
gunnar-smoliansky-1976
Tomas Tranströmer, premio Nobel per la Letteratura nel 2011, è morto venerdì 27 marzo 2015 a 82 anni. Quando vinse il Premio dell’Accademia era stato colpito da undici anni da un ictus che gli aveva inibito la capacità di parlare.
Psicologo di professione, era il massimo esponente della generazione di intellettuali che si è affermata dopo la Seconda Guerra mondiale. Convinzione di Tranströmer era che l’esame poetico della natura fornisce intuizioni sull’identità umana e sulla sua dimensione spirituale. La sua poesia sconfina spesso in territori metafisici. “L’esistenza di un essere umano non finisce dove terminano le sue dita”, ha scritto un critico svedese della sua poesia, definendo i suoi lavori “preghiere secolari”.
La sua notorietà nel mondo anglofono derivava dalla sua amicizia con il poeta americano Robert Bly, che ha tradotto gran parte del suo lavoro dallo svedese all’inglese, una delle 50 lingue in cui le sue poesie sono apparse.
Notizie sull’autore
Tomas Tranströmer, unanimemente ritenuto il maggiore poeta svedese contemporaneo, più volte candidato al Premio Nobel, è nato a Stoccolma nel 1931. Di professione psicologo, dopo aver lavorato alcuni anni all’Università, nonostante il successo della sua poesia, ha continuato a svolgere attività terapeutiche in centri di riabilitazione di varie città svedesi. Pianista di notevole talento, ha spesso composto i suoi testi ispirandosi a ritmi e forme musicali. Benché una grave malattia gli abbia provocato una dolorosa paralisi, non ha smesso di scrivere, come testimonia la sua ultima opera Sorgegondolen (La gondola a lutto), del 1996, e il volume di traduzioni di poeti europei e americani Tolkingar (Interpretazioni), del 1999. Ha pubblicato sinora dodici brevi raccolte: 17 Dikter (17 Poesie), 1954; Hemligheter på vägen (Segreti sulla vita), 1958; Den halvfärdiga himlen (Il cielo incompiuto), 1962; Klanger och spår (Echi e tracce), 1966; Mörkerseende (Colui che vede nel buio), 1970; Ur stigar (Fuori dai sentieri), 1973; Östersjöar (Mari Baltici), 1974;Sanningsbarriären (La barriera della verità), 1978; Det vilda torget (La piazza selvaggia), 1983; För levande och döda (Per vivi e morti), 1989; Minnena ser mig (I ricordi mi vedono), 1989; Sorgegondolen (La gondola a lutto), 1996.
Leggere la sua poesia non è un percorso lineare: è come entrare in una labirintica chiocciola. La concentrazione dei concetti in immagini conduce alla contrazione degli elementi connettivi, dei passaggi logico-sintattici, alla prevalenza dei sintagmi nominali. La capacità di realizzare densità poetica non è in Tranströmer tanto imputabile alla parola, al singolo lessema semanticamente pregnante, ma alla rete capillare di nessi che vengono a stabilirsi tra le parole. Tale sottile interazione, non facile a cogliersi immediatamente, dà spazio alla molteplicità interpretativa, alla pluralità del senso, lasciando spesso misteriosi i referenti delle metafore. Questa “oscurità”, comune a molta poesia contemporanea, in Tranströmer nasce dalla volontà di fuggire ai vuoti schemi della comunicazione massificata, di contrapporsi ai linguaggi pubblicitari, rifuggendo dall’univocità e proclamando la “polivocità” della parola.
(dalla prefazione di Maria Cristina Lombardi in Poesia dal silenzio, Crocetti editore, 2011)
Tomas Tranströmer
da La lugubre gondola (1996)
I
Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida
quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner.
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.
Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata.
II
Una finestra del palazzo si spalanca e si fanno smorfie alla corrente improvvisa.
Fuori sull’acqua compare la gondola dell’immondizia spinta da due banditi con un solo remo.2)
Liszt ha buttato giù alcuni accordi, così pesanti3) che dovrebbero essere mandati
all’istituto mineralogico di Padova per l’analisi.
Meteoriti!
Troppo pesanti per trovar quiete, possono solo sprofondare sempre di più
dentro il futuro giù
fino agli anni delle camicie brune.4)
La gondola è gravata dal peso delle pietre del futuro rannicchiate.
Sguardi5) sul 1990
III
25 marzo. Inquietudine per la Lituania.6)
Ho sognato che visitavo un grande ospedale.
Niente di personale. Tutti erano pazienti.
Nello stesso sogno una bambina appena nata
che parlava con espressioni compiute.
IV
Accanto al genero che è uomo del suo tempo Liszt è uno sciupato grandseigneur.
È un travestimento.
L’abisso che prova e respinge tante maschere ha scelto proprio quella per lui –
l’abisso che vuol far visita agli uomini senza mostrare il suo volto.
V
L’abate Liszt è abituato a portarsi da solo la valigia nel nevischio e sotto il sole
e quando un giorno morirà nessuno lo aspetterà alla stazione.
Una tiepida brezza d’un generoso cognac lo rapisce nel bel mezzo di
un compito.
Ha sempre dei compiti.
Duemila lettere all’anno!
Lo scolaro che scrive cento volte la parola sbagliata prima di poter andare a casa.
La gondola è gravata dal peso della vita, è semplice e nera.
VI
Di nuovo nel 1990
Ho sognato che avevo guidato per duecento chilometri inutilmente.
Poi tutto si fece grande. Passeri grossi come galline
cantavano in maniera assordante.
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.
(traduzione di Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003)

Tomas Tranströmer, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Altre poesie
SULLA STORIA (PARTE V)
Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato
giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti.
Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia,
sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo.
Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.
MOTIVO MEDIEVALE
Sotto le nostre espressioni stupefatte
c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre
il sole lento ruota nel cielo.
La partita a scacchi prosegue.
Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
Il sole ruota lento nel cielo.
La partita a scacchi si interrompe sul pari.
Nel silenzio di un arcobaleno.
(traduzione di Enrico Tiozzo)
gunnar-smoliansky-1956
dalla Introduzione di Gianna Chiesa Isnardi a Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003
«La lingua marcia al passo dei carnefici. / Perciò dobbiamo cercarci una lingua nuova» (T.T.)
«Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra le parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, culture e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha l’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati, concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una controtendenza nei confronti di questo processo. le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare». (T.T.)
Il testo poetico si pone come luogo d’incontro in cui si congiungono sul piano dell’accostamento orizzontale e su quello dell’intersezione verticale da un lato le immagini e dall’altro tutto ciò che esse simboleggiano o evocano.
[…] Estrema semplicità significa in Tranströmer estrema concisione. La prima impressione che scaturisce dalla lettura dei testi di questo autore è infatti quella di un perfetto nitore delle figure poetiche proposte cui fanno immediato contrappunto le riflessioni che ne scaturiscono. Pressocché totale è l’assenza di elementi non direttamente aderenti all’immagine e alla sensazione evocata e la concentrazione – che egli stesso ha definito come essenza del parlare poetico . è massima. Precisione nelle scelte lessicali e strutturali, prevalenza delle frasi affermative e della struttura lineare, relativa povertà verbale, laconicità, ricorso in misura minima agli elementi connettivi del discorso, frasi talora apparentemente frammentarie, costruzioni ellittiche, uso misurato della ripetizione con l’unico scopo di ricondurre l’attenzione del lettore al punto focale della riflessione poetica, attrazione reciproca fra elementi contrastanti, ossimori, associazione (seppure non immediatamente percepibile) di immagini e conseguentemente di idee, forza espressiva della parola portata all’estremo: un’arte della concisione che risale, almeno in parte, a grandi modelli del ‘900 come, soprattutto, Ezra Pound (del quale viene spesso ricordata l’espressione: “Great literature is simply language charged with meaning to the outmost possible degree“), T.S. Eliot o – per restare nell’ambito della letteratura svedese – il grande Harry Martinson.
Volendo scegliere, fra i tanti possibili, un esempio ineccepibile di questo atteggiamento stilistico pare opportuno trarlo qui innanzi tutto da una “poesia in prosa”, un genere di componimento che Tomas Tranströmer ha talora privilegiato, ogni qual volta tale tipo di espressione appaia immediatamente confacente al ritmo assunto dallo spunto della riflessione poetica. Per quanto vicino ai modi della poesia questo genere resta infatti, per il suo intrinseco e mai rescindibile legame con la prosa, più facilmente soggetto a tentazioni di sovrabbondanza o anche, più semplicemente, di superfluità verbale: l’estrema capacità di concentrazione poetica con cui Tranströmer sa costruire anche questi testi testimonierà dunque qui ampiamente le proprie qualità straordinarie. Si legga:
Nella foresta c’è una radura inaspettata che può essere trovata solo da chi si sia perduto. / La radura è racchiusa da una foresta soffocata in se stessa
In queste righe introduttive va rilevata innanzi tutto la linearità dell’espressione verbale affidata alla semplicità della costruzione della frase principale cui è connessa in modo immediato la secondaria relativa. Il procedere perfettamente coerente della descrizione si limita a fornire elementi essenziali quali un dove e un che cosa che è, daltronde, da identificare con il dove medesimo: la radura che sta nel cuore della foresta è al contempo il cuore della foresta. L’aggettivo che definisce la radura «inaspettata», è richiamato nella relativa dal riferimento a «chi si sia perduto»: solo chi abbia smarrito la direzione, cioè chi sia uscito dalla prevedibilità delle strade consuete (dal linguaggio convenzionale?) potrà infatti imbattersi in un incontro inatteso. Una sola riga è dunque sufficiente al poeta per definire un luogo concentrandovi la sensazione di distacco dalla realtà ordinaria e, insieme, lo stato d’animo che la rende possibile e l’accompagna. Che si sia di fronte a una situazione di improvviso isolamento è del resto chiaro dalla scelta dell’immagine della «radura»: luogo perfettamente definibile nei suoi contorni proprio perché circondato da una foresta «soffocata in se stessa» a formare una barriera nella quale è delimitata una netta linea di separazione dal resto del mondo.

gunnar-smoliansky-1976
La radura diviene così il centro sul quale far convergere ogni attenzione e al quale riferire ogni riflessione poetica. La tecnica di far convergere l’attenzione su un elemento semplice e definito nella sola essenza distraendo al contempo da tutto ciò che vi sta attorno, è un procedimento che consente di focalizzare le energie su un unico punto nel quale tutto lo spazio della mente, sensitivo e intellettivo (sensi, intuizione, presa di posizione, memoria), viene senza distinzione assorbito, confluendovi in perfetta coesione… “Concentrare” quindi nel senso proprio di “attrarre verso un centro”: un risultato raggiunto grazie alla perfetta sovrapposizione di elementi lessicali (affidati a un impianto sintattico il più semplice possibile) che si mostrano capaci di catturare le sensazioni e i pensieri del lettore, che solo in quel centro si sentono perfettamente espressi. Un risultato che costituisce tuttavia solo il punto di partenza per l’indagine poetica, perché… in quella «radura», luogo del corpo, della mente e del sentimento troveranno spazio nuove ricerche. («nello spazio aperto l’erba è incredibilmente vera e viva»), si leggerà poco più avanti nel testo.
Se tale è la regola della concentrazione in una “poesia in prosa” non sarà difficile comprendere quanto più la disciplina formale sarà rigorosa nei versi veri e propri, là dove la precisione delle immagini, la capacità di comprimere il testo, la perspicacia delle scelte lessicali, la precisa organizzazione dell’impianto poetico costituiscono una caratteristica determinante di questo autore fin dalla raccolta del debutto […] Va qui sottolineato tuttavia che (forse proprio per rispondere a questo desiderio di concisione) negli ultimi tempi il poeta è venuto sempre più privilegiando le composizioni brevi o molto brevi – in particolare sul modello orientale, cinese e soprattutto su quello giapponese del haiku, per il quale egli mostra forte inclinazione. La poesia haiku rappresenta… un tipo di espressione che intende corrispondere a ciò che nella filosofia di vita giapponese viene espresso con il termine satori, che significa «comprensione intuitiva», «illuminazione»: una conoscenza cioè che oltrepassando ogni confine logico superi lo spazio e il tempo. Lo scopo di un tale componimento è, nella sostanza, quello di rendere poeticamente tale concetto facendo rivivere tale esperienza. Un haiku, si precisa opportunamente, non è un aforisma: piuttosto può essere definito «arte dell’illusione». Non ha infatti tono sentenzioso, né percettivo, né di riflessione o commento sulla realtà, bensì piuttosto si propone di fornire gli strumenti linguistico-formali tramite i quali una situazione oggettiva venga trasformata in un processo mentale di conoscenza… Ha dunque bisogno di una lingua che consenta di tradurre elementi concreti (talvolta tratti da una realtà persino banale) in esperienza intuitiva e dunque immediata:
I pensieri sono fermi
come le tessere di un mosaico
nel cortile del palazzo
Una tecnica che potrebbe essere definita della delineazione, con ciò intendendo che essi ci appaiono, per così dire, ‘tradotti in linee’ che disegnano le traiettorie o intersecano le superfici in una nitida ed essenziale geometria che ne fa la cornice d’una sorta di ‘specchio magico delle fiabe’, finestra sull’ignoto…
… finché è tempo di uscire
e vagare a lungo nella foresta.
Seguire le orme del tasso.
Si fa scuro, è difficile vedere.
Là, nel muschio, ci sono delle pietre.
Una delle pietre è preziosa:
Può trasformare tutto
può far brillare l’oscurità.
Alla ricerca di una lingua poetica
Interrotto nel mezzo di un discorso
che il silenzio porta avanti
ma con forza ancora più grande.
Si torna così al problema dal quale si è partiti: come dar voce agli spunti poetici che si affacciano alla coscienza senza che essi vengano in qualche modo ‘corrotti’ nell’atto di trasporli in parole? Per un poeta come Tomas Tranströmer, il cui percorso si muove in direzione di una concentrazione sempre più marcata, l’atteggiamento nei confronti della lingua pare gradatamente muovere verso un crescente scetticismo.
In un testo che risale al 1980, il poeta, dichiarata la propria stanchezza nei confronti di tutti coloro che si presentano con parole, rivela di aver cercato rifugio nella natura:
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole, parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
Sulla neve, bianca come un foglio immacolato, le orme degli animali selvatici: «Lingua, ma niente parole».
Immediatezza e semplicità; il bisogno di lasciare lo spazio al linguaggio della natura, che ha… come interlocutori privilegiati i bambini (cioè coloro che ancora posseggono il dono di una intuitività incorrotta.
Una natura morta fatta di tronchi sulla neve mi rese pensieroso.
Domandai loro:
“Mi accompagnate fino alla mia infanzia?” Risposero “sì”.
Dentro ai cespugli si sentiva un mormorio di parole in una lingua nuova:
le vocali erano il cielo azzurro e le consonanti i rami
scuri e parlavano così pacatamente sulla neve.
Una lingua nuova, in realtà, antichissima. […] la considerazione della minaccia, sempre presente, che la lingua possa essere (come in effetti è) utilizzata come strumento di potere, come prigione nella quale rinchiudere l’uomo in celle costruite con parole che appartengono a convenzioni da taluno imposte e da altri subite. davanti a tutto questo solo la letteratura e in particolare la poesia può forse offrire una via d’uscita.

gunnar-smoliansky-1970
Note
1] In svedese Kasper è una maschera del teatro delle marionette, una sorta di Arlecchino.
2] Vi è qui un gioco di parole, intraducibile, tra enarade banditer “banditi a un sol remo” (con evidente allusione al modo in cui i gondolieri spingono la loro imbarcazione) e l’espressione svedese enarmad bandit, letteralmente “bandito con un solo braccio”! con cui si fa riferimento a una slot machine. Ciò, secondo S. Bergsten sottolinea l’aspetto di buffonata da fiera che assumerà il culto di Wagner.
3] L’allusione è probabilmente al fatto che sullo spartito Liszt ha inseriro l’indicazione «pesante».
4] Chiara allusione al fatto dall’ideologia nazista della figura e dell’opera di Wagner.
5] Letteralmente, in svedese glugg (plurale gluggar) indica una “apertura” o una “piccola finestra”.
6] Non si dimentichi che dal punto di vista storico i Paesi baltici hanno da sempre rivestito una grande importanza per gli Svedesi. Si consideri inoltre che Tomas Tranströmer, oltre ad avere rapporti personali di amicizia con intellettuali di quell’area, ha dedicato alla distesa del Mar Baltico (quello che al “tempo della grande potenza” [stormakstid], 1630-1721, poteva essere considerato il mare nostrum svedese) l’opera Österjöar (“Mari baltici”, 1974), nel cui titolo l’uso di un plurale apparentemente improbabile vuole invece sottolineare la molteplicità degli elementi naturali e culturali che la caratterizzano.
Lasciamo per un momento un maestro in ombra, come Alfredo de Palchi e soffermiamoci su un maestro in piena luce come Tomas Tranströmer.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24293
I due versi che hanno cambiato la poesia europea
Simbolizzare l’immaginario e immaginare il simbolico
(Lacan)
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
(T. Tranströmer)
In questa immagine a solenoide del poeta svedese abbiamo la rappresentazione a-prospettica di UNA temporalità, una temporalità che, per paradosso, ha bisogno di riferimenti spaziali e simbolici per poter essere avvertita e rappresentata. Anzi, il simbolo è il nesso, concretamente linguistico, che unifica la dimensione temporale e quella spaziale. E qui si cela il paradosso del tempo. Il tempo, nella cognizione ontologica che l’uomo ne ha nella sua vita quotidiana, non è portato da una dimensione temporale ma da una Esperienza che ha abitato la dimensione temporale. Il paradosso è tutto qui: noi percepiamo lo scorrere del tempo e la distanza temporale non mediante la dimensione temporale che, di per sé, è vuota, ma attraverso le esperienze che hanno abitato la dimensione temporale.
Nella dimensione del linguaggio poetico di Tranströmer, ad esempio, il simbolo si dà in una o più immagini concatenate che, tutte insieme, concorrono a modellizzare linguisticamente il tempo. Ed il tempo diventa «interno», si internalizza, prende ad abitare le immagini.
Scrive Giacomo Marramao:
«i paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene a incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come “qualcosa” di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali […] Coordinata-tempo e coordinata-spazio, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui e ora dell’Ego. Tale modello è documentabile non solo in sede metaforologica e iconologica, ma anche linguistica e glottologica. È sintomatico al riguardo che non soltanto filosofi come Henri Bergson o Heidegger, ma anche epistemologi e scienziati contemporanei, come per esempio René Thom, si siano appellati al linguaggio naturale per comparare le relative “profondità ontologiche” dello spazio e del tempo (…) Thom ritiene di poter pervenire alla conclusione che “il tempo abbia una ‘profondità ontologica’ superiore a quella dello spazio”. Un opposto scenario ci viene prospettato da quei glottologi che si sono soffermati sugli aspetti linguistici della modellizzazione del tempo. Essi non si limitano a constatare che il principale ostacolo nel cogliere l’enigma della dimensione temporale sta nel fatto che i “percetti” che la compongono “possono essere confrontati tra loro solo memorialmente”: e che pertanto a essere comparate sono “le esperienze portate dal tempo, non la dimensione che lo porta”. Ma ritengono addirittura di poterne concludere che il solo modello “percepibile nella sua interezza” a cui l’”insieme dei riferimenti temporali”, sarebbe, per l’appunto, “lo spazio” (Giorgio R. Cardona)» 1]
«In tutte le rappresentazioni del tempo, siano esse “linguistiche” o “iconiche”, entra dunque il gioco un “fattore soggettivo” strettamente interconnesso al punto di osservazione “rispetto a Ego”, nota sempre Cardona, “il tempo è visto come un asse orientato nel senso davanti-dietro: ego rappresenta l’adesso (così come rappresenta il qui nel modello spaziale), davanti gli giace il futuro, alle sue spalle sta il passato” […]».2]
Vorrei dire, per inciso, che la poesia proposizionale della tradizione novecentesca che fa affidamento al tempo lineare unidirezionale, viene ad essere tagliata fuori da questa visione ontologica delle «cose». Ancorata ad una visione uniprospettica e unilineare essa si affida ad una vecchia ontologia non più adeguata alle nuove cognizioni scientifiche e filosofiche dell’universo e della psiche. Nei due versi citati di Tranströmer è visibile una nuova intuizione della ontologia estetica: tra significato letterale e significato metaforico, si apre un abisso. È chiaro che quando il poeta svedese parla di «posate d’argento» non si riferisce al servizio di posate di argenteria che ogni buona famiglia borghese tiene in bella mostra nella credenza del salotto, ma a qualcosa d’altro che ha a che fare con il «mondo di retroscena». Il significato letterale del «mondo di avanscena» si scolla, diverge dal significato di retroscena, assume una risonanza simbolica e temporale. Ed è essa risonanza che amplifica la portata della significazione simbolica a un livello inusitato per la poesia pre-tranströmeriana.
Copio e incollo uno scambio di battute intervenuto, su questa Rivista, tra me e Mario Gabriele sulla questione del «tempo interno» in poesia:
Il «tempo in poesia» e il «tempo interno» della poesia
https://lombradelleparole.wordpress.com/…/…/comment-page-1/…
Quando parlo del «Tempo in poesia» e nella poesia della nuova ontologia estetica
mi sembra di parlare a un uditorio di sordo muti e sordo ciechi, tranne qualcuno dei miei amici che mi segue e si sforza di seguirmi. Io non mi stanco di ripetere che dobbiamo imitare e seguire il coraggio degli scienziati, dei fisici della teoria del Tutto, dobbiamo imparare molto da Prigogine e Stepehn Hawking, dobbiamo imparare molto dalla musica di Morton Feldman, Ligeti e Giacinto Scelsi e dalla musica contemporanea più alta. Da pittori come Rothko, Morandi, De Chirico… Il tempo, che cos’è il tempo? E il tempo in poesia? Qualcuno si è mai chiesto quale rapporto c’è tra il tempo e la parola poetica? Intendo non il tempo considerato come un intervallo tra una nota e l’altra, tra una parola e l’altra, non soltanto, ma come «tempo interno» della «parola», «tempo interno» della «immagine». Penso, anzi, sono convinto che la nuova poesia non potrà nascere se non con una nuova concezione del tempo nel linguaggio poetico. Anzi, dirò di più: il linguaggio è una delle innumerevoli manifestazioni del «tempo». Se ci pensiamo un attimo, il linguaggio, qualsiasi linguaggio, secondo i linguisti, è formato da 22 massimo 26 suoni che combinandosi tra di loro formano lo scheletro fonetico di ogni lingua conosciuta. E questo cos’altro è se non una manifestazione del tempo che si esprime mediante fonemi? Non c’è alcuna differenza tra il tempo della musica e il tempo delle parole. Sta al poeta, se è poeta, trovare le parole che esprimano questo «tempo fonetico».
«È la scansione del tempo, non il Tempo in sé, che è stata spacciata per l’essenza della musica» scrive Morton Feldman. E ancora: «A me interessa come questa belva vive nella giungla, non allo zoo» –, ma anche sui fili misteriosi che legano da sempre Arte e Società: «la società, per come la vedo io, è una specie di mastodontico apparato digerente, che tritura qualunque cosa gli entri nella bocca. Questo smisurato appetito può ingollare un Botticelli in un sol boccone, con una voracità da terrorizzare tutti tranne il guardiano di uno zoo. Perché l’arte è così masochista, così desiderosa di essere punita? Perché è così ansiosa di finire dentro quelle gigantesche fauci?».
La poesia italiana è ancora ferma alla concezione del «tempo esterno» in poesia.
Ci sono pochissimi poeti che, a mio avviso, fanno poesia con una nuova concezione del «tempo interno», e precisamente: Steven Grieco-Rathgeb, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Letizia Leone, Mario Gabriele. Come ci siano arrivati io non lo so ma lo posso intuire. L’importante era arrivarci a questo traguardo. Quando stigmatizzo che la poesia italiana dopo Satura (1971) di Montale è rimasta prigioniera di un concetto di «tempo esterno» eguale per tutto e per tutti, non mi reputo un profeta ma lo dico con la chiarezza teorica del critico letterario, del poeta che opera Oggi in Occidente.
Posso dare un consiglio ai poeti: rileggere le proprie poesie ascoltando la musica di Morton Feldman, così apparirà loro chiaramente la discrasia tra la loro poesia e il «tempo interno» della musica di Feldman.
1] Giacomo Marramao op cit. pp. 23 e segg.
Come ha scritto Croce riferendosi a Rimbaud, https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24296 poeti come Tranströmer non hanno nessun rapporto con la concezione tradizionale di poesia, ma con una “nuova dimensione spirituale”; infatti non si muovono entro normali categorie e paradigmi, ma tentano d’inventarne altri in cui rivelare e denunciare l’abisso fra logica e ontologia, trasformando l’atto di semantizzare l’essere in una sorta di miracolo laico, fondativo, che ne riveli la natura eventuale, non statica, lo splendore della sua assenza accanto all’opacità della sua presenza, tenendo “desto il coraggio e il silenzio” con scelte lessicali che erompono dal mistero d’un codice apofatico, sommerso, eteronomo ed eterodosso, “amore realizzato del desiderio rimasto desiderio” (Char”).
Una nuova ontologia estetica potrebbe fornire gli strumenti per creare nuovi orizzonti di senso, ma solo con una radicale mutazione prospettica e inquisitiva, che sostitisca l’eros-agape al logos, l’intuizione mistica (in senso laico e materialista, come in Char e Tranströmer) all’elaborazione di nuovi marchingegni analitici.
Una nuova metafisica, consapevole della “differenza ontologica”, cioè dell’assenza dell’ Essere in ogni ente, che dunque rispetti e valorizzi la dimensione desiderante, sacrale, anagogica, ineludibile e inestirpabile. “L’umanità del futuro sarà religiosa o non sarà” (Andrea Emo), ma di fede soggettiva, individuale, non formalizzata, inaccessibile a normative linguistiche, ideologiche ed etiche, lontana da ritualismi , cerimoniali e superstizioni, in cui cultura, arte e poesia possano integrarsi e collaborare alla scoperta di nuovi orizzonti epistemologici, non solo per incrementare il potere scientifico, ma soprattutto per definire e illuminare la dimensione emozionale e affettiva che, nel senso di lontananza, di esilio, di nostalgia rivela la vera natura dell’Essere a cui apparteniamo, eclissato dal tumulto abbacinante del paesaggio tecnologico in cui:
” La luce è sepolta con rumori e catene
in impudica sfida di scienza senza radici…”
F. G. Lorca
L’OTTAVO SIGILLO
Tre lune assassine sorvegliavano il porto.
Salpò il vento tragico e il signore della menzogna scolpì i portali dell’Eterno.
Diluviò in molti paradisi.
L’angelo fuggì dal Regno in un vento di peccatrici.
Passò la tempesta d’amore, con donne incastonate in serpenti di folgore.
Passò la madrina degli specchi, con ferite di corallo e statue dementi.
Passò il Dio malato e i cieli ruppero in pianto.
Tutti vollero seguirlo spalancando universi e parole.
Scomparve il confessionale di nuvole, come un avviso scaduto.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24304
È un piacere avere a che fare con poeti come Carlo Livia che parlano la mia stessa lingua. Carlo Livia ha compreso una cosa da cui partiamo anche noi, e da cui è partito anche Tranströmer nel lontano 1954: che la poesia del presente e del futuro non potrà più essere come quella del passato. Tranströmer, di cui abbiamo citato in premessa i due versi che hanno cambiato la poesia europea, è partito dallo stesso assunto quando nel 1954 ha dato alle stampe la raccolta delle sue 17 poesie.
Loquor ergo non sum, può essere questo il motto da cui partire per il posizionamento della nuova ontologia estetica: che al di sotto e dietro del loquor non c’è nulla, non c’è un «io» se non come costellazione di significanti inconsci. e così cade la stessa opposizione tra il letterale e il figurato che ha retto la poesia tradizionale del novecento. Con la caduta di quell’opposizione è crollata la stessa antinomia che si credeva antinomica, e che invece era semplicemente relativa ad un certo modo di considerare i problemi di natura estetica. e si è scoperto (Tranströmer lo ha scoperto) che quel «nulla» era in realtà «pieno» di cose, solo che non lo sapevamo e non lo potevamo immaginare.
Tra essere ed ente si è aperto un abisso incolmabile. Si è scoperto che l’ente non rimanda all’essere se non da un luogo lontanissimo qual è il linguaggio. È da qui che parte la nuova ontologia estetica di cui il padre nobile lo rinveniamo in Traströmer.
Nella poesia, diciamo così, tradizionale, il letterale e il figurato funzionavano come categorie proposizionalizzate proprie della differenza problematologica (e ontologica). All’interno di questo quadro contettuale si cercava sempre «altro» rispetto ad un significato-significante e in quell’«altro» si cercava il contenuto di verità; in quello che si era detto si cercava il non-detto, nell’espresso l’inespresso. Si cercava insomma il «senso».
Nella nuova ontologia estetica siamo fuori di questo orizzonte culturale che vede le categorie come proposizionalizzate, nell’ottica della NOE il letterale e il figurato sono sinonimi, sono sovrapponibili, è questa la grande rivoluzione che riesce arduo comprendere da parte dei letterati digiuni di letture e di riflessioni filosofiche.
È in questo nuovo orizzonte culturale che nasce la nuova poesia.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24312
Il poeta della NOE fa suo l’assioma secondo cui: “I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna”. Per tale via maestra egli adotta la poetica del “frammento” come elemento costitutivo d’una sua personale ontologia estetica. La quale, partendo dalla “morte di Dio”, assume in sé la constatazione della fine della visione platonico-cristiana del mondo e della conseguente scomparsa del “centro dell’uomo nel mondo”. La sua ricerca d’arte ne prende atto e si muove nella persuasione della decadenza della “verità assoluta”, della impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad una unità di senso. Entrando nella filosofia del frammentismo, il poeta della NOE assume il “frammento” come la cifra caratteristica della modernità poiché alla sua personalissima lettura il mondo moderno si pone sotto il segno della deflagrazione del “senso”, della dispersione, dell’astigmatismo scenografico, della moltiplicazione delle prospettive, della crisi e della inadeguatezza espressiva di un “unico”linguaggio. Nella teoria estetica dell’opera moderna il poeta della NOE interpreta il prospettivismo di Nietzsche come una promozione della “frammentarietà” contro le tesi di quell’ordine metafisico incentrato sulla verità dogmatica, sulla verità indiscutibile.
La poetica del frammentismo tende a esiti estetici del tutto nuovi poiché la “filosofia del frammento” è in grado di restituire “dignità estetica” a quelle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno perché il frammento è l’”intervento della morte nell’opera d’arte”. Rifondando l’opera, o distruggendola, la morte da essa elimina la macchia dell’apparenza. Ma ciò che conta è che per il poeta della Nuova Ontologia Estetica e dello Spazio Espressivo Integrale, (introdotto per la prima volta da Giorgio Linguaglossa e da lui praticato come efficacissimo strumento d’interpretazione della “Nuova Poesia”), il “frammentismo” va oltre il significato di “poetica”, va oltre le intenzioni d’arte. Il frammentismo in lui è una Weltanshauung. E’ uno stato d’animo. E’ il suo modo di sentire il mondo, di sentirsi egli stesso “frammento” di questo mondo poiché risiede in lui stesso l’unico punto di convergenza e di fusione di quella che Harold Bloom ha definito “la cartografia psichica” dell’artista: l’agonismo perenne tra l’ “Io me stesso – l’anima – l’Io reale”.
Il poeta della NOE, nel suo fare poetico all’ interno dello Spazio Espressivo Integrale, sa che:
– il vuoto non è assenza di materia;
– l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;
– lo “Spazio Espressivo Integrale ” è l’unica regione in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…
– ciò che è perduto può essere ritrovato soltanto in forma di “frammento”, che non indica il Tutto, nella dialettica fra le parole e le cose, ma un tutto frantumato e disperso da cui deriva il “dolore” della poesia;
– esiste un “tempo assolutamente creativo”. Un tempo che crea la vita poiché (secondo Prigogine) è il tempo delle infinite metamorfosi della vita nella biologia ed è il tempo delle infinite creazioni delle opere d’arte. Un tempo despazializzato, un tempo ” qualitativo ” e non ” quantitativo ” e che come tale non sa che farsene degli orologi;
– l’ Estetica non può ignorare questi nuovi orizzonti delle scienze ed è
chiamata anzi ad orientarsi essa stessa verso una “forma” scientifica per essere in grado di tener conto delle strutture dissipative nelle quali trionfa
l’infinita possibilità delle equazioni non lineari ( Prigogine ), equazioni con
all’interno il “tempo creativo” e, dunque, la cosiddetta possibilità progettuale
della esperienza artistica;
– il mondo non è più “ciò che è” ma è “ciò che diviene” ed è “il possibile”
il nuovo strato della cultura contemporanea;
– la nuova Estetica non può che appropriarsi di tali indicazioni.
(E’ uno dei punti di sintesi dei primi tre incontri presso il Laboratorio Poesia Gratuito, Libreria l’AltraCittà di via Pavia, in Roma).
Solo aggiungerei ai nomi ricordati da Giorgio Linguaglossa come poeti che
adottano il “tempo interno”, simile del tutto al tempo ceativo di Prigogine,
( Steven Grieco-Rathgeb – Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Letizia Leone, Mario Gabriele) anche quello di Edith Dzieduszycka, almeno
in riferimento al suo eccellente lavoro poetico “LORO”.
Al di fuori dello Spazio Espressivo Integrale la grandezza innovativa de”La Lugubre Gondola” di Transtroemer rischia di non essere pienamente compresa, almeno così sento di dire.
Gino Rago
caro Gino,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24324
hai riassunto come meglio non si può la piattaforma teorica della «nuova poesia». Bisogna ripartire da questi tuoi appunti. Chi vuole capire qualcosa della «nuova poesia» (che noi abbiamo definito «ontologica» perché affonda in un quadro concettuale delle categorie estetiche e retoriche totalmente differente dal quadro concettuale invalso nel novecento italiano), capirà. Sarebbe stato sufficiente leggere e comprendere i due versi riportati nell’articolo su Tomas Tranströmer, meditarli in profondità, per trarne tutte le conseguenze. In Italia non è stato mai fatto, lo dobbiamo fare noi.
Un inciso.
Un poeta, Alfredo Rienzi mi diceva che lui nutre sfiducia sulla bontà del nostro assunto secondo il quale «le parole si sono raffreddate», e ha aggiunto che lui non parte da presupposti teorici per applicarli meccanicamente alla poesia. Io vorrei chiarire all’amico Alfredo che lui ha equivocato la nostra posizione. Non siamo noi che «raffreddiamo» le parole, ma sono le parole che si sono raffreddate. Il poeta non può che prenderne atto, non può non adottare le parole che già nella lingua di relazione si sono «raffreddate».
Ma passiamo ad un altro poeta, sempre svedese, che abbiamo già trattato su queste colonne: Kjell Espmark.
Ci sono porte ma non ci sono stanze.
Ci sono voci ma non ci sono echi.
Tutto è abbreviato come se la Storia
avesse preso una scorciatoia attraversandomi.
(Via lattea, Aracne, 2010, p. 89)
Le verità convergono tutte verso una sola verità,
ma i sentieri sono interrotti.
(Nietzsche)
Quando la strada gira (Ed. Bi.Bo. 1993)
(Kjell Espmark)
da Via lattea (Aracne, 2010 trad. Enrico Tiozzo)
*
Con il manico del mio ombrello colante
batto sul sarcofago
e ti invito ad uscire
dalla terza fila
nel sotto Escorial.
Silenzio. La pioggia lassù.
Capisco che mi aspetti
nel tuo regale studio.
La scala serpeggia attraverso gli anni.
Il tuono si raccoglie prima della visita.
2.
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro
– il rumore è come quando si strappa un lenzuolo –
e l’odore di anni inibiti esce con la muffa.
Là dietro c’è una donna mummificata
in una stanza più piccola di un armadio.
I suoi occhi cono al di là di ogni conversazione,
la figura sfocata delle tele di ragno.
Le labbra rugose sussurrano,
bianche di rabbia:
– Non potevi lasciarmi morire!
*
Voi non potete raggiungermi
anche se un blocco di ghiaccio
mi ha risparmiato per il vostro tempo.
Voi chiedete. Chi eri tu?
Cosa pensavi? Chi amavi?
Proprio ciò che mi sono chiesto anch’io.
Tutto ciò che sapete è il mio ultimo pasto:
carne secca di capra e noci.
Ma l’ultima cosa che mangiai forse era neve.
Quando ero stato vinto dalla tempesta
e avevo perso sensibilità a mani e piedi
accadde l’unica cosa che ricordo:
una donna si piegò su di me
dove giacevo incurvato sul sentiero –
una straniera che mi pareva di aver sempre conosciuto.
Brancicai attraverso di lei.
Il suo volto bruciava, non lo raggiunsi.
Rimase da me
mentre il mondo si restringeva in un blocco di ghiaccio.
*
Stavo di fronte ad Anubi,
un modesto commerciante egiziano,
e dovevo farmi pesare il cuore.
Sull’alto piatto della bilancia c’era una piuma.
Se il mio cuore pesava di più ero perduto.
Solo un cuore senza pietra
si fa entrare nel finale.
Con le lacrime sgorganti
sul mio viso dissolto io vidi
come scendeva il piatto con la piuma di gallina.
*
Quello che mi colpisce in queste poesie di Kjell Espmark pubblicate in Svezia nel 1992 e in traduzione italiana di Enrico Tiozzo nel 1993 (Ed. Bi.Bo Quando la strada gira), è lo spostamento autoriale. L’autore non corrisponde più al personaggio che narra. Nella poesia svedese da molti decenni, per la precisione dal finire degli anni Cinquanta, si è fatta una poesia dove si verifica la dis-locazione del soggetto. Poiché le cose non accadono per caso, occorre andare a vedere perché siano accadute. In particolare. E in effetti la poesia svedese dagli anni Sessanta ha privilegiato la dislocazione tematica, l’interpunzione frequente del verso libero, la dislocazione autoriale, la frammentazione della «forma-poesia», la adozione di una tematica esistenziale, gli «interni», etc.
E adesso passiamo al commento a braccio di queste due poesie. Nella prima poesia il protagonista è «il manico del mio ombrello», si ha qui una sineddoche, il soggetto è diventato una parte di un’altra parte più grande, ed il tempo della poesia ne è stato influenzato, anzi, direi che ne è stato determinato. Un grande ruolo viene svolto dalla metafora: la prima strofa è tutta piena di metafore, cioè di immagini simbolo che indicano qualcosa che sta fuori della poesia. È il fuori della poesia che è determinante. O meglio, è l’interno della poesia che reagisce al fuori con un di più di impenetrabilità, e questa impenetrabilità è, appunto, lo scrigno del tempo della poesia, una sorta di «tempo interno» che è regolato da un cronometro tutto diverso da quello che registra il «tempo esterno» alla poesia. Il lettore ha la percezione che questa collisione, questo attrito tra i due «tempi» è quello che genera la struttura della poesia: il suo metro libero, le sue pause, le sue riprese.
E in effetti, una caratteristica della migliore poesia svedese è la impenetrabilità di quello che io indico «tempo interno» della poesia, della sua struttura a chiocciola, ellittica, a fisarmonica, elicoidale, sinusoidale che converge verso l’interno, ma in modo elusivo, sfuggente. Una poesia priva di «chiusura», priva di lucchetto, che lascia lo spazio per un altro spazio, dove non ci sono porte di uscita, o meglio, dove ci sono più porte. Infatti, l’ultimo verso della prima poesia suona:
Il tuono si raccoglie prima della visita
che tutto dice ma non chiude affatto.
La seconda poesia ha un inizio fulminante:
In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro.
Qui il tempo cronometrico della vita quotidiana viene squarciato da un momento, un istante privilegiato che indica la rottura della simmetria temporale per una violenta intromissione di un altro «tempo» durante il quale i protagonisti della poesia dichiarano di non essersi mai accorti della esistenza di una «porta». Il protagonista dice semplicemente: «La apro», con tutto quel che segue.
È un modo straordinariamente normale di introdurre il «tempo interno» nel tempo cronometrico che esiste là fuori, fuori della poesia.
*
Kjell Espmark pensa l’uomo irretito nella falsa immagine di sé e nel falso sembiante, radicato nella dimensione inautentica dell’esistenza,
pensa l’ombra, l’irrappresentabile, l’eccedenza come costitutiva dell’uomo, come la sua normale condizione esistentiva. Di qui le «maschere», i «personaggi» che popolano questa raccolta. L’esistenza è preda di una invariante: il coprimento dell’ambiguità e dell’inautentico. Quando si apre una fenditura tra le pieghe del reale, ecco che siamo in contatto con un istante privilegiato della temporalità e prendiamo coscienza finalmente che quella deiezione protratta fino al quasi completo s-radicamento, ha un termine: è la soglia della azione autentica. In quel momento fuggitivo che dimora sul confine, sul limite tra la vita e la morte incontriamo il senso di ciò che la vita avrebbe voluto dirci. La coscienza stessa (e di conseguenza il tentativo di riassorbire tutto in essa) secondo Lacan è segnata dalla morte, è una zona di insensibilità, una zona anestetizzata.
L’angoscia è in Espmark la voce di una mancanza costitutiva, di una mancanza che non vuole essere colmata, una zona anestetizzata che convoca le parole morte («e la parola per la pioggia sul tetto della capanna / diventa insignificante»). Una mancanza che ci perviene dai morti, perché un ponte invisibile unisce i vivi ai morti, e la poesia di Espmark si incarica di illuminare questo ponte. I personaggi di Espmark non sanno di camminare su questo ponte invisibile.
Ma l’angoscia è indispensabile alla vita, in lei ha la sua residenza, insieme al desiderio che per cunicoli segreti si apre un varco fin nella coscienza e al progettarsi autentico.
Heidegger e Lacan pongono nella mancanza di fondamento dell’esistenza umana la condizione della sua libertà.
Questa libertà nel suo sottrarsi ad ogni chiarificazione definitiva, ad ogni riduzione alla certezza dell’ordine stabilito dalla coscienza, viene a coincidere con la «follia». Ma una cultura basata sull’identità e sulla presunzione della ragione di poter impossessarsi dell’esistenza fin nel suo fondamento non può che escludere la suddetta follia. La follia viene isolata perché testimonia la gratuità dell’esistenza, perché svela all’uomo il suo essere vacuo, il suo essere privo di fondamento e abbandonato nel mondo. È sulla base di questa mancanza di fondamento che si apre un ventaglio di possibilità fra le quali ne emergono due opposte ma anche molto simili nei loro effetti: da una parte il tentativo ossessivo da parte dell’uomo di giustificare la mancanza di fondamento costruendo un io che si crede capace di esaurire ogni incertezza; dall’altra la rinuncia al tentativo di giustificarsi, la «scelta» del soggetto per la libertà estrema della follia. Possibilità che mentre dovrebbe liberare l’uomo lo rende prigioniero, incapace di decidere se progettarsi nel mondo o caducarsi. I personaggi di Espmark oscillano tra una ottusa volontà di potenza che diventa volontà di auto distruzione e una nolontà verso la nullificazione e l’ottundimento delle facoltà razionali. In entrambe le situazioni l’uomo è preso nella sua «follia», nella illusione di cogliere il mondo mediante un atto di onnipotenza categoriale.
L’impostura più grande, la folle illusione, la follia estrema è che il nome e la cosa coincidano. Scrive Rovatti:4]
«L’illusione che si ripresenta ad ogni frase è che il nome e la cosa coincidano e che il soggetto parlante sparisca: sparisca non come enunciante della frase ma perché vi ha preso completamente dimora. L’unico modo di maneggiare questa illusione non è di farla sparire, ma al contrario di riconoscerla, di farla pesare sulla frase: attraverso il margine, la paradossalità che resta praticabile, in un gioco inevitabilmente in perdita e che deve sapere di esserlo».5]
Espmark assume in pieno nella sua poesia la condizione di perdita, di finitezza e di inautenticità dell’uomo che abita una zona di frontiera, l’unica soglia abitabile, anzi l’unica dimora possibile che all’uomo è data, «la via lattea» della nostra galassia, e la terra, quel luogo abitabile infinitesimo tra miliardi di altre galassie che non possiamo non abitare in modo significativo.
L’essenza del nichilismo, considerato come la normale condizione dell’uomo è la sua residenza nell’Ombra che arriva «un momento prima dell’alba»; qui c’è un terrorista anarchico incerto se tradire il «nostro gruppo anarchico» e lasciare «morire gli ignari sulla nave», oppure partecipare alla azione terroristica. Il terrorista nichilista è colto nel momento dell’incertezza, il più problematico («Adesso i miei preparano l’esplosivo»). L’ora X si avvicina. Tutto è pronto. Il tempo sta per scadere. Appunto, quello «tempo, secondo che dice Aristotele nel quarto de la Fisica, è numero di movimento, secondo prima e poi e numero di movimento celestiale», come scrive Dante nel Convivio.
Questo momento prima dell’alba
somiglia a una morsa. Denuncerò
i tre del nostro gruppo anarchico?
o lascerò morire gli ignari sulla nave?
Voglio che il capitalismo sia mozzato
e il potere sia diviso come pane tra la gente.
In generale voglio anche abolire i monarchi.
Ma l’assassinio dello zar a Marsiglia
mi ha fatto riflettere. La violenza occorre
sempre per un mondo migliore?
Perché le armate non hanno in spalla foglie di paglia?
Perché il leone non vuole pascolare tra gli agnelli?
Sì, temo però un mondo senza ordine –
i lucci non inghiottirebbero noi pesciolini?
Adesso i miei preparano l’esplosivo
per la nave con i crumiri.
Ma quelli che vogliamo fermare hanno fame come noi
e non capiscono altro. I loro figli saranno
orfani, le loro donne vedove?
Temo l’alba plumbea
che mi chiede una risposta.
(da Via lattea Aracne, 2010)
4] Rovatti Pier Aldo, 1992, Abitare la distanza, Raffaello Cortina editore, Milano pp. 22
5] Ibidem è. 34
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24325
Non si sono “raffreddate” le parole, si sono raffreddati i cuori; c’è sempre una porta nella tappezzeria, ma bisogna aprirla.Il cinismo è la grande minaccia del nostro tempo, l’incomunicabilità è il suo primo prodotto. Non basta inviare qualche soldo alle associazioni benefiche;bisogna cercare di capire la gente,non solo nei suoi bisogni concreti, ma in quelle più gelosi e profondi.Ho accarezzato la testina a una negretta; nello sguardo dell madre ho visto la gratitudine.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24333
Hai ragione cara Anna,
non si sono raffreddate le parole ma i cuori…
“Non cercare di sapere: il tuo destino è l’incertezza. Non cercare di potere: il tuo destino è la debolezza. Non cercare di godere: il tuo destino è la rinuncia”.
Franz Liszt
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/09/27/tomas-transtromer-1931-2015-poesie-da-la-lugubre-gondola-1996-brani-dalla-introduzione-di-gianna-chiesa-isnardi-a-sorgegondolen-herrenhaus-2003/comment-page-1/#comment-24329
***
Storia di una gondola presagio di morte
La lugubre gondola (Die Trauer-Gondel), per pianoforte, è una delle opere più tardive di Franz Liszt (1811 – 1886).
La sua genesi è ben documentata in varie lettere, dalle quali sappiamo che, verso la fine del 1882, Liszt era stato ospite di Richard Wagner a Venezia, nel Palazzo Vendramin sul Canal Grande.
“Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
[…]
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.
Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata.”
(Tomas Tranströmer)
Dai biografi sappiamo che Richard Wagner, dopo un primo soggiorno dal 1856 al 1859, tornò a Venezia nel 1882 insieme alla famiglia. Dopo una prima sistemazione all’hotel Europa, si trasferì a Cà Vendramin-Calergi.
L’appartamento era all’ammezzato nell’ala affacciata sul giardino, si componeva di 28 stanze, cucina e servizi; Wagner apprezzava soprattutto la grande sala per ricevere gli ospiti, la cui doppia finestra offriva una splendida vista sul Canal Grande.
Franz Liszt, andando a trovare la figlia Cosima e il genero, soggiornò a Cà Vendramin-Calergi – come ho detto – sul finire del 1882. Liszt e Wagner furono visti spesso seduti uno di fronte all’altro, davanti all’ampia finestra sul Canal Grande, mentre chiacchieravano.
Ma a Wagner non sarà concesso di godere a lungo della bella casa veneziana. Morirà nel suo studio, il 13 febbraio 1883, a causa di una paralisi cardiaca.
Le sue spoglie vennero trasportate via gondola alla stazione ferroviaria e da lì in treno fino in Baviera. 1)
Può darsi che una premonizione sulla morte di Wagner avesse ispirato a Liszt questo brano, la cui prima versione (in 4/4) fu composta nel dicembre 1882, suggerita dai remi di una gondola che, come egli stesso racconta, gli “bastonavano il cervello”. Questa prima versione rimase inedita fino all’edizione di Rugginenti del 2002.
Subito dopo, nel gennaio 1883, Liszt scrisse un’altra versione, in 6/8, pubblicata nel 1886 da Fritsch (Leipzig) col titolo “La lugubre gondola I”. Ne fece anche un arrangiamento per violino e pianoforte, a cui seguì, nel 1885, la versione per violoncello e pianoforte, entrambe pubblicate nel 1974 da Editio Musica Budapest.
Quella che oggi conosciamo come La lugubre gondola II è, in realtà, la prima versione composta da Franz Liszt nel 1882.
1) D’Annunzio descrisse il trasporto della salma di Wagner nel suo romanzo “Il fuoco”.
***
La gondola è gravata dal peso delle pietre del futuro.
[…]
La gondola è gravata dal peso della vita, è semplice e nera.
(Tomas Tranströmer)
Parsifal è l’ultimo dramma musicale di Richard Wagner (1813 – 1883)
Fu rappresentato il 26 luglio 1882 al Festival di Bayreuth diretto da Hermann Levi
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Stazione di Monaco di Baviera, sabato 17 febbraio 1883, ore 14,30. Una folla immensa accoglie il feretro di Wagner che alle 16,45 riparte mentre l’Orchestra di Corte intona la “Marcia funebre di Sigfrido” dal “Crepuscolo degli dei”.
In onore del mio maestro Tomas Tranströmer
dedico questa mia poesia
In Venedig
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Il 24 aprile 1980
sono sceso alla stazione di Venezia.
In Venedig.
Festa di gondole sull’acqua. Canale di Cannaregio.
Lanterna gialla. Luna verde. Laguna.
Dame in maschera e crinoline.
Una bellissima Dama in maschera nera.
Una bellissima Dama in maschera bianca.
[…]
Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra.
Stanza d’albergo di terza categoria.
Ponte dei Sospiri.
Laguna verdastra. Gondole nere.
Un tiretto con il bocchino di avorio.
Una teca di madreperla che reca un cammeo.
Un ventaglio dentro la cornice nera.
La fiala bombata del profumo semiaperta.
La toeletta con un vestito di seta azzurra.
[…]
Abitavo presso una stella sul canale nero.
Un sotoportego.
Una madamigella di Parigi
trasferitasi
in Venedig come dama di compagnia
del conte Almerighi
che poi fuggì a Vienna presso il suo non più giovane
e generoso amante…
[…]
Avenarius mi venne incontro, zoppicando,
sul Ponte dei Sospiri.
Teneva al guinzaglio orrendamente agghindati
un musicante da trivio e un pagliaccio rosso
che saltellavano tra i turisti. «Che vuole – mi sussurrò
all’orecchio – il Carnevale non si è ancora concluso».
Finita la tenzone, il musicante chiuse il violino nella custodia,
il pagliaccio si sedette al tavolino, e ordinarono
un Martini rosso con ghiaccio.
[…]
«Io e la stella ci siamo amati
– mi disse Avenarius – mio caro poeta.
Adesso siamo qui, io e lei, sul ponte.
Né di qua né di là. Un luogo neutrale.
Un luogo mentale.
E passeggiamo come manichini in un gineceo…
[io guardavo le sue scarpe di vernice made in Italy
e la sua farfallina gialla à pois]
Lei mi può capire, è così giovane!
Dopotutto, siamo ospiti del Signor Posterius, o meglio,
di un suo sogno…».
[…]
«La menzogna deve essere più logica della verità»,
mi disse Avenarius.
Il cameriere, intanto, tolse i bicchieri
e sparecchiò il tavolino.
“Che sgradevole ciarlatano!”, pensai
e scendemmo in un bar nel sotoportego a bere un’ombra.
E brindammo, allegri e festaioli.
Come un tempo.
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Il finale mi ha davvero divertito. Quanto al resto, tutta la poesia è davvero riuscita e bella; per i colori, le luci, l’atmosfera silenziosa di Venezia quando è sera; il tempo che si rende visibile. La solitudine sempre abitata. Un viaggiatore del tempo, la contemporaneità del tutto.
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In questi versi di Giorgio Linguaglossa, gli oggetti, le figure, gli eventi atmosferici, i luoghi, nella incisiva brevità della loro rappresentazione verbale, ci restituiscono l’immagine e perfino l’odore umido di una Venezia oscura, enigmatica, illuminata soltanto dal suo stesso mistero. Gli individui l’attraversano come attori su un palcoscenico dalla scenografia buia e inquietante. Il volto di ciascuno ha il proprio doppio in quello della maschera, in una realtà, in “un luogo mentale”, dove «La menzogna deve essere più logica della verità».
Maschere che passeggiano “come manichini in un gineceo…”. Si aggirano come fossero fantasmi; si fermano a bere “un’ombra” in un bar inesistente del sottoportico.
“Una bellissima Dama in maschera nera. /Una bellissima Dama in maschera bianca”; “un musicante da trivio e un pagliaccio rosso”; Avenarius; il Signor Posterius… Maschere come metafore di quel tragico Carnevale che è la vita
Robert Schumann (1810 – 1856)
Carnaval: Scènes mignonnes sur quatre notes, per pianoforte, op. 9
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Nella poesia linguaglossiana agisce una dialettica in cui è assente qualsiasi soluzione conciliativa delle opposizioni tragiche dell’esistenza, e dunque in cui è improponibile qualsiasi superamento della contraddizione. Qui vi è un senso radicalmente contraddittorio che annienta la dialettica, che naufraga inesorabilmente nel paradosso e nell’assenza di senso. Paradosso che mostra, nella sua insolubilità, la radicale nullità della realtà e dello stesso Presente, non soltanto perché il Presente è figura dell’Assoluto, ma in quanto l’Assoluto è il solo modo in cui può darsi la realtà, la quale non è che il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto.
L’Assoluto altro non è che un auto-negarsi nel suo stesso porsi. Ciò vuol dire che sia il Presente che l’Assoluto hanno la medesima figurazione riscontrabile in altre ontologie e mistiche della storia del pensiero, del tipo: qualcosa è posto se e soltanto se non è posto.
La realtà è presenza del Nulla originario. Contraddizione incontraddittoria. L’atto originario stesso contiene in sé sia l’Essere che il Nulla, è pertanto coincidenza dei contraddittori. Le figure dell’essere e del nulla coincidono nel momento in cui si annientano a vicenda. Affermare l’identità di essere e nulla non può non significare l’accettazione incondizionata della contraddizione, vale a dire la consapevole trasgressione del principio di non-contraddizione aristotelico. Infatti, l’identificazione non è da parte di due termini identici, bensì da parte di termini assolutamente non-identici: veri opposti contraddittori. C’è un Nulla come alterità assoluta dell’essere e c’è un Nulla come alterità assoluta dell’essere e del nulla. Un Nulla non relativo, rispetto all’essere.
I termini della contraddizione tra le figurazioni dell’essere si oppongono radicalmente, ma in quanto vivono nella contraddizione vengono anche identificati. Per questa via, l’Assoluto è il Nulla non relativo, e il Nulla non relativo è perfetta alterità rispetto al nulla come coincidenza di essere e nulla, dove l’essere è, in quanto essere, figura del nulla, e il nulla è, in quanto nulla, figura dell’essere.
Le figurazioni che compaiono nella poesia linguaglossiana sono figure, ad un tempo, dell’essere e del Nulla, ma di quel Nulla relativo che si annienta nella congiunzione con l’essere.
Qui la contraddizione cessa di essere contraddizione per diventare contraddizione incontraddittoria. Il gioco figurale simultaneamente identifica l’essere e il nulla. Ma proprio questo è il senso della poesia: indicare il Nulla non relativo attraverso il gioco scenografico delle sue figure.
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Poesia molto bella, suggestiva, dove tutto sembra vero,e attinge a un simbolismo discreto, ma ineludibile. Colori, suoni,oggetti ,presenze umane rientrano nel clima stregato di Venezia,dove tutto è maschera,
estraneità,lontananza.Gli eletti stanno chiusi nei palazzi sopra le palafitte; nel sottoportico puoi incontrare uno che ti vuole pugnalare, ma anche uno disposto a bere con te allegramente un bicchiere di vino,incontrerai mercanti gentili solo perchè vogliono vendere,ma anche persone sinceramente disposte al dialogo, molto pazienti.Personalmente, mi sento più tranquilla a Firenze ,dove il mercante ti manda a quell’altro paese, se non gli garbi, ma quasi tutto accade alla luce del sole.
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Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
Quel che mi colpisce in questa metafora è il linguaggio con cui è stata scritta: un linguaggio naturale, anche descrittivo.
La forza della metafora è stata sciolta in un bicchiere d’acqua, ed ecco che appaiono le meraviglie: le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami. Giù, in fondo all’abisso.
L’avesse detto in modo più conciso, ad esempio Luna in fondo al mare… invece no, Tranströmer si prende anche il lusso di dirti che si tratta dell’oceano Atlantico. E nemmeno una parola strana, ricercata.
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Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
… avevo scritto uno “smontaggio” di questi due versi per farli rientrare nella normalità di una metafora celata a se stessa, ma ho digitato male e ho smarrito lo scritto e ora non mi ricordo più nulla…
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Ahahahahah, Antonio. Ci ho provato anch’io ( e sottovoce l’ho scritto nel commento: Luna in fondo al mare, ma mi mancava l’oggetto della metafora.
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giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
Le posate d’argento
sopravvivono
in grandi sciami
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Nel profondo Atlantico
sciami d’argento come posate.
Tranströmer e pain d’èpice.
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I pesci d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è bianco.
… questo è un colpo basso 🙂
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LA SMEMORATEZZA DI ANTONIO SAGREDO NON è CAPITATA A CASO. iN REALTà, LA MEMORIA, L’INCONSCIO, RICORDA SEMPRE CIò CHE VUOLE. l’INCONSCIO NON DIMENTICA NULLA E, PRIMA O POI, FA RIAPPARIRE CIò CHE AVEVA DECISO DI DIMENTICARE.
Quello che dico lo dico pensando all’articolo di Costantina Giancaspero sulla poesia di de Palchi postata stamattina. Lì c’è l’inconscio che ha dettato al giovanissimo de Palchi quella poesia scritta in uno stile inimmaginabile negli anni in cui fu scritta, negli anni Cinquanta. E ancora adesso quel linguaggio, quello stile, ci risulta più comprensibile di tante scritture para giornalistiche di oggidì.
Un aneddoto:
Nel 2011, Quando per la prima volta lessi quei due versi di Tranströmer, capii di colpo che la poesia eruropea era cambiata, che tutto quello che si era scritto in Italia nei precedenti cinquanta anni del novecento era minoritario. Fu lì che ebbi la nettissima e chiarissima visione della necessità di fondare una nuova ontologia estetica, che altro non è che un nuovo modo di scrivere poesia, quella poesia che in Europa Transtromer scriveva fin dall’anno 1954 anno di pubblicazione di 17 poesie.
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A PROPOSITO DELLA “GONDOLA LUGUBRE”
Venezia
Io qui ridestato innanzi giorno
da un colpo del vetro della finestra.
Come ciambella di pietra, intrisa
Venezia nuotava nell’acqua.
Tutto era silenzioso, e, tuttavia,
nel sonno aveva udito un grido, ed esso
come parvenza di un cessato indizio
continuava a turbare l’orizzonte.
Esso come tridente di scorpione era sospeso
sullo specchio dei mandolini spenti
e chissà, forse da una donna offesa,
era stato emesso in lontananza.
Adesso si era spento e come nera forchetta
spuntava sino al manico della nebbia.
Il Canal Grande con sogghigno torvo
si voltava, come un fuggitivo.
In lontananza oltre l’arenile delle barche
nei frantumi del sonno nasceva la realtà.
Venezia come una veneziana
si gettava dalle sponde a nuoto.
Boris Pasternàk
1914-1928
[ Nel Salvacondotto scrisse:
Io vidi una Venezia rosa-mattone e verde acquamarina, come pietruzze diafane gettate dal mare sulla riva (è l’amico poeta che riesce a parlare di Venezia senza cadere nel kitsch) e visitai Firenze, la cupa, stretta, armoniosamente viva estrazione delle terzine di Dante (81).
E ancora su Venezia:
Io non ricordo davanti a quale di questi innumerevoli Vendramin, Grimani, Comero, Foscari, Loredan, vidi la prima gondola o la prima che mi abbia colpito, ma questo fu dalle parti di Rialto; essa uscì senza fare rumore, sul canale da un vicolo laterale e, distesasi di traverso, cominciò ad attraccare ad un vicino portale di un palazzo. La misero avanti direttamente dal palazzo, come sullo scalone di parate, sopra una faccia rotonda di un’onda che lentamente rotolava; dietro ad essa restò una fenditura cupa piena di ratti crepati e di bucce danzanti di cocomero; davanti ad essa si disperdeva il vuoto lunare con una grande onda del ponte. Essa era enorme come è enorme tutto ciò che è perfetto per forma ed è incommensurabile col luogo occupato dal corpo nello spazio. La sua alabarda luminosa trescata, lievemente volava per il cielo, portata in alto dall’occipite rotondo dell’onda; con la stessa leggerezza correva per le stelle la nera silhouette del gondoliere e il cappuccetto della cabina sprofondava come calcato nell’acqua nell’insenatura tra la poppa e la prua. Noi uscimmo sui vicoli di pietra che non erano più larghi di corridoi di case. Di tanto in tanto ci sollevavano su brevi ponti di pietra gobbuta, e allora da entrambe le braccia si allungavano le manine sudice della laguna dove l’acqua ristagnava in una tale strettezza che sembrava un tappeto persiano in un cartoccio tubolare stretto dall’acqua sul fondo di un cassetto storto. Sui ponti gobbi passavano dei viandanti e prima che lei apparisse, all’avvicinarsi della veneziana, dava il segno il frequente battito delle sue scarpine nelle scalette di pietra del quartiere.
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mia nota 81, pag. 17 :
[ Boris Pasternàk, Il salvacondotto, Editori Riuniti 1980, trad. G. Crino, cap. III, pgg.96-100. Sono tante le Venezie dei viaggiatori russi in tutte le epoche. Qui la Venezia di Pasternàk confrontarla con quella di Mandel’štam e di Blok (vedi: A.M. Ripellino – Corso monografico su Mandel’štam, anno accademico 1974-75, pgg.62-68)].
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(commento di A. M. Ripellino alla poesia di Pasternàk “Venezia”)
[ È una poesia del libro Il gemello nelle nuvole, e Pasternàk ritorna più volte sul tema di Venezia, che è uno dei temi centrali della sua vita (non solo Pasternàk, ma altri poeti russi, da Blok a Mandel’štam)
È interessante commentare questa poesia con ciò che egli dice nel Salvacondotto :
La sera prima di partire (da Venezia) io mi svegliai in albergo per un arpeggio di chitarra (che qui diventa mandolino), che si era strappato nel momento del mio risveglio. Io mi affrettai alla finestra, sotto la quale guazzava l’acqua, e incominciai a guardare in lontananza del cielo notturno, con molta attenzione, come se vi potesse essere nel cielo la traccia di un suono appena appena spento.
Questa è una illustrazione di quello che ha scritto nella poesia. Più tardi, nello Schizzo autobiografico dirà:
La città sull’acqua mi stava dinanzi e i cerchi e gli otto dei suoi riflessi navigavano e si moltiplicavano gonfiandosi, come biscotti nel tè (solita immagine casalinga da dispensa di cucina).
E ancora dice nella pagina autobiografica Il salvacondotto, parlando dell’arrivo a Venezia:
Quando io uscii dall’edificio della stazione con la sua tettoia provinciale in stile di asta e dogana, qualche cosa di scorrevole, sommessamente, mi scivolò sotto i piedi. Qualcosa di maligno e di cupo come le risciacquature, e sfiorato da due o tre lustrini di stelle. Esso quasi inavvertitamente si alzava e si abbassava ed era simile ad una pittura annerita, il tempo in una cornice vacillante. (molto bello). Io non capii subito che questa era la raffigurazione di Venezia ed insieme Venezia. C’era qualche cosa che mi faceva pensare che io fossi in lei, e che in realtà non stavo sognando. (era già così preparato dalle immagini di Venezia, che faticava a vedere che questa non era solo raffigurazione, ma anche Venezia stessa). Il canale dinanzi alla stazione, come un intestino cieco si perdeva dietro un angolo. Io mi affrettai ad un porticciolo di vaporetti a buon prezzo, che qui sostituiscono il tram. Il vaporetto sudava e soffocava, si strofinava il naso ed affogava, e per la stessa superficie imperturbabile, per la quale si trascinavano i suoi mustacchi semisommersi, nuotavano a mezzo cerchio, pian piano dai noi staccandosi, i palazzi del Canal Grande”.
Li chiamano palazzi e potrebbero chiamarsi magioni, eppure nessuna parola potrebbe dare l’esatta impressione dei tappeti di marmo colorato, che sono calati nella laguna notturna come sulla arena di un torneo medioevale. Esiste un particolare oriente da albero di Natale, l’oriente dei Preraffaeliti, ed esiste l’immagine della notte stellata secondo la leggenda dell’omaggio dei Re Magi. Esiste un eterno rilievo natalizio, una superficie di noci greche indorate, spruzzata di paraffina azzurra. Esistono le parole cholvà i kaldej (torrone e caldeo), magi e magno, India e indigo: ad esse bisogna unire anche il colorito della Venezia notturna e dei suoi riflessi acquatili. Cioè una Venezia nel gusto di un Oriente da albero di Natale, nel gusto delle immagini natalizie di noci greche spruzzate di paraffina turchina (immagine casalinga).
Direi che è riuscito ad uscire da una certa crosta veneziana che affligge molti poeti che hanno cantato Venezia. D’altra parte, è il primo che non vede in Venezia un’immagine di lugubrità, come gli altri poeti russi. Per esempio Blok nei Versi italiani, in un ciclo dedicato a Venezia, fa di questa città una sorta di funebre macabra Pietroburgo del sud, dove si aggira addirittura Salomè con la testa di Giovanni Battista sul vassoio . Mandel’štam stesso, in una poesia del ’22 vede una Venezia tristissima, funeraria, piena di bare; l’immagine di Venezia in genere, nei poeti russi, si collega ad una sorta di funebrità, che poi si riflette in Pietroburgo, che è lo stesso tipo di città acquatile, quindi passa in sovrimpressione su Venezia.
Qui, invece, Pasternàk è riuscito a vederla senza la lugubrità consueta ai poeti russi (anche se questa non è proprio una bella poesia).]
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(mia nota 212, pag. 80) :
[ Vedi su Venezia: A.M. Ripellino, “Corso su Mandel’štam, 1974-75”, op.cit., pgg.62-68. Pasternàk affronta le poesie Venezia e Stazione con questi intenti:… mia preoccupazione costante era il contenuto, mio sogno costante era che la poesia in se contenesse qualcosa, un nuovo pensiero o una nuova immagine; che fosse incisa in ogni suo particolare all’interno del libro, che parlasse dalle sue pagine con tutto il suo silenzio e tutti i colori della sua nera stampa incolore. Ad esempio, scrivevo una poesia: Venezia; o un’altra :Stazione. La città sull’acqua mi stava…”, in Boris Pasternàk, Autobiografia, Feltrinelli 1967, p.67. La prima e terza citazione sono tratte da Il salvacondotto, op. cit. pgg.96 e 115. — La morte del Battista è collegata alla visione di morte che dà Venezia; la stessa gondola è vista come una bara nera eternamente galleggiante, che viaggia per la laguna e gli isolotti a spargere ovunque lutto, colori e miasmi nerastri. Pasternàk, come nota Ripellino, sfugge a una descrizione luttuosa, a questa nera malìa che attanagliava i poeti russi dell’800, quando si parlava di Venezia; perfino Mandel’štam soggiace a questo nero destino veneziano. Questa poesia invece inizia con barbagli di luce che maculano il paesaggio ancora avvolto nell’oscurità, ma il senso più attivo è l’udito, che prevale anche sulla vista. Il colore è invece tutto in subordine, affinché non prevalga la tradizione ottocentesca di una città lagunare funeraria da collegare poi ad una Pietroburgo egualmente miasmatica e colma di nera mestizia. Ma è davvero difficile per i poeti russi staccarsi dal colore nero che su questa città aleggia: in questi versi è il grido, dapprima tridente di scorpione e poi nera forchetta. Vedi qui, a p. 17, quanto ancora scrive Pasternàk su Venezia. Vedi anche nota 144, p. 37. ////////// Questa poesia non è presente nella edizione di Einaudi. ]
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nel prossimo intervento, altrettanto interessante, dirò di Puskin in poi della lugubricità della gondola veneziana (Lermontov, Tjutcev, Blok, Mandel’stam, Pasternàk: sfuggire a questo kitsch. Notare durante la lettura di questo intervento “barbagli di luce che maculano il paesaggio ancora avvolto nell’oscurità” _ qui si tratta delle acque nere veneziane , nel poeta svedese dell’Atlantico nero: il risultato non cambia.
Dell’accostamento Venezia-Pietroburgo, dell’importanza del mare Adriatico per gli scrittori russi, e del fiume Brenta in particolare. Dovette sorridere Brodskij quando lesse le poesie del poeta svedese, e pensare come me: nulla di nuovo sotto il cielo dell’Atlantico, quando il mare Adriatico è ben più grande e nero. Il fatto resta: è che a questo kitsch difficilmente ci si sottrae, e il poeta svedese proprio non vi riesce.
Si può dire che la metafora dello svedese è una “metafora polare”, algida, che si cela nelle oscurità, che i pesci argentati sono le posate d’argento e viceversa, ma questo distico non cambia la poesia europea: non basta! Ma non solo i poeti russi, tutti i poeti europei (pure Wagner, Lizt, Nietzsche… ecc., insomma una infinità d’autori) si sono accaniti sulla gondola: difficile vedere in questa barca qualcosa di gioioso. Per questo ed altro che la gondola nera su un mare nerastro sia come una bara: l’immagine è ovvia, appunto kitsch!
L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
Bisogna studiare,Mauro! Promemoria…
Silenzio
Passa, sono sepolti…
Una nuvola scivola sul disco del sole.
La fame è un alto edificio
che si sposta di notte.
nella camera si alza l’oscura
tromba dell’ascensore verso le viscere.
Fiori del fossato. Fanfara e silenzio.
Passa, sono sepolti…
Le posate d’argento sopravvivono in grandi frotte
a grandi profondità dove l’Atlantico è nero.
E’ senz’altro una poesia lugubre. E’ il tema dell’intera raccolta.
Qui si parla del silenzio.
Ora, mi chiedo se in questa poesia si stia davvero parlando di Venezia. All’ultimo verso bisogna stare attenti a non annegare… Magari qualcun altro lo avrà scritto già – come anche “La fame è un alto edificio / che si sposta di notte” – ma il dubbio resta perché di Venezia, qui, nemmeno un campanile…
“Ora, mi chiedo se in questa poesia si stia davvero parlando di Venezia. ”
Mayoor, ma che credi di cosa stia scrivendo? Di frottole e stronz…
Il poeta svedese non ha che l’Atlantico, altri hanno l’Adriatico.
Ma non sono i due mari qui l’essenziale, è altro il concetto che muove i poeti che hanno similitudini,e cogliere queste è fare poesia/letteratura comparata: trovare i fili comuni per distinguerli dalle diversità che li dividono: la Poesia procede così da sempre!
Omero ha tali legami con Rimbaud che tu nemmeno immagini!!!
Che centra Majakovskij con l’Alaska? Eppure la sua metafora cementifica la geografia e i legami con quella terra lontana li unisce… come Jack London…
qualcuno mi ha scritto che voglio affossare lo svedese: nulla di più falso!
Io colgo ciò che unisce e ciò che divide i poeti: è il mio mestiere e sono là dove loro hanno sofferto.
Cosa centra Nezval col Canada?
Per voi tutti sto dicendo cose dell’altro mondo, ma il fatto è che sono esteso.
as
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Ma se il lettori vogliono che io pubblichi il secondo intervento me lo devono dire.
Oh ma io ti ringrazio, ho solo preferenza per il poeta svedese.
Vediamo ad esempio nella poesia di Pasternak, ecco le metafore:
Come ciambella di pietra, intrisa
come parvenza di un cessato indizio
Esso come tridente di scorpione era sospeso
come nera forchetta
Venezia come una veneziana
Capisci COME questo sviluppo della metafora dimostra i suoi cent’anni?
Eppure eppure siamo vicini…
Qui pare di leggere una tua poesia:
Adesso si era spento e come nera forchetta
spuntava sino al manico della nebbia.
Il Canal Grande con sogghigno torvo
si voltava, come un fuggitivo.
Omaggio a Rago e Linguaglossa.
Hanno detto tutto!
https://lapresenzadierato.com/2020/05/18/alcune-poesie-di-gino-rago-da-i-platani-sul-tevere-diventano-betulle-edizioni-progetto-cultura-lettura-di-giorgio-linguaglossa/#r
I flagellati riposano supini.
La deriva ha la forma imbrattata di una parete. Nel verso smorzato di un clacson
il sottile ricordo dello scontro. La malattia così come la vecchiaia
nel gioco della verosimiglianza appaia Trastomer a Michel Piccoli.
L’album ora è completo.
GRAZIE OMBRA.