Gino Rago
Dopo Palazzeschi e Rebora, saltiamo a piè pari le esperienze vociane, rondiste, ermetiche, post-ermetiche e anche l’esperienza della vocazione realistica nella quale si chiese al poeta e alla sua parola lo sguardo della comprensione, (lo sguardo della pietà, per catturare l’eco di miserie di guerra in un mondo sconvolto), attraverso l’assioma rivelatore di Pasolini: «Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia», e approdiamo insieme alla poetica di Vittorio Sereni ben impigliata in
I versi
Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non era più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
(da Gli strumenti umani, 1965)
Vittorio Sereni, dopo i frammenti di memoria degli anni della prigionia, dopo i paesaggi calcinati dal vento e dal sole, paesaggi quasi lunari nei quali sono possibili (Diario di Algeria) incontri fra gli spiriti di una tragedia, che quelli di una certa generazione tutti erano costretti a ricordare, fra compagni morti e spine senza rose di reticolati, approda allo sguardo sul mondo del lavoro industriale e si sofferma sulla fabbrica che emana sentori di fatica e di sangue, in una ideologia (anni fra il 1952 e il 1958) anticapitalistica che, animata da un trattenuto rancore ma pronto in ogni momento anche a farsi a furore, induce nei lettori dei suoi versi una ferma coscienza civile, fra quartieri di tribolazioni, sirene che chiamano al dovere, risentimenti della classe operaia con paghe ancora da fame.
Nel caso de ” I versi ”, poesia nella quale si interroga sull’ars poetica, diremmo che si tratta di un componimento nel quale Sereni adotta una scrittura breve, secca, essenziale che però si confronta con una ricchezza di contenuto ad alta tensione poetica nella quale il lirismo non nasce né dall’aggettivo, né dalla metafora ardita, o dalla retorica, bensì da ciò che sentiamo come mitezza di un tono frammisto all’ironia (amara?) di parole proposte in una loro (apparente) nuda semplicità. Il tema non è nuovo: l’idea della innata incompiutezza o inadeguatezza della scrittura del poeta attraversa la letteratura di tutti i tempi; Vittorio Sereni sceglie un taglio diremmo quotidiano, “domestico” per dire di un uomo che scrive poesie quasi vergognandosene, un uomo che saluta gli amici, l’ultima sera dell’anno, amici che al contrario del poeta conducono una vita segnata dalla fatica e dalla concretezza, vigili sempre a non smarrire se stessi nei grovigli e nelle tentazioni della metropoli industriale. Ma scrivere poesie, perché scrivere poesie e per chi scriverle. Non si sceglie di farlo né si decide per capriccio di scriverne.
Si scrivono poesie perché il poeta si fa aggredire dalla necessità di farlo; ma Sereni ce lo dice quasi adottando quella “teologia negativa” secondo la quale per sapere cosa è poesia bisogna ben sapere cosa poesia non è.
Sullo sfondo si avvertono sia Montale, sia Eliot, più precisamente il T. S. Eliot dei Quattro Quartetti.
Al centro del suo componimento, I versi, Sereni scrive:
«Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro[…]».
La esclamazione quasi sgrammaticata che il poeta fa al centro del componimento, segnandone una specie di cesura fra i primi versi e gli ultimi, arriva ai lettori come una sorta di pentimento per avere scritto e per continuare a scrivere poesie; ma in questa cesura al centro della poesia Sereni non ci dice cosa avrebbe “altro” voluto fare.
«Chi legge Sereni, chi impara oggi da un poeta come lui?» si chiedeva Alfonso Berardinelli in una meditazione sull’autore de Gli strumenti umani (1965). Di Vittorio Sereni si parla poco, benché possa costituire un modello più mediamente praticabile anche in via sperimentale per colui/colei che intenda pronunciare una sua parola in quel genere letterario particolare detto poesia. Lo è per una sua scrittura poetica, per dirla sempre con Berardinelli, «in sordina, a basso regime lirico, con qualche improvvisa accensione quasi inconsulta e con molta semi-prosa appena versificata».
Nel suo particolare linguaggio poetico, (assenza totale di virtuosismi, un minimo di parole con mai niente di più del necessario), e nella sua poesia, Vittorio Sereni non gioca mai, pur monologando, raccontando, ragionando e a volte descrivendo. Ma monologhi e racconti, descrizioni e ragionamenti si accompagnano sempre a proposte di dubbi e di perplessità soprattutto su sé stesso proprio in quanto poeta. Ne è esemplare l’apertura de I versi : “Se ne scrivono ancora” che suona a Sereni come desolata presa di coscienza, come perplessa constatazione del poeta alle prese con il gesto improvviso del fare poesia.
Anche per questo, nelle sue acute meditazioni sull’autore di Diario d’Algeria 81947) e de Gli strumenti umani (1965), Alfonso Berardinelli ci lascia quasi una epigrafe illuminante, destinata a durare intatta nel tempo dei poeti e nella storia della poesia:
« Sereni non ha mai vestito l’abito del poeta. Non si è comportato né ha scritto come chi abbia ricevuto doni, investiture e privilegi speciali dalla poesia… Non era un poeta volitivo, non vestiva la divisa del poeta e non viveva da poeta[…]».
Lo stesso Berardinelli dedicandogli un suo personalissimo ricordo scrive ancora:
«In questo 2013 cade il centenario della nascita di Vittorio Sereni, ma è anche il trentennale della sua morte, avvenuta l’11 febbraio 1983. L’avevo conosciuto a Milano otto anni prima, nel corso di una di quelle strane riunioni-colazioni della rivista culturale più politicamente compromessa di quegli anni, “Quaderni piacentini”. Una rivista fatta di conversazioni e di vere amicizie prima che di ideologia e di politica. Leggo sull’ultimo numero dello “Straniero” un saggio di Alberto Rollo, La cultura dei sentimenti, uno dei migliori saggi che io abbia letto su Sereni, che pure ne aveva ispirati altri memorabili: a Mengaldo, Garboli, Fortini, Grazia Cherchi. […] Sereni veniva dalla guerra, una guerra vergognosa e perduta. Lavorò a lungo come funzionario editoriale. Con Luzi, Bertolucci e Caproni inaugurò una nuova fase della poesia italiana in cui si incontravano i maestri del primo Novecento: Ungaretti, Saba, Montale. Vittorio Sereni nasce poeta ermetico o non ermetico? La questione resta in bilico, irrisolta, come irrisolta e in bilico è la situazione da cui nasce tutta la sua poesia.
Si è molte volte ripetuto che il titolo del primo libro di Sereni, Frontiera (1941), individua immediatamente tema e tono di questo poeta. In Sereni si sente subito un’estraneità che può essere chiamata culturale o di poetica rispetto all’ermetismo fiorentino […]. Sereni è un poeta poco interessato a una ideologia o fede poetica».
Difatti Sereni stesso dichiarò: «Il nome di poeta appare sempre più una qualifica socialmente difficile da portare e da sostenere persino nel suo normale ambito letterario…».
E’ da condividere in pieno il pensiero berardinelliano secondo il quale Vittorio Sereni è tutto nel suo verso più famoso, una iterazione martellante sui temi della perdita e e dell’assenza. Un verso da pronunciare a voce bassa, quasi fra sé e sé:
«nulla-nessuno-in-nessun-luogo-mai».
Vittorio Sereni (1913 – 1983)
POESIE
da Frontiera (1941, Ed. definitiva 1966)
Le mani
Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.
Terrazza
Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.
In me il tuo ricordo
In me il tuo ricordo è un fruscio
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.
*
da Diario d’Algeria (1947, Ed. accresciuta 1966)
Dimitrios
Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.
*
da Gli strumenti umani (1965)
Fissità
Da me a quell’ombra in bilico tra fiume e mare
solo una striscia di esistenza
in controluce dalla foce.
Quell’uomo.
Rammenda reti, ritinteggia uno scafo.
Cose che io non so fare. Nominarle appena.
Da me a lui nient’altro: una fissità.
Ogni eccedenza andata altrove. O spenta.
*
da Stella variabile (1979)
Autostrada della Cisa
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.
Sappi -disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire-
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?
Conclusioni (parziali)
Quali domande impone al nostro gusto estetico e al nostro tempo l’esperienza poetica di Vittorio Sereni alla luce dei paradigmi ontologico-estetici verso i quali stiamo come NOE tentando di spostare il baricentro del nostro fare poesia il quale nella forma-poesia-polittico-in-distici sta trovando la formulazione poetica più avanzata dei nostri giorni?
Almeno tre sono ineludibili:
1- Il problema della durata, della durata di una poesia nel tempo, almeno secondo l’idea di Andrej Silkin mutuata da T. S. Eliot e nitidamente lanciata e affrontata nella sua postfazione a Giorgio Linguaglossa, Il tedio di Dio (viaggio nel paese delle ombre), Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018, pp.142, 12 Euro;
2- Il ruolo e l’influsso esercitati da Sereni sulla poesia soprattutto dei lombardi sarebbero stati tanto forti se, come si apprende dalle sue notizie bio-bibliografiche, Vittorio Sereni per lunghissimo tempo non fosse stato a capo della direzione editoriale della Mondadori?
3- Come situare l’esperienza poetica di Vittorio Sereni nel grande problema della poesia italiana fra il 1970 e il 1980, da un lato, e in quello non meno impegnativo da Giorgio Linguaglossa segnalato come «L’indebolimento della autocoscienza storica dei poeti e dei narratori nati dopo il 1950»?
Su questo terzo quesito Linguaglossa scrive:
«Di recente sono solito ritornare su un punto che mi sta a cuore, ed è inutile girarci attorno in cerca di eufemismi o di correttezza istituzionale: il fatto che gli scrittori, i poeti, gli artisti di oggi sono privi di autocoscienza storica, almeno nella misura in cui i poeti e gli scrittori delle generazioni di coloro che sono nati prima della seconda guerra mondiale e fino al 1950, o giù di lì. I poeti e gli scrittori nati dopo quella data posseggono una minore autocoscienza storica dei problemi politici, estetici e stilistici che si traduce in poesie e in romanzi di livello decisamente inferiori rispetto a quelli delle generazioni precedenti.
Il problema è che c’è stata nella storia d’Italia e della poesia italiana una frattura storica corrispondente, grosso modo, al decennio degli anni cinquanta, le generazioni degli scrittori e dei poeti nati dopo quella data hanno una relazione con la propria epoca storica un rapporto, diciamo così, indebolito, il rapporto con gli istituti stilistici ne è risultato inficiato. Con ciò non voglio dare una patente dimidiata alla produzione poetica e narrativa venuta dopo quegli anni, ma senz’altro la proliferazione della poesia che è venuta durante gli anni settanta e ottanta e seguenti in Italia e in Europa ha la propria ragione in una situazione storica ben determinata[…]»
Giorgio Linguaglossa
caro Gino,
mi tiri per la giacca dentro il problema della poesia di Sereni e del posto occupato dal poeta di Luino nella poesia italiana del secondo novecento. Il mio parere è che Sereni sia stato un poeta di secondo piano, uno di quelli il cui lavoro è preparatorio per la poesia di altri, di chi verrà dopo. Quello che la tradizione sereniana ha potuto dare, l’ha già dato. Per me il capitolo è chiuso. Quello che noi stiamo cercando di fare con la nuova ontologia estetica è «chiudere» la tradizione sereniana nel posto che le compete e «aprire» la «nuova poesia» alle sollecitazioni del nuovo mondo globale. Aprire la nuova poesia sul periscopio del nuovo orizzonte degli eventi. Continua a leggere