Mandel’štam a Nadežda Jakovlevna)

*

A chi l’inverno, l’arak e il punch dagli occhi azzurri,
a chi il vino fragrante con la cannella,
a chi gli ordini salati delle crudeli stelle,
è  dato di portare nella fumosa capanna.

Un poco di caldo sterco di gallina
e di assurdo calore pecorile;
io darò tutto per la vita – mi è così necessaria la pena,
anche uno zolfanello potrebbe riscaldarmi.

Guarda, nella mia mano c’è solo un orcio di argilla,
quando il pigolio delle stelle solletica il debole udito,
ma non si può non amare attraverso questa meschina lanugine
il giallo dell’erba e il colore dell’argilla.

Pian piano carezzare la lana e rivoltare la foglia,
come un melo d’inverno avvolto in una stucia aver fame,
tendere con tenerezza assurdamente all’altrui
e frugare nel vuoto e con pazienza aspettare.

I congiurati si affrettino per la neve
come un gregge di pecore, e la friabile crosta scricchioli.
A chi l’inverno è assenzio e fumo amaro per rifugio notturno,
a chi il crudele sale delle offese solenni.

O poter alzare una lanterna su un lungo bastone,
con il cane avanti andare sotto il sole delle stelle,
e con un galletto nella pentola recarsi nel cortile dell’indovina.
E la bianca, bianca neve fino a dolermi gli occhi.

  (1922) Continua a leggere

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