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36 twitter instant poetry di Vari Autori europei, La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose ma realizza immediatamente il suo significato, Il potere extra semantico della semantica viene così ad evidenza, Il linguaggio reso inoperoso acquista smagliante auto evidenza, La poetry kitchen è un modello di experimentum linguae che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio

Marie Laure Colasson 40x23 Stuttura dissipativa 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 40×23 cm., acrilico 2021

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La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato. In un certo senso nella poetry kitchen si rende evidente il «potere extra semantico della semantica»; quello che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act). L’enunciato «io giuro» è il paradigma perfetto di un tale atto in quanto chiama la parola alla immediatezza del denotato il cui significato non può essere posto in dubbio da nessuno pena la infrazione del giuramento. Il linguaggio è quella cosa che presuppone il passaggio dalla langue alla parole, e cioè dalla parola nella sua mera consistenza lessicale, a prescindere dal suo impiego nel discorso, alla denotazione, a una istanza di discorso in atto. Il linguaggio è la struttura presupponente che fonda tutte le altre strutture del pensiero.

Possiamo dire che nella instant poetry la parola chiama a sé la veredizione del significato nel circolo della veredizione, con esclusione di qualsiasi dubbio; la poetry kitchen persegue la tautologia: è vero ciò che viene enunciato;  esercita una espropriazione del significato nel mentre che maneggia il potere locutorio come atto di libertà assoluta dal significante e dal significato. La poetry kitchen non esegue nessuna appropriazione del linguaggio, non esercita alcun dominio sul linguaggio, lasciandolo lì dov’è.

Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».1 La struttura denotativa e quella performativa del linguaggio sono caratteri storici della lingua umana,  appartengono in toto alla storia della metafisica occidentale, non v’è nulla di originario o di eterno nella lingua. Non è un caso che nell’epoca del predominio della tecnica questa struttura denotativa abbia raggiunto il suo limite massimo raggiungibile, la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane.

Per poter essere in grado di agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello della adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un fatto.
La poesia è proposta, in Il Regno e la Gloria, da Agamben, come paradigma della disattivazione del linguaggio, in essa il linguaggio è reso inoperoso: la poesia marca il punto in cui la lingua «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile».2 

Non a caso Agamben assume la poesia a modello di una parola che disattiva le funzioni comunicative e informative del linguaggio rendendo evidente la sua immediata «medialità», il suo essere mero «mezzo», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile».3 Il superamento della metafisica implica un nuovo modello del significare, e qui Agamben presenta, di sfuggita, un aspetto che costituirà uno degli assunti principali della sua soteriologia: che lo scioglimento della contraddizione della metafisica si fonda in un nuovo linguaggio, in una nuova parola, nella poesia, in «un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato».4 
L’experimentum linguae è nella poesia kitchen collegato all’«uso» del linguaggio come ricerca di un diverso e più profondo statuto della parola, di un’esperienza della parola liberata che apra lo spazio della gratuità dell’uso.
La poetry kitchen è, in tal senso, un modello di experimentum linguae, che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio quando esso viene reso inoperoso.
Ecco una serie di esempi di strutture linguistiche performative.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008 pp. 74-75.
2  G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza 2007, pp. 274-75
3 Ibidem, p. 274.
4 G. Agamben, 1977, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,Torino, Einaudi, p. 165.

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Instant poetry di Giorgio Linguaglossa

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Il Coronavirus nella poesia di oggi, La zona grigia, Pensare la zona grigia è compito del pensiero, Poesie di Dante Alighieri, Tomas Tranströmer, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda

Lucio Mayoor Tosi La Gioconda

[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà  a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra  per i prossimi milioni di anni…]
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«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
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1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
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Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
Caro Gino Rago,
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il virus ci rende deboli e fragili, ci isola ed esaspera gli egoismi e gli individualismi, i populismi e i sovranismi. Nello stato della «nuda vita» agambeniana ognuno si preoccuperà della propria sopravvivenza. La solidarietà sarà una parola del passato. L’uguaglianza dello stato di diritto anche.
Il filosofo «Žižek afferma che il virus ha assestato un colpo mortale al capitalismo, ed evoca i fantasmi di un oscuro comunismo. Crede anche che il virus possa far cadere il regime cinese. Žižek si sbaglia. Non succederà niente di tutto ciò.» Condivido l’analisi del filosofo cinese Byung-Chul-Han. La Cina spaccia il suo Stato di polizia digitale come la soluzione della pandemia, esibirà la superiorità del suo sistema rispetto a quello delle democrazie dell’Europa. Idem Putin il quale ha dichiarato più volte che le democrazie liberali dell’Europa sono in disfacimento.
(Giorgio Linguaglossa)
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1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116

Giuseppe Talìa

La poesia del dopo COVID-19.

Riguardo al Nostro Giuseppe Conte, poeta, che nel tempo ha invocato gli dei e che continua, dopo aver preso un abbaglio clamoroso scambiando un modesto video montaggio di un’agenzia di propaganda per un’immagine reale della prima guerra mondiale, non ce lo dimentichiamo, ricordiamo questa sestina cattiva da La Musa Last Minute, Progetto Cultura, Roma 2018.

Giuseppe Conte

Né ferite né fioriture sono possibili
Lo dice il telegiornale non stop h24
E alla tavola rotonda che fu di re Artù
Si siedono ora tredici famiglie del gruppo
Bilderberg a cui importa solo il think tank
Della Parca parcheggiata nell’Economia

 

 

Tomas Tranströmer

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:
«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1

La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. Solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere com-presi nella nostra più vera essenza.
Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.”

(Giorgio Linguaglossa)

E’ incredibile come la quartina di Tranströmer, con quel finale:

Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

corrisponda alla nostra situazione quotidiana, prigionieri all’interno delle nostre abitazioni, con tutte le porte e le finestre chiuse a causa del virus Covid19.

 (Marie Laure Colasson)

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 1
K. invia il Signor F. sulla terra con una minuscola teca

K. sfregò uno zolfanello sul muro e accese il sigaro.
Il suo occhio di vetro sembrava osservarmi.

Poi accese il fuoco, ci mise sopra un bricco il quale cominciò a tossire.
Uscì fuori una figura di fumo che si contorceva.

«Ecco, questo è il Signor F.» disse K. «È una persona ragionevole,
con lui si possono fare ottimi affari…».
«Sa, è stato per tanto tempo nell’aldilà. Adesso però è stato dichiarato innocente.
E per questo riabilitato e restituito al pianeta Terra,
tra gli umani».
Fece una giravolta. Uno sgambetto.
Si infilò il monocolo sull’occhio di vetro.

Mostrò una minuscola teca. «Ecco, questo è il vasetto di Pandora.
Contiene il Covid19, un affaruccio con la corona lipidica che si scioglie ad una temperatura
di 27 gradi. Mille volte più piccolo di un globulo rosso…».
Azazello fece uno sberleffo, una piroetta.

«La sentenza di assoluzione è la prova di un errore giudiziario», disse K. con sussiego, riprendendo il discorso interrotto.
«Ciascuno è intimamente innocente»,
«E intimamente colpevole». «La confessione è il miglior argomento
in pro del giudizio».

Poi prese a passeggiare in cerchio.

Nel frattempo una ladyboy in calzamaglia a rete iniziò a litigare con Azazello.
«Sei piccolo e brutto!, e stupido!, non sai neanche come si tratta una Milady!, tornatene da dove sei venuto, scimunito!».

«È estremamente riprovevole giocare con il Covid19, non crede?», riprese K. il filo del discorso dove lo aveva lasciato. E si aggiustò la mascherina.

Nel frattempo, la teiera si alzò dal tavolo
E versò nella tazza di F. un tè bollente.
Che il Signor F. bevve d’un sorso. Deglutì sonoramente.

Il pomo d’avorio fece su e giù.

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Conseguenze filosofiche della impostazione della poesia magrelliana, le postverità, le iperverità e le ipoverità, Dialoghi e poesie di Carlo Livia, Guido Galdini, Lucio Mayoor Tosi, Mario M. Gbriele, Donatella Costantina Giancaspero, Alfonso Cataldi, Michal Ajvaz, Giorgio Linguaglossa

 

foto Breton, Max Ernst, Duchamp, Leonora Carrington 1942

Breton, Max Ernst, Duchamp, Leonora Carrington 1942

Giorgio Linguaglossa

caro Mauro Pierno,

il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1

Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia magrelliana, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.

La poesia magrelliana riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.

Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]

Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.

1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116

Strilli Lucio Ho nel cervelloGuido Galdini
20 febbraio 2019 alle 11:19 

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[In tema di sirene, ecco due pezzettini dagli Appunti precolombiani]:

per corazza indossavano il chauapilli,
una veste spessa di cotone,
che, intrisa d’acqua salata,
acquisiva una durezza leggera e sgusciante,
e aderiva alla pelle come le squame di una sirena

potevano allora, madidi del suo canto,
immergersi nell’oceano delle frecce,
risalire la corrente, sfuggire
incolumi al richiamo, più subdolo, del silenzio.

Postilla armigera:
anche gli spagnoli hanno apprezzato
l’utilità di quest’armatura,
sostituendo la pesante ferraglia
che indossavano all’arrivo nei porti:
ma, per loro, le sirene
non si sono degnate nemmeno di tacere.

Strilli Maria Rosaria Madonna Alle 18 in punto

Carlo Livia
18 febbraio 2019 alle 14:18

Dalle ultime, avvincenti analisi di Linguaglossa, scaturisce un’aporia in apparenza intrascendibile: come fondare una nuova ontologia e metafisica, preso atto dell’inanità epistemologica, dell’insolvenza veritativa del linguaggio quando, abbandonando la concretezza della scienza empirica, si addentra negli astratti labirinti della speculazione pura, dove non ha più presa e, come un uccello che voglia librarsi nel vuoto, senza l’attrito dell’aria, non può che precipitare nel paralogismo autoreferenziale, affascinante e suggestivo, ma inesorabilmente privo di indiscussa legittimazione logica.
Da Kant in poi, infatti, l’analisi concettuale si è mutata in ermeneutica e analitica del linguaggio, abbandonando gli impervi e improbabili scoscendimenti teologici e ontologici per concentrarsi sulle inesplorate potenzialità espressive e rappresentative del pensiero-linguaggio.
È la stessa via intrapresa dalla poetica di Roberto Carifi, agonica o anagogica, venata di disperazione o violenza visionaria, che tenta di aprirsi un varco fra semiotica e semantica, mutando il concetto in icona e mito, la riflessione in apertura alla luce d’una mistica post-religiosa, introversa e rappresentabile solo in frantumi apofatici, decomponendo e dislocando sintagmi, sintassi e corrispondenze.
All’opposto, la scelta di Magrelli è di restare ai margini, riflettendo con distaccata ironia all’inevitabile naufragio del nostro sistema di valori e prospettive, con un linguaggio ormai post-metafisico (o post-poetico ), privo di ogni afferenza e capacità d’indagine che non si fermi alla superficie fenomenologica, a testimoniare che ormai ” non ci sono verità ma solo interpretazioni” Nietzsche).

Strilli Busacca Vedo la vampaLucio Mayoor Tosi
24 maggio 2018 alle 11:30

Serenade

Qualcuno vede se stesso
guardare se stesso mentre vede se stesso

che guarda se stesso che guarda.
Il coro dei Sì, in piena luce svolta dietro la casa.

Davanti non resta nulla. Dietro non si fa in tempo
la porta è già chiusa.

La signora si osservò in molti specchi,
poi dissolse nel cielo le sue traiettorie. – Sono colline,

si vede bene la zona di pilotaggio. L’ultrasuono.
La nave è atterrata in pianura, ha preso le sembianze

di un campo di grano.

In mezzo ai tasti le rane innalzano melodie. Luna pallida.
Nel controluce nuvole ferme e, poco distante, in riva al lago

sale fumo dai tetti. I cespugli sono marroni.
Il sole al tramonto è chiara immagine di Dio con striature

che sembrano prelevate da deserti di sale.
Ora è cielo plumbeo. C’è foschia.

Un albero malato mette silenzio.

1 – stabilire la distanza

dell’orizzonte, a quale altezza il punto di vista, la consistenza
delle pietre (Video: grande nave a forma di goccia).

Cadiamo come aghi di pino sull’acqua. Pare sangue.
Sembrano vene.

2 – Stando in piedi sondare la gravità. Prendere luce.
Il sentiero da percorrere è indicato da sponde invisibili.

Impossibile sbagliare. Materie senza cervello si godono il tempo.
Paesaggio di cose una davanti all’altra.

Su quelle lontane sta piovendo.
Ovunque c’è molta acqua.

3- In forma di note musicali, trascrivere fedelmente
la voce terrestre (senza abitanti). Togliere il cervello dall’involucro.

Le persone sembrano spaventate.
Cercano risorse per vivere. Sanno di avere scadenza.

Inganna la vista a colori che tutto cambia.
Perfino le stelle. Tra gli abitanti La vie en rose / Un fil di fumo.

L’uomo che saluta da lontano ha il viso più grande del cielo.
– Dite a Jaguar che tarderò.

Strilli Gabriele Ora siamo in due a sognare una gitaLucio Mayoor Tosi
30 maggio 2018 alle 11:11

Sono artisti pop, blandamente poeti. Non vedo perché accanirsi contro; di fatto non rappresentano nulla, nemmeno la contemporaneità; a meno che non si pensi alla parola come fattore linguistico omeopatico, i cui effetti, già lievi di per sé in questi due autori, si stemperano o annacquano ulteriormente perché cosparsi di troppo manifesto compiacimento (dice Magrelli nell’intervista “Ai poeti tocca solo di scrivere bene”). Insomma, è zucchero con effetto placebo. Ma questo accade anche nelle arti visive, basta andare in una qualunque art fair e si troverà sovrabbondanza di immagini chiassose, piene di luoghi-immagini comuni, cose che se pensi a Warhol ti metti a piangere. Ma questo si vende, perché è tempo di crisi; molti piccoli galleristi hanno paura, sanno di offrire niente, cose facili, che stanno bene (si fa per dire) sopra il divano moderno.

Strilli Gabriele Lucy mi volle con séGiorgio Linguaglossa
30 maggio 2018 alle 12:14

Lasciamo per un momento la lettura di autori «normali» cioè che adottano il linguaggio «normalizzato» o storicizzato, stilisticamente ibernato che per noi non può essere di alcun ausilio, un linguaggio adottato senza alcuna previa riflessione sulle procedure e sulle proposizioni, e esaminiamo invece alcuni versi di una poesia di Mario Gabriele che necessitano, a mio avviso, di una nuova euristica.

Adotto, per questo compito, la parola «diafania» per indicare una procedura compositiva «nuova» propria di alcuni poeti della nuova ontologia estetica. La parola è composta dal prefisso «dia» che significava originariamente «fra», «attraverso», cioè l’azione che si stabilisce tra due attanti, tra due o più soggetti, che passa attraverso di loro, e Phanes o Fanes, (in greco antico Φανης Phanês, “luce”), chiamato anche Protogonos (“il primo nato”) e Erikepaios (“donatore di vita”), era una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita nella cosmogonia orfica.

Il termine «diafania» mi è venuto in mente leggendo le poesie di Mario Gabriele e di Donatella Costantina Giancaspero; ho ripescato questo termine dalla significazione teologica che ne ha dato Teilhard de Charden e l’ho riproposto in chiave secolarizzata attribuendogli una nuova significazione, nuova in quanto suggerita dalla lettura di alcune poesie dei poeti dianzi citati. E noi sappiamo che una nuova poesia deve essere letta e interpretata con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del «nuovo». Leggiamo questi versi di Mario Gabriele:

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.

Sale il fumo fino alla lampada.
Andrea rinnova aria fresca.

Se leggiamo con attenzione i versi riportati, ci accorgiamo che, apparentemente, non c’è nulla di nuovo. I versi ci dicono, in rapida successione, che alle 18 torna Milena, la quale prepara la cena (tempo presente) ma che il «tavolo ha quarant’anni» (proposizione dichiarativa senza nesso logico con le precedenti proposizioni), e che del fumo sale fino alla lampada (altra proposizione dichiarativa) mentre che «Andrea rinnova aria fresca» (altra proposizione dichiarativa e tautologica perché l’azione di rinnovare l’aria fresca è una tautologia vuota di significato). Dunque, una serie di proposizioni dichiarative auto significanti producono l’effetto di un universo in miniatura auto significato, auto significato in quanto auto giustificato, cioè fatto di proposizioni protocollari date e ricevute alla e dalla comunità per inconcusse e apodittiche. Mario Gabriele impiega nelle sue composizioni questi frasari auto giustificati che lui assembla in modo tale da farne sortire fuori dei significati nascosti, inverosimili, ultronei. Questa è, per l’appunto, una «diafania», ovvero, il darsi di Phanes, in modo immediato «attraverso» «fra», altre proposizioni che si danno in modo auto affermativo e auto apodittico. La «diafania» è in questo tipo di composizione il modo di procedere e di costruire gli «eventi» linguistici i quali sono in sé auto prodotti, auto giustificati e auto significanti. La «diafania» in Mario Gabriele sta nella procedura adottata e dal nuovo sguardo che lui posa sulle «cose» linguistiche del mondo. La «diafania» è un guardare e un produrre le «cose» linguistiche in modo da mostrare l’interna contraddittorietà e falsificabilità della propria significazione; la «diafania» è il modo scelto da Gabriele per mostrare a tutti che il re è nudo.

Se leggiamo un verso di Donatella Costantina Giancaspero, ci accorgiamo che qui siamo davanti ad una proposizione che indica una «cosa» non riconoscibile, anzi, irriconoscibile. Al contrario della procedura adottata da Mario Gabriele, nella procedura della poetessa romana abbiamo una modalità di costruzione molto differente. Leggiamo un emistichio:

un nido di vespe nel lampadario.

Il significato di questa proposizione può essere esaminato da vari punti di vista, anche dal punto di vista psicanalitico, ma, sicuramente il significato residuale ci indica una «cosa» del tutto inutilizzabile, ed anche una «cosa» di estremo pericolo, una «cosa» che impende, che resta lì, sopra le nostre teste, e che ci condiziona, ci minaccia con la sua sola presenza anche in assenza di azioni o di eventi, anzi, l’evento principe è che qui non si dà alcun «evento», l’evento è nel Phanes, nel mostrarsi per quello che è quella «cosa», un qualcosa che noi non conosciamo ma che sta lì, all’erta, in bilico, in attesa di qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che potrebbe scatenare una reazione, una risposta temeraria e bellicosa. Questo è un genere di «diafania» tipica della procedura compositiva della poetessa romana. È una procedura nuovissima, mai adottata dalla poesia italiana ma ben presente ad esempio in altre tradizioni letterarie, ad esempio nei poeti cechi Petr Kral e Michal Ajvaz. La «diafania» nella Giancaspero indica, in temini psicanalitici, la rimozione di una rimozione, con il che un qualcosa è pervenuto alla soglia della istanza linguistica che le ha confezionato un vestito linguistico, quel qualcosa che non può che essere una catacresi. Ecco, la poesia della Giancaspero ha questa caratteristica, che ha sempre a che fare con la catacresi, che è il modo di darsi di Phanes, il modo di venire alla luce della vestizione linguistica di un qualcosa, di un contenuto di verità che è stato travisato e composto (tradotto) in parole inesplicabili, in un Enigma.

Strilli RagoMario M. Gabriele
1 maggio 2018 alle 11:04

Grazie Giorgio di questa tua ennesima fioritura critica. Vorrei entrare nel merito della diafania, presentando un testo che si energizza su questo tema, senza per questo creare amputazione con il linguaggio corrente. Trattasi di una ulteriore via di agglutinazione sferica delle idee e delle sovrapposizioni sensoriali, che alla fine si armonizzano nella struttura segmentata. È ovvio che questo testo ha un suo valore interpretativo solo se, come dici tu, lo si analizza “con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del nuovo”.

Mario M. Gabriele

I
inedito da: Registro di bordo.

Berenice non ha altro da fare
che mettere blazer di vecchia data.

La stagione resiste all’epitaffio.
Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,

salvare papiri ed ebook.
con 8 posti senza turnover.

Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
della Letteratura Italiana .

Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
Al vicolo 7 di Piazza Bologna,

nessuno ha una vita privata.
Quando la poesia sfugge

diventa grazia autonoma.
In un inverno del 93 cademmo nel crinale.

Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.
Il fiume era rientrato nell’alveo.

Carlo già pensava alla brossure della Gita domenicale.
Ada, la magnifica Ada

dai sette lumini e corde di chitarra,
si era concentrata sugli steli di gramigna.

Una piccola colazione
portò fantasmi e sentimenti abrasi.

Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.
Lo stato delle cose è nel tempo.

La Canducci ha azzerato il debito.
Siamo in bilico.

Ofelia si trastulla con l’oboe.
La notte ha rubato la luna.

Su altri versanti sostano i giorni a venire.
Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali

con Dibattito su amore e Il Dente di Wels.
Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.

El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
Un paesino di sintassi crudele

ha aperto check-in e ogni limite.
-Oggi non è venuto nessuno;

e oggi sono morto così poco questa sera!-

Strilli Tranströmer 1

Alfonso Cataldi
1 maggio 2018 alle 10:59

L’astronauta occasionale rovista fra gli avanzi di colonne.
Lo sorprende la spinta dei tronchi resistenti
non di un’era

– con quale gamba messa male
che atterra
dichiara la sua fine? –

di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
consolidarsi, senza preavviso
nel monolite apparente del tempo che rimane.

La signora Madeleine vende la sua ombra
alla casa di riposo.
Fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
abbandonate per la guerra.

Una giovane insegnante sbaglia il viale dietro il piccolo cancello.
Spiega la teoria evolutiva dell’azzardo

come dirimere la direzione delle venature.

Strilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secolo

Leggiamo insieme questa poesia di
Michal Ajvaz (nato a Praga il 30 ottobre 1949):

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Strilli Král A tratti un libro ripostoLucio Mayoor Tosi
19 febbraio 2019 alle 17:36

A Valerio Magrelli andrebbe riconosciuto il merito di avere dimenticato il suono della Messa in latino. Altri, che magari sono atei, l’hanno acquisito per trasmissione letteraria. Comunque di quel suono è piena la tradizione europea, e particolarmente l’italiana. A leggere bene anche di poeti realisti dell’ultima ora, l’eco si sente. Poi naturalmente viene da pensare che si tratti d’altro. Comunque sia, il Magrelli a me sembra di quel cattolicesimo odierno che non prova dolore. La vita, con tutti i suoi malanni, ritratta dal bravissimo illustratore Carl Larsson, e Gesù è scandinavo. Perché dico questo? Perché quella di Magrelli a me sembra una pallida poesia nichilista. Ovvio che nei paesi scandinavi questa ‘malformazione’ ha ben altra sostanza – si pensi che nell’anno mille da quelle parti ancora non si sapeva nulla del cattolicesimo.
Prendiamo ad esempio alcuni tra gli incipit di questa pagina: “Onoriamo l’altissimo vessillo”, “Quanto vasta è la nostra /capacità di perire”, “Ritorna lo yo-yo”, “Quale lutto accompagna le lettere /tra una parola e l’altra?”, “Affittasi villino sopra la ferrovia”, “Brilla il vapore / iridescente dei pixel”, “D’improvviso ho visto un colibrì”, “I brutti gabinetti”, “Mi lavo i denti in bagno”, “Divento vecchio come diventassi / giapponese”… Questa per me è la fine dell’oratoria cattolica, fine del dolore, siamo tutti in gita domenicale. O all’Ikea. Carl Larsson, andatevi a guardare le sue illustrazioni (certo, con ottica aggiornata) e capirete se non ho un po’ di ragione a pensare questo che ho scritto.

Giorgio Linguaglossa
19 febbraio 2019 alle 20:41

caro Lucio,
se si legge con attenzione la mia perlustrazione critica, credo che ci siano degli apprezzamenti su alcuni aspetti della poesia del Magrelli; innanzitutto, gli dò la primogenitura nell’ambito della poesia italiana di oggidì, infatti Magrelli ha scalato e scalzato, e definitivamente, i milanesi, nella classifica dei dischi più venduti, e non è un merito da poco, in secondo luogo è vero che l’autore romano fa una poesia che il suo uditorio si attende, e questo è un suo altro grande merito, quello di saper intercettare la superficie. La sua è una poesia di superfici riflettenti nel senso che accredito a questa categoria, in accezione positiva (andate a leggere l’ultimo libro di Mario Perniola).
http://www.journal-psychoanalysis.eu/reality-as-stratification-of-surfaces-the-concept-of-transit-in-mario-perniolas-philosophy/

Ma qui finiscono gli elementi positivi ed iniziano i limiti e le debolezze di un genere di poesia che porta la stessa ad un livello sempre più popolare. Voglio dire che Magrelli democratizza la poesia e la rende fruibile ad un pubblico più ampio, ma, così facendo la svuota, la isterilisce, la banalizza…
È vero quello che dici tu:

«Prendiamo ad esempio alcuni tra gli incipit di questa pagina: “Onoriamo l’altissimo vessillo”, “Quanto vasta è la nostra /capacità di perire”, “Ritorna lo yo-yo”, “Quale lutto accompagna le lettere /tra una parola e l’altra?”, “Affittasi villino sopra la ferrovia”, “Brilla il vapore / iridescente dei pixel”, “D’improvviso ho visto un colibrì”, “I brutti gabinetti”, “Mi lavo i denti in bagno”, “Divento vecchio come diventassi / giapponese”… Questa per me è la fine dell’oratoria cattolica, fine del dolore, siamo tutti in gita domenicale. O all’Ikea».

Si tratta di una poesia da gita domenicale, che può essere letta in tram e in autobus, anche negli autobus scassati dell’Urbe…

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Antonio Riccardi, Poesie da Tormenti della cattività, Garzanti, 2018, pp. 156, € 18 – con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Saul Steinberg 1961-1962

Saul Steinberg 1961-1962

Antonio Riccardi è nato a Parma nel 1962 e vive a Milano, a Sesto San Giovanni, è direttore editoriale della SEM. Ha raccolto il suo lavoro poetico nel volume Il profitto domestico (Mondadori, 1996), al quale sono seguiti, un secondo libro di versi, Gli impianti del dovere e della guerra (Garzanti, 2004) e un terzo, Tormenti della cattività (Garzanti, 2018). Collabora a diverse riviste e giornali e fa parte del comitato di redazione di “Nuovi Argomenti” e di “Letture”. Ha curato il volume di saggi Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio (San Paolo) e le edizioni, negli Oscar Mondadori, del Candelaio e della Cenere delle ceneri di Giordano Bruno.

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Penso che la poesia di Antonio Riccardi, dal libro di esordio, Il profitto domestico (1996) fino a quest’ultimo, sia una ricerca al fondo di quella cosa che io amo chiamare la «metafora silenziosa», una ricerca che perlustra il fondale di quel mare interiore che comunemente chiamiamo «memoria». Che cos’è la «memoria»? Possiamo dire che è quella sorta di «spazializzazione» (spazio interno della mente) che è un connotato più primitivo della coscienza, lo spazio dove avvengono i paraferendi di tutte le metafore, lo spazio mentale che l’uomo adotta come suo proprio habitat, perché sia chiaro che l’uomo abita il proprio habitat mentale nel quale è ricompresa la coscienza e, in particolare, la coscienza linguistica e, perché no, anche l’inconscio linguistico e l’inconscio pre-linguistico… La poesia di livello abita sempre entro la cornice di questa sorta di «spazio mentale» dove il linguaggio acquista una particolare «risonanza interiore», non mi riferisco qui soltanto alla risonanza semantica in quanto questa è una particolare forma, quella linguistica, in cui si dà il fenomeno della risonanza, qui parlo di «risonanza interiore», che è un’altra cosa.

La «risonanza interiore» che intendo può aver luogo soltanto in uno «spazio mentale» abitato dalla memoria, che non è soltanto lo spazio linguistico tipico della coscienza quanto uno «spazio-non-spazio», «un interno-che-non-è-interno», un «interno che non è in nessun luogo». La ricerca del poeta parmense ha il suo luogo di elezione a «Cattabiano», e precisamente tra le pareti del podere dei suoi nonni e genitori, è lì che ha luogo la ricerca della memoria familiare della sua poesia.
In questi ultimi anni, anche sollecitato dalle discussioni che avvengono su queste colonne, penso sempre più profondamente che la poesia abiti questo «spazio mentale», questo «spazio interno», quello è il suo habitat naturale. E così il discorso poetico si pone a cavallo tra lo spazio mentale interno e quello esterno, tra ciò che era una volta il pensiero prima del linguaggio e il pensiero del linguaggio…

Foto Saul Steinberg Masquerade, 1959-1961

Saul Steinberg, Masquerada, 1959

In realtà, noi parlando e ascoltando non facciamo altro che «inventare» uno spazio mentale dentro la nostra mente e nella mente dei nostri interlocutori, noi costruiamo sempre, in continuazione, il nostro e altrui spazio mentale, è una attività di tutti i giorni, che ci riguarda tutti, è un pensiero, questo, intuitivo che, se ci pensiamo un attimo, non possiamo metterlo in dubbio…
La poesia è la ri-costruzione di questo «spazio mentale», frutto della memoria e del mondo quadri dimensionale nel quale siamo immersi fin dalla nascita. La poesia lavora filogeneticamente per l’ampliamento di questo «spazio mentale», quindi è utilissima, anzi, è una attività indispensabile per la sopravvivenza dell’homo sapiens.

indice, invece…
cattività e cedevolezza
la seconda non meno della prima
aspra, tormentosa.

Uno, un matrimonio in due quadri
dovendo per virtù e desiderando
la felicità secondo principio.

Due, tre fagiani, le rane e uno stormo di corvi
per la proprietà transitiva delle bestie
a memoria del podere di Cattabiano.

Tre, per dire il retablo degli amori
se tra le nicchie una sola diavolina
dà fuoco al teatro dei ricordi.

Quattro, al lavoro o in guerra sempre
una dell’altro filigrana e veleno
ancora per virtù purificando a morte.

Cinque, con l’esercizio della fine
sul piano del cenotafio se il nome
è un racconto in miniatura.

E infine, l’enigma dietro il deposto
tra la folla disperata del compianto
perché rosso amasse tanto
un semplice primate.

 

L’oblio della memoria

Il recupero della memoria di cui la poesia di questi ultimi anni è protagonista indiscussa, ha radici senz’altro in una crisi di sistema della nostra recente storia nazionale; ho già parlato dell’oblio della memoria che data dal 1972, anno di pubblicazione della poesia Lettera a Telemaco di Iosif Brodskij; in particolare, la crisi del sistema Italia di cui assistiamo alla recita sul palco della politica in questi ultimi anni, una narrativa per certi aspetti comico-drammatica, tutto ciò, penso, ha avuto delle conseguenze anche nel mondo della poesia. I recentissimi libri di Letizia Leone, Viola norimberga (2018), di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (2017), Donatella Costantina Giancaspero, Ma da un presagio d’ali (2015) e il mio Il tedio di Dio (2018), sono alcuni tra i tanti esempi di un pensiero poetante che segna un ritorno alla ri-costruzione problematica della memoria, di una identità personale e collettiva. Questo è un compito che la poesia non può delegare ad altre forme d’arte e che deve far proprio.

L’atto poetico da cui prende le mosse la poesia di Antonio Riccardi è un atto che pone esso stesso i limiti entro i quali dovrà accadere la narratizzazione dell’io analogale, nient’altro che un “Disturbo nello speculare”, come recita il sotto titolo della prima sezione del libro. Ma l’io analogale è nient’altro che l’io della memoria che ripercorre l’itinerario analogico colto in alcuni istanti strategici.

Considera cosa vedi e cosa vorresti
misurarne la distanza
sulla tua carta millimetrata:
il minor danno, il beneficio certo
le solite cose temperate

La visualizzazione fa parte integrante dello «speculare»: l’io vede se stesso muoversi in una «distanza» su una «carta millimetrata»; è esattamente questa la costruzione di un «io analogale» che il secondo «io» vede muoversi in uno spazio mentale. La coscienza dell’io poetico non è un deposito, un magazzino, una cosa o una funzione di qualcosa d’altro, ma è uno «spazio» analogale interno alla mente, una superficie «speculare» che possiamo ragguagliare alla funzione dello specchio che riflette il reale ma che soltanto mediante l’atto di narrativizzazione dell’io poetico può prendere forma e presenza. Tutto ciò che c’è nello specchio è un nulla, lo specchio riflette il nulla.

Questa consapevolezza muove la poesia di Riccardi, il che è qualcosa di diverso dal realismo poetico che si è fatto nel novecento. Ecco che nello «speculare» si situa un «disturbo», qualcosa accade ma come per analogia a qualcos’altro che sta in un altro luogo, in un’altra dimensione; la dizione poetica opera attraverso la ri-costruzione di uno spazio analogale, «speculare», cioè capovolto, nel quale opera e agisce un «io» analogale che è in grado di osservare se stesso e lo spazio e il tempo, analogamente a quanto accade all’io che si muove nelle quattro dimensioni, ciò che consente all’io «speculare» di prendere le misure dell’io reale e di muoversi in contiguità ad esso.

Ovviamente, si tratta di un qualcosa di analogale. Nella poesia più evoluta che si fa in occidente, c’è un io analogale che agisce in luogo dell’io posizionato nel mondo e quest’io opera mediante la narrativizzazione, cioè un raccontare che riproduce le azioni dell’io nel mondo reale. La poesia costituisce l’interno di una cornice analogale dove viene agita la narrativizzazione. La poesia e il romanzo sono le forme d’arte che più hanno contribuito a questa opera di narrativizzazione filogenetica della civiltà borghese degli ultimi due secoli, sono il luogo in cui si riproduce e si rinnova continuamente il racconto dell’io reale.

È questa, penso, la caratteristica della scrittura poetica di Antonio Riccardi, il suo è un neoverismo non mimetico del reale ma analogale del reale, prende l’abbrivio e si sviluppa da un presupposto: il tempo spazializzato e lo spazio temporalizzato nell’io analogale «speculare» che riacciuffa cose e spezzoni dalla memoria; il viaggio dell’io è il viaggio in un mondo che riproduce il mondo reale come il computer riproduce il mondo tridimensionale sul monitor bidimensionale.
La poesia di Riccardi «attualizza» lo spazio e il tempo proprio come noi attualizziamo l’immagine tridimensionale vedendola sullo schermo di un pc; la narrativizzazione è incentrata per lo più sulla terza persona o sulla prima persona plurale, in modo impersonale… si tratta di un io analogale che costruisce e svolge la «sua» realtà.

Il sostrato metaforico del pensiero poetico di Riccardi espresso prevalentemente nella terza persona o nella prima plurale, richiede nel lettore un atto di intellezione molto complesso; la poesia seleziona necessariamente alcuni particolari, alcuni frammenti della cineteca mnemonica perché il reale nel suo vero significato ci sfugge continuamente. La poesia è già metafora del reale e non ha bisogno di alcuna altra forma di metaforizzazione del reale, sembra suggerirci Riccardi, può procedere tranquillamente alla narrativizzazione di tutto ciò che è accaduto e accade alla luce del riflettore della memoria dell’io.
Il corpo, o meglio, le singole parti del corpo svolgono un ruolo centrale nella messa in azione della memoria, ad esempio, centrale è il ruolo della «mano nel discorso»; infatti, il titolo della seconda sezione recita: “Lo strano e notevole ruolo della mano nel discorso”.

da Tormenti della cattività
Primo tormento – Scene da un matrimonio

Considera chi siamo e cosa no.
Cosa non più, diresti tu
correggendomi sottovoce
e cosa volevamo diventare.
Speculari, pronosticavi.

Adesso però considera lo strano
e notevole ruolo della mano
nel discorso. Sei sempre e solo tu
a mimare cronofasi e ferite
nella nostra cronologia.

*

In un giorno di luce equatoriale
nel cimitero di Cattabiano
ho visto tre giovani fagiani
cercare tra le tombe.

erano giorno e mese della morte
di mio padre Pier Giovanni
la stessa luce e il caldo di allora
ma in un’altra vita, con più fatica

e già nel più futuro.

Il libro è la mappa di una ricerca quasi scientifica condotta con un linguaggio dichiarativo da «naturalista». Esemplare nella sezione il “Secondo tormento”, una sotto sezione, titolata “Le rane”, si legge: «Osservazioni di un naturalista sulla classe degli animali anfibi nel podere della famiglia R.». Se vogliamo, il ritorno alla poesia-racconto di cui ci sono in giro numerose testimonianze, segna l’approssimarsi di una crisi sempre più acuta della società italiana; il bisogno di raccontare e raccontarsi è qualcosa di molto diverso dal bisogno del racconto dell’estroversione dell’io della poesia del minimalismo dagli anni settanta ai giorni nostri.

Con Andrea Emo non si può non riconoscere che solo il «passato… è l’unica sede dell’assoluto… (ché) il passato e la memoria sono il regno di Dio… e (solo) nel passato si manifesta l’assoluto che siamo».1
L’unico assoluto di cui possiamo disporre è la memoria, in essa viene ad evidenza la struttura aporetica della verità originaria, essendo essa verità il suo stesso auto negarsi nel positivo significare di ogni determinazione.
Però, però c’è la forma del pensiero poetante: il pensiero mitopoietico, la narrativizzazione della memoria.
In questa «forma di pensiero poetante» noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, penso, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente, da Vincenzo Vitiello nelle due domande postate in una intervista riproposta qualche tempo fa. Con Massimo Donà ripetiamo che la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).
Allora, sarà chiaro quanto andiamo dicendo e facendo: che la poesia deve ritornare ad essere MITO; si badi non racconto mitopoietico o applicazione e uso strumentale della mitologia, ma «mito», cioè narrativizzazione di momenti esemplari dell’esistenza, racconto delle esperienze che significano. Innalzare a «mito» il racconto del «reale», un po’ quello che ha fatto Kafka nei suoi romanzi e racconti, quello che ha fatto Mandel’štam nelle sue poesie della maturità, quello che fa la poesia svedese di oggi, ad esempio, tre nomi per tutti: Werner Aspenström, Tomas Traströmer, Kjell Espmark, o nella poesia dei poeti cechi Michal Ajvaz e Petr Kral.

1 A. Emo, Quaderni di metafisica, Bompiani, 1972 Q. 348 Continua a leggere

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Poesia scritta a sei mani – Una poesia di Giuseppe Talia, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Commenti di Giorgio Mannacio, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero e altri – Uno stralcio sul frammento di Alessandro Alfieri

Aldo_Moro,_Pier_Paolo_Pasolini_-_Venezia_1964

Aldo Moro e P.P. Pasolini, Venezia, 1964

Giuseppe Talia
6 settembre 2018 alle 18:07

Presumo un apriscatole usato fino all’alba
che gira nelle mani

e non affonda. Le macchie
hanno un calibro distinto.

Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.

[Potessi farei un pingback di questi versi di Mauro Pierno]

 

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 8:38

Ripubblico qui uno stralcio di un articolo già pubblicato nell’ottobre del 2017 che inquadra il «frammento» dal punto di vista filosofico. 

Scrive Alessandro Alfieri sul n. 28 della rivista Aperture del 2012:

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.
Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.
[…]
(Per Walter Benjamin) il filosofo, o come era solito dire lui, lo “storico materialista”, il critico o anche l’artista, deve puntare il suo sguardo su oggetti apparentemente non degni di attenzione, deve farsi “pescatore di perle” per concentrarsi però sugli stracci, sugli elementi trascurati dagli accademismi ufficiali, sui frammenti dispersi e abbandonati ai margini delle strade e cacciati dalle teorie rigorose. Benjamin interpreta perciò frammenti, e il luogo privilegiato dove a dominare sono frammenti è proprio la metropoli moderna, con le vetrine dei suoi passages e le sue luci a gas, capaci di investire il passante con choc percettivi continui.
Le nostre metropoli, che proprio negli anni in cui scrive Benjamin stavano assumendo la fisionomia e l’assetto di quelle che sono diventate oggi, si caratterizzano per la velocizzazione inaudita dei ritmi di vita, dove a venire sacrificata è l’esperienza effettiva di ognuno di noi può fare del mondo, della realtà e dell’altro. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti, che alla “contemplazione” ha sostituito la “fruizione distratta” (…) Tale dimensione è in Benjamin sinonimo di rivoluzione: possibilità di riscatto da parte delle masse
[…]
In Benjamin distrazione e attività non sono in contraddizione: i fenomeni che sembrano costringere ciascuno, per volontà del capitalismo, all’omogeneizzazione e alla passività generalizzata, sono gli stessi che possono condurre l’uomo alla sua tanto sospirata rivincita e affermazione. I frammenti sono perciò da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto ovvero il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la struttura saggistica su determinati argomenti e autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, riferimenti, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico.
Qui assume un ruolo essenziale il concetto di “immagine dialettica” dominante proprio nei Passages; l’immagine dialettica, che si oppone all’epochè fenomenologica, vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione, anzi, è la stessa immagine che, affinché possa sopravvivere, pretende di essere messa in rapporto ad altro. È nell’immagine dialettica che temporalità ed eternità si fondono insieme, passato e presente si amalgamano:

“Non è che il presente getti la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio”.1]

Cogliere nel turbinio incessante e frenetico della modernità dei momenti di stasi improvvisi, delle “epifanie di senso”, capaci di illuminare di una luce differente ciò che invece ci sfugge repentinamente nella vita quotidiana dominata dalle regole del consumo: questo è il compito del filosofo dialettico e del critico della cultura; fissare lo sguardo sui frammenti per farne delle immagini dialettiche che rivelino i processi che li hanno determinati, le loro intenzionalità profonde, i loro valori allegorici e le opportunità che da esse si sprigionano.
[…]
Ontologicamente, ed anche da un punto di vista logico-semantico, l’immagine può dire qualcosa, ha un senso e può comunicare con noi solo perché è da subito a contatto con altre immagini, in rapporto di identità o differenza con esse. D’altronde, è la conoscenza stessa che opera in questa maniera, affidandosi alla “relazione” e non alla “cosa in sé”. Per comprendere questo punto, torniamo a Nietzsche: “Le proprietà di una cosa sono effetti su altre ‘cose’; se si immagina di eliminare le altre ‘cose’, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’è una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna ‘cosa in sé’”.2]
L’immagine rinvia continuamente a ciò che è altro da sé, slitta il suo senso ad un’altra immagine che rimanda a sua volta ad altre innumerevoli immagini. In questo terreno multiforme e frammentato, in assenza di un punto centrale e statico, la riflessione è demandata continuamente al suo passo successivo; questo processo consente al pensiero di vivere, di non esaurirsi in una risposta conclusiva, e di tenersi aperto all’indeterminato.

1] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2007, p. 516
2] F. Nietzsche, La volontà di potenza Bompiani, Milano, 2005, p. 308

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 9:34

A proposito di una poesia scritta a 6 mani

Qualche tempo fa, sulle pagine dei Commenti di questa rivista è stato fatto un esperimento molto interessante, è stata creata una poesia a sei mani a partire da un verso lasciato lì per caso da un commentatore. Ecco, io vorrei sottolineare questo evento perché ne è uscita fuori una poesia non riconoscibile. Imprevista e imprevedibile. Finalmente, è stato creato un qualcosa che nessuno di noi si aspettava.
Ecco la poesia composta da frammenti a 6 mani, da Ubaldo De Robertis, Antonella Zagaroli, Flavio Almerighi, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppina Di Leo. Beh, che ve ne pare? Non sarà una «bella poesia» nel senso tradizionale del termine, ma almeno c’è della elettricità dentro. Qualcosa che vibra.
.
Come la luce passerà su quel vetro o si rifletterà.
M’è dolce leggere ascoltando e vedendo.
Mi raccomando: acqua in bocca!
glu glu glu
In principio non sembrò un problema.
Betta cavalcava la pinna dello squalo
sembrando compiaciuta.
Tre squali bianchi nuotano nella vasca.
Brillano i bambini sul vetro dei bicchieri.
Manca sempre l’oliva, disse lo squalo.
Ignari
suonano con tutte le acque

.

Giuseppe Talia
4 settembre 2018 alle 18:30

.       . A Petr Král

Non c’è alcun dubbio, me lo ha detto lui.
E lui chi è? E’ l’albero. Ma non so con quale
parte dell’albero ho parlato: radici, tronco,
rami, foglie, fiori, frutto o con le cime?
Chi o cosa mi ha parlato? E chi o cosa
dell’albero mi ha risposto che non vi è dubbio?
Buon compleanno.

Gino Rago
4 settembre 2018 alle 18:42 Continua a leggere

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A proposito del concetto di Diafania nella Nuova Poesia – Poesie e Commenti di Mario Gabriele, Dvora Amir, Donatella Costantina Giancaspero, Michal Ajvaz, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Alfonso Cataldi, Giorgio Linguaglossa

 

Gif labbra occhi

Adotto la parola «diafania» per indicare una procedura compositiva «nuova» propria di alcuni poeti della nuova ontologia estetica. La parola è composta dal prefisso «dia» che significava originariamente «fra», «attraverso», cioè l’azione che si stabilisce tra due attanti, tra due o più soggetti, che passa attraverso di loro, e Phanes o Fanes, (in greco antico Φανης Phanês, “luce”), chiamato anche Protogonos (“il primo nato”) e Erikepaios (“donatore di vita”), era una divinità primigenia della procreazione e dell’origine della vita nella cosmogonia orfica.
Il termine «diafania» mi è venuto in mente leggendo le poesie di Steven Grieco Rathgeb, Mario Gabriele e di Donatella Costantina Giancaspero; ho ripescato questo termine dalla significazione teologica che ne ha dato Teilhard de Charden e l’ho riproposto in chiave secolarizzata attribuendogli una nuova significazione, nuova in quanto suggerita dalla lettura di alcune poesie dei poeti dianzi citati. Sappiamo che una nuova poesia deve essere letta e interpretata con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie cartografie euristiche non sono più adatte alla comprensione del «nuovo». Ecco quattro versi di Mario Gabriele:

Alle 18 torna Milena.
Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni.
Sale il fumo fino alla lampada.
Andrea rinnova aria fresca.

Se leggiamo con attenzione i versi riportati, ci accorgiamo che, apparentemente, non c’è nulla di nuovo. I versi ci dicono, in rapida successione, che alle 18 torna Milena, la quale prepara la cena (tempo presente) ma che il «tavolo ha quarant’anni» (proposizione dichiarativa senza nesso logico con le precedenti proposizioni), e che del fumo sale fino alla lampada (altra proposizione dichiarativa) mentre che «Andrea rinnova aria fresca» (altra proposizione dichiarativa e tautologica perché l’azione di rinnovare l’aria fresca è una tautologia vuota di significato). Dunque, una serie di proposizioni dichiarative auto significanti producono l’effetto di un universo in miniatura auto significato, auto significato in quanto auto giustificato, cioè fatto di proposizioni protocollari date e ricevute alla e dalla comunità per inconcusse e apodittiche. Mario Gabriele impiega nelle sue composizioni questi frasari auto giustificati che lui assembla in modo tale da farne sortire fuori dei significati nascosti, inverosimili, ultronei. Questa è, per l’appunto, una «diafania», ovvero, il darsi di Phanes, in modo immediato «attraverso» «fra», altre proposizioni che si danno in modo auto affermativo e auto apodittico. La «diafania» è in questo tipo di composizione il modo di procedere e di costruire gli «eventi» linguistici i quali sono in sé auto prodotti, auto giustificati e auto significanti. La «diafania» in Mario Gabriele sta nella procedura adottata e dal nuovo sguardo che lui posa sulle «cose» linguistiche del mondo. La «diafania» è un guardare e un produrre le «cose» linguistiche in modo da mostrare l’interna contraddittorietà e falsificabilità della propria significazione; la «diafania» è il modo scelto da Gabriele per mostrare a tutti che il re è nudo.

Se leggiamo un verso di Donatella Costantina Giancaspero, ci accorgiamo che qui siamo davanti ad una proposizione che indica una «cosa» non riconoscibile, anzi, irriconoscibile. Al contrario della procedura adottata da Mario Gabriele, nella procedura della poetessa romana abbiamo una modalità di costruzione molto differente. Leggiamo un emistichio:

un nido di vespe nel lampadario.

Gif we were born to die

Il significato di questa proposizione può essere esaminato da vari punti di vista, anche dal punto di vista psicanalitico, ma, sicuramente il significato residuale ci indica una «cosa» del tutto inutilizzabile, ed anche una «cosa» di estremo pericolo, una «cosa che impende, che resta lì, sopra le nostre teste, e che ci condiziona, ci minaccia con la sua sola presenza anche in assenza di azioni o di eventi, anzi, l’evento principe è che qui non si dà alcun «evento», l’evento è nel Phanes, nel mostrarsi per quello che è quella «cosa», un qualcosa che noi non conosciamo ma che sta lì, all’erta, in attesa di qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che potrebbe scatenare una reazione, una risposta temeraria e bellicosa. Questo è un genere di «diafania» tipica della procedura compositiva della poetessa romana. È una procedura nuovissima, mai adottata dalla poesia italiana ma ben presente ad esempio in altre tradizioni letterarie, ad esempio nei poeti cechi Petr Kral e Michal Ajvaz. La «diafania» nella Giancaspero indica, in temini psicanalitici, la rimozione di una rimozione, con il che un qualcosa è pervenuto alla soglia della istanza linguistica che le ha confezionato un vestito linguistico, quel qualcosa che non può che essere una catacresi. Ecco, la poesia della Giancaspero ha questa caratteristica, che ha sempre a che fare con la catacresi, che è il modo di darsi di Phanes, il modo di venire alla luce della vestizione linguistica di un qualcosa, di un contenuto di verità che è stato travisato e composto (tradotto) in parole inesplicabili, in un Enigma.

Mario M. Gabriele
1 maggio 2018 alle 11:04

Grazie Giorgio di questa tua ennesima fioritura critica. Vorrei entrare nel merito della diafania, presentando un testo che si energizza su questo tema, senza per questo creare amputazione con il linguaggio corrente. Trattasi di una ulteriore via di agglutinazione sferica delle idee e delle sovrapposizioni sensoriali, che alla fine si armonizzano nella struttura segmentata. E’ ovvio che questo testo ha un suo valore interpretativo solo se, come dici tu, lo si analizza “con l’ausilio di un nuovo apparato concettuale, in quanto le vecchie categorie euristiche non sono più adatte alla comprensione del nuovo”.

I
inedito da: Registro di bordo

………………………………..
Berenice non ha altro da fare
che mettere blazer di vecchia data.
La stagione resiste all’epitaffio.
Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,
salvare papiri ed ebook.
con 8 posti senza turnover.

Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
della Letteratura Italiana .
Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
Al vicolo 7 di Piazza Bologna,
nessuno ha una vita privata.
Quando la poesia sfugge
diventa grazia autonoma.

In un inverno del 93 cademmo nel crinale.
Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.
Il fiume era rientrato nell’ alveo.
Carlo già pensava alla brossure della Gita domenicale.
Ada, la magnifica Ada
dai sette lumini e corde di chitarra,
si era concentrata sugli steli di gramigna.

Una piccola colazione
portò fantasmi e sentimenti abrasi.
Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.
Lo stato delle cose è nel tempo.
La Canducci ha azzerato il debito.
Siamo in bilico.
Ofelia si trastulla con l’oboe.
La notte ha rubato la luna.

Su altri versanti sostano i giorni a venire.
Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali
con Dibattito su amore e Il Dente d’oro di Wels.
Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.

El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
Un paesino di sintassi crudele
ha aperto check-in e ogni limite.
-Oggi non è venuto nessuno;
e oggi sono morto così poco questa sera!-
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Petr Král – Lettera ai poeti della nuova ontologia estetica – Sabino Caronia – Un Appunto su Critica della ragione Sufficiente (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21) di Giorgio Linguaglossa con due poesie di Anna Ventura

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Lettera di Petr Král

 Chère Donatella Costantina Giancaspero,

merci de votre lettre et de l’intérêt que vous portez à mes écrits; l’article sur Notions de base, bien sûr, m’intéressera beaucoup.

Je comprends mieux, grâce à votre lettre,  la notion de “nouvelle ontologie  esthétique” et le besoin que vous avez d’une “devise” de cette sorte. Moi aussi, après tout, j’ai utilisé l’expression de “phénoménologie” poétique à propos de mes Notions de base, justement, ce qui n’est pas très loin de votre ontologie… Je trouve, en tout cas, que votre initiative pour relancer le débat sur la poésie dans le contexte actuel est une initiative heureuse et utile et qu’elle mérite  d’être connue et suivie le plus possible; et si je peux y contribuer un peu, je n’hésiterai pas à le faire, selon les circonstances et avec mes moyens personnels.

Comme vous, je serais content si cela  nous permettait également de nous rencontrer un jour. Avec un amical bonjour pragois, à vous et à vos amis ontologistes.

[Cara Donatella Giancaspero,

grazie per la tua lettera e il tuo interesse per i miei scritti; l’articolo su Nozioni di base, ovviamente, mi interesserà molto.

Capisco meglio grazie alla tua lettera, il concetto di “nuova ontologia estetica” e la necessità si dispone di un “motto” di questo tipo. Io anche, dopo tutto, ho usato l’espressione “fenomenologia” poetica a proposito delle mie Nozioni di base, che non è molto lontano dalla vostra ontologia … Io penso, comunque, che la vostra iniziativa per rilanciare il dibattito sulla poesia nel contesto attuale è un’iniziativa felice e utile e che merita di essere conosciuta e seguita il più possibile; e se posso contribuire un po’, non esiterò a farlo, secondo le circostanze e con i miei mezzi personali.

Come te, sarei felice se ci permettesse anche di incontrarci un giorno. Con un amichevole buongiorno praghese, a te e ai tuoi amici ontologisti]

[Sabino Caronia, Steven Grieco Rathgeb, Grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Sabino Caronia, soltanto un Appunto

 Giorgio Linguaglossa scrive nel Retro di copertina del volume:

Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: «verso una nuova ontologia estetica». Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una «ragione sufficiente». Non dobbiamo farci  illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una «nuova ontologia estetica» della forma-poesia:  un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che  il presente non è affatto certo.

Il programma «minimo» annunciato nel sotto titolo diventa, come per magia, un programma «massimo».

Diamo la parola a Linguaglossa:

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato – La crisi dei fondamenti

Vattimo in La fine della modernità (1985), scrive: «l’esperienza postmoderna della verità è un’esperienza estetica». Per Vattimo, il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate. La filosofia nel suo nocciolo più autentico, da Aristotele a Kant, è sapere primo. Con  Nietzsche e Heidegger è svanita l’idea della filosofia come sapere fondazionale. La filosofia diventa ermeneutica, le categorie diventano instabili, l’instabilità diventa stabilizzazione della instabilità e il «frammento» diventa il «luogo» dove le processualità del reale si danno convegno. Si intende in tal modo collocare i «frammenti» in quella che innumerevoli volte e stata definita la nuova koiné del nostro tempo: la cultura filosofica postmoderna, derivante dall’eredita di Nietzsche e Heidegger, che ha trovato rifugio ed approfondimento in Gadamer, Ricoeur, Rorty, Derrida.

Il «frammento» si da soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Ecco perche l’eta pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento».

 Esponente di rilievo dell’ermeneutica contemporanea, fortemente influenzato dal pensiero di Martin Heidegger e di Friedrich Nietzsche, Vattimo ritiene che l’oltrepassamento della metafisica sfoci in un’etica dell’interpretazione. La filosofia diventa pensiero debole in quanto abbandona il suo ruolo fondativo e la verità cessa di essere adeguamento del pensiero alla realtà, ma è intesa come continua interpretazione. Esistono, dunque, diverse ragioni che contrastano le pretese della filosofia fondazionale, ma il motivo di maggior peso è dato proprio dall’ermeneutica, arte e tecnica dell’interpretazione che riguarda il rapporto tra Linguaggio ed Essere.

Esistere significa vivere in relazione ad un mondo e questo rapporto è reso possibile dal fatto che si dispone di un Linguaggio. Le cose vengono all’essere solo entro orizzonti linguistici non eterni ma storicamente qualificati. Anche il linguaggio non è una struttura eterna.

[Giuseppe Ungaretti, Eszra Pound, Grafica di Lucio Mayoor Tosi L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici]

L’uomo è gettato all’interno di questi orizzonti linguistici, legge ed interpreta l’essere e si rapporta ad essi. Ma, trattandosi di orizzonti temporalizzati, vale a dire non eterni, è chiaro che sparisce ogni pretesa di discorsi o teorie eterne e assolute su Dio, sull’uomo, sul senso della storia o sul destino dell’umanità. L’avventura del pensiero metafisico è giunta al suo tramonto. L’uomo si trova già da sempre gettato in un progetto, in una lingua, in una cultura che eredita. L’uomo si apre al mondo tramite il Linguaggio che parla. Risalire a queste aperture linguistiche che permettono la visione del mondo significa pensare e prendere consapevolezza della molteplicità delle prospettive e degli universi culturali.

La verità diventa la trasmissione di un patrimonio linguistico e storico, che rende possibile e orienta la comprensione del mondo.

Umberto Saba scriveva in Quello che resta da fare ai poeti: «un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima invenzione». È proprio quello che fa Linguaglossa quando sposta il binario Debenedettiano dalla linea Saba-Penna alla linea Tranströmer-Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb nuova ontologia estetica della poesia italiana ed europea. Leggiamo un brano significativo.

Ha scritto Linguaglossa:

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio…

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer Continua a leggere

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Guido Galdini POESIE SCELTE da Gli altri (LietoColle, 2017) con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. È finito un concetto di «reale» – Inizia un nuovo realismo – C’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico – La poesia che si fa oggi

 

Gif Skyscrapers's cataclism

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione (Roberto Bertoldo)

 

 Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria ha lavorato nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte “Il disordine delle stanze” (PuntoaCapo, 2012) e “Gli altri” (LietoColle, 2017). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. È attualmente impegnato nella stesura di un testo di informatica aziendale.

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti.
Il guardare verso e attraverso finestre che non c’erano
ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle
con proprietà terapeutiche improbabili.
L’uomo deve quindi badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
[…]
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

(Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura, 2011)

[Guido Galdini]

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Mi scrive Guido Galdini:

«I temi di questa raccolta sono molto lontani da quelli dagli Appunti Precolombiani: nel suo piccolo è il tentativo di dare un’idea dello sgretolamento del mondo contemporaneo a partire da modesti fatti quotidiani. Ho cercato, come autore, di acquisire la massima invisibilità e, nel contempo, di operare con la massima precisione. Non posso permettermi sbavature. Mi sembra di camminare in equilibrio sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo (o forse ci sono dentro da sempre senza rendermene conto e senza riuscire a risollevarmi). Il punto di partenza deve comunque essere concreto: vi sono parecchi riferimenti specifici al paese dove abito, con nomi di luoghi e riscontri immediatamente verificabili.

Lei aveva, molto acutamente, nel commentare gli estratti degli Appunti Precolombiani, fatto riferimento ad una pittura realistica (Delvaux) però prosciugata dallo spaesamento surrealista. Io mi sento affascinato in modo totale dall’informale e dall’astrazione (Afro, Santomaso, Morlotti, Veronesi, Licini), ma il mio pennello ha le setole di Antonio Donghi».

In apertura del libro di Guido Galdini c’è una citazione di René Daumal: «La porta dell’invisibile deve essere visibile» e, conseguentemente con questo assunto, l’attenzione dell’autore è incentrata sul «visibile», sugli oggetti del quotidiano, sui personaggi di tutti i giorni; una vita grigia, sbiadita, piccole cose neanche di cattivo gusto: l’ordinario, il routinario, il normale: «i venditori di ombrelli sui marciapiedi», la fornaia, le persone, i piccioni alle finestre, i colombi sul tetto, le vetrine dei negozi, la corriera, il lavandino, i marciapiedi, le automobili, una lucertola cui «si è staccata la coda», il «ponte dell’autostrada», «la cassetta per le lettere», «i portici verso piazza della Repubblica», la «cassiera»; e poi ci sono gli oggetti consueti: l’ombrello, il cellulare, la bicicletta, il televisore, le ciabatte, «le bandierine di plastica… sopra le vie di San Rocco», «i tacchi a spillo», «il gregge di pecore / che stamattina ci ha bloccato sulla circonvallazione», «il furgoncino della raccolta della carta», la «cabina telefonica», il «parcheggio del supermercato», «olio, patate, insaccati e birra… pasta e passato di pomodoro», «due panini, un cartone di latte, qualche pesca, una scatoletta di cibo per gatti», «l’edicola di fronte al castello Quistini», «le tecniche di attraversamento di una rotonda europea / sono una prova che la vita ci impone», «c’è sempre un incidente, sulla strada o al lavoro», «i libri usati», «un segnalibro», «le poesie di Raboni, / farcite di biglietti di cinema, di mostre e di filovie», «scrivono con lo spray / le banali frasi d’amore copiate da qualche foglio», «una zanzara si posa sulle pagine», «il cane che si era perso», «un tailleur grigio con il colletto di velluto», «la felicità dello schermo», «il gratta e vinci», «un batuffolo di cotone», «i riccioli biondo rosa ben curati», «bambini ammucchiati in stazione», «un mappamondo che s’illumina con la spina», «i pendolari di luglio».

salve è il saluto
che salva dall’imbarazzo di scegliere
tra il tu ed il lei, tra la
complicità e la distanza,
rimanendo sospesi
nella stessa indecenza del grigio

Come ho scritto in altre occasioni, il processo di narrativizzazione che ha investito in queste ultime decadi la poesia italiana trova qui una perfetta esemplificazione: fare una poesia della «indecenza del grigio», dei «modesti fatti quotidiani» in cui si sveli lo «sgretolamento del mondo contemporaneo», come scrive l’autore,  «sul filo per non cadere nell’abisso del minimalismo» è un progetto che è stato già perseguito nel secondo novecento dalla poesia di adozione milanese e lombarda, Guido Galdini è tra i più bravi in assoluto in questo tipo di poesia, ma mi chiedo se ci sia ancora spazio per uno sviluppo ulteriore in questa direzione; quella narrativizzazione, quel pedale basso, quel lessico «grigio» una volta pigiato a tutto tondo non può essere schiacciato oltre, e i nodi estetici vengono al pettine. Questo stare ossessivamente qui e ora che la poesia dei lombardi si ostina a percorrere, rischia di rivelarsi un vicolo cieco.

 Quella narrativizzazione della poesia contemporanea, quella che è stata chiamata da un autorevole critico «la poesia verso la prosa», altro non è che un riflesso della crisi del logos che si vedrà costretto ad accentuare il carattere assertorio, suasorio e minimal del demanio «poetico» con la conseguenza di una sovra determinazione della «comunicazione» del discorso poetico ad inseguire il narrativo.

 E allora occorrerà fare un passo indietro: la riflessione di Heidegger (Sein und Zeit è del 1927) sorge in un’epoca, quella tra le due guerre mondiali, che ha vissuto una problematizzazione intensa intorno alla de-fondamentalizzazione del soggetto. Oggi, in un’epoca di crisi economica, politica e spirituale, mi sembra che i tempi siano maturi affinché vi sia una ripresa della riflessione intorno alle successive tappe della de-fondamentalizzazione del soggetto (e dell’oggetto). L’esserci del soggetto è il nullo fondamento di un nullificante; avrei qualche dubbio sulla scelta di porre una poesia intorno al «soggetto» perché dovremmo chiederci: quale «soggetto»?, quello che non esiste più da tempo? Quello che è stato de-fondamentalizato? Il soggetto come luogo retorico? Il soggetto come luogo dell’esperienza?

Ritengo che la poesia che si fa oggi non possa essere esentata dalla investigazione sulla crisi del «soggetto», che una «nuova ontologia estetica» non può non prendere a proprio parametro.

Però, però c’è anche un’altra forma di pensiero: il pensiero mitico.

In questa forma di pensiero noi possiamo stare, contemporaneamente, qui e là, nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Il nocciolo della «nuova ontologia estetica» è questo, credo, in consonanza con il pensiero espresso dalla filosofia recente, da Vincenzo Vitiello nelle due domande postate qualche tempo fa e in accordo con il pensiero di Massimo Donà secondo il quale la «libertà» mette a soqquadro il Logos, la «libertà» infrange la «necessità» (Ananke).

Allora, sarà chiaro quanto andiamo dicendo e facendo: che la poesia deve ritornare ad essere MITO; si badi non racconto mitopoietico o applicazione e uso strumentale della mitologia, ma «mito». Innalzare a «mito» il racconto del «reale», un po’ quello che ha fatto Kafka nei suoi romanzi e racconti, quello che ha fatto Mandel’stam nelle sue poesie della maturità, quello che fa la poesia svedese di oggi, ad esempio, alcuni nomi per tutti: Werner Aspenström, Tomas Traströmer, Kjell Espmark, Katarina Frostenson e anche: Petr Kral, Michal Ajvaz, Reznicek, Ewa Lipska.

È finito un concetto di «reale» – Inizia un nuovo realismo

Il limite della poesia italiana di questi ultimi cinquanta anni è che è restata ingabbiata all’interno di un concetto di «reale linguistico» asfittico, chiuso (vedi l’egemonia di un certo lombardismo stilistico molto affine alla prosa), un concetto di reale che seguiva pedantemente la struttura della sintassi in uso nella narrativa media italiana, un positivismo sintattico che alla fine si è dimostrato una ghigliottina per la poesia italiana, un collo di bottiglia sempre più stretto… Ad un certo punto, i poeti italiani più avvertiti e sensibili si sono accorti che in quella direzione non c’era alcuna via di uscita, e hanno cercato di cambiare strada… La «nuova ontologia estetica» altro non è che la presa di consapevolezza che una direzione e una tradizione di pensiero poetico si erano definitivamente chiuse e non restava altro da fare che cercare qualcosa di diverso…

Gif grattacieli dall'alto

l’altra notte che era umida e inquieta
mia cugina mi ha telefonato in un sogno

Guido Galdini
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La Nuova Ontologia Estetica: Poesie di Anna Ventura, Raymond Carver, Michal Ajvaz, Petr Král, con Commenti di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Gif hair pop art

Riassumo qui brevemente alcune caratteristiche dei linguaggi della «nuova ontologia estetica»:

Frammento, frammentazione, de-simbolizzazione, disparizione dell’io, presenza della contraddizione, principio di contraddittorietà, principio di negazione, diplopia della identità, principio di incontraddittorietà, il paradosso, intemporalità, multitemporalità; inversioni spazio-temporali; mobilità degli investimenti linguistico-libidici; indipendenza dell’io dalla realtà esterna; il mondo esterno visto dal «tempo interno»; il «tempo interno» dell’io, il «tempo interno» delle parole; utilizzazione del punto nella orditura della sintassi, ritorno del rimosso, asse metonimico e asse metaforico

Tutti questi sono evidenti tratti salienti dell’inconscio. E non c’è neanche bisogno di ricorrere alla procedura dei surrealisti, la «nuova ontologia estetica» viene molto tempo dopo l’esaurimento del surrealismo, vive semmai degli spezzoni e dei lacerti dell’epoca post-surrealistica, tra gli stracci delle parole, tra le parole di plastica della lingua di plastica dell’informazione, in mezzo alle parole «raffreddate» ed assopite. [g.l.]

Mario Gabriele
18 giugno 2017 alle 14.29

Bene ciò che dici Giorgio sul piano della posizione estetica della «nuova ontologia estetica». In poesia bisogna adoperare tutti gli strumenti tecnici in grado di rendere il testo ineccepibile. E’ nostro dovere offrire il meglio della esperienza linguistica e culturale. Ci stiamo lavorando sempre in crescendo (vedi Tosi e altri poeti qui presenti) non per produrre l’increabile, ma per rispondere al postmoderno poetico lasciato nelle mani di conservatori e idealisti. Ogni poeta della «nuova ontologia estetica» ha un proprio cliché estetico che lo porta a indagare su ogni aspetto della realtà, e la cosa più sorprendente che si può rilevare, è che questo modo di scrivere versi non si identifica per niente con la produzione poetica degli anni passati e con chi, per un motivo o per altro, presenta rigide tesi a sostegno dei loro lavori rispetto alla NOE.

Giorgio Linguaglossa
18 giugno 2017 alle 15.54

caro Mario,
contro i timorosi del «nuovo», contro i conservatori ad oltranza, contro chi reclama la conservazione della tradizione (come se essa fosse un capitale che sta in banca a produrre altro capitale ad interessi fissi), contro chi è recalcitrante alle nuove forme estetiche, contro chi pensa che scrivere poesia lo si possa fare a spese della tradizione utilmente collocata nel proprio bagaglio pret à porter, riporto qui un pensiero di Adorno:

“Gli argomenti contro l’estetica «cupiditas rerum novarum», che così plausibilmente possono richiamarsi alla mancanza di contenuto di tale categoria, sono intrinsecamente farisaici. Il nuovo non è una categoria soggettiva: è l’obbiettiva sostanza delle opere che costringe al nuovo perché altrimenti essa non può giungere a se stessa, strappandosi all’eteronomia. Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo… Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità. Quel che Schömberg diceva con semplicità, «chi non cerca non trova», è una parola d’ordine del nuovo […] Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obbiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo (e ciò è esemplare per le categorie dell’arte moderna) è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale, nome per modi di comportamento artistici per i quali il nuovo è vincolante, si è conservato; esso però indica ora un elemento qualitativamente diverso… indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo”. “la categoria del nuovo è centrale a partire dalla metà del XIX secolo – dal capitalismo sviluppato -“. “L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1]

1] T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33

Mario Gabriele
18 giugno 2017 alle 17.50 Continua a leggere

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Antologia bilingue della Poesia Ceca contemporanea a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 €  16,00) Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Brno Del Zou - Izoumi, 2012Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Segnalo un libro davvero importante e insostituibile come questo pubblicato dalle edizioni Mimesis Hebenon nella collana diretta da Roberto Bertoldo a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero nevePoeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis 2005 pp. 228 €  16,00). Devo riconoscere la capacità critica e la competenza del curatore Antonio Parente nell’aver saputo individuare con precisione i valori poetici degli autori presentati (Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol), ed elogiare la perizia del traduttore che ha saputo ricostruire in un ottimo verso libero italiano il testo ceco originale. Ma l’aspetto più rilevante che mi preme sottolineare è il «nuovo» e «diverso» concetto di poesia che emerge dai numerosi testi qui presentati; con «nuovo» intendo qui individuare il valore discriminante rispetto alla linea maggioritaria che oggi sembra occupare gli scaffali della poesia italiana contemporanea. Innanzitutto, la sapiente costruzione mediante le immagini «doppie», o a «elica» (le eliche doppie, e anche le volute della scala a chiocciola), a doppio binario; in secondo luogo, la capacità di questi poeti cechi di accoppiare elementi eterogenei e contraddittori allo scopo di determinare l’immagine con più nettezza di particolari e maggiore precisione metaforica. Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

(Michal Ajvaz)

Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.

La «nuova poesia ceca» non ricerca affatto alcuna conciliazione fra ricerca sperimentale e cultura di massa, non persegue il raggiungimento di una coabitazione tra arte sperimentale e arte di massa, il felice o infelice accordo fra l’oggetto artistico e l’oggetto merce. Alla luce abbagliante della coabitazione spaesante nella società delle immagini virtuali, la poesia si trova paradossalmente a suo agio, i poeti qui convenuti sembrano prediligere un irrealismo magrittiano in direzione di un’arte a-concettuale, anti acustica. Prediligono a una «poesia verticale» una «poesia orizzontale». Una dizione piana, che non teme di apparire quasi noiosa, una oggettistica per lo più banale, e chi più ne ha più ne metta ma è la connessione spaesante tra gli oggetti che determina la «nuova visione», è la dis-connessione tra gli oggetti quella che determina la «nuova poesia ceca», del tutto fuorviante e a-concettuale per un lettore italiano abituato al minimalismo nostrano con tanto di perbenismo davvero piccolo borghese.

Come si può notare, i colori sono sordi, freddi, l’esposizione da realismo o iperrealismo, da abbecedario e da settimana enigmistica, volutamente «basso», «triviale»; alla lettura non ci coglie nessuna emozione vertiginosa e nessuna estasi, il lettore è trasportato, come su una scala mobile o un nastro semovente, attraverso palcoscenici e quinte che trascorrono dall’ordinario routinario allo strampalato post-surreale. Tra il surreale e il reale c’è di mezzo il mare, la poesia abita un corridoio di immagini e considerazioni oziose, respingenti, prosaiche, insensate che danno il senso complessivo di iperrealtà; di qui la procedura iperrealistica auto respingente che viene però sempre immediatamente decontestualizzata dallo scorrere dei fotogrammi delle immagini ordinarie, post-surreali e/o grottesche. All’improvviso, si rivela lo squarcio, la scissione; l’enigmatico deprivato di enigma appare ancor più enigmatico. La scrittura si rivela come montaggio di istantanee che fotografano l’impossibile e il grottesco. I frammenti sono accatastati l’uno all’altro senza apparente ordine, senza rigore formale. Una poesia terremotata e disartizzata le cui membra disiecta giacciono ad imperitura memoria. Nella poesia di questi cechi possiamo ancora riconoscere attraverso l’assurda tessitura dei testi l’assurda struttura del mondo, la profonda intercapedine che esiste tra il nome e tra i nomi, non più soltanto tra il nome e la cosa. Il significato se ne è andato a farsi benedire. Il problematico è stato disartizzato ed evirato. Ciò che rimane sono i poeti che non possono più abitare poeticamente il mondo.

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata «morte del surrealismo», sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’. Lo stesso autore ci confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero».

Vorrei limitarmi ad indicare ai lettori lo stratagemma impiegato da Pavel Řezníček: l’inserimento nel corpo del testo poetico di lacerti del «reale», del «quotidiano», però decontestualizzati e spostati lateralmente in modo da sconvolgere l’orizzonte di attesa del lettore, sorprenderlo, scuoterlo e coglierlo d’infilata. Procedimento questo adottato dalla poesia italiana per la prima volta da autori italiani appartenenti alla Poetry kitchen. Leggiamo alcune righe del poeta ceco:

appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

foto Pavel Řezníček
Tre poesie di Pavel Řezníček

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany
meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa
I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia
Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Foto, giostra con sedili

Una poesia di Karel Siktanc

Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso

E me stessa mando altrove

Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi

E intorno alla bara cantano qua e là

Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio

che non reggerebbe più la partitura

Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa

E adesso sarà solo altrimenti

Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere

rimbombano per via Sperone

Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri

risplende il gioiello del mio dispiacere

Apro
Chiudo a chiave

e fa freddo dappertutto E buio

È la santa Angoscia già dal principio del mondo

foto milan-napravnik-il-nido-del-buio
Una poesia di Milan Napravnik

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

foto Poeti cechi contemporanei
Una poesia di Jachym Topol:

Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente

(Martedì ci sarà la guerra, 1992)

Michal Ajvaz 1

Michal Ajvaz

:

Tre poesie di Michal Ajvaz

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

*
La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

petr kral 1

petr kral

Due poesie di Petr Kral

Edward Thomas (1878-1917)

I

Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido

II

Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.

(Per l’angelo, 2000)

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SEI POESIE di MICHAL AJVAZ (cura e traduzione di Antonio Parente) da Autori vari, da “Sembra che qui la chiamassero neve. Poeti cechi contemporanei”, Hebenon-Mimesis, Milano 2004 con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

città-praga-lampione-di-strada-tram

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Giorgio Linguaglossa

Michal Ajvaz si riallaccia a quella grande tradizione filosofico-fantastica che fa capo a Borges, Calvino, Perec. Il suo è un viaggio fantastico attraverso un futuribile, modernissimo e improbabile mondo quotidiano di Gulliver. I personaggi che intervengono nelle poesie di Ajvaz sono persone qualsiasi, i nostri vicini di casa, magari un po’ stralunati, che sembrano venuti da un altro pianetaAjvaz presenta delle situazioni dove personaggi improbabili attraversano il nostro quotidiano come fosse una dimensione onirica, e attraversano la dimensione onirica come fosse il nostro quotidiano. Ajvaz tratta il quotidiano alla stregua di una dimensione onirica e farsesca, con tutto ciò che ne consegue in termini di svalutazione della Storia e delle ideologie. Non si dimentichi che Ajvaz proviene da quella generazione che ha vissuto il 1968 praghese, i carri armati sovietici, la restaurazione e la fine violenta della Primavera di Praga, il gelo della nuova guerra fredda, la fine del comunismo e l’inizio di una nuova era capitalistica, il liberismo sfrenato e una sfrenata liberalizzazione dei mercati. Una vera ecatombe della semiosfera e della ecosfera politica e antropologica del popolo praghese. E che cosa poteva fare la poesia praghese dinanzi a questi eventi macrostorici? Che cosa poteva fare Ajvaz se non rispondere con una carica energetica notevolissima, con un nuovo «realismo onirico», come è stato chiamato o «irrealismo onirico», come io lo chiamerei? Forse, la poesia reagisce come la coda di un rettile: si ritrae istintivamente di fronte alla crudeltà della storia. Se il «realismo» rientra in quella grande ideologia della semiosfera che crede che il «reale» stia lì e noi qui a rappresentarlo, l’irrealismo di Ajvaz parte dal presupposto opposto, che il «reale» è scomparso e che noi dobbiamo ricreare il «reale» ogni volta che gettiamo uno sguardo su di esso. Ha scritto Boris Groys: «La vittoria del materialismo in Russia portò alla totale scomparsa nel paese di qualsiasi materia».1  Verissimo. Potremmo dire, parafrasando Groys, che la dittatura staliniana, la fine prematura della primavera di Praga del ’68, ha finito per far scomparire presso la poesia ceca i concetti di «reale» e di «materia», ha decretato la scomparsa di tutte le ideologie che peroravano la bontà  e l’eternità di quel «reale» e di quella «materia». Ecco la scaturigine profonda dell’«irrealismo» post-surreale di Ajvaz. Perché un certo tipo di poesia «realistica» consegue sempre da un certo concetto di «reale», è un atto di formazione estetica di quel «reale», un rafforzativo di una certa visione del mondo, rientra, insomma, in un determinato concetto della semiosfera e della sua utilizzazione in chiave conservativa. Ecco, a me sembra che la poesia di Ajvaz ci dica che non c’è nulla che valga la pena di conservare, che non c’è un «tutto», e che esso «tutto» è soltanto una costruzione ideologica che serve di «rinforzo» di una certa visione di un certo «reale». «Le relazioni verticali in poesia / sono fittizie», scrive Ajvaz. Appunto, un concetto di «relazione verticale»  in poesia ha cessato di essere stilisticamente propulsivo, vitale; ciò che resta di vitale è tutto ciò che non rientra in questo tipo di concetto di «relazione verticale», gerarchica.

L’autore ceco non pensa più di disporre del potere di regolare il «reale» e di «dominare» il materiale poetico, concetto questo tipico delle avanguardie novecentesche, in Ajvaz il testo è una relazione orizzontale non gerarchica. È una poesia che si affida alla procedura metonimica. Ecco, leggiamo: la mattina dei turisti giapponesi entrano nella stanza dove il poeta vive, ecco quello che accade:

I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale 
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

Oppure, ecco un nano che strimpella su un pianoforte allo Slavia caffè dove il caffè «costa otto corone e quaranta», e succede un gran parapiglia con i clienti del bar, perché «i clienti e i nani si odiano»… Ed ecco che all’improvviso irrompe «una mandria di renne», e, subito dopo compaiono dei koala che litigano con gli avventori del bar, e poi ecco «un animale bianco» che non sa cosa fare… etc. È un tipo di poesia dove l’organizzazione sintattica ha smesso di funzionare come relazione razionale verticale, dove il «dominio» ha cessato di esercitare le sue qualità taumaturgiche e le sue bontà razionali, dove l’unica regola ferrea è quella della orizzontalità di tutto quanto noi designiamo con l’antiquato concetto di «reale» e quant’altro.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia.

Vorrei richiamare la classificazione di Cesare Segre, delle posizioni del «narratore» rispetto al «testo», procedura che può essere adottata anche in poesia, anzi, che mi sembra calzare a pennello per la poesia di Michal Ajvaz. La sottopongo alla attenzione dei lettori. Si tratta di una procedura di «irrealismo onirico»:

1) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

2) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che però analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico);

3) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

4) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico).

La caratteristica della poesia di Michal Ajvaz è che egli utilizza un po’ tutti questi punti di vista insieme secondo una procedura multicentrica e poliprospettivistica.

 I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

*Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato

La grande qualità di Ajvaz è quella di saper inserire nello scorrimento del «verosimile» delle sue poesie delle deviazioni di senso, delle proposizioni incidentali e parentetiche che sospendono e sviano il senso, i significati delle poesie per convogliarvi un sopra senso, un sotto senso, dei sensi obliqui, significati diagonali, spostati, ellittici. È una procedura sconosciuta alla poesia italiana del secondo Novecento, perché noi in Italia non abbiamo avuto una scuola poetica surrealista e siamo rimasti orfani, orfani di un approccio squisitamente «realistico» al problema del «reale». Abbiamo avuto delle ottime manifatture di bottega (la cd. linea lombarda è una di queste) che hanno però prodotto risultati estetici prevedibili e, in qualche modo, programmabili e programmati. In Ajvaz invece abbiamo un poeta che ha fatto tesoro della procedura surreale o surrazionale di costruzione del testo poetico, senza dubbio Ajvaz ci presenta dei testi che esulano dagli stilemi realistici della nostra tradizione letteraria,  il nocciolo di questa procedura è costituito dalla deviazione.
Nel brano riportato è davvero bizzarra quella invenzione dei turisti che entrano ed escono dall’appartamento mentre fotografano tutto, e quel treno espresso internazionale che passa per la camera da letto. Si tratta di inserti a metà tra il surrazionale e l’assurdo che ci svelano un nuovo rapporto con il «reale» cui siamo abituati.
Se lo stile di un autore è individuato dal sistema delle deviazioni (deviazioni dalla langue, dal linguaggio letterario, dai cliché e dai modelli letterari invalsi in un sistema letterario), dobbiamo riconoscere che i testi di Ajvaz risultano avere uno stile di eccellente fattura.
Credo che da Ajvaz ci sia molto da imparare.

  1. Groys Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti, 1998 p. 28
onto ajvaz

Michal Ajvaz, grafica di Lucio Mayoor Tosi

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Michal Hajvaz copertina

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

Fiume sotterraneo

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia. Il foglio bianco dopo l’ultima lettera del rigo
ancora indistintamente espira parole insabbiate (ora piuttosto
soltanto il loro profumo), di tanto in tanto si solleva
nel candido vuoto un frammento di frase, un’immagine indistinta
come l’allucinazione di un esploratore polare sulla distesa di neve.
Sono immagini di sogno di porti pullulanti di gente sul molo,
immagini di una giungla dove sui ruderi del tempio sorge un sole rosso,
nei sui raggi rilucono roride statue d’oro, gli uccelli stridono.
Riusciremo a seguire l’orma del verso che svanisce?
Non annegheremo nella pagina bianca,
avremo abbastanza coraggio da lasciare la riva sicura del nero tipografico?
Sembra che se non impariamo ad ascoltare la confidenza della pagina vuota,
non capiremo neanche il senso delle parole stampate.
Il senso delle parole si alimenta delle linfe del tutto, che si estende
fino alla foresta vergine e fino alla riva. L’oceano è vicino.
Quando vi troverete alla fine del verso,
dimenticate la stupida abitudine di tornare all’inizio
del seguente e continuate, superate finalmente il confine.
Non abbiate paura di perdervi nel giardino di immagini che maturano.
Andate finalmente per una volta fino alla fine del cammino,
verso l’inferriata argentea: già da anni vi aspettano pazientemente.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

hebenon

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

Parchi

Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Passando per la tavola calda illuminata con pareti piastrellate,
ci avviammo verso gli estesi parchi, da dove da anni e anni
trasudavano febbri, nebbia, il vizio molesto della germinazione
all’interno di guardaroba serrati, tra pagine di libri,
dove poi iniziarono a crescere i lattari. Non leggevamo più,
raccoglievamo funghi in biblioteca. Le malattie di mobilia
si infiltrarono nei nostri sistemi filosofici, accumularono
i loro succhi nel garbuglio di frasi condizionali e causali,
dai concetti alitò il respiro dell’erba imputridente. Cristalli di veleno estraneo,
che interessano solo alle malvagie statue di malachite, che si avvicinano,
adesso già definitivamente, lungo le cupe rampe delle case
in stile liberty, tutto ciò che è rimasto dagli anni passati.
Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Fummo insigniti della sconfitta, fredda e radiosa
come luci di locomotive negli spessi specchi della prima repubblica
nelle camere estranee con la luce spenta vicino alla ferrovia,
la porticina si apre verso uno strano paradiso, in foglie bagnate
oltre la macchia di umidi cappotti maleodoranti di dolciastro.

(In E i ligli tarri, 2002)

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