
“The Knight, the death and the devil”, B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.
La poesia che, venendo dai tempi antichi, si apre all’esperienza lancinante del moderno, si dibatte e può riconoscersi tra questi due poli che in sé racchiude: “coscienza tragica” e “nostalgia di canto”. Cucire la tela del canto attraverso e nonostante il dolore della vita. Incantarsi nel disincanto. Essere Apollo e Dioniso insieme.
Scrive Rilke:
Oh dimmi, Poeta, cosa fai?
Io canto.
Ma ciò che è mortifero, il mostruoso,
come lo sopporti, come lo accogli?
Io canto.
Ma ciò che non ha nome, è anonimo,
come puoi, Poeta, chiamarlo?
Io canto.
Donde il tuo diritto, in ogni costume,
in ogni maschera, di essere vero?
Io canto.
Come possono conoscerti la quiete
E il furore, la stella e la tempesta?
Io canto.

Canova Orfeo e Euridice
Dall’unione di Apollo e Dioniso nasce l’opzione orfica: la terza via dello spirito greco, oltre gli opposti e i limiti di entrambi. Lo sguardo di Orfeo che si volta verso Euridice, come in un “folle volo”, determina l’inizio della poesia tragica: nella coscienza della conoscenza, frutto di ricerca personale, incapace di resistere al richiamo del nuovo, dell’ignoto, del proibito. È l’uomo che si ribella al sapere acquisito per divinità, giacché non può accettare il divieto di conoscere oltre, liberamente, con le sue stesse forze. Il poeta, da quel momento in poi, incarna la paura degli dèi: paura della parola libera, creativamente umana, che non si fa più complice d’incanto ma pensa, scava, dice, scopre i loro segreti e li rivela oltraggiosamente – benché ciò costi la perdita eterna di Euridice, la cacciata dal paradiso, il dolore del dis-incanto. L’Orfeo poietes – che insegna agli uomini la sua parola colma di pensiero e di esperienza – si contrappone all’originario Orfeo agamos apollineo, nella misura in cui il Logos si contrappone all’armonia del Mithos, con le sue favole quiete, portandovi rovina, frattura, distruzione.
È un occhio che si apre al nuovo sguardo. La ragione mette l’uomo dinanzi ai suoi limiti: lo fa dolorosamente libero e consapevole. Egli è diviso e solo: non più pieno, non più tutt’uno con il mondo, non più unito alle sue radici.

giorgio de chirico il ritorno di Orfeo
Il Logos senza Mithos è sterile e freddo, pesa; il Mithos senza Logos è vano ed effimero, vola. La poesia è e dà la “giusta sintesi”: è infatti coscienza logomitica; è scienza “nutrita di stupore”; è accordo e scambio biunivoco tra gli emisferi della mente; è snodo cardinale tra gli stati dell’essere; è incrocio di assi, spaziali e temporali; è incontro di sintagmi e paradigmi – metro, ritmo, metafora. La poesia è centratura dello sguardo e riequilibrio autologico delle energie. È cura animi, e dunque pratica terapeutica. Può donare nuovo equilibrio alla complessità, del mondo, delle cose, di noi stessi, e alla motile armonia dei suoi contrari. Può servire a rimitologizzare il mondo, senza facili nostalgie. Agevolare una fondazione poetica, e quindi etica, della realtà. Rendere sì leggibile la “rottura” della totalità, che ci fa relativi; ma consentire e articolare l’apertura dello sguardo su uno spazio sconfinato che sta “oltre”. Noi siamo conficcati nella storia, apparteniamo al tempo. Ma se il tempo è la dimensione dell’assenza, della perdita irrecuperabile, allora siamo condannati a vagare nel vuoto come uomini vuoti, nel caos, nel buio informe dell’inumano.

Czeslaw Miłosz
Il cammino poetico moderno, infatti, si è configurato come un’avventura aperta dello spirito: tra il “non più” e il “non ancora”: tra le macerie del vecchio mondo e le tracce inquietanti del nuovo. E il poeta era un essere scorticato: il più fragile, il più esposto. Al rischio supremo del linguaggio: dov’è o dovrebbe essere il forno di conio del fondamento. Molti poeti hanno pagato con la follia; altri col suicidio; altri ancora con la morte prematura, dopo una vita di indicibile dolore.
Occorre una poesia, oggi, che risponda non solo alla domanda “perché”, ma anche a quella “da dove”. Occorre il ri-ascolto di ciò che sta prima e al di fuori della storia, del tempo. C’è un luogo profondo, remoto benché vicinissimo, che è stato occultato in ogni modo dalle grandi costruzioni razionalistiche del pensiero occidentale: dove l’Essere parla ancora, coi nomi originari della sua pienezza.

Giuseppe Ungaretti
La poesia – come l’arte in genere – è simbolo vivente di questo luogo dell’Essere: offre la possibilità di accedere alle fonti originarie della vita; di portarsi al punto cruciale in cui il tempo storico dell’assenza si interseca con il tempo pieno dell’eternità.
Il poeta penetra nelle profondità del mondo attraverso se stesso, il proprio caso particolare, la propria esperienza. Giri e rigiri e ingorghi tortuosi, e fango putrescente di paludi – labirinti di foreste sempre più oscure, sempre più fitte e intricate… sino a che, oltre la tenebra, ecco splendere la radura dell’Essere, la Luce. E si scopre che le radici sono interconnesse: che nel profondo di noi stessi siamo tutti collegati, siamo Uno. E, quindi, che ognuno è anche tutti. Raccogliendo immagini primordiali agguantiamo, dominiamo e innalziamo la nostra precarietà alla sfera delle cose eterne. È in questo processo di elevazione del profondo che l’immagine si trasfigura, diventa emblematica, universale.

Gezim Hajdari
È forse ora di rivendicare – oltre, ed eventualmente contro, il paradosso assolutistico del relativismo a tutti i costi, e quindi l’imperio, ormai stantio, del cosiddetto “pensiero debole” – un rapporto nuovamente elementare e universale fra arte e verità; ripensare la bellezza come porta aurorale della conoscenza, e l’artista come un pre-illuminato che mette i suoi doni spirituali a completo servizio di questa dinamica. Nella poesia potrebbero racchiudersi e accordarsi philokalia e philosophia: amore di bellezza e amore di sapienza. È «al cor gentil», del resto, che «rempaira sempre amore». È nella predisposizione cosmica e ricettiva dello spirito pre-illuminato che trova accoglienza e risonanza la pulsione erotica che spinge a creare poesia, e illumina la voce del suo canto. Il poeta è “ventriloquo di Dio”: si fa strumento della forza che lo sceglie per manifestarsi. Parla come amor gli detta dentro.
L’amore di cui si fa carico la poesia è un’energia fluida, mutevole e ondeggiante: come la vita. Anzi: è la vita. Non ha una forma preordinata, proprio per permettersi di averle tutte. Entra ed esce in ogni dove, Mercurio permettendo. È un ponte che media tra umano e divino. Se amore è “desiderio di bellezza”, la poesia è nostalgia dell’infinito che la bellezza manifesta in ogni cosa. La bellezza traluce nelle cose del mondo, come riflesso di ciò che è infinitamente vero e infinitamente buono.

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)
La bellezza sensibile è una scala di accesso alla bellezza ultrasensibile. Principio, dunque, di un’esperienza metafisica che possiamo compiere, per gradi di elevazione spirituale, grazie alla bellezza disseminata nel mondo (ma anche raccolta e magnificata in opere dagli artisti). L’uomo è Edipo, accecato dal caso e dal destino. Procede come uno straniero in mezzo al mondo, tra segni incomprensibili, in attesa di parole illuminanti. È possibile elevarsi alla conoscenza del vero? Siamo in grado di comprendere? Sì: perché abbiamo dentro l’infinito. Abbiamo incisa l’impronta divina. Ci brilla dentro gli occhi la scintilla cosmica fondamentale che ha creato il mondo. C’è il silenzio delle stelle nel nostro sguardo. C’è il mistero che ci batte nel respiro. Siamo dinanzi alle cose: ma ne facciamo parte. Siamo ciò che lo specchio riflette e, insieme, lo specchio che permette di vederci. Figura e sfondo. Platea e scenario. Essere e non essere.

Anna Ventura
L’esperienza metafisica del bello – il regno di luce da cui proveniamo e cui facciamo ritorno – possiamo farla in un istante assoluto, libero dal tempo. È Phanes: il simbolo orfico dell’espressione, del venire alla luce, del manifestarsi. Il nascente, l’originario. Lampo, epifania, scorza che si apre. È la visione mistica dell’Uno, “oltre l’oltre” di ogni limite: di ciò che risplende sempre uguale a se stesso, per se stesso, con se stesso: che non ha forma, figura, limite, confine. Irrelato, semplice, eterno. La cosa in sé. L’invisibile. L’indicibile. Il tremendo: perché si manifesta con una forza immensa, spaventosa. Come la sfera dell’Aleph, nell’omonimo racconto di Borges. È lì, l’essenza della bellezza.

zbigniev herbert con la sua libreria
Può la pittura dipingere l’aria? Può farci toccare il vuoto? E così, allo stesso modo: può la scrittura catturare le realtà invisibili?
La scrittura è già, in parte, “invisibile”. Un brano di prosa che descrive i rossi colori di un tramonto non si lascia vedere come immagine figurativa di ciò che descrive, ma come testura di parole in corpo tipografico. Dobbiamo poter decifrare ciò che le parole dicono: estrarne noi, il significato: dargli noi, i colori di quel tramonto. Quindi, se non conosciamo la lingua in cui è scritto, il testo rimane lettera morta. Anche e soprattutto quando descrivo a voce ciò che vedo, sto trasformando il visibile in invisibile. Il suono non si vede: devo poterlo decifrare, per capire di che tratta.

Cristina Campo
E se la scrittura, invece, decide di parlare dell’invisibile, del mistero, delle realtà metafisiche: con quali mezzi può farlo se non con quelli, sempre, del visibile? Con quale sguardo? Assumendo quale punto di vista, se non quello limitato dell’uomo singolo che guarda?
Le parole – se esistono, se sono dette – stanno sempre “al di qua”: relative, inabili, parziali. Non dicono mai tutto: non afferrano mai l’essenza vera, l’essere stesso della cosa. Scrive Gustave Flaubert in Madame Bovary: «La parola umana è come un vaso di rame fenduto, su cui noi battiamo delle melodie buone a far ballare gli orsi, mentre vorremmo commuovere le stelle». La poesia, da questo punto di vista, è sempre il resoconto di uno scacco; che cosa, altrimenti? Se non il silenzio, cioè il bianco del foglio, che contiene ogni parola ma non dice?

Antonia Pozzi
Le parole sono finite: lasciano sempre un “resto” che però ci spinge a sapere, ad andare avanti. Il riscatto dalla precarietà del tempo (come nella pagina scritta, che dura uguale a se stessa) procede mediante la ricerca e la conquista del tempo, fuori e dentro di noi. Come diceva Ungaretti: l’innocenza recuperata attraverso la memoria.
Restano poi, talvolta indimenticabili, le vie che le parole scrivono nel mondo. Come scie luminose. Come sentieri di stelle. Come tracce iridescenti di lumaca. Scrive il poeta Paul Celan: «(…) sono incontri, vie che una voce percorre incontro a un tu che la percepisce, vie creaturali, forse progetti di esistenza, un proiettarsi oltre di sé per trovare se stessi, una ricerca di se stessi. Una sorta di rimpatrio».
Proprio a Celan dobbiamo la suggestiva immagine della poesia come “meridiano”: una linea vera, benché immateriale e inesistente, che indica una direzione attraverso molti territori, e su cui a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino di accostamento a se stesso e alla propria verità, di uomo e di essere nel mondo.
(Fine)