Narrazione eminentemente metaletteraria questa di Sabino Caronia che assume il citazionismo e l’incastro delle citazioni quale strategia di oggettivazione del testo, un testo privo di plot e privo di «storia», con un “io” che divaga intervenendo di quando in quando quando il non-autore lo ritiene opportuno; testo che si affida alla citazione e alla auto citazione come ultimo salvagente della narrazione prima del tramonto definitivo della narrazione in tempi di post-moderno sospinto.
Come noto, il metaletterario non si accompagna mai a un genere preciso, ma usa un qualsiasi genere per i propri fini, spesso parodiandolo e truccandolo (ad esempio, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino). Tuttavia, si può sostenere, a ragion veduta, che il metaletterario oggi preferisca i generi narrativi con esclusione della poesia lirica e post-lirica nelle quali la scrittura è indirizzata all’urgenza della indagine introspettiva. Il metaletterario narrativo invece accudisce l’oggettività del testo, mira ad eleggere come sede privilegiata la narrativa di fantasia, è antirealistico e iperrealistico insieme; così avviene per paradosso che la narrativa realistica oggi sospinge la narrativa meta letteraria agli spazi limitrofi (prefazioni, postfazioni, le introduzioni originali), metà dentro e metà fuori dal testo, in ripostigli, nicchie, cantucci riservati alla «voce» diretta dell’autore e alle esigenze autoriali di dover spiegare le ragioni che lo hanno spinto ad una narrativa metaletteraria.
La probabilità di riscontrare il metaletterario nella narrativa è in rapporto direttamente proporzionale con il livello di travestimento (Einkleidung) e di seriosità del testo, ovvero, quanto più si riscontrino nel testo elementi che ne fanno un testo affetto da «secondarietà», non «originario», non «autentico», e l’autore si avverta come «postumo», «epigonico» «laterale». Il metaletterario nella narrativa si presenta così come una conseguenza diretta di una situazione storica che destina tutti gli scrittori consapevoli della crisi della autorialità alla condizione dell’epigonato.
Se la letteratura delle origini, infatti, ha necessariamente un carattere fondativo, e quindi strumentale alla fondazione di uno Stato, di un popolo (vedi i Promessi sposi), nella post-modernità la letteratura diventa sempre più smaliziata, (auto)critica, (auto)riflessiva, scettica, revulsiva, rivolge il proprio sguardo indagatore verso se stessa, pone la questione della propria legittimità, sente il dovere di dover giustificare la «mancanza» di una storia veritiera contenente un plot con dei personaggi positivi e/o negativi. Con l’eclisse del romanzo di formazione e di quello dis-formistico (vedi Il nome della rosa del 1980 di Umberto Eco), la narrativa contemporanea più avvertita pone se stessa sul tavolo autoptico, è costretta sulla difensiva per non soccombere del tutto alla autodistruzione: è una scrittura ibrida, contaminata di pensieri dis/connessi, di ricordi come cicatrici, scrittura introvertita, ipoveritativa, citazionista, razionale e schizoide insieme (e forse); letteratura della crisi dunque, narrativa che oscilla tra un iper e un ipo, che rispecchia e recepisce la crisi del mondo storico di oggi; una scrittura che ha rinunciato alle categorie tradizionali della linearità cronologica, dell’unità d’azione e del principio di causalità che erano alla base della narrativa della tradizione. Tutti elementi che si ritrovano in questo godibile anti o pseudo-romanzo di Sabino Caronia, che oscilla tra confusione e lucidità estrema, quasi che l’autore fosse stato colpito dalla sindrome otolitica* (di cui sembra essere affetta la premier Giorgia Meloni), cioè una «vertigine posizionale parossistica benigna» dicono gli otorini laringoiatri, il problema specifico degli otoliti i quali devono stare al buio e non riescono ad alzarsi dal letto. Sindrome che sembra attecchire l’homo sapiens quando dalla posizione orizzontale voglia raggiungere d’un colpo la posizione verticale. Questione di posizione verticale, dunque.
* Gli otoliti sono piccolissime concrezioni di ossalato di calcio inglobati in una matrice gelatinosa, contenuta nell’endolinfa dell’orecchio interno. Gli spostamenti degli otoliti, relativamente pesanti e che sono conseguenti a modificazioni della posizione della testa o ad accelerazioni lineari, possono provocare sensazioni statiche e di equilibrio. A volte possono staccarsi e viaggiare nei canali semicircolari, provocando una patologia vertiginosa, detta vertigine parossistica posizionale benigna, o cupololitiasi o canalolitiasi.
(Giorgio Linguaglossa)
Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa, 1918, Roma
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1
Il momento della verità. Regia di Francesco Rosi.
1965.
È una grigia giornata d’autunno.
Scorrono sullo schermo le immagini del film.
Nella Spagna di Franco, Miguel, giovane contadino andaluso, per sfuggire alla miseria, parte alla volta di Barcellona.
Lì, in un primo tempo, per mantenersi, trova lavoro come manovale, ma poi, insoddisfatto di quella vita e affascinato dalla corrida, riesce, dopo molti sforzi, a farsi notare da un famoso impresario e ad affermarsi come torero.
Il suo destino non sarà lieto.
Il momento della verità.
È stato Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio a rendere celebre quella espressione.
El momento de la verdad è il momento in cui il matador si appresta ad uccidere il toro.
Solo allora gli è concesso di guardare finalmente in
faccia il proprio destino.
C’è un punto preciso da tenere presente al momento di uccidere il toro.
Quel punto si chiama cruz.
«Cruz: la croce. Il punto in cui la linea della cima delle scapole del toro incrocia la spina dorsale. Il punto in cui la spada dovrebbe penetrare se il matador uccide alla perfezione. La cruz è anche l’incrocio del braccio che tiene la spada col braccio che regge la muleta abbassata quando il matador dà il colpo. Si dice che incrocia bene quando la sinistra manovra il panno in modo da muoverlo lentamente e bene, accentuando l’incrocio fatto con l’altro braccio e così liberandosi del toro mentre l’uomo segue la spada. Fernando Gomes, padre dei Gallos, pare sia stato il primo a notare che il torero che non incrocia in questo modo appartiene subito al diavolo. Un altro detto è quello che la prima volta che non si incrocia, significa il primo viaggio in ospedale».
Il momento della verità.
È il momento che ti passa davanti tutta la vita.
Prima o poi arriva per tutti.
Mi chiedo se forse non sia arrivato anche per me.
Gerusalemme.
Dalla terrazza dell’hotel Plaza guardo il campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione che
è posto proprio sulla cima del Monte degli Ulivi.
Poco distante è l’edicola ottagonale costruita come protezione della roccia su cui la tradizione ha creduto di riconoscere l’orma del piede destro di Gesù lasciata nel momento dell’ascesa al cielo.
Chi non ricorda il passo degli Atti degli Apostoli?
«Detto questo fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi
stavano guardando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due angeli in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo che lo avete visto andare in cielo”. Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato».
Quella cima verde di ulivi. Quella fuga verticale della collina.
Cosa ci insegna questo episodio della vita di Gesù?
Che non abbiamo qui la nostra casa. Che i luoghi e le persone di questa vita dobbiamo prepararci a lasciarli senza voltarci indietro. Che bisogna solo tendere decisi verso la vera patria.
È scritto:
«Chiunque guarda indietro mentre mette mano all’aratro è inadatto per il regno di Dio».
In Orfeo in paradiso il protagonista, che non vuole rassegnarsi ad accettare la morte della madre, deve
riconoscere alfine che è impossibile il recupero di quel passato dove tutto è accaduto ed è chiuso ormai
nella sua sorte già compiuta e inalterabile come in una peschiera: «Quegli uomini 1898, in moto entro i
loro destini scontati, diventavano tranquilli oggetti di analisi: per loro tutto era fatto, e si poteva osservarli
senza tremare o sperare per loro. Solo Eva faceva eccezione: Eva, nella peschiera, era il pesce di cui gli interessava la voce».
Così scrive Luigi Santucci.
E così penso anch’io.
Gesù ascende al cielo.
Sembra di vederlo mentre naviga in quel felice silenzio, non avendo altro porto che il silenzio.
In L’infinito Giacomo Leopardi parla di «sovrumani silenzi» e di «infinito silenzio».
Padre Davide Maria Turoldo crede che per arrivare a Dio bisogna necessariamente attraversare il leopardiano deserto del negativo.
Scrive: «Di te s’infiamma questo cuore, / conchiglia ripiena della tua eco, / o infinito silenzio».
E nel suo commento ai Salmi dice chiaramente che oltre i «sovrumani silenzi» è l’«infinito silenzio» di
Dio.
Quale infinito ci salva?
Sono qui, di fronte al campanile del monastero ortodosso russo dell’ascensione.
Intanto scende la sera.
Ed ecco che mi decido ad andare via.
Quante volte nel tornare a casa, attraversando il giardino, mi sono fermato a sedere sulla mia solita
panchina!
Proprio come Max Brod.
Minuto, un po’ gobbo, faccia affilata, occhiali tondi, amava starsene seduto a lungo sulla sua prediletta panchina a respirare a pieni polmoni.
Nella sua casa di Tel Aviv, al numero 23 di Spinoza Street, erano conservati gli inediti di Kafka che ora
sono qui a Gerusalemme, alla Biblioteca Nazionale di Israele.
Un grandissimo piacere è stato per me poterli finalmente vedere.
Ecco le due pagine manoscritte per Il Castello.
Ecco il taccuino blu con gli esercizi di lingua ebraica che è firmato K.
In uno di quegli esercizi, affidatigli da Pua Ben Tuvim, è descritto in dettaglio, con lettere in stampatello, lo sciopero degli insegnanti di Gerusalemme nel 1922.
Dice: «Quegli insegnanti sono facili all’ira e difficili da accontentare».
Dunque scende la sera.
Prima è l’oro, l’oro che orla l’orizzonte, l’infiamma, è una striscia d’oro sempre più larga, come una corona reale posta sulla fronte della città, un vasto anello metallico, alla base, che diventa più morbido verso
l’alto, si sfuma, delicato, quasi fragile, come un merletto; poi quest’oro perde un istante il suo splendore,
diventa opaco, lancia violenti bagliori di rame e nel fondo, a poco a poco, si offusca e si spegne. Si direbbe che tutto sta per finire, come dopo una festa, ne restano solo dei residui, qualche striscia di nuvola, appena appena orlata d’oro. E invece improvvisamente tutto si riaccende e rivive. Ma ora, non è più oro che circonda l’orizzonte, e nemmeno rame: è una luce infinita che invade il cielo e anche la terra. Tutto diventa inconsistente, eterno. E questa luce resterà a lungo, la notte stessa ne sarà nutrita. Quando poi le stelle, come lanterne, verranno a prendere il loro posto nella volta del cielo, essa si fonderà con la volta del cielo negli strati insondabili e profondi.
Tutto è come nella celebre canzone di Naomi Shemer: «Gerusalemme d’oro, di rame e di luce…».
È scesa ormai la sera.
Anche la prima volta che sono giunto qui era di sera.
Shamai Street 12 c.
L’arrivo con lo sharut.
Il buio tutto intorno.
Sembrava come all’inizio de Il Castello: «Era tarda
sera quando K arrivò…».
Nel mondo di Kafka.
Se in America Kafka ha descritto l’America pur senza esserci mai stato, in Il Castello, almeno così io credo,
ha descritto Gerusalemme pur senza esserci mai stato.
Gerusalemme come Praga.
Ecco dunque: «Non era un vecchio maniero feudale, né un palazzo nuovo e sontuoso, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e molte case basse serrate l’una contro l’altra… una misera cittadina, una accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica, tranne quella di essere costruite in pietra… K. ricordò fugacemente il suo paese natale».
E ancora:
«… Vedeva davanti a sé il suo paese, e i ricordi che ne serbava gli si affollavano alla mente.
Anche là nella piazza principale c’era una chiesa, circondata in parte da un antico cimitero con un alto
muro di cinta. Pochissimi dei ragazzi del paese erano capaci di arrampicarsi su quel muro, e K non c’era
mai riuscito… Una mattina… era riuscito a salire con una facilità sorprendente… Quella vittoria gli aveva
dato l’impressione di una sicurezza che dovesse durare tutta la vita…».
La sua è un’attrazione fatale.
«Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi?».
La stessa cosa è successa a me.
Quel viaggio era scritto da tempo nel mio destino.
Fin dall’infanzia avevo composto una tragedia intitolata Ponzio Pilato: «Quando le fosche tenebre /
guardie di tua persona…».
Era la ricerca del corpo di Cristo e insieme la ricerca della verità.
Considerando la questione della verità fin da allora mi interrogavo sul dialogo tra Pilato e Gesù.
Da un lato c’è Gesù che afferma «Io sono la verità».
Dall’altro c’è Pilato che chiede: «Che cos’è la verità?».
Pilato domanda.
Gesù non risponde.
Forse perché, come ha scritto sant’Agostino, la risposta era già nell’anagramma della domanda: «Est
vir qui adest».
Il cristiano, sappiamo, deve essere sempre dalla parte della verità.
Non a caso l’espressione cooperatores veritatis, tratta dalla terza lettera di san Giovanni, era il motto episcopale di Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI.
E in La moglie di Pilato di Gertrud von Le Fort al procuratore che domanda: «Un regno che non è di
questo mondo! Chi conosce un regno simile?» la moglie risponde: «Chi è dalla parte della verità».
Ponza terra d’esilio.
Il mito lega Pilato a Ponza.
Pilato e Ponza.
Quante volte a Terracina, in vista delle isole pontine, anche io, esule dalla vita, sono tornato a pormi l’eterna domanda di Pilato a Gesù!
«Che cos’è la verità?».
L’importante è credere che esiste comunque la verità.
Come Kafka che ha scritto: «Io sono molto ignorante, ma questo non significa che la verità non esista».
Del resto per lui la letteratura non era e non sarebbe stata sempre «una spedizione in cerca della verità?».
Forse Ponzio Pilato sono io.
Forse Ponzio Pilato siamo tutti noi.
E la sua è una domanda nella quale è in gioco il destino dell’intera umanità.
da sx: Giorgio Linguaglossa, Donatella Giancaspero, Franco Di Carlo e Sabino Caronia, 2017 Aleph, Roma
.
2
Giù la testa. Regia di Sergio Leone. 1971.
La prima volta che ho visto quel film era al tempo del mio servizio militare a Siena.
Ripenso alla piazza del Campo sommersa dalla nebbia.
Ricordo l’ansia del dopo, il pensiero del prossimo matrimonio, gli interrogativi sul destino imminente. Rivedo nella memoria tutte le scene.
All’inizio c’è la citazione di Mao Tze Tung:
«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza».
Poi c’è Juan, il bandito messicano, che spiega a John, il rivoluzionario irlandese, cosa siano veramente le rivoluzioni: «Ci sono quelli che sanno leggere i libri, che vanno da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dicono: “È venuto il momento di cambiare tutto”. E la povera gente fa il cambiamento. Poi si siedono intorno a un tavolo e parlano e mangiano, parlano e mangiano. E intanto che cosa ne è stato della povera gente? Tutti morti. E lo sai cosa succede dopo? Niente. Tutto torna come prima».
Quindi c’è il gesto di John moribondo che restituisce a Juan la croce che quello si era strappata dal collo alla vista dei corpi dei figli uccisi, come a voler significare che la colpa della morte dei figli non è di Dio ma dello stesso Juan.
E infatti la colpa di Juan è di aver scelto la rivoluzione.
Lo dimostrano anche le ultime parole di John:
«Amico mio, che grossa fregatura che t’ho dato!»
È quello senza dubbio un momento memorabile.
Ma ciò che più rimane impresso è, alla conclusione della vicenda, il grido angosciato di Juan:
«E adesso io…?».
Come Juan dimostra col suo grido angosciato alla conclusione del film, ognuno di noi è alla ricerca del suo posto nel mondo.
William Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate scrive che la penna del poeta «dona all’aereo nulla un luogo e un nome».
Sembrano le parole del profeta Isaia: «Io darò loro nella mia casa e tra le mie mura, un monumento e un nome più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».
Un monumento e un nome.
Si chiama così, Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoà che è stato costruito sul versante occidentale del monte Herzl, il «Monte della Memoria» ovvero il «Monte del Ricordo».
Durante la mia visita ripensavo tra me alle parole del discorso tenuto in quel Mausoleo, l’11 maggio 16 2009, da papa Benedetto XVI: «“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”».
Questo passo, tratto dal Libro del profeta Isaia, offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato, yad -“memoriale”-, shem –“nome”-.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria di milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoà. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia sopravvissuti e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio onnipotente… Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo Memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome…
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei?».
Pensavo e osservavo il cono di fotografie che si alza verso la luce.
Eccolo davanti a me.
Le seicento foto si riflettono in un pozzo scavato in fondo alla roccia dove i volti sembrano improvvisamente dissolversi, ma questo effetto dura solo un attimo e basta alzare nuovamente lo sguardo per ritrovarli tutti, nitidi e incancellabili.
Ed ecco, con il cono di fotografie, il giardino dei Giusti. In un primo tempo c’erano gli alberi di carrubo, che fruttifica solo dopo settant’anni. Poi sono arrivati i muri con i nomi dei giusti. Tra i nomi riconosco quello del mio illustre consanguineo, il professor Giuseppe Caronia.
Ripeto le parole di Gesù:
«Tuttavia non rallegratevi perché gli spiriti vi sono soggetti; rallegratevi, piuttosto, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
La gioiosa aspettativa del genitore che attende la nascita di un figlio.
Ricordo bene la notte che mia figlia è nata.
Come potrei dimenticare l’ansia di quei momenti fatidici?
«Quale nome darò a questa figlia?» «Che ne sarà di lei?».
Ho riletto da poco Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati.
Era quello il racconto che quella notte avevo portato con me. Ho impresse ancora nella memoria le parole con cui inizia:
«È noto che il colonnello Sebastiano Procolo venne a stabilirsi in Valle di Fondo nella primavera del 1925. Lo zio Antonio Morro, morendo, gli aveva lasciato parte di una grandissima tenuta boschiva 18 a dieci chilometri dal paese. L’altra parte, molto più grande, era stata assegnata al figlio di un fratello morto dell’ufficiale: a Benvenuto Procolo, un ragazzo di dodici anni, orfano anche di madre, che viveva in un collegio privato non lontano da Fondo».
Ecco il reggimento che il colonnello Procolo, nell’imminenza della sua morte, vede sfilare nel bosco e che rimanda alla dimensione di eternità rappresentata dal susseguirsi delle generazioni:
«Egli guardava verso il fondo della valletta, donde si avanzava celermente una massa scura. Erano centinaia di uomini in ordinatissime file che marciavano a ritmo, con passi svelti e decisi, come se non procedessero sulla neve, ma sopra una bella strada fatta a regola d’arte… Il suo reggimento avanzava in meraviglioso ordine nonostante le accidentalità del terreno, la neve e la forte salita. Già egli distingueva le baionette scintillanti alla luce di luna e riconosceva, data la ferrea memoria, i soldati uno per uno… Con andamento trionfale, la magnifica schiera salì fino al colmo della valletta e s’internò senza rallentamenti tra gli abeti del Bosco Vecchio. Però i soldati continuarono a sfilare per lungo tempo.
Il Procolo stesso si meravigliò dapprima che il suo reggimento avesse assunto così formidabili proporzioni. Comunque ne trasse motivo di compiacimento. A un certo punto le baionette non scintillarono più perché era tramontata la luna.
La neve divenne livida.
I soldati apparvero neri, non si poteva più riconoscerli.
Ad oriente si poté distinguere qualcosa come una nuova debole luce.
Le stelle cominciavano a impallidire quando la sfilata cessò, e l’ultimo plotone fu inghiottito dalla foresta. La voce dei venti si spense, le bestie si ritirarono nelle tane e nei nidi, stanche morte per la notte bianca. Tutto restò silenzioso e tranquillo, aspettando che si levasse il sole».
Ecco, già prima, il dramma del tempo che scorre e della morte che avanza con lui:
«Egli sentì tutt’intorno il greve silenzio della vecchia casa, carico di enigmatiche risonanze, lasciò passare adagio il tempo, il tempo meraviglioso che s’ingrandisce d’ora in ora, inghiottendo senza pausa la vita, e accumula con pazienza gli anni, diventando sempre più immenso».
Ecco infine le parole di congedo che il vecchio vento Matteo rivolge a Benvenuto alla conclusione della vicenda:
«Tu domani sarai molto più forte, domani comincerà per te una nuova vita, ma non capirai più molte cose: non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti. Anche se io rimanessi, non potresti, di quello che dico, intendere più una parola. Udresti sì la mia voce, ma ti sembrerebbe un insignificante fruscio, rideresti anzi di queste cose. No, forse è meglio così, che ci separiamo al punto giusto».
Quanto tempo è passato da quel lontano pomeriggio di inverno a Siena in cui ho visto per la prima volta Giù la testa? Come allora mi interrogavo, così ancora mi interrogo.
«E adesso io…?».