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Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

Fabio dainotti cover

L’osservazione di Andy Warhol secondo cui in futuro ognuno godrebbe di un quarto d’ora di notorietà esprime un totale scetticismo nei confronti della possibilità di fare opere artistiche tali da restare come azioni significative per i contemporanei e i posteri. Siamo diventati tutti degli scettici integrali, dei lucidi paranoici, abitiamo la follia dello psicozoico senza rendercene conto.
Occorre quindi prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: «Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione». Il delirio, la derelizione, il soliloquio a voce alta o voce bassa, soprattutto se sistematizzato e messo in forma di lirica, vorrebbe dare una apparenza di ordine e di senso alle esperienze di caos. È che è diventato impensabile dare un ordine di senso al caos dei giorni nostri, ma Fabio Dainotti è un affezionato storyteller, un raccontatore di storie, lui non vuole mettere ordine al caos né indire una gara per un concorso pubblico in materia di una lingua pura, la sua poesia è spuria, invariabilmente legata al plot, al racconto magari sui morti o sui nati morti alla maniera di Giorgia Stecher, senza però che intervenga l’elegia. Dainotti è un poeta ormai eslege e ipocondriaco, ha messo nel cassetto degli agenti patogeni l’elegia considerandola come una indebita intromissione di un esigente creditore nell’ambito del nostro conto corrente. È possibile pensare, sulla scia di Lacan, che il soliloquio sia una salutare reazione che ha luogo quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, ovvero, quel significante-escluso, significante-Padrone a cui non corrisponde alcun significato. Ora, è che questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto. La perdita di autorevolezza e di senso del soggetto-autore non riguarda soltanto la letteratura, ma ogni forma d’arte e di presenza nell’esistenza, Dainotti è uno spigliato investigatore, sa che l’intromissione dell’io nel testo poetico deve essere ridotta al minimo presentabile, e si comporta di conseguenza, la riduce ad un piccolo io che se ne sta in un cantuccio e di lì osserva lo sbrogliarsi della matassa dell’esistenza.
Questo preambolo per dire che al di sotto di quest’ultimo libro di Fabio Dainotti c’è una situazione storica di disincanto, di dissoluzione, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni prototipiche del nostro tempo di crisi epocale. Le tematiche del libro sono le più varie; mi limito a citare i titoli di alcune poesie, per lo più composte da una sola parola (Grillo, Scarpine, Sconforto, Mareggiata, Pioggettina, Bimbo, Bimba, Alla Madre, In morte, Notturno, Rimorso, Viaggi, Pierrot, Burlesque, Bisticcio, Cattedrale, Lettera, Ricordi di scuola, Sera, Ars poetica, Effe, Abatino, Sara, San Marco, Il gatto, Fillide, Congedo, Piove, Sguardo, L’albergo dei morti, Miliardaria, Mattino milanese, Mattino vicentino, Novecento, Cane e padrone, Famiglia, Cimitero marino, Orario d’apertura etc.). Come si vede già dai titoli, risalta la nominazione blasé, svagata e disincantata del dettato poetico di Dainotti:

Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori, la vita celebra
i suoi trionfi, in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne ricorderà.

È il cane il più saggio tra gli umani di oggi. È l’aspetto grottesco quello che traspare tra le parole gentili del poeta di Cava de’ Tirreni. Ecco un altro esempio di poesia disillusa e disincantata:

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Ma dove sono i re e le regine
di cartapesta con le teste mozzate?
Prigionieri di polvere e incantesimi
negli abbaini pieni
e sogni infranti e di luna.

Dov’è re Ezio, prigioniero illustre,
dove la sua bionda carceriera?
e Federico, vento di Soave,
a quale porticina di convento
bussò, stanco di vivere e di regnare?

Son tutti morti, non c’è più nessuno.
L’erba è cresciuta e ora il vento la spinge
sulla collina.

Non ci saremmo mai imbattuti in questo genere di poesia, una sorta di neo-crepuscolarismo declassato e privo di elegia, se non vivessimo in un periodo di grande crisi economica, politica, sociale, e crisi del linguaggio poetico. Dainotti risponde alla crisi plurima con un linguaggio soliloquiale, limpido e disilluso di chi ha cessato di credere alle balsamiche virtù progressive della storia, malgrado tutto, e alle virtù benefiche dell’io plenipotenziario e penitenziario:

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Ciò che resta non è neanche più il non-senso, che sarebbe pur sempre una istanza plausibile, quanto l’indebolimento del senso fino alla esaustione, fino alla fine del senso stesso. Tutti quei valori di un tempo che ci appare lontano, d’improvviso oggi non valgono più nulla, sono caduti in disuso, sono stati, come si dice oggi con una brutta parola, rottamati. Fabio Dainotti ne prende nota nel suo taccuino post-lirico e si rivolge al lettore con il suo registro post-musicale medio, con il suo tono sornione, dimesso e auto ironico da neo-crepuscolare giunto in ritardo all’appuntamento con il treno dell’ipermoderno.
La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere.

(Giorgio Linguaglossa)

da L’albergo dei morti, manni, 2023

Famiglia

“Un treno lanciato nella notte”
ci aveva portato su al Nord,
io all’università; tu per lavoro,
con la tua valigia da emigrante.
Si parlava di temi difficili: la vita,
e la letteratura, si fumava;
intanto si viaggiava
verso un incerto destino.

Era, la solitudine, ghiacciata;
neppure il vino mi scaldava il cuore.
Scrivevo lettere d’amore,
ma senza il suono di una voce umana
la voce della mia amata lontana.

Indossai il mio abito elegante,
e presi il treno da Pavia a Milano;
ed eccomi in Piazza Tricolore,
dove mi porta il tram, scampanellando;
poi pochi passi ancora, caro amico,
e suono il campanello alla tua porta.

Viene tua madre, in vestaglia ancora,
e sono già le undici.
È lei che porta avanti la famiglia,
l’emigrazione al Nord e poi il lavoro
trovato a tutti i figli. Anche al marito:

a un tratto lo intravvedo
dietro una porta semichiusa,
vestito già da vigile;
parrebbe un generale,
se non fosse il sorriso bonario.

Poi c’è Filippo, il figlio donnaiolo;
rincasa tardi d’estate, apre il frigo,
afferra qualche cosa da mangiare
incurante di me; poi ti canzona
bonariamente e se ne va a dormire. Continua a leggere

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La raffigurazione del fungo atomico con il colore dello spicchio di melone o di limone sul bicchiere del Campari, Marie Laure Colasson, Fungo atomico, 40×20, acrilico 2020, Poesia di Giuseppe Talìa (Tallia) Lo Stato di sWAp

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa F acrilico, 225x40
[Marie Laure Colasson, Fungo atomico, 40×20 acrilico 2020]

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Il gesto di Pollock di scagliare i colori contro una parete innocentemente bianca vuole distruggere il presente e il futuro, ma anche il passato; Burri vuole rendere evidente che «ciò che resta» sono i sacchi di juta, le vernici, le toppe… vuole distruggere il presente e il futuro, ma anche il passato. E fin qui tutto bene. Fare tabula rasa ma in un percorso contrastivo e opposizionale alla propria epoca. Ma oggi?, che cosa resta oggi dell’Oggi? Il gesto vitale di Pollock mi fa sorridere per la sua ingenuità, mi fa addirittura tenerezza. Anche il gesto estetico di Andy Warhol mi fa tenerezza per anticuità, e mi annoia.
Oggi forse non c’è altra risposta che l’azzeramento di ogni linguaggio, sensato e sensorio, di ogni posizione-opposizione estetica che ponga un senso o che vada alla ricerca di un senso o che vada alla ricerca del non-senso. Oggi semmai ha giustificazione soltanto il «fuori-senso» e il «fuori-significato». È che sono gli «oggetti» ad essere destituiti di oggettità, la «merce» è diventata insensata, si è de-fondamentalizzata. Oggi i barattoli di fagioli di Warhol andrebbero a ruba in Africa o nelle bidonville di affamati delle megalopoli di tutto il pianeta, quelle medesime megalopoli che sono diventate spazi de-politicizzati e che magari votano con convinzione Trump, Bolsonaro, Orban, Putin, Salvini, la Meloni e Berlusconi…
In fin dei conti, la pseudo poesia, la pseudo pittura, la pseudo arte del sensorio, del corporeo, del proscenio, con tutti gli addendi di effetti speciali, tatuaggi, arte corporale, effetti fotovoltaici, effetti psichedelici, etc., quel sensorio, quel proscenio che si fabbrica oggi presso le officine delle emittenti linguistiche, degli editori beneducati e delle istituzioni culturali appropriate oltre che farmi tenerezza, mi ingenera soprattutto disgusto, come i taxi del mare che portavano gli immigrati in salvo sulla terraferma. Quel tipo di poltiglia dell’io liofilizzato e bonificato da ideologemi ci parla di presunte esperienze denaturate e liofilizzate del corpo, esperienze-chat, ipo-esperienze, ipo-verità dello pseudo profondo. Si tratta di un mondo in pseudo. Si tratta di auto illusione nel migliore dei casi. E invece è un falso, una fake news. La Colasson raffigurando il fungo atomico con il colore dello spicchio di melone o di limone sul bicchiere del Campari a cospetto della nerità del fondo, disegna la dimensione in cui l’uomo di oggi ammicca alla propria utopia privata. Quella topologia outopica della soglia ci vuole mettere in guardia avverso ogni disquisizione sul bene e sul male, sulla felicità e sui taxi del mare che portano in salvo i clandestini sulla terraferma, tutte cose esautorate e derubricate a logaritmi della ratio e dell’anima bella.
È incredibile come oggi c’è chi prende ancora sul quasi-serio quella poltiglia liofilizzata, de-politicizzata e zuccherata della pseudo arte dei giorni nostri che ammicca alla auto riproduzione del valore.

(Giorgio Linguaglossa)

Promenade nocturne 19 collage acrilico 50x50 2023

[Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, 50×50, acrilico e collage, 2023]

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Giuseppe Talìa

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Non c’è una vera e propria capitale nello Stato di sWAp. La tecnocrazia è minore del 30 per cento sui circa 82 kg di CO2 per ciascuno degli abitanti prodotti dagli altri Stati.

In sWAp la leggerezza fa rima con lentezza. Il tempo in sWAp è intermittente. Tiene in conto e ingloba i fusi orari terracquei, a partire dall’ora di Greenwich. Collega i quattro angoli del mondo in tempo reale, fin su le stelle.

La sanità è efficientissima. Si possono ricevere consulti medici specialistici, non solo da singoli professionisti, ma da interi gruppi. I gruppi di sWAp -sWAp -sWAp sono tra i più rinomati del mondo per la loro caratteristica esperienziale e la tecno-simbologia emoji utilizzata.

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L’interconnessione di sWAp permette nell’immediatezza di recuperare reperti, prove, attestazioni, immagini e video.

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Il backup di sWAp avviene una volta a settimana. Nella cartella “salva una vita”, nome e cognome, si possono recuperare tutte le storie del passato.

L’economia dello Stato di sWAp si regge sul principio dell’inseparabilità del capitale e della tecnologia. Il capitale pensa e la tecnologia realizza.

La virtualizzazione della finanza, in associazione al lavoro immateriale, permette allo Stato di d’incamerare i profitti necessari per il mantenimento del benessere collettivo di sWAp.

Le tasse in sWAp sono previste in pochissimi e specifici casi e di norma non superano i centesimi. Sono accettate tutte le valute esistenti e quelle che verranno.

Il Prodotto interno lordo dello Stato di sWAp è correlato al numero della popolazione dei richiedenti la residenza. I flussi in entrata sono illimitati.

La fabbrica del mondo di sWAp utilizza esclusivamente metadati prodotti da nuove dimensioni.

(Tallia, 16 settembre 2023)

Lo Stato di sWAp è una superba allegoria del nostro presente e del prossimo futuro. Una poesia che può scrivere soltanto a chi è capitato di Vivere alla fine dei tempi. Da Le vocali vissute del 1999 a questa composizione passano 24 anni, e bisogna ammettere che Giuseppe Talia ha compiuto passi da gigante, ha messo tra i rifiuti indifferenziati tutta la paccottiglia delle poesie elegiache e post che dir si voglia. Ed è partito. A sua misura, è uno dei capolavori della poetry kitchen. E’ il prodotto del vuoto-sotto-vuoto. Il prodotto del supervuoto. E’ una allegoria della condizione storica della nostra civiltà. Per prima cosa è stato introdotto di nuovo il «discorso» che, come ogni discorso, si basa sul verosimile e sul credibile, ovvero, sulla menzogna e sui sentieri interrotti, ma non verso la «verità» ma verso il non-luogo. Discorso sul non-luogo quindi. Discorso che può essere pronunciato soltanto nel luogo-non-luogo che noi abitiamo.

(Marie Laure Colasson)

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.; con il medesimo editore nel 2017 esce la raccolta poetica La Musa Last Minute. È uno degli autori presenti nelle Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023, e nella Agenda. Poesie edite e inedite 2023 e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento, La Crisi del discorso poetico, di Giorgio Linguaglossa, Quale è l’esperienza della realtà? di Carlo Michelstaedter, Dopo il Novecento, Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria, siamo entrati da tempo nel campo largo, anzi, larghissimo del commonplace (del banale), Poesie kitchen di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Raffaele Ciccarone

foto deja vu

«L’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso» , scrive Slavoj Žižek.
Non possiamo non essere d’accordo con il filosofo di Lubiana. Ad esempio, nella poesia kitchen degli autori di questo post c’è qualcosa di «osceno» e di «traumatico» per un lettore educato al linguaggio poetico maggioritario e alle emittenti del consenso maggioritario; ma è un ottimo segnale, e corrisponde al vero, questo linguaggio kitchen non può rientrare nel Simbolico, è la frattura del Simbolico, la sua infrazione, e viene respinto, rimosso… E così ecco che il Reale torna sempre al suo posto, che poi è il posto della rimozione collettiva: il luogo della normologia, il posto della ideologia normologante che agisce in modo invisibile e automatico, mediante automatismi ma agisce rimettendo sempre di nuovo le cose al loro posto, che poi è il posto dell’autorimozione collettiva. Il ritorno del rimosso coincide con il ritorno del nomos. La poiesis kitchen è un meteorite diretto alla volta del Simbolico, produce uno schianto e una frattura, mette in discussione tutta la cultura del consensus omnium e del nomos.

Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento. La Crisi del discorso poetico

di Giorgio Linguaglossa

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni sessanta del novecento. Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo il punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. Qualche anno prima, nel 1968, nell’anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario». 1 

Quello che oggi ci si rifiuta di vedere è che nella  poesia  italiana di quegli anni  si è  verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche.

Davanti a questa rivoluzione in progress che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino ai capelli, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha tascabilizzato la metafisica (da un titolo di un libro di poesia di Valentino Zeichen, Metafisica tascabile, del 1997, edito ne Lo Specchio), ha scelto di non prendere atto del «sisma» del 18° grado della scala Mercalli che ha investito il mondo, di fare finta che il «sisma» non sia avvenuto, che nel Dopo Covid tutto sarà come prima, che si continuerà a fare la poesia di nicchia e di super nicchia di sempre, poesia autoreferenziale, chat-poetry.

Qualcuno ha chiesto, un po’ ingenuamente: «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto», «declinando il futuro». Che non è una cosa che possa essere convocata in una formuletta valida per tutte le stagioni.

Il problema della crisi dei linguaggi post-montaliani del tardo Novecento, non è una nostra invenzione ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica».

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Noi invece pensiamo a qualcosa di dissimile, ad una poesia che possa durare  soltanto per il presente, per l’istante, una poesia per il soggiorno, mentre prendiamo il caffè, o mentre saliamo sul bus, i secoli a venire sono lontani, non ci riguardano, fare una poesia «fur ewig» non so se sia una nequizia o un improperio, oggi possiamo fare soltanto una poesia kitchen, che venga subito dimenticata dopo averla letta.

Per tutto ciò che ha residenza nei Grandi Musei del contemporaneo e nelle Gallerie d’arte educate, per il manico di scopa, per il cavaturaccioli, le scatolette di birra, gli stracci ammucchiati, i sacchi di juta per la spazzatura, i bidoni squassati, gli escrementi, le scatole di Simmenthal,  i cibi scaduti, gli scarti industriali, i pullover dismessi con etichetta, gli animali impagliati. Tutto ciò fornisce un formidabile sostegno alla normologia asfissiante delle società a democrazia parlamentare dell’Occidente. Non ci fa difetto la fantasia, che so, possiamo usare il ferro da stiro di Duchamp come oggetto contundente, gettare nella spazzatura i Brillo box di Warhol, con la macarena e il rock and roll possiamo farci gli gnocchi.

Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria

Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria. Non è un fiorellino da mettere nell’occhiello della giacca: è un modo di pensare, di vedere il mondo-coccodrillo in cui ci troviamo: un mondo confuso, costipato, contraddittorio, illogico. Cercare di dire questo mondo in poesia non può quindi non presupporre un ripensamento critico di tutti gli strumenti della tradizione poetica novecentesca. Uno di questi – ed è uno strumento principe – è la sintassi: che oggi è ancora telefonata, discorsiva, troppo concatenata e sequenziale, quasi identica a quella che è prevalsa sempre di più fra i poeti verso la fine del secolo scorso, in particolare dopo l’ingloriosa fine degli ultimi sperimentalismi: finiti gli eccessi, la poesia doveva farsi dimessa, discreta, sottotono, monotonale, diventare l’ancella della prosa.

Rebus sic stantibus, dicevano i latini con meraviglioso spirito empirico. Che cosa vuol dire: «le cose come stanno»?, e poi: quali cose?, e ancora: dove, in quale luogo «stanno» le cose? – Ecco, non sappiamo nulla delle «cose» che ci stanno intorno, in quale luogo «stanno», andiamo a tentoni nel mondo delle «cose», e allora come possiamo dire intorno alle «cose» se non conosciamo che cosa esse siano. 

«Essere nel XXI secolo è una condizione reale», ma «condizione» qui significa stare con le cose, insieme alle cose… paradossalmente, noi non sappiamo nulla delle «cose», le diamo per scontate, le cose ci sono perché sono sempre state lì, ci sono da sempre e sempre (un sempre umano) ci saranno. Noi diamo tutto per scontato, e invece per dipingere un quadro o scrivere una poesia non dobbiamo accettare nulla per scontato, e meno che mai la legge della sintassi, anch’essa fatta di leggi e regole che disciplinano le «cose» e le «parole» che altri ci ha propinato, ma che non vogliamo più riconoscere.

Carlo Michelstaedter (1887-1910) si chiede: «Quale è l’esperienza della realtà?». E cosi si risponde:

«S’io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s’io ho sete, la realtà è più o meno liquida, è più o meno potabile, s’io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun’altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri.

…”Ma noi non guardiamo le cose” con l’occhio della fame e della sete, noi le guardiamo oggettivamente (sic), protesterebbe uno scienziato.
Anche l’”oggettività” è una bella parola.
Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno ma in sé: aver in un punto “il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo,” nella attualità della mia vita tutte le cose, l’”eternità resta raccolta e intera…
È questa l’oggettività?…».2

Ancora urgenti e centrate queste osservazioni del giovane filosofo goriziano che ci riportano alla nostra questione: Essere del XXI secolo, che significa osservare le »cose» con gli occhi del XXI secolo, che implica la dismissione del modo di guardare alle «cose» che avevamo nel XX secolo; sarebbe ora che cominciassimo questo esercizio mentale, in primo luogo non riconoscendo più le «cose» a cui ci eravamo abituati, (e che altri ci aveva propinato) semplicemente dismettendole, dando loro il benservito e iniziare un nuovo modo di guardare il mondo. La nuova scrittura nascerà da un nuovo modo di guardare le «cose» e dal riconoscerle parte integrante di noi stessi.

Dopo il novecento

Dopo il deserto di ghiaccio del novecento sperimentale, ciò che resta della riforma moderata del modello sereniano-lombardo è davvero ben poco, mentre la linea centrale del modernismo italiano è finito in uno «sterminio di oche» come scrisse Montale in tempi non sospetti.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967). Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo dell’experimentum per approdare ad una sorta di poesia che faccia a meno delle categorie del novecento: il pre-sperimentale e il post-sperimentale oggi sono diventate una sorta di terra di nessuno, in un linguaggio koinè, una narratologia prendi tre paghi uno; ciò che si apparenta alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile poetico intellettuale olistico-pubblicistico), vivrà una terza vita ma come fantasma, in uno stato larvale, scritture da narratologia della vita quotidiana. Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi: Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista?, ma è la sua metafisica che oggi è diventata irriconoscibile. La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio,  con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista, come schiettamente modernista è la poesia di Elio Pecora, da La chiave di vetro, (1970) a Rifrazioni (2018), di Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1976) e l’Antologia Tu quoque (2014), di Giorgia Stecher di cui ricordiamo Altre foto per un album (1996), e adesso Tutte le poesie (1978-1996), pubblicato da Progetto Cultura, (2022) e Maria Rosaria Madonna, con Stige (1992), la cui opera completa appare nel 2018 in un libro curato da chi scrive, Stige. Tutte le poesie (1980-2002), edito sempre a mia cura da Progetto Cultura di Roma. Il novecento termina con le ultime opere di Mario Lunetta, scomparso nel 2017, che chiude il novecento, lo sigilla con una poesia da opposizione permanente che ha un unico centro di gravità: la sua posizione di marxista militante, avversario del bric à brac poetico maggioritario e della chat poetry dominante, di lui ricordiamo l’Antologia Poesia della contraddizione del 1989 curata insieme a Franco Cavallo, da cui possiamo ricavare una idea diversa della poesia di quegli anni. In questi ultimi anni degna di nota è la forma-poesia pensante di Paolo Valesio, con Il servo rosso (2016) e Il testimone e l’idiota (2023), che persegue una poesia dialogata, un itinerario insolito e in contro tendenza che nulla concede alle rapsodie dell’io.

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».3

Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.

Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.

La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

La poesia kitchen 

L’estraneazione è l’introduzione dell’Estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel già conosciuto. Il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa della poesia kitchen. Queste sono le categorie sulle quali il kitchen costruisce le sue parole instabili in movimento. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo, è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte, nella vita e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… Nella poesia kitchen di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Vincenzo Petronelli, Giuseppe Gallo, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi, Gino Rago, Tiziana Antonilli, Lucio Mayoor Tosi e mia c’è il vuoto, però, e in grande abbondanza. E questo la normologia del cassetto-poesia non lo può accettare, fa paura, esce dal bon ton, è estraneo alla poesia dell’amichettismo. Il vuoto proprio no, non è educato metterlo lì in bella vista, in primo piano.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. Il kitchen scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

Tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nel kitchen è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia. È questo il significato profondo del distacco della poesia kitchen dalle fonti novecentesche; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non  produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.
la poesia kitchen dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

Siamo entrati da tempo nel campo largo, anzi, larghissimo del commonplace (del banale)

Oggi la dicotomia tra stile e maniera ha perso significato. Poiché se tutto è consentito nulla ha più importanza di un’altra cosa, e se l’arte è un semplice «gioco» di possibilità, tutte le possibilità diventano note e calcolabili; in questo contesto categoriale, le antiche categorie di originalità, autenticità e genuinità perdono progressivamente significato. La distinzione tra stile e maniera risulta obsoleta per ragioni storiche e ontologiche (perdonatemi la brutta parola): nel mondo dell’arte post-storico i mezzi stilistici appaiono come opzioni liberamente disponibili, come metodi o tecniche di cui chiunque può servirsi. Ma ne deriva che le opere di poiesis che sono immediatamente e pubblicamente riconoscibili, in quanto opere di techne, sono prive di «valore» (nel senso che si sono distaccate dalla catena di valore della tradizione), in quanto possono essere ripetutamente applicate in serie, infatti la serializzazione si applica alle opere che si basano sulla categoria della riconoscibilità pubblica, non certo sulla categoria del «valore». In tal senso, le opere di Andy Warhol ne sono la esemplificazione perfetta.

Sollevare questioni riguardanti la autenticità o la genuinità o la identità di un autore o di una serie di opere implica il rischio di commettere errori categoriali. Non si dà autenticità o genuinità garantite. Nell’opera di poiesis di oggi non si dà alcuna garanzia, l’opera lasciata sola con se stessa si comporta come un «incomunicabile», come un «intrasmissibile», come un «infungibile».

Nel Dopo il Moderno la differenza tra mera maniera e stile autentico svanisce.
È proprio il segno del momento post-storico il fatto che la richiesta di un’identità riconoscibile sia rivendicata dagli artisti e dai critici che si battono per la riconoscibilità di una identità artistica. Ma qui ci troviamo in un momento regressivo dell’arte. Uno stile definito non equivale a dire uno stile stabile, oggi un artista che non si muove dal proprio stile è un artista inconsapevole della complessità del lavoro artistico, e fa del déjà vu.

È errato interpretare la fine dell’arte come l’epoca del manierismo che si ripresenta sempre identico a se stesso. Il manierismo deve essere invece inteso come modus, come modalità, come tecnica di indagine a disposizione di un artista che abbia consapevolezza della techne che impiega. Da questo punto di vista la distinzione tra stile e maniera, tra originalità e commonplace è oggi una questione obsoleta, siamo entrati da tempo nel campo largo, anzi, larghissimo del commonplace (del banale).

Lo stile della NOe (nuova ontologia estetica o nuova fenomenologia del poetico) è quello delle didascalie dei prodotti commerciali e farmacologici

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato stampa che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. La NOe scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi della NOe interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

L’ispirazione è rubinetteria di terza mano, utensileria buona per i pronostici del totocalcio, eufemistica, superstizione, epifenomeno di un armamentario concettuale in disuso, concetto cafonal-kitsch, concetto da Elettra Lamborghini in topless per poveri di spirito.

L’Elefante sta bene in salotto, è buona educazione non scomodarlo

L’Elefante si è accomodato in poltrona. Tant’è, si fa finta di non vederlo, così si può sempre dire che non c’è nessun elefante, che i bicchieri sono a posto, le teche di cristallo intatte, le suppellettili pure, che la poiesis gode di buona, anzi, ottima salute, che non c’è niente da cambiare, che la poiesis da Omero ad oggi non è cambiata granché, che da quando il mondo è mondo la poiesis è sempre stata in crisi… come dire che il linguaggio normologato è il nostro riparo, non abbiamo più niente da dire né da fare. Ed è vero: la poesia italiana che si fabbrica in Egitto non ha veramente nulla da dire, evita accuratamente e con tutte le proprie forze di vedere l’Elefante che passeggia in salotto e che con la sua proboscide ha fracassato tutto ciò che c’era di fracassabile. L’Elefante adesso si è accomodato in poltrona. È disoccupato. Il suo posto è stato preso dai corvi.

La NOe

La NOe (nuova fenomenologia del poetico) dà uno scossone formidabile all’isomorphismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, 1970, p. 76
2 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica Joker, 2015 pp. 102-103 (prima edizione, 1913)
3 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

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Mimmo Pugliese

GLI ARGINI

Gli argini hanno spolpato i fari
la lunula stordisce gli imbroglioni

Nelle trincee si insegna il forrò
nevica sulle case senza tetto

Ai lati della settimana mancano le finestre
nei ripostigli bombe molotov nutrono trecce di aglio

Mercanti di parole conservano pupille di rame
pitoni accendono candele e bevono argento

Nel trolley bivacca l’occhio di pernice
sull’arco sesto boccheggiano bisce color fragola

La regina di quadri è una carrozza
stivali lucidano maniglie della vasca da bagno

Una giraffa vaga tra le carcasse d’auto
all’ora del thè si trapianta le narici

Dai campanili cravatte asportano scogli
un ombrello rovescia telline e rosmarino

La disillusione degli alluci è un presepe a righe
cacciaviti inchiodano colombe al soffitto in discesa

Marie Laure Colasson

16.

“Jadore boire un saké avec un Massai”
dit la blanche geisha “et toi Eredia?”
“Oh moi je préfère les radis-beurre
et l’éternité enlacée à un Dogon”

Tonitruant le chien de Madame Bonjour intervient
“Vos conversations sont grasses
comme un démon à l’oeil manquant
allongé sur un tapis persan”

Une ombre folle et magouilleuse
s’entremet et chante à tue-tête
“Les ressuscités fauchent l’herbe multicolore
et un fou allume un feu écologique
avec le Marquis de Sade”

“Quelle est cette belle voix?”
demande Sapho frémissante
“Mais ma douce exilée moi le héron
voleur de pastèques et de raisins
sur un collage de Juan Gris”

Tonitruant le chien de Madame Bonjour intervient
“Vos conversations sont grasses
comme un démon à l’oeil manquant
allongé sur un tapis persan
et de ce pas je file à la cérémonie des persifleurs”

*

“Adoro bere saké con un Masai”
disse la geisha bianca “e tu Eredia?”
“Oh io, preferisco il ravanello al burro
e l’eternità intrecciata con un Dogon”

Interviene tonitruante il cane di Madame Bonjour
“Le tue conversazioni sono triviali
come un demone dall’occhio mancante
sdraiato su un tappeto persiano”

Un’ombra folle e ammaliante
si intromette e canta a squarciagola
“I risorti falciano l’erba multicolore
e un pazzo accende un fuoco ecologico
con il Marchese de Sade”

“Cos’è questa bella voce?”
chiede Saffo fremente
“Ma mia dolce esiliata sono io l’airone
ladro di cocomeri e uva
su un collage di Juan Gris”

Interviene tonitruante il cane di Madame Bonjour
“Le tue conversazioni sono triviali
come un demone dall’occhio mancante
sdraiato su un tappeto persiano
e adesso vado alla cerimonia dei motteggiatori”

Francesco Paolo Intini

UN BITE E MEZZO

Raggruppare lana sulla lampada.
Raggruppata.
(In fondo si trattava di sostituire una u difettosa)

Morso di pecora al posto del cavallo.
Sostituito.
(Unità di misura non ammessa dal SI)

Alla scomparsa di Guernica cambiò rotta la corrente del golfo.
Anche i Sette Sigilli furono ritoccati da Filini.

Dalla sedia del regista originò un ratto e altri risalirono la rena.
Innestare uno speculum sulla Punto rottamata.

Chi ha parlato male della r?
Forse un pungiglione calmerà la sete di peste?

C’è un ragazzo sul predellino che riempie un secchiello di nostalgia.
Faremo un castello con qualche trucco di cartone
ma alla fine morderemo un pezzo di pane.

Il collo di mollica che nessun demone riesce a baciare.

-Che furfanti riempiono le valigie?
Svuotare anche la stiva della scrivania.
Litanie da bombarolo in un lapsus.

Un tirannosauro incastrato in prossimità del cuore.
Ma nessuno vuol parlarne.

Forse un infarto chiarirà la misura del suo bite
o un’indagine televisiva sulle pillole di dentina.

Alle dieci del mattino interviene una marmitta catalitica.

E in fondo potevamo coltivarli come lumache
Sarebbero cresciute al profumo di mimosa.

Avremmo discusso con un angelo biondo.
Bignè sulle guance e tulipani dopo i canini.
Anteprima e via coi programmi sul cappellino.

Fa così buio sul Tempo
e i lampioni suonano black to black per raggelarsi.

Ha un lampo d’amuchina mentre sposta una parete
Un tocco di meraviglia sistema le piastrelle.
Si tratta di uno scarico da inabissare nella fossa delle Marianne.

I critici non capiscono i tubisti che murano le strofe tra pesci rotti.

L’emporio della metafisica pubblica i suoi depliants.
Sfogliarli all’alba, sul Collins ogni parola che buca una tomba.

Per il momento gli eventi girano attorno ad uno scarico
Finire in strada senza ausili né parcheggio riservato.

Un’ape morta sul lavandino.
Un cardellino con la bocca di un bambino.

Non c’è tregua nel creme caramel.

Raffaele Ciccarone

Non c’è tregua nel creme caramel

Giasone sale sullo yacht

Giasone sale sullo yacht parte per la Colchide
insieme al Corsaro Nero vanno alla ricerca del Vello d’oro

Maigret passeggia a Montmartre Lupin gli ruba la pipa
la rivende la domenica successiva al mercatino delle pulci

Il mezzo busto televisivo mostra sul dorso delle mani
i peli irsuti del dr Jackie – i bimbi si rifugiano sotto il letto
quando vedono le ombre dei mostri

Alice non trova l’uscita dal Paese delle meraviglie
Arianna gli chiede in cambio il cappello a fiori

note biobibliografiche

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022; con il medesimo editore nel 2023 pubblica Domani il giorno comincia un’ora prima.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Raffaele Ciccarone è nato nel 1950, ex bancario in pensione risiede a Milano. Dipinge e scrive. Ha pubblicato su una piattaforma online con uno pseudonimo circa un centinaio di poesie e qualche prosa. Ha partecipato a gruppi di poesia a Milano. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen,  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022; nel 2023 pubblica Al canto delle sirene manca l’acqua potabile

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Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia

La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde, Perché ciò che si perde è di Dio, Stralci di Giorgio Agamben, Carlo Salzani, Giorgio Linguaglossa, L’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica, “l’animale che ha il linguaggio”, Il feticismo della merce, il gioco, il giocattolo, Il tema della frattura metafisica fra significante e significato, Il linguaggio poetico liofilizzato e de-politicizzato di oggi, Poesia kitsch di Pavel Řezníček, Guido Galdini, Francesco Paolo Intini

gerhard-richter-Ulrike Meinhof, 1977 foto

Gerhard Richter, Ulrike Meinhof, foto, 1977
[Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative?] (G. Agamben) [l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto, la lingua è l’indistruttibile che può essere continuamente distrutta] (g.l.)

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Scrive Carlo Salzani:

«La filosofia di Agamben potrebbe essere meglio rubricata (se proprio si ha bisogno di etichette) come una critica integrale dell’ontologia dell’Occidente. Allo stesso modo, la sua proposta politica, la pars construens del suo progetto, risulta incomprensibile (e anche per questo ha ricevuto tanti attacchi) se non la si pensa all’interno di questo ambito: una nuova politica (data l’insormontabile crisi della vecchia) è possibile solo attraverso una nuova ontologia. Nello stesso ambito dobbiamo anche inserire le analisi dell’estetica (o, meglio, dell’arte), della letteratura, dell’etica e del linguaggio: la questione, per Agamben, è sempre una questione di quello che Aristotele chiamava prote philosophia, “filosofia prima”. Un’importanza centrale assume in questo senso l’analisi del linguaggio, giacché l’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica,“l’animale che ha il linguaggio”, ma questa definizione non può essere presa e accettata acriticamente, dev’essere, anzi, problematizzata, analizzata e indagata al di là dei suoi presupposti metafisici.

Questa è la preoccupazione costante e inaggirabile che Agamben metterà esplicitamente al centro di ogni sua elaborazione, giacché dalla risposta che la civiltà occidentale ogni volta darà alla domanda “Cosa significa avere il linguaggio?”non dipende solo lo status della linguistica e delle scienze ingenerale, o dell’arte e della letteratura, ma quello della definizione stessa di “umano”, e quindi della vita, dell’etica e della politica. Inscindibile da queste questioni è quella del tempo e della storia, ed è anch’essa una questione che, in modo coerente e sostanzialmente invariato, informa ogni singola opera di Agamben. Vivere e agire, e cioè l’etica e la politica, avvengono solo nel tempo e a partire dal tempo, per cui la critica dell’ontologia occidentale significa anche e innanzi tutto una critica dell’idea di tempo e di storia che da questa ontologia deriva e che, allo stesso tempo, a essa dà forma. La proposta di una nuova ontologia significherà allora la proposta di una nuova idea di tempo e di storia, di una nuova esperienza del vivere e dell’agire nel tempo.

Questo modo apre uno spazio all’“epifania dell’inafferrabile” (S 13). L’“appropriazione” che l’intenzione accidiosa/ malinconica concede è “fantasmagorica”, ma proprio in quanto tale essa apre uno spazio all’“esistenza dell’irreale” e delimita una scena in cui “l’io può entrare in rapporto con esso e tentare un’appropriazione che nessun processo potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare” (S 26). Una “nuova dimensione” è in questo modo aperta, un “intermediario luogo epifanico” (S 32) che mette l’uomo in contatto con un mondo, quello in cui desiderio e oggetto interagiscono, da cui dipende la sua felicità. La stessa struttura è individuata nella seconda “stanza”, la più benjaminiana perché tratta temi e autori classici delle ricerche dell’ultimo Benjamin nei “Passages” di Parigi e nel libro su Baudelaire (il feticismo della merce, Freud, Marx, Baudelaire, il dandy, il giocattolo), anche se il debito rimane implicito e “senza virgolette”.

Qui il rapporto tra conoscenza, desiderio e oggetto è cercato nel modello del “feticcio”, dalla sua analisi freudiana come “presenza di un’assenza”, al “feticismo della merce” individuato da Marx nello sdoppiamento tra valore d’uso e valore di scambio, che rende la merce inafferrabile e fantasmagorica. Il passo al di là di questa frattura è individuato nella rivoluzione poetica di Baudelaire (un Baudelaire molto benjaminiano), che all’invadenza della merce oppose la mercificazione assoluta dell’opera d’arte, nella quale il processo di feticizzazione è “spinto fino al punto da annullare la realtà stessa della merce in quanto tale” (S 51). Facendo dell’opera il veicolo stesso dell’inafferrabile, Baudelaire assegna all’arte il compito di appropriarsi dell’irrealtà e, come il dandy, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose che vada oltre il valore d’uso e il valore di scambio. Portando fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé, il dandy e la poesia moderna oppongono all’accumulazione capitalistica del valore di scambio e al godimento del valore d’uso del marxismo “la possibilità di un nuovo rapporto con le cose: l’appropriazione dell’irrealtà” (S 59).

La terza “stanza”, che ricostruisce la teoria del fantasma nella lirica tardo-stilnovista, non solo è la più estesa, ma occupa il posto centrale della ricerca in quanto ne costituisce il modello. È anche la “stanza” in cui l’influenza del metodo warburghiano è più evidente ed esplicita (e ad Aby Warburg, tra gli altri, è dedicata). Quella che viene qui ricostruita, mediante una lunga, minuziosa ed estremamente erudita analisi della teoria della sensazione medioevale, è la relazione tra amore e immagine: secondo la psicologia medioevale, gli oggetti sensibili imprimono nei sensi la loro forma e quest’impressione (chiamata “fantasma”) è ricevuta dalla fantasia, che la conserva anche in assenza dell’oggetto. Questo “fantasma” costituisce una sorta di intermediario fra l’anima e la materia e permette così di spiegare tutti gli influssi fra il corporeo e l’incorporeo, compreso l’amore: “L’oggetto dell’amore è infatti un fantasma, ma questo fantasma è uno ‘spirito’, inserito, come tale, in un circolo pneumatico in cui si aboliscono e si confondono i confini fra l’esterno e l’interno, il corporeo e l’incorporeo, il desiderio e il suo oggetto” (S 128).

L’amore è in quanto tale “fantasmatico”, cioè irreale, e, come l’accidia/ malinconia, nel suo fissarsi sull’inaccessibilità del suo oggetto esso è “patologico”, è la “malattia mortale” dell’immaginazione. È con gli stilnovisti che questo processo riceve una“nobilitazione soteriologica”: nel linguaggio poetico (esemplificato soprattutto dalla teorizzazione di Dante) inteso come dettato d’amore, gli stilnovisti cercano di colmare la frattura metafisica fra visibile e invisibile, corporeo e incorporeo, apparire ed essere. Eros e poesia sono qui legati e coinvolti in una comune appartenenza che scuote la distinzione semantica tra significante e significato e che concilia la frattura fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto: “il fantasma genera il desiderio, il desiderio si traduce in parole e la parola delimita uno spazio in cui diventa possibile l’appropriazione di ciò che non potrebbe altrimenti essere né appropriato né goduto” (S 153). Il tema della frattura metafisica fra significante e significato è analizzato a fondo nell’ultima “stanza”, che presenta una critica della semiologia moderna. La dualità del manifestante e della cosa manifestata che costituisce il segno rispecchia la“frattura originale della presenza”: “tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare” (S 160-61). La nozione semiotica del segno come unità espressiva di significante (S) e significato (s) rimuove e occulta la frattura originale, e quest’oblio metafisico si manifesta nella barriera (/)del grafo che indica il segno: S/s. Non interrogandosi sul senso di questa barriera, di questa divisione/differenza, la metafisica occidentale (di cui la semiologia moderna rappresenta il momento culminante e l’impasse) copre l’abisso spalancato fra il significante e il significato; essa non è quindi che “l’oblio della differenza originaria tra significante e significato” (S 63).

In questo senso, la strutturazione metafisica del significare nella semiologia rende il fatto linguistico qualcosa di “impossibile”,mostra (nella barriera /) l’impossibilità del segno di prodursi nella pienezza della presenza. Il progetto della decostruzione di Derrida ha messo a nudo, per Agamben, l’eredità metafisica della semiologia moderna, ha posto l’accento su e ha svelato la frattura originaria, ma far venire alla luce il fondamento negativo della metafisica non significa superarla, e la decostruzione qui si è fermata. Una “semiologia liberata” che voglia “far segno” verso un nuovo modello del significare, verso “un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura […] insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato” (S 165), dovrebbe portare lo sguardo proprio su questa barriera, su questa “articolazione invisibile” che indichi la strada per quello che Eraclito chiamava “armonia”, e cioè una stazione “giusta” nella presenza.

[contemporaneo]

La sconnessione e l’inattualità conferiscono alla contemporaneità la struttura dell’“urgenza”: la contemporaneità “è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma” (NU 26), e lo fa mettendo in relazione i tempi, l’arcaico con il moderno, l’origine con il presente. 

“Nietzsche situa […] la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. (NU 20)

“Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente” (NU 23)

per eccellenza” è quindi il tempo messianico, il “tempo di ora”che trasforma e mobilita il tempo come esigenza di compimento. Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di“citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra,acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. (NU 31)
Agamben, nella sua opera, ha diretto uno sguardo impietoso sulle tenebre del nostro presente e ha cercato di “illuminarle”e di rispondere alla loro sfida mettendole in relazione con gli altri tempi. E, se proprio di “attualità” si deve parlare, allora l’attualità del pensiero di Agamben sta proprio in questo: nell’aver fatto del presente il “tempo” della propria opera».

da C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, il melangolo, 2013 pp. 178, € 14
SALZANI-Agamben 03-10_opuscula 08/10/13 12:39 Pagina 177 Continua a leggere

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Gino Rago, Poesie da Lettere a Ewa Lipska, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: la tua è una «poesia-polittico»; la grande elegia è diventata impercorribile – Dopo il Moderno

Gif Moda

portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di trenta anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). È presente nelle antologie curate da Giorgio Linguaglossa Il Rumore delle parole, (2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016) Roma.

Caro Gino Rago,

la tua è una «poesia-polittico», hai inventato di sana pianta un nuovo genere della poesia del Dopo il Moderno. La tua «poesia-polittico» è simile ad un affresco rinascimentale dove ci sono molte e disparate cose qua e là: nelle bandelle ci sono i committenti (i poeti interlocutori), delle dame che accompagnano il trionfo di Venere e Adone, in un’altra bandella c’è una tomba nella neve con su scritto un nome: Herr Cogito, c’è del «Liquido reagente» che non si sa a cosa debba reagire; c’è un personaggio inventato da Ewa Lipska: la Signora Schubert, c’è una misteriosa «amica di Vienna», ci sono delle missive non giunte a destinazione, c’è uno scambio di vedute tra interlocutori distanti migliaia di chilometri  in un mondo ad una unica dimensione (sovranista, mediatico e populista), etc. In questo mondo globale ad unica dimensione, tu riadotti il genere della missiva per fare un monologo globale a 360 gradi, la tua poesia riprende a fare dei grandi affreschi con del ready-made, con stralci-stracci di lettere immaginarie, mai inviate e di poesie nostre e altrui, con gli stracci del nostro mondo…

«portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato»

In un certo senso sei andato molto oltre la grande elegia del passato recente che ha in Brodskij il suo grande poeta irripetibile, ma con lui e dopo di lui l’elegia è diventata impercorribile perché una elegia per fiorire ha bisogno di una «casa»,  di una Heimat, di un «esilio», di una nostalgia… noi oggi  non abbiamo più una «casa» dove sostare e non possiamo avere neanche la nobiltà di un «esilio», e allora non rimane che la «poesia cartografia», la «poesia-polittico», la poesia che sfonda e sfocia nel futuro e nel passato ma senza alcun rammarico, come su una slitta, senza nostalgia, senza elegia, e, direi, anche senza un presente… Nella tua poesia c’è tutto: il passato, il futuro, ma, incredibile, non c’è il presente, sintomo evidente di una anomalia del nostro mondo… E se non c’è un presente non ci può essere neanche una casa del presente… non possiamo neanche uscire da una casa perché non abbiamo più una casa, una Heimat, non possiamo neanche intraprendere un viaggio, perché dove potremmo andare se siamo rimasti senza una casa alla quale ritornare? Appunto: in nessun luogo. E qui sembrerebbe che la vicenda metafisica dell’homo sapiens e della metafisica occidentale sia arrivata a compimento…

Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», le parole si sono raffreddate e indebolite… ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design (vedi il design di Lucio Mayoor Tosi) sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che inoltrarsi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.

Oggi sarebbe impossibile scrivere una poesia come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini o come La Beltà (1968) di Zanzotto perché entrambe quelle opere presupponevano una «casa», una Heimat… oggi noi non abbiamo altro linguaggio che questo della tua lingua di ruggine di ferro, quello di Mario Gabriele fatto di frantumi di specchi di altri linguaggi, oggi abbiamo un linguaggio fatto di frantumi di specchi… ed è con questo linguaggio che dobbiamo fare i conti, chi non l’ha capito continua a fare la poesia del post-minimalismo, della retorizzazione del corpo, del privatismo… l’aveva capito bene Helle Busacca quando dà alle stampe I quanti del suicidio (1972) con quel suo linguaggio da spazzatura, vile e sordido, volutamente a-poetico o Maria Rosaria Madonna quando scrive in quel suo linguaggio di frantumi di specchi che è il neolatino di Stige (1992)  libro ripubblicato con le poesie inedite: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura (2018) che raccomando a tutti di leggere, uno dei capolavori della poesia del novecento italiano.

Adesso, finalmente, la poesia italiana ha ripreso a pensare in grande, a tracciare il cardo e il decumano di una «poesia polittico» che abbraccia il pensato e l’impensato, il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile.

Per altezza di impegno edittale la tua poesia mi fa pensare a libri come Lettere alla Signora Schubert di Ewa Lipska e al ciclo di poesie de Il Signor Cogito di Zbigniew Herbert, tu ritorni al punto della vexata quaestio: il problema del nome e della cosa e se la poesia debba nominare la cosa o no, se il discorso nominante ha ancora senso o no, se il discorso nominante sia parola del destino o no: «E questo nome ora è il mio destino». La lingua diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell’espressione con il denotato, solo se la lingua accetta l’assunto secondo il quale nell’espressione nome e cosa si diversificano, tendono ad allontanarsi.

(Giorgio Linguaglossa)

gif donna in corridoio

non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso

Prima Lettera a Ewa Lipska

[Il liquido reagente]

Cara Signora Ewa Lipska,
( p.c. caro Signor Giorgio Linguaglossa )

[non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.
La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
Non più di cinque persone al suo funerale,
senza pianti né fiori.]

[…]
[La mia amica di Vienna mi ha consolato.
Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert,
ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori.
Nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.
La Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
Scrive poesie come impronte digitali e sintetiche

come fuochi d’artificio.
Con poche amiche passeggia intorno al lago artificiale.
Parla della vita, del caso, del destino]

Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi,
ululano alla poesia come i lupi alla luna.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente?
E il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Lei sa meglio d’altri
che il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
nello  stesso istante del mondo
[questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande].

Seconda Lettera a Ewa Lipska

[Il passato]

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Linguaglossa)

portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato.
Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
E Lei da poeta lo sa
che i morti  ai processi dei vivi
si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-à-terre
con la sua donna.
Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
si guardano negli occhi.
Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[litiga con Schiele per  «ll Bacio» di Klimt].
L’aria d’autunno si guasta,
ma un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce-vita dello sperma siderale […]

Gif scale e donna

Per questo forse uscendo dalla cripta della Signora Schubert
ho udito da lontano la Marcia di Radetzky

Terza Lettera a Ewa Lipska

[La clinica della folla]

Cara Signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei si chiederà perché Le scrivo da Vienna.
Le invio le mie lettere dal centro dell’Impero d’Austria-Ungheria
per la Signora Schubert che Lei mi ha fatto amare.
Ho voluto raccogliere i segni della sua vita
nei luoghi forse a lei cari. Stefansplatz. I giardini Schönbrunner.
La ruota di lontano della Wiener Riesenrad.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signora Giorgio Linguaglossa)

Il mio amico-poeta di Roma ha scritto in un altro verso:
«La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.»
Per questo la mia amica di Vienna mi ha detto di cercare la Signora Schubert
nella Cripta dei Cappuccini?
Ho deposto un mazzo di tulipani.
Era troppo freddo il giorno per le rose.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Ogni Suo verso è una impronta digitale.
Io sono il lettore delle Sue impronte.
Per questo forse uscendo dalla cripta della Signora Schubert
ho udito da lontano la Marcia di Radetzky
dalle finestre aperte della Villa dei Von Trotta
[forse inciampo anch’io nella cava degli intrecci delle date,
con la mia amica di Vienna entro nella clinica della folla]. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

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mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
————————————————
dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

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Jean Clair  L’ARTE È UN FALSO  

jeff koons Balloons dog rosso

jeff koons Balloons dog rosso

jeff koons camera da letto rosa salmoneda la Repubblica mercoledì 23 ottobre 2013

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L’opera contemporanea tra tecniche seriali e mercato impazzito. Autenticità impossibile da stabilire. Prezzi a livelli assurdi e ingiustificati. La provocazione del famoso critico. Il testo di Jean Clair qui anticipato è parte del suo intervento alla giornata di studi  Il falso, specchio della realtà  che si è svolta il 24 ottobre 2012 a Bologna alla fondazione Federico Zer a cura di Anna Ottani Cavina.

Ci sono due professioni che hanno sempre rifiutato di lasciarsi inquadrare: gli psicanalisti e gli esperti d’arte. Chiunque può dirsi psicanalista o esperto e appendere alla propria porta una targa di ottone con la menzione della propria autorità. L’oggetto o la persona di cui le due professioni si occupano rilevano della categoria dell’unico, che appunto non è soggetta alla regola comune. Ogni caso sottoposto all’attenzione fluttuante dello psicanalista è irriducibile alla norma, come il quadro sotto lo sguardo dell’esperto. Ma vi sono casi in cui l’esercizio della perizia artistica o della maieutica psicanalitica somiglia piuttosto ad una pratica sofistica o alla logica falsata di un ragionamento fallace, fondato sull’emotività dell’amatore o del nevrotico, e sull’argomento d’autorità di uno specialista autoproclamato. Al paziente rimane il compito di districare, è proprio il caso di dirlo, il vero dal falso.

jeff_koons cicciolina

jeff koons nudo in bagno

jeff koons nudo in bagno

Per secoli e secoli, l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e non da una sola mano, unica e inimitabile; era inoltre diffusa, copiata, riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier, che mettevano in circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo significa usare deliberatamente un vocabolario religioso che risale a Bisanzio e alla controversia delle immagini: il prototipo, che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza (eikon) di Dio, permette la ri-produzione all’infinito dell’immagine che ne è al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglianza è identità. L’adorazione dell’immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel campo del gusto (delectare) né del sapere (docere), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede.

Jeff Koons Ballon dog

Jeff Koons Ballon dog

Da qualche anno, questa fede vacilla, si fa meno forte, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo degli iconclasmi, da Bisanzio alla Rivoluzione francese.

Nel mezzo di queste querele di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad accettare che delle pastiglie multicolori siano vendute a qualche centinaia di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst. La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza in un genio incomparabile, fascino del “fare” singolare, lavori interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie…

picasso astratto musica

picasso astratto musica

L’ultimo, l’estremo stadio è stato raggiunto quando la presenza dell’artista moderno, l’artista posseduto dal furor divinus, non è più richiesta solamente nella sua “mano” ma nella forma ancora più diretta: simile al Dio che offre il proprio corpo agli umani, l’artista offre in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di “opere d’arte”, scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i peli, i capelli, le unghie, l’urina, e infine gli escrementi saranno proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori dell’arte contemporaneo. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp, Salvador Dalì, Piero Manzoni, per la sua “Merda d’artista”, Kurt Schwitters, Louise Bourgeois, Gina Pane, Günter Brus, Hermann Nitsch, André Serrano, Wim Delvoye… la lista è senza fine.

picasso donna seduta

picasso donna seduta

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva, in una rivista, o in un catalogo di esposizione, darle una forma, un nome, attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera insomma come la veggente fa parlare le carte. Ora, perché il critico d’arte diventi un personaggio essenziale, credibile, di questa manipolazione, occorre un’operazione singolare che farà della sua parola un dogma. L’effetto di “doxa” sarà ottenuto accostandogli due figure essenziali: lo storico d’arte e il mercante. Il mercante fornirà la merce, lo storico d’arte ne attesterà la provenienza e ne ricostruirà la storia.

picasso Sogno

picasso Sogno

picasso donnaLe operazioni intraprese per far montare il prezzo delle opere verso vette illimitate, il cui valore diventa indiscernibile agli occhi dell’onest’uomo, somiglieranno allora stranamente alle operazioni inaugurate dagli hedge funds nel campo bancario o fiduciario, attribuendo un prezzo a dei beni inesistenti, a dei prodotti fantasma, o più ancora al processo di titolarizzazione che trasforma un credito dubbio e che non sarà mai saldato in un titolo finanziario garantito e suscettibile di essere immesso nel mercato dei capitali. Continua a leggere

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