Sono Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra, il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle. Poesie inedite di Dino Villatico con una Lettera di Giorgio Linguaglossa: “L’io non è padrone in casa propria” Freud, Marie Laure Colasson, absence, 70×70, acrilico, 2024

Absence 70x70 acrilico 2024

(Marie Laure Colasson, Absence 70×70 cm acrilico, 2024)

Sono  Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra: il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle, e per anni sono vissuto con il terrore del rombo dei motori di un aereo. Dagli 8 ai 15 anni ho frequentato le scuole argentine (elementari e Colegio Nacional, il nostro liceo) a Bahía Blanca, Provincia di Buenos Aires, forse il periodo più felice della mia vita. L’apprendimento di un’altra lingua, lo spagnolo, mi aprì la mente all’esperienza di pensare in molte lingue. Devo a questa iniziazione l’attuale familiarità, più o meno stretta, con lo spagnolo, il francese, l’inglese, il tedesco, il greco, antico e moderno, il latino.  Tornata in Italia la mia famiglia, ho frequentato il liceo classico e poi l’Università, iscrivendomi in un primo tempo a Medicina, con l’intento di diventare psichiatra, ma traslocando ben presto a Lettere. L’Università di Roma, allora, era una fucina di idee e di sperimentalismo. Conobbi Federico Chabod, Nino Perrotta, Natalino Sapegno, Nino Borsellino, Aurelio Roncaglia, Bruno Migliorini, Ettore Paratore, Ugo Spirito, Gustavo Vinay (indimenticabile il suo corso su Abelardo ed Eloisa), Alberto Asor Rosa. Mi laureai con Sapegno redigendo una tesi su un poligrafo fiorentino del ‘500, Antonfrancesco Doni, ma relatore fu Nino Borsellino, che restò poi un caro amico, e correlatore fu Asor Rosa. Perfezionavo intanto i miei studi di pianoforte con Vera Gobbi-Belcredi e di composizione da autodidatta, ma, appena laureato, posto al bivio tra musica e letteratura, vinse la seconda. Non ho ancora raccolto in volume né i miei saggi letterari e musicali né i miei racconti (alcuni su riviste) né la maggior parte delle mie poesie, alcune uscite su Nuovi Argomenti e una raccolta dal titolo Ecografia di un Congedo presso Ladolfi, 2021, e un’altra, Paesaggio, nell’Edizione del Mediterraneo, 2020. Saggi musicologici in atti di convegni e riviste musicali. Affido talora scritti e riflessioni sul mio blog: Dionysos41 blog di Dino Villatico. Attualmente sono in pensione, e vivevo, fino al 2013, nel Parco di Veio, alle porte di Roma, in un sobborgo della cittadina di Sacrofano, Monte Caminetto. Mi sono poi trasferito a Fiano Romano, in una villetta in cima a una collina, in mezzo agli olivi, vista a ovest del Monte Soratte, a Est scorre tra verdi brughiere il fiume Tevere. Ma continuo a scrivere critica musicale e altri scritti di vario genere. Latino e greco non sono per me lingue morte, ma le lingue vive dei miei padri. Chiudo, perciò, questo breve promemoria con una citazione oraziana: Immortalia ne speres, monet annus et almum/   quae rapit hora diem.

me alla presentazione di un libro

Poesie inedite di Dino Villatico

Versi dettati da un sogno

Il tuo grido che lacera la gola
e non sai dirlo, questo è la poesia.
Il tuo pianto che soffoca il respiro,
e per dirlo ti manca la parola,
ma questo, ascolta, questo è la poesia.
La vita che ameresti raccontare,
e a cantarla non trovi la canzone:
questo, però, ti dice la tua Musa,
questo e non altro, questo è la poesia.

(Fiano Romano, 31 marzo 2024, Pasqua)

Discanto di un indecifrabile domani

1.

Sul treno Roma – Torino, 22 dicembre 2023

Una valanga dal riflesso vivo
del sole contro i vetri mi sommerge
mentre il treno declina la sua corsa:
so dove vado, ma non so da dove
sto tornando. Un ammasso d’incompiuti
progetti mi sopprime il pensiero,
per qualche brama che mi sopravvive
lo leggo sulle floreali facce
del mio passato di vagabondaggi
tra queste case, e sono silenziati
con le parole tutti i sentimenti.
La intravidi a vent’anni salvatrice
– non so da chi, né da che cosa – stinto
patriota di una patria immaginaria,
la mia storia, le mie montagne, il mio
evadere da casa, se Torino
mi apparve tutto questo, e anche dell’altro,
dopo il pellegrinaggio solitario
che m’apriva più mondi ma nessuno
davvero sconosciuto, e tutti estinti.
C’ero tornato con mio padre, che ora
mi vedevo dormire accanto, e il fiato
del suo respiro lo sentivo in aria
occupare la stanza, e udivo fosco
come russava, che toglieva il sonno,
figurandomi ormai tutta la notte
con gli occhi aperti a guardare il soffitto.
Aperti, anche, da nebbie di ricordi,
sempre gli stessi, d’incompiute larve,
di desideri che non hanno sbocco:
mi sgridava, mi sgrida sempre ancora
inesplicata la paura e l’ansia
dei ritorni. Non sembra una mia storia
ciò che mi accade, ma potrebbe forse
insinuarsi nel ristretto spazio
di un’immagine la sorpresa o il vizio
di una individuale coesistenza
di atti nefandi e di piacevolezze,
invece che la semplice e banale
inesistenza di un io che si vanta
singolare. Di quanti tu, di quanti
noi si coniuga il verbo dei contatti,
se nel cupo rimescolio di sguardi
uno solo non vedi, ed è il tuo occhio
che ostenti a testimone, anche di qualche
celata perversione. Riconduci
adesso la materia dei pensieri
all’unica materia che risalta:
il disegno pre-scritto dei discorsi,
l’appartenenza provvisoria e sciatta
delle parole. Fu Torino quella
che ti scrostò la patina d’infanzia,
gl’incontri, anche se transitori, fanno
meno chiasso di quanto supponevi,
ma non fu tuttavia da nessun’altra
patina che sentivi sovrapporsi
spogliato il cuore, e tanto meno il corpo.
Nemmeno in Via Cernaia, dove casto
restò il contatto, ma non il pensiero.
Se cedo all’elegia, è perché credo
che non sia elegia lo sforzo – vano,
certo, ma come potrei evitarlo? –
di scansare la commiserazione;
non è lamento la constatazione
d’inesistenza quando sei succhiato
dalle allettanti fauci del passato:
un tempo ch’è finito, non è tempo
che nel superbo e fatuo labirinto
del tuo cervello. Ma per tale niente
diventa un niente l’oggi, una memoria
perfino il fatto che lo stai vivendo.

2.

Torino, Caffè Lavazza, 24 dicembre 2023

L’emporio di parole si è svuotato:
nessuna voce, o sillaba, o sussurro,
racconta il mondo: che va per la strada
nascosta del non detto, e quando l’occhio
distingue la distanza tra lo sgorbio
ammutolito e il passo inascoltato
del tempo, il silenzioso insinuarsi
dell’insignificante, l’aspro morso
dell’accaduto, è troppo tardi ormai
per ammutire l’urlo di dolore,
per silenziare il graffio dell’artiglio
con cui l’inaspettato irrompe e toglie
il fiato alla Ragione; senza lingua,
e senza un quadro di riferimento,
la parola smarrisce la funzione
di parlare, declina il segno a muto
inefficiente rudere di un uomo,
di un bipede animale che ha distrutto
la differenza che lo distingueva
dalle altre specie, muto ormai per sempre,
ma capace di demolire il mondo,
per la spropositata, inane voglia
di dominarlo. Chi sa come, o quando,
vedremo sulla terra un animale
di questo più insipiente e più dannoso.

3.

Superga, 25 dicembre 2023

Guardo dalle terrazze di Superga,
nel giorno di Natale, la catena
poco innevata, in questo desolato
anno di guerre, e scarsità di piogge,
delle Alpi all’orizzonte; sotto un cielo
azzurro, qualche nuvola vagante,
fiocco di ovatta, sulla verde piana,
e guardo di fronte a me il Monviso,
e sotto, nella valle, tra le case,
serpeggiare a Torino il lungo nastro
del Po, l’acqua che nasce dal pendio
delle sue falde, il corso della Dora
Riparia e, più lontano, dello Stura;
immoto al sole, ai piedi della grande
basilica, contemplo la foschia
densa nella pianura, e guardo dopo
limpido il cielo sopra la mia testa.
Ma come sono giunto a questo istante,
e che tempo nel tempo inavvertito
delle montagne, i platani spogliati,
gli abeti verdi, i rami rinsecchiti
degli aceri e gli arbusti a primavera
colorati? Dall’ombra permanente
di questi mesi nasce numinoso
il muoversi del tempo, si presenta
una vita per chi l’aspetta. Morte
soltanto, per chi resta e sopravvive,
decide la misura di durata.

4.

Museo Egizio, 26 dicembre 2023

L’Olimpo è un desiderio inadempiuto
di cancellare dalla vita umana
ogni domani, farne un permanente
oggi, l’inafferrabile momento
che non ha inizio e che non si conclude.
Fosse il tempo dell’atomo, la parte
introvabile della percezione
di ciò che di una cosa fa una cosa

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Giorgio Linguaglossa, 2017

.

caro Dino Villatico,

la nuova ontologia estetica con le sue ultime propaggini della poetry kitchen è una poesia epifenomenica che viene dopo il diluvio storico del novecento. La dichiarata intenzione dei suoi autori è progettare, attuare una poesia da cui emerga, tra i propri caratteri distintivi, quello esplicito ed evidente, della «non-letteratura dell’io», del «mestiere del poeta isolato nella propria stanza», quanto una «pratica» che si acquisisce collettivamente in una “officina”, in una “bottega”, in un “ufficio” dove non si segue alcuno dei modelli letterari «correnti e consunti» del lontano novecento.. Vi sono in essa frammenti diaristici e autobiografici, sì, il viaggio, il quotidiano, la cronaca, l’attualità etc. ma conglomerato con il vettore fantasizzante, l’ultroneo, l’abnorme. tutto quello che ci era stato somministrato nel secondo novecento e in questi ultimi anni lo abbiamo lasciato alle ortiche, nel kitchen vi si trova, dicevo, l’ultroneo, l’abnorme, l’Estraneo, i sosia, gli avatar. Nella poetry kitchen salta agli occhi la portata innovativa, la forte impronta metapoetica e metalinguistica in cui vengono esibiti il «lavoro», la «professione» dell’artigiano, i temi politici ed «eretici» ma come visti da un altro pianeta, un ultra-post-surrealismo se vuoi, l’avversione per ogni nostalgia del Passato, la consapevolezza di un «nuovo paradigma» per una poesia senza speranza, senza futuro e senza disperazione, quasi che una vivace goliardia sia la estrema risorsa che possa essere data oggi agli uomini dell’Occidente.

Una poesia in cui tutto quello che è al di fuori del soggetto pensante e del soggetto poetante viene ccettato, una poesia che sembra nascere incompleta, in qualche modo neutra, neutrale e che sa di nascere in ogni modo già neutralizzata; una poesia non auto referenziale, non specchio di Narciso, non personalistica, non autobiografica, una poetica del No. Nella poetry kitchen le citazioni interne tra gli autori sono numerosissime, come anche gli scambi di lettere come tra conoscenti, scambi di persona e di autorialità.

Una poesia che non è neanche anti-poesia (come quella del novecento), in quanto priva di ogni speranza e priva di disperazione, priva di passato e di futuro, e priva anche di utopia e/o di sogno idealistico o idealizzante e che, nonostante tutto ciò, considera il fare poesia un’azione, una pratica, un fare, un’etica che incide sul reale, organizzandolo in termini di parole dis/proprie e dis/propriate. Così, la poesia non è più qualcosa di mistico-ineffabile o personalistico, ma punta tutto sul dire, sul detto, e sul fare concreto dell’atto linguistico, una poesia activa, pragmatica e fantasizzante, una speech-poetry con una sua propria (auto) organizzazione, un proprio Progetto, un proprio Modello, un proprio Paradigma, e anche, lo si conceda, un suo proprio Enigma, una connotazione oscura e anfibologica. Infatti, l’Enigma che essa contiene non può essere sciolto ma solo attraversato e dispropriato. Cito Freud:

«l’Io non è padrone in casa propria»
(Freud, 1917)

A distanza di più di cento anni dalle parole di Freud penso sia il caso di prenderne atto. La poetry kitchen è una pratica discorsiva che non prevede più l’Io quale protagonista plenipotenziario, ma, al massimo lo designa come un ospite, una maschera, un sosia, un avatar, un Altro,  un Estraneo…

(Giorgio Linguaglossa)

18 commenti

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18 risposte a “Sono Dino Villatico nato a Roma nel 1941, il 28 aprile. Infanzia trascorsa a Roma, infuriava la guerra, il ricordo più remoto è, infatti, il bombardamento di Centocelle. Poesie inedite di Dino Villatico con una Lettera di Giorgio Linguaglossa: “L’io non è padrone in casa propria” Freud, Marie Laure Colasson, absence, 70×70, acrilico, 2024

  1. Ma abbiamo ancora, sempre, bisogno di un’ontologia? O essa ci sta sospesa sulla testa e aspetta, silenziosa, il momento del nostro silenzio? Caro Giorgio Linguaglossa, perfino il tuo doppio vocabolo sembra un’interrogazione. In quale lingua? Ma – fuori di metafora – questi tempi di una cosa sembrano volerci avvertire: state attenti! non siete essenziali – in barba a qualunque ontologia – se sparite nessuno se ne accorge e anzi forse il globo tirerà un sospiro di sollievo, come aveva prefigurato uno scrittore triestino all’inizio del secolo più scriteriato della storia dell’in-sipiens. Ma noi, che ci stiamo in mezzo, in qualche modo dobbiamo districarci. Da queste parti, senza un risultato visibilmente nuovo, lo facciamo da almeno quando una Musa disse al suo devoto di saper dire bugie che sembrano verità e verità che sembrano bugie.

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  2. caro Dino,

    le nostre ontologie (del novecento) sono tutte fallite. Lo so, lo sappiamo, per questo già parlare di una ontologia estetica è parlare di ircocervi… gettati fuori da ogni ontologia, ci rimane una o più modalità di EsserCi, una modalità a-modale. Siamo tutti fritti, o, come dice Marie Laure Colasson, usufritti. L’unica forma di poiesis possibile nelle attuali condizioni è quella del vuoto, come indica perentoriamente il quadro della Colasson posto in exergo, il vuoto che non è neanche più una mancanza, ma vuoto che contiene al suo interno altro vuoto come nelle scatole cinesi. Sì, lo so, questo spaventa molto, spaventa tutti, ma così è. Nelle condizioni attuali ci resta da fare una ontologia del vuoto e una poiesis del vuoto. E anche questa, forse, è una utopia.

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  3. Chi sa, da sempre, forse, almeno in Occidente – conosco troppo poco la poesia cinese e non so il cinese, ma chi sa, può darsi che il Tao lo avesse compreso prima di noi – da sempre, dico, la poesia è stata un’utopia. Pensa alla conclusione di un poema guerriero come l’Iliade, con un padre vecchio che chiede al giovane eroe che gli ha ucciso il figlio di restituirne il cadavere, il giovane eroe, Achille, si commuove perché pensa al dolore di suo padre che non lo vedrà più. Gli ultimi versi cantano la fine della vita. Oggi, credo, non abbiamo più nemmeno l’illusione che quella utopia abbia uno spazio occupato dalle parole. Hai ragione – bella le sedia nel vuoto di Colasson – sono vuote, ormai, anche le parole. Saremo tutti inghiottiti da un’Intelligenza Artificiale che non sa inventare niente, sa solo ripetere il già scritto. Spero solo – ed è il mio sforzo – che anch’io, negli echi del già scritto, comunichi al lettore l’epilessia del nuovo, perché il già scritto lo aveva dimenticato o letto in altro modo. Ma nel fondo mi sento, o credo di sentirmi, come Amleto: ill about my heart.

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  4. Tiziana Antonilli

    Alcuni giorni fa sono stata invitata a leggere le mie poesie kitchen in una classe quarta della scuola primaria.

    I bambini sono stati straordinari, come sempre. Hanno apprezzato le associazioni…bizzarre, ripetevano affascinanti ’ il basilico suda e non profuma ‘ da un mio testo. Hanno accettato con una tale leggerezza i testi kitchen da suscitare la sorpresa della maestra che mi aveva chiamata. Che energia, che freschezza ! Che naturalezza e libertà nel loro approccio alla poesia kitchen!

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  5. copio e incollo questo commento.

    Dino Villatico

    09:32 (

    a me

    Ciò che sfugge a molti poeti e scrittori italiani di oggi è, mi sembra, la scelta di un registro unico, quello più facile, in genere, il registro basso. Più facile solo apparentemente, perché invece richiede un’attenzione costante per non cadere nel banale e il banale non è registro basso ma semplicemente banale. Peggio ancora fanno quelli che si rinchiudono in un registro speciosamente alto, in realtà copia e incolla di un modo di scrivere finito, senza le ragioni storiche e letterarie che lo avevano determinato. Lo stile possibile è oggi, mi sembra, quello del rimescolamento degli stili, che non è nemmeno una novità. In fondo sembra il destino della poesia occidentale da quando gli alessandrini aveva dichiarato per sempre impraticabile il sublime, a meno di entrarvi non dalla porta principale, ma dalle tante diverse porte di servizio. Come fa Dante, appunto. E come c’insegna – sono passati ormai quasi due secoli – Baudelaire.

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  6. Le ripercussioni inconsce del vivere collettivo in ciascuno sono meglio osservabili da una certa distanza, senza per questo doversi immaginare su Plutone; la qual cosa è figurativa e davvero a parer mio introduce alla fantapoesia. Anche la distanza parallela al suolo, ad esempio quella di un drone, può essere sorprendente – come ebbe a dire Gertrude Stein quando s’inventò il cubismo, simile alla visione aerea, per la Stein; agli esordi della letteratura modernista. Detto in due parole. Poeti e artisti come nuvole a bassa quota. 
    Pur tuttavia, alla visione fantapoetica non manca una valenza pop; molto dipende dalla scrittura ilare e creativa che, mantenuta a distanza, può mostrare, in modo non esplicito, il proprio orizzonte iper-realista. Perché l’oggetto del contendere è il reale visto da nuove inaspettate angolazioni.
    Difficile, sono i luoghi della fantasia, dell’iper-fantasia (a domicilio) che, a distanza, rivelano unicamente il chiasso… e l’umanità che vi si scolora. Da qui l’Ernesto Calindri “contro il logorio della vita moderna”, idea del Linguaglossa – che per questo, e per le sorelle Kessler, va dicendo a tutti la sua età. Ma il mondo è una famiglia. Si sposano, se ne vanno, purtroppo mai abbastanza lontani. Ché l’amore è un sentimento da praticare occasionalmente, è un’esperienza come tante altre nel venir meno del sacro. Ed è certo meglio così, a mio parere. Nel senso che trionfa il bastevole, laddove imperavano gli ideali. Mica lo puoi contemplare un ideale, puoi solo pensarci.

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  7. caro Dino,

    la sedia bianca della Colasson è un dipinto finito due giorni fa, nella sua semplicità ci parla del vuoto, quel vuoto che inghiotte le parole, le fa scomparire tra i colori piatti di una angolazione prospettica. Così, la tua poesia, erede dell’elegia del novecento, è rimasta calva, svuotata di parole, è come se una forza soverchiante inghiottisse quelle parole che un tempo erano fortificate all’interno dell’endecsillabo. Come ci informa il resoconto di Tiziana Antonilli, forse dobbiamo tornare a scrivere poesie per bambini, loro sì che, in quanto liberi dalla servitù di una cultura scolastica irrigidita, possono apprezzare le parole che scappano via dal tubo di scappamento dell’io che vorrebbe costringerle. Forse è proprio qui che si può notare la bancarotta di ogni ontologia del novecento, anche della ontologia che va sotto il nome di psicanalisi, chissà…

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  8. antonio sagredo

    Tornato dai monti delle Cozie ancora innevati…

    i Bambini sono i migliori giudici della poesia kitchen, dobbiamo ringraziare la Antonilli per questo… altro da agiungere? Nulla!

    I bambini hanno emesso il loro verdetto

    e la sorpresa hanno eseguito col riso.

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  9. Per una nuova ontologia.
    Proviamo a invertire i termini della ricerca: l’incognita è il soggetto, non il mondo. Il mondo, inteso come habitat può benissimo sopravvivere senza l’uomo. L’uomo, singola unità, non può vivere fuori dall’ambiente, non può esistere senza la natura di cui è parte. Ma noi continuiamo a investigare sul mondo, e continuiamo a ignorare il soggetto. Il Vuoto di cui si parla è l’incognita del soggetto, non sappiamo più chi sia. Vuoto, soggetto, indefinita e indefinibile presenza.

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  10. cari amici,

    Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza ci ha rubato anche il futuro, in quanto il futuro è già programmato dagli algoritmi della AI; in queste nuove condizioni (devo fare autocritica) penso che parlare di ontologia metastabile o modale rischia di essere ancora indietro rispetto alle prospettive aperte dalla Intelligenza Artificiale. Forse dobbiamo archiviare tutto ciò per dirigerci verso una ontologia a-modale, con tutto quello che comporta questa nuovissima impostazione. Il «vuoto» della ultimissima pittura di Lucio Tosi, di Marie Laure Colasson, di Giorgio Ortona come anche di altri pittori di valore sono sicuramente indizi di un qualcosa che evanesce di continuo, quella che un tempo si chiamava la «sostanza» e che oggi si è evoluta in «vuoto».

    I nuovi modelli di base della AI sono in grado di combinare immagini, audio e testo (sono multimodali), e sono in una fase di rapidissima evoluzione. Mi pare molto probabile che tali modelli (o i loro discendenti) finiranno in una posizione centrale nelle infrastrutture intelligenti del futuro. 

    Dalle prime osservazioni di abilità emergenti, è iniziata una corsa alla costruzione di modelli sempre piu’ grandi, pre-addestrati una volta per tutte e con grande spesa, destinati poi ad essere inseriti all’interno di molti agenti e sistemi diversi. Ne avrebbero costituito le fondamenta, o la base: quelli che oggi chiamiamo Foundation Models in inglese, e Modelli di Base, in italiano.

    A proposito: come chiamereste un algoritmo che genera testi (generative), che è pre-addestrato (pretrained) e usa il transformer? Generative Pretrained Transformer, ovvero: GPT.

    Questi modelli sono difficili da ispezionare (la conoscenza di GPT 3.5 è racchiusa in 175 miliardi di parametri, ovvero valori numerici regolati durante l’addestramento, immaginate una spreadsheet di un chilometro quadrato). E sono anche difficili da regolamentare. 

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    • Nei miei nuovi lavori spesso il soggetto è nero, il soggetto è in incognito. Pertanto suggerisco a Marie Laure di provare a invertire la procedura caravaggesca del nero di fondo che serviva a mettere in luce il soggetto, singolo o molteplice, avvolto nel mistero… mentre il mistero sta proprio nel soggetto, inquieto e inquietante. Questo non significa ripercorrere le tappe dell’esistenzialismo, che porta facilmente alle vedute ristrette dell’Io, ma l’orientarsi sensibile verso la pluralità che interpella. La qual cosa, seppure in modo incerto, era presente nella NOE.
      Il povero Linguaglossa alle prese con Mago Woland e signor K, figurazioni di sue distinte personalità, o Gino Rago silente osservatore di tragitti attenzionali, quasi rumori… o gli specchi di geisha Colasson… sono esempi calzanti, ma è meglio se il soggetto rimane in ombra, indefinito e indefinibile. La presenza, ecco.

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  11. cari Lucio e Dino,

    scrivevo 3 anni fa:

    lombradelleparole.wordpress.com

    «Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1

    Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.

    Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come lo sforzo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.

    La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in Europa in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

    M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

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  12. antonio sagredo

    …dopo aver letto e riletto (divertedomi) la stroncatura di un certo Cucchi (premio ig-nobile in poesia) e non solo, (tranne i veri talenti come p.e. Sanguineti, ecc.) mi sono chiesto se questo Massimo Ridolfi in non so in quale maniera mi abbia ascoltato di nascosto (scherzo), e riportate le mie parole per intero le abbia poi pubblicate in quel di sopra link.

    Insomma di questi Cucchi e cucchini, Raboni e rabonini, De Angelis (conosciuto di persona primi anni ’70 e mandato a fare in culo… e glielo dissi già allora che i suoi versi facevano schifo! e che ci sapeva fare meglio la sua donna, Giovanna Sicari), e poi Magrelli e magrellini (mi ha scritto che per 5 anni anni non lo dovevo disturbare perché doveva scrivere (?!) e questo dopo un ultimo incontro casuale in treno da Roma a Bari), insomma altri ancora seguono di pochissimo conto e che vivono di malintesi con se stessi, ecc. ..

    Ma non è stato spietato il Ridolfi come avrei desiderato, è stato persino buono, troppo!, comunque va bene lo stesso, perché tutto sommato ha messo nella chiavica proprio quei tizi che avevo già messo nello sterco e vomito dei porci 50 anni fa…

    A. S.

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  13. Marie Laure Colasson

    caro Lucio,

    grazie del suggerimento, che tengo presente, ma io mi ero già mossa nella direzione da te indicata, infatti in alcune mie ultimissime opere, quelle ad angolo, ho già disegnato un profilo di sedia in nero con gli sfondi con colori piatti e unidimensionali, la massima semplicità, un po’ come stai facendo tu con i tuoi ultimissimi lavori che hanno colori piatti con macchie qui e là, Noi siamo fuori da ogni quid di esistenzialismo, la poetry e la fantasy kitchen, in poesia e in pittura, è fuori da ogni problematica esistenziale come le si pensava da Sartre in poi. Quelle problematiche sono già state risolte con il tavor e i farmaci equivalenti, non c’è più bisogno di introspezioni. Ti devo confessare però che non mi so liberare della mia geisha, me ne sono innamorata, ha sostituito l’Ideale dell’io di freudiana memoria.

    Quanto alla poesia di Dino Villatico, essa poggia ancora sul podio dell’elegia, nobilissimo podio…

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    • Bene, siamo arrivati contemporaneamente alla scoperta del nero qual soggetto. Non il nero del tratto ma una campitura. Prendiamo ad esempio un soggetto storico, una crocifissione, in questo caso Gesù andrebbe dipinto di nero; un nero vuoto, una assenza, proprio lì dove cade l’attenzione, un nero che toglie. Interessante. A me è venuto spontaneo, era l’angoscia per queste guerre, qualcosa di imperscrutabile nel cielo, un oggetto misterioso, un oggetto dà la morte. Scompaiono i pesci nell’acquario, scompaiono gli alberi… e tutto intorno va bene, è il mondo radioso. Perché no.

      Non perdiamo tempo con l’esistenzialismo. Che ce ne importa di chi assiste allo spettacolo, se è lo spettacolo a creare lo spettatore. Insomma, si sarà capito.

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  14. PIETRO EREMITA

    indovinate quale poeta è morto il 14 aprile 1930

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