
noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo
Vincenzo Vitiello scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).
Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?
Vincenzo Vitiello: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.
[ Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente? ]
Vincenzo Vitiello: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.
Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.
Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.

Quando sorge un nuovo linguaggio poetico?
[ Quando sorge un nuovo linguaggio poetico? Ecco due versi del poeta Tomas Tranströmer:
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
In questa immagine a solenoide del poeta svedese abbiamo la rappresentazione a-prospettica di UNA temporalità, una temporalità che, per paradosso, ha bisogno di riferimenti spaziali e simbolici per poter essere avvertita e rappresentata. Anzi, il simbolo è il nesso (concretamente linguistico) che unifica la dimensione temporale e quella spaziale. E qui si cela il paradosso del tempo. Il tempo, nella cognizione ontologica che l’uomo ne ha nella sua vita quotidiana, non è portato da una dimensione temporale ma da una Esperienza che ha abitato la dimensione temporale. Il paradosso è tutto qui: noi percepiamo lo scorrere del tempo e la distanza temporale non mediante la dimensione temporale che, di per sé, è vuota, ma attraverso le esperienze che hanno abitato la dimensione temporale. Nella dimensione del linguaggio poetico di Tranströmer, ad esempio, il simbolo si dà in una o più immagini concatenate che, tutte insieme, concorrono a modellizzare linguisticamente il tempo. Ed il tempo diventa «interno», si internalizza, prende ad abitare le immagini. Nella poesia sottostante di Donatella Giancaspero abbiamo uno «stato di cose» (Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde) che è nel tempo e nello spazio ma, paradossalmente, fuoriesce sia dal tempo che dallo spazio. Che cos’è uno «stato di cose»? Dove abita? Nel tempo? Nello spazio?, o fuori dal tempo e fuori dello spazio?
Una poesia di
Donatella Giancaspero
Sul tavolo, il posacenere di ceramica verde:
a colpo d’occhio, una scodella di corti steli marroni
piantati nel brodo di polvere.
Accanto al posacenere, l’ora di Armonia,
in attesa di salire col fumo al mentolo.
Alla fine dell’estate, un nido di vespe nel lampadario.
Un enigma al telefono.
Il problema logistico che sposta l’inizio delle lezioni.
La matita, sul quaderno pentagrammato da dodici righi,
sempre un po’ alticcia:
sottolinea le quinte e le ottave parallele,
mentre di scorcio, una misoginia filiforme
intesse la trama ocra del divano.
Basta voltarsi, per toccare l’ologramma impresso
contro un’ombra fluttuante. Le cose,
dentro il display grigio di un acquario.
Vincenzo Vitiello: il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
Il più grande pericolo del pensiero è – il pensiero. L’onnifagia del pensiero. Là più pericolosa, dove si cela.
Prendiamo la prima parte dell’enunciato: noi abitiamo lo spazio. Non però nel senso in cui diciamo che abitiamo in una casa, in una città. Casa e città già ci sono perché noi si possa abitare in esse. Lo spazio, invece, è per l’abitare. È per l’abitare che c’è spazio. E se “abitare” dice: prendersi cura delle cose, allora è per il prendersi cura che lo spazio è. Stiamo qui capovolgendo l’argomento kantiano dell’“apriorità” dello spazio, per il quale in tanto possono esserci sopra e sotto, vicino e lontano, destra e sinistra – e cioè relazioni spaziali – in quanto c’è, c’è già, la forma pura dello spazio. Vero è che Kant muove dalla concezione dello spazio (e del tempo) elaborata dalla scienza moderna: la concezione dello spazio come contenitore universale di tutti i fenomeni esterni. È lo stare in esso che determina la spazialità degli enti, i rapporti cioè di vicinanza e lontananza, tra “su” e “giù”, “davanti” e “dietro”… Non si tratta, chiaramente, di un contenitore “inerte”, al contrario, lo spazio è forma attiva, forma formante: esso spazializza tutto quanto accoglie in sé. Sin dall’inizio Kant antepone la “forma” al “contenuto”, la relazione ai suoi termini, l’attività alla passività. Questo ci permette di dire che Kant non pone il problema del “costituirsi” di questa forma formante, del sorgere dell’esperienza dello spazio. Lo spazio c’è, c’è già, da sempre – si dice. E sia pure. Ma come accade a noi di fare esperienza dello spazio?
La domanda è ineludibile. Kant stesso inizia chiamando in causa “chi” può fare esperienza dello spazio. Soltanto un ente sensibile – risponde –, ossia un ente ricettivo e quindi “finito”, in quanto rinvia ad “altro”, a ciò da cui “riceve”. La “finitezza” dell’ente, la sua ricettività, il suo riferimento ad altro, implica la sua spazialità a priori, il suo essere già – già da sempre – nello spazio (qual forza spazializzante passiva e attiva insieme). Del tutto evidente che è dalla determinazione dello spazio che viene ricavata la determinazione dell’ente che ne fa esperienza, il “noi”, e non viceversa. Né vale replicare che l’esperienza dello spazio – e cioè la conoscenza che l’ente sensibile finito ha della sua spazialità a priori – è una ri-flessione, un ripiegamento dell’ente finito sulla propria apriorica costituzione spaziale. Non vale, perché la replica conferma l’obiezione, e cioè l’asserita presupposizione della spazialità dell’ente sensibile finito. Ma: è sufficiente la “ricettività” a definire l’ente che fa esperienza dello spazio?
il linguaggio è pieno di metafore, di trasposizioni. E non è necessario evocare il linguaggio della poesia, basta avere una qualche confidenza col linguaggio popolare o dialettale. Il passaggio dallo spazio al tempo comporta altro “salto” nella continuità dell’esperienza.
Giorgio Linguaglossa: Lo spazio, il tempo e la memoria, la memoria che apre all’uomo l’esperienza della quadri dimensionalità. Scrive in proposito Giacomo Marramao: Continua a leggere