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Sabino Caronia, “Tutta la vita davanti”, (anti)romanzo, Schena pp. 150 € 15, 2023 – Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, La narrativa metaletteraria di Sabino Caronia è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis-connessi, introvertita, citazionista, narrativa della crisi, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi

Sabino Caronia Tutta la vita davanti cover

Narrazione eminentemente metaletteraria questa di Sabino Caronia che assume il citazionismo e l’incastro delle citazioni quale strategia di oggettivazione del testo, un testo privo di plot e privo di «storia», con un “io” che divaga intervenendo di quando in quando quando il non-autore lo ritiene opportuno; testo che si affida alla citazione e alla auto citazione come ultimo salvagente della narrazione prima del tramonto definitivo della narrazione in tempi di post-moderno sospinto.
Come noto, il metaletterario non si accompagna mai a un genere preciso, ma usa un qualsiasi genere per i propri fini, spesso parodiandolo e truccandolo (ad esempio, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino). Tuttavia, si può sostenere, a ragion veduta, che il metaletterario oggi preferisca i generi narrativi con esclusione della poesia lirica e post-lirica nelle quali la scrittura è indirizzata all’urgenza della indagine introspettiva. Il metaletterario narrativo invece accudisce l’oggettività del testo, mira ad eleggere come sede privilegiata la narrativa di fantasia, è antirealistico e iperrealistico insieme; così avviene per paradosso che la narrativa realistica oggi sospinge la narrativa meta letteraria agli spazi limitrofi (prefazioni, postfazioni, le introduzioni originali), metà dentro e metà fuori dal testo, in ripostigli, nicchie, cantucci riservati alla «voce» diretta dell’autore e alle esigenze autoriali di dover spiegare le ragioni che lo hanno spinto ad una narrativa metaletteraria.
La probabilità di riscontrare il metaletterario nella narrativa è in rapporto direttamente proporzionale con il livello di travestimento (Einkleidung) e di seriosità del testo, ovvero, quanto più si riscontrino nel testo elementi che ne fanno un testo affetto da «secondarietà», non «originario», non «autentico», e l’autore si avverta come «postumo», «epigonico» «laterale». Il metaletterario nella narrativa si presenta così come una conseguenza diretta di una situazione storica che destina tutti gli scrittori consapevoli della crisi della autorialità alla condizione dell’epigonato.
Se la letteratura delle origini, infatti, ha necessariamente un carattere fondativo, e quindi strumentale alla fondazione di uno Stato, di un popolo (vedi i Promessi sposi), nella post-modernità la letteratura diventa sempre più smaliziata, (auto)critica, (auto)riflessiva, scettica, revulsiva, rivolge il proprio sguardo indagatore verso se stessa, pone la questione della propria legittimità, sente il dovere di dover giustificare la «mancanza» di una storia veritiera contenente un plot con dei personaggi positivi e/o negativi. Con l’eclisse del romanzo di formazione e di quello dis-formistico (vedi Il nome della rosa del 1980 di Umberto Eco), la narrativa contemporanea più avvertita pone se stessa sul tavolo autoptico, è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis/connessi, di ricordi come cicatrici, scrittura introvertita, ipoveritativa, citazionista, razionale e schizoide insieme (e forse); letteratura della crisi dunque, narrativa che oscilla tra un iper e un ipo, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi; una scrittura che ha rinunciato alle categorie tradizionali della linearità cronologica, dell’unità d’azione e del principio di causalità che erano alla base della narrativa della tradizione. Tutti elementi che si ritrovano in questo godibile anti o pseudo-romanzo di Sabino Caronia, che oscilla tra confusione e lucidità estrema, quasi che l’autore fosse stato colpito dalla sindrome otolitica* (di cui sembra essere affetta la premier Giorgia Meloni), cioè una «vertigine posizionale parossistica benigna» dicono gli otorini laringoiatri, il problema specifico degli otoliti i quali devono stare al buio e non riescono ad alzarsi dal letto. Sindrome che sembra attecchire l’homo sapiens quando dalla posizione orizzontale voglia raggiungere d’un colpo la posizione verticale. Questione di posizione verticale, dunque.

* Gli otoliti sono piccolissime concrezioni di ossalato di calcio inglobati in una matrice gelatinosa, contenuta nell’endolinfa dell’orecchio interno. Gli spostamenti degli otoliti, relativamente pesanti e che sono conseguenti a modificazioni della posizione della testa o ad accelerazioni lineari, possono provocare sensazioni statiche e di equilibrio. A volte possono staccarsi e viaggiare nei canali semicircolari, provocando una patologia vertiginosa, detta vertigine parossistica posizionale benigna, o cupololitiasi o canalolitiasi.

(Giorgio Linguaglossa)

Laboratorio 30 marzo Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa, 1918, Roma

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1

Il momento della verità. Regia di Francesco Rosi.

1965.
È una grigia giornata d’autunno.
Scorrono sullo schermo le immagini del film.
Nella Spagna di Franco, Miguel, giovane contadino andaluso, per sfuggire alla miseria, parte alla volta di Barcellona.
Lì, in un primo tempo, per mantenersi, trova lavoro come manovale, ma poi, insoddisfatto di quella vita e affascinato dalla corrida, riesce, dopo molti sforzi, a farsi notare da un famoso impresario e ad affermarsi come torero.
Il suo destino non sarà lieto.
Il momento della verità.
È stato Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio a rendere celebre quella espressione.
El momento de la verdad è il momento in cui il matador si appresta ad uccidere il toro.
Solo allora gli è concesso di guardare finalmente in
faccia il proprio destino.
C’è un punto preciso da tenere presente al momento di uccidere il toro.
Quel punto si chiama cruz.
«Cruz: la croce. Il punto in cui la linea della cima delle scapole del toro incrocia la spina dorsale. Il punto in cui la spada dovrebbe penetrare se il matador uccide alla perfezione. La cruz è anche l’incrocio del braccio che tiene la spada col braccio che regge la muleta abbassata quando il matador dà il colpo. Si dice che incrocia bene quando la sinistra manovra il panno in modo da muoverlo lentamente e bene, accentuando l’incrocio fatto con l’altro braccio e così liberandosi del toro mentre l’uomo segue la spada. Fernando Gomes, padre dei Gallos, pare sia stato il primo a notare che il torero che non incrocia in questo modo appartiene subito al diavolo. Un altro detto è quello che la prima volta che non si incrocia, significa il primo viaggio in ospedale».
Il momento della verità.
È il momento che ti passa davanti tutta la vita.
Prima o poi arriva per tutti.
Mi chiedo se forse non sia arrivato anche per me.
Gerusalemme.

Dalla terrazza dell’hotel Plaza guardo il campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione che
è posto proprio sulla cima del Monte degli Ulivi.
Poco distante è l’edicola ottagonale costruita come protezione della roccia su cui la tradizione ha creduto di riconoscere l’orma del piede destro di Gesù lasciata nel momento dell’ascesa al cielo.
Chi non ricorda il passo degli Atti degli Apostoli?
«Detto questo fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi
stavano guardando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due angeli in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo che lo avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato».
Quella cima verde di ulivi. Quella fuga verticale della collina.
Cosa ci insegna questo episodio della vita di Gesù?
Che non abbiamo qui la nostra casa. Che i luoghi e le persone di questa vita dobbiamo prepararci a lasciarli senza voltarci indietro. Che bisogna solo tendere decisi verso la vera patria.

È scritto:
«Chiunque guarda indietro mentre mette mano all’aratro è inadatto per il regno di Dio».
In Orfeo in paradiso  il protagonista, che non vuole rassegnarsi ad  accettare la morte della madre, deve
riconoscere alfine che è impossibile il recupero di quel passato dove tutto è accaduto ed è chiuso ormai
nella sua sorte già compiuta e inalterabile come in una peschiera:  «Quegli uomini 1898, in moto entro i
loro destini scontati, diventavano tranquilli oggetti di analisi: per loro tutto era fatto, e si poteva osservarli
senza tremare o sperare per loro. Solo Eva faceva eccezione: Eva, nella peschiera, era il pesce di cui gli interessava la voce».
Così scrive Luigi Santucci.
E così penso anch’io.
Gesù ascende al cielo.
Sembra di vederlo mentre naviga in quel felice silenzio, non avendo altro porto che il silenzio.

In L’infinito Giacomo Leopardi parla di «sovrumani silenzi» e di «infinito silenzio».
Padre Davide Maria Turoldo crede che per arrivare a Dio bisogna necessariamente attraversare il leopardiano deserto del negativo.
Scrive: «Di te s’infiamma questo cuore, / conchiglia ripiena della tua eco, / o infinito silenzio».
E nel suo commento ai Salmi dice chiaramente che oltre i «sovrumani silenzi» è l’«infinito silenzio» di
Dio.
Quale infinito ci salva?

Sono qui, di fronte al campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione.
Intanto scende la sera.
Ed ecco che mi decido ad andare via.
Quante volte nel tornare a casa, attraversando il giardino, mi sono fermato a sedere sulla mia solita
panchina!
Proprio come Max Brod.
Minuto, un po’ gobbo, faccia affilata, occhiali tondi, amava starsene seduto a lungo sulla sua prediletta panchina a respirare a pieni polmoni.
Nella sua casa di Tel Aviv, al numero 23 di Spinoza Street, erano conservati gli inediti di Kafka che ora
sono qui a Gerusalemme, alla Biblioteca Nazionale di Israele.
Un grandissimo piacere è stato per me poterli finalmente vedere.
Ecco le due pagine manoscritte per Il Castello.
Ecco il taccuino blu con gli esercizi di lingua ebraica che è firmato K.
In uno di quegli esercizi, affidatigli da Pua Ben Tuvim, è descritto in dettaglio, con lettere in stampatello, lo sciopero degli insegnanti di Gerusalemme nel 1922.
Dice: «Quegli insegnanti sono facili all’ira e difficili da accontentare».

Dunque scende la sera.
Prima è l’oro, l’oro che orla l’orizzonte, l’infiamma, è una striscia d’oro sempre più larga, come una corona reale posta sulla fronte della città, un vasto anello metallico, alla base, che diventa più morbido verso
l’alto, si sfuma, delicato, quasi fragile, come un merletto; poi quest’oro perde un istante il suo splendore,
diventa opaco, lancia violenti bagliori di rame e nel fondo, a poco a poco, si offusca e si spegne. Si direbbe che tutto sta per finire, come dopo una festa, ne restano solo dei residui, qualche striscia di nuvola, appena appena orlata d’oro. E invece improvvisamente tutto si riaccende e rivive. Ma ora, non è più oro che circonda l’orizzonte, e nemmeno rame: è una luce infinita che invade il cielo e anche la terra. Tutto diventa inconsistente, eterno. E questa luce resterà a lungo, la notte stessa ne sarà nutrita. Quando poi le stelle, come lanterne, verranno a prendere il loro posto nella volta del cielo, essa si fonderà con la volta del cielo negli strati insondabili e profondi.
Tutto è come nella celebre canzone di Naomi Shemer: «Gerusalemme d’oro, di rame e di luce…».

È scesa ormai la sera.
Anche la prima volta che sono giunto qui era di sera.
Shamai Street 12 c.
L’arrivo con lo sharut.
Il buio tutto intorno.
Sembrava come all’inizio de Il Castello: «Era tarda
sera quando K arrivò…».
Nel mondo di Kafka.
Se in America Kafka ha descritto l’America pur senza esserci mai stato, in Il Castello, almeno così io credo,
ha descritto Gerusalemme pur senza esserci mai stato.
Gerusalemme come Praga.
Ecco dunque: «Non era un vecchio maniero feudale, né un palazzo nuovo e sontuoso, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e molte case basse serrate l’una contro l’altra… una misera cittadina, una accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica, tranne quella di essere costruite in pietra… K. ricordò fugacemente il suo paese natale».
E ancora:

«… Vedeva davanti a sé il suo paese, e i ricordi che ne serbava gli si affollavano alla mente.
Anche là nella piazza principale c’era una chiesa, circondata in parte da un antico cimitero con un alto
muro di cinta. Pochissimi dei ragazzi del paese erano capaci di arrampicarsi su quel muro, e K non c’era
mai riuscito… Una mattina… era riuscito a salire con una facilità sorprendente… Quella vittoria gli aveva
dato l’impressione di una sicurezza che dovesse durare tutta la vita…».
La sua è un’attrazione fatale.
«Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?».
La stessa cosa è successa a me.

Quel viaggio era scritto da tempo nel mio destino.
Fin dall’infanzia avevo composto una tragedia intitolata Ponzio Pilato: «Quando le fosche tenebre /
guardie di tua persona…».
Era la ricerca del corpo di Cristo e insieme la ricerca della verità.
Considerando la questione della verità fin da allora mi interrogavo sul dialogo tra Pilato e Gesù.
Da un lato c’è Gesù che afferma «Io sono la verità».
Dall’altro c’è Pilato che chiede: «Che cos’è la verità?».
Pilato domanda.
Gesù non risponde.
Forse perché, come ha scritto sant’Agostino, la risposta era già nell’anagramma della domanda: «Est
vir qui adest».
Il cristiano, sappiamo, deve essere sempre dalla parte della verità.

Non a caso l’espressione cooperatores veritatis, tratta dalla terza lettera di san Giovanni, era il motto episcopale di Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI.
E in La moglie di Pilato di Gertrud von Le Fort al procuratore che domanda: «Un regno che non è di
questo mondo! Chi conosce un regno simile?» la moglie risponde: «Chi è dalla parte della verità».
Ponza terra d’esilio.
Il mito lega Pilato a Ponza.
Pilato e Ponza.
Quante volte a Terracina, in vista delle isole pontine, anche io, esule dalla vita, sono tornato a pormi l’eterna domanda di Pilato a Gesù!
«Che cos’è la verità?».
L’importante è credere che esiste comunque la verità.
Come Kafka che ha scritto: «Io sono molto ignorante, ma questo non significa che la verità non esista».
Del resto per lui la letteratura non era e non sarebbe stata sempre «una spedizione in cerca della verità?».
Forse Ponzio Pilato sono io.
Forse Ponzio Pilato siamo tutti noi.
E la sua è una domanda nella quale è in gioco il destino dell’intera umanità.

Giorgio Linguaglossa Aleph, Roma, 2017 Sabino Caronia

da sx: Giorgio Linguaglossa, Donatella Giancaspero, Franco Di Carlo e Sabino Caronia, 2017 Aleph, Roma

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2
Giù la testa. Regia di Sergio Leone. 1971.
La prima volta che ho visto quel film era al tempo del mio servizio militare a Siena.
Ripenso alla piazza del Campo sommersa dalla nebbia.
Ricordo l’ansia del dopo, il pensiero del prossimo matrimonio, gli interrogativi sul destino imminente. Rivedo nella memoria tutte le scene.
All’inizio c’è la citazione di Mao Tze Tung:

«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza».

Poi c’è Juan, il bandito messicano, che spiega a John, il rivoluzionario irlandese, cosa siano veramente le rivoluzioni: «Ci sono quelli che sanno leggere i libri, che vanno da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dicono: “È venuto il momento di cambiare tutto”. E la povera gente fa il cambiamento. Poi si siedono intorno a un tavolo e parlano e mangiano, parlano e mangiano. E intanto che cosa ne è stato della povera gente? Tutti morti. E lo sai cosa succede dopo? Niente. Tutto torna come prima».
Quindi c’è il gesto di John moribondo che restituisce a Juan la croce che quello si era strappata dal collo alla vista dei corpi dei figli uccisi, come a voler significare che la colpa della morte dei figli non è di Dio ma dello stesso Juan.
E infatti la colpa di Juan è di aver scelto la rivoluzione.
Lo dimostrano anche le ultime parole di John:
«Amico mio, che grossa fregatura che t’ho dato!»
È quello senza dubbio un momento memorabile.
Ma ciò che più rimane impresso è, alla conclusione della vicenda, il grido angosciato di Juan:
«E adesso io…?».

Come Juan dimostra col suo grido angosciato alla conclusione del film, ognuno di noi è alla ricerca del suo posto nel mondo.
William Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate scrive che la penna del poeta «dona all’aereo nulla un luogo e un nome».
Sembrano le parole del profeta Isaia: «Io darò loro nella mia casa e tra le mie mura, un monumento e un nome più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».
Un monumento e un nome.
Si chiama così, Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoà che è stato costruito sul versante occidentale del monte Herzl, il «Monte della Memoria» ovvero il «Monte del Ricordo».

Durante la mia visita ripensavo tra me alle parole del discorso tenuto in quel Mausoleo, l’11 maggio 16 2009, da papa Benedetto XVI: «“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”».
Questo passo, tratto dal Libro del profeta Isaia, offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato, yad -“memoriale”-, shem –“nome”-.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria di milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoà. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia sopravvissuti e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio onnipotente… Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo Memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome…
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei?».

Pensavo e osservavo il cono di fotografie che si alza verso la luce.
Eccolo davanti a me.
Le seicento foto si riflettono in un pozzo scavato in fondo alla roccia dove i volti sembrano improvvisamente dissolversi, ma questo effetto dura solo un attimo e basta alzare nuovamente lo sguardo per ritrovarli tutti, nitidi e incancellabili.
Ed ecco, con il cono di fotografie, il giardino dei Giusti. In un primo tempo c’erano gli alberi di carrubo, che fruttifica solo dopo settant’anni. Poi sono arrivati i muri con i nomi dei giusti. Tra i nomi riconosco quello del mio illustre consanguineo, il professor Giuseppe Caronia.
Ripeto le parole di Gesù:
«Tuttavia non rallegratevi perché gli spiriti vi sono soggetti; rallegratevi, piuttosto, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
La gioiosa aspettativa del genitore che attende la nascita di un figlio.
Ricordo bene la notte che mia figlia è nata.
Come potrei dimenticare l’ansia di quei momenti fatidici?
«Quale nome darò a questa figlia?» «Che ne sarà di lei?».
Ho riletto da poco Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati.
Era quello il racconto che quella notte avevo portato con me. Ho impresse ancora nella memoria le parole con cui inizia:

«È noto che il colonnello Sebastiano Procolo venne a stabilirsi in Valle di Fondo nella primavera del 1925. Lo zio Antonio Morro, morendo, gli aveva lasciato parte di una grandissima tenuta boschiva 18 a dieci chilometri dal paese. L’altra parte, molto più grande, era stata assegnata al figlio di un fratello morto dell’ufficiale: a Benvenuto Procolo, un ragazzo di dodici anni, orfano anche di madre, che viveva in un collegio privato non lontano da Fondo».

Ecco il reggimento che il colonnello Procolo, nell’imminenza della sua morte, vede sfilare nel bosco e che rimanda alla dimensione di eternità rappresentata dal susseguirsi delle generazioni:

«Egli guardava verso il fondo della valletta, donde si avanzava celermente una massa scura. Erano centinaia di uomini in ordinatissime file che marciavano a ritmo, con passi svelti e decisi, come se non procedessero sulla neve, ma sopra una bella strada fatta a regola d’arte… Il suo reggimento avanzava in meraviglioso ordine nonostante le accidentalità del terreno, la neve e la forte salita. Già egli distingueva le baionette scintillanti alla luce di luna e riconosceva, data la ferrea memoria, i soldati uno per uno… Con andamento trionfale, la magnifica schiera salì fino al colmo della valletta e s’internò senza rallentamenti tra gli abeti del Bosco Vecchio. Però i soldati continuarono a sfilare per lungo tempo.
Il Procolo stesso si meravigliò dapprima che il suo reggimento avesse assunto così formidabili proporzioni. Comunque ne trasse motivo di compiacimento. A un certo punto le baionette non scintillarono più perché era tramontata la luna.
La neve divenne livida.
I soldati apparvero neri, non si poteva più riconoscerli.
Ad oriente si poté distinguere qualcosa come una nuova debole luce.
Le stelle cominciavano a impallidire quando la sfilata cessò, e l’ultimo plotone fu inghiottito dalla foresta. La voce dei venti si spense, le bestie si ritirarono nelle tane e nei nidi, stanche morte per la notte bianca. Tutto restò silenzioso e tranquillo, aspettando che si levasse il sole».
Ecco, già prima, il dramma del tempo che scorre e della morte che avanza con lui:

«Egli sentì tutt’intorno il greve silenzio della vecchia casa, carico di enigmatiche risonanze, lasciò passare adagio il tempo, il tempo meraviglioso che s’ingrandisce d’ora in ora, inghiottendo senza pausa la vita, e accumula con pazienza gli anni, diventando sempre più immenso».

Ecco infine le parole di congedo che il vecchio vento Matteo rivolge a Benvenuto alla conclusione della vicenda:

«Tu domani sarai molto più forte, domani comincerà per te una nuova vita, ma non capirai più molte cose: non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti. Anche se io rimanessi, non potresti, di quello che dico, intendere più una parola. Udresti sì la mia voce, ma ti sembrerebbe un insignificante fruscio, rideresti anzi di queste cose. No, forse è meglio così, che ci separiamo al punto giusto».
Quanto tempo è passato da quel lontano pomeriggio di inverno a Siena in cui ho visto per la prima volta Giù la testa? Come allora mi interrogavo, così ancora mi interrogo.
«E adesso io…?».

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Questo duetto ci parla di qualche cosa che è il nulla, che è una gran cosa, e il miglior modo per dire qualcosa intorno ad esso è perorare una ermeneutica del nulla di che. Nel nulla si aprono gli spazi e gli abissi del niente, Tre componimenti di Giorgio Linguaglossa e Francesco Paolo Intini, “La notte è la tomba di dio” e “Rilevo da una stazione in orbita attorno a Urano”, La curiosity per l’abisso, gli abissi, il senso di panico, l’attrazione quasi erotica per la vertigine fine a se stessa etc. Tutto questo è ilinx

Gif Bergman Persona

gif, da un fotogramma di un film di Bergman

Giorgio Linguaglossa

La notte è la tomba di dio

“La notte è la tomba di dio e il giorno la cicatrice del dolore”.
V’erano scritte queste parole in alto, sopra la prima porta a destra.
Una voce risuonò nell’androne:
“Benvenuto nella galleria del dolore!”
Fu così che mi decisi. Ed entrai.

Un gendarme apre quella porta.
Ci sono tre vascelli con le vele spiegate
che un vento fuori cornice gonfia tumultuosamente.
Ma restano immobili.
Anche il mare crestato è immobile.
Ogni dettaglio è nitido e percettibile
come seppellito nell’ambra da un milione di anni-millimetri.

Un altro gendarme apre la seconda porta a destra.
C’è una colluttazione di ombre che entrano dentro altre ombre e ne escono.
Lottano furiosamente.

“Farsesca costipazione di ombre”, penso con tristezza.
Attraverso come a nuoto la stanza.
Apro una finestra.

C’è una statua bianca nella piazza deserta
portici risucchiati dal vuoto
pontili su un mare di basalto
città di cristallo.

A tentoni nel buio apro un’altra finestra.

C’è una torre in un cortile deserto.
Puoi udire il tonfo di una farfalla che cade dall’alto.
Il lucore fosforescente di una luna gialla posata sulla toga di un imperatore triste.

Apro una terza finestra.
C’è un calendario dal quale cadono i fogli, un orologio, una lapide sulla quale v’è inciso il mio nome e cognome e la mia data di nascita
Una scrittura annerita che gratto con l’unghia.
“Benvenuto nella cicatrice chiamata Terra”, c’è scritto.

L’angelo della nebbia piange in un angolo in ginocchio.
La notte profuma di tomba.
Anche la rugiada profuma di tomba.
La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.

(2013-2018)

Francesco Paolo Intini

Caro Germanico

Rilevo da una stazione in orbita attorno a Urano questa tua.

Non so in quale epoca sia stata scritta né quando sia giunta o chi l’abbia fatta recapitare ma i ragazzi che imparano l’alfabeto galattico già mentre succhiano il buon latte metallico ci avevano ricamato sopra alcuni graffiti del tutto immotivati e persino derisori.

Innanzitutto com’è facile intuire, per loro che non hanno mai vissuto un’alba, né assaggiato l’odore della terra fresca di rugiada non sanno la differenza tra giorno e notte.

Quel tuo titolo dunque è già senza significato.

È evidente infatti che qui Dio non è mai morto e vive invece ed è potente assai e tra Lui e il pilota dell’universo non c’è alcuna differenza.

Quale tomba infatti si può immaginare dietro al bagliore di una supernova che quando viene sorpresa in una zona remota, tutti si festeggia, per il carico di elementi fraterni che presto o tardi arriveranno come dono del suo ventre fertile?

Quali lapidi possono segnare il limite della luce che corre dentro al nulla?

Ma tu dici che queste parole erano scritte in alto sopra la prima porta a destra a indicare la via del dolore.

Nemmeno questo e quello che segue è tanto chiaro.
Da lungo tempo è scomparso dal linguaggio. Chip e meccanismi difettosi non creano alcun tipo di sofferenza poichè tutti sono facilmente e felicemente sostituibili.

Difficile far capire a un popolo di ragazzi virtuosi, felici e quasi immortali che malattie, discordie e guerre dilaniavano i loro ascendenti terrestri.

È bastato trovare l’equazione virtuosa per mettere tutti d’accordo e liberarsi di soldati e gendarmi e malfattori.

Il dettaglio dei tre velieri sospesi in un mare crestato di ambra però ha un certo valore e rende bene la fatica dei Colombo e umani nella lotta contro l’ignoto.

In quel vento spira la stesso soffio che permette di guardarci e sorridere e cooperare anche attorno al pianeta che rotola tra gli altri.

Un punto a tuo favore che ho dovuto far capire ai giovanotti con la matita virtuale all’orecchio, pronti a far di conto anche sulle galassie più estreme ma non a capire che c’è stata una storia prima di raggiungere l’equilibrio definitivo.

Cosa ne venga fuori da questa, è un retaggio dei mie cento e oltre che mi pare giusto criticare per le finestre che si aprono su tre mondi siderei, vicini al freddo estremo del silenzio.

È l’olfatto di un cane da tartufi che guida il mio istinto.
Di cosa si tratti, non so di preciso ma nella nebbia del bianco e nero mi pare di scorgere quella torre e quella statua bianca disputare se il calendario su cui è appuntato il tuo nome effettivamente sia un segnatempo.

Quale, se anche della storia vediamo le vestigia in ambra, sostituita da semplici segmenti?

Sulle stazioni orbitanti c’è chiara consapevolezza che gli elementi siano tutti uguali e dunque non si debba parlare di una molecola particolare come della più eccelsa e unica nel suo genere per aver dato origine alla vita.

Ci sono infatti metalli che fanno altrettanto, senza generare istinti sanguinari, privi completamente di idee di potenza e sentimenti ma obbedienti solamente alle leggi della cooperazione universale.

La cicatrice che tu scorgi, anch’io la vedo e ammiro lo splendore del riflesso prima di metterci piede, ma in essa pullula l’irrisolto, il mistero che condusse la molecola dell’uomo e delle forme simili alla disfatta finale e in modi indegni della più semplice operazione matematica.

I ragazzi ne cercano pazientemente la causa, rovistano tra le sue rovine e gli altri elementi che si sono infiltrati dentro o che il sesto elemento ha voluto con sé per le sue architravi fatiscenti.

Oh si grandi opere ha prodotto e noi stessi che ne siamo gli ultimi assemblaggi, sebbene in mille modi abbiamo accettato modifiche, potemmo ammirare l’immensa versatilità nel compiersi delle arti e dell’ industria, la bellezza e il trionfo sull’ignoranza e la superstizione.

Ciò non toglie che tanta sua aggressività nei confronti dei fratelli, unita alla volontà di assoggettarne le virtù si sia trasmessa alla sua opera umana e infine risolta in una rivolta di Catilina contro la Repubblica di Roma col risultato che tu mi racconti:

La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi e l’angelo della nebbia non può che piangerci sopra, impotente ancora una volta a farla brillare tra le altre stelle.

tuo affezionato

(Gneo Gaius Fabius) Continua a leggere

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Poesie di Stefano Torre, Il cercatore d’infinito, TRRSFN VENTIVENTITRE, opere a-figurative di Lucio Mayoor Tosi: frammento con rosso, composizione in acrilico 2020, e Marie Laure Colasson, la macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023, Osserviamo attentamente il quadro. Ecco che emerge una “macchia”, sul pavimento, all’angolo tra due pareti. Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona macchiata corrisponde allo spazio del non dicibile, che non può essere detto o che non può più essere detto perché caduto sotto il giogo della rimozione

La macchia gialla su verde, 20x20, acrilico 2023

Marie Laure Colasson, la macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023

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Osserviamo attentamente il quadro. Ecco che emerge una “macchia”, sul pavimento, all’angolo tra due pareti. Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona macchiata corrisponde allo spazio del non dicibile, ad un irriducibile che non può essere detto, che non può più essere detto perché caduto sotto il giogo della rimozione o perché è sfumato via sotto guisa di abreazione. Il punto/centro geometrale cartesiano è perduto perché abbiamo scoperto il valore del punto cieco grazie al quale vediamo. Vediamo grazie al punto cieco. Quello che emerge è iluogo dell’indicibile, di una angoscia dis-topica o di una felicità dis-topica che non può essere raffigurata se non da una macchia gialla dis-topica anch’essa, appunto il colore del pericolo. Quello è il luogo dove la «nuova poesia» e la «nuova figuralità» possono pescare-incontrare il linguaggio più appropriato, o forse sarebbe più esatto dire il linguaggio meno appropriato, quello che è stato dis-propriato dalla «nuova poesia» e dalla «nuova figuralità» che operano con una metodologia espropriante ed espropriativa. Ma cosa sia «appropriato» lo può decidere soltanto l’Altro, l’interlocutore, il pubblico, il lettore che sta all’esterno del quadro, colui che osserva la macchia gialla, non certo l’autore in quanto l’autore è diventato la presenza assente che si è dileguata, che non può più pesare e pensare le parole e le forme ma le «incontra», non può più pesare e pensare i colori e le loro macchie perché li «incontra», perché sia i colori che le parole e le macchie sono dinventati invisibili, ovvero, sono usciti fuori dal circolo della visibilità.

La definizione lacaniana dell’arte come «organizzazione del vuoto» è particolarmente idonea ad intendere questi nuovissimi “lavori” di Marie Laure Colasson e ci sollecita a riconsiderare la poiesis in modo diverso da come in anni anche recenti la si intendeva come retorica dell’inconscio. Il vuoto, che è la puntualizzazione dei “lavori” della Colasson, non è deducibile esclusivamente dalla dimensione semantica del linguaggio, il «vuoto» tende a debordare in «macchia». Ovvero, l’opera di poiesis è una organizzazione testuale, dotata di una propria densità semantica, che non dipende da un’organizzazione di significanti, ma da una organizzazione preposta ad un’alterità radicale, extrasignificante. La rappresentazione figurativa e poietica non è riducibile al funzionamento dell’inconscio, non è riducibile esclusivamente alla struttura del Significante/significato, e proprio questa irriducibilità la costituisce come luogo (vuoto) di scaturigine di ogni possibile rappresentazione.
Nella tesi lacaniana dell’arte come «organizzazione del vuoto», l’opera di poiesis definisce i bordi di una nuova percettibilità della coscienza, una percettibilità che esibisce una estraneità, una chiusura e ad una saldatura del «vuoto». Così, L’opera di poiesis, per la Colasson indica una esperienza che non evita né ottura, ma costeggia e borda il vuoto centrale della «Cosa», non significante né significantizzabile.

(giorgio linguaglossa)

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Stefano Torre

Il cercatore d’infinito

TRRSFN VENTIVENTITRE

Ed egli disse loro:

«Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

(Matteo 13, 52)

IL DODICESIMO

il dodicesimo era un traditore
della peggiore fatta del demonio
senza pudore e senza tema alcuna
baciò il Cristo per darlo in pasto ai cani

finì per impiccarsi ad un albero
dal quale penzola ancora a primavera
come un pupazzo di paglia malvestito
con la testa troppo grande e senza i piedi

e pare il pendolo di un orologio
che misura un tempo fuori scala
ed è oltre la montagna ed il mare
ove abita lo spirito di Dio

E BON!

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LA BATTAGLIA

vedo levarsi oltre il colle la guerra
stendardi e bagliori e tuoni scarlatti
ed ali spennate di angelo in volo
cadere giù per fracassarsi a terra

come galline di coccio in mille pezzi
e i pipistrelli a fare giravolte
nel fuoco di torbido cielo al napalm
cavar dalla gola urla non umane

ho visto il cuore gonfiarsi e dolere
fino a spaccarsi in due per sputare
la luce che ha dentro in faccia al nemico
come acido per sfigurarne il volto

E BON!

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LA VENDETTA

gridai con quanto avevo nei polmoni
la sete rabbiosa di vendetta
ma avevo acqua putrida nella gola
che uscì fuori fetida come vomito

e così rovinai il vestito buono
e la cravatta di seta regalo
degli amici per i miei cinquant’anni
e mille occhi mi stavano guardando

riparai poi in un bagno alla stazione
a togliermi di dosso quell’odore
che ti entra nel cuore come un veleno
per farlo nero come questa notte

E BON!

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LA RANA DI VELLUTO

sul davanzale d’arenaria gialla
la rana verde di velluto a coste
fatta con gli stracci dei pantaloni
buoni che portava mio padre

bruciava dal di dentro e si innalzava
come una palla piena di aria calda
ed era gonfia con la faccia stolta
di chi spende tempo a pedinar morte

esplose senza far rumore in aria
nel mezzo del cortile sparpagliando
ricordi bruciacchiati in pezzettini
come ritagli di giornale e fumo

E Bon!

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IL CERCATORE D’INFINITO

c’era una volta un cercatore d’oro
che muoveva montagne e setacciava
tutti i fiumi che scendono dalle alpi
e ne trovava tanto che era ricco

finché un dì gli parve di vedere
l’infinito riflettersi nell’acqua
e si mise a cercar soltanto quello
ché niente di più prezioso esisteva

vendette tutto quello che aveva
e s’immerse nel profondo della notte
per dare un nome ad ogni stella in cielo
e cercar quel che mai può possedere

E Bon!

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L’ASSUNTA

dentro al foro nel terreno nel quale
scompare la cascata che viene giù
dalle cime innevate anche d’estate
gorgoglia il mistero come una stufa

che può contenere tutte le stelle
rubandole al cielo per farlo nero
e ingoia la speranza come un gatto
che lascia i segni delle unghiate sulla

schiena di una strega ch’è legata alla
catasta di legna secca e che piange
turbata dalle miserie del mondo
e dal suo ventre colmo di Dio

E Bon!

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L’OMBRA

e l’ombra proiettata sull’asfalto
si staccò da terra e si alzò in piedi
era nera e vacua come il rimorso
d’aver ucciso i topi nel solaio

ma eran bestie vestite di stracci
razziatori di frumento affamati
con mogli e figli denutriti a casa
e il gelo che sfondava le finestre

poi l’ombra svanì come una brezza
lasciando l’aria amara da respirare
perché non c’è via verso il perdono
se non passare per un cuore affranto

E Bon!

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L’APOCALISSE

molto tempo fa incontrai un vecchio calvo
che stava mangiando bistecche di rana
pane di farina di cavallette
e nel bicchiere aveva sangue di bue

tutti comperati con la mastercard
al supermarket di via Calciati
in fronte ad ove si fanno scommesse
sopra il giorno della propria morte

si chiamava Giovanni e diceva
l’apocalisse è vicina come
la cassa per pagare la spesa
inesorabile destino d’ogni uomo

E Bon!

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LA CHIAVE

era vestito come maggiordomo
di nero col panciotto e la cravatta
ed aveva le chiavi del palazzo
pesanti come un masso nella tasca

il padrone di casa era severo
lento all’ira e facile al perdono
come chi sa cosa vuol dire amare
e lo fa senza fronzoli perversi

al servo suo regalò il martirio
ed il sentirsi davvero innamorato
mentre percorreva la stessa via
già calpestata dal Figlio dell’uomo

E Bon!

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LA PIENA

ho visto l’onda d’acqua della piena
quando ancora era molto lontana
e la ho aspettata senza fare nulla
stando in piedi sulla riva del fiume

come il manichino d’un vecchio postino
col berretto schiacciato sulla testa
e lo sguardo stupito del veggente
ben consapevole della mia sorte

e poi è arrivata e mi ha travolto
mi ha trascinato giù nei gorghi così
come le Moire avean stabilito
per scoprire che m’ero fatto pesce

E Bon!

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L’EPILOGO

non è scontata la vittoria dei buoni
all’epilogo di questa storia
in un tripudio di osanna dei santi
con fuochi d’artificio e bandiere al vento

il molosso è infine caduto
nelle fiamme del forno di Babele
senza togliere robustezza al Maligno
nell’orrido della sua malvagità

ma il nulla che avanza inesorabile
come un mantello sopra il Santo di Dio
par fermarsi davanti alla sua croce
mentre il cuore è prossimo all’infarto

e Bon!

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021
Lucio Mayoor Tosi, frammento con rosso, acrilico, 2021

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Stefano Torre è nato a Piacenza l’8 febbraio del 1965, poeta Realista Terminale, Astrofilo, Ex candidato Sindaco surreale, Soggetto clinicamente Distonico, in gioventù è stato campione di Subbuteo. Negli anni ’90 del secolo scorso ha introdotto in Italia l’argomento dell’inquinamento luminoso sulle pagine della rivista COELUM per la quale era redattore di una rubrica fissa. È docente di Web Design e comunicazione alla Accademia di belle arti Santa Giulia di Brescia e conduce una piccola azienda di web marketing della quale è amministratore. È membro del direttivo del Piccolo Museo della poesia di Piacenza. Nel 2023 un suo poema dal titolo: “L’ultima Preghiera” è stato insignito del premio speciale della giuria al concorso SAENAGALACTICA riservato alla letteratura fantascientifica.
Ha pubblicato le raccolte: Marinai e Poeti Sono Tutti Morti (1994), l’uovo di Lusurasco (1995) e Il Cristallino di Piombo (2020). Ha partecipato a numerose antologie e sue poesie sono state pubblicate da riviste italiane e straniere. Nel ’17 si è candidato Sindaco di Piacenza, con un programma elettorale basato sulla presa in giro della politica. Tra le sue stravaganti promesse, citiamo, fra tutte, quella del vulcano, ma anche il vinodotto per portare il vino nelle case, l’abolizione della morte con decreto sindacale e la dichiarazione di guerra alla vicina Parma, colpevole di aver rubato il formaggio piacentino ed avergli cambiato nome in parmigiano.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023 nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.Nel dicembre del 2023 pubblica il libro di poesia Mi sorrido Gratis. E altre anomalie.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Introduzione di Magda Vigilante al volume: Arturo Onofri, Nell’Inferno, PandiLettere Edizioni, 2021 pp. 72 € 10 – Una ermeneutica attraverso la sua narrativa

Arturo Onofri
Arturo Onofri è conosciuto soprattutto come poeta1, ma nella sua breve vita (Roma 1885-1928) scrisse volumi di carattere teorico2, critico letterario3, musicologico4 e numerosi racconti e prose composti in giovane età. Alcuni racconti furono editi su giornali dell’epoca, ma molti, rimasti inediti, sono conservati nell’archivio Arturo Onofri depositato presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Purtroppo la maggior parte di questi testi non è datata e quindi è difficile collocarli con esattezza nel percorso creativo dell’autore. Tuttavia dei tre racconti scelti5 i primi due sono datati 1907, e l’ultimo 1910. Risalgono quindi a una fase molto giovanile dell’autore e presentano un impianto di tipo tradizionale, ma i toni carichi di pathos e le immagini simboliche, l’ardito analogismo, presenti soprattutto nel terzo racconto, dal significativo titolo Nell’Inferno 6, appartengono a pieno titolo ai movimenti del Decadentismo e del Simbolismo che, alla fine dell’Ottocento, si opposero al Naturalismo e al Verismo dominanti. In seguito Onofri aderirà al Frammentismo Vociano componendo brevi prose liriche7 le quali evidenziano quanto egli sostiene in un articolo edito su “Lirica”, la rivista fondata da lui stesso nel 1912, dove scrive che «tra poesia e prosa non esistono separazioni decise» 5 dal momento che «debbono la loro effettuazione alle medesime facoltà espressive e anzi, alla stessa disposizione linguistica, musicale, stilistica ecc. la quale può variare indefinitamente per sfumature innumerevoli8 ». Inoltre, la concisa essenzialità del “frammento” riproduce in modo immediato nella scrittura le sensazioni che l’autore prova di fronte alla realtà circostante.

Il 1907, anno di composizione dei primi due racconti, occupa una posizione particolare nella vita di Onofri. Nel suo Abbozzo di una autobiografia dove egli applica una scansione settenaria degli anni sulla base degli insegnamenti dell’antroposofia steineriana alla quale aveva aderito, il 1907 è inserito nel IV settennio che va dal 1906 al 1912, ed è sottolineato due volte10. Nelle didascalie sotto la tabella degli anni, accanto al simbolo della doppia sottolineatura, si legge che l’anno 1907 appartiene agli anni definiti «creativo-laboriosi». In effetti in quest’anno Onofri pubblicò la sua opera prima, la raccolta di poesie Liriche dove trovarono compiuta sistemazione le poesie composte negli anni precedenti, ma nello stesso anno, egli si dedica anche alla composizione di prose, come si rileva dal primo racconto intitolato Il pollice esercitato, un vero e proprio divertissement che manifesta una componente ironica, destinata a scomparire quasi del tutto nella successiva produzione letteraria onofriana. Le idee a cui si riferisce il racconto non appartengono affatto al mondo iperuranio di Platone, ma sono delle dispettose piccole streghe che sembrano uscite da una favola. Il tono fiabesco perdurerà in alcuni testi successivi come, a dieci anni di distanza, nella prosa lirica Silfo12 dove compaiono lo spiritello dell’aria e la sua compagna, la silfide, che compiono giocosi vagabondaggi sulla terra. Tuttavia i due genietti, al pari delle minuscole streghe, sono considerati malefici nella mitologia germanica a cui appartengono. Persino nella tarda fase della produzione onofriana, nel 1925, una delle prose13, senza titolo, ma facente parte di una eterogenea raccolta denominata dall’autore Temi e non poemi14, sembra il proseguimento di Silfo. Stavolta però le creature fantastiche non suscitano più l’antica magia. «L’arcobaleno di ieri» si è lacerato in «mille fettucce» e la leggiadra silfide non seduce più lo gnomo. Il poeta non può ricreare quel mondo perduto, anche se riporta alla luce «la piccola figlia dell’aria». Deve ormai constatare che la mitica giovinezza è per sempre perduta. Con l’arrivo della maturità, egli si dedicherà alla ricerca di un’altra realtà, non effimera, ma spirituale, che si manifesterà nel ciclo lirico della Terrestrità del sole.

Tornando all’analisi del racconto, l’autore specifica che il vocabolo «idea» è usato dagli altri, mentre egli le considera piccoli esseri capricciosi che dovrebbero presiedere alla creazione artistica. L’artista tuttavia non può modellare la materia della sua opera se non esercitandosi assiduamente. È singolare che Onofri, il quale utilizzava le parole per comporre versi e prose, prenda in prestito per indicare in generale il lavoro artistico immagini tratte dalla scultura. L’esercizio necessario per la creazione è quindi metaforicamente compiuto dalle mani, in particolare dal «pollice esercitato», e non dal pensiero astratto. La materia su cui deve agire l’artista è la «creta», non ancora sufficientemente molle per essere lavorata. Anche Il sottotitolo del racconto (Sinfonia in minore) rinvia all’uso sapiente delle mani compiuto stavolta dal musicista. L’operazione rivela anche un riferimento biblico, a quando nel libro della Genesi «Il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vento; così l’uomo divenne un essere vivente15»

Del resto anche Gesù compie alcuni miracoli utilizzando la terra come nell’episodio del cieco nato16 al quale egli applica sugli occhi del fango mescolato alla saliva e gli comanda di andarsi a lavare nella piscina di Siloe dove l’uomo riacquista la vista. Sia la creazione dell’uomo, sia il dono della vista al cieco nato presuppongono un materiale terreno: la polvere nel primo caso, il fango nel secondo. La terra quindi è l’elemento base da cui prende origine la vita umana che non sarà però solo materiale, ma anche spirituale dal momento che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ugualmente la terra manipolata da Gesù diviene la luce del dono della vista per il cieco. In entrambi i casi il soffio vitale della creazione o il risanamento procedono dalla terra alla quale viene impressa l’orma divina.

Anche l’artista dovrà allora lavorare la “materia” della sua arte per farla divenire un’opera artistica riconosciuta come tale. Questa impresa mette a dura prova le sue capacità che non possono ottenere nulla se la materia non si lascia plasmare. Le piccole streghe, che rappresentano l’ispirazione, si divertono a fornire una modesta quantità di materia all’artista, illudendolo di poterla liberamente modellare. Le forze però non gli bastano, il futuro oggetto del suo lavoro è ancora troppo vasto per essere rinchiuso nel poco materiale a disposizione. Tuttavia l’artista, preso da rabbia, imprigiona i piccoli esseri dispettosi proprio nel materiale che deve lavorare. Allora essi cominciano a lamentarsi e a piangere ammorbidendolo. Così l’artista può compiere il suo lavoro a cui dedica le sue energie e liberare le “idee”. La materia cede, ma l’ispirazione che l’aveva permeata, fugge. A questo punto, però, con lei scompare anche il senso e lo scopo di quanto viene modellato. L’artista quindi non può fare a meno dell’ispirazione che, sola, può giustificare la creazione. Senza le piccole streghe, la creta divenuta molle non si trasforma più in un’opera significativa e rivelatrice dello spirito che abita l’uomo. Egli allora per creare l’opera deve trovare un difficile equilibrio tra un costante esercizio e la capricciosa ispirazione, che tende a sparire, ma senza la quale non si raggiunge lo scopo del lavoro che si compie. 12 13 Il successivo racconto I due, è centrato sul tema del “doppio” che ricorre, sotto le sembianze del gemello, del sosia, dell’alter ego nella letteratura fin dall’antichità classica, ma nell’immaginario collettivo è associato soprattutto al romanzo Lo strano caso del dottor Jekill e del signore Hyde di R. L. Stevenson17. Il “doppio” di Onofri non ha il carattere tragico dell’opera di Stevenson dove il dissidio interiore tra due aspetti diversi della personalità, rappresentati da due personaggi distinti, conduce alla catastrofe finale. Il racconto onofriano sembra, invece, avere in comune con il romanzo Kreisleriana: dolori musicali del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler di Hoffmann18 l’insofferenza verso la banale quotidianità borghese a cui l’autore tedesco oppone la vita eccezionale dell’artista, nella fattispecie quella del bizzarro musicista Giovanni Kreisler, alter ego dello stesso Hoffmann, mentre Onofri si sofferma in particolare nella critica alle convenzioni sociali imposte all’individuo, il quale subisce la costrizione di dover rivestire un ruolo, soffocando così il proprio vero io19. Egli assai presto provò fastidio verso istituzioni e riti sociali come rivelano alcuni appunti che risalgono, come è scritto dall’autore stesso, al periodo «(1899-1906) Dai 14 ai 21 anni»:

Senso di sollievo a uscir fuori finalmente dalla caserma. Spettacolo sempre doloroso della vita irreggimentata (come collegio, prima comunione, scuola ecc.). In precedenza Onofri aveva spiegato come sorpresi dalla pioggia, durante una battuta di caccia, lui e il padre si erano riparati in una caserma di carabinieri dove erano stati accolti con molta gentilezza. Quando era uscito dalla caserma, Onofri però aveva provato la sensazione descritta20

ARTURO+ONOFRI+-+NELL'INFERNO I Due reca la data «27/8/1907», anno nel quale Onofri ancora non conosceva il futuro poeta Giorgio Vigolo21, ma per una curiosa coincidenza pure il personaggio del suo racconto si chiama Giorgio e condivide con Vigolo l’insopprimibile desiderio di non volere aderire al modello di vita borghese, che pervaderà molti anni dopo il lungo racconto vigoliano Autobiografia immaginaria22 dove il protagonista, che è anche l’io narrante, vive con intensa drammaticità il contrasto tra una vita borghese e l’esistenza libera dell’artista. Invece il racconto onofriano è breve e inizia con un incontro definito dal narratore come «uno di quei fenomeni telepatici rimasti inesplicabili». Costui ha un caro amico di nome Giorgio che trascorre la maggior parte dell’anno in campagna e quindi è molto difficile incontrarlo in città. Ma ecco che, passando il narratore «per una via angusta e buia» della città, gli compare davanti l’amico a cui stava pensando proprio in quel momento. Fin dall’inizio quindi l’incontro non è casuale e ha un significato che si scoprirà durante la narrazione.

C’è infatti qualcosa di misterioso nell’amico che, apparentemente, ha il suo solito aspetto di uomo elegante e benvestito, che ha cura di sé, eppure egli appare come diminuito e diverso: «gli occhi sono spenti», la voce è particolarmente bassa e, nell’insieme, egli sembra trasognato e non presente a se stesso. Ma una voce vibrante di misteriosa provenienza afferma in modo sibillino: «Egli è me». Allarmato, il narratore si accorge allora che, accanto al suo amico, c’è «un’ombra di uomo». Quest’ombra in modo paradossale, pur ricordandolo, ha un aspetto molto più vitale del suo proprietario, il quale rivelerà all’amico esterrefatto, che è lei il vero Giorgio.

L’altro Giorgio, quello che crede di conoscere e con il quale sta parlando, non è che il suo essere “sociale” sottomesso a tutte le regole costrittive della società che annullano la personalità, rendendola conforme alla massa obbediente. Si evidenzia inoltre il contrasto tra natura (l’amico ha scelto di vivere in campagna) e città per il quale la seconda è la sede degli uomini automi, mentre a contatto con la natura l’uomo recupera il proprio essere naturale. In un appunto risalente al 191123, a proposito della vita cittadina, Onofri confessa:

«A Fiumicino con Fracchia febbraio 1911 ricerca della solitudine e della vastità. […] Sento tutto il malessere segreto al pensiero della città moderna in travaglio: solo la musica era un aiuto a liberarsi. Barlume della libertà suprema dell’anima seguire Iddio, essere Io (individuale)».

Sono già presenti in lui l’anelito dell’anima verso l’infinito e la volontà di esperire la sua vera essenza che lo condurranno in seguito a riconoscere nella antroposofia steineriana la direzione da seguire nella sua ricerca spirituale. Ora egli si limita a fuggire con un amico dalla città rumorosa e dalla sua folla febbrile in un volontario esilio.

Ancora 10 anni più tardi, la prosa lirica Senz’alba24 descrive una scena apocalittica dove il sole non sorge più a illuminare e riscaldare un paesaggio naturale degradato e l’umanità «ridotta a formicai di nani», «nelle metropoli di cemento illuminate a giorno», è costretta «al lavoro forzato di produrre un po’ di sole ora per ora». È significativo che Onofri per rappresentare tale catastrofe ambientale e umana non ricorra a stilemi naturalistici o veristi, ma proponga una visione fantastica e simbolica dove il sole scomparso può rappresentare l’eclissi dello Spirito, in un mondo desacralizzato25.

Nel racconto il falso Giorgio appare una specie di manichino elegantissimo, ma spento e senza vita, mentre il vero Giorgio presenta nell’abbigliamento non particolarmente curato, nei capelli scomposti e nel grande fascio di fiori silvestri che stringe al petto, la libera gioia di chi vive la sua autentica essenza. Al di là della facile e quasi ingenua rappresentazione dell’uno e dell’altro Giorgio, si manifesta quindi la misera condizione degli abitanti della città che nascondono sotto un aspetto esteriore accurato, la rigida fissità di automi. Alla richiesta dell’amico se tutti gli uomini abbiano, sebbene in modo inconsapevole, un essere autentico in sé, che li segue come ombra, il vero Giorgio afferma risolutamente che solo alcuni però si accorgono di questa presenza. Alla fine del racconto, il narratore scopre anche lui di avere l’ombra in cui si identifica la sua vera essenza, e si dispone a seguirla.

È interessante notare come Onofri ribalti il significato negativo che più tardi assumerà l’ombra nella psicoanalisi junghiana dove simboleggia le parti rimosse della personalità perché non confacenti all’educazione ricevuta in famiglia e nella società. Anche nella fiaba L’ombra26 di H.C. Andersen, che di solito non figura nelle edizioni per bambini, questa è una minacciosa presenza che a poco, a poco, si sostituisce al proprietario, rendendolo suo schiavo. È l’ombra infatti che, spacciandosi per l’essere umano, conquista la fama e il successo nella società, e giunge fino a diventare lo sposo della figlia del re. Invano l’uomo vuole smascherarla e farla imprigionare dai soldati i quali, osserva beffarda l’ombra, non gli crederanno mai. Nel racconto onofriano, invece, il simbolo dell’ombra rappresenta la vera natura dell’uomo e non le parti della personalità rimosse che, qualora non siano riconosciute e integrate, possono scatenare la nevrosi.

Durante gli anni della maturità, proseguendo nella conoscenza di se stesso, Onofri scriverà nella prosa Tripartizione27, risalente al 1921, che nella sua vita si alternano senza confondersi «tre periodi ideali» che non si integrano tra loro:

In un periodo io sono tutto senso e sentimento verso il mondo esteriore (arte = italianità) poi viene un periodo in cui sono tutto pensiero e meditazione filosofica e spirituale (teosofia = germanesimo), e infine un periodo nel quale io sono tutto azione, aggressività, volontà e disciplina (automortificazione = mondo slavo28).

Per superare tale «Trialismo spirituale faticosissimo» di sentimento, pensiero e volontà, egli ritiene che sia necessario un atto sintetico compiuto dalla sua volontà spirituale cosciente. Rispetto al semplice dualismo tra io vero e falso del racconto giovanile I due, Onofri è ora consapevole della maggiore complessità degli stati d’animo che attraversa, i quali possono essere equilibrati solo rivolgendosi alla propria fonte spirituale interiore. La vita, illuminata dallo spirito, troverà una corrispondenza nella sua nuova poesia dove «figure composte di suono d’anima» abitano i suoi versi come fossero «creature terrestri di carne e ossa». Egli infatti è convinto che l’umanità ospiti dentro di sé «un giuoco di tale figure di musica» che egli s’accinge a far risuonare nella propria lirica.

 Nel 1910 Onofri scrisse il lungo racconto Nell’Inferno29 e nello stesso tempo compose il romanzo Disamore30. I due testi, pur appartenendo a strutture formali diverse, narrano entrambi una passione amorosa nefasta e ossessiva con esiti espressivi diversi. Il racconto è infatti la trascrizione di un sogno, il più angoscioso, che assilla l’autore come egli stesso scrive in una nota sotto il titolo. Alla fine del racconto un’altra nota autografa afferma31: «Al ridestarmi da questo sogno io ero malato». In effetti il sogno nella sua cupezza trova un riscontro nell’infermità del corpo che, tuttavia, è anche una malattia dell’anima. L’atmosfera del testo è quindi dichiaratamente onirica e come tale presenta toni surreali, di indubbia modernità. Il romanzo, invece, vuole essere «un saggio di prosa poetica», dove si attui «un’arte sempre meno comune e volgare, […] più lirica, moderna, intima e individuale». In realtà la modernità è molto più presente nel racconto che non in Disamore che presenta toni d’indubbia influenza dannunziana, sebbene in immagini isolate l’autore riesca a raggiungere un tipo diverso di espressione artistica che già preannuncia i brevi frammenti poetici di Orchestrine. Comunque è un romanzo «atipico32» che dilata in un centinaio di pagine la lunga notte che vive il protagonista nella casa della sua amante, la quale è descritta secondo il topos decadente della donna bellissima, ma malefica

L’incontro tra i due amanti è preceduto da una serie di concitate riflessioni del protagonista che oscillano tra i due opposti poli di un agognato riscatto spirituale e dell’inevitabile prigionia a cui lo condanna il desiderio sessuale verso la donna. Quando egli raggiunge la donna nella sua casa, l’incessante conflitto continua a tormentarlo alternandosi in stati d’animo contraddittori. L’intero romanzo è caratterizzato dalla spietata e continua analisi psicologica del protagonista, il quale ama e odia la donna e tenta disperatamente di sottrarsi al suo fascino perverso che ella continua a esercitare su di lui. È interessante confrontare i due testi nelle analogie e nelle diversità che li contraddistinguono, nonostante il medesimo argomento trattato e la stessa unità di luogo e di tempo. Anche nel racconto infatti tutto si svolge in una notte e in uno stesso luogo, una squallida stanza che l’io narrante aveva affittato da una laida coppia di anziani. Infatti Onofri nella stesura del racconto, probabilmente precedente quella del romanzo, traduce in linguaggio narrativo immagini e situazioni scaturite dal suo inconscio, ma rielaborate secondo moduli decadenti, mentre nel romanzo egli rappresenta il suo intimo dissidio tra coscienza e istinto secondo canoni prestabiliti. Le differenti modalità che presiedono alla composizione dei due testi saranno quindi esaminate attraverso alcuni passaggi significativi33.

In D il protagonista mentre si reca dall’amante si ferma a contemplare Roma dall’alto:

«Mi ritrovai in alto, su uno dei sette colli. Di sotto si stendeva la città neghittosa tra le nebbie, ove lucevano a mala pena le pallide lampade. Ma i vapori non giunge vano neppure ai miei piedi34».

 Dopo la visione della città inerte, avvolta nelle nebbie, egli sente:

«Un acuto grido di stelle in un brano d’azzurro, e tutto un gridio di crescenti musiche sul mio capo dilatarsi in un respiro sempre più vasto, finché dell’intero firmamento pullulò un coro di gioconda rinnovazione35».

Alla città ridotta a una massa indistinta e scarsamente illuminata che giace in un sonno greve, si oppone l’armonia cosmica che per un breve istante lo avvolge e gli fa intravedere un mondo diverso, puro, dove non avranno più presa su di lui il «cerchio fascinatore» e «l’efficacia mortifera delle passioni». Nulla del genere in I dove l’io narrante vegetava in una «esasperata atonia» priva di ogni slancio spirituale, anzi rincasando, egli voleva sommergere nel sonno «un malessere indefinito» che lo perseguitava. Nel suburbio dove abitava le viuzze erano colme di melma e la bocca d’una taverna spalancava in uno sbadiglio le sue mascelle di pietra illuminate, attraenti come le fauci d’un mostro. Dall’Inferno emanavano odori graveolenti e clamori, e l’aroma inasprito del vino.

L’immagine vivida e umanizzata della taverna si staglia improvvisa, immergendo subito il racconto in un’atmosfera infernale nella quale la scrittura si avvale di arditi accostamenti e crea addirittura dei neologismi. Successivamente, infatti, il protagonista intravedeva dalle porte semichiuse di miserabili case «lembi d’Inferno pieni d’incanto per me che ne nutrivo la mia volontà imparadisatrice». Il nuovo verbo svela quindi come egli renda paradiso quel mondo infernale dal quale era molto attratto e in cui viveva senza alcuna volontà di uscirne fuori, ma con un piacere perverso. Anche i due vecchi locandieri che lo ospitavano sono descritti come i custodi di un antro infernale: lui un vecchio ubriacone che accoglieva l’ospite con il suo tanfo nauseabondo e l’assordante russare, lei una povera donnetta la cui «animula» non sembrava già più appartenere al mondo terreno.

Se il protagonista di D osserva dall’alto la città di cui la nebbia nasconde i possibili orrori, quello di I era completamente calato nella realtà cittadina di tetri suburbi dove egli aveva scelto di vivere. Tuttavia il verbo al passato del racconto, mentre nel romanzo è al presente, sembra indicare un’evoluzione del personaggio che in D vuole ribellarsi, a differenza di quello di I, a una esistenza opaca e sordida come gli infimi quartieri che è costretto ad attraversare per raggiungere più rapidamente la casa dell’amante. Tuttavia anche in D compare un elemento diabolico rappresentato da «due punti gialli, fosforici» che gli appaiono dalla cima delle scale. L’efficace sineddoche si riferisce a un gatto nero che tornerà in scena nella parte finale del romanzo. Ora «gli sguardi gialli» stralunati sembrano avvertire l’incauto visitatore di non oltrepassare la soglia, pena la morte dell’anima che rievoca l’Inferno dei dannati. Ma ormai l’uomo è completamente stregato e, mettendo a tacitare la sua coscienza, sale risolutamente le scale. Lo attende la sua amante, Eliana, descritta secondo il cliché della donna fatale:

«Eliana giaceva bocconi sul vasto letto. Avviluppata in veli cangianti serrati ai fianchi da una cintura azzurra, simili alla veste illusoria in cui l’aveva avvolta il mio credulo amore, con i capelli sciolti, in disordine […]36».

L’aspetto fisico della donna è caratterizzato nel corso della narrazione, da una sostanziale ambiguità: sparsi sul suo corpo pallido i capelli rossi sembrano «rivi di sangue», le «labbra di vampiro» si protendono in «baci ingordi», «il suo profumo, aspro e soave allo stesso tempo», si sprigiona da tutta «la sua carne affettuosa e perversa». Successivamente, in un crescendo di negatività, la donna si trasformerà nell’«idoletto informe d’una smania maledetta». L’uomo infatti osserva in modo spietato tutti i difetti della sua amante per mettere fine alla relazione. Ma il difetto maggiore della donna, verso la fine del romanzo, si rivela essere la sua sterilità:

«Non posso amarla. Ella è sterile. Fredda e sterile come un diamante è il suo corpo. Non posso amarla».

 In precedenza le aveva rimproverato l’incapacità di sentire l’anelito spirituale che è presente in ogni uomo: Ma per quale maledizione tu non puoi sentire nella vita d’una creatura umana tutta la solennità augusta del dio che vige in ogni nostro pensiero.

È significativo che l’elemento decisivo per abbandonare l’amante sia la sua sterilità per la quale ella si conferma essere la parte negativa dell’archetipo femminile della donna sposa e madre vigente in quell’epoca. L’attrazione fisica e sessuale che l’autore prova verso Eliana è percepita quindi come distruttiva e del tutto opposta all’amore vero che s’incarna invece, in una donna dalle qualità angeliche, in grado di fargli superare l’intima e tormentosa dicotomia tra richiamo dei sensi e purezza di sentimenti in cui egli si dibatte.

Giorgio_Linguaglossa_cover_Dopo_Il_NovecentoDel tutto diverso è l’incontro con la donna in I che avviene in modo molto inquietante. Dopo aver sentito con tedio le frasi sconnesse del vecchio che ricordava la scomparsa della figlia bellissima e il tragico assassinio del figlio in una rissa postribolare, il protagonista saliva a tentoni «la scaletta scricchiolante che conduceva alla soffittaccia del [suo] cuore». Egli amava, infatti, lo squallido alloggio che ha trovato nel misero quartiere popolato da un’umanità derelitta e scellerata. A differenza del personaggio di D, egli non voleva uscire dall’Inferno di luoghi e persone che morbosamente lo attraeva. Dovendo trasferire il materiale onirico nelle strutture narrative, Onofri accentua i suoni e le sensazioni provate dall’uomo: un freddo intenso gli faceva battere i denti, insonne, si girava e rigirava nel letto, mentre ascoltava i lugubri rintocchi di un campanile vicino. In un attimo di tregua concesso da un breve sogno gli appariva un paesaggio idilliaco nel quale avrebbe voluto sostare per sempre. Era solo un’illusione, però, che svaniva nel risveglio angoscioso durante il quale s’udiva un rumore ossessivo, un misterioso respiro di cui non comprendeva la provenienza. Tutta la descrizione che ha preceduto i segni inequivocabili di una presenza ancora invisibile, si è svolta secondo il classico repertorio di un racconto gotico che accresce la tensione fino allo svelamento dell’immagine finale: «Oh! Una gamba ignuda, sudicia ma bella, usciva di sotto al mio lettuccio basso. Orribile bellezza».

Egli per tutta la notte, fino all’alba, non aveva il coraggio di scoprire a chi appartenesse quella gamba che tuttavia continuava a contemplare. La sineddoche qui si riferisce al corpo della donna che gli suscitava insieme terrore e un’oscura attrazione. Nel racconto questa ambiguità che lo attanaglia è vissuta interamente sul piano fisico come se volesse superarla dilungandosi a osservare gli aspetti più ripugnanti di questo corpo femminile e convincersi quindi a respingerlo.

 «Mi fissava con grandi occhi da pazza che sorridevano di tra gli abbondanti capelli d’un colore di sangue coagulato che le piovevano intorno a grovigli: due mammelle pendule e smunte traboccavano dalla camicia lurida che mal le copriva il corpo macilento.»

La donna non sembrava possedere nessuna attrattiva, era un povero essere disfatto nei cui occhi brilla la fiamma della follia. Da notare che i suoi capelli rossi non evocano un’immagine di bellezza ma di morte, come accade per Eliana, la donna fatale del romanzo, la quale tuttavia conserva ancora dei tratti affascinanti. Nella trasposizione del sogno invece la donna condivideva la miseria e l’abbrutimento dell’ambiente e dei personaggi descritti in precedenza e trascinava inevitabilmente anche l’uomo in tale abisso di abiezione. Ella gli mostrava la lunga ferita che attraversava il suo ventre per fare in modo che l’uomo la riconoscesse come la sua sorellina. Non condannava l’atto criminoso, ma al contrario, confessava che se l’avesse colpita a morte, l’avrebbe amato di più.

Questa unione di eros e thanatos affascinava il protagonista e lo sospingeva a prendere in braccio la donna e a permetterle perfino di raggomitolarsi contro il suo petto, mentre l’adagiava sul letto. Un moto di commozione sembrava pervaderlo nel comprendere il terribile destino della donna, vittima consenziente di una relazione incestuosa. Tuttavia i singhiozzi in cui prorompeva non manifestavano un sentimento di pietà per la donna, ma la pena verso se stesso dal momento che egli ormai, al pari degli altri personaggi, era completamente abbrutito al punto di sentire che nella sua testa vuota non esisteva più lo spirito che si rivela nella coscienza umana. Egli avrebbe voluto protrarre il buio della notte che rispecchiava ormai quello della sua anima e cercava di occultare i raggi del sole velando i sudici vetri con il saio grigio che aveva trovato nella soffitta, appartenente alla donna. Ma non riusciva a impedire che il chiarore diffuso dalla finestra rivelasse un altro segno di abiezione: «un grande numero nero campeggiò sul tessuto dorato dei raggi: un terribile numero. Ella emise un grido straziante». Anche se non detto in modo esplicito il numero potrebbe riferirsi alla prigione in cui la donna è stata detenuta. Anche lei non si sottraeva quindi all’ignominia e alla colpa.

Dopo aver lasciato la donna addormentata, egli persistendo nella sua insensibilità, voleva accertarsi dalla vecchia, che il figlio Romeo fosse veramente morto e che il nome della figlia scomparsa fosse Ada. La donna che dormiva nella soffitta era in realtà la figlia dei due vecchi, ma egli non svelava il segreto, e quando tornava da lei che, ormai sveglia, lo chiamava con il nome di Romeo, si spacciava per il fratello morto e le rispondeva chiamandola a sua volta con il nome di Ada, consapevole di assumersi così attraverso la sua falsa identificazione anche le colpe di cui si era macchiato lo sciagurato fratello. Fin dall’inizio, con semplici domande, avrebbe potuto scoprire la vera identità della donna misteriosa che si era introdotta nel suo alloggio e sciogliere l’enigma, ma invece egli si era adattato alla orribile realtà che sfocerà in tragedia alla fine del racconto. Solo per un attimo, egli sperava che non fosse vero quanto gli avevano rivelato gli indizi, ma ben presto, certo della verità, non desisteva dall’ingannare la donna che ora gli sembrava molto attraente e che gli suscitava una insana passione a cui si abbandonava completamente.

Nel romanzo, invece, la situazione è capovolta e la bellezza di Eliana si trasforma nello spaventoso aspetto di un cadavere. D’altronde in precedenza, l’alcova dove si consumerà l’amplesso, era stata paragonata a un catafalco senza fiori. Infatti nel vano della stanza era un odore di morte, cui invano tentava di dissipare l’aria fresca della notte scemante. L’uomo aveva provato anche la fantasia di uccidere l’amante, la quale in seguito gli chiederà di farla morire, ma il desiderio di morte sembra essere più che altro un artificio retorico che serve a creare un’atmosfera mortifera intorno ai due amanti. Quando all’alba penetra finalmente la luce nella stanza, il corpo tanto desiderato della donna, che si è addormentata, assume improvvisamente «un lividore […] come per una nuova agonia, dopo la morte violenta», solo vagheggiata dai due amanti. La visione orribile spinge l’uomo ad abbandonare definitivamente l’amante, mentre la voce dell’anima lo ammonisce: «Consumata la lenta agonia della notte, risorgi senza letargo e senza fanatismo alla vita nuova40!».

Il contrasto tra la notte e l’alba simboleggia, infatti, il buio della torbida passione che è dissipato dalla luce dell’anima ritrovata. Al contrario, il racconto si avvia ormai al suo drammatico epilogo. Mentre la donna, nel suo delirio, lo chiamava amore e lo abbracciava convulsamente, dell’uomo sono descritte solo le sue angosciose sensazioni corporee. Rinunciando a ogni freno morale, egli poteva solo registrare delle reazioni estreme che non riguardavano però la sua coscienza.

«Mentre ella parlava, la mia testa girava attorno per la stanza; un’ubriachezza infame mi pulsava nelle tempie: avevo l’impressione d’esser preso in un grande vortice d’aria rotta e d’esser tratto verso il centro, rotando sempre più rapido.»

Diventava però consapevole di essersi ormai inabissato nell’Inferno, quel centro verso il quale egli precipitava, trascinato da una forza a cui non opponeva resistenza se non tentando una fuga disperata dall’abitazione. Ma la donna, in preda alla sua follia amorosa, lo inseguiva nella strada in mezzo all’infuriare della tempesta. S’inginocchiava addirittura ai suoi piedi nel fango, invocando la morte se lui l’avesse abbandonata. 36 37 Allora egli decideva di condividere la sua pazzia e, sollevandola da terra, la stringeva a sé in un fatale abbraccio. Come due fantasmi vagavano sotto la pioggia violenta e si fermavano sopra al fiume che scorreva sotto di loro, promettendo un «soffice letto d’oblio». Ma neppure la morte poteva concedere loro una tregua, perché essi sarebbero stati uniti per sempre nell’eternità. Un ultimo bacio suggellava il loro disperato e dannato legame mentre precipitavano nel vuoto. In termini junghiani la donna può rappresentare l’“ombra”, presente spesso nei sogni che, a differenza di quella del racconto I due, non è più l’“io” autentico ma, al contrario, simboleggia la parte oscura della psiche la quale, se assecondata, può condurre all’annientamento dell’“io”. Tuttavia il giovane Onofri esorcizza, attraverso la scrittura, non solo l’incubo notturno, ma anche l’ancora irrisolto conflitto tra desiderio della carne e monito della coscienza che potrebbe risultare letale41, sulla base di alcune carte d’archivio si sostiene che, nel 1904, il giovanissimo Onofri aveva provato l’idea del suicidio e poco era mancato che egli ponesse fine alla sua vita con una pistolettata. In D l’alter ego dell’autore sta compiendo un’evoluzione spirituale verso una nuova concezione dell’esistenza che non si limiti solo alla ricerca di un piacere definito da lui stesso «mortificante». Ma non sono ancora superati del tutto dubbi e ripensamenti che turbano il suo spirito. Mentre apre la porta della stanza e grida addio alla donna, tra le sue gambe s’insinua «vellutatamente» il gatto nero che, all’inizio, dalla cima delle scale, aveva cercato d’impedire in qualche modo il suo ingresso. L’uomo sosta comunque sul pianerottolo, sperando che l’amante lo richiami, ma quando rientra nella stanza appena lasciata, la trova tutta intenta a contemplare i suoi gioielli, frivola occupazione in cui l’aveva sorpresa all’inizio del loro incontro. Sul cuscino ancora caldo della sua presenza egli scorge il gatto nero, che vi si è insediato. L’animale ha ripreso la sua posizione privilegiata, soddisfatto che l’usurpatore si sia allontanato. Al ritorno dell’elemento diabolico rappresentato dal gatto, si contrappone una presenza angelica, simbolo della sua coscienza, che, corrucciata, rimprovera l’uomo per il suo persistere nell’inganno dei sensi: «Imbecille! Tu ci tornerai. Io lo so, che tu ci tornerai. Se non più da lei, certo da un’altra!42». Ma non avverrà così. Alla p. 1 della copia personale del romanzo Disamore, edito nel 1912, due anni più tardi dalla sua composizione, si legge infatti la nota autografa, successivamente cancellata, «Estinzione della mania. Notte circa.»

A conferma di quanto aveva scritto sulla fine della sua distruttiva relazione, nel 1913 egli conoscerà Beatrice Sinibaldi, la salvifica beatrix, il cui nome è doppiamente allusivo per Onofri, non solo perché è lo stesso nome della propria madre, ma anche perché, al pari della Beatrice dantesca, lo libererà dalle colpevoli passioni che tanto lo avevano tormentato. Nel 1916 sarà celebrato il loro matrimonio, che in seguito sarà allietato dalla nascita dei figli Fabrizio e Giorgio. Raggiunta la stabilità affettiva, Onofri si dedicherà alla ricerca spirituale che troverà compimento nella sua adesione all’an troposofia steineriana, particolarmente consona al suo temperamento mistico. Infatti Steiner aveva elaborato una “scienza dello spirito” secondo la sua definizione, per cui attraverso una rigorosa disciplina, ogni uomo è in grado di scoprire in sé la presenza divina, senza ricorrere alla mediazione delle strutture ecclesiastiche verso le quali, già in giovanissima età, Onofri aveva provato un’istintiva diffidenza.

(Magda Vigilante)
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1 Tra le opere poetiche di Onofri si ricorda il complesso ciclo lirico Terrestrità del sole in 7 volumi: Terrestrità del sole, Firenze, Vallecchi, 1927; Vincere il drago, Torino, Ribet. 1928. Postumi uscirono Simili a melodie rapprese in mondo Roma, Al tempio della fortuna, 1929; Zolla ritorna cosmo, Torino, Buratti, 1929; Suoni del Graal, Roma, Al tempio della fortuna, 1932; Aprirsi fiore, Torino, Gambino, 1935.
2 A. Onofri, Nuovo Rinascimento come arte dell’io, Bari, Laterza, 1925. In quest’opera Onofri divulga una nuova teoria dell’arte, ispirata alla dottrina antroposofica di Rudolf Steiner, alla quale egli aderì verso il 1917 e che è alla base del ciclo lirico Terrestrità del sole (1927- 1935).
3 In particolare si cita il volume A. Onofri, Le letture poetiche del Pascoli, con la prefazione di Emilio Cecchi, Bari, L’albero, 1953.
4 A. Onofri, Il Tristano di Richard Wagner, guida attraverso il poema e la musica, Milano, Bottega di Poesia, 1924.
5 I racconti sono conservati alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. GI /1a, 1b, 1e.
6 Il racconto è stato segnalato da A. Dolfi nel volume A. Onofri, Scritti musicali, Roma, Bulzoni, p.24, nota 41.
7 Saranno raccolte nel volume A. Onofri, Orchestrine, Napoli, Libreria della Diana, 1917.  
8 Cfr. A. Onofri, La libertà del verso, I «Lirica», (4 aprile 1912), p. 151.
9 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. G I/4.
10 Cfr. Michele Beraldo, Ritmo settennale e metamorfosi. Una lettura inedita della biografia del poeta Arturo Onofri in «Il Divano Morfologico», n. 3, (2000), pp. 39-47. L’articolo contiene anche le riproduzioni fotografiche di tabelle e diagrammi.  cit..
11 A. Onofri, Liriche, Roma, Vita letteraria, 1907.
12 Id., Orchestrine, cit., p.41.
13 Cfr. Magda Vigilante, Inediti di Arturo Onofri: Temi e non poemi, Alchimie, Caino re in «Galleria» XXXIX (maggio-agosto 1989), fasc. 2, p.121.
14 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2 Sez. GII/6. La sezione riunisce prose, frammenti poetici e alcune poesie che successivamente saranno pubblicate nel volume Terrestrità del sole. La loro data di composizione è compresa tra il dicembre 1924 e il gennaio 1925, in un brevissimo intervallo di tempo, durante il quale il poeta individuò i primi nuclei tematici da cui si sarebbe sviluppata la sua futura produzione teorica e poetica.
15 Genesi, 2,7 in La Bibbia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2001, p. 16.
16 Il Nuovo Testamento, Giovanni 9, 6-7, cit., p. 1105.
17 R.L. Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, in Romanzi e racconti, con una introduzione di E. Cecchi, Milano, Gherardo Casini Editore, 1987, pp. 209-278. 18 Traduzione di R. Pisaneschi, introduzione di C. Magris, Milano, Rizzoli, 1984.
18 Traduzione di >R. Pisaneschi, Intr. di Claudio Magris, Milano, Rizzoli, 1984.
19 Schumann intitolerà Kreisleriana l’opera 16, con riferimento al personaggio del romanzo di Hoffmann, un ciclo di pezzi per pianoforte composto nel 1838. Del resto il musicista era così attratto dal tema del “doppio” da designare aspetti diversi della sua personalità in ben tre figure ideali con i nomi dei quali firmava i suoi scritti: il Florestano, Eusebio e il Maestro Raro. Il primo rappresenta la sua natura fantastica e ardente, il secondo quella contemplativa e sognante, mentre il Maestro Raro si riferisce a Wieck, il suo maestro di musica rigido e pignolo, il quale contrastò a lungo il matrimonio della figlia Clara con il musicista.
20 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C. 2. Sez. G I/4c, c.4.
21 Secondo la testimonianza di Giorgio Vigolo la sua amicizia con Onofri si stabilì intorno al 1912.
22 Il racconto fu edito per la prima volta sulla rivista «Letteratura» III (gennaio 1939), 1, pp. 68-81.
23 Roma, Biblioteca nazionale centrale, Archivio Onofri, A.R.C.
  1. Sez. G I/4d, c.8. 17
24 Arturo Onofri, Senz’alba, in Orchestrine, cit, pp. 148-149.
25 Per tale interpretazione cfr. Giorgio Vigolo, Notizia criticobiografica premessa alla ristampa in un unico volume delle opere Orchestrine-Arioso, Venezia, Neri Pozza, 1959.
26 H.C. Andersen, L’ombra e altri racconti, Roma, Orecchio acerbo, 2005.
27 A. Onofri, Tripartizione, in Poesie e prose inedite (1920-1923), a cura di M. Vigilante, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, [1989], pp. 88-89.
28 La madre del poeta, Beatrice Shereider era di origine polacca.
29 In calce al racconto è trascritta la data «1910».
30 A. Onofri, Disamore, Roma, Edizione dell’autore, 1912. Nell’ultima pagina del romanzo è stampata l’indicazione Roma, 1910. Il romanzo era già apparso a puntate sulla rivista «Lirica».
31 A. Onofri, Nell’Inferno. Non sono citati i numeri delle carte del racconto perché non coincidono con le pagine edite.
32 Così lo definisce A. Dolfi nel volume da lei curato Arturo Onofri, Poesie edite e inedite (1900-1914), Ravenna, Longo editore, 1982, p. 24
33 D’ora in poi si indicherà con I il racconto e con D il romanzo.
34 D, p. 13. 35 Ibidem, p. 14.
35 – 36 – D, p. 26. 37 Ibidem, p. 112.
39 A.Onofri, Disamore, cit., pp. 78-79. 40 Ibidem, p. 108.
40 Ibidem, p. 108.
41 In M. Beraldo, op. cit., p.44
42 A. Onofri, Disamore, cit., p. 113. 43 Roma, Biblioteca nazionale centrale Archivio Onofri, A.R.C. 2. Sez. B V/1.

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Archiviato in narrativa

Poesia senza plot di Giuseppe Talia, Mimmo Pugliese, Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Ermeneutiche di Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023https://giorgiolinguaglossa.substack.com/p/eur-roma-nuvola-di-fuksas-domenica

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]

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Crisi del linguaggio mimetico

Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale e provinciale ha cessato di essere un prodotto culturale, fa a meno di ogni contenuto critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è diventata una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare. È una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani, una carboneria di officianti di una liturgia privata, una società di alchemici della parola…

«Benvenuti in tempi interessanti», è l’augurio in stile derisorio di Slavoj Žižek, il filosofo eclettico marxista il quale così continua:

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

Ecco, appunto,  Žižek coglie nel segno: manchiamo di libertà, il nostro linguaggio, la nostra immaginazione mancano di libertà. La top pop poesia, la poetry kitchen, la pseudo-soap poetry e la false flag-top picture parlano di ciò, della impossibilità del mondo attuale a vedersi riprodotto in una rappresentazione. Perché?

Perché per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia o della narrativa o della pittura.

L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.

I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…

È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.

Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto, “Faust chiama mefistofele per una metastasi”, dal titolo eloquente del libro di poesia diFrancesco Paolo Intini.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giuseppe Talia

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Le tasse in sWAp sono previste in pochissimi e specifici casi e di norma non superano i centesimi. Sono accettate tutte le valute esistenti e quelle che verranno.

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La fabbrica del mondo di sWAp utilizza esclusivamente metadati prodotti da nuove dimensioni.

(Tallia -16 settembre 2023)

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Crisi del plot e della poesia-racconto

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle suppellettili, delle sciorinature fatte passare per analisi psicologiche. Ma restano sciorinature senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia kitchen, come appare chiaro in questa composizione di Giuseppe Talia, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messi lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol e dopo Rotcko, a distanza di settanta anni da Warhol e da Rotcko. Paul Celan e Zbigniew Herbert del Rapporto dalla città assediata (1983) sono ancora poeti del modernismo. Invece, la poesia italiana dagli anni sessanta ad oggi si ostina a fare del plot, del racconto. Mi chiedo: che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o di “un “passaporto sWAp”.

Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità di fare della poesia-racconto, di fare racconti in poesia, non ha ancora preso atto che oggi i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto, magari in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, perché non c’è nulla da raccontare che non sia già stato narrato dai media, la poiesis deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace la poesia di Giuseppe Talia, di Vincenzo Petronelli, di Mimmo Pugliese, di Nunzia Binetti e degli altri autori kitchen, anche loro aborriscono il racconto. I loro avatar, i loro sosia io li leggo in versione pop, come una versione della fine della storia, della fine dell’umanesimo, del modernismo e del post-modernismo.

(Marie Laure Colasson) Continua a leggere

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Tra Roma e Praga, Antologia di poesia in onore di Angelo Maria Ripellino, GSE Edizioni, 2023, pp. 100 € 16.00 a cura di Kateřina Di Paola Zoufalová, poesie di Antonio Sagredo, Filadelfo Giuliano, Jana Sovová, Marcel Sauer, Kateřina Di Paola Zoufalová

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]
.

Questo modesto volumetto di poesie costituisce una sorta di “incontro”, forse non del tutto casuale, tra nove poeti, un pittore e una traduttrice che vivono tra l’Italia e la Repubblica Ceca, desiderosi di esprimere un omaggio al grande poeta Angelo Maria Ripellino, studioso, maggiore slavista italiano, eccellente conoscitore e amante della cultura boema, del quale il 4 dicembre 2023 cade il centenario della nascita. È un incontro di poeti voluto da Kateřina Di Paola Zoufalová, Presidente dell’Associazione Praga che da più di 20 anni opera a Roma per promuovere e far conoscere in Italia la cultura ceca, e da Andrea Louis Ballardini, Presidente dell’Associazione Lucerna di Bologna che persegue lo stesso scopo. Tutti gli autori hanno collaborato al volume consapevoli della grande importanza del poeta e studioso Ripellino, che ha contribuito con passione e genialità alla conoscenza della cultura mitteleuropea, e non soltanto in Italia. Tra i libri da lui pubblicati spicca il saggio-romanzo Praga magica, edito da Einaudi nel 1973, che si presenta come una guida alla “capitale magica d’Europa”. Nella sua recensione a quel testo Claudio Magris, noto germanista e anch’egli profondo conoscitore della Mitteleuropa, affermò che «con gusto ardimentoso ed enciclopedico Ripellino passa in rassegna una folla di persone, luoghi, libri, ombre, edifici, relitti, echi e bagliori della civiltà praghese». Elaborare quel saggio fu per A.M. Ripellino anche “terapeutico”. Dopo i drammatici eventi dell’agosto ’68 il visto per la Cecoslovacchia non gli venne più concesso. Non gli restava che sognare di poterci tornare, tanto che scrisse: «Certo che vi ritornerò. In una bettola di Malá Strana, ombre della mia giovinezza, stappate una bottiglia di Mělník. Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi»1 .
Per molti, ricorda l’italianista Alessandro Fo, Ripellino fu fondamentalmente uno slavista con un “debole” per la poesia. Perché in verità la poesia era per Ripellino il cuore e la fonte di ogni sua attività letteraria, anche quando il genere praticato era la saggistica o la corrispondenza giornalistica. Intervistato nel programma Ore 20, curato da Bruno Modugno e trasmesso dalla Rai il 9 marzo 1976, alla provocatoria domanda di Modugno «Perché la poesia oggi? Che c’entra la poesia oggi?», Ripellino, che morirà due anni dopo, rispose: «Io direi questo: che nonostante l’epoca sia così nera, così difficile, piena di falsi teologi, di ladroni, di monatti, la poesia non ha perduto il suo valore, la sua efficacia… Forse l’unica cosa che rimane ancora che possa trasformare il mondo, almeno illusoriamente – un ultimo miracolo che ci resta – è la poesia; anche per questo suo dono di avere gli occhi divaricati, di poter abbracciare diverse cose insieme… questo suo dono dell’analogia, della metafora, larga, che abbraccia l’universo. Ora, in un universo che tende a restringersi nella miseria e nel nulla, la poesia è appunto quest’unica meraviglia che cerca di abbracciarlo e di rendere viva l’unità del mondo» .

1. Ripellino A.M., Praga magica, Einaudi 1973, p. 350.

(Kateřina Di Paola Zoufalová Roma, 17 settembre 2023)

Copertina Tra Roma e Praga (2)Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi e dal 1968 risiede a Roma. Le sue poesie sono state pubblicate in Spagna, Usa, Italia. A Zaragoza sono state pubblicate sue poesie scelte con il titolo Tortugas, Lola editorial, 1992, e Poemas, Lola editorial, 2001, alcune delle quali sono state riprese nelle riviste “Malvis” e “Turia”. Nel 2015 pubblica l’antologia bilingue Poems, Chelsea Editions di New York; nel 2016 Capricci, GSE, Roma, e nel 2019 La gorgiera e il delirio, Schena editore, Fasano. Ha curato le traduzioni di diversi poeti cechi, tra cui Otokar Březina, Vítězslav Nezval, Zbyněk Hejda, Ladislav Novák e Jiří Kolář, apparse in riviste letterarie italiane: L’ozio, Poesia, Metek e L’ombra delle Parole. In prosa ha pubblicato con GSE Il giardino, nel 2018, e l’Arrabbico, nel 2023.

Kajetanka

Oggi ho sorbito la mia razione
quotidiana di poesia
come un caffè:
aroma erano le parole
zucchero il sapore dei versi.

Ma nel bosco qui accanto
di querce e di betulle
perché i vecchi e le vecchie coi bambini
ogni giorno artigliavano gli alberi?

Sono come sogni appassiti nel tempo,
vetrosi recinti di pietra
che segano querce e betulle.

Ma i bambini frugano nel sottobosco,
i vecchi e le vecchie nel cimitero…
e cercano
e annusano se la prima larva
come la prima vita
si strema come una risacca!

(Praga, fine 1973)

.

Camera di Praga

Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… Il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questo sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi profeta!

Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di sé stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

.

Filadelfo Giuliano

Filadelfo Giuliano è nato a Catania. Ha insegnato a lungo materie letterarie a Vicenza. Oggi vive tra Vicenza e la Repubblica Ceca. In italiano ha pubblicato sei raccolte di poesie, l’ultima delle quali nel 2022 con il titolo Un’estate a Moterosso, due raccolte di racconti e due romanzi. Ha tradotto dal ceco La Nuova Europa di Tomáš Garrigue Masaryk, I ragazzi di velluto di Sheila Och, ed Eravamo in cinque di Karel Poláček.

Isole

Perché un uomo ha bisogno di un’Itaca?
Perché fingersi Ulisse e
pretendere, senza darne, fedeltà da Penelope e Calipso?
Ora che ti ho persa
cerco sulle carte il punto dove ti smarristi,
ma quale bussola può darmi oggi
le coordinate della tua assenza?

Attesa

Ti aspetto al caffè Slavia
per una cena in due.
Forse questa mia attesa appartiene al passato,
a una Praga che forse non c’è più.
Il tavolino è vuoto
e il cameriere mi guarda accigliato.
Non sei venuta,
ho visto invece il signor Nezval,
che mi ha detto
che le nostre vite sono come la notte e il giorno.

.

Jana Sovová

Jana Sovová (1966) ha studiato prima al liceo di Uničov, poi alla Cattedra di Boemistica presso l’Università Palacký di Olomouc e alle Cattedre di Studi Romanzi presso le Università di Olomouc e di Brno. Dal 1993 vive prevalentemente in Italia, dove lavora come lettrice di lingua e letteratura ceca. Occasionalmente traduce dall’italiano ed è coautrice di tre libri di ceco per stranieri. Nel 2018 la casa editrice Protimluv di Ostrava ha pubblicato la sua raccolta di poesia Příběhy.

Un piano perfetto

Di te qui mi rimane
una devastazione nel cuore,
una coperta stropicciata,
una valigia
e l’impasto della pizza,
da cui tutt’ora esala

l’impeto delle tue forti braccia.
Mi hai lasciata a mezzogiorno,
e posso facilmente dedurre
che la pennichella di quel giorno

te la sei fatta tra le braccia dell’altra.
Ma prima o poi ti metto nel sacco,
ormai ti conosco troppo bene:
in un tuo momento di debolezza,

ti verrà voglia di ricordare i vecchi tempi.
Con gioia ti inviterò a entrare
e, quando meno te l’aspetti,
ti soffocherò senza tante storie

con quella nostra coperta a frange.
Poi ti ricomporrò con dovizia
nella tua valigia nera,

ti seppellirò in un posto fuori mano
e ergerò a monumento
un impasto ben lievitato.
E poiché in fondo sono una brava ragazza,
farò poi sapere alla tua amata
dov’è che potrà andare
a piangerti.

(traduzione di Michele Perrone)

I preparativi

Per il viaggio scegli l’abito migliore
quello meno consumato

e speri che

speri sempre che

Ancora cerchi di aggrapparti
alla superficie liscia delle cose

ma si scivola

si slitta all’indietro

e giù

(traduzione dell’autrice)

Isonzo

Scappo Via da cosa
Scappo Non so
Scappo

(traduzione dell’autrice)

A Věra Holanová

Mi sono accomodata su una sedia a casa Sua,
una visita tardiva la mia,
e noi ci siamo mancate
di qualche decina di anni.

Mi sono accomodata qui e mi viene in mente,
se Lei, Věra, fosse stata presente,
quando il Suo sposo prese a schiaffi
uno di quella lunga fila di coloro
che venivano a osservare da vicino
la clausura del poeta.

Dicono sia stato un gesto galante
in difesa di una bellissima signora,
che era stata colpita dal marito
davanti agli occhi di Vladimír.

Se Lei, Věra, fosse stata lì, presente,
mi viene ancora in mente se avesse una vaga idea
di chi a chi, come e per quale colpa.

E inoltre, Věra, mi perdoni, Le chiedo
come abbia potuto sopportare tutto questo
e cosa abbia provato dentro di sé.

(traduzione di Vincenzo Perrone)

.

Marcel Sauer

Marcel Sauer. È nato. Lavora come macchinista spirituale dei treni in ritardo. È allevatore. È precettore di seconda categoria di creature selvagge, un partecipante attivo al programma di fidelizzazione. Gestisce un museo di miniature, ma da molto tempo non riesce più a vedere quanto vi è esposto. È responsabile attivo dell’ufficio vendite di affari indifferibili. Risiede di frequente in altri mondi e spesso opera come diplomatico. Per esempio a Tokio. Per esempio a Roma. Era nella squadra della sala parto quando è venuto alla luce del mondo il programma satirico Česká soda. Ha mantenuto a lungo la capacità di percepire. Ha pubblicato per mezzo di diversi media. Anche su stampa. Per esempio, su Revolver Revue, il supplemento letterario di Respekt, e molti altri ancora. È cintura nera di Ki Aikido.

Roma I

Come ti chiami, domanda la città
ma subito si volta dall’altra parte
non aspetta
te
non aspetta
la tua risposta
lei sa
che non sarai, tra poco
e che incontrerà tra una settimana, tra anni, tra secoli
altri uomini, altri nomi, altri volti
Scivoleranno per le sue strade
e non saranno

Forse un giorno tornerai
legionario
Forse ti manderanno lungo il fiume
Forse diverrai lupo
Prenderai un respiro e allatterai i trovatelli
Come è giusto che sia

Su uno dei colli
In una delle sere
Su una delle rive
Alzerai la testa
e aprirai le braccia
Ti attaccherai al suo seno
Girerai
per un po’ ne diverrai parte
nel fiume fluttuerai
e ti eclisserai

Così è che va qui
l’orologio da molto si è arreso
il tempo corre solo
da spettacolino a spettacolo
e qualche volta torna
Fermati sbalordito
così è che le piace

Roma II

Siamo stati qui
direi
se non avessi paura di pronunciarlo

Ho vissuto qui
direi
se pensassi che fosse passato

Con te, con tutto questo, con tutti questi

Indivisibilmente carica
la Città sulla collina abbatte il mezzogiorno

Stappa il vino
e ricorda
le sere d’estate che ci sono state, una volta

Un giorno si accende
su ogni semaforo il verde
che non guasta nulla

Roma III

Ci conosceremo?
A volte di più
In qualche modo più a fondo
oltre quei
fugaci intrecci
oltre quelle notti

Sotto la superficie
ci sono altre superfici
sotto il profondo
il profondo più abissale
oltre la visuale
l’orizzonte più lontano

Ci conosceremo
Ci incontreremo ancora
Sarai ancora qui
Io sarò ancora qui
In questo tempo
In questo mondo
Su questo piroettante pianeta

Entrerò in te
e tu farai finta di niente
così ce ne sono già stati
così ce ne saranno

Te lo chiederò
Farai solo una smorfia
Ti toccherò
La prossima volta, forse

.

Kateřina Di Paola Zoufalová

Kateřina Di Paola Zoufalová vive a Roma dal 1980, dove all’Università La Sapienza ha studiato Lingue e Letterature Straniere Moderne. In seguito, ha conseguito gli studi post-laurea presso la SISS dell’Università degli Studi Roma Tre, specializzandosi in Didattica delle Lingue Straniere. Ha insegnato lingua e letteratura tedesca presso diversi licei linguistici di Roma e al Centro Ceco Roma ha tenuto corsi di lingua ceca. È socio fondatore dell’Associazione Praga, di cui è Presidente dal 2015. Nel 2010 ha fondato la Scuola Ceca Roma (il premio Gratias Agit 2022) di cui è tuttora direttrice. Nel 2016 le è stata conferita la Medaglia di 2° grado del Ministero dell’Istruzione, della Gioventù e dello Sport della Repubblica Ceca. Traduce poesia ceca in italiano. Con lo pseudonimo di Katerina Sagredo ha pubblicato una raccolta di poesie Variazioni su temi femminili, Petit Atelier, Praga 1992. Si occupa di bilinguismo e ha curato il libro Anime gemelle. Testimonianza sul valore del bilinguismo (ediz. italiana e ceca), GSE, Roma 2023.

Tevere

Ti distendi umile fiume.
Padre di gloria
e di fratelli più grandi

hai dominato tutto il mondo!
I centauri ancora una volta s’accoppiano
nel bosco di Anna Perenna.
E ti insegue Rainer Maria Rilke

per dare il suo biglietto a una baronessa.
Sulle tue rive un poeta sofferente
mi legge in latino i versi
di Orazio Flacco,

e per tanto tormento
s’è scheggiato il cristallo!
Gli angeli dal ponte
agitano furiosi le ali
per inaridire le mie lacrime.
E lancio ai gabbiani,
nelle acque senza requie,
le rose avvizzite
di un amore impossibile.

Loro

si libravano leggeri
celesti e rosa torno la lanterna
che dalla cupola maggiore
versava bagliori su tutta la città,
e ci divora eterna lei
e noi viventi…

Come penetrava il volto
quel putiferio di ali
mentre cadevano in un peccato eccelso…
di trattenere un po’ ancora,
e ancora la vostra mano e il punto,
e la distanza che misura l’ordine!

E m’allontanavo sotto gli archi
gremiti dei lamenti degli infermi,
e mi strappava a carne viva,
con invisibili artigli, la tristezza
di chi non ama abbastanza.

Tutto… tutto e ogni cosa
viene recisa da una vocina,
come da un affilato bisturi!

mammina… mammina… ti aspetto

Epilogo

Marcivano
come tronco senza linfa
le nostre vite
e sconce e incarnate
si mutavano
in radici di melo
inconsapevole.

E sui ghiacciai le ceneri
seminate tra farfalle arse.

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Lucio Mayoor Tosi, Mi sorrido gratis. E altre anomalie. Progetto Cultura, 2023 pag. 72 € 10. È una poesia ridotta agli ossi di seppia in termini moderni. Avvertenza ai lettori: all’interno di questo tipo di poesia non c’è niente, niente che valga la pena di essere annotata, è una poesia da non leggere, e che deve essere dimenticata subito dopo averla letta. È il modo totiano di albergare nel vuoto. Lettura di Marie Laure Colasson

tirannosauro 2

[immagine prodotta dalla AI su alcune parole di una poesia di Giorgio Linguaglossa]

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

La proclamazione che il linguaggio è in bilico

che la disinformatzia diventata una infrastruttura permanente dell’ideologia, ha prodotto guasti irreparabili al linguaggio. Questo l’Avatar di Lucio Tosi lo ha capito.

Le poesie di Lucio Mayoor Tosi sembrano scritte direttamente da una intelligenza artificiale che ha digerito un po’ di linguaggi scolapasta, linguaggi frigiderizzati e miniaturizzati. La AI ha drenato tutto il dionisiaco e l’elegiaco dai linguaggi-panettone della poesia elegiaca che va di moda oggi e che tanto piace al gusto ottimizzato delle massaie di Voghera. Sta di fatto che Tosi ce li restituisce come nuda impalcatura per parole isolate a voce sola, in mibemolle, allegro-non-cantabile, divise con ceramica isolante, parole isolazionate che stanno appese ai fili dello stenditoio condominiale: qui un calzino, qui una porta, un frigidaire, una maglietta scolorita, mollette in legno e in plastica, fettine di azzurro tra le lenzuola… qui ci trovi tutto il quotidiano ridotto ai minimalia con controfigura. La controfigura del linguaggio disinformatzizzato e mitridatizzato.

Offro castagne per cirri alla fonte. Duemila.
Alpini e gengivali.

J.M. Basquiat.
Natura morta con frutta e tabernacolo.
Bitter. Fotografia.

Certo, non si tratta di minimalismo, come una lettura superficiaria vorrebbe far credere, ma di un ultraismo (Tosi è un acceso tifoso juventino e un pacifista) portato alle estreme conseguenze. Così, il linguaggio portato alle estreme propaggini delle sue possibilità in-espressive rivela se stesso: l’incomunicabilità delle parole abbandonate a se stesse in obbedienza al dettato totiano. Anche il titolo del libro: «Mi sorrido gratis. E altre anomalie», non vuol dire assolutamente niente. È un linguaggio fitto di anomalie. E poi quel punto divisorio tra le due frasi (non finite), indica una precisa volizione: che tra le due frasi c’è una separazione, una scissione. Il punto indica un divieto, non un cominciamento né un ripiegamento ma un respingimento. Il punto è punto e basta, serve a interrompere lo scorrere superficiario del linguaggio, ad impedire che esso fuoriesca, trasbordi in tutte le direzioni. L’immagine in bianco e nero del fiore secco al posto della prefazione o della lettera dell’autore ai lettori è eloquente, ci vuole dire che tutto ciò che la poesia dirà è equivalente non agli ossi di seppia ma ad un fiore essiccato. Quello che è significativo in questa operazione è il procedimento condotto alle estreme conseguenze, che porta verso l’essiccazione del linguaggio ridotto alle parole prese in sé, il che contribuisce al dimagrimento massimo del linguaggio e delle sue facoltà locutorie, essendo la comunicazione lo statuto horribilis del linguaggio posto nello stato dinamico delle relazioni sociali, al quale Tosi replica con un linguaggio in stato di quiete, linguaggio appena uscito dal frizer del frigidaire. E la cover è quanto mai indicativa di questo stato di cose. Lo stato di cose esistenti è questo: non c’è via di uscita, non c’è alcuna Exit strategy. Tosi rimanda al mittente (cioè a se stesso) la stessa idea che vi possa essere una Exit strategy. La dicitura posta in cover: «Hai eliminato questo messaggio», è eloquente, non c’è bisogno di altre parole. Seguono le parole in verticale messe in cover:

emoticon di occhiali neri
Hai eliminato questo messaggio 19:26
Gentiluomo 19:47
Compratore 19:47
Freno 19:49
La parola era Canale 19:52
abbiamo perso 1952
(faccina colorata arancione)

È una poesia ridotta agli ossi di seppia in termini moderni. Avvertenza ai lettori: all’interno di questo tipo di poesia non c’è niente, niente che valga la pena di essere annotata, è una poesia da non leggere, e che deve essere dimenticata subito dopo averla letta. È il modo totiano di albergare nel vuoto. Un vuoto fatto di parole povere, semplici, finite, perché «nel finito c’è l’infinito» come asseriva Wittgenstein. È il modo totiano di attingere l’infinito. A bordo di una nuvola o di un autoveicolo, fa lo stesso. È il modo totiano di svuotare il mare con un secchiello.

(Marie Laure Colasson)

Lucio Mayoor Tosi
28 novembre 2023 alle 11:00

In musica, un trattino posto sotto la quarta linea del pentagramma corrisponde a un silenzio della durata di due quarti. Noi ci dobbiamo accontentare del punto di interruzione, quindi uno o più spazi di interlinea. Manca nella scrittura un segno di silenzio. E ci farebbe un gran bene, se non altro per poterci affrancare dal flusso modernista, tanto esposto alla demenza, ma tant’è. Non è bastato il distico, no, chi non riusciva a stare nella misura (propedeutica) si inventò il polittico; quindi ogni sorta di escamotage pur di tornare al verso libero, un po’ qui e un po’ là nel surrealismo europeo; ecco quindi i “compostaggi”, a volte auto remake (testi scritti due anni prima fanno la ricomparsa in testi aggiornati). Adesso – ma dov’è Talia? In fondo è sua l’idea – queste notizie dal “nuovo” mondo. Che significa? Che abbiamo bisogno di tracciare una distanza dal mondo per poterlo osservare, alla peggio indossare dei guanti. Ma il “prodotto” piacerà alla critica ancora in auge, o quello che ne è rimasto? (Chi se ne frega dei lettori). Forse no, ma possiamo sorprenderli questi critici. Ed ecco le scimmiette, per la prossima antologia Kitchen; che disegnerò volentieri (ma era una proposta che avevo già avanzato prima del dinosauro…).
Rispondo così all’apprezzamento di Alfonso Cataldi, che ringrazio con tutto il cuore: che io non c’entro nulla con questa messa in scena. Lo stesso Linguaglossa scrisse, anni fa, quando ancora mi ingegnavo per scrivere poesie, «Chi mai potrebbe scrivere come Lucio?». Figuriamoci adesso! Eppure la mia scrittura è perfettamente in linea con le premesse critiche avanzate da Giorgio. La critica marxista è sempre stata diffidente verso l’estetica, la critica marxista vuole contenuti; un tempo rivoluzionari, oggi progressisti. La democrazia, prese le distanze da Platone, è diventata democrazia americana, israeliana, perfino russa. Tra un po’ anche cinese. Siamo costretti a sostenere le loro continue guerre, magari parteggiare per una ricchezza anziché l’altra. Buona giornata. Oggi è il compleanno di Giorgio [28 november 2023]. Sono contento che si sia rimesso in salute. Non avevo dubbi, ha un’indole da guerriero… Antico romano, sebbene provenga dalle colonie. Antico romano è anche un mio verso, lasciato lì, in mezzo al nulla.

Al circolo dei defunti.
Uomo in bicicletta sotto la neve.
Pierrot Lunaire.
Veicoli per soldati FACCIAMO LA GUERRA, non l’amore.

Antico romano. Nuotatore in vasca tiepida. A capo di nulla.

«È vitello, spero ti piaccia.»

Da Mi sorrido gratis. E altre anomalie. Un titolo senza significato. Fantastico!

Lucio mayoor Tosi cover DefPoesie da Mi sorrido gratis. E altre anomalie.

1
Confusa, con geranio. Davanti al mare.
Pittori di venezie.

Mentre aspettiamo. E due chiedono la strada.
In South Dakota.

Prima, e coi denti rifatti.

Mio marito, davanti al ritratto
di Andy Warhol.

Separati in casa. La domestica.

Tra i semafori. E in piscina.

In posa tra volpi galline e gatti.
Prima che diventassi famosa.

Senza radici, appollaiata sul furgone,
ah ah ah! Oh, mi mancavi.

Cosa leggi?

Già fanno festa i tulipani
e Smetti di toccare all’impazzata.

Il sorriso del carceriere.

Arabi. Continua a leggere

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