Archivi del mese: gennaio 2015

POESIE SCELTE di Jorge Debravo (1938-1967) a cura di Tomaso Pieragnolo

 

costa rica ponte nella foresta

costa rica ponte nella foresta

 Jorge Debravo nacque a Guayabo de Turrialba, in Costa Rica, il 31 gennaio 1938 e morì a San José, la capitale, nel 1967, a soli 29 anni, a causa di un incidente stradale; un autista ubriaco a bordo di una jeep lo investì mentre viaggiava sulla sua moto. La morte fu istantanea. Debravo nacque in una famiglia molto povera: il padre e la madre erano campesinos e lui il maggiore e unico maschio di cinque figli. Fin da piccolo aiutò i genitori nel lavoro dei campi, alzandosi alle tre del mattino e lavorando spesso fino alle due del pomeriggio. Non essendoci scuola nel suo villaggio, Jorge frequentò saltuariamente quella più vicina nel paese di Santa Cruz, a quattro ore di cammino da casa, fino a che la maestra non conseguì per lui una borsa di studio che gli permise di terminare le primarie a Turrialba e di iscriversi al liceo. A Turrialba, ospite della nonna paterna, pubblicò i suoi primi versi nel giornale locale; a causa delle forti ristrettezze economiche, decise però di abbandonare gli studi al terzo anno di liceo per impiegarsi presso il Seguro Social. A ventuno anni, nel 1959, conobbe Margarita, la donna che fu compagna della sua vita e che sposò dopo poche settimane. Dello stesso anno la pubblicazione del primo libro di versi Milagro abierto attraverso il “Circulo de poetas Turrialbeño”, di cui facevano parte altri poeti di spicco come Laureano Albán e Marcos Aguilar. Attraverso il “Circulo de poetas” approfondì la conoscenza dei suoi autori preferiti, Vallejo, Neruda, Becker, Withman, Dario, Hernández e la Bibbia, leggendo con insaziabile sete moltissimi testi letterari, quasi a colmare il ritardo culturale in cui si era trovato a vivere e la sua crescente inquietudine. Uomo dolce con tormenti improvvisi e profondi, trovò una delle sue maggiori fonti di ispirazione nel rapporto con la moglie Margarita, di cui fu molto innamorato e alla quale dedicò i versi migliori della sua produzione.

jorge debravo

jorge debravo

L’esperienza lavorativa gli permise inoltre di conoscere da vicino le miserie e le contraddizioni del suo paese, che spesso divennero l’assillo e il movente di un filone molto prolifico della sua poesia. Pur nelle grandi difficoltà quotidiane, Debravo ripose un costante impegno nella produzione e nell’apprendimento, sacrificando spesso il riposo notturno, stimolato da uno smisurato desiderio di conoscenza e dalla speranza di superare in qualche modo la limitazione culturale dell’epoca e della propria condizione in particolare, che gli facevano percepire la vita come deriva, senza risorse, né aiuto. Riuscì a terminare il liceo frequentando corsi serali; l’anno della morte, il 1967, fu l’anno in cui avrebbe dovuto iniziare l’università. Una morte precoce e tragica, di cui appaiono numerose premonizioni nella sua poesia. Nell’opera di Debravo si percepiscono il timore e il rispetto di fronte al mistero poetico che egli sente come motivo esistenziale e vive in modo intuitivo, cercando il massimo contatto con il mondo reale e quotidiano. I suoi versi sono privi di istanze ermetiche e surreali, anche quando l’influenza della natura poderosa del suo paese evoca in lui immagini di grande forza emotiva e quasi oniriche nel loro realismo; predilige così quel cammino artistico sentito come mezzo di conoscenza che cerca di fondere l’obbiettività e la soggettività, il realismo e il romanticismo, il limite umano e il suo superamento.

costa rica

costa rica

 Uno sforzo che Jorge intraprende e sviluppa nell’arco di tutta la sua esistenza, nella cui vasta materia sente la necessità di immergersi per onorare un dovere imprescindibile; e questo stimolo interiore, incessante e modellante, è strumento insostituibile per il poeta. La poesia di Debravo è sempre legata alla sua vita, perché cerca i temi d’ispirazione nella realtà che lo circonda; la famiglia, la natura, lo spettro vicino o lontano di qualunque ingiustizia, in una dialettica sempre antropocentrica. Il popolo, che conduce le sue battaglie più dure contro le difficoltà del vivere, l’abbandono e l’isolamento, è l’espressione in carne ed ossa della concretezza terrena. Nelle opere più mature, Jorge approda a una poetica che vuole essere espressione dell’animo umano, intima e viscerale, capace al tempo stesso di afferrare gli oggetti e i simboli del quotidiano con totale devozione; poetica in cui la vita e la morte, la solitudine e l’assenza (o un’immanente presenza) abitano un mondo doloroso e duro, ma mai vinto; in questo spazio tumultuoso, per mezzo della poesia, la fratellanza tra gli esseri, l’amore e il senso di una giustizia da ricreare che tutto trascenda, pur non riscattandola nell’immediato, rende comunque un’ampia materia erede del disincanto biblico e dell’amara ma lirica sapienza india, che tenta di recuperare il senso dell’esistenza e del ruolo del popolo latinoamericano nel mondo. Il valore intrinseco e prezioso della sua poesia, a distanza di molti anni dalla morte, si riscontra ancor oggi nel successo che i suoi libri continuano ad avere soprattutto tra i giovani, facendo di Debravo uno dei pochi poeti costaricani che si vendono e si leggono, figlio continuo della sua terra e della discendenza meticcia, portatore nella sua opera di tutto il peso delle aspettative, delle disillusioni, degli incanti ancestrali e dei timori storico-religiosi del continente latinoamericano.

(Tomaso Pieragnolo)

costa rica  autobus

costa rica autobus

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amanti

Sono grandi, avventurosi, come fatti di luna nel
mezzo della notte.
Ardono come legno. Distillano un’acqua fresca e
deliziosa, come la linfa dei grandi alberi.
Non sembrano venire dalle rocce terrestri: li
immaginiamo germogliati dalle caverne più selvagge e
profonde. O saliti forse da un fosso oceanico
dove hanno appreso dalle sirene l’arte dell’abbraccio
fino ad avere braccia trasformate in serpenti.
Se non avessero nomi come i nostri, non li
crederemmo umani. Li penseremmo abitanti di
stelle sconosciute, di pianeti di frumento.
Nell’ombra si confondono, a volte, con gli
dèi. Scivolano e si spaventano come animali,
assomigliando oltremodo agli dèi.
Non osano la parola: usano il gemito e il sussurro. Le
parole più corte della terra e più parole, ciò
nonostante.
Quando torno a casa chiederò alla Morte che non
venga per loro. Sarebbe bello che li lasciasse liberi per
sempre e che uscissero per strada abbracciati, come
profeti di un rito vegetale e poderoso.
Noi gli canteremmo canzoni di allegria e gli
metteremmo collari di foglie fresche. Grandi collari
utili come guanciali quando si trovassero
senza cuscini in qualche luogo amaro della
terra.

Los amantes

Son grandes, venturosos, como hechos de luna en
medio de la noche.
Arden como maderas. Destilan un agua fresca y
deliciosa, como la savia de los grandes árboles.
No parecen llegar de la rochas terrestres: los
imaginamos brotados de la cuevas más salvajes y
profundas. O salidos tal vez de un foso oceánico
donde han aprendido da las sirenas el arte del abrazo
hasta lograr que los brazos se transformen en culebras.
Si no tuvieran nombres como nosotros, no los
creeríamos humanos. Los pensaríamos habitantes de
estrellas desconocidas, de planetas de trigo.
Entre la sombra se confunden, a veces, con los
dioses. Resbalan y se asustan como animales, que es
otra manera de parecerse a los dioses.
No osan la palabra: usan el gemito y el arrullo. Las
palabras más cortas de la tierra y más palabras, sin
embargo.
Cuando regrese a casa le pediré a la Muerte que no
venga por ellos. Bello sería que los dejara libres para
siempre y que salieran a la calle enlazados, como
profetas de un rito vegetal y poderoso.
Nosotros les cantaríamos canciones de alegría y les
pondríamos collares de hojas frescas. Grandes collares
que les sirvieran como almohadas cuando se hallaren
sin almohadas en algún sitio amargo de la
tierra.

Costa Rica 8Poesia d’amore inevitabile

Tu arrivasti alla mia anima quando era scordata:
le porte divelte, le sedie nel canale,
le tende cadute, il letto sradicato,
la tristezza curata come un vaso di fiori.
Con le tue piccole mani di donna laboriosa
ponesti tutte le cose in fila:
lo sguardo al suo posto, al suo posto la rosa,
al suo posto la vita, al suo posto la stuoia.
Lavasti le pareti con uno straccio bagnato
nella tua chiara allegria, nella tua fresca dolcezza,
collocasti la radio nel luogo appropriato
e pulisti la stanza di sangue e spazzatura.
Ordinasti tutti i libri dispersi
e stendesti il letto nel tuo enorme sguardo,
accendesti le povere lampade spente
e lucidasti i pavimenti di legno consumato.
Fosti d’un tratto enorme, ampia, potente, forte:
sudasti grandi fatiche lavando arnesi vecchi.
Apprendesti che nella mia anima d’avanzo era la morte
e la tirasti all’orto con pezzi di specchio.

Poema de amor inevitable

Tú llegaste a mi alma cuando estaba olvidada:
las puertas desprendidas, las sillas en reguero,
las cortinas caídas, la cama descuajada,
la tristeza cuidada lo mismo que un florero.
Con tus manos pequeñas de mujer trabajosa
fuiste ponendo todas las cosas en hilera:
la mirada en su sitio, en su sitio la rosa
en su sitio la vida, en su sitio la estera.
Lavaste las paredes con un trapo mojado
en tu clara alegría, en tu fresca ternura,
colocaste la radio en el sitio apropriado
y limpiaste la alcoba de sangre y basura.
Acomodaste todos los libros dispersados
y tendiste la cama en tu enorme mirada
encendiste los pobres bombillos apagados
y enceraste sus pisos de madera gastadas.
Fuiste de pronto enorme, ancha, potente, fuerte:
sudaste altas fatigas lavando trastos viejos.
Supiste que en mi alma de sobra era la muerte
y la tiraste al huerto con pedazos de espejos.

Costa Rica 7Resurrezione

In questa notte assetata mi sono chiesto
chi sei e chi sei.
Perché è triste la tua carne come un legno esaurito
e perché hai colma la bocca di spilli.
E lentamente, questa notte ti ho separata
come un albero d’amore dal resto delle donne
e facendo del mio sangue un’acqua ho battezzato
con essa le tue angustie e i tuoi piaceri.
E ho detto alla morte che non può uccidermi!
E ho detto alla vita che non può vincermi!
E ho detto alla terra che se riesce a seppellirmi
dovunque sia tu andrai a raccogliermi!
E ho detto al nulla che se riesce a spegnermi,
tu, con i tuoi grandi baci, tornerai a incendiarmi!

Resurrección

Esta noche sedienta yo me he preguntado
quién eres y quién eres.
Porque es triste tu carne como un leño apagado
y porque tienes llena la boca de alfileres.
Y despacio, esta noche yo te he separado
como un árbol de amor de las demás mujeres
y haciendo de mi sangre un agua he bautizado
con ella tus angustias y placeres.
Y le he dicho a la muerte que no puede matarme!
Y le he dicho a la vida que no puede vencerme!
Y le he dicho a la tierra que si logra enterrarme
a donde ella me entierre tú irás a recogerme!
Y le he dicho a la nada que si logra apagarme,
tú, con tus grandes besos, volverás a encenderme!

costa rica 5Gli annodati

Attraverso guanciali, lenzuola, vesti attorcigliate,
navigano; nuotano sudati, a bracciate enormi, come
naufraghi pazzi.
Non sanno dove vanno, però navigano; ruotano verso
qualunque isola nel mezzo della notte.
Un falò azzurrato li chiama come un faro: verso
di esso si lanciano bevendo a grandi sorsi il succo della
vita a cui vanno incontro come se rimanesse loro
un’ora sola e non oltre sulla terra.
E a volte non navigano: d’improvviso sognano, credono
d’essere terra matura e si arano. Uno all’altro si arano
come sinceri aratri lussuriosi. Si irrigano con
sudore come se fossero acqua fertilizzante e buona.
Fanno girare le mani come turbine; tremano,
diventano quasi liquidi e si seminano tormentate
sementi di speranza.
E si addormentano sfiniti, sognando d’essere alberi
tutti rappresi di mele mature e che il vento
li culla e si porta il loro grande odore, carnale. Il loro grande
odore di frutta e raccolto.

Los anudados

Por entre almohadas, sábanas, ropas torcidas,
navegan; bracean sudorosos, a brazadas enormes, como
náufragos locos.
No saben adónde van, pero navegan; ruedan hacia
cualquier isleta en medio de la noche.
Una hoguera azulada los llama como un faro: hacia
ella se lanzan bebiendo a grandes tragos el jugo de la
vida que se encuentra al paso como si les quedara
una hora de vida nada más en la tierra.
Y a veces no navegan: de pronto sueñan, creen que
son tierra madura y se aran. Uno al otro se aran
como verdaderos arados lujuriosos. Se riegan con
sudor como si fueran agua fertilizante y buena.
Hacen girar las manos como turbinas; tiemblan, se
vuelven casi líquidos y se siembran atormentadas
semillas de esperanza.
Y se duermen vencidos, soñando que son árboles
todos cuajados de manzanas maduras y que el viento
los mece y se lleva su olor grande, carnal. Su gran
olor a fruto y a cosecha.

costa rica 4

 

 

 

 

 

 

Appunto interiore

Oggi la mia vita non ha peso alcuno:
è una brezza, meno di un vento, meno
di un raggio di luce.
Ora nessuno
può essermi oneroso.
Non ci sono tormenti terreni sotto la mia anima.
Il mio sangue è una rossa armonia viva.
Sono in armonia con la brace e la calma,
con la voce amorosa e la voce vendicativa.
Pare che le mie mani non esistano, pare
che il mio corpo nuoti in un’acqua innocente.
Come un vento nudo il mio cuore si versa
e fa suonare le campane dolcemente.

Apunte interior

Hoy mi vida no tiene peso alguno:
es un viento, menos que un viento, menos
que una raya de luz.
Ahora ninguno
puede serme oneroso.
No hay terrenos resquemores debajo de mi alma.
Mi sangre es una roja armonía viva.
Estoy en armonía con la brasa y la calma,
con la voz amorosa y la voz vengativa.
Parece que mis manos no existieran, parece
que mi cuerpo nadara en un agua inocente.
Como un viento desnudo mi corazón se mece
y hace sonar campanadas dulcemente.

costa rica 2

 

 

 

 

 

Noi uomini

Vengo a cercarti, fratello, perché porto la poesia,
che è come portare il mondo sulle spalle.
Sono come un cane che ruggisce solo, latra
alle belve dell’odio e dell’angustia,
manda all’aria la vita nella metà della notte.
Porto sogni, tristezza, allegria, mansuetudini,
democrazie rotte come anfore,
religioni ammuffite fino all’anima,
ribellioni in germe che gettano lingue di fumo,
alberi che non hanno
sufficienti resine amorose.
Siamo senza amore, fratello mio,
ed è come essere ciechi in metà della terra.
Porto morti per impaurire tutti
coloro che giocano con le morti.
Vite per rallegrare i mansueti e i teneri,
speranze e uve per i dolenti.
Ma prima di tutto porto
un violento desiderio di abbracciare,
assordante e infinito
come una tormenta oceanica.
Voglio fare con le braccia
un solo lungo braccio
che circondi la terra.
E desidero che tutto, che la vita sia nostra
come l’acqua e il vento.
Che nessuno abbia altra patria che il vicino.
Che nessuno dica più la terra mia, la barca mia,
bensì la terra nostra, di Noi Uomini.

Nosotros los hombres

Vengo a buscarte hermano, porque traigo el poema,
que es traer el mundo a las espaldas.
Soy como un perro que ruge a solas, ladra
a las fieras del odio y de la angustia,
echa a rodar la vida en mitad de la noche.
Traigo sueños, tristezas, alegrías, mansedumbres,
democracias quebradas como cántaros,
religiones mohosas hasta el alma,
rebeliones en germen echando lengua de humo,
árboles que no tienen
suficientes resinas amorosas.
Estamos sin amor, hermano mío,
y esto es como estar ciegos en mitad de la tierra.
Traigo muertes para asustar a todos
los que juegan con muertes.
Vidas para alegrar a los mansos y tiernos,
esperanzas y uvas para los dolorosos.
Pero traigo ante todo
un deseo violento de abrazar,
atronador y grande
como tormenta oceánica.
Quiero hacer con los brazos
un solo brazo dulce
que rodee la tierra.
Y deseo que todo, que la vida sea nuestra
como el agua y el viento.
Que nadie tenga nunca más patria que el vecino.
Que nadie diga más la finca mía, el barco mío,
sino la finca nuestra, de Nosotros los Hombres.

Tomaso Pieragnolo

Tomaso Pieragnolo

Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli di Firenze ha pubblicato il suo ultimo libro, il poema “nuovomondo”, finalista al Premio Palmi, Metauro, Minturnae, rosa finale del Premio Marazza e vincitore del Saturo d’Argento – Città di Leporano. Fra le sue più recenti pubblicazioni: “Lettere lungo la strada” (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano di Belgirate), “L’oceano e altri giorni” (2005, già finalista ai Premi Libero de Libero inedito 2003, edito Guido Gozzano di Belgirate e Ultima Frontiera di Volterra e vincitore del Premio Minturnae Giovani). Una selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (“Poesía escogida”, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si è svolta dal 2007 al 2013 in collaborazione con la rivista Sagarana, nella quale ha proposto principalmente autori del Costa Rica e del Centro America, mai tradotti in Italia, e con alcune case editrici, che hanno pubblicato la prima traduzione italiana di Eunice Odio (“Questo è il bosco e altre poesie”, Via del Vento 2009, Menzione Speciale Camaiore per la traduzione) e la prima traduzione italiana di Laureano Albán, (“Gli infimi crepuscoli”, Via del Vento 2010 e “Poesie imperdonabili”, Passigli 2011, finalista Premio Internazionale Camaiore, rosa finale Premio Marazza per la traduzione). Ha pubblicato per La Recherche due ebook di traduzioni liberamente scaricabili: “Nell’imminenza del giorno” (2013) e “Ad ora incerta” (2014).

11 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia americana

POESIE SCELTE di Alberto Toni da “Vivo così” (2014) con un estratto dalla prefazione di Mario Santagostini e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Paul Klee

Paul Klee

 Alberto Toni (1954) vive e lavora a Roma. Tra le sue opere in versi: La chiara immagine, Rossi & Spera (1987), premio speciale opera prima L’isola di Arturo-Elsa Morante; Partenza, Empirìa (1988); Dogali, Empirìa (1997), premio Sandro Penna; Liturgia delle ore, Jaca Book (1998), premio internazionale Eugenio Montale; Teatralità dell’atto, Passigli (2004), premio Pier Paolo Pasolini; Mare di dentro, Puntoacapo Editrice (2009); Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book (2009), finalista premio Brancati, premio Camaiore, premio Dessì; Democrazia, La Vita Felice (2011); Un padre, in Almanacco dello Specchio 2010-2011, Mondadori (2011); Polvere, sassi, oli, Il Bulino (2012); Mare di dentro e altre poesie, e-book, Vivo così Nomos (2014)
LaRecherche.it (2013) in collaborazione con Poesia 2.0; Et allons, Edizioni Progetto Cultura (2013); Stone Green. Selected Poems 1980-2010, Gradiva Publications (2014).
Ha pubblicato in prosa: Con Bassani verso Ferrara, Unicopli (2001); Quanto è lungo il sempre, Manni (2001); L’anima a Friburgo, Edup (2007). Ha tradotto, tra gli altri, testi di E. Dickinson, T. S. Eliot, M. Leiris. È anche autore di teatro: del 2003 il monologo Donna su una poltrona rossa, Editrice Ianua. Collabora con l’inserto letterario “Via Po” di “Conquiste del Lavoro”.

Paul Klee

Paul Klee

dalla Prefazione di Mario Santagostini

«[…] Alberto Toni si conferma anche e soprattutto autore anarcoide. Perché se nella sua storia è sempre stato arduo rintracciare appartenenze, ascendenze o magisteri, questo libro sembra essere, di quella storia, l’apice: nelle pagine si assiste a una testarda e, in fondo, antinarcisistica dilatazione del pathos sentimentale che rinvia al’infinito l’apparizione d’un qualsiasi plot lirico, del verso che conclude (o solidifica, o pietrifica definitivamente…) l’ispirazione in un senso e in discorso concluso. Eppure, quelle stesse pagine non raggiungono mai la struttura stabile del poema, non arrivano. a farsi racconto: molto resta allo stato liquido, ineffabile […] Toni è, in fondo, autore poco afferrabile. Scivola via. Perché lascia sempre in sospeso qualcosa, quando scrive. Dissemina dubbi. E fino a quando situazioni come quelle raccontate per accenni restano irrisolte, si ingenera in me lettore uno stato di inquieta precarietà ermeneutica. E la sensazione è d’essere invaso da domande a cui non c’è risposta. Non a prima vista, almeno. Ora: Vivo così è attraversato … da momento analoghi, da stati (chiamiamoli in questo modo) semibui che, paradossalmente, si rivelano essere i veri e propri cardini, i “fondamenti invisibili” su cui si fonda la macchina testuale. Allora, io lettore dovrò sempre di nuovo… tornare su una poesia di Toni per illuminare le opacità, le non-chiarezze. Per leggere e ascoltare meglio le parole, versi, insieme di versi, ritmi […] Penso… che i momenti migliori della poesia di Toni sono quelli in cui ritmi e versi e pagine e sezioni si danno con un carico, con una quota di equivocità. E dunque con risvolti di ombre, ombreggiature. Quando c’è qualcosa che sfugge, che si defila dallo sguardo ermeneutico, che scappa e sembra lasciarsi dietro aure indefinite. Quando, insomma, il testo o alcuni suoi frammenti privilegiatissimi instaurano tra loro stessi e il lettore una distanza. E ingenerano inquietudini strane, complessi di tensioni volte ad abolirla, quella distanza. Come se in loro allignasse un tot di oscurità […] il libro diffonde un’aria di globale irrisolutezza. Per questo, non smetto d’interrogarmi (letteralmente…) sull'”aria che tira” nelle pagine… non smetto di chiedermi se quello che sto leggendo è un endecasillabo o un più marcato, pesante, epico decasillabo con l’eventuale attacco giambico. Ma poi mi chiedo anche, più in generale e già ripensando l’opera “dall’alto”, se ho davanti un canzoniere di testi sparsi o un poema senza fine, epilogo. Se il senso globale è un surplus che si afferra alla fine opera e à rebours o se, invece, si offe gradualmente, pezzo dopo pezzo. Lascio, per forza, insoluto il quesito. Ma adesso ho rintracciato il secondo e più forte momento di originalità della poesia di Toni e di Vivo così: il suo mascherare la lirica da poema e il poema da lirica. Nel dettaglio: il suo parlare di sé raccontando una vicenda collettiva e il suo narrare da storia del “noi” a partire dall’io. Che è quanto dire: il suo inserire la voce singola in una somma, in una comunità di voci. E viceversa.

E qui, di nuovo, mi chiedo se è un coro che si fa sentire, o un assolo a cui il coro fa da sfondo. O un assolo che risponde al coro, o viceversa […] questo mix tra il e “noi” che non è né ancora io né ancora noi sembra davvero essere l’archetipo sonoro di tutte le civitates e le comunità… che Toni ha saputo ascoltare, verbalizzare, portare nella terra istituzionale della letteratura rimanendo, paradossalmente, un anarchico doc».

Alberto Toni Vivo così 1Commento di Giorgio Linguaglossa

Direi che tutta la poesia di Alberto Toni, fino a quest’ultimo lavoro poetico, è il racconto ininterrotto del «non finito», è la poesia di un «racconto» costantemente infirmato dalla oggettiva difficoltà di narrare ciò che oggi diventa ogni giorno di più non-narrabile, non afferrabile, non orientabile. Non che Toni sia elusivo per sua propria volontà, ma è la materia stessa del suo racconto, credo, ad essere infirmata ed inferma, che si sottrae al racconto sia della memoria che dell’indagine ricostruttiva, retrospettiva. La particolare predilezione di Alberto Toni per un endecasillabo poetico ipotonico e prosastico sta forse nella sua dedizione alla povertà delle parole, nella sua poesia non trovi mai o quasi un innalzamento del diapason, del tono o del lessico, tutto viene detto come in sottovoce, in sordina, con un abito dimesso, pesca in quella zona d’ombra che sta tra il quotidiano e il quotidiano delle cose, di qui la varia ombreggiatura che rappresenta la sua personale gamma-impronta di sfumature del grigio, del grigio dell’esistenza, dei momenti grigi del grigio, del grigio della memoria. Se c’è un colore dominante in questa poesia quello è per l’appunto il colore del grigio, è la scelta estetica e coloristica di Alberto Toni ma è anche la ragion d’essere di una poesia che tenta di ripercorrere a ritroso le proprie tracce, le tracce della vita trascorsa, perché «la bestia ogni tanto si allontana e prende la via sbagliata»; le situazioni colte dal flash di Alberto Toni sono tutte indistinte, non localizzabili in alcuna topografia precisa:

Mi manca la strada. Li ricordo tutti in un giorno
in un cunicolo di luce in piedi come fosse ieri.
Sì, tornano per strade già battute, ma non sono nuove
come gli abiti nel ricucito impegno a nuova vita.

C’è una interrogazione sottesa, implicita, appena velata se sia possibile davvero una «nuova vita». Qua e là si trovano timidi accenni a un’epifania che non avviene, sempre prorogata e rinviata: «La porta è spalancata». E questa incertezza o incompiutezza del discorso narrativo diventa anche lo stigma del suo particolare modo di narrare il non-narrabile.

da Vivo così, Nomos Edizioni, 2014 pp.98 € 14

Alberto Toni foto di DIno Ignani

Alberto Toni foto di DIno Ignani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vivo così: d’attesa,
spergiurando su cosa mai può essere:
cuculo, tortora d’attesa. Oscilla il lume,
la calda mano degli altri.

*

Raffaele, operaio Fiat, la notte al muletto,
è solo un tempo fantasma
che racconta di sé e del dolore non smette
mentre dall’altra parte il nipote non sa,
poi chiude gli occhi per pensare al domani.
Forse, si chiederà più tardi, il tormento
non passa così in fretta e ci sarà bisogno
di ricordare.

*

Uscire dal corpo si può,
per tenere il fuori campo, dibattersi,
controllare il flusso con tutto che rallenta.
Simili richieste dovresti tenerle per riprendere
fiato, una volta era più facile: bastava la vita
battente che si alzava a vortice. Non ora che
tutto è in bilico. Ma non c’è abiura, solo
nascondersi.

*

Potrebbe essere
uno di passaggio che gli rivela qualche
verità momentanea, tanto per dire,
o una duratura immersione, altre acque
di nascita e diluvio, parto e nuova
ragione, con il tempo che si rinnova
spariscono i vecchi sepolcri della fuga.
Da questo momento tutto è possibile,
lo sentivo rodere invelenito, il peggio
è passato ed è più disteso nel parlare.

*

Con tecniche da iniziato,
sarà un districarsi lento e vuoto.
Perché di sofferenza in sofferenza
la luce non molla la sua presa?

*

Il rumore sordo del cuore,
animarlo delle solite cose e un salto
verso il cielo, quando è caverna e la perla
che qui consumava l’errabondo. Vedeva
e non vedeva, scavalcava. Lo sentivo appena.
Poteva non conoscere, non sapere dove
svetta la chioma dell’ultimo albero rimasto?
E gli altri, i nostri vicini così lontani.
Tutti lo sanno: distinguere l’ultima scintilla,
l’opaco del fuoco in brace che sconfina
nelle periferie, ciò che appena si vede, non si vede.
*

G. ora allo stesso posto dell’altro.
Caricava un sorriso al mio rientro,
la moglie preoccupata di lasciarlo solo.
È l’umanità mite al suo bivio, mentre
per noi, carichi di presente, il cielo
è un improvviso transito di tutto ciò
che è stato. Il dubbio era proprio
negli occhi che bruciavano, sibilava già maturo in me.
Come dirlo? Come spiegarlo senza perdere il filo,
la vita, dormire un po’ tra le tue braccia in abbandono.

*

Dell’ultraconosciuto non voglio sapere.
Mi manca la strada. Li ricordo tutti in un giorno
in un cunicolo di luce in piedi come fosse ieri.
Sì, tornano per strade già battute, ma sono nuove
come gli abiti nel ricucito impegno a nuova vita.
Qualcuno ha riacquistato il vecchio smalto,
non soffre, sembra anzi la giudichi una fine
ancora imprecisa.

*

Quel parlar forte nelle luminarie
al volo della colombina. Te lo ricordi?
Pianti di giovinezza, ma se ora non regge
la visione, qualcuno tornerà a dirlo.
Succede così che all’urto tra passato
e presente l’altro da sé sorride scavalcando il muro.

*

A te che nel riparo come per la Minerva
del Campidoglio mostri lo scudo, una volta
lo dicevo, io mi mostro, ricreami fuori della
freddezza che non mi appartiene. Tienilo a mente
per gli anni che verranno, la pietà, la pietà che Dio
ha mostrato e che di nuovo scenderà su me. L’ora,
temevo, sopra le mie scelte di sempre, le tue semplici
mani a guarirmi.

*

Una mano sul fianco, con l’altra stretta alla sua,
serrata, se mancava alla presa ne avvertiva
una mancanza dolorosa. Presto, per la raggiunta
libertà, parte, non guarda indietro. Con gli anni
la ritrova nell’abbandono, con la voce che dalla
strada sale e dagli anni, non più quelli, sente
forte l’urgenza, il richiamo. Ci sarà pure
un modo per l’angelo della dimenticanza,
cercare nei cieli e nel disperso anelito
sbiadito. Lascia che sia la piccola mano,
perché non c’è più tempo sulla terra.
Vuole così.

*

Saliva ancora agilmente.
Per me d’antico pianto già si prefigurava,
abbandonato il miracolo del tempo,
di grado in grado lo sento muoversi
in me, l’incendiario della mente sembra
l’angelo del desiderio che ogni notte
al mio corpo parla. Ogni linea nel battito,
ogni ora senza più la pietà necessaria.
Infilava le strade della città nuova
e non chiedeva, l’occhio sempre
vigile e pronto al frutto già maturo.
Libero alla sua casa nel trasloco,
si farà vivo, dicono, al momento
opportuno.

16 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

QUATTRO POESIE INEDITE di Nazario Pardini SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

Auschwitz-

Auschwitz

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ- che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Nazario Pardini

Nazario Pardini

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

Albrecht Durer Adam and Eve

Albrecht Durer Adam and Eve

Nell’isola di Utopia
con la mente e l’anima

E fu deserto. Ardeva il panorama
di un agro odore asciutto, del sentore
di agostina saggina. Fu di rena
infuocata ed uguale a spiaggia estiva
d’ora meridia senza refrigerio
di frescura. Obliquavano le serpi
con destrezza, brillavano le dune
arroventate come vuoti zeppi
di biancastri bagliori. E percorremmo
lunghi tragitti al sole verticale
al limite di vita. Poi un odore
d’acqua mèzza rappresa di palude
simile tanto a quello delle mammole
decomposte o dell’alghe tumorose
e accaldate, ci fece avvicinare
a un sentiero d’uscita. Lo seguimmo
d’istinto ed arrivammo (assai perplessi)
in mezzo a delle rocce del color
del carminio o dell’aria di serale
sembianza. Qui ci apparve uno scrosciare
d’acqua fiumana e poi un nebulizzare
rosseggiante dai getti di cascata
che svariava nel verde. Traspariva
piante lacustri ed alberi giganti
che infiggevano chiome dentro un cielo
di cromatico aspetto. Tanto in alto
c’erano uccelli assiepati sui rami
da confondersi ai butti. Rocce, rame,
falcate variopinte, edere sparse
dalle foglie di palme, grandi frutti
che grondavano succhi liquorosi,
mellei, simili a pani dalle forme
più varie, lunghe, piane mi confusero
sia la mente che l’anima. Comunque
sentivamo che l’uomo industriale
senz’altro mai arrivò nel Paradiso
dei giardini segreti. Erano là,
non ancora toccati dalle mani
di una mente d’economica fattura.
Che immagine sublime, sorprendente,
luminosa, possente, profumata
di sapori indicibili ed eterni.
Mi resero vana la ragione
e disposero a un volo sovrumano
la compagnia dell’anima. Restai.
Ma io mi sentii vuoto e abbandonato;
solo di carne. Senza compagnia,
nell’isola dei sogni: l’Utopia.

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

L’isola dei morti

È un fiume opaco quello che intravedo
e che la nebbia avvolge; uccelli magri
dalle piume cadenti
si tuffano o svolazzano nell’aria
gracchiando presagi infernali.
In lontananza un nocchiero:
salpa da una sponda arida e spoglia
e viene verso me. Ed io straniero
che attendo il mio destino.
C’è una gran truppa d’anime leggere
con in cuore la vita. Salgo sopra
a quel vascello che non sente il peso
del gran numero di esseri in sospeso
a guardarsi paurosi e sbigottiti.
Ecco vicino l’isola. Si scorge
il profilo che sorge
da un nuvolo di bruma. Non c’è sole.
Ma c’è una luce strana, disumana,
simile a quella in terra
quando precede il cielo appesantito
l’imminente tempesta.
Cipressi che affondano le cime
nell’aria spessa d’umido livore;
terre aride abbruciate da selciati
che le tengono strette; ed un gran tempio
che si erge maestoso, a dismisura,
sulle livide pietre. Sopra marmi
che portano nomi sugli avelli
disseminati d’ossa a ricordare
quanto vana è la soma. Tutt’attorno
vaganti ombre
che vanno senza vesti e senza posa
attorno al tempio sacro. Corpi alati
volano in gran numero squarciando
l’aria pesante di un mondo spettrale.

Che vero paradiso il Camposanto
aperto (al mio paese, in mezzo ai campi)
a un cielo luminoso e rallegrato
da uccelli canterini! Quanta luce!
Abituato io alla mia terra. Al suo morire.
Al suo rinascere.
Vado girando e non conosco volti.
Un lungo vagolare; la mia anima
s’illumina, alla fine, quando scorge
aprirsi un varco di luce, lontano,
oltre le sponde. Una grande speranza.
Non so che chiaro fosse, né so dirvi.

Sculture lignee raffiguranti mani femminili

Sculture lignee raffiguranti mani femminili

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi parve

Mi parve che quel volto fosse strano
o perlomeno usuale: i capelli,
la bocca, gli occhi, i modi della mano.
Possibile? Pur quelli
fossero in realtà luoghi diversi,
mi sembravano
comuni e familiari. Non avversi
vedevo quegli ambienti; mi apparivano
come li avessi avuti già dintorno
in un’altra occasione.
E cosa strana all’aria di quel giorno,
brumoso e opaco come a settentrione,
più ancora l’impressione suscitavano
di avere tutto quanto già vissuto.
Ma quei posti distavano
chilometri: un mondo sconosciuto.
Ho avuto un senso vago di magia,
soprattutto al momento che ho veduto
di fronte a me l’aspetto di una via
già impresso nel mio mondo surreale.
E quel volto, la voce. Mi rimase
l’anima turbata. Quasi astrale,
inspiegabile il fatto o perlomeno
esoterico all’occhio di un mortale.
Covava dentro me sempre di più
(ero tanto distante dal paese)
il desiderio di vederci chiaro.
Di esaminare il tutto. Oltre l’umano
pensavo a una propaggine
di un mondo celestiale. Ciò che è arcano
all’occhio nostro è quello che è inspiegabile
alla ragione. E l’anima, il pensiero,
immateriali, chi dice che al labile
corpo non si sottraggano per mero
caso? Vadano un giorno od una notte
vagolando ad imbersi d’aria nuova
nei climi più lontani? È la sorte
che spesso vuole mettermi alla prova.
Eppure quelle case, le parole
che uscivano di bocca a quel signore,
quei panorami brunastri e la mole
del vasto mare rotto dal rumore
stridente di una skua così assenti
nel mio paese e in più così diversi,
nell’animo li avevo. Erano eventi
del tutto irrazionali. Poi mi persi,
scendendo in una strada che portava
fino agli scogli. Si fransero i marosi
sul livido schienale che tremava
ai grandi schianti. Ai venti minacciosi
dell’Oceano il gesto familiare
del misterioso volto con la mano
in segno di saluto. Fu il maestrale
che rapì quella skua; ed un gabbiano
col suo placido canto sinuoso
mi riportò al riposo del mio mare.

Sole con cerchiApparizione

– Quanta luce! Che cosa splenderà
sopra il prato asfodèlo? Tu che vedi
nel cielo che effonde su di noi
tanto giorno accecante? – – Io vedo il sole,
ma il sole è di settembre
e l’aria, anche se chiara, annuncia sera;
è obliquo l’astro e credo
che non possa brillare così forte. –
In fondo al prato in mezzo ai rami d’oro
di un povero pioppo, si levava
tanto lucida un’immagine di donna
da sembrare infocata. Stava avvolta
in un candido velo. Attorno al capo,
folto di chiome bionde, risplendeva
una luce d’argento. Gli asfodèli,
di per sé perlei, brillavano ancora
di più per il dolce incantamento.
– Non vedi tra le rame di quel pioppo
un’immagine di donna evanescente? –
E l’altro sbiancò il volto di stupore.
Da allora l’aquilegia timorosa
rivolse a terra i sepali d’amore. –
Mosse la donna i labbri sopra i fiori
candidi avìti e tradizionalmente
pietosi per gli avelli. Le sue labbra
vibrarono di un tremito invisibile
agli occhi umani: – Che cercate, voi,
in questo prato sacro dove un tempo
gli antichi si riunivano in preghiera
a libare con bianco latte e miele
per i loro defunti? Sempre viva
una fiamma nella sera si colora
su questo luogo sacro. Le corolle
si mettono a danzare e con i petali
si accostano, bisbigliano e nei loro
moti gentili parlano d’eterno,
di gioia, di dolore ai metafisici
colori settembrini-. – Siamo gente
umile. Andiamo tra l’erba a cercare
cicerbite e cicoria per la mensa
che nostra madre ogni giorno ci appresta.
Siamo sempre venuti a questo piano
per cacciare, raccogliere l’erbette
o correre con ansito
in gare giovanili. – – Dolce immagine –
l’altro aggiunse – – Chi sei? sei la Madonna
forse che ci annunzia con miracolo
che ogni vita ha diritto di gioire
in questo prato sacro? o forse Diana
a ricordarci che di già i pagani
ci avevano avviato a questo rito
tanto dolce e civile? – Alle macerie
coperte di papaveri e gramigna,
di ginestre, narcisi ed asfodèli
una gran luce (a un angolo del prato)
squarciò le sponde aprendo un tempio eguale
a quelli della valle d’Agrigento.
La fanciulla in alba veste si spostò
nel cuore della cella. Melodiosa
levò una calda voce: – La natura
è sempre stata santa e nel settembre
ancora tanto più sa di mistero.
Volli venire al prato di settembre
un’altra volta a vivere la vita,
il candore e il dolore. Io fui vestale
di quando la mia fiamma perennemente
ardeva nel mezzo a questo spazio
dedicato agli dèi e ai nostri morti.
Germinavano sacri gli asfodèli,
pietosi, e i loro semi continuarono
a gemmare su questa densa terra.
Di me si volle offrire il sangue giovine
all’ara di Proserpina ché avesse
a cuore chi alla riva d’Acheronte
attendeva il passaggio. È di settembre
che il mio sangue calò. Rossa di sole,
di sole di settembre la mia ara
si tinse. Ora è rimasto solitario
e privo della bella gioventù
che si adornava di candide vesti
per le funebri feste, il mio sagrato.
Andava sui viali. Genuflessa
ed in preghiera pia ad affidarsi
l profumo dei gigli e alla clemenza
del volere d’Olimpo. È questo il tempio.
E là sotto quei fiori ancora nutre
l’anima mia il bianco del narciso,
il rosso del papavero, l’arancio
del corbezzolo, la spina del ginepro. –
E presa la parvenza di un pavone
si dileguò nel cielo. Il tempio greco
scomparve da quel luogo. Continuarono
il solitario, il picchio,
il cuculo, il pettirosso, l’usignolo,
la capinera, la lodola e gli altri
meravigliosi frulli del creato
a fondersi all’aria dell’angolo asfòdelo,
a squittire, a cantare, a svolazzare
radendo la vista dei due giovinetti.

21 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

POESIE PER L’ANNIVERSARIO DELLA MEMORIA di Adam Vaccaro “Memorie del futuro” “Il rosso e la neve” “Signoremie”

 il binario che porta ad Auschwitz

il binario che porta ad Auschwitz

 Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. È stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.
Adam Vaccaro – Via Lambro 1– 20090 Trezzano S/N (MI) T. 02 93889474 – 347 7104584 Email: adam.vaccaro@tiscali.it

Arbeit macht frei

Arbeit macht frei

« Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie »
(Theodor W. Adorno, 1949)

 

Memorie del futuro

La cenere dei fumi di Auschwitz
così bianca e viola infine rossa
batte batte dentro al cuore come
blatta che non volerà rimarrà

a rodere tra questi ruderi nutrirà
il nostro sangue nero sconfinato
insaziabile non si fermerà vorrà
sfamarsi di ogni sangue e vittima

diventata cenere deporla
nelle mani di Cerere a farne
messi di una Terra non più
prona a poteri e follie di ieri e

di oggi che sappia pesare
sulla stessa bilancia ogni
grammo di carne umana
rossa poi viola infine bianca

offerta al dio di tutti
i popoli di tutte le terre
ricche povere e senza
privilegi né figli prediletti

di una Terra non più
crocifissa da confini e
tavole imbandite da eletti
assediate da cumuli di blatte

affamate impazzite –
se questo è un uomo

2006

(Nell’antologia, 25 poeti per il giorno della memoria, a cura dell’Associazione per la storia e la memoria della repubblica, e dei Comuni di Civitella in Val di Chiana e Monte San Savino, 27 gennaio 2006.
E in Seeds, Chelsea Editions, New York 2014)

 

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno ... (B. Brecht)

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno … (B. Brecht)

Il rosso e la neve
Nello splendore del supplizio*

Qui è ormai tutto bianco
come una perfetta notte
di Natale mentre una fitta
si conficca nel costato
di questa impotenza
che può solo pensare
al rosso che cola
tra i muri massacrati
di Gaza

*

Qui da noi il padrone è una stella
che ci impone la misura della terra
della farina dell’acqua della dignità
che ci invade e distrugge le case

che ci affama e fa piovere bombe
nel nome di Davide e di Israele
che chiude il cerchio glorioso
della bestemmia Gott mit uns

su noi che non abbiamo più voce
in questo dominio del mondo
sommersi dalle mille voci
che del tempio fanno mercato

su noi resi ciechi e muti dall’oro
che scorre nelle reti e nei nervi e
comanda sapiente voce o silenzio
che non rompa la pace dei servi

o silenzio del dio dei popoli
tra scoppi di brindisi e bombarde
nell’impronunciabile nome YHWH
di un dio che ormai è solo tra gli eserciti

*

e voi qui ancora al caldo della favola di lana
del lupo e dell’agnello – di una stella che brilla
di dollari e uranio minacciata da un esercito
insensato di fame e stracci – di una stella

supernova del pensiero unico dominante di
una destrasinistra che balla abbracciata alle
stesse bugie e bolla da antisemita chi
rifiuta macelleria e storia che fa della speranza

umana una tomba, che rovescia la clessidra
e fa dell’Olocausto un grande ombrello
per coprire meglio tutte le vergogne, che
compra silenzi e falsità di politici e media

O Obama Obama, tu quoque!, ci dici
anche qui yes we can, incurante di quanto
verdelatte ti ha versato la lobby di Sion?, o voi
re della parola, poeti di lumini accesi

e voi che beati nuotate nel mare di cose
appesi alle code dei saldi – bambini dietro
aquiloni d’affari d’oro – non siate troppo disturbati
da bambini sventrati o ammutoliti di terrore
sulla striscia di Gaza

(Gennaio 2009)

*espressione di Michael Foucault, ripresa per la tragedia palestinese anche da Stefano Bologna – vedi http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090107/pagina/01/pezzo/238803/ e http://www.milanocosa.it/temi-e-riflessioni/lo-splendore-del-supplizio-di-gaza

 

Auschwitz Ingresso

Auschwitz Ingresso

Signoremie

Oh quante volte fare per altre vie la stessa strada
cercando nel passato una strada
dal presente al futuro
Ti ricordi miasignora
che gare di baci carsi
scintille arse e perse nel vento
le cosce tenute come portafogli ricolmi
intenti a non lapidare quel capitale
di sogni e miracoloso nel ventre

Ti ricordi miasignora
il cammino fatto per cercare quel punto
fatto sempre di punti dell’intento
di ricominciare daccapo

e che fatica disperazione e premio
prima e dopo quel punto

Che signora era allora Milano
calda e coicapelli nel vento
una barca alla ricerca del largo
schiaffeggiata dall’acque e baciucchiata dal sole
dopo i massacri recenti della guerra più oscena
tra buchi nel ventre topi sommersi volti riemersi

Entrare in un bar – allora – era come
cucciarsi in un angolo curvo dell’arca
ruotando gli occhi e quel bicchiere
s’una voce giurando riflessa

Stavo con te scorrevamo nel sogno
i sogni belli del dormiveglia in
quell’alba rosata del dopoguerra
ch’aiutava certo a danzare sul mare
cupo di fame e di attese gonfiate
così poveri e ricchi così poveri e ricchi
come noi su questo letto

(Sett. ’97)

(Da La casa sospesa, Joker, Novi L. 2003 e da La piuma e l’artiglio, Editoria & Spettacolo, Roma 2006)

Auschwitz-

Auschwitz-

26 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

LA NUOVA POESIA GIAPPONESE UNA POESIA di Toshiko Hirata: Agenzia per i suicidi d’amore, traduzione di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta

HISHIDA,Toshiko [Moonlight night]

Toshiko Hirata (1955), inizialmente si è affermata come una presenza di primo piano tra le poetesse che emersero in Giappone nel 1980. Her poetry collections won her the Contemporary Japanese Poets Prize and the Bansui Poetry Award. Le sue raccolte di poesie lei ha vinto il Contemporary Japanese Poeti Premio e il Premio di Poesia Bansui. She then started writing plays, and from the year 2000 broadened her range further to include prose fiction. Piano sando (Piano Sandwich), her first collection of stories, was published in 2003. Shi nanoka (Seven Days of Poetry), a collection of poems, was awarded the Hagiwara Sakutaro Prize in 2004. Futari nori (Seats Two), her second work of fiction, won the Noma Prize for New Writers. Ha poi iniziato a scrivere per il teatro, e dal 2000 ha ampliato la sua gamma ulteriormente per includere la prosa narrativa. Piano Sando (Piano Sandwich), la sua prima raccolta di racconti, è stato pubblicato nel 2003. Shi nanoka (sette giorni di poesia), una raccolta di poesie, è stato assegnato il Premio Hagiwara Sakutaro nel 2004. Futari nori (Due seggi), il suo secondo lavoro di finzione, ha vinto il Premio Noma per nuovi scrittori. Subsequent works include Nagurareta hanashi (Beaten Up, 2008), a short story collection, and the novel Suropu (Slope, 2010), about a middle-aged divorced woman living on her own. Opere successive includono Nagurareta hanashi (Preso a pugni, 2008), una raccolta di racconti, e il romanzo Suropu (Slope, 2010), su una donna di mezza età che vive divorziato da sola.

 (da Vertigineantologia di poesia giapponese contemporanea, Empirìa, 2004 traduzione di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta)

 Toshiko Hirata

 

Agenzia per i suicidi d’amore

Il posto del passeggero ha detto che si era passati anche ieri di qui.
Riconosco l’insegna che indica (uscita, uscita)
Il posto di guida ha detto che non ci si era passati.
Ha crollato la testa il posto del passeggero
l’auto va tranquilla sul sentiero di montagna.
Anche di qui ieri siamo passati
ricordo l’insegna vicina a quella del Soba Dôraku*
Il posto di guida ha detto che non ci si era passati,
e poi quello che ho visto è l’insegna del Soba Sagura e non del Soba Dôraku.
Ha crollato la testa il posto del passeggero
l’auto va tranquilla sul sentiero di montagna.
Anche di qui ieri siamo passati
riconosco l’insegna dell’agenzia per i suicidi d’amore
quando ho detto che era un albergo tu mi hai risposto che era un negozio di altari buddisti
hai fermato la macchina
sei entrato nel negozio dicendomi di aspettarti un po’
quando sei uscito avevi con te una bustina
ti chiedo: «Che cos’è?» mi rispondi: «Nulla»
ricordo di aver pensato
se esiste il suicidio collettivo ci sarà anche l’uccidersi insieme per amore
che ieri siamo passati di sicuro per questa strada
ha detto il posto di guida «Sembra che tu ti annoi»
e che forse invento il racconto per la noia del susseguirsi di paesaggi simili.

Toshiko Hirata 1

Ha crollato la testa il posto del passeggero
l’auto va tranquilla sul sentiero di montagna
la montagna è irsuta
i cedri sono piantati fitti
i rampicanti salgono per i loro tronchi
da un tronco all’altro
i rampicanti si avvolgono strettamente fino in alto
ho pensato se avvinghiati in questo modo dagli altri
si stia bene così
se il cedro si sentisse bene così
e fosse felice di essere avvolto
ho pensato «Per l’amore che porta a qualcuno» vorrà dire questo.
Cammina traballando un cane pelle e ossa
una razza a pelo corto di color marrone che si trova nel pet-shop
sarà stato portato sul sedile posteriore di una macchina
e abbandonato sulla montagna
«Cosa gli succederà?»
«Non lo so» ha risposto il posto di guida
Il posto del passeggero ha pensato che morirà.
«Cosa ci succederà d’ora in poi?»
«Dove hai intenzione di portarci?»
Ha detto il posto di guida di non saperlo.
«Fermati perché scendo» ha detto il posto del passeggero
«È imbarazzante stare al posto del passeggero se non faccio niente di quello che fa un passeggero
ferma la macchina perché scendo»
ha detto il posto di guida che non deve pensarlo sul serio:
«Anch’io sto al posto di guida quantunque non guidi»
«Però tu guidi»
«Ma no, tengo solo il volante perché la macchina cammina da sola».
Ha crollato la testa il posto del passeggero
l’auto va tranquilla sul sentiero di montagna
Un’auto oscura viene incontro
non c’è nessuno al posto di guida
né al posto del passeggero
«Che vuol dire?» chiede il posto del passeggero
«È il ritorno dopo un suicidio d’amore» ha detto il posto di guida
«quando ci si suicida per amore spariscono i corpi e le figure umane si fanno invisibili»
«Dunque anche noi?
anche noi correremo come quella macchina dopo esserci uccisi per amore?
correremo invisibili?»
Ha detto il posto di guida «Davvero non ricordi nulla?»
«Cosa?»
«Che ieri siamo andati fino in cima passando di qui
lì, per sbaglio, ci siamo uccisi per amore»
«Ma come? allora c’era anche ieri l’insegna con la scritta ‘uscita, uscita’
ricordavo bene, non è vero?»
Contento di quanto è accaduto, il posto del passeggero
ha pensato che più nulla aveva da rimpiangere

Toshiko Hirata 2* Vermicelli giapponesi fatti di farina di grano saraceno, uova e igname (una specie di patata), molto apprezzati dai giapponesi. Si mangiano d’inverno in brodo caldo, d’estate in salsa fredda. Questo prodotto, in Giappone, è commercializzato da molte ditte.

Massimo  Giannotta  scrittore, critico, traduttore, si occupa di editoria, di teatro e di televisione. Collabora con diverse Case editrici e riviste, è redattore della rivista on line ‘Le reti di Dedalus’. Ha seguito alcuni settori del Sindacato Nazionale Scrittori. È fondatore dell’associazione culturale La città e le stelle.

Dopo le prime prove: Nostra Patria, 1981; Il Ventre della Notte e Libro di Metamorfosi del 1993; ha lavorato per circa dieci anni alla realizzazione di un itinerario di ‘scrittura sperimentale epica’ costituito di quattro libri: Portolano,1998; La conta di Lancelot,1998;  La fortezza marina, 2001 e il Ciclo della crudeltà, 2006. Nel 2009 ha pubblicato: Incerte latitudini. Nel 2014 ha pubblicato Protocolli di autodifesa.  Ha al suo attivo lavori di traduzione da varie lingue e Galassia romana, 2001, ricerca sulla poesia a Roma.

Yasuko Matsumoto, dopo aver compiuto gli studi musicali presso l’Università delle Arti di Tokyo (Tokyo Geijutsu Daigaku), si è perfezionata in canto presso il Conservatorio di S. Cecilia in Roma. Ha iniziato la sua carriera artistica in Italia con un concerto lirico accompagnato dall’Orchestra Sinfonica della RAI di Roma nel 1969, in seguito ha svolto un’attività solistica come soprano, tenendo numerosi concerti sinfonici e cameristici con le Orchestre Sinfoniche della RAI di Roma, Milano e Napoli e presso tante altre istituzioni musicali, diretti dagli illustri maestri quali B. Bartoletti,G. Bertini,W. Boettcher,W. Sawallisch, Nino Antonellini e tanti altri. Su invito del M° Nino Antonellini, dal 1977 fa parte del complesso polifonico più prestigioso d’Italia d’allora, Il Coro da Camera della RAI, mantenendo però nello stesso tempo la sua attività concertistica come solista.

Nel 1997 esordisce come compositrice a Tokyo,cantando lei stessa, nel 2003 presenta, di nuovo, le sue nuove composizioni liriche e pubblica un volumetto ; Fior di loto, per canto e pianoforte (Eufonia,2004) . Commissionata dal M° Shigeaki Suzuki a scrivere una suite corale,sui versi di tanka di M. Kasuga,e nel 2008 il coro femminile “ Coro Cosmos” la esegue con successo al Tsuda Hall di Tokyo.

Ha tradotto, per la prima volta, le poesie di Kikuo Takano in italiano con Massimo Giannotta e pubblicato; l’Anima dell’Acqua (Empirìa,1996), in seguito con Paolo Lagazzi Secchio senza fondo (Fondazione Piazzolla, 1999) e Nel cielo alto (Mondadori, 2003), con Renato Minore L’infiammata Assenza (Edizione Leone,2005). Inoltre pubblicato con Massimo Giannotta, l’antologia di poesie giapponesi contemporanee, Sei Budda di Pietra ( Empirìa ,2000) e Vertigine ( Empirìa ,2005). Con Paolo Lagazzi ha tradotto e pubblicato il tanka di Makiko Kasuga, La nuca di Maitreya (Moretti & Vitali ,2011) .

E ha tradotto dall’italiano in giapponese diversi saggi su musicisti italiani; Palestrina nella vita di Lino Bianchi, a cura di Masakata Kanazawa ( Edition Kawai, Tokyo,1999); Giuseppe Verdi: autobiografia dalle lettere ,a cura di Aldo Oberdorfer, nuova ed. a cura di Marcello Conati ( Edition Kawai ,Tokyo,2001); L’origine e la storia dell’Oratorio, Carissimi, Stradella e A. Scarlatti di Lino Bianchi,con la prefazione di Giancarlo Rostirolla, a cura di Masakata Kanazawa, (Edition Kawai,Tokyo,2005) . Inoltre le poesie di Attilio Bertolucci e Mario Luzi col titolo; Vola alta,parola ( Shichò -sha,Tokyo, 2009, Premio Flaiano per Italianistica 2010); Luce di Parma ( Shicho-sha,Tokyo, 2009), liberamente tradotto da All’improvviso ricordando (Guanda,1997) di Paolo Lagazzi, ed infine l’Antologia di poeti abruzzesi, Daniele Cavicchia, Dante Marianacci e Renato Minore con la prefazione di Francesca Pansa col titolo; Vento e filo d’amore, libro dedicato alle vittime del terremoto all’Aquila e del tsunami in Fukushima ,( Shichò-sha, Tokyo, 2013). Nel 2006 esordisce come scrittrice col libro biografico di un missionario canadese, I 55 anni d’amore per il Giappone (Edition Kawai,Tokyo)

8 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Senza categoria

 POESIE INEDITE di Lidia Are Caverni da “Parvulus” (1991) con un Appunto dell’autrice 

Venere particolare Botticelli

Venere particolare Botticelli

Lidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3 novembre 1941, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. È insegnante elementare in pensione.

Ha pubblicato tredici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi.

Di racconti: Il giorno di primavera 1992; La fucina degli dei 2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia “Clotilde e la bicicletta” 2000; Il pesce verdino 2009. Romanzi:  I giorni dell’attesa col mio libro di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio.

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Appunto di Lidia Are Caverni

 Parvulus (è una raccolta che risale al 1991) è il niente che circonda il poeta, la solitudine densa di suoni e di musiche con cui chi scrive si pone in rapporto con l’altro. È un niente che non significa assenza, anzi il suo contrario perché esprime un mondo sommerso e nascosto invisibile a chi vi si rivolge con occhi distratti, ma invece ricco di suggestioni ed efflati per chi ne sa cogliere l’essenza.

E l’altro è un interlocutore senza volto, racchiuso nell’interiorità o che di volta in volta prende l’aspetto oggettivo dell’umano, per coglierne quel che sta dietro l’apparenza. È piccolo, non perché banale, ma perché chi scrive si assume un atteggiamento di ascolto riverenziale nei confronti di chi vede come interlocutore, siano cose o personaggi umani e più che aspettare che sia compreso vuole comprendere decifrando il mistero di ciò che costituisce il sé e l’alterità.

 (Lidia Are Caverni)

diabolik particolare di  Eva Kant R. Lichtenstein

diabolik particolare di Eva Kant R. Lichtenstein

*

Parvulus
non è che il fruscio breve
di mosca catturata
nel bicchiere
l’onda fresca della tua mano
il niente che mi bisbiglia.

 

 

*

Cosa importa
scorrerà il treno
fino all’ultimo vagone
e tu che aspetti di proseguire
l’inutile corsa
staccheresti le ruote
a navigare nel cielo
per raccontarmi il gioco
dei tetti come li vedi
immaginarmi puntino
dietro un’invisibile finestra.

*

Aspettandomi inusitati
bagliori percuotono
bersagli
punti terminali dove si fissa
ogni sguardo
e persegui magie inconsulte
di deserti
dove non bevi che sabbie
per l’amaro tuo viaggio
a raccogliere memorie
chiedere chi sei.

*

Arcaiche rive nascondono
approdi
ancorate gomene celano
chiglie
profondità di fiordi
mascherano anfratti
dove sostare nei giorni
boreali
e partire quando sopraggiunge
la notte.

fumetto volto femminile

fumetto volto femminile

*

Scrutatrice nell’urna celo
il mio voto
segreto non potresti vedere
che un foglio
segnato a croce
di analfabeta.

*

E tu non suggerire parole
faveat ancora la tua bocca
esoterici linguaggi
addensano spire di Pizie
i bacili mascherano volti
per auspici che non cogli
gli uccelli non hanno
che viscere stanche
e ali con cui avrebbero
voluto volare.

*

Virginea intatta bellezza
fustiga la tua voluttà
e tu vorresti slacciare
corpetti per appagarti
nel diverbio non ci sono
vinti
solo il tedio
de la prochaine fois.

*

Sui cipressi che amo
silenzi
mendicanti chiedono trilli
suppliche di nido
per gli inutili gridi.

*

Non ti porgerei che dolcezza
aspro basta il sorriso tuo
di melograno
a sfiorarmi la pelle
e non sei dio che giudica
simulacro che esorcizza
la paura.

bello le mani*

La differenza di quel che si produce
etichettati vitigni
non equivalgono nascosti
alambicchi di grappe
secrete gocce di evasi
monopoli
appartati tutoli
che non appagano seti
di inesprimibili arsure.

*

Per la vergogna dei nostri volti
non ci sono albe a indicare
percorsi
candidi rossori che delineano
case
e vie che non percorreremo mai.

*

Biologicamente avresti potuto
trasformarti in roggia
quieto ruscello ad alimentare
trote
e chiederti perché nascoste
esche non sazino
e devastino bocche.

*
Inenarrabile acquosità
d’intenti
vetrosi occhi fissano
nadir di cieli lontani
estrema vela all’orizzonte
inghiottita dal mare.

*

D’ora in poi non ci saranno
parole a designare nomi
ma suoni a tradurre immagini
brevi note piangeranno
e rideranno con te.

*

Per non tradire
fiaccole discendono la montagna
recando le maschere d’oro
nascosto si offre
il tuo volto di resa
agli abbacinanti ripari
del tempio
muta più non dirai parole.

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

*

Se talvolta custodisse
quest’involucro di voli
la tacita impronta
del moscerino
i lampioni rifrangono
le spente vampe
stridi echeggiano di auto
nelle convulse corse
o di ali che non coprono
il cielo
prendere la tua mano
e andare
dove non si conoscono mete.

*

Mucillaginose materie
addensano acque
per poco non dire
le ragioni del granchio
che non sa più esplorare
fondali
senza morire.

*

Se fosse ogni cosa
vincibile
sarebbe dolce la resa
come un quieto svanire
nel nulla.

*

Assentarsi
ha il non essere
il privilegio di non sapere
ignorando le proprie ferite
che fanno più male.

Paul Klee

Paul Klee

 

*

 

Dal cielo non ci attendiamo
invettive
è del solito azzurro
possiamo ancora accudire
alla scarna pesca dei giorni
e le speranze avvolte
nel cartoccio
che non osiamo svolgere.

 

*

Potrebbe essere un bersaglio
(la luna non narra
che banali fole)
la luce della mia stanza
sono io che veglio
pensando.

*

Nell’ampolla non ci sono
che perle
è evaporato il profumo
restano i palpiti
le lente pulsazioni del sangue
sotto la pelle.

4 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

QUATTRO POESIE INEDITE di Francesca Diano Fisiologia delle comete con versione in inglese SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

utopia di Winter Guest

utopia di Winter Guest

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo”, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

francesca diano

francesca diano

Francesca Diano è nata a Roma nel 1948 e vive a Padova. Laureata in Storia dell’Arte, ha vissuto a Oxford e Londra. Ha insegnato all’Istituto Italiano di Cultura e ha lavorato al Courtauld Insitute. Ha vissuto a Cork, in Irlanda, dove ha insegnato all’University College e ha tenuto lezioni pubbliche sull’arte italiana contemporanea. Dai primi anni ’80 è consulente editoriale e traduttrice letteraria di poesia, narrativa e saggistica per vari editori, tra cui Fabbri, Neri Pozza, Donzelli, Guanda. E’ la traduttrice italiana delle opere di Anita Nair. Studiosa di folklore e tradizione orale irlandese, ha curato l’edizione italiana delle Fairy Legends di Thomas Crofton Croker (Neri Pozza, 1998) e quella anastatica dell’originale (The Collins Press, 1998).

Autrice di saggi, testi narrativi e poetici, nel 2012 ha vinto il Premio Teramo. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo La Strega Bianca – una storia irlandese e la raccolta di racconti Fiabe d’amor crudele (Edizioni La Gru, 2013). Suoi testi poetici sono presenti sui blog letterari Moltinpoesia, Cartesensibili, La presenza di Erato

cop francesca diano3

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesca Diano Fisiologia delle comete

a James Harpur

I

Sciamando come pesci di barriera
Corallina le comete saettano
Guizzanti nel ventre del cosmo
Che le attira come un amante
Avido di energia.
Angeli dalle ali di farfalla
Tempestate di occhi
Ardenti serafini fuochi pii
Sfiorano il sole invidioso
Dei loro corpi liberi e veloci
Dell’esattezza acuta del ritorno.
Sassi neri più dell’atro carbone
I loro cuori si sfrangono in frammenti
Di vita trascinati dal vento solare
Cauda pavonis et fulminatio
Nella putrefazione
Perché la nigredo si compia.
Percorrendo l’antico sentiero
Oscurano abbagliano incendiano
Attraverso la trasparenza della chioma
Le quiete costellazioni fisse in cielo.
Da pascoli distanti si lanciano
A esplorare – astri fulgenti dell’istante –
Incaute nell’ardore che le consuma
Innamorate del vuoto s’immolano
Alla sete della scoperta
Compiendo il rito primigenio
Della creazione
Fiat lux

.
II

Cuori di ghiaccio di carbonio e metano
Fusi insieme in un nucleo
Cui l’esigua albedo sottrae
In apparenza il lampo mercuriale
Sprofondano nel crogiuolo dello spazio
Perché si compia la trasmutazione
Della materia in luce e in energia
Nella sublimazione di un’anima volatile.
Sventagliando le chiome lievitanti
Come soli viventi nell’istante
Esplodono segnando tracce auree
Scrivono in cielo caducei eterei.
Fenici risorgenti dall’incendio
Del proprio corpo – pavoni siderali
Si raccolgono in branchi ai confini
Dell’universo ma per poco
Poiché amore le attira come calamita
Il metallo, fatto sacro dal sacrificio –
Aurea citrinitas
Nella lestezza esatta del percorso.

.
III

Rebis sidereo unione dei mondi
Creatori di vita
Sfranto il nucleo in frammenti sulfurei
Tutto saetta attratto dal sovrano
Pianeta che si volve come le ruote
Di Ezechiele – corpo olimpico
Striato di rossi vapori violacei
S’apre all’unione cosmica
Inghiotte e fonde
Rifonda e genera
In vortici di fuoco
Divina rubedo
L’atto primo d’amore
Quintessenza creatrice
Perché sia eterno inizio
E fine eterna
Nell’eterno ritorno
Che si compie tra le galassie.

IV

Fiamma vivente
Come cometa l’anima
Si stacca dalla fonte dell’arsura
Che bruciando non arde
Che ardendo non brucia
Divampa nell’istante
Perché l’evento sia.
Vivida luce si riflette
Nella scia incandescente
In mille soli disgiunti
Che si fondono insieme
Come neumi – si scontrano
Cedono luce liquefatta
Creatura – si fa eterna nell’istante
Istantanea nell’eternità
Del proprio essere
Torna alla fonte vivente fiamma
Nebula contemplata e contemplante.

(Maggio, 2014)

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PHYSIOLOGY OF COMETS

To James Harpur
I

Swarming like fish through
Coral reef comets dart, flashing
In the womb of the cosmos
Attracting their bodies like a god
In love greedy for energy.
Angels with butterfly wings
Studded with eyes
Burning seraphs pious fires
Brushing against the sun, jealous
Of their swift free bodies
And of their sharp exactness.
Black rocks darker than coal
Their hearts shattered in fragments
Of life trailed by the solar wind
Cauda pavonis et fulminatio
In putrefaction
To accomplish the nigredo.
Flying along the ancient paths
They dazzle – inflame – obscure
Through the transparence of the coma
The fixed constellations in the silent sky.
Dashing from distant pastures they explore –
Celestial bodies refulgent through the instant –
Incautious in their consuming ardour
In love with the emptiness of space
Their lives devoted to discovery
Repeat incessantly the primeval rite
Of creation
Fiat lux

.
II

Hearts of carbon ice and methane
Merged together in the nucleus
From which the pale albedo seems
To steal the mercurial lightning.
Comets collapse in the crucible
Of space so that the transmutation
Of matter in light and energy may be perfected
By sublimating their volatile soul.
They wave the swelling comas
Like living instant suns
Exploding – tracing golden lines
Writing ethereal caduceus in the sky.
Phoenixes resurrecting from the flame
Of their own body – sidereal peacocks
In flocks they gather at the border
Of the universe – but only for an instant
As love attracts them like hard metal does
A holy magnet, in the swift citrinitas
Of their ritual path.

.
III

Sidereal Rebis union of worlds
Creator of life, its nucleus
Shattered in sulphureous fragments
It darts attracted by the sovereign
Planet revolving like Ezechiel’s wheel –
Olimpic body streaked
With red violet vapours –
Opening to the cosmic union
Swallows and melts
Melts again and regenerates
In flaming vortexes.
Divine rubedo
The first act of love
Quintessence of creation
So that eternal may be the beginning
And eternal the end
In the eternal return
Taking place in a circle
Among the galaxies

.
IV

Living flame
Like a comet the soul
Parts from the source of its burning thirst
Burning yet not scorching
Scorching yet not burning
Like wildfire spreading through
The breath of time
That the event may occur.
Vivid brilliance reflecting
The incandescent trail
In a million of disjointed suns
Yet cast together
Like neumes – they collide
Releasing shining liquor.
Creature – eternal becomes in the instant
Instantaneous in the eternity
Of its own being
Going back to the living source –
Flaming flame
Contemplating contemplated nebula.

(May, 2014)

12 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Theodor Lessing e Ludwig Klages: la “maledizione della civiltà” tra Seele (anima) e Geist (spirito), e Tre poesie di Stefan George a cura di Marco Onofrio Traduzione di Fabio Ronci

Karl Hofer Tiller Girls Kunsthalle in Emden Stiftung Henri und Eske Nannen und Schenkung Otto van de Loo

Karl Hofer Tiller Girls Kunsthalle in Emden Stiftung Henri und Eske Nannen und Schenkung Otto van de Loo

Uno degli snodi fondamentali dell’estetica del ‘900 è il rapporto che intercorre tra forma artistica e vita. L’esperienza estetica comporta, come nota Mario Perniola, «un’agevolazione e un’intensificazione della vita, un accrescimento e un potenziamento delle energie vitali» benché la forma artistica «appaia come qualcosa di secondario e di accessorio, se non addirittura di parassitario, rispetto al potentissimo prorompere ed affermarsi spontaneo delle forze vitali». La fecondità di questa pulsione è inesauribile e pressoché inafferrabile: resta in gran parte preclusa alla capacità di “presa” della forma; tuttavia l’arte, proprio grazie alla durevole consistenza della forma, veicola la possibilità di una comprensione più profonda e universale della vita che fugge. La forma può, così, “rappresentare” l’essenza della vita, e riflettere “in vitro” il suo nucleo sconfinato di eternità. La forma artistica borghese tende viceversa a mistificare l’esperienza della vita, “aggiustandola” su schemi preordinati.

L’arte, dopo il 1848, torna ad essere instrumentum regni della nuova borghesia capitalistica, aggressiva e guerrafondaia, che alimenta le mire imperialistiche delle Potenze europee. La “volontà di potenza” degli Stati emergenti ha bisogno strumentale di “forme” per coprire la verità (il fondo bruto dei rapporti di forza), cioè di linguaggi di massa per indottrinare, ammaestrare e anestetizzare i popoli (la “forza-lavoro” a servigio degli interessi oligarchici), per cui questi interessi vengono mistificati in guisa di astrazioni ideali, utili a cementare l’ordine interno della società. L’arte, allora, si qualificherà socialmente e politicamente nella misura in cui saprà affrontare la grande questione sociale, anche sul piano delle forme estetiche: confermando o meno il patto conservativo che presiede alla loro codificazione. Molte correnti artistiche cercheranno di cogliere la verità in modo immediato (naturalismo, impressionismo), o di far esplodere le forme (futurismo, cubismo, espressionismo), o di irriderle (dadaismo), pur di liberare la carica eversiva del vitalismo soggiacente – ovvero il “sogno” latente nel “segno” – censurato e rimosso a fini ideologici. Grandi filosofi – tra cui Dilthey, Simmel, Santayana, Bergson, Foucault, Marcuse – hanno pensato e dibattuto i molteplici risvolti del problema, che in chiave novecentesca deve parte della sua spinta propulsiva alle ramificazioni della nebulosa niciana e, quindi, alle sue fonti eterogenee (classiche e moderne).

Theodor Lessing und Ada Lessing

Theodor Lessing und Ada Lessing

Theodor Lessing (1872-1933), filosofo tedesco di origine ebraica, raccoglie molte suggestioni irrazionali dalla celebre “triade” Schopenhauer-Wagner- Nietzsche, e le elabora in una sua personale Lebensphilosophie: specie ne La civiltà maledetta (Die verfluchte Kultur, 1921), dove analizza il divario incolmabile tra la pienezza della vita e le costruzioni – al confronto sempre parziali e inautentiche – dello spirito umano, limitato dal vincolo dello “stare a fronte” e, di conseguenza, dall’impossibilità di una “conoscenza pura” oltre gli schemi di rappresentazione. T. Lessing parte dal concetto di vita come problema complesso e irrisolvibile. Il mondo è il luogo dove interagiscono vertiginosamente le forze di ogni essere. Ogni essere a sua volta è un campo di forze tra loro in tensione. Occorre distinguere tra forze “attive” e forze “passive”: le prime votate alla libera autoaffermazione; le seconde alla delimitazione delle prime. Le forze passive vogliono passivizzare le attive, depotenziarle. L’uomo è un essere reattivo: non può pensare l’essere se non dal suo proprio punto di vista soggettivo, particolare, sempre “reazionario” e inferiore alla complessità inafferrabile del fenomeno vita. La cultura rappresenta il trionfo delle forze passive, giacché si produce solo a condizione di “violentare” le forze attive, separandole dalla loro potenza di metamorfosi e di apertura al nuovo. Appena sfiorata dal gelo della coscienza, la vita perde l’immediata forza originaria e si spegne, si fossilizza in una forma. Tuttavia, possiamo com-prendere la vita solo imprigionandola in gabbie di schemi e categorie, cioè astraendone, rinunciando a parteciparne direttamente.

Theodor Lessing

Theodor Lessing

La sfera ideale della coscienza è indispensabile all’uomo per difendersi dall’insostenibile spontaneità originaria della vita. Le forze attive della vita, infatti, sono un veleno letale per chi si espone passivamente ad esse nella loro purezza, senza denaturarle attraverso la coscienza. L’uomo vive nel contingente, nel provvisorio, nel casuale, nel possibile: il mondo è un infinito “campo di sorpresa”. La realtà è sempre pronta a divenire antagonista rispetto al volere dell’individuo: nessuno può vivere solo ciò che vorrebbe per sé; nessuno può controllare del tutto il corso degli eventi, o ritenersi al sicuro dall’imponderabile. Tale condizione sarebbe assurda da sostenere fino in fondo: l’uomo ha bisogno di forze reattive capaci di rendere inoffensivo il potere annichilente di quelle attive, cioè di segnare un limite, di “misurare” la propria vita per afferrarla.

Stefan George

Stefan George

La “misura” grazie a cui l’abisso del mondo viene continuamente de-territorializzato in un più prevedibile “ambiente” coincide con il patrimonio dei costrutti dello spirito (norme, valori, cultura, istituzioni) che garantiscono un senso a ciò che di per sé non ne avrebbe, e permettono all’uomo di evitare il contatto diretto con il fuoco velenoso della vita. Per sopravvivere alla propria condizione, l’uomo è costretto a crearsi un mondo compensativo e artificiale, a propria immagine e somiglianza: un “orticello sicuro” dove poter coltivare indisturbato, senza tema di repliche, l’illusione di essere figlio di Dio, dominus dell’universo, unica ragione del mondo, creatura superiore e ineguagliabile, specchio e misura di tutte le cose… Questo provvidenziale rimedio, però, segna anche la sua disarmonia, il suo dover restare sempre e solo “di fronte” alla natura, come un estraneo. Per questo Nietzsche, ne La nascita della tragedia (Die Geburt der Tragödie, 1876), aveva magnificato la compenetrazione dell’ebbrezza dionisiaca e del sogno apollineo, scaturito da quell’ebbrezza, come via maestra per raggiungere l’unione con «l’intima essenza del mondo» (potere metafisico che già Schopenhauer attribuiva alla musica). Scrive Nietzsche, preconizzando la grande riconciliazione con la natura tradita: «Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estranea, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente».

Kirchner 'Cinque donne per strada'

Kirchner ‘Cinque donne per strada’

Lo spirito è la fredda lama che ha reciso il cordone ombelicale tra noi e il grembo materno della natura: da quel momento ci è preclusa l’esperienza autentica (e la reale comprensione) dell’elemento naturale originario. Scrive T. Lessing che l’uomo, in quanto creatura più debole della terra, «deve uccidere la terra stessa per poterla sopportare»: è capace di comprendere solo “violentando” la singolarità dell’essere, riducendone l’alterità, incasellandolo nella legge, adattandolo al patrimonio del già conosciuto.

«Di qualunque tipo siano gli ideali dell’area di civiltà cristiana, – deificazione, innalzamento alla divinizzazione del genere umano, spiritualizzazione della terra, umanizzazione della natura, liberazione dell’elemento naturale, logicità perfetta, perfetta eticità – il loro risultato è sempre stato l’irrigidimento del fluire elementare nella immobile realtà della coscienza spazio-temporale, vale a dire in un mondo di valori, di scopi e di volontà… A questo fine sono stati sacrificati i timori e tremori originari, l’ebbrezza bacchica e l’esuberanza del mondo primitivo. La terra che lentamente si è raffreddata e spiritualizzata appartiene agli imperi freddamente calcolatori del commercio e delle armi».

La vita, dal canto suo, è il regno della complessità e della differenza. Noi, invece di cogliere la «forza originaria» della sua «anima comunitaria dal respiro concorde», «monetizziamo la vita». La vita, di conseguenza, muore istantaneamente: «il suo flusso si fa ghiaccio. Il suo ritmo, armonia calcolabile. Dall’Eros nasce una morale. Dall’anima lo spirito. E tutto diventa validità e denaro. Dov’è finita la nozione del veggente, del saggio del mondo, del profeta, del poeta?»

Two Yellow Knots with Bunch of Flowers - Kirchner, Ernst Ludwig

Two Yellow Knots with Bunch of Flowers – Kirchner, Ernst Ludwig

Contro la conoscenza “secondo spirito”, T. Lessing propone un «aprirsi non cosciente dell’uomo all’essere»: cogliere immediatamente la realtà, senza riflettere, prima che intervengano le forze reattive dello spirito, come accadeva ancora all’uomo prelogico, che per questo viveva nella totalità, in intima unione con il mondo. La Kultur occidentale persegue da sempre il “conferimento aggiunto di senso” e in tal modo sottopone a violenze e arbitrarie deformazioni l’elementare, feconda complessità delle forze attive della vita. “Mens” (mente) in latino è affine a “mentiri” (mentire), così come “Verstand” (intelletto) in tedesco è affine a “verstellen” (alterare): «dal punto di vista del dato naturale, lo spirito agisce sempre in qualche modo selezionando, valutando, violentando».

L’uomo occidentale vuole comprendere tutto, toccare tutto, ha sempre paura di “perdersi qualcosa”: è ossessionato dalla preoccupazione di pianificare il futuro, di ricavare il massimo utile da ogni circostanza. T. Lessing propone in alternativa il modello culturale orientale, giacché «soltanto dall’Oriente può giungere la rinascita della più antica e semplice conoscenza e con ciò il rinnovamento della vita della civiltà smarrita nel vicolo cieco della spiritualità». In Oriente si è conservato un rapporto immediato con l’elemento vitale, non lo si chiude a forza in una gabbia astratta di concetti. In India, ad esempio, “Muni” (sapiente) significa “ammutolito”, colui che tace davanti all’ininterrogabile, rispettandolo in silenzio. È un’esperienza meditativa o mistica (intuitiva e non intellettuale) del mondo, che mira a una conoscenza assoluta. Per i buddisti questa conoscenza procede dal “retto vedere”, cioè da uno sguardo oltrepassante (una visione intuitiva capace di penetrare nell’essenza delle cose) che assicura un’esperienza non sensoriale della realtà. T. Lessing parla, a tal proposito, di Ahmung (sguardo intuitivo), che afferra il “vivente” senza mediazioni intellettive e lo fa emergere, intatto, come «estremo della visione». Il metodo è quello di svuotare la mente dai concetti, per sentire direttamente la realtà e unirsi all’anima del mondo. T. Lessing sostiene la necessità per l’Occidente di un nuovo linguaggio (alternativo a quello tecnicizzato imperante nella Kultur) in grado di esprimere con ricchezza e suggestione di immagini le forze attive dell’esistenza, rispettando la loro complessità originaria.

Ludwig Klages

Ludwig Klages

Anche Ludwig Klages (1872-1956), amico d’infanzia di T. Lessing (ma nel 1899 ruppero ogni rapporto per contrasti ideologici: Klages era diventato apertamente antisemita), nonché suo iniziatore alla cerchia del poeta Stefan George, imputa la decadenza della Kultur al razionalismo. Klages «identifica intuizione e sogno come un affluire di immagini archetipiche che si condensano in aura, ossia in percezione lontana del mondo primordiale». Proprio attraverso la contemplazione di queste immagini archetipiche l’uomo può recuperare la vita originaria del mondo da cui lo spirito lo ha separato. Klages distingue nettamente fra “anima” (Seele) e “spirito” (Geist): l’una calda e vibrante, nel ritmico pulsare della vita universale; l’altro freddo e riduttivo, responsabile della «sottomissione della vita ai concetti del pensare e dell’agire». L’anima è ritmo, abbandono del proprio sé al continuo e inarrestabile flusso del divenire; lo spirito è negazione di ogni fluire, paralisi e sottomissione della dinamicità vitale al potere ordinatore dell’intelletto umano.

Gottfried Benn

Gottfried Benn

La struttura essenziale dell’anima è dinamico-metamorfica, perché si apre al flusso della vita e se ne lascia plasmare. Lo spirito invece è statico e rigido, e conduce all’identificazione del compito umano con la progressiva affermazione della sua identità soggettiva, cioè della sua attività dominatrice e classificatrice sopra un mondo di “oggetti”. Secondo Klages l’anima deve liberarsi dalle catene dello spirito, uscendo fuori dall’io soggettivo e accogliendo questo flusso di immagini primordiali, per riunificarsi con la vita cui ab origine appartiene. Scrive in Dell’Eros cosmogonico (Vom kosmogonischen Eros, 1922): «La via che conduce alla vita passa per la morte dell’io». L’io tramonta nell’anima, che a sua volta coincide con il suo stesso dischiudersi al “mondo delle immagini” prodotte dal divenire della vita in esperienza vissuta. È proprio mediante questa sorta di “introiezione” dell’esperire vitale che, secondo Klages, l’uomo può sfuggire all’annichilimento della vita cosmica perpetrato dal “soggettivismo” dello spirito.

(Marco Onofrio)

Stefan George

Stefan George

Tre poesie di Stefan George (1868-1933)

Komm in den totgesagten Park

Komm in den totgesagten park und schau:
Der schimmer ferner lächelnder gestade
Der reinen wolken unverhofftes blau
Erhellt die weiher und die bunten pfade

Dort nimm das tiefe gelb das weiche grau
Von birken und von buchs • der wind ist lau
Die späten rosen welkten noch nicht ganz
Erlese küsse sie und flicht den kranz

Vergiss auch diese lezten astern nicht
Den purpur um die ranken wilder reben
Und auch was übrig blieb von grünem leben
Verwinde leicht im herbstlichen gesicht.

*

Vieni nel parco, che chiamano morto e guarda:
la luce di coste lontane e sorridenti,
il blu inatteso di nuvole pulite
illumina i laghi ed i sentieri colorati.

Là prendi il giallo profondo, il morbido grigio
delle betulle e del bosco, il vento è tiepido.
le tardive rose non sono ancora appassite,
baciale dolcemente e fanne una ghirlanda.

Non dimenticare nemmeno questi ultimi asteri,
il color porpora attorno alle snelle viti selvatiche

ed anche ciò che è rimasto della verde vita,
sfugge leggero, con viso d’autunno.

(traduzione di Fabio Ronci)

Stefan George

Stefan George

 

 

 

 

 

 

Das Wort

Wunder von ferne oder traum
Bracht ich an meines landes saum

Und harrte bis die graue norn
Den namen fand in ihrem born –

Drauf konnt ichs greifen dicht und stark
Nun blüht und glänzt es durch die mark…

Einst langt ich an nach guter fahrt
Mit einem kleinod reich und zart

Sie suchte lang und gab mir kund:
> So schläft hier nichts auf tiefem grund<

Worauf es meiner hand entrann
Und nie mein land den schatz gewann…

So lernt ich traurig den verzicht:
Kein ding sei wo das wort gebricht.

.
La Parola

Meraviglia di lontano o sogno
Io portai al lembo estremo della mia terra

E attesi fino a che la grigia norna
Il nome trovò nella sua fonte

Meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte
Ed ora fiorisce e splende per tutta la marca…

Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice
Con un gioiello ricco e fine

Ella cercò a lungo e [alfine] mi annunciò:
“Qui nulla d’uguale dorme sul fondo”

Al che esso sfuggì alla mia mano
E mai più la mia terra ebbe il tesoro…

Così io appresi la triste rinuncia:
Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca

Ein Winterabend

Wenn der Schnee ans Fenster fällt,
lang die Abendglocke läutet,
vielen ist der Tisch bereitet
und das Haus ist wohlbestellt.

Mancher auf der Wanderschaft
kommt ans Tor auf dunklen Pfaden.
Golden blüht der Baum der Gnaden
aus der Erde kühlem Saft.

Wanderer, tritt still herein;
Schmerz versteinerte die Schwelle.
Da erglänzt in reiner Helle
auf dem Tische Brot und Wein.

Una sera d’inverno

Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.

Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l’albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.

Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino. Continua a leggere

17 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, filosofia, poesia tedesca, Senza categoria

UNA POESIA INEDITA di  Bella Achatovna Achmadulina (1937-2010) Ricordi di Boris Pasternak (1962) Traduzione di Donata De Bartolomeo con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

 Bella Achatovna Achmadulina (in russo: Белла Ахатовна Ахмадулина) è nata a Mosca il 10 aprile 1937 ed è scomparsa il 29 novembre 2010. Ha conquistato larga popolarità con le raccolte di versi Struna (“La corda”, 1962), Uroki muzyki (“Lezioni di musica”, 1970, trad. it. Tenerezza e altri addii, 1971), Metel´ (“La tempesta”, 1977) e il poema Mòja rodoslovnaja (“La mia genealogia”, 1964). Negli ultimi anni ha pubblicato inoltre: Larec i ključ (“Lo scrigno e la chiave”, 1994), Sozercanie stekljannogo šarika. Kovye stichotvorenija (“Contemplazione di una pallina di vetro. Nuove poesie”, 1994), Grjada kamnej. Stichotvorenija 1957-1992 (“La scogliera di pietre. Poesie 1957-1992”, 1995). È stata una poetessa russa tra le più lette e conosciute in patria e all’estero. Nata da padre tataro e da madre italo-russa, con la raccolta di liriche La corda (1962), improntate a un arduo tecnicismo verbale, si pose in prima fila, insieme con Evtušenko (che fu suo primo marito) e Andrej Voznesenskij, nella nuova generazione poetica poststaliniana, cui il recente disgelo aveva consentito una certa libertà di ispirazione e il distacco dalla retorica ufficiale. Nell’ambito di un severo, tradizionale impianto metrico, la Achmadulina ha condotto un’originale ricerca sul linguaggio, attenta alle inflessioni gergali, ma sempre guidata da un’ansia di purezza espressiva e dalla fede nella funzionalità simbolica della parola intesa come accordo verbale, risonanza, armonia. Nelle sue raccolte più recenti (Lezioni di musica,1969; Poesie,1975; Il mistero,1083), così come nelle liriche apparse su giornali e riviste (anche nel circuito clandestino del samizdat), esprime la meditazione sul destino dell’intellettuale nel mondo moderno e il virtuosismo stilistico lascia il posto a una più contenuta maturità d’espressione. Altre sue opere furono Tormenta (1977), nell’almanacco Metropol (Mosca, 1979), il racconto Molti cani e un cane. Le poesie di Bella Achmadulina sono state pubblicate in Italia nelle raccolte Poesie scelte (a cura di Donata De Bartolomeo, pubblicato dalla Fondazione Marino Piazzolla, 1993) e in Poesia (Spirali 1998).

 

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

L’enciclopedia Treccani recita: «metonimia Figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma discendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra. Costituiscono relazioni di contiguità i rapporti causa-effetto (sotto la specie autore-opera, leggere Orazio, cioè le opere scritte da Orazio; ➔ metalepsi), contenente-contenuto (bere un bicchiere), qualità-realtà caratterizzata da tale qualità (punire la colpa e premiare il merito, cioè punire i colpevoli e premiare i meritevoli); simbolo-fenomeno (il discorso della corona, cioè il discorso del re o della regina), materia-realtà composta di tale materia (un concerto di ottoni, strumenti fatti d’ottone). Si distingue tra m. in cui le realtà associate hanno una relazione di tipo qualitativo e sineddoche, in cui la relazione è di tipo quantitativo».

Dunque, la metonìmia (alla greca metonimìa) s. f. [dal lat. tardo metonymĭa, gr. μετωνυμία, propriamente «scambio di nome», composto di μετα- «meta-» e ὄνομα, ὄνυμα «nome»], è un procedimento linguistico espressivo, e figura della retorica tradizionale, che consiste nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità spaziale, temporale o causale.

Fata questa doverosa premessa, appare chiarissimo alla prima lettura che questa composizione di Bella Achmadùlina fa proprio il procedimento della metonimia. L’inizio è folgorante. C’è una descrizione di una «casa»: «c’era una casa come una casa», ma non è detto di quale casa si tratta, gli enunciati sono pronunciati ma come in sospensione. L’incipit vuole subito dare l’idea di un punto di partenza («Comincerò da lontano») che non riesce a giungere ad un punto di arrivo, l’inizio e la fine si sono confusi: «non da qui ma da là / comincerò dalla fine ma è anche l’inizio». Subito dopo questi versi compare una tautologia: «Il mondo era come il mondo», ma si tratta di una tautologia rafforzativa del senso, infatti, viene subito spiegato che «E questo significava / tutto quello che in questo mondo desiderate». Dunque, già dalla lettura della prima quartina apprendiamo che un punto che viene da lontano corrisponde nientemeno che al «mondo». Il punto corrisponde al mondo, si stabilisce una equivalenza tra il punto di partenza e il mondo, tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.

La seconda strofa riprende il motivo lasciato in sospensione: il «luogo», con un tentativo di precisazione delle particolarità topografiche di quel «luogo»: «In quel luogo c’era un bosco, come un orto». Dunque, di nuovo troviamo una indistinzione tra il piccolo (l’orto) e il grande (il bosco), e uno scambio, una equivalenza di valore tra il piccolo e il grande («così piccolo e tuttavia ampio»). Tutta la composizione è un continuo gioco di rimandi tra il piccolo e il grande, tra il contenuto e il contenente. Ci troviamo nella dimensione infantile che ancora non conosce il valore delle dimensioni degli adulti.

Ma ancora non si sa nulla del tema della poesia, nulla si sa del protagonista della poesia, si parla nelle successive quattro strofe di tante cose che ruotano attorno a quel «luogo», ma come inessenziali, periferiche, accidentali come se ci fosse una oggettiva difficoltà a mettere a fuoco il protagonista che rimane nascosto, non nominato, non nominabile, come se una censura operasse a livello conscio che impedisse la nominazione del protagonista. È soltanto nella settima strofe che finalmente troviamo nominato il protagonista ma non col suo nome proprio ma attraverso un pronome «lui», ma è un «lui» che verrà subito abbandonato appena nominato nelle seguenti cinque strofe e sarà soltanto nella tredicesima strofe che verrà di nuovo nominato sempre attraverso la mediazione impropria del pronome.

Questo è quanto, la poesia procede a sbalzi metonimici e a cerchi sempre più ampi fino a sfociare in un pezzo in prosa, come se l’eccitazione e l’emozione di nominare l’innominabile fosse troppo alta per consentire la prosecuzione della composizione poetica. Mi fermo qui.

bella achmadulina

bella achmadulina

 

 

 

 

 

 

 

Bella Achatovna Achmadulina

 Ricordi di Boris Pasternak

Comincerò da lontano, non da qui ma da là
comincerò dalla fine ma è anche l’inizio.
Il mondo era come il mondo. E questo significava
tutto quello che in questo mondo desiderate.

In quel luogo c’era un bosco, come un orto,
così piccolo e tuttavia ampio.
Là, per un capriccio di errori infantili,
tutto era così e tutto al contrario.

Su una piccola distesa di silenzio
c’era una casa come una casa. E questo significava
che in essa una donna dondolava il capo
e le lampade venivano accese presto.

Là il lavoro era leggero come un compito di scrittura
e qualcuno – noi stessi ancora non lo sapevamo –
da solo faceva perdonare , a furia di preghiere innanzi ai cieli,
il nostro peccato di un imperfetto intelletto.

Di quell’equilibrio tra il bene e il male
egli era colpevole. E la terra volava
sconsideratamente, come voleva,
mentre la candela ardeva sul tavolo.

Si perdonavano e l’ignorante e il bugiardo
-qual è la differenza?- davanti a tutto il mondo
poiché, avendoci permesso di non occuparci di ciò,
egli espiava la colpa universale.

Quando il vuoto da lui lasciato
apparve davanti al mondo, verso oriente,
con una scossa la natura spossata
spostò la gravità dei nostri corpi.

Riuniti in un povero cerchio,
l’immensità ci colse di sorpresa
e dallo squallore delle nostre indegnità
ormai nessuno si riscattava.

In quella casa andavano in molti. E quei
due ragazzini con le camicie a strisce
senza timidezza comparivano nel giardinetto
tra il lampone, che diventava scuro nell’oscurità.

Io mi trovavo per caso lì vicino
ma sono estranea all’abitudine moderna
di stabilire un rapporto impari,
d’essere in amicizia e chiamare per nome.

Di sera avevo l’onore
di guardare la casa e rivolgere una preghiera
alla casa, al giardinetto, al lampone:
quel nome non osavo pronunciarlo.

Era l’autunno ed era soltanto
una conseguenza e non un pegno dell’estate.
Allora ancora nessuno sapeva che questo
circolo dell’anno non sarebbe stato chiuso.

Sfuggendo rigorosamente agli incontri con lui
io andavo tra gli alberi, verso l’ineluttabilità dell’incontro,
verso la spaziosità del suo viso, verso la cantilena del parlare…
Ma fare rime in tuo nome?
Oh, no.

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Egli all’improvviso uscì dalla povera boscaglia di Peredelkino di sera tardi, in ottobre, più di due anni fa. Indossava un abito da cacciatore grezzo e pulito: mantello azzurro, stivali e guanti lavorati ai ferri. Per delicatezza nei suoi confronti e per orgoglio verso me stessa quasi non vedevo il suo volto: soltanto le bianco-luminose vampate delle sue mani nell’oscurità mi abbagliavano gli occhi. Egli disse: “Oh, salve! Mi hanno raccontato di voi e vi ho riconosciuta subito. – Ed all’improvviso, avendo messo in questo una inaspettata carica di sofferenza, implorò: – Per carità! Scusatemi! Proprio adesso devo telefonare!” Fu sul punto di entrare nel piccolo edificio di un ufficio ma di scatto ritornò e dal buio pesto mi colpì in viso, traboccò la chiara luminosità del suo volto, con la fronte e gli zigomi luminescenti sotto la pallida luna. A causa sua mi avvolse un dolce, gelido frescolino shakespeariano. Egli chiese con spavento: “Non avete freddo? Ormai è quasi novembre” e, tutto confuso, goffamente entrò retrocedendo in una porta bassa. Addossata alla parete, lo ascoltavo con il corpo, come un sordo, parlare con qualcuno: come diffondendosi con insistenza dinanzi a lui, lo avvolgeva con l’inquietudine e la passione della voce. Con la schiena e le palme assorbivo i singolari processi del suo modo di parlare: il canto crescente delle frasi, il caro borbottio orientale trasformato in tremito indistinto e rombo di assiti. Io  e la casa e i cespugli intorno, senza volerlo,  finimmo nei copiosi abbracci di questa intonazione tenerissima, mestamente delicata. Poi egli uscì e facemmo alcuni passi lungo il terreno coperto di ceppi, ramoscelli, siepi per nulla adatto ad una camminata. Ma egli chissà come  con facilità ed alla buona se la intendeva con l’abisso diseguale che si era addensato intorno a noi, con le stelle in mostra che brillavano a buon mercato, con la fossa al posto della luna, con gli alberi poco accoglienti disposti rozzamente. Egli disse: ”Perché non venite mai a trovarmi? Da me capitano a volte delle persone molto care ed interessanti: non vi annoierete. Venite! Venite domani!” A causa di un capogiro che mi prese, io risposi quasi con alterigia:”Vi ringrazio. In qualche modo verrò senza fallo”.

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Dal bosco, come un attore da dietro le quinte,
egli trasse all’improvviso la magniloquenza della posa,
senza ricavarne per questo alcun profitto
presso lo spettatore: e distese le braccia.

Egli fu subito il teatro e se stesso,
quell’antica scena, dove ci sono mirabili parole.
Ecco l’inizio! Si spegne la luce! Alle sue spalle
già balugina il fosforo azzurro.

“Oh, salve! E’ quasi novembre
non avete freddo?” ed è tutto, nulla di più.
Come recitava quell’unico ruolo
di universale dolcezza verso gli uomini e le bestie.

Ecco recitare così il proprio ruolo: scherzando!
seriamente! fino alle lacrime! per sempre! senza malizia!
Come egli recitava, come, tracannando il latte,
gioca col mondo la bestia ed il bambino.

“Addio!” Cantare così tra la gente
non si usa. Ma così cantano sulla ribalta,
così si conclude il monologo di quel dramma
in cui si parla della morte e dell’amore.

Già il sipario! Già si illumina l’oscurità!
Ancora non è tutto: “Dunque, passate domani!”
Oh, tono di trasporto ospitale,
noto solo ai georgiani, come a lui.

Ma doveva esserci al mondo una casa simile
dove andare: non lo so! non è possibile!
E dunque, per sempre sconsideratamente,
io non andai né l’indomani né dopo.

Io piangevo tra le stelle, gli alberi e le dacie,
dopo uno spettacolo nella platea spenta,
sul primo assaggio della perdita
come piangono i bambini ed è sommo il loro pianto.

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

 

 

 

 

 

 

Egli asseriva: “Tra le serre ed i ghiacci,
appena più a sud del paradiso,
suonando uno zufolo da bambini,
vive un secondo mondo
e si chiama Tiflis”.*

Ustione per gli occhi, per la mani infreddatura,
mio amore, mio pianto: Tiflis!
La cornice concava della natura,
dove un dio capriccioso, abbandonandosi al capriccio,
sistemò alla meno peggio questo miracolo sulla terra.

La nebbia si levò ai miei occhi ,
il mio errore prese la rincorsa,
quando quella città dondolando-dondolando
si stese in semicerchio, come il sorriso
delle labbra benedette di Tamara.**

Non so per quale divertimento
egli serrò su di me l’ovale,
baciò, fece fatture sulla vita,
sulla morte ed in punto di morte –
essere l’eterno prigioniero di Metechi.***

Se soltanto non dovessi bere
dall’acqua di Kura!****
E dall’acqua di Aragvi****
non bere!

E le dolcezze del veleno
non conoscere!
E con il viso in quelle erbe
non cadere!

E restituirti i doni
che tu, Georgia, mi hai donato!
Ma è tardi! Ormai il sorso è bevuto
ed è eterna l’ebbrezza e dio vede
che il sogno su di te è profondo
coma la valle dell’Alazani.****

(1962)

Bella Akhmadulina, the GREAT Russian POET, passed away at her home in Peredelkino near Moscow on 29 November 2010. Akhmadulina was cited by Joseph Brodsky ...

Bella Akhmadulina, the GREAT Russian POET, passed away at her home in Peredelkino near Moscow on 29 November 2010. Akhmadulina was cited by Joseph Brodsky …

*(NdT) antico nome di Tblisi
**Tamara Bagration (1160-1212) fu regina della Georgia dal 1184 fino alla sua morte per 28 anni, guadagnandosi la reputazione di eccellente sovrana al punto da essere ribattezzata “re dei re e regina delle regine”.
*** antico e storico rione di Tblisi
**** fiumi della Georgia.

Donata De Bartolomeo è nata a Taranto e vive a Roma. Ha tradotto poesie di Andrej Voznesenskij, Bella Achatovna Achmadulina, Osip Mandel’stam, Blok, Majakovskij, Esenin, Arsenij Tarkovskij e si è occupata di poesia russa con articoli di saggistica.

22 commenti

Archiviato in poesia russa, Senza categoria

POESIE SCELTE di Ottavio Rossani Da “L’ignota battaglia” (2005) sul TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

ottavio rossani

ottavio rossani

 Ottavio Rossani (Sellia Marina, 1944), vive a Milano, dove si è laureato In Scienze Politiche e sociali all’Università Cattolica. Poeta, scrittore, pittore e ogni tanto regista teatrale. Come giornalista – 40 anni al Corriere della Sera – ha viaggiato in diversi continenti e ha incontrato e intervistato potenti e umili negli ambiti della cultura, della politica, della  cronaca. Ha scritto saggi di letteratura, storia e arte. Sei i libri di poesia: Le deformazioni (1976), Falsi confini (1989), Teatrino delle scomparse (1992), Il fulmine nel tuo giardino (1994), L’ignota battaglia (2005) e Riti di seduzione (2013). Tra i diversi saggi, Leonardo Sciascia (1990) e Stato società e briganti nel Risorgimento italiano (2002, tre edizioni). Un lungo racconto storico: Servitore vostro illustrissimo et devotissimo (1995). Molte le plaquette di poesie, tra cui Finestre aperte (2011), alcune corredate da suoi disegni. I suoi quadri sono in collezioni private, in Italia e all’estero; una trentina le mostre personali e collettive. Una sua pièce, Se mi vengono i brividi,  è stata rappresentata a Buenos Aires, con la sua regia. Collabora con alcuni quotidiani e riviste culturali. Responsabile del blog “Poesia” sul Corriere della Sera on line (http://poesia.corriere.it).

 Ottavio Rossani L'ignota battaglia.

da Ottavio Rossani L’ignota battaglia (Iride/Rubbettino, 2005, pagg. 63, euro 6,50)

Ordini

Tu, mano sinistra, non ci sei più.
Mano destra, sparisci anche tu.
Ora, gambe unite, navigate vuote.
Nasconditi, ventre riottoso,
nell’ovattato buio delle lenzuola.
Resta tu, cuore, a ricevere gli ordini
dalla mente che insegue bagliori.
E obbedisci, per salvaguardare
il candore delle immagini originarie.

2.
S’attutiscono i rumori negli occhi
chiusi, la stanza tutta nera.
Raccolti i fili del giorno incandescente,
liberati i desideri pulsanti d’incertezza,
eseguirai con scrupolo i decreti
nel mare dei silenzi purificatori.

3.
Quando la casa di legno scricchiolava,
spalancavo gli occhi nel buio compatto
alla sciabola minacciosa e sfolgorante.
Ma non vedevo il saraceno che ghignava
in attesa di vibrare il colpo mortale.
Reprimevo il fiato per svenire.
“Se non mi sente vivo, rinuncerà”.

ottavio rossani

ottavio rossani

 

 

 

 

 

 

 

 

4.
E mi spezzai un braccio sulla sabbia
saltando, come pirata all’arrembaggio,
la balaustra di legno, solo un metro.
Ogni notte all’esagitato risveglio,
al lume ti facevo misurare, sorella,
per un rapido assonnato responso,
quanto fosse corto dopo l’ingessatura.
Perché correndo investìi la bicicletta
che dal sopracciglio provocò il sangue?
Perché Totò mi beffò di sorpresa, intriso
di febbre, con l’ultimo stentato sorriso?
Ti raccontai poi del diafano Michele,
disfatto dalla leucemia, assistito
da un prete con vane giaculatorie?

5.
Quando tesi la mano verso l’arancia
dietro la staccionata scoppiò un petardo.
Il guardiano saltellò di livore.
Da lì cominciò la smania di partire
con quel treno amante a sbuffi,
dio di mio padre finalmente premiato.
Odiai il Polifemo degli aranci.
Tra gli ulivi m’innamorai della luna
che schiariva il sentiero di casa.
Sognai a lungo una nave tutta bianca.
Ti regalai, in piedi, un serto di parole
E me n’ andai sferzato d’ardimento
a cercare qualcosa d’oro come Giasone.
Sul cocchio mi vedevo sfrontato e aitante.
I nemici aspettavano al con fin e.
Bisognava attraversare un vorticoso fiume.
Non so spiegare come sgominai
le falangi dei pidocchi bianchi
che accerchiavano le mie strade.
Tornai magro e vittorioso a prenderti
Per condurti nella mia nuova terra
dove nessuno ride della libertà.

6.
“Il tempo cancella gli affanni”,
sancì la saggezza di un filosofo.
Io qui smentisco tale virtù:
l’esperienza acuisce sensi e malumori.
Credevo fosse indistruttibile
la forza dell’intelligenza.
Sempre indifeso raccolsi e archiviai
Sconfitte, ferite, cicatrici.
Ma bruciai la parola rassegnazione.

7.
Per evitare insonnie devastanti
Ho imparato a dispensare comandi
alle membra avide di vigore.
Così, a tratti dormo e mi rigenero.
E quando tornano gli assalitori
sono pronto a ricominciare la battaglia.

copertina ottavio rossani

4 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

I CANTI DEL KURBET/ KËNGËT E KURBETIT di Gëzim Hajdari Cura e traduzione in italiano di Gëzim Hajdari

 

Gezim Hajdari e Laura Toppan (docente all'Università di Lorraine-Nancy 2) durante la presentazione della sua antologia Poesie scelte al Centro Internazionale di Lingua e Cultura Italiana a Parigi, 2008

Gezim Hajdari e Laura Toppan (docente all’Università di Lorraine-Nancy 2) durante la presentazione della sua antologia Poesie scelte al Centro Internazionale di Lingua e Cultura Italiana a Parigi, 2008

Stralcio tratto dall’introduzione di Gëzim Hajdari al libro di prossima pubblicazione:

I canti del kurbèt rappresentano i canti popolari albanesi della migrazione durante l’occupazione Ottomana, 1468 – 1912, quest’ultimo anno dell’Indipendenza dell’Albania dalla Turchia. Due anni fa’, il sottoscritto diede alle stampe I Canti dei nizam (i canti dei soldati albanesi che combattevano per l’Impero dei Sultani di Istanbul), edito da Besa, 2012. Sono due opere monumentali della memoria collettiva del Paese delle Aquile, nonché parte integrante della memoria della cultura europea. I canti del kurbèt appartengono a un periodo buio della storia albanese. Erano secoli di drammi sociali, di tragedie umane e di resistenza per la sopravvivenza della nazione shqiptar. É straordinario come questo piccolo popolo nel cuore del vecchio continente, nonostante il lungo dominio romano, poi quello ottomano, e altre invasioni ancora, sia riuscito a resistere alle temperie della Storia e all’assimilazione forzata degli invasori conservando la propria identità e la propria cultura. Nel 1775, la Patriarcana di Istanbul, guidata da Abdul Hamiti I°, emanò un ferman che proibì per legge l’uso della lingua albanese, imponendo, per un secolo e mezzo, la lingua turca come lingua ufficiale in Albania. É stata proprio la ricca tradizione orale epica e lirica a salvare la lingua, l’anima e l’identità del popolo albanese.

I canti del kurbèt nascono nell’800, all’epoca dei canti dei nizam. Vengono cantati nelle cerimonie e nelle feste sia al nord che al sud del paese. Tuttavia le regioni più ricche di questa tradizione popolare sono quelle del sud, quali Korçë, Kolonjë, Përmet, Gjirokastër, Bregu i Detit e Çamëria. Queste regioni si trovavano in contatto diretto con il resto dell’Impero, mentre le regioni del nord , nelle quali vigeva il Kanun e la besa, non facevano parte della giurisdizione ottomana. Quindi i canti del kurbèt in queste regioni lontane e montuose erano meno frequenti.

Gezim Hajdari a Filettino 2012

Gezim Hajdari a Filettino 2012

Nei primi decenni dell’800, le mete preferite dei kurbetlì erano i paesi dell’ impero quali Turchia, Serbia, Grecia, Bulgaria, Romania, l’Egitto e lo Yemen. Ma negli ultimi decenni del secolo si spinsero oltre i confini della Turchia Ottomana, approdando in Germania, in Francia, e persino nel continente americano, Argentina e USA. I canti del kurbèt, oltre al loro immenso valore culturale e spirituale, rispecchiano il quadro storico e sociale dell’epoca in cui nacquero e vennero cantati. Esprimono rabbia e protesta contro le condizioni economiche in cui i kurbetlì vivevano denunciando il kurbèt in quanto un fenomeno sociale che portava più disgrazie e sofferenze che fortuna e danaro. Raccontano di separazioni, lamenti, struggimenti, viaggi, attraversamenti, fatiche, dolori, sofferenze, nostalgie, pianti, attese infinite, gemiti e lutto . I kurbetlì erano giovani e uomini contadini che provenivano dai poveri villaggi, costretti ad abbandonare la propria terra, gli affetti per andare a lavorare all’estero in cerca di fortuna.

I canti del kurbèt di città sono rarissimi. Il volume di 500 pagine si divide in quattro capitoli, che sono: partenza al kurbèt; le sofferenze e le pene dei kurbetlì e delle loro famiglie; ritorno dei kurbetlì e I canti dei migranti arbëresh  d’Italia.

I canti del kurbet vengono proposti per la prima volta al lettore italiano. Inoltre è da sottolineare il fatto che sia i canti dei nizam che questi del kurbèt, vengono tradotti per la prima volta in una lingua straniera. E questa fortuna è toccata proprio alla lingua di Dante Alighieri.

G.H.

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

ZUNË YJET PO RRALLOJNË

Zunë yjet po rrallojnë,
zunë gjelat po shpeshojnë,
karvanaret po ngarkojnë,
zunë kurbetlinjt’ të shkojnë.
Le të shkojë kush të dojë,
Beçja im të mos shkojë.
– Grua mos më fol me gojë,
do shkoj se kemi nevojë,
varfëria na mbuloi.
– Rri, o trim, të shkojmë jetë,
kjo jetë sa një fletë.
– Ç’më thua e shuarë,
zemër, përvëluarë?!

.
TRAMONTANO LE STELLE

Tramontano le stelle,
iniziano i galli a cantare,
i kurbetlì di buon’ora,
caricano le carovane,
partono, se ne vanno.
Che parta chiunque,
ma non tu, mio uomo.
– Moglie mia, che dici,
ne abbiamo bisogno,
tanta povertà addosso.
– Resta a casa con me,
la vita è un soffio.
– Cosa sono queste parole,
mi spezzi il cuore!

.
Ç’U MËRZITËN GJITHË MALET

Ç’ mërzitën gjithë malet,
se u ikën trimat,
ç’u mërziten bredhat –o
se u ikën çobanët-o
ç’u mërzitën çezmat-o
se u ikën bandillat-o.
Ikën, po vallë ku vanë?
– Zunë kurbetet me radhë!

.
SI RAMMARICANO LE MONTAGNE

Si rammaricano le montagne,
se ne vanno i gagliardi,
s’intristiscono gli abeti,
perché partono i pastori,
si lamentano le fontane
non berranno più gli amanti.
dove sono andati a finire?
– Per i mondi, al kurbèt!

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Ç’U NISA PËR NË KURBET

Ç’u nisa për në kurbèt,
ç’ke, o nënë që s’më flet?
Të lë gruan amanet,
nuk sillem për shumë vjet
sa të mbush qemer e xhep.
Qeparo, o lumë, o lumë,
do më marrë malli shumë.

 

 

.
PARTO AL KURBET

Parto al kurbèt,
madre, dimmi una parola.
Amanèt mia moglie,
vi resterò per molti anni
finché non farò fortuna.
Di Qeparò e del fiume,
sentirò la nostalgia.

.
NJË MOLLË E KUQE NA MBUSHI OBORRË

Një mollë e kuqe na mbushi oborrë,
thuaji tët biri nënë, se kërkon të shkonjë.
Po ay do shkonjë, ty ku do të lërë,
tynë moj syzezë, moj vetullgjilpërë.
Më jiku beqari udhës për Bilisht,
e kur e përcolla, m’u këput ky shpirt.
Jiku Bëjçia iku, udhës së Stambollit,
me kë do ta mbledh mollën e Stambollit.
Iku Bëjçia lark, s’dihet kur do vinjë,
seç me lojti mëndjen, më prishi terezinë,
me kë do të mblidhm, s’kam edhe fëmijë,
ç’më shkretovi keq, më prishi fiqirë.

.
UNA MELA ROSSA PROFUMA NEL CORTILE

Una mela rossa profuma nel cortile,
dì a tuo figlio che vuole partire.
Ahimè, egli partirà, giovane sposa,
dagli occhi neri e volto di luna.
Lo accompagnai fino a Bilisht,
mi duole il cuore, mi trema l’anima.
Partì lontano per Istanbul,
come riavere il mio uomo.
Se ne andò, chissà quando tornerà,
misera me, non so come fare,
senza un figlio in casa, con chi parlerò?
rovinata per sempre, destino infame.

Gezim Hajdari, Siena 2000

Gezim Hajdari, Siena 2000

NGREU LULE NGREHU

Ngreu lule, ngreu,
ngreu, moj sa do fjete,
larg, moj, do vete
larg, moj, në kurbete,
se unë, moj, do shkoj
lark moj në Stamboll,
pa diç do dërgoj:
një boçe plot ftoj,
pa kur t’u març erë,
kujtom’, moj, e mjerë;
kur t’i preç me thikë,
kujtom’ moj, një çikë;
kur t’i haç në gojë,
syri të t’vajtojë.
Ngreu, moj, lule ngreu,
ngreu, moj, sado fjete,
se un’, moj, do shkoj
larg, moj, në kurbete!!

.
SVEGLIATI MIO FIORE

Svegliati, mio fiore,
basta dormire,
lontano me ne andrò,
lontano al kurbèt,
andrò lontano,
lontano a Istanbul,
sai cosa ti manderò:
un canestro di cotogne:
quando le odorerai,
ti ricorderai di me,
quanto le taglierai,
non ti scordare di me,
quando le mangerai,
in silenzio piangerai.
Alzati mio fiore,
basta sognare,
lontano me ne andrò,
lontano al kurbèt.

.
TË MË NGRESH MOJ NËNË

Të më ngresh, moj nënë,
me yll të sabahut,
se me presin shokët
tek varri i çobanit.
Nuk ikim nga qejfi,
por ikim nnga halli,
o kurbet i shkretë,
o të martë djalli!

.
SVEGLIAMI MADRE MIA

Svegliami madre mia,
domani di buon ora,
mi aspettano i compagni
alla tomba del pastore.
Non partiamo all’avventura,
ma per lavorare,
o kurbèt, misero kurbèt
che tu possa sparire!

Gezim Hajdari a Udine 2011

Gezim Hajdari a Udine 2011

O MOJ PORTA DY-TRE KATE

O moj porta dy tre kate,
ç’e bëre Jaçen që pate?
Gjer në burgt shkoj e vate,
s’i qesh buza me mustaqe.
Shkoi, moj shoqe, shkoi,
gjer matan, bregut kaptoi.
Ku vete mos vafsh i gjallë,
ne të dy pa nxjerrë mallë!
Ku vete, more i shuar,
me dy javë të martuar!
Iku lart gjer në Jemen,
për dhjet’ vjet a vjen a s’vjen?!

.
MIA CASETTA DI TRE PIANI

Mia casetta di tre piani,
dov’è mio marito?
Al kurbèt se ne è andato,
ahimè né ride, né piange.
Se ne è andato, mie compagne,
oltre il mare con le onde.
Dove vai, povera me,
ci siamo appena sposati!
Dove vai, mio signore,
sposati da due settimane!
Se ne è andato allo Yemen,
tornerà fra dieci anni!

.
AMAN ANDRONIQI

Aman Androniqi,
kur shkon udhës ti!
Çporru, mor ti çporru!
Mos, buza kuti!
– Ku të vate burri?
– Vate në Itali.
Në daç u marto,
në daç rri e ve,
në qish, në daç shko,
bënu kalloggre.
– Unë as martohem,
as e ve nuk rri,
po do preste burrin,
të vij’ në shtëpi.
– Unë e tija jeshë,
unë e tija jam,
ç’llafe thonë bota,
m’u bëfshin kurban!

.
BELLA ANDRONIQÍ

Bella Androniqì,
sei una regina!
Basta con le parole!
Non dire così!
– Dove è tuo marito?
– Al kurbèt, in Italì!
Non so se ti risposi,
o farai la vedova,
se andrai in chiesa
o farai la monaca.
– Io non mi risposo,
non farò la vedova,
aspetterò mio marito
tornare a casa.
Sono sua moglie,
e sua rimarrò,
quello che dice la gente,
non voglio saperne!

Gezim Hajdari nello suo studio con la sua compagna Iris

Gezim Hajdari nello suo studio con la sua compagna Iris

FOLË MOJ MIKE JË FJALË

Folë, moj mike, një fjalë,
se jam gati për të dalë.
Ku vete, mos vafsh i gjallë,
se mua s’ma nxorre mallë.
Kur dolla nga dera jashtë,
mu muar’mënt’ edhe rashë;
kur dolla në mest avllisë,
m’u këput gjysm’ e fuqisë;
kur dolla te porta jashtë,
e besova që u ndashë.
Pampor, o dhogëz e thatë
na ndave neve nga grate;
ku na shpie o i pabesë,
na ndave nga kishim shpresë.

.
DIMMI MIA AMATA UNA PAROLA

Dimmi, mia amata, qualcosa,
è tardi, devo partire.
-Dove andrai, disgraziato,
ieri ci siamo sposati.
Quando sono uscito di casa,
mi girava la testa;
sono sceso in cortile,
non avevo più la forza;
ho raggiunto il cancello,
mi tremavo il corpo,
Pampòr, che tu sia maledetto,
ci hai separati dalle mogli;
dove ci porti, perfido pampòr
ci hai strappato le speranze.

.
U NISA O SHOKË

U nisa, o shokë,
për në ksneti,
u nisa, u nisa,
me vapor të zi.
Në detin e gjërë,
në detin pa anë,
nat’ e dit’ mendoj
nënën e babanë.
Eh kjo koh’ e keqe,
eh, ky baft i zi,
seç na la pa njerëz,
na la pa shtëpi!
U nisëm, o shokë,
s’dimë se ku vemi,
se vendin e huaj,
neve njerkë kemi!
Hajde kazandì,
hajde, o kurbet,
vallë ku do shkojmë
o shokë medet!?

.
PARTO AMICI MIEI

Parto amici miei
per il kurbèt,
parto di buon ora,
con la nave nera.
È lungo il viaggio,
infinito il mare,
nella mia mente
padre e madre.
Maledetto il kurbèt
e l’amara povertà,
separati per sempre
dalle nostre case!
Partiamo amici,
ma dove andremo?
Nel paese ignoto
stranieri saremo!
Ahimè, miseri noi,
dove andremo
chissà, amici miei,
che fine faremo!

Gezim Hajdari a Udine 2011

Gezim Hajdari a Udine 2011

HESHT VITO MOS QAJ PËR MUA

Ku je nisur dhe do veç,
imzot me kë më le mua?
– Jam nisur për në kurbet,
hesht Vito mos qaj për mua!
– Të vij edhe un’ me ti,
imzot me kë më le mua?
– Është lark e bie shi,
hesht Vito mos qaj për mua!
– A do sillesh shumë vjet,
imzot me kë më le mua?
– Jo më shum’ shum’ se dy tre vjet,
hesht Vito mos qaj për mua!
– Të vij dhe unë me ti,
imzot me kë më lë mua?
– Është lark e bie shi,
hesht o Vito mos qaj për mua!
– Bënem moll’ e të hij në gji,
imzot me kë më le mua!
– Do harroj e të kafshoj,
hesht Vito mos qaj për mua!
– Sos s’jam helm e të helmoj,
imzot me kë më le mua,
po jam mjalt e të embelsoj,
imzot me kë më le mua?

.
VITO, NON PIANGERE PER ME

Dove vai, mio uomo,
perché parti senza di me?
– Vado in kurbèt,
Vito, non piangere per me!
– Verrò anch’io con te,
perché lasciarmi, mio signore?
– È lontano e piove,
Vito, non piangere per me!
– Quanti anni resterai,
sono sola e lontana.
– Non più di tre anni,
Vito, non piangere per me!
– Verrò anch’io con te,
perché lasciarmi sola?
– È lontano e piove,
Vito, non piangere per me!
– Divento mela nel tuo cuore,
perché parti senza di me?
– Mi scordo e ti mordo,
Vito, non piangere per me!
– Non sono veleno
che posso avvelenarti,
sono miele che addolcisce,
perché mi abbandoni?

.
E PREMTE DHE E MËRKURË

E premte dhe e mërkurë,
këto dit’ mos ardhshin kurrë!
Të premte të mos të ketë,
se nisen burrat n’kurbet,
se na vijnë qiraxhinjtë
dhe na marrin stambollitë!
Qiraxhi të plastë kali,
na ndave nusen nga djali,
qiraxhi të plastë mushka,
na ndave djalin nga nusja!

.
VENERDÌ E MERCOLEDÌ

Venerdì e mercoledì!
che non possiate giungere mai,
Maledetto tu, venerdì,
perché vengono i locatori
portano gli uomini a Istanbul.
lì, dove sono i minareti.
Crepi il tuo cavallo, locatore,
che separò la sposa da mio figlio,
crepi il tuo mulo,
che separò mio figlio dalla sposa!

Gezim Hajdari nel suo studio

Gezim Hajdari nel suo studio

PIKA MOJ AMERIQÌ

E po seç na u hap një kurbet i ri.
Pika, moj Ameriqi!
Na i mblodhe trimat si djemkat n’skoli.
Flaka, moj Ameriqi!
Po na qajnë nënat me lot’ logori.
Zjarri, moj Ameriqi!
Se ç’na mbetnë nuset me duar në gji.
Kanë dalë eqimet mun te deti Zi.
Zjarri, moj Ameriqi!
I shikojnë trimat dy edhe nga dy.
Flaka, moj Ameriqi!
Po gjithë të mirët iknë dë Ameriqi.
Pika, moj Ameriqi!
Dhe ata pa gramë i kthejn’ më shtëpi.
Zjarri, moj Ameriqi!
Kthehen dyke qarë qe s’kanë skoli.
Flaka, moj Ameriqi!

.
MALEDETTA AMERIQÌ

Giunge lo habèr per un nuovo kurbèt.
Maledetta Ameriqì!
Chiede i nostri uomini partire.
Che tu possa bruciare Ameriqì!
Piangono le madri, non smettono mai.
Che tu possa sparire Ameriqì!
Ahimè le spose presto invecchieranno!
Vengono i pampòr dal mare nero.
Maledetta Ameriqì!
Li scrutano gli uomini da lontano.
Che tu possa bruciare Ameriqì!
Se ne vanno i migliori in Ameriqì.
Che tu possa sparire Ameriqì!
Quelli deboli li fanno tornare a casa.
Che tu possa bruciare Ameriqì!
Tornano piangendo senza kësmèt.
Che tu possa bruciare Ameriqi!

NA VJEN XHARPNI ME DYMDHET KRENA

Na vjen xharpni me dymdhet krena,
me na ngronun kët zemrën time,
zemra ime me shum kujtime,
më ka rrojt nona jetime,
më çoj nona moj ne gurbet-e
pa me i mbushun-o dymdhojt vjet-e.
Dallandojshe, moj, ku po shkon-e?
Nji selom nones m’i bon-e!
Doktor bej, more doktor bej-e,
ma kallxo, mor, kët jetën time?
– Jeta jote, mor, njer n’shenxherxhe-e,
njer n’shenxherxh-e, ene njer n’bajrom-e.
M’u sos jeta, moj në gurbet-e,
pa bajrom e pa shenxherxh-e,
Ju bilbila, bre, ci fjaroni,
nonës ni selom m’i çoni!

.
GIUNGE UN SERPENTE A DODICI TESTE

Giunge un serpente a dodici teste,
per consolare il mio cuore,
il mio cuore pieno di ricordi,
cresciuto orfano da mia madre,
partito per il kurbèt
non ancora dodici anni.
Dove parti mia rondine?
Manda un selàm a mia madre!
Haqìm, o Haqìm,
dimmi qualcosa della mia vita!
– La tua vita, dalla festa di San Giorgio
alla festa di Bajram kurban.
Mi è passata la vita al kurbèt,
senza Bajram e senza San Giorgio
Voi rondine che partite,
tanti selàm a mia madre!

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

Gezim Hajdari davanti la sua casa natale, nel villaggio Hajdaraj, povincia di Darsìa, Lushnje, Albania 2012

DAJM’ SE KEMI RA NË FIRAK

Dajm’ se kemi ra në firak,
po kshtu si shkohet gërbeti,
sikurse me pas ra n’gjak,
na tretne prej vilajetit!
Ky firaku i pasosun,
ta merr shpirtin pa exhel;
porsi gjarpni i plagosun,
përpiqet e shpirti s’i del.
Kasaveti plak njerinë,
ky firak’ qi asht njit’djelmnisë,
si flaka qi djeg qirinë,
njashtu u tret vixhudi em.
Dashur shkreta ç’se t’ka pa,
mori vesh’, qi s’po e shikojn,
asht habit e rrin tuj kja,
mbasi hallin s’po ia ankon.
Ky firak m’plaku t’mjerin,
por ti vash’ m’ke n’kujtim,
porsi flaka qi djeg qirin,
njashtu u shkri ky trupi im.

.
CI CONSUMA LA NOSTALGIA

Poveri noi che destino,
maledetto o kurbèt,
solo fatica e sangue,
persi, lontani dalla patria!
Questa nostalgia infinita
ci consuma piano piano;
come un serpente ferito
non ti fa mai morire.
L’angoscia invecchia l’uomo,
sognano la patria i giovani,
come la fiamma della cera,
si è spenta la mia gioia.
La mia amata che non vedo,
ha saputo già come sto,
piange a nenia il mio destino
piange senza conforto.
La nostalgia mi consuma,
ricordati di me, mia fanciulla,
come la cera tra le fiamme,
si scioglie il mio corpo.

.
DJALI I RI NIZET VJET

Djali i ri, nizet vjet,
i ka mbush e shkon n’gurbet.
N’gurbet djali kur a shkue
ka nis’ trupi m’i lingue.
N’spital djalin ma kan çue.
– O haqim, pash din e iman,
m’pret ne bark e kqyr shka kam,
m’kqyr shka kam, me m’diftue:
a jam për degë, a kam me u çue?
– More djalë, bon gajret,
se i herë nuk je për dekë!
– A po don, djalë, i pjat jemek?
– Nuk e due at jemek,
m’u ka tesh shpirti me dekë!
O haqim, pash jetën tone,
veç i herë më ndreq në komë!
M’ndreq në komë e m’qitn’penxhere,
t’i shoh lulat prej pranvere.
O bylbyla, qi shkoni e vini,
n’atdhe temin a do t’shkoni?
Nonës sime t’mi kallzoni.
Si n’vet nona noj sen për mue,
thujni: – Djali t’u ka martue.
Si n’vet nona: – Çfarë nuse muer?
Muer smunjen në krahnuer.
Si n’vet nona: – Krushqi a pat?
E pat hoxhën me xhemat.
Si n’vet nona: – Çfare çejzi pruni?
Dyshek toke, jastek guri,
n’ven t’jorganit, drrasa bungi.
– Non, oj non’, oj e zeza nonë!
T’ma marojsh ni vorr të gjonë,
vorr te gjon’, o me penxhere:
t’i shoh lulat prej pranvere!

.
IL GIOVANE DI VENT’ANNI

Il giovane di vent’anni
prende la strada per il kurbèt.
Al kurbèt quando è arrivato,
stanco e molto malato.
In ospedale lo hanno portato.
– Ti prego haqìm, mio haqìm,
mi fa male e non so cosa sia,
dimmi della mia malattia:
se morirò o sarò vivo?
– Coraggio, giovane gagliardo,
vivrai, non morirai!
– Mangi un piatto di minestra?
– Non mi va di mangiare,
sento l’anima morire!
Haqìm, ti affido la mia vita,
fammi alzare in piedi!
Voglio vedere della finestra
i fiori primaverili.
Rondini che partite,
passate per la mia patria?
Tanti selàm a mia madre.
Se vi chiede di me,
ditele che mi sono sposato.
Se vi chiede della mia sposa,
ditele una malattia sul petto.
Se vi chiede dei paraninfi,
c’era hoxha con turbante.
Se vi chiede della mia bara,
letto di terra, cuscino di pietra,
come coperta pezzi di legno,
– Un amanèt ti chiedo, madre,
ordina una dimora larga per me,
una tomba larga con finestre,
per vedere i fiori di aprile Continua a leggere

18 commenti

Archiviato in poesia albanese

POESIE INEDITE di Sabino Caronia  La ferita del possibile SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Commento di Marco Onofrio

Eidetica

Eidetica

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

sabino caronia

sabino caronia

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013).

Sabino Caronia la sua Musa

la Musa Clio evocata dal poeta Sabino Caronia

Commento di Marco Onofrio

Sabino Caronia è un autore per il quale la letteratura non ha mai cessato di avere valore cultuale; e questo può accadere non soltanto perché la letteratura, di fatto, coincide con l’essenza della sua vita, ma anche perché lui stesso – resistendo alle sirene modaiole e “minimal chic” del disincanto, della dismissione, del “pensiero debole” a tutti costi – si ostina a conferirle (e a riconoscervi) un’“aura” di pressoché intatta globalità, sintetizzante esperienze ed epoche, vivendola e praticandola a mo’ di religione laica, di impegno civile verso i significati profondi dell’uomo, in un percorso che dagli «acquitrini del tempo» non rinuncia a cercare, tenacemente, i varchi per l’invisibile «sulla soglia del cuore del mistero». L’apertura della dicibilità del mondo, in altre parole, non è mai venuta meno alla sua penna. Per lui, dunque, l’«usignolo / che cantava  nel bosco» non è soltanto un ricordo perduto, ma una viva realtà: cantava, e continua a cantare, malgrado gli orrori della storia (Dopo Auschwitz). Caronia oltrepassa la destituzione di fondamento e, pur attraversando le suture nevralgiche della grande frattura moderna, assimila ad un’opzione durevole di “canto”, quasi respiro irrinunciabile, tutte le stratificazioni  delle sue smisurate letture. Continua a leggere

55 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

UNA POESIA di Vladimir Majakovskij: A Sergej Esenin Traduzione e Commento di Paolo Statuti con un Appunto di Antonio Sagredo

 majakovskij illustrazione

 Vladimir Majakovskij: A Sergej Esenin

Commento di Paolo Statuti

Vladimir Majakovskij e Sergej Esenin – due grandi poeti in continuo dissidio tra loro, e non poteva essere diversamente: il primo – membro fondatore del LEF (Fronte di Sinistra delle Arti), cantore del proletariato, definito il “gigante fragile”, devoto in amore, modesto e costumato nei rapporti umani, rivoluzionario autentico che si batteva per la libertà totale dell’individuo da ogni oligarchia; il secondo – geniale poeta contadino che non tollerava rivali, “eroe” della bohème moscovita, sfrenato bisessuale con una vita turbolenta e disordinata come pochi…

L’atteggiamento negativo di Esenin verso Majakovskij è stato sottolineato da diversi letterati della cerchia di quest’ultimo. Il critico e storico della letteratura V.B. Šklovskij, ad esempio, afferma che «a Esenin non piaceva Majakovskij e strappava i suoi libri, se li trovava in casa». Il poeta V.S. Roždestvenskij definisce «strani» i rapporti tra i due poeti: «C’era tra loro una ostilità che non si attenuava mai. Per Majakovskij Esenin era un evidente “male lirico”. Polemizzando con quest’ultimo e con il suo entusiastico uditorio, giudicava con ironia gli incontri poetici del rivale. L’irascibile ed estremamente permaloso Esenin non glielo perdonò mai». Ed ecco una testimonianza del poeta proletario N. Poletaev: «Una volta, durante un ricevimento presso la Casa della Stampa, a capodanno, dopo aver abbondantemente bevuto, Esenin importunava Majakovskij, gridandogli quasi piangendo: «La Russia è mia, capisci? – mia, e tu…tu sei americano! La Russia è mia!» Al che Majakovskij rispose tranquillamente: «Prego, prendila pure! Mangiala col pane!».

Majakovskij Rodcenko uno scatto

Majakovskij Rodcenko uno scatto

Non è un segreto per nessuno che Majakovskij si riteneva un genio, e di conseguenza considerava la creazione degli altri poeti, inclusi i classici della letteratura russa, con un certo disprezzo. Alcuni li criticava apertamente, altri li derideva, altri ancora li tacciava di grafomani, in quanto le loro opere non avevano alcun valore per le generazioni future. Nei confronti di Esenin il suo atteggiamento era assai controverso, riconosceva in lui il talento letterario, ma non poteva accettare la mancanza di idee e di principi in questo “rinomato beone artigiano”, ritenendo che Esenin avrebbe dovuto usare il suo ingegno non per descrivere le bellezze della natura russa, ma per il bene della rivoluzione.

Malgrado ciò, dopo la tragica morte di Esenin, Majakovskij riesaminò il suo giudizio sulla vita e la creazione del poeta contadino, tanto che nella primavera del 1926 scrisse la famosa poesia “A Sergej Esenin”, da cui emergono sentimenti diversi: rammarico, costernazione, comprensione…Non intendo fare qui un’analisi di questa poesia, mi limiterò quindi a richiamare l’attenzione sulla strofa finale, che è una polemica parafrasi delle famose parole  dell’ultima poesia di Esenin: «In questa vita morire non è nuovo,/ma più nuovo non è neanche vivere”. Quando Majakovskij scrisse questa poesia la versione ufficiale della scomparsa di Esenin era il suicidio, ed egli non poteva prevedere che un giorno essa sarebbe stata messa in dubbio. Egli era convinto che Esenin si fosse tolto volontariamente la vita, perché non aveva saputo trovare il suo posto nella nuova società. Oggi, dopo la pubblicazione dei documenti della GPU, dove risulta che il poeta sarebbe stato assassinato, anche l’autenticità della celebre lettera scritta da Esenin col proprio sangue, in mancanza dell’inchiostro, prima di morire, viene messa in discussione, e si pensa che sia stata architettata per avvalorare la tesi del suicidio. Esenin con la sua vita sregolata, con le sue critiche al potere sovietico, con la sua rabbia per quanto riguardava la popolazione contadina che si sentiva delusa e tradita dalla rivoluzione – era diventato un personaggio molto scomodo per il regime. Del resto, alcuni particolari relativi al corpo appeso al tubo del riscaldamento, fanno propendere per la tesi dell’omicidio: la mano era in una posizione innaturale, come se avesse cercato di sollevarsi per non essere strozzato, il laccio non era ben stretto, i graffi sul braccio destro e una contusione sotto l’occhio sinistro, farebbero pensare a una disperata colluttazione con i suoi sicari, anche se probabilmente era ubriaco. L’autopsia rivelerà inoltre che la spina dorsale era spezzata, come se qualcuno gli avesse afferrato le gambe e lo avesse tirato giù con forza mentre era appeso.

sergej esenin nella bara

sergej esenin nella bara

E il “suicidio” di Majakovskij? Sospetti e mistero hanno sempre circondato la sua morte. Secondo la tesi più credibile, egli fu istigato al “suicidio” dalla polizia politica di Stalin, se non si trattò invece di un vero e proprio omicidio. Il regista Aleksandr Dovženko, che era con Majakovskij alla vigilia della morte, ricorda: «Eravamo seduti insieme in giardino, tutti e due abbattuti, lui spossato dalle nullità, dai ruffiani, dai cannibali e dagli speculatori…» Con i suoi attacchi ai burocrati che, a suo avviso, “strangolavano” la rivoluzione, nel 1930 Majakovskij aveva perso del tutto i precedenti favori del regime staliniano. Tra le altre cose resta un mistero la pistola fornita al poeta dalla GPU. Egli ne fu sorpreso e voleva restituirla, ma gli agenti insistettero perché la tenesse, facendogli capire che tali erano le “disposizioni”. In conclusione Majakovskij e Esenin, due poeti rivali così diversi tra loro, per ironia della sorte furono accomunati da una morte simile.

sergej esenin con la pipa

sergej esenin con la pipa

Ma quanti altri poeti russi sono morti tragicamente! È incredibile quanti abbiano risposto al mio lugubre appello:

 Kondratyj Ryleev, decabrista, impiccato nel 1826, 31 anni
Aleksandr Griboedov, trucidato a Teheran nel 1829 da fanatici musulmani, 34 anni
Aleksandr Puškin, morto in un duello-farsa nel 1837, 38 anni
Michail Lermontov, morto in duello nel 1841, 26 anni
Nikolaj Gumiljov, fucilato nel 1921, 35 anni
Sergej Esenin, suicidio-farsa nel 1925, 30 anni
Vladimir Majakovskij, suicidio-farsa nel 1930, 37 anni
Nikolaj Kljuev, fucilato nel 1937, 53 anni
Sergej Klyčkov, fucilato nel 1937, 48 anni
Pavel Vasil’ev, fucilato nel 1937, 27 anni
Nikolaj Olejnikov, fucilato nel 1937, 39 anni
Piotr Orešin, fucilato nel 1938, 51 anni
Boris Kornilov, fucilato nel 1938, 31 anni
Osip Mandel’štam, morto in un gulag nel 1938, 47 anni
Marina Cvetaeva, morta suicida nel 1941, 49 anni
Michail Golodnyj, morto nel 1949 in un incidente automobilistico, 46 anni
Nikolaj Rubcov, ucciso nel 1971 dalla fidanzata, 35 anni
Aleksandr Galich, ufficialmente ucciso nel 1977 da una scarica di corrente elettrica nella sua abitazione di Parigi, ma secondo un’opinione diffusa la sua morte è stata un omicidio o un suicidio, 59 anni

Come spiegarlo? Perché i poeti – è comprensibile. Essi sono più sognatori, impressionabili, irrazionali delle altre persone. Cioè – più vulnerabili. Ma perché proprio i poeti russi? Non c’è nessun altro paese in cui tanti poeti siano deceduti di morte violenta. A mio avviso si possono individuare tre cause. La prima è politica: la crudeltà dei regimi zarista e sovietico, responsabili direttamente o indirettamente. La seconda è psicologica. Qualcuno ha scritto: «L’anima del poeta è irrazionale. L’anima russa è irrazionale. L’anima del poeta russo è dunque doppiamente irrazionale». La terza causa è fatale, cioè è voluta da un tragico fato che come una maledizione agita le sue nere ali sulla poesia russa.

(Paolo Statuti)

manifesto di Rodcenko

manifesto di Rodcenko

Appunto di Antonio Sagredo

aggiungo qualcosa a ciò che ha scritto l’amico Paolo (da una mia nota -al Corso su Majakovskij di A.M.Ripellino, anno accademico 1971-1972)

Riprendo la nota 145 e i vari motivi e i fortissimi dubbi circa il suicidio di Majakovskij: le riflessioni di Cesare De Michelis nel suo articolo, sul quotidiano “la Repubblica” del 13 aprile 2000 riportano anche quelle ricostruzioni “verosimili“ (elaborate tra il 1989 e il 1994) del giornalista-scrittore Valentin Skorjatin che scrisse nel suo libro: “Il mistero della fine di Majakovskij”, e iniziano 1) l’ultima lettera del poeta fu scritta a matita (cosa mai fatta) perché preferiva la penna; 2) la lettera è datata 12 aprile e non 14 aprile, e fa pensare che il fatto doveva accadere il 12, ma poi accadde il 14; 3) i versi nella lettera riprendono frammenti di due anni prima (1928); 4) il tono della stessa non è il suo e non ha mai scritto nulla di simile, così dichiarò l’amico regista Ejzenštejn in appunto trovato nel 1940 da Valentin Skorjatin; 5) il visto rifiutato al poeta per Parigi (ma non è vero per accuratissime ricerche), ma il poeta decise di non più partire lo stesso; 6) le dichiarazioni piene di enigmi contraddizioni della Veronika Polonskaja (l’ultima sua donna) alla polizia; 7) perché tre agenti dei servizi segreti più la polizia per le prime indagini?; 8) la posizione del cadavere, e la testa rivolta verso la porta o verso la finestra?; 9) quali e quante macchie di sangue si scorgevano dalla camicia?; 10) in che direzione era stato esploso il colpo e quali segni c’erano sul volto?; 11) chi era l’autista che lo riportò a casa dopo una serata passata dal suo biografo Vasilij Kataev?, e chi era il commesso che portò al poeta dei libri il mattino del 14 aprile?; 12) nel verbale della polizia del 14 aprile si legge che ai piedi del morto era stata rinvenuta una mauser col n. 312045 (che il poeta non aveva mai posseduto), ma nei rapporti dei servizi si dice che il poeta s’era sparato con la sua browning n. 268979, poi consegnata agli atti dell’inchiesta; 13) le trame dei due Brik verso il poeta (poi che una vera passione per una donna altra non avrebbe dato loro più la possibilità di controllare il poeta!) passano attraverso due loro donne: Tat’jana Jakovleva presentata al poeta dalla sorella di Lilja, Elsa Triolet (moglie di Aragon); e poi Veronica Polonskaja – presentata da Osip Brik al poeta nel maggio 1929, e che il governo sovietico esclude dalla eredità majakovskiana, perché? Perché sua agente segreto?!; 14) anni prima i due Brik mettono il poeta in contatto con due agenti del OGPU: Jakov Agranov e Lev El’bert (primo e ultimo firmatario del necrologio apparso sulla Pravda del 15 aprile). Majakovskij sembra aver confidato all’amico poeta Michail Arkad’evič Svetlov* il timore di essere arrestato: questo fa capire come i rapporti tra il poeta e il potere sovietico erano tesissimi! Ma la trappola si sta chiudendo: i due Brik se ne vanno all’estero, e sapranno a Berlino del suicidio, ma da chi? Se non dalla polizia segreta!; il giorno 14 aprile: l’agente El’bert gira nella casa di coabitazione coi Brik, mentre il poeta se ne va, o si rifugia?, nel suo studio; c’è una uscita di servizio dalla cucina… la Polonskaja scende le scale verso le 10,15 dopo aver parlato col poeta… la porta dello studio si apre e compare qualcuno con la pistola, una mauser?, in mano… il poeta cade e si rompe il setto nasale (come risulterebbe dalla maschera mortuaria). Questo qualcuno, dopo aver messo la lettera del poeta sulla scrivania e la pistola accanto al corpo fugge dalla porta di servizio; scende in strada e poco dopo incontra due amici del poeta (Michail Kol’cov e Serghej Trat’jakov) già avvertiti, ma da chi?, dal secondo agente Agranov?; il qualcuno ritorna indietro con quei due fino alla stanza dove giace Majakovskij. Questa ricostruzione la ritengo pochissimo fantasiosa: essa per me si avvicina molto a quella io ho sempre pensato come vera o veritiera secondo le informazioni che allora possedevo. Il libro dello Skorjatin riporta anche alcune obiezioni dello studioso svedese Bengt Jangenfeldet, che nel 1985 pubblicò da Mondadori il carteggio tra il poeta e Lilja Brik. — Riferii le mie perplessità a Angelo Maria Ripellino (parecchi mesi prima della sua morte: 21 aprile del 1978), circa il fatto che il poeta si fosse ucciso di mano propria; e se così sarebbe stato costretto; e se non così, ucciso per mano altrui – che per me è più veritiero -. Lo slavista, ricordo, che mi fissò come allibito, era turbato, non so se a lui piacesse di più la morte romantica: il suicidio! Certo è che aveva i suoi forti dubbi se mi rispose più o meno: “si, è possibile, sia andata così, ma è così terribile! E il terribile era una cosa normale, consueta, a quei tempi!”. (*Svetlov: nota seguente 149. Incontro tra Svetlov e Majakovskij).

Majakovskij

Majakovskij

*

Ve ne siete andato,
come dicono,
all’altro mondo.
Il vuoto…
Volate,
imprimendovi nelle stelle.
Nemmeno una bettola,
nemmeno un acconto.
Lucidità.
No, Esenin,
no,
non vi sto beffando.
Ho l’amarezza
in bocca –
non l’ilarità.
Vedo –
Il polso reciso piegando,
delle vostre
ossa
il sacco oscillate.
– Smettetela!
Fermatevi!
Avete perso la testa?
Lasciare
che le guance
inondi
il gesso mortale?!
Voi
che in ogni occasione
sapevate cavarvela
come nessun altro
al mondo
sapeva.
Perché allora?
Perché?
Costernazione!
I critici barbugliano:
– Tutta colpa
di questo…
di quello…
e – principale ragione –
lo scarso legame,
e il risultato? –
molta birra e molto vino. –
Dicono,
dovevate lasciare
la bohème
e unirvi alla classe,
con la classe voi
non avreste fatto scenate.
Perché, la classe
la sete
spegne con le aranciate?
Anche la classe beve
e come!
Dicono,
se vi avessero affidato
a qualcuno di “Na postù” –
il vostro contenuto
sarebbe stato
assai più pregevole.
Voi
avreste scritto
cento strofe
al giorno,
lunghe
e stucchevoli,
come Doronin.
Ma io penso,
che giunto
a tale paranoia,
vi sareste tolto
la vita prima.
Assai meglio
è morire di vodka,
che di noia!
Non ci sveleranno
mai
le cause di questa morte
nè il laccio,
né il temperino.
Ebbene,
si fosse trovato
l’inchiostro all’”Angleterre”,
non avreste avuto motivo
di tagliarvi
le vene.
Si sono rallegrati i plagiari:
bis!
Poco è mancato
che litigassero
tra loro.
Perché mai
aumentare
il numero dei suicidi?
Meglio
produrre
più inchiostro!
Per sempre
adesso
la lingua
si chiuderà tra i denti.
Pesa
ed è fuori luogo
risvegliare l’arcano.
Per la gente,
per chi crea il linguaggio,
è morto
un rinomato
beone artigiano.
E portano
rottami funebri di versi
di precedenti
funerali
senza niente cambiare.
Nel tumulo
ottuse rime
conficcano come paletti –
ma è così
che un poeta
si deve onorare?
A voi
un monumento non hanno fuso ancora, –
dov’è,
di bronzo sonante
o di granita fattura? –
e nei recinti della memoria
già
hanno portato
di dediche
e di ricordi la lordura.
Il vostro nome
sbavano nei fazzolettini,
la vostra parola
insaliva Sobinov
e intona
sotto una marcia betulla –
“Non una parola,
o ami-ico mio,
non un sospi-i-i-i-ro”
Ah,
parlare in altro modo
con questo
Leonid Lohengrinyč!
Alzarsi qui
come rombante attaccalite:
– Non permetterò
di balbettare
e storpiare i miei versi! –
Rintronarli
con un fischio
a tre dita
alla nonna
e a Dio all’anima alla madre!
Per spazzar via
l’incapace gentaglia,
gonfiando
loro
le vele delle giacche,
perché
preso dal panico
Kogan scappi via,
i passanti
ferendo
con le picche dei baffi.
La lordura
finora
si è poco diradata.
C’è molto da fare –
occorre sbrigarsi.
La vita
bisogna
prima rifarla,
e rifatta –
la si può decantare.
Questo tempo –
è difficile per la penna,
ma ditemi
voi,
mostri e storpiati,
dove,
quando,
quale grande ha mai scelto
una strada
più battuta
e più facile?
La parola
comanda
la forza umana.
Avanti!
Che il tempo
dietro di noi
scoppi come cento granate.
Dei vecchi giorni
il vento
ricordi
soltanto
le chiome arruffate.
Per l’allegria
il nostro pianeta
è male attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni che verranno.
In questa vita
morire
non è arduo.
Vivere
è assai più complicato.

(1926 – Versione di Paolo Statuti)
 dal blog Un’anima e tre ali – Il blog di Paolo Statuti

13 commenti

Archiviato in poesia russa, Senza categoria

SEI POESIE di Marisa Papa Ruggiero   SUL TEMA DELL’UTOPIA   O DEL NON-LUOGO con un Appunto dell’autrice

 (Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

utopia.ipgL’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

L’utopia è nel linguaggio, nel suo modo di farsi visione… Pensare un luogo che renda visibile ciò che la realtà non può pronunciare, è una delle utopie della poesia… ma è anche il luogo, l’unico, in cui l’una e l’altra, (utopia e poesia)coesistono, grazie alla tensione estrema del linguaggio.

Tocca solo alla poesia far risuonare, far vivere per un istante, l’insostenibilità di un luogo nella realtà concreta della parola. E’ tutta questione, credo, di attitudine alla percezione e ai suoi spazi. E allora può succedere, che, mettiamo, un’idea solo immaginata, (una farfalla in amore) si tramuti in amorosa presenza…Non vuol essere “raccontata” l’utopia, vuol trovare da sé lo spazio in cui vivere.

Alla visione appassiona poco rilasciare resoconti su ciò che vede, a me sembra che appassioni invece “lo sguardo” che ha sperimentato quelle “proiezioni dinamiche” guizzanti come su carta da musica. (utopia, utopia…) E’ questa, la poesia che mi ha nutrita letterariamente fino a oggi, e tu sai che è anche la più difficile. Non ho mai fatto della poesia una storia da raccontare, né avvolgerla a spirale attorno a nessuna colonna traiana, per me la poesia è l’utopia stessa. Qual è il senso? Qualcuno si chiede: finché c’è ancora qualcuno che si ostina a suonare il suo violino verde, o azzurro, o giallo che sia, a dipingerlo nell’aria e a volerlo comunicare agli altri con parole vere, inedite, anzi uniche, un senso c’è.

italia che taceForme del divenire

     Si tratta di riconoscere il passaggio a cielo aperto di un grumo di energia trasmutante che diciamo parola. Di un’ipotesi di parola che si sporga ad essere ciò che saprà divenire, che dica di sé essendo qualcos’ altro o altrove. Un “altrove”  che non si configuri come non-luogo siderale e disincarnato, ma si riconosca come particella irrequieta del reale stesso traslato in visione.

     Si tratta di andare a cercare ciò che accade fra i segni, individuare le orme vive in fuga nella macchia: sfidarle a pronunciarsi, sfidarle a ricordare.

     Tutto è già qui, qui soltanto, e tutto ci riguarda. Non vale tentare con chiavi improprie, né forzare la porta per entrare in questa stanza. Occorrerebbe un ritmo, una cadenza che si allunghi in un altro sguardo, e in quello incontrarsi. Non a caso è lo sguardo la “chiave” che varcherà l’interno: lo sguardo è l’interno stesso. Ed è lì, adesso: sotto la pelle e  i legamenti della “preda” in fuga: proprio dove si annida il principio stesso che dà forma al movimento. Dice: è sempre una sostanza interna all’apparenza che decide. Dice anche: proviene da impasti di combustioni e attriti in cammino verso necessarie fasi di decantazione, di distanziamento di sguardo. Lo stesso sguardo che mette le parole e i pesi, mette la punta fredda, ghiacciante in vena. Preferirà scansare l’agguato di una ulteriore conferma del già noto, per digitare invece, il tasto che manca costringendolo a interdire, per un istante, il silenzio che sfigura interrogazioni e attese con una scossa di presenza.

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 E non è raro che uno scatto percettivo prenda un suo passo inusuale nel cogliere al passaggio dei segni il seme alchemico dell’anomalia. Può accadere che la cosa nominata si discosti da un ordine per raggiungerne uno diverso: quello per lei più aderente. Adeguando ad esso nessi e significati senza spiegazione. Sarà, allora, un paesaggio di forme sensibili scandito da un pulsare temporale che non si trova in nessun quadrante. Sarà esperire l’accadere imprevedibile di figure mentali provenienti da un luogo altro della conoscenza, rastremate da un filtraggio linguistico che mostri le sole articolazioni di un corpo che si è dissolto altrove.

  O viceversa, che sia il “disperso” ad entrare da sé nel luogo che lo evoca. Che  ne contamini  i passaggi con un’impronta informale dentro un altro battito… e allora, seguirne le tracce, sperimentarne “l’insostenibile visibilità”. Sarà essa a conoscere quel di più di parola che il linguaggio non contiene, o quel nulla che non si può pronunciare perché fatto di altra sostanza… Ma infine: di cosa mai la poesia dovrebbe rassicurarci? Non è forse, lei stessa, dis-senso?

 (Marisa Papa Ruggiero)

Eidetica

Eidetica

Marisa Papa Ruggiero, studi di formazione artistica compiuti a Milano e a Napoli. (Corsi post diploma di Graphic Design, di Arti Applicate, Corso di Pittura, Accademia Belle Arti e diploma di laurea. A Napoli, dove da anni vive e opera, ha svolto attività didattica e artistica. E’ intensamente attiva sia sul fronte della scrittura creativa, con particolare riguardo alla poesia, sia su quello della verbo-visualità, con partecipazione a mostre e a raccolte antologiche. Dal 1991 decorrono le sue pubblicazioni di poesia in volume con: Terra emersa, Napoli, collana L’assedio della poesia; Limite interdetto, Salerno-Roma, ed. Ripostes, 1993; Origine inversa, con nota critica di M. Bettarini, Napoli, Alfredo Guida Editore, 1995; Campo giroscopico, con prefazione di Michele Sovente, Quarto – Napoli, ed. Riccardi, 1998; Persephonia, con prefazione di Mario Lunetta, Lecce,  Pietro Manni Editore, 2001; Oblique ubiquità, in Locus solus, Ed. Riccardi 2003; Passaggi di confine, con prefazione di M. Fresa, Salerno, ed. L’arca felice, 20011;  Di volo e di lava, prefazione di Giancarlo Pontiggia – Alessandria,  Puntoacapo editrice, 2013. Tra i lavori in prosa: Le verità bugiarde – 2008, e alcuni libri d’artista. Suoi testi poetici sono stati rappresentati a Napoli dal gruppo di cultura teatrale L’Ascolto. E’ presente con brevi saggi critici, con testi poetici e in prosa in riviste italiane ed estere, in siti web e in blog letterari dedicati alla poesia, oltre che in raccolte antologiche. Ha partecipato come redattrice alla fondazione di alcune riviste napoletane di ricerca letteraria; attualmente è redattrice della rivista di poesia Levania.

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

Eidetica

Fosfeni e zolfi in tenuta adesiva
a sbalzo nella mente

La coppa colma è cristallo esploso
schizzato via dal piano
ai quattro cardini del mondo

In sospensione aerea
la mezza sfera rosso sangue
intatta

Fissato in un incanto il senso
inestinguibile del vino
che offro alla tua sete

in proiezione aurea all’ultima espressione

.
Scarto dispari

Non sapienza né gioco
ma scaglie d’occhi al cesio
a taglio di secondo
in ronzio d’impulsi in agguato
su microruote dentate
nel cuore del congegno
che a sorpresa s’impunta

in uno scarto dispari di giro e inverte

il grado di conduzione
nel ventricolo del tempo
su l’acuto di una nota
fiondata in aria
che zampilla
ed è membrana fluida il parco
a frange scontornate
sporgendosi di punta
appena sotto il respiro
sul cartone telato del fondale
su l’albero
che stira la mia ombra
e la piazza notturna si rovescia
in punta di grafite
ridisegna la cifra persa
nel marmo della vasca
dove cadono foglie
su palpebre chiuse vedendo
qui non altrove adesso
l’acqua farsi sostanza minerale

le statue a spasso per le strade
impietriti i passanti
marisa papa tra ombra e luce

 

 

 

 

 

 

 

Slittamenti

A gradi flessibili cresce
intrigante
da quinte mentali al sottofondo
dei tasti ciecamente svolando

rinata spoglia di bruco
entra nel nome
all’intera pronuncia che prende
la forma del volo
ma è solo lucente germoglio

del nulla idea inquieta
che slitta sul verso
e svoltola in danza
tra grinze di sghembo sul verde
appena brinato
e muta impulsi in scaglie
telluriche in fitte d’alterazione
digitando un tremore
in un rettangolo di campo dove

il desiderio veste
una forma
tra il tasto e le righe
radente in dissesto lampeggia
alatinta in amore
sfiatata di viola e s’invola
già oltre lo scatto alla
muta finale

tra fughe assediate da spasmi
da frulli sfibrati vibranti
sbavando nella stampante
in tutti i suoi duplicati

l’ala sbigottita.

Satellite glance

In punta di freccia
sparata dove
in quale abisso o distanza
squarciato il tempo

s’aprono i tasti
a ventaglio sferico
su plaghe ondose in volo
sul foglio piatto
del monitor

a spirali elettriche per l’ampia
crosta rugosa
che dilaga e sferza
maree informali
in visione esplosa
fra crateri in corsa
planando

a giro d’archi
ad ali spalancate
nel fermo immagine
che vertiginoso schizza
nel fosforo
dell’occhio

ed ecco il borgo
a spilli luce
il passo rallentato
il campo
di calcio dove
tutto teso ti scruti
fin dentro
il futuro occhio
che ti guarda

e lanci in rete
più in alto più distante
il tuo pallone

Marisa Papa 5

 

 

 

 

 

 

 

Scena vermiglia

Febbrili impasti pulsati dentro
come timbri di torcia
ad ogni passo
in questo dirsi di sillabe affamate
in ogni fibra vermiglia
in lotta con i blu
a lampo o laser sul corpo che disegna

una trincea di anni
murati vivi
che soffia e bussa da tutti

i sottosuoli di nascita e di lotta
e tocca
radici rosse
spezzati rami sul cuore
a palme nude accende
un fuoco sulla neve

e riconosce i nomi sfilando
un nervo vivo esploso
nel colore
che germoglia

sui nostri nudi emersi
dalle maree del sogno

come un arpeggio o uno
squarcio sottopelle
che dilaga e arde
a fiaccole sonore
in alveoli di sangue
sul respiro a secco franando

a schegge d’echi
a lame di carminio
in un volger di ciglia su
l’intera scena

e la scena è dipinta.

Marisa Papa Ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scultore e la statua

Qui dentro è il buio folle
qui urla inesplosa la mia forma!
Misure chiuse regolano i confini
dove io aderisco ma tu
hai libero il passo il gesto, mordi
ai fianchi la mia nudità di pietra
e incontri una resistenza da camicia di forza
che non puoi strapparmi di dosso:
tu sai che niente
resiste al suo nome
se il suo nome è pietra

Ma tra le dita ti fioriscono uncini!
Tu sai che pulsa tra valve chiuse il seme
appena sotto lo sterno lavico…
ti osserva la mia esangue fissità
dallo spioncino che mi scavi di fianco:
mani scostano il limite, premono il punto
più interno della forma, fanno spazio al vuoto…
Nel mio scatto da fermo osservo smottamenti
come suono compresso, detriti di scavo
lasciati dentro, cieche voragini, lì apprendo
i miei confini nell’urto col silenzio
mentre plasmi con dita esatte germogli e bulbi,
spore luciferine da scagliare nella mia
ferita giocandoci dentro
e questa famelica erezione della mente
che impreca e ammutolisce!

Vuole carezze integrali questa forma
che non ricordavo di avere, questa pietra
grigia vulcanica generata da esplosioni e bufere
per le tue mani d’uomo!
e mi scrivi
un libro lentissimo
un diario di bordo
dove scarichi una sinfonia feroce
che mi sveglia dal coma, tu che entri
come un satiro tra le fronde e
in ogni fessura per seppellirti
nella mia carne o dissolverti, tu da lì ascoltami:
è perdita continua questa forma
che ti fa esistere, da cui muto mi parli
dove ti stringi alla tua paura
e graffi con le unghie fino all’alba!
Tu lì sai di trovarmi, la tua furia capovolgi
nella mia pietà, hai libero il gesto
il passo, ma a me chiedi il sangue!
Sento sotto lo straccio a notte
il tuo cieco ansimare che non sfiamma tra le coltri,
lì nel fondo è un fragore che uncina
il respiro alla pietra con fredde scintille e sonagli
come il battere sordo del ferro in cerca di forma:
io ti sono matrice colma e ti sono
la morsa che perentoria serra la luce
o fors’anche la freccia storta uscita di rotta
da cui muto mi parli a coltellate!
Ogni tuo colpo di timone è una mina esplosa
in questa boscaglia di schegge che sogguarda il vulcano!
ogni giorno esco un poco da me,
il nuovo giorno lo plasmo alla creta viva
del tuo polso d’uomo che insonne sconta il contagio
di muscoli e nervi allo scoperto
e inietta aria e fiato nel mio corpo arboreo
che lentamente
lentamente
senza saperlo
fiorisce…

Eccomi appena giunta, guardami:
qualcosa sai ha fatto contatto, ha urtato
i tuoi capillari accesi, la tua fame nascosta…
ho terminazioni elettriche scolpite
sotto pelle in arpeggio e singhiozzo,
e rughe e spore incistate
alla tua malattia
alla tua follia pietrificata!

(Napoli, giugno 2014)

18 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea

UNA POESIA di Charles Baudelaire – Mario Fresa Un’interpretazione del Don Juan aux Enfers – Estratto da “Come da un’altra riva” 

Charles Baudelaire

Charles Baudelaire

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Don Juan aux Enfers

Quand Don Juan descendit vers l’onde souterraine
Et lorsqu’il eut donné son obole à Charon,
Un sombre mendiant, l’œil fier comme Antisthène,
D’un bras vengeur et fort saisit chaque aviron.

Montrant leurs seins pendants et leurs robes ouvertes,
Des femmes se tordaient sous le noir firmament,
Et, comme un grand troupeau de victimes offertes,
Derrière lui traînaient un long mugissement.

Sganarelle en riant lui réclamait ses gages,
Tandis que Don Luis avec un doigt tremblant
Montrait à tous les morts errant sur les rivages
Le fils audacieux qui railla son front blanc.

Frissonnant sous son deuil, la chaste et maigre Elvire,
Près de l’époux perfide et qui fut son amant,
Semblait lui réclamer un suprême sourire
Où brillât la douceur de son premier serment.

Tout droit dan son armure, un grand homme de pierre
Se tenait à la barre et coupait le flot noir;
Mais le calme héros, courbé sur sa rapière,
Regardait le sillage et ne daignait rien voir.

(Les Fleurs du Mal, xv).

Estratto da Mario Fresa “Come da un’altra riva” Un’interpretazione del Don Juan aux Enfers di Baudelaire (Marco Saya Edizioni 2014 pp. 38 € 8)

Charles Baudelaire 3

È con le persone felici
che si fanno i migliori dannati.

Céline

L’inizio è fosco, vertiginoso. Don Giovanni, punito ma non vinto, è appena sceso agl’inferi: e sùbito, in vero, ci colpisce il rapinoso passaggio dal terribile fuoco avvolgente, che solo un momento prima lo aveva inghiottito, al gelido elemento dell’acqua; cioè quella paurosa, abissale onde souterraine entro la quale egli è adesso calato. È il «fiume dei dolori», l’Acheronte. Ed ecco, dunque: dal gelo immobile del Convitato di pietra all’inatteso vortice del fuoco; e dal fuoco all’onda; e poi dall’acqua al dolore. La poesia scava e ricompone la realtà degli eventi con tutta la sua enigmatica e infida carica di segnali duplici e ambivalenti. L’Hypocrite lecteur ciò lo sa bene: insieme con lo stesso poeta, suo semblable e frère, conosce a fondo, o quasi, le regole bizzarre del gioco estremo dell’esistenza; un gioco ambiguo, violento, che sulla sua scacchiera pone il profilo di uno specchio misterioso dove si mostrano e combattono, senza fermarsi un solo istante, immagini acute e incomprensibili, contrarie e vicine.

Charles Baudelaire

Edgar Allan Poe

Questo, infatti, è l’universo ch’è ritratto nelle Fleurs: vi scorgi sempre la febbre ansiosa di un chiasmo ininterrotto; e sempre vedi emergere, in esse, la ragna di un impasto crudele, un incrocio di dolori e di delizie; e una gioia dolorosa sulla cui scena agisce, di continuo, un assiduo miscelamento di lava e di gelo, di beatitudine e di inferni che lo sguardo del poeta meravigliosamente coglie e trattiene.

Baudelaire sceglie di aprire il suo componimento assegnando alla vicenda un taglio temporale («Quand Don Juan descendit […]; Et lorsqu’il eut donné …») tanto icastico e potente, quanto imprecisato e miticamente distaccato: il Quando è scolpito, inciso, rilevato con la forza materica di un bassorilievo ma, tipico paradosso di quell’enigma chiamato poesia, esso sfugge a una definita e compiuta sistemazione «storica»; è un momento altro, remoto: fissato, anzi inchiodato lì, una volta per sempre, e per questo gonfio di una verticale grandiosità, di un respiro epico e solenne (ma l’anfibia natura baudelairiana saprà ben presto, nei versi successivi, rovesciare e trasportare l’aulicità e la maestosità di questo memorabile attacco in una dimensione ben più caricaturale e tragicomica).

Charles Baudelaire

Charles Baudelaire

Don Giovanni, dunque, discende. Egli è un privilegiato, e possiede, perciò, l’obolo da donare a Caronte (in assenza della moneta, il defunto avrebbe dovuto, secondo il mito, vagare per un secolo prima di essere traghettato). Baudelaire non ce lo dipinge terrorizzato o impaurito dal nocchiero, ch’è privato, d’altronde, dei classici aggettivi terrifici che gli sono tradizionalmente affibbiati (Virgilio, ad esempio: «portitor horrendus»). Si ha l’impressione, poi, che Don Giovanni consegni l’obolo a Caronte mostrando un’assoluta, superiore alterigia; pare, questo suo gesto, la magnanima decisione di un signore che vuole concedere qualcosa a un suo sottoposto. La scena della consegna dell’obolo fa riemergere, è ben chiaro, l’eco del famoso episodio molieriano dell’incontro col povero (atto III, scena seconda del Dom Juan). Anche qui, come in Molière, noi possiamo immaginare che Don Giovanni doni la moneta non perché voglia cedere alle leggi dell’oltre-tomba, ma per una sua peculiare propensione a esprimere, in ogni occasione, una continua volontà di dominio sul mondo circostante (e non è forse anche questa una forma di seduzione?).

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Il povero, al quale il Don Giovanni di Molière regala un luigi d’oro «per amore dell’umanità» – ma che si rifiuta di bestemmiare, così come il libertino gli aveva chiesto – ritorna, in Baudelaire, meno umile e remissivo, e addirittura vendicativo, audace, violento. Ecco il contrappasso: il mite poverello afferra i remi con un braccio gagliardo e risoluto, vengeur et fort. Ma di che cosa vorrà mai vendicarsi, questo strano, sombre mendiant? Dell’umiliazione subìta durante l’elemosina? Eppure, qualcosa non torna: come mai il puro, timorato, religiosissimo povero si trova all’Inferno? Lo si direbbe un nuovo, crudele rovesciamento baudelairiano: nel suo mondo, chiaro e pulviscolare, sghembo e geometrico, convivono estremi che si congiungono e si confondono, mischiando il miele col fiele: così nel candido fedele si nasconde il più terribile bestemmiatore; e nella più bianca e virginale fanciulla alberga un’assassina, una ladra, una puttana. Precipizio e risalita. Indulgenza e castigo. Assoluzione e distruzione. Tutto si trasmuta in un processo alchimistico, misterioso e insondabile, nel quale una benedizione è accompagnata da solenni imprecazioni, e un canto eufonico può essere associato, imprevedibilmente, a laceranti spasimi, a improvvise stonature, a inusitate dissonanze.

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Baudelaire ci presenta il mendicante come sombre. Il termine ha un ventaglio di molte, inafferrabili, se non addirittura subdole sfumature: in esso è racchiuso ed espresso, allo stesso tempo, un sentimento indefinito e inquietante. Più che «triste» e «cupo» andrebbe inteso, invece, come melanconico, dolente, mesto, accorato. Così, infatti, suggeriscono alcuni storici Dictionnaires: il Larousse (1863) lo intende come «mélancolique», «taciturne», «morne»; il Poitevin (1851) propone anche «chagrin»; il Dictionnaire de prononciation italien-français di Cormon e Manni (1802) riporta, sì, il termine «cupo», ma ne amplia e ne arricchisce le nere vibrazioni interne, traducendo il vocabolo come «tetro» e «oscuro».

Concentriamoci, adesso, su alcune versioni italiane del Don Juan aux Enfers. Valuteremo, di volta in volta, singoli problemi testuali, evidenziando le diverse soluzioni adottate da ciascun traduttore. Specificherò soltanto che Attilio Bertolucci (traduzione del 1975) ha deciso, in modo quasi provocatorio, di volgere in prosa tutte le poesie delle Fleurs, mentre Gesualdo Bufalino (1983), e – tra i molti altri – Antonio Prete (2010) hanno tentato, piuttosto vacuamente, la strada della versione isometrica, col proposito di “ricalcare”, con risultati spesso parodistici, gli originali baudelairiani, dimenticando che la traduzione poetica dovrebbe evitare atteggiamenti presuntuosi scegliendo, invece, di agire – lo ha scritto saggiamente Enrica Salvaneschi – «come una nobildonna di compagnia alla sovranità del testo originale». Impossibile, qui, parlare degli affronti che la poesia di Baudelaire ha tante volte subìto dai traduttori italiani. Vorrei almeno sottolineare il grave arbitrio di Luigi De Nardis, che nella sua traduzione (1964) osa riformulare a suo piacimento gli a capo dei versi, cambiando o eliminando (sic!) perfino gli spazi bianchi tra una strofa e l’altra. La più recente edizione italiana delle Fleurs, uscita nel 2012 a cura di Nicola Muschitiello, è particolarmente deprimente, anche a causa della prefazione di Enzo Bianchi (immaginate, vi prego, per un istante solo, l’espressione, un po’ divertita un po’ arrabbiata, dello stesso Baudelaire se avesse visto un’edizione dei suoi Fiori prefata da un monaco!). Un solo esempio sarà utile per far comprendere il livello della versione di Muschitiello: il titolo della poesia Le Guignon è orribilmente tradotto con la parola Sfiga. Non aggiungiamo altri commenti: il lettore sagace trarrà da solo le adeguate conclusioni sul valore di questa traduzione.

Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva

Ma torniamo al vocabolo sombre di cui poco prima si scriveva. Claudio Rendina (1972) e Bertolucci lo interpretano come «triste» (soluzione un po’ sommaria); Luciana Frezza (1980), Bufalino, Giovanni Raboni (1987), Cosimo Ortesta (1996) adottano, onestamente, «cupo» (ma la Frezza tende a caricare in maniera grottesca, facendo del mendiant uno «straccione»); Angela Cerinotti (1995), audacemente (e infelicemente), si avvale di un improbabile, e del tutto arbitrario, «sordido»; Giorgio Caproni (2008) azzarda un «bieco» che a noi pare davvero fuori luogo, perché non vi è rapporto alcuno tra la melanconica ombrosità del mendicante-rematore e una sua eventuale perfidia, o una sua immorale slealtà. Il mendiant è amaramente cupo e luttuoso, ma non è certo laido, né torvo, né malvagio, né turpe. Davide Rondoni (1995) individua, finalmente, una ipotesi traduttiva ideale, candidando il termine tristo.

Osip Mandel'stam 1913

Osip Mandel’stam 1913

Sarebbe stata senz’altro la proposta migliore, se, però, il traduttore non avesse scritto «tristo mendicante», ma «mendicante tristo». La questione non è bizantina. Per spiegarmi con sufficiente chiarezza, e con l’intento di non discostarmi troppo – in senso almeno temporale, più che stilistico – dalla dimensione linguistica baudelairiana, citerò una preziosa riflessione di Tommaseo (tratta dal suo Nuovo Dizionario de’ sinonimi della lingua italiana, 1838) dedicata all’importanza della giusta posizione dell’aggettivo tristo: il quale, «secondo ch’è preposto o posposto, ha vari usi; e non si dirà: zuppa trista, ma trista zuppa o zuppa ben trista. Si dirà […] tristo servigio, e non viceversa. Trista figura, in senso di non onorata comparsa o di faccia men bella; figura trista, in senso di esprimere il dolore o la malizia dell’animo. Trista gioia; non mai, gioia trista. […] Si può essere tristo uomo, e mal accorto, mal cauto; si può essere uomo tristo senza scelleraggine, senza viltà. Tristo desinare è desinare mal fatto: desinare tristo è desinare malinconico. […] Tristo amore è amore che genera più male che bene, o amore non buono, ed è amore misto di dolori e di pene». Dunque, in sintesi: tristo uomo significa: uomo cattivo, aspro, malvagio; uomo tristo, invece, sta per uomo tribolato, malinconico, afflitto.

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

Se Caronte ha, giusta la famosa espressione dantesca, i terribilissimi «occhi di bragia», il suo strano aiutante, prima fervido credente e ora dannato, ha l’œil fier comme Antisthène: l’occhio (diremo meglio: lo sguardo) fiero come Antistene. Il termine «fiero» non corrisponde a un sinonimo di «audace» o di «intrepido», ma vale, piuttosto, nel senso di «arrogante», «protervo» e «altezzoso» (si veda il Larousse 1863: arrogant, superbe). Si parlava, dunque, di un primo, paradossale capovolgimento: il mendicante di Molière è ossequiente, umile, rispettoso e modesto; qui è impudente e superbioso. Vi è anche, però, un’ulteriore, interna contraddizione (tipica del bifrontismo baudelairiano): il mendicante è sombre (tristo, scuro, afflitto) ma è, contemporaneamente, animoso ed energico, dal braccio «forte» e «vendicativo».

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

Perché paragonarlo ad Antistene, il filosofo cinico? Ora, Antistene evidenzia la necessità di liberarsi dei bisogni materiali («chi ama il denaro non potrà mai essere buono»); ma non è solo la scelta della povertà ad avvicinarlo al sombre mendiant baudelairiano. Precipitato agl’inferi, il povero ha abbandonato, forse, i suoi antichi ideali e la sua fede. Il suo occhio è diventato «fiero» perché privato delle illusioni e dei suoi sogni di idealismo cristiano e di umanesimo. Antistene osserva, in opposizione alla visione platonica: «vedo il cavallo, ma non la cavallinità». Platone, appunto, gli risponde: «perché non hai l’occhio per vederla». Lo sguardo di Antistene è fiero – cioè crudo, oggettivo – perché spietatamente legato all’evidenza empirica della realtà, che vieta qualsiasi ipotesi di personale interpretazione trascendente delle cose (come ricorda Aristotele nella Metafisica, egli professa l’opinione «che di nessuna cosa possa dirsi altro che il suo nome proprio e che perciò non può dirsi che un nome solo di ogni singola cosa»). Duro, dunque, privo di speranze e di chimere è questo mendicante, simile al rude Antistene. Egli vuol vendicarsi di Don Giovanni perché, forse, gli sta riconoscendo, suo malgrado, che aveva ragione nel chiedergli, impudentemente, di bestemmiare, cioè di infrangere – come volevano, appunto, i cinici – i tradizionali valori del «buon vivere» civile e le ipotesi di una possibile trascendenza? Diremmo proprio di sì. Ora è un vendicatore e un punitore: ed esprime l’implacabile risentimento di chi è costretto a dar ragione al suo avversario (ricordo ancóra un frammento di Antistene: «stai attento ai nemici, perché essi per primi si accorgono degli errori tuoi»).

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960
Nella foto: Eugenio Montale

Ma ecco apparire, adesso, l’autentica ossessione patologica dongiovannesca: numerosissime donne, montrant leurs seins pendants. Sono disfatte e cadenti. Il seno pendant ci fa comprendere che esso non è soltanto mencio, floscio o cascante: ma che è tristemente avvizzito e invecchiato, perché ormai privo di amore, e incapace di eccitare e di provocare il desiderio erotico (sbaglia clamorosamente Muschitiello, traducendo in modo volgare la parola seins con poppe: espressione che, come anche un bambino sa, può solo alludere a un seno florido e invitante). Chi sono, queste infelicissime? Si tratta di donne abbandonate volontariamente – e voluttuosamente – al martirio masochistico, e votate, inoltre, all’incrollabile pulsione infermieristica – estesa oltre la stessa vita terrena! – tendente a salvare o a redimere l’uomo amato e ritroso. I seni sono dunque rinsecchiti, cadenti, ben poco seduttivi: e tuttavia, le loro vesti sono impudicamente aperte, perché pronte, anche dopo la morte, a rincorrere l’ideale progetto di riconquistare l’uomo fuggiasco. Di sicuro, essere inseguito eternamente da queste donne assillanti, fissate e petulanti è il maggiore castigo immaginato da Baudelaire per Don Giovanni. Esse, dunque, si denudano, offrendosi in sacrificio (sono victimes; tuttavia, come spesso accade, victimes più che consenzienti) ed emettono un bestiale mugissement. Le donne anticamente amate da Giovanni sono paragonate a una mandria di grevi e lamentosi esseri non più umani che, simili a striscianti serpenti, si contorcono (è scritto, appunto, che esse se tordaient: queste spente, disperate, inconsolabili innamorate cercano e tentano ancóra, da astuti serpenti quali sono, la via obliqua e sotterranea della seduzione e dell’incantamento). Un incubo, per il dannato Don Giovanni: la donna, piombata nell’Inferno, non ha motivo di nascondersi dietro le cotidiane ipocrisie delle regole e delle finzioni della “buona” società (e dimentica, qui, perfino le sue arti, e le sue armi, abituali: il travestimento, il trucco, la maschera); e si mostra, perciò, in tutta la sua cruda, assoluta, selvatica brama di desiderio e di possessione carnale: e si scopre e si manifesta senza pudore alcuno. Il poeta mette in guardia il lettore: gli ricorda, cioè, l’autentica natura della donna, che «è naturale, cioè abominevole» (Il mio cuore messo a nudo).

Paul Valéry

Paul Valéry

Questa impudicizia disperata ci fa venire in mente altre dannate e inconsolabili donne «perdute» così spesso presenti nelle Fleurs: quelle, ad esempio, «Distese sulla sabbia come un gregge pensoso» (Femmes damnées, CXI) o le stesse penose «vittime del lamento» calate «nel sentiero dell’eterno Inferno» (Femmes damnéesDelphine et Hippolyte, III). Ma qui, nella visione delle vittime offerte del Don Juan, vi è certo un drammatismo meno risoluto; e forse, lettore attento, potrai vederci, chissà, una specie di comica marcia funebre; oppure potrai sentirci il coro di un Requiem parodistico, pieno zeppo di grottesche deformazioni, di armonie cacofoniche e mugolanti.

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

A proposito, appunto: qui udiamo un oscuro, anzi lugubre mugissement. Un’eco nera che rimbomba, senza smettere mai. Si noti che long mugissement è un’espressione fondata sulla tenebrosa assonanza del suono on: ed è un’assonanza non casuale, e che dà, anzi, la “tinta musicale” all’intero componimento (leggi, ad esempio, le parole onde, Charon, sombre mendiant, aviron, montrant, firmament, tremblant, etc.). Gesualdo Bufalino traduce piuttosto bene questo verso: «dietro di lui muggivano monotono un lamento». Raboni applica, invece, un colore più violento: «dietro di lui mugghiando lungamente». Antonio Prete, al contrario, appiattisce e banalizza la frase, scrivendo: «dietro di lui gemevano con un lungo lamento». Sostituire il cattivissimo e quasi buffo muggito con un prevedibile e dozzinale gèmito è una vera sciocchezza, soprattutto perché il gemere innalza le victimes bovine a un livello di superiore, umana dignità che esse stesse non avrebbero nemmeno lontanamente immaginato o sperato. Piuttosto brutti i mugghi di cui parla Romano Palatroni in una sua traduzione delle Fleurs del 1959; tuttavia, nessuna versione è riuscita a superare in bruttezza la raccapricciante proposta avanzata da Claudio Angelini: «dietro di lui lunghissimi ululati emettevano» (la sciagurata traduzione è apparsa nella rivista elettronica aperiodica «Senecio»).

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Subito dopo la greve, lutulenta e muggente apparizione del grand troupeau di victimes sedotte e abbandonate (ma che, per sventura di Don Giovanni, mai più lo abbandoneranno), si mostra, ora, il suo servitore Sganarello. Anche qui, Baudelaire allude di nuovo alla commedia molieriana. Nella scena finale del Dom Juan, Sganarello reclama i suoi gages, con una triplice ripetizione, tanto esagerata quanto meschina. La commedia si apre e si chiude con la figura del servo, la cui prospettiva di vita è fondata su di un microcosmo composto dei più elementari e fisiologici bisogni (il cibo, i soldi) e che tende alla faticosa costruzione di un moralismo opportunistico e ipocrita (il suo iniziale elogio del tabacco è giustificato dall’idea che esso è «la passione della gente per bene»: egli tenta, perciò, di adeguarsi alle leggi «ideali» della cosiddetta vita civile e sociale). Schopenhauer lo avrebbe definito un Philister, un «filisteo», cioè un anti-spirituale, un «uomo senza muse». Leggiamolo: «Il filisteo è, dunque, un uomo senza bisogni intellettuali. […] La sua esistenza non è animata da alcuna aspirazione a una conoscenza e a una capacità di comprendere perseguite per se stesse, né da alcun desiderio di piaceri veramente estetici, un desiderio senz’altro connesso con quell’aspirazione. […] I veri piaceri, per lui, sono quelli dei sensi; con essi si ritiene soddisfatto. Perciò il culmine della sua esistenza sono le ostriche e lo champagne; e scopo della sua vita è procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere fisico». Ora, c’è da osservare che Sganarello ha seguìto il suo padrone all’Inferno quasi contemporaneamente: mai potrebbe abbandonarlo, pena un eccessivo impoverimento – anzi, forse, una specie di cancellazione – della propria identità. Dunque, egli segue a capofitto il suo padrone, perché vive della sua luce e dei suoi riflessi, odiandolo e ammirandolo. Lo ha seguìto, inoltre, anche nella direzione di una sopraggiunta ribellione a Dio. Marco Sciaccaluga, a proposito del grido finale Mes gages! Mes gages! Mes gages! che conclude il Dom Juan, commenta con intelligenza: «non escludo che questa possa essere la sua prima bestemmia. Dopo aver difeso per tutta la commedia una rispettosa idea di Dio, questa sua ultima battuta sembra proprio rivolta a colui nei cui confronti si era sino ad allora limitato a chinare la testa».

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

A causa del già citato ribaltamento baudelairiano, parodistico e non lontano da un’idea di comico contrappasso, il servo pavido e timoroso si presenta spudorato, impertinente, ridanciano. Il suo opportunismo di fondo lo spinge a reclamare, a pretendere il suo salario; e decide di non perdere tempo: chiede di essere pagato, sghignazzando, appena rivede il suo amato-odiato padrone. Si mediti, poi, sul termine gages: non vuol dire, semplicemente, «stipendio» o «paga», ma è – come c’informa il Larousse – il «salaire des domestiques»: il salario dei domestici. L’Inferno non ha accorciato le distanze. Le classi non sono ancora distrutte: il padrone e il servo seguiteranno, eternamente, a ricoprire gli antichi ruoli sociali ai quali furono destinati in vita.

zbigniev herbert 1963

zbigniev herbert 1963

Soffermiamoci, adesso, sul réclamer di Sganarello. Non sta a significare semplicemente «chiedere» o «richiedere con forza insistente e pressante» (Larousse: «demander avec instance»). Il «reclamare» è più vicino, qui, all’idea di una rivincita o di un tentativo di vendetta: il Nouveau dictionnaire di Noël e Chapsal (1828) suggerisce di intendere il verbo nel senso di revendiquer: rivendicare. Sganarello, non dimentichiamolo, cova sempre risentimento e desiderio di riscatto nei confronti del suo signore (si ricordi l’inizio del Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, nel quale Leporello sbotta: «Voglio far il gentiluomo,/ E non voglio più servir»). I morti, dunque, sembrano in attesa di una rivincita, o di una postuma vendetta. Già in vita, Sganarello ha sempre tentato una rivalsa, in ispecie di tipo educativo, nei confronti del padrone, invogliandolo e spronandolo, spesso, al ravvedimento per il tramite di vari sermoncelli moralistici (affatto inutili, si capisce), nutrendo la speranza, o la pretesa, di mostrargli la verità e di allontanarlo dalla strada cattiva delle illusioni […]

(Mario Fresa)

Mario Fresa

Mario Fresa

Mario Fresa è nato nel 1973. Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Oltre a indagini sulla cultura della traduzione letteraria, si è dedicato alla poesia italiana e francese dell’Otto-Novecento. Come poeta esordisce nel 1999, presentato su «Specchio della Stampa» da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi appaiono nell’antologia Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004) e su varie riviste, tra le quali «Caffè Michelangiolo» (n. 3, 2003), «Paragone» (n. 60-61-62, 2005), «Nuovi Argomenti» (vol. 45, Mondadori 2009). È del 2002 la raccolta prefata da Maurizio Cucchi Liaison, cui fanno seguito Costellazione urbana («Almanacco dello Specchio» di Mondadori, n. 4, 2008), il poemetto Alluminio, con la prefazione di Mario Santagostini (2008) e Uno stupore quieto, introduzione di Maurizio Cucchi (La collana, Stampa, 2012). Un’anticipazione della sua nuova raccolta poetica è apparsa sul n. 16 di «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice. Collabora a riviste e a quotidiani e cura la rubrica Sguardi sul periodico «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.

 

8 commenti

Archiviato in poesia francese

POESIE INEDITE di Gabriele Fratini sul TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

 Proseguiamo con la presentazione di autori delle nuove generazioni: Gabriele Fratini

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

helmut newton foto

helmut newton foto

 Gabriele Fratini è nato a Sassari nel 1978, vive a Roma e ultimamente tra Roma e Catania. Laureato in Filosofia Estetica all’Università di Roma Tre, l’arte e la poesia sono la sua passione da sempre. Si diletta da anni a scrivere versi con particolare propensione per il c.d. “stile semplice” e la poesia giocosa. Di gusti petrarchisti e decisamente “antinovecentisti” (poco stimolato dalle avanguardie e neoavanguardie), ha pubblicato due raccolte: Antifavole. Storie di animali e insetti (2006), sul genere favolistico di Fedro, La Fontaine, Trilussa; e La Morte, il Diavolo, il Poeta (2008), di liriche, poesie fiabesche e filastrocche. Partecipa poco ai certami letterari, soprattutto per la scarsa considerazione che ha l’attuale critica del genere satirico e giocoso, che egli predilige.

Sculture lignee raffiguranti mani femminili

Sculture lignee raffiguranti mani femminili

Utopia

Esiste un regno nella fantasia
ove tutto diventa materia
per esprimere la cosa più seria
in una qualche forma di poesia.

Questo luogo si chiama Utopia,
fu fondato in passato da Platone,
ma un Tommaso, poi l’altro, e un filone
lo ridussero a nuova geometria.

La versione della scienza a Bacone,
mentre Gulliver giunse in questo regno
tra i cavalli di razza intelligente.

Ma la ragione invita a esser prudente,
ché quando si tentò la costruzione
nella realtà, ne uscì un massacro indegno.

Nuova utopia

Tra il serio ed il faceto voglio darvi
una nuova versione, personale,
che Campanella non ci resti male,
che il Moro non si offenda ad ascoltarmi.

Il re

Siete giunti nel regno di Utopia,
il Fato vi ha condotto a questi lidi
celati sulle mappe come miti
che popoliamo io e la mia genìa.

Karl Hofer Tiller Girls Kunsthalle in Emden Stiftung Henri und Eske Nannen und Schenkung Otto van de Loo

Karl Hofer Tiller Girls Kunsthalle in Emden Stiftung Henri und Eske Nannen und Schenkung Otto van de Loo

Isolamento

Vi spiego come funge in queste zone:
i barbari teniamo alla distanza
levando di noi stessi la nomanza,
cancellando di noi ogni nozione.

La mensa

Traiamo il nutrimento dalle piante,
la nostra dieta è tutta vegana,
lasciamo ogni animale nella tana,
con il latte non ci facciamo niente.

Colazione

Caffè amaro per tutti a colazione:
il dolce fu bandito e non sapete
che abbiamo debellato già il diabete.
Ma chi vuole ci aggiunga l’aspartame!

Spostamenti

Ci muoviamo tra zattere e canoe,
lo scoppio del motore non si trova,
che inquini questi mari non c’è prova,
non ci spingiamo mai oltre le boe.

Divertimenti

La sera festeggiamo e dopo cena
(a base vegetale come sempre)
guardiamo quante stelle il cielo stende
e più guardiamo più l’occhio si allena.

Astrologia

Senza lumi e lampioni il telescopio
si punta in cerca di costellazioni
per leggere il destino delle azioni
che detta l’astro, mentre io ricopio.

Gabriele Fratini

Gabriele Fratini

.

.

.

.

.

.

.

Credenze

Non adoriamo il Dio dei terrestri,
veneriamo solo gli astri e le piante,
attingiamo noi tutti ad una fonte
per bere ed irrigare i campi agresti.

Lavacri

Non curiamo l’igiene personale
con sapone né shampoo sulla fronte,
ci immergiamo nel ruscello del monte
in compagnia di ogni altro animale.

Economia

Non abbiamo la corrente e nessun tipo
di elettronica, Maxwell non ci prende;
abbiamo un’economia che rende
scambiandoci la merce in ogni sito.

Abitazioni

Le case sono fatte con i tronchi,
le ginestre abbelliscono la schiera,
e quando cala il buio della sera
illuminiamo i viali con i fuochi.

Incidenti

Qualche volta succede che si incendia
Un capanno, oppure un magazzino,
qualcuno morirà nel suo giardino,
qualcuno ha riportato ustione orrenda

Raccolta differenziata

I rifiuti li gettiamo in un fosso,
le radici e le bucce di banana
ci servono a coprirci dalla frana.
Ma vi ho detto tutto ciò che posso.

Invito

Ora ditemi, cosa state a fare
nel mondo per avere una scodella
di cibo, o una nuova tintarella
arricchendo qualsiasi lupanare?

Controllo

Entrate nello stato di Utopia!
Provvediamo a tutto ciò che occorre,
ciascuno è visionato dalla torre,
non abbiamo nessuna malattia!

Gabriele Fratini

Gabriele Fratini

55 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

TREDICI POESIE di Roberto Bertoldo da Il calvario delle gru 2003 libro scelto da Giorgio Linguaglossa con alcune domande e Risposte dell’Autore

Ernst-Ludwig-Kirchner

Ernst-Ludwig-Kirchner

 Roberto Bertoldo è nato nel 1957 e risiede a Burolo (TO). Nella seconda metà degli anni ’70 ha partecipato a numerose manifestazioni letterarie in veste di poeta e redattore di rivista. Dopo la laurea (tesi: Ermetismo come petrarchismo) ha preferito fare vita ritirata per proseguire la sua personale ricerca di scrittore. Di questi anni sono i libri di narrativa L’abitudine, Il cammello oltre la cruna, Le favole del fiume d’ebano, Satio, I nichilisti e le raccolte poetiche Nuvole in agonia, Il pan-demonio, Il rododendro, tutti libri inediti. Nel 1996 è uscito dall’isolamento fondando la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, di cui è direttore, e cominciando a professare la sua filosofia del “nullismo”. Nel 1998 ha pubblicato i romanzi brevi Il Lucifero di Wittenberg e Anschluss, Asefi Terziaria, Milano, e il saggio Nullismo e letteratura. Per una filosofia fenomenica e una epistemologia della letteratura postcontemporanea, Interlinea, Novara (Nuova edizione riveduta e ampliata: Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria, Mimesis, Milano 2011), libro nel quale, attraverso una reinterpretazione del pensiero leopardiano posto come fondamento dell’esistenzialismo nullistico di Camus e attraverso analisi epistemologiche, delinea le possibili direttrici di una letteratura postnichilistica. A dicembre 2000 è uscito il suo libro di poesie, Il calvario delle gru, presso l’editore La Vita Felice di Milano e successivamente in forma bilingue presso l’editore Bordighera Press di New York. Nel 2002 viene edito il suo libro di narrativa Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia e nel 2003 il saggio filosofico Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura, Guerini & Associati, Milano. Nel frattempo ha scritto ancora i libri di poesie Il codice delle stagioni (inedito) e L’archivio delle bestemmie (Mimesis, Milano 2006) e, negli anni 2003-2004, i romanzi Amori postumi (inedito), L’infame (La vita felice, Milano 2010) e Ladyboy (Mimesis, Milano 2009).

Roberto Bertoldo

Roberto Bertoldo

Dal 2004 ad oggi si è dedicato prevalentemente a sviluppare la sua filosofia, arricchitasi di una nuova forma di indagine detta “fenomenognomica”, che vede per ora l’uscita di Sui fondamenti dell’amore (Guerini & Associati, Milano 2006), Anarchismo senza anarchia (Mimesis, Milano 2009), l’opuscolo Chimica dell’insurrezione (Mimesi, Milano 2011) e il saggio Istinto e logica della mente (Mimesis, Milano 2013). Svolge l’attività di insegnante e cura collane di saggistica e di poesia straniera.

Commento di Giorgio Linguaglossa

In una recente intervista a Roberto Bertoldo sul suo ultimo libro di filosofia gli chiedevo:

in altri tuoi precedenti libri hai chiamato la nostra epoca il «post-contemporaneo». Vuoi spiegarci quali sono i termini filosofici di questa categoria?

 Te lo riassumo citando, per comodità, da uno dei miei libri: «La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e cioè indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età odierna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».

Insomma, ho usato questo brutto termine a causa dell’abuso storicamente documentato del termine postmoderno e la confusione volgare d’esso con postmodernismo e postmodernità. Quindi, il postmoderno storico è successivo alla svolta paradigmatica tra Ottocento e Novecento e il vero postmoderno filosofico è il postmoderno forte ossia antidecadente, nullistico.

Tu scrivi: «La filosofia come fondazione di un pensiero critico è inevitabilmente fallimentare. Come metafisica, la filosofia è ancora utile perché interpreta i risultati delle scienze, anche se questi risultati e le ipotesi derivabili non conducono a verità essenziali e infallibili». Non nascondo che per me, educato alla filosofia della Scuola di Francoforte, questo assunto mi suona come un campanello di allarme. Vuoi spiegarci in che termini la filosofia non può più essere «fondazione di un pensiero critico»?

 La filosofia più pratica è quella intuitivo-ipotetica, quella fondata sulla scienza per intenderci. Una filosofia a misura d’uomo non può anteporsi alla prassi, dunque agli strumenti che analizzano il mondo. La dialettica a cui si rifà la fenomenognomica ribalta quella hegeliana, come fece Marx. Hegel spegne la capacità critica, in più la sua logica è tradizionale, attualmente non in linea con i nostri fondamenti scientifici. La scuola di Francoforte presenta molte tesi, anche il suo ritorno ad Hegel non è poi così acritico, anzi mi pare che in pensatori come Adorno ci fosse la coscienza del pericolo ideologico.

Come definiresti la tua filosofia nell’ambito del cosiddetto «pensiero debole»?

Il «pensiero debole» è ancora connesso al moderno, si sostanzia di quel nichilismo a cui giungeva il pensiero assolutistico dell’età moderna. Riguardo a quanto mi chiedi, è indicativo il fatto che in un saggio spagnolo la mia filosofia del nullismo sia stata messa in opposizione al pensiero debole di Vattimo. È corretto. Il nullismo non sostiene il nichilismo epistemologico, ma lo combatte con la sua epistemologia scettica integrale, e proprio in virtù di questo scetticismo supera quel nichilismo assiologico avallato dal pensiero debole. È lo scetticismo integrale, quello che giustappunto nell’avvalorare il proprio statuto ontologico inficia la verità a vantaggio della storicità dell’accertamento, a riscattare il postmoderno. Non dobbiamo accettare il nichilismo, ma andargli oltre, perché accettarlo significa acquisire una nuova fede. Le nostre costruzioni non sono “deboli” ma adeguate e quindi, piuttosto, “instabili”, come sostiene Lyotard. Non si tratta di dover imparare a «convivere con il niente», come sostiene Vattimo, ma di combattere, senza speranze, contro il niente. Quindi la mia filosofia è leopardiana, esprime cioè un pensiero forte senza illusioni, persegue un senso, il senso, ossia “vivere”, senza uno scopo trascendente.

Qual è a tuo avviso il posto dell’arte nell’ambito del «post-contemporaneo»?

Il postmoderno forte, o postcontemporaneo, si forma sulla rivolta di Camus e, prima di lui, sulla virilità di Leopardi. Una resistenza alla Rieux, de La peste. L’arte è una forma di resistenza, non però come evasione o fuga, non alla Pascoli o alla D’Annunzio, ma come lotta, come ricerca della libertà, e come comprensione del reale. Una comprensione che si compie mediante l’immanenzione fenomenognomica, o intuizione emotiva del darsi fenomenizzato compiuta partendo dalla conoscenza fenomenica. Il posto dell’arte nel postmoderno forte o nullismo richiede la coscienza della complessità del reale e l’adesione ad una visione fenomenognomica, di mente estesa, di rifiuto del nichilismo assiologico mediante il recupero dei valori vitali. Richiede insomma un’adesione politica, sociale, psicologica, culturale, in una parola ‘mentale’. Il discorso diviene, così, complesso, e infatti ho dovuto elaborare questa filosofia nei vari campi del sapere prima di ritornare alla questione estetica, alla quale ho ripreso a lavorare adesso. Ma non mi trovo in una posizione diversa riguardo l’arte, semplicemente ora mi trovo in una posizione rafforzata. Ora ho la conferma che la letteratura è utile, anzi necessaria. Necessaria alla nostra crescita intellettuale ed emotiva e al miglioramento delle nostre potenzialità espressive e quindi comunicative.

In una nota esplicativa in calce al libro Bertoldo precisa: “«la mia poesia è intersemica e tonosimbolica» (…) e che «Nullismo» per me non significa «nichilismo», ma il suo superamento”. Coerentemente con questo assunto la poesia di Bertoldo si pone nello spazio di conflitto tra il sostantivo e il suo attributo qualificativo, l’aggettivo. Di qui sorgono le frizioni e le scintille metaforiche di cui è ricca la sua poesia.

 bello la Gru

da Il calvario delle gru con testo inglese a fronte a cura di Emanuel Di Pasquale Bordighera press U.S. (2003)

I
Lei mi parla di un silenzio
che io ho dovuto ingoiare
tra i frantumi delle parole
come un buco le sue cornici.
Lei parlando si condanna
a ferire il nulla che attesta
perché non può cancellare il tono
che sussurra con le foglie
quando cadono. Noi vinciamo
attraverso l’atmosfera che inneggia alle ombre.

II
Tra le sue ossa senza fibbia
logorate dal mare
Lei imbratta la voce
d’un canto che morde il respiro
e il mare si riserva di parlarle
della sfera di sale che stempera sulla lingua
in giostre di resine.
Il mare
questo rostro d’alabastro
scuote l’orcio dei simboli
nei quali la terra strina le proprie larve.
La terra
un’antica passione che Lei
in ginocchio
con povere parole
officia di candele
come una gazza.

 Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

III
Io so perché Lei,
saldo sulla sedia a dondolo,
ha sconfitto il gomitolo di lana.
Perché Lei ha un’uscita per ogni entrata
e le arcate dei ponti La soddisfano solo di giorno.
Nella luce del Suo telaio
Lei ha ristoro per un intero gregge.

IV
Ogni giorno, ogni notte
Lei ricicla i rifiuti che passa il convento
e attende alle Sue cose
fa un pupazzo sulla spiaggia
appalta le maree con le parole.
Sotto il trespolo giganteggia.
Poi, imbottito dei tordi altrui,
si schiarisce la voce
e sul palco, con ispirazione,
mette le tende
e fa l’indiano.

*

I
La tua solitudine è un risvolto incauto
e sfiora gli orridi che sanno di cornice
nel nostro carteggio di vetrata.
Anche se una stella
di luglio rovina alle stuoie
breve arrugo la terra e infamo.
Non è altro la distanza:
un buco che odoro, una – gramma
di vuoti a rendere.
Tu che sei il mio singhiozzo
e la mia deriva,
la lontra che incede nel fertile.

Roberto Bertoldo in montagna

Roberto Bertoldo in montagna

IV
Nelle tue braccia ritrovo la rondine
che buca la mia testa
e fiorisce dal ventre di pagina
due righe che s’allontanano.
recito nelle tue unghie la forza
del sorbo e la bontà della sua salsa,
io che bevo cerevisia io
cacciagione ribelle.
E il tuo seno è un fastidio
per la mia barba di uomo.
Ma infine, eh, infine cedo alla regressione
e strappo a denti di latte
il tuo cuore.

V
Ora la mia barba scandinava attrae di scarlatto le tordelle
come quel fuoco d’inverno gli uomini infreddoliti
per la tua unghia d’amore.
Ho dimora anche per te tra le mie foglie e i corimbi
o sorella dei monti, per te che appoggi il tuo flauto
come una sirena, per le onde che sorreggono il tuo canto
di spine, per te regina in croce ho lo spazio di un nodo
che s’aggroviglia sul collo degli uccelli.
Non ti lascio sola con gli strappi della tua pelle
con i marosi
e le folaghe arbitrarie nella mia fortezza.
Per te impegno il mio legno e t’inchiodo.

*

III
Ci hai parlato come una dimora sfondata
zeppa di grilli che hanno la testa
accurata del tuo pettine,
l’ordine che giustifica la follia
di queste nostre mani che sanno di mollica
sul tuo viso ammuffito.
Ma anche oggi qualcosa ha disperato il principio
che adora la nostra polvere di uomini:
hanno aperto un altro solco
e non hanno semi
e neppure i tuoi seni matrigni.
Come puoi gridare
oggi che la tua lingua non posa
sulla nostra bacca dolente?

IV
La marsina, scoscesa, rinnovata l’opàle
arlecchino come i suoi racconti nel buco
della pioggia. Sempre quella coda di vipera
delle parole incrociate, sempre la stessa dizione
della notte, come potesse quell’ora
uccidere il senso, il nostro senso
senza direzione. Ad arcuare il tempo
ci abbiamo messo tutto il calore
sull’incudine, sotto il martello.
Ora il tempo ci gira intorno
e noi balliamo, balliamo,
anche cadaveri. Perché siamo la danza,
il vortice che tutto trascina con sé,
siamo l’incertezza che brucia gli asfodeli.
roberto bertoldo calvary

 

 Il remo del gondoliere

La mia storia si corica come una virgola,
una gondola sul foglio, come si posa
l’inverno deciduo tra gli abeti,
la mia storia è vile come la gondola
quando a Venezia è una pausa,
quanto una virgola, una pausa della morte.
E questa neve oggi che nasconde
altre storie vili, questa neve
per la mia slitta da diporto,
cade sul foglio come una virgola,
come una benda di una dea.
ma se amo, illustre remo
o palustre luna che ne spiattella l’ombra,
se amo sono il gondoliere
che imprime nel canale la propria obliterazione.

.
Nullismo

Non del cielo questo tugurio di stelle
che arroventa i gabbiani è l’ostia aprica
come i fiordi delle costellazioni,
a lingua e occhi d’agnello, che calendano
sussurri azzurri, gli ultimi sussulti
– tu senti – delle cicale. Questa pausa livida
è della terra che scuote a formiche e lontre
la vita, è lo strazio argenteo delle cinerarie,
la sorpresa di un canto che smuove le acque
a mani di pagaia.

.
Aporia di nebbie e nevaschi

Tu non dici perché ami la pietra di me
il pianto più cupo della baraggia
tra il faggio e l’algebra di una memoria di siepe.
Non c’è carezza di galera o vino di immagini
a respirarmi nella testa, un rostro neanche,
né il tuo sorriso come calanco di muschio.
Solo questa luce che fugge precisa
tra i bachi e i baci di ciliegia,
labbra rosse strappate di bacche penduli,
solo questa luce che distilla ricordi
in un velo fradicio d’acquerugiola.
Così è benedetto il frutto
del seno tuo stigio
santa santa ragione del peccato e della miseria
scorpione d’erba, nevasco di frumento.

roberto bertoldo

roberto bertoldo

 

 La lebbra

Nelle vostre facce getto la pausa di un sorriso
e cornici di rughe vi spaccano l’ombra sotto gli occhi.
Avete la pelle di rosolio, sofferenze di rododendri,
scontare la morte come uno stagno.
Io vi porto frattaglie d’amore secche come parole,
rene grigie che il vento alza a fusilli.
E non ho sete che posso mungervi.
Io sono il seduttore di salice,
colui che spolpa le parole
e abbandona le bucce sui cornicioni della vita.
Non ridere delle mie pupille di fustagno,
vedono ancora i dolori, le desinenze i sospiri,
i riverberi. Contro il vostro petto
batto un foglio testardo, ho in mano le labbra,
una voce che squadra la terra, qualche bemolle,
un calle, la lebbra. Oggi vi sono radice

19 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

QUATTRO POESIE INEDITE di Giuliana Lucchini “lucente Geminide L’assurdo vivibile cadere” “o Vita, Vita” “Les mots d’amour..” “Ceppo dell’albero genealogico” SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

Giuliana Lucchini non luogo

sciame di meteròidi cadenti dalla costellazione dei Gemelli sulla vasta conca di cielo sopra ‘Villa Tre Colli’ – lucente Geminide

 Giuliana Lucchini vive a Roma e si dedica alla poesia con testi, traduzioni, note critiche, recensioni, saggi. Ha tradotto tutti i sonetti di Shakespeare. Fra gli ultimi libri di poesia propria, L’Ombra gestuale (2011), Non morire mai (2011), Donde hay música (2012), Amare (2013).

L’assurdo vivibile cadere.

Sonorità eravamo, incontri – cocci?
due palle da biliardo
in cozzo fra loro. Chi vinse?
Chi di più resistette al gioco?

Ed ora ti accolgo
furente di raggi,
quando alle necessità del cuore
saetti in atmosfera, lucente Geminide :

o invadente Amore sempre ritrovato
mentre taciturno discendi ed elettrico,
visibile tra cirri, un dito alla bocca,
a violentare il tacere dei cieli.

13-14 dicembre 2014, notte

Giuliana Lucchini alla finestra di casa

Giuliana Lucchini alla finestra di casa

o Vita, Vita

.
Fissata sta la traccia, e lucida, due
rette parallele, direzione andata e ritorno.
Dall’inizio alla fine, sì, lo spazio e
il movimento dei tuoi occhi sono
il tempo oggettivo della verità
nella sfera calda della luce. Interprete
della bellezza durevole, fino a quando ..

Quando il sole nasce
ti alzi
quando il sole cala
ti corichi.

Cosa pensi cosa fai
dipende dal luogo in apparenza statico
dove ti trovi per il momento impressa
a respirare. Fausto o tetro. Gaio
accadere. “Vifitafa”.

“ – Sarò bellissima”.

Allora guardi e disponi, bambina,
organizzi le idee agli eventi, sul grande
specchio ballerina ti posizioni verticale,
intersechi il raggio dove tutto
alla terra si distende in una slitta.

Prima, ora, dopo : la sequenza
d’immagine trasporta
il flusso al cuore, cedevole d’eterno.
Un cuore ad alucce, foglio di libro strappato
in cui si legge dentro.

Che canta, che grida.

Dal lontano futuro all’inquieto passato che ritorna
sopra un punto fuggitivo, un punto solo,
del muovere infinito (♬♬ “Fuochi in mezzo al cielo”(1) )
infine tu, la mano alzata sei. Tu e solo tu,
distanza fra le forme di uno stesso corpo
che dura, fra ciò che è bello e ciò che è finito,
resti sempre la stessa, Vita, scrivi la pagina.

[ (1) canzone Paola Turci]

Giuliana Lucchini Andy Warhol's style - Marta B. fecit

Giuliana Lucchini Andy Warhol’s style – Marta Bochicchio fecit (fine 2014 – inizio 2015)

♬♬ “Les mots d’amour ..” (1)

.
Vive soltanto nella mente o
esiste l’altrove
nel luogo che non fu?

dove fluivano nell’aria ♬♬ “Les mots d’amour ..”

Entrare nella torre,
per scale contorte salire fino
ai merli – merli di muro, merli di piuma,
fischiano con il vento – la tramontana

salire sulle nevi, lassù ..

Invocava la sera il cielo dipinto –
il fiore del vaso in sé era e moriva,
così la luce finiva,

cuscino per la notte.

Molte erano le stanze, scenari,
dove parlare ad un sipario d’occhi,
i corridoi strade, luci di pavimenti rossi,

il sonno della tenebra.

Per ogni stanza uno strumento musicale,
per ogni strumento un orologio di segreteria,
cornice d’argento, metronomo nell’angolo,

le dita con ali la bocca nel pensiero ..

Notti,
concerti, silenzi – letti
l’affastellarsi in mente degli eventi

E tutto nel petto riposava
il tempo ritrovato
memoria di quello che fu,

prima che l’arpa di sopra lacerasse
le sue corde non più toccate
da te

(1) (Edith Piaf)

 Castello notturno

Castello notturno

Ceppo dell’albero genealogico

Pendeva dal ramo.
E la neve gli dipinse le braccia,
gli irrigidì di bianco la pelle, gli destinò
la trasparenza sottile del ghiaccio.

Lo guardavamo portare nel bianco
la nobile luce del lutto.

Lui che sembrava morto dentro il tuo cuore,
e adesso riappariva
sulla distesa degli altri viventi
terso davanti ai tuoi occhi.

Suonando un flauto traverso.

NEVE in piccolo

35 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

SEI POESIE INEDITE di Marco Onofrio SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

utopia isola di Pasqua

utopia isola di Pasqua

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

utopia di Winter Guest

utopia di Winter Guest

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in centinaia di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto decine di prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

utopia.ipgCommento di Giorgio Linguaglossa

Si può compendiare il lavoro sulla poesia di quest’ultimo decennio di Marco Onofrio così: il tentativo (riuscito) di immettere l’«onda sonora» dell’endecasillabo in un «orizzonte» spaziale (uno «spazio vuoto»), nel mondo a-dimensionale, tra gli oggetti a-dimensionali e la resistenza che essi pongono alla rappresentazione. Onofrio prende ad interrompere l’«onda sonora» proprio quando essa sembra lievitare e sollevarsi, prende a sviare e a deviare il flusso orchestrale verso la dis-tonia e la dis-armonia controllata, la parola tende ad uscire dal pentagramma sonoro per inoltrarsi in un campo elettromagnetico libero, cioè sottratto alla carica gravitazionale, verso un «oltre l’orizzonte» a-prospettico, a-temporale. Direi che tutta la sua recente poesia sbocca in questo «oltre» a-prospettico.

Nel Discorso su Dante (1933) Osip Mandel’štam mette giù alcuni pensieri che sono di importanza fondamentale per l’elaborazione di un nuovo concetto di “colonna sonora” che tanta parte avrà nella più alta poesia del Novecento:

Il valzer – egli scrive – è essenzialmente una danza ondulatoria, neppur lontanamente immaginabile nelle civiltà ellenica o egizia, possibile invece nella civiltà cinese e pienamente legittima in quella europea moderna. (Sono debitore a Spengler di questo raffronto). Principio fondamentale del valzer è la predilezione, tipicamente europea, per i movimenti ondulatori continui, l’attenzione all’onda che pervade la nostra dottrina della materia, la nostra poesia e la nostra musica”.

Ma c’è di più, per Mandel’štam “Il discorso o pensiero poetico può essere chiamato sonoro soltanto in via convenzionale; infatti ciò che udiamo è unicamente l’interferenza di due linee, una delle quali, presa da sola, è assolutamente muta, mentre l’altra, senza il sostegno del movimento delle immagini è priva di ogni significazione e interesse e si presta alla parafrasi, sintomo certissimo, a mio vedere, dell’assenza di poesia: dove è possibile la parafrasi, le lenzuola non sono gualcite, la poesia non ha pernottato“.

Nella poesia di Onofrio c’è una energia desiderante, un flusso musicale che tende «oltre la parola», «oltre il vuoto nero», «ai bordi di un quadrato senza lati», tra «l’Uno eterno» (l’isola di Montecristo) e il «vuoto nero»,  «il grande spazio interno», tra l’«interno» e l’«esterno», «dentro la rete dello spazio vuoto / dal mio corpo oltre l’orizzonte», dentro un «mistero impenetrato».

   dalla silloge inedita (di prossima pubblicazione) Ai bordi di un quadrato senza lati

Marco Onofrio e Aldo Onorati

Marco Onofrio e Aldo Onorati

Montecristo

Ombrosa, isola isolata
incidi il tuo profilo nella luce
d’oro del crepuscolo tirreno
viola contro il fumo di laggiù
lontano, lontano, all’orizzonte
tricuspide, dentro il tuo mistero
impenetrato, chiusa Montecristo:
tu, fortezza di solitudine
immersa nel tuo tempo millenario
al di fuori del tempo
stai, protetta dalla Storia
nel silenzio dell’eternità.

Ma io ti ho visto, ti ho visto
un pomeriggio di cent’anni fa…

.
Oltre la parola

Da quali lontananze sto tornando?

Come dopo un sogno non ricordo
ciò che ho visto: sfugge
all’ultimo, in uno spazio altro
l’incomprensibile verità
oltre la parola,
sotto l’apparenza di un bagliore
che non ho mai visto
così profondo
dall’ombra di un ricordo
che non ho.

È il Muro: nessuno può aggirarlo
finché vive.

La meta resta chiusa, velata
dentro un nuovo inizio.

.
Traguardo

Splende, vivo della sua memoria
troppo grande il mare
deserto di specchi assolati
nel tremolio di luci
senza fine, inquieto,
chiuso al suo mistero.

È la fonte e la foce del pensiero.
Il soffio amante che ci tiene vivi,
lo spirito incoerente:
un vento che va e viene
e ci porta via.

Mutazione inavvertibile è la scia
di un aereo che rotola nel blu
oltre la chioma arancio di una ciminiera
e la stazza scura di una petroliera.
Sfuma, il margine della fotografia
in viaggio con le nuvole nel tempo.

Maggio non sapeva prevedere
la tragedia di settembre
lo sfacelo dell’estate in agonia,
e la riva era sempre troppo lontana
quando la barca arrancava
per avvicinarsi.

Oltre l’orizzonte

L’aria si prolunga da ogni parte
dentro la rete dello spazio vuoto
dal mio corpo oltre l’orizzonte.

Che ci sarà dall’altra parte?
Chi mi attenderà?

In quale Africa del cielo, in quale Itaca
troverò me stesso?

Il sole sarà l’ultimo gradino
dopo il grande passo:
verso le sorgenti del mattino.

Quale centro

La verità? È una giostra di seggiole
che gira. Anche le seggiole possono
girare – magari in senso inverso,
contromano: così, poi,
vedi quello che tu lasci
andando avanti.
Alcune sono scomode e legnose;
altre ricoperte di velluto.
C’è pure qualche cavalluccio
dondolante. E si gira,
si gira tutto in tondo
per viaggiare – e il viaggio
è verso dove?
Non si esce da quel cerchio
a non finire.
E intorno a quale centro,
incontro a cosa?

cornelius escher stelle

cornelius escher stelle

Ai bordi di un quadrato senza ali

Il silenzio, oltre il vuoto nero:
il grande spazio interno
l’Uno eterno,
ai bordi di un quadrato senza lati.

L’immenso è troppo vasto
per farsi quietamente
una ragione.

Beati quelli che si accontentano
delle nuvole: io, per me, basto alle stelle.
La mia bocca storta nello spasimo amaro
della vertigine
è una porta aperta che si chiude
sulla solitudine.

Ecco l’aprile, che non allunga ponti
al tempo della dolce convulsione
e annoda i resoconti delle sere
sopra il viso: e la speranza
è disperazione.

Il filo che mi teneva in piedi
è sempre più liso, sempre più sottile.
Devo afferrarmi al mondo, ormai,
per non cadere.

8 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

POESIE SCELTE di Gary Geddes a cura di Angela D’Ambra – Prima pubblicazione in italiano

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

 Gary Geddes è nato a Vancouver, Columbia Britannica. Ha vissuto sulla costa ovest fino al 1963. Si è laureato in Inglese e Filosofia – U.B.C. Ha conseguito il diploma post laurea – Reading University, UK. Poi M.A. e Ph.D. in Inglese – Università di Toronto. Dal 1972 -1974 ha insegnato alla Victoria University. Ha insegnato scrittura creativa in varie università canadesi. In particolare, alla Concordia University, Montreal (1978-1998). In seguito, ha ottenuto l’incarico onorario per tre anni d’insegnamento come Professore Ospite col titolo di Professore Emerito di Cultura Canadese presso il Centro di Studi Canadesi-Americani della Western Washington University, a Bellingham. Le sue opere di poesia sono: Poems (1971), Rivers Inlet (1972), Snakeroot (1973), Letter of the Master of Horse (1973), War & other measures (1976), The Acid Test (1980),The Terracotta Army (1984; 2007); edizione francese, 2009, Changes of State (1986), Hong Kong (1987), No Easy Exit (1989), Light of Burning Towers (1990), Girl by the Water (1994), The Perfect Cold Warrior (1995), Active Trading: Selected Poems 1970-1995 (1996), Flying Blind (1998), Skaldance (2004), Falsework (2007); Swimming Ginger (2010), Poems New & Selected, di prossima pubblicazione, Red Hen Press, 2013. Fiction: The Unsettling of the West (1986). Non-Fiction: Letters from Managua: Meditations on Politics & Art (1990),,Sailing Home: A Journey through Time, Place & Memory (2001), Kingdom of Ten Thousand Things: An Impossible Journey from Kabul to Chiapas (2005; US edition, 2007), Drink the Bitter Root: A Writer’s Search for Justice and Redemption in Africa (2011; US edition, 2012). Teatro: Les Maudits Anglais (1984). Traduzione: I Didn’t Notice the Mountain Growing Dark (1986), poesie di Li Bai e Du Fu, tradotte con l’assistenza di George Liang. Opere di critica: Conrad’s Later Novels (1980), Out of the Ordinary: Politics, Poetry & Narrative (2009).

Gary Geddes (G) by Danielle Schaub

Gary Geddes (G) by Danielle Schaub

Antologie: 20th-Century Poetry & Poetics (1969, 1973, 1985, 1996, 2006), 15 Canadian Poets Times 3 (1971, 1977, 1988, 2001), Skookum Wawa: Writings of the Canadian Northwest (1975), Divided We Stand (1977), The Inner Ear (1983), Chinada: Memoirs of the Gang of Seven (1983), Vancouver: Soul of A City (1986), Compañeros: Writings about Latin America (1990), The Art of Short Fiction: An International Anthology (1993; edizione ridotta, 2000). Oltre alla stesura e all’editing di più di 35 libri di poesia, fiction, teatro, non-fiction, critica letteraria, traduzioni e antologie, Gary Geddes è stato attivo nel promuovere altri scrittori canadesi. È ideatore e direttore della collana di monografie critiche Studi di Letteratura Canadese (Copp Clark/ McGill-Queens). Ha recensito regolarmente poesia per il Globe&Mail, e ha dato avvio a diverse case editrici, fra cui Quadrant Editions e Cormorant Books, famosa per le sue pubblicazioni etniche e letterarie, inclusi Lives of the Saints di Nino Ricci, Lost Causes di José Leandro Urbina e When the World Burns: Modern Arabic Poetry in Translation di John Asfour. Le sue antologie più famose, 20th Century Poetry & Poetics e 15 Canadian Poets, entrambe per la Oxford, hanno avuto varie ristampe e un enorme impatto sull’insegnamento e la scrittura poetica in Canada. Geddes ha tenuto conferenze e presentato le sue opere in Cina, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Cile, Costa Rica, Nicaragua, Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Olanda, Belgio, Germania, Israele, e Palestina. Le sue opere sono state tradotte in Olandese, Cinese, Spagnolo, Portoghese, Italiano e Francese, trasmesse varie volte dalla CBN e da radio BBC, e rappresentate in teatro. I suoi premi nazionali e internazionali includono la E.J. Pratt Medal, il National Poetry Prize, l’Americas Best Book Award nel 1985, il Commonwealth Poetry Competition, il Writers’ Choice Award, National Magazine Gold Award, Poetry Book Society Recommendation, UK, l’Archibald Lampman Prize (twice), il Gabriela Mistral Prize in 1996. I suoi archivi sono stati acquistati e collocati alla National Library, Ottawa. Gary Geddes vive a French Beach, Vancouver Island. Il suo “ritorno” in British Columbia nel 1998 è stato celebrato nel suo floating memoir , libro non-fiction dal titolo Sailing Home: A Journey Through Time, Place and Memory (Harper Collins, 2001), bestseller in tutto il Canada. Altri libri sulla Columbia Britannica sono: Rivers Inlet (1972), Skookum Wawa: Writings of the Canadian Northwest (1975) e Vancouver: Soul of A City (1986).

 

jeff koons Balloons dog rosso

jeff koons Balloons dog rosso – Forgive me, I did not /
mean this to be my final / offering.

Letter of the Master of Horse

I was signed
on the King’s authority
as master of horse.
Three days
(I remember
quite clearly)
three days after we parted.
I did not really believe it,
it seemed so much the unrolling
of an incredible dream.

*

Bright plumes, scarlet tunics,
glint of sunlight on armour.
Fifty of the King’s best horses,
strong, high-spirited, rearing
to the blast of trumpets,
galloping
down the long avenida
to the waiting ships.
And me, your gangling brother,
permitted to ride with cavalry.

*

Laughter,
children singing
in the market, women
dancing, throwing flowers,
the whole street covered
with flowers.
In the plaza del sol
a blind beggar kissed my eyes.
I hadn’t expected the softness
of his fingers
moving upon my face.

*

A bad beginning.
The animals knew, hesitated
at the ramps, backed off,
finally had to be blindfolded
and beaten aboard.

Sailors grumbled for days
as if we had brought on board
a cargo of women.

*

But the sea smiled.
Smiled as we passed
through the world’s gate,
smiled as we lost our escort
of gulls. I have seen
such smiles on faces of whores
in Barcelona.

*

For months now
an unwelcome guest
in my own body.
I squat by the fire
in a silence broken only
by the tireless grinding
of insects.
I have taken
to drawing your face
in the brown earth
at my feet
(The ears are
never quite right).

*

You are waving,
waving. Your
tears are a river
that swells, rushes beside me.

I lie for days
in a sea drier than the desert
of the Moors
but your tears are lost,
sucked
into the parched throat of the sky.

*

I am watched daily.
The ship’s carpenter is at work
nearby, within the stockade,
fashioning a harness for me
a wooden collar. He is a fool
who takes no pride in his work,
yet the chips lie about his feet
beautiful as yellow petals.

*

Days melt
in the hot sun, flow
together. An order is given
to jettison the horses,
it sweeps like a breeze
over parched black faces.

*

I am not consulted, though
Ortega comes to me later
when it is over and says:
God knows, there are men
I’d have worried less to lose. Continua a leggere

7 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia americana

POESIA INEDITA di Giuseppina Di Leo “Il peccato originale, di Albrecht Dürer” con un Appunto dell’Autrice SUL TEMA POESIE SULL’UTOPIA O NON-LUOGO

 Giuseppina Di Leo. Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959, sono laureata in Lettere; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Mie poesie, un racconto e interventi di critica letteraria sono ospitati su libri e riviste (Proa Italia, Poeti e Poesia, Limina Mentis Editore, Incroci), nonché su blog e siti dedicati alla poesia.

Albrecht Durer_Adam_and_Eve

Albrecht Durer_Adam_and_Eve

Caro Giorgio,

questa mia ispirata al dipinto Il peccato originale, di  Albrecht Dürer. In realtà sarebbero tre poesie, ma preferisco considerarne una unica.

Noterai sicuramente che in quella che segue alla prima ci sono alcuni versi, leggermente modificati, riprendono alcuni della precedente. La ragione di questa ‘ripetizione’ nasce un po’ per caso quando, nel cercare di ‘sistemare’ meglio alcuni passaggi, inizialmente forse troppo ridondanti, alla fine mi sono accorta di aver scritto due poesie che proponevano due momenti e aspetti differenti di una stessa idea.

Se dovessi descrivere come sia nata questa poesia davvero non saprei come dire. Ricordo di essere stata attratta inizialmente, ma come spettatrice piuttosto passiva, dall’intrico delle linee del dipinto, che stavo osservando per il solo gusto di osservare. Ma più mettevo a fuoco e più risaltavano agli occhi alcune ‘incongruenze’ nelle forme, cosa che mi ha preoccupata non poco (come fa a criticare Dürer una assolutamente a digiuno dell’arte come me?). Ora, indipendentemente da questo, la cosa forse importante da dire è che la curiosità, venuta in crescendo, mi ha sollecitata non solo a leggere la storia del pittore tedesco, quanto a porre a fuoco una riflessione su ciò che inizialmente avevo preso ad osservare  in maniera del tutto casuale.

Alcune volte la poesia nasce così.

(Giuseppina Di Leo 6 dicembre 2014)

Albrecht Dürer particolare

Albrecht Dürer particolare

Commento di Giorgio Linguaglossa

Ut pictura poesis

Noi sappiamo che nel discorso poetico del tardo Novecento sono venuti a cadere i grandi racconti della decadenza come anche i piccoli racconti dell’io solitario che accudisce la reificazione del discorso poetico ad uso dell’io. La «derealizzazione» che ha colpito gran parte della poesia contemporanea fa sì che i contenuti di verità siano tra di loro indistinguibili in quanto contigui alla esperienze del valore di scambio, alle esperienze virtuali, a quelle immaginarie, a quelle ad alto tasso di probabilità statistica e stocastica che hanno una altissima percentuale di accadimento e di inveramento. La «derealizzazione» del mondo attecchisce anche alla forma-poesia: tendono a scomparire i confini tra i generi e, all’interno del genere, la forma-poesia tende a perdere i connotati di riconoscibilità.

La poesia di Giuseppina Di Leo prende atto della rottamazione dei grandi racconti. Poetare dall”immagine di Durer è il tentativo di ripartire dal significato di una immagine come effetto di superficie (ed effetto di lontananza), cioè qualcosa che, proprio perché effetto, non appartiene a ciò che è originario (l’essenza, la coscienza), e che, non situandosi né all’altezza dell’Origine, né nella profondità della Coscienza, si presenta come pezzo di «superficie», come appartenente al reale subliminale. Non bisogna con ciò intendere (né vorrei darlo ad intendere) che il senso sia qualcosa di diverso dal significato o che esso sia un «effetto» come se esso fosse un segno o un sintomo o un crittogramma di qualcos’altro (quel qualcos’altro del simbolico che ha contraddistinto la civiltà del simbolismo in Europa). Né bisogna intendere la stabilità del significato come qualcosa, appunto, di «stabile». (Infatti, mi chiedo, può esistere qualcosa di «stabile» all’interno della fluidificazione universale?). Ciò di cui il significato «è», lo è in quanto senso, sensato, ciò che appartiene al sensorio (e che gira e rigira intorno all’oggetto); possiamo dire quindi che il senso abita il significato?

Adamo ed Eva siamo noi, gli equivalenti dei quasi-morti, immersi gli uni e gli altri in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito (dello scambio simbolico), essi sì che corrispondono allo scambio economico-monetario come le pagine di un medesimo foglio bianco che attende la scrittura. Come la moneta anche la parola vive ed è reale soltanto nello scambio simbolico. L’imagine di Durer si presta alla interrogazione indiretta della poesia di Giuseppina Di Leo. Là dove c’è un ordo rerum c’è anche un ordo verborum.

«Effetto di superficie» è, secondo Deleuze, sia il senso che il non-senso. Per Deleuze il senso non è una totalità organica perduta, o da edificarsi (come utopia) ma è un evento sempre individuato, singolare, costitutivamente in forma di frammento (in rovina), ed è il prodotto di una assenza costituita (non originaria) auto-dislocantesi. È sempre una assenza di Fondamento che produce il senso, ed è futile stare oggi a registrare con malinconia la fine dei Fondamenti o la fine del Fondamento dell’«io» come fa la poesia a pendio elegiaco o la poesia che si aggrappa agli oggetti come un naufrago al salvagente, per il semplice fatto che non c’è alcun salvagente a portata dello «Spirito», non c’è nessuna utopia che ci riscatta dal «quotidiano» o dal viaggio turistico (la transumanza della odierna poesia da turismo elegiaco che si fa in camera da letto o in camera da pranzo, tra un caffè, un aperitivo e un chinotto).

La poesia di Giuseppina Di Leo non sfugge a questa problematica.
L’assenza, il frammento, l’interruzione, la singolarità scissa e alienata sono non le cause dell’estinguersi del senso, ma, al contrario, del suo sorgere. Il non-senso è mancanza di significato, il dramma di una coscienza infelice? Forse sì, forse no, oggi anche la «coscienza infelice» è una questione di superficie (una utopia della superficie). Direi una questione di «posizione» dell’«io».

Oggi, anche la poesia contemporanea parla della frammentazione dei grandi racconti, parla dell’effetto di deriva, come anche della scomparsa del pathos dell’autenticità; il quasi-senso è oggi sempre più diffuso nella migliore poesia contemporanea per l’aura di aleatorietà e di leggerezza che esso consente; non è un caso che la metafora interrotta o la quasi-metafora siano così diffuse. Enunciati di derivazione prosastica sono i depositari del «senso»; forse soltanto una indagine razionale e prosastica può indicarci la piega nascosta del reale.

*

Guardo il dipinto “Il peccato originale”
e penso che qualcosa si è rotto già nell’Eden.
Dürer capovolge il fine della vita
in un’armonia precaria ne restituisce il senso.
Nell’immagine di Adamo l’equilibrio è in bilico
condizione privilegiata dell’abisso.
C’è qualcosa al di là della posa
qualcosa che non convince, in cui
la nostalgia appare nella memoria
e in meno di un attimo il ricordo la scalfisce.
A confronto del busto esili sembrano le braccia.
Un movimento imprime al corpo una staticità ambigua
come a separare pensiero e azione
quasi fosse giunto al fianco di Eva dopo una corsa
quasi avesse assunto perfetta coscienza dell’errore.

E nessuna parola e nessuna carezza.
Solo un passo malcerto tradisce il suo inganno.

I due progenitori sono circondati dagli animali:
una lince dorme, un topolino sbuca fuori
dal piede destro di Adamo, di qua un caprone
passeggia mollemente dietro un albero
di là un bue resta sdraiato sul terreno.

In quanto essere dotato di intelligenza
e di movimento, l’uomo ha il dovere di proteggere
l’equilibrio della vita
le altre specie viventi, animali delle profondità
piante rampicanti e sassi inclusi.

Perfino un pappagallo loda il suo creatore
che lo dipinge in posa sul ramoscello portato da Adamo.
Un camoscio lo si scorge sullo sfondo
in bilico sulla cima di un’altura.
E naturalmente c’è il serpente,
dal quale Eva accetta l’offerta del pomo.

Da quel momento come voci straniere
scendiamo soli sulla strada del mondo
nudi nell’aria fredda, fin qui.

(6 dicembre 2014)

giuseppina di leo

giuseppina di leo

*
Qualcosa si è rotto già nell’Eden
la condizione umana
ha preso il sopravvento

l’equilibrio appare in bilico
premessa privilegiata dell’abisso
separa pensiero e azione

e nessuna parola, nessuna carezza
solo un passo malcerto tradisce l’uomo
l’inganno del quale non sappiamo
lascia intuire
solo alla fine sapremo le conseguenze.

Diventeremo così teneri con la morte
mentre noialtri ancora in un’istanza metafisica
continueremo a dipingerla viva con ali bianche.

*
Alle volte siamo così teneri con la morte
la dipingiamo viva con ali bianche
nei segni, nessun efebo mostra eguali.

Lei nell’azione ha tradito
il pensiero, Lui, cosciente.

La condizione umana trova ostacoli
all’equilibrio nell’attività.

*
Dicevo del camoscio: non si sa
se riuscirà a reggere l’incerto equilibrio
oppure se egli stesso impatterà nella caduta.
Un camoscio o caprone, che dir si voglia
regge l’intera rappresentazione. Uomini capra
sulla terra ferma, salvati per miracolo
da un’idea di fondo.

(leggendo Simone Weil e guardando
il dipinto)

49 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

La lampada perduta. PERCORSI DELLA POESIA ITALIANA DAL 1945 AD OGGI, di Marco Onofrio  – Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana, 1945-2010 di Giorgio Linguaglossa

Not Vital, 700 Snowballs

Not Vital, 700 Snowballs

 Scrive Corrado Alvaro, in un tratto del romanzo L’età breve (1946): «Il poeta non capisce quello che dice ma dice prima di capire, e quella è la verità». Appartiene in effetti alle profondità millenarie del canone occidentale il topos del poeta cieco e veggente, e il concetto di numinosità della parola (luminosa e illuminante, sia pure tenebrosa). La parola, quindi, come lampada, come fiaccola di costruzione e civiltà. C’è un presupposto di retroterra (filosofico e linguistico) che presiede allo sviluppo della poesia italiana del ‘900: la svalutazione e, poi, la perdita del registro profetico-sapienziale. Viene smarrito lo statuto “alto” di credibilità e sensibilità che la rappresentava su un piano di consistenza e riconoscibilità dei valori, dei contenuti, degli stili. C’era un terreno comune su cui confrontarsi, appunto un “canone”. Adorno nel 1966 dichiara addirittura il luogo a non procedere della poesia: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». La poesia non è più possibile, se non – aggiunge Paul Celan – attraverso un “linguaggio spezzato” testimone della scissione metafisica prodotta dal male assoluto (gli eccidi del ‘900).

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poeticoViene meno, insomma, il “sistema delle evidenze”: in futuro stenteranno a ricostruire la nostra epoca perché noi stessi non abbiamo più un “linguaggio comune”. Che cosa accade in poesia dopo il ’45? E, soprattutto: dopo gli anni ’60? Per orientarsi può essere utile il volume (Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana, 1945-2010, EdiLet, 2011, pp. 412, Euro 18) con cui Giorgio Linguaglossa affronta e tenta di arginare la complessità dei problemi sollevati dal tema in oggetto, inquadrandoli nell’ottica della storia civile, per cui l’analisi e la sintesi della società letteraria italiana vengono collocate entro uno scenario più vasto, mosso, arioso, e il saggio – nutritissimo, sfaccettato – di storia e critica letteraria si legge, al contempo, come un romanzo appassionante sul nostro Paese, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. C’è, ovviamente, la provvisorietà dei discorsi tipica del critico militante. Ed è un tentativo di ricostruzione tanto più difficile e delicato, dal momento che (insieme con il terreno comune di confronto) sembrano venuti meno i criteri di storicizzazione della letteratura. In base a quali criteri, appunto, storicizzare la contemporaneità? Qual è la “linea egemonica” del secondo ‘900?


giorgio linguaglossa_Dopo il NovecentoLinguaglossa sottolinea anzitutto che nulla è neutro: le scelte rivelano rapporti di potere
; ma soprattutto le esclusioni (anche eccellenti) degli isolati, dei periferici, dei non integrabili (ad es. Flaiano, Ripellino, Lorenzo Calogero):

«(…) le istituzioni stilistiche egemoni del Novecento appaiono nudamente quali sono: involucri ideologico-stilistici, tralicci ideocratici che proteggono, sotto il loro tegumento, visioni del mondo conservatrici          (…) come mai poeti di tutto rispetto come Lorenzo Calogero, Alfredo De Palchi, Helle Busacca, Bartolo Cattafi, Franco Fortini, Angelo Maria Ripellino sono entrati così presto nel dimenticatoio? Quali sono le ragioni politico-estetiche che determinano amnesie così macroscopiche?» (Linguaglossa, op. cit, p. 11)

Ci si scontra qui con i problemi stessi – a livello di metodologia – della storicizzazione tout court. In che conto si tiene, storicizzando la poesia italiana del secondo ‘900, la dialettica fra quadro e cornice? Il rapporto fra centro e periferia? La differenza tra monumento e documento?  Ai “cadaveri eccellenti” accidentalmente o volutamente esclusi corrispondono infatti, a mo’ di contraltari, i “monumenti intoccabili” della storia istituzionale. In gioco c’è da sempre, come sempre, la presupposizione del “nome” acquisito. Il pregiudizio positivo o negativo. Sarebbe curioso procedere ad un esperimento: a chi darebbe la palma del valore letterario un critico letterario “ufficiale” (cioè sensibile ai rapporti di potere) se gli facessimo leggere un presunto inedito mediocre di autore celebre, e un inedito eccellente di autore sconosciuto? Posto che non la conoscesse, che cosa direbbe – lo stesso critico – dopo aver letto, ad esempio, questa “poesia”? Continua a leggere

34 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, filosofia, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

UNA POESIA INEDITA di Michele Arcangelo Firinu “L’isola che non c’è” SUL TEMA POESIE SULL’ISOLA DELL’UTOPIA O IL NON-LUOGO con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu è sardo di Santulussurgiu, nato nel 1945, e vive a Roma. Ha insegnato Lettere nella Scuola Media fino alla pensione. Nel 1974 ha collaborato con Bruno Corà alla realizzazione della gigantesca Mostra d’arte Contemporanea a Roma. Negli anni ’80, a Milano, è stato redattore del periodico letterario il bagordo. Negli stessi anni, con il gruppo Orfeo80, è stato tra i promotori di alcuni tra i primi laboratori di scrittura creativa in Italia. Come titolare della Oximoria (piccola casa editrice, estinta con il bagordo, che editava) ha curato due piccole collane di narrativa e poesia, tra le quali la collanina Taschino e ha collaborato all’uscita del catalogo antologico di poeti Centodue (’86). Ha prefato e ha curato l’editing di alcuni libri di narrativa della editrice Polistampa Pagliai di Firenze. Nella seconda metà degli anni ’90 ha presieduto a Roma l’associazione culturale CEPAA – Teatro del Centro. Ha organizzato e curato svariate attività culturali, convegni, mostre d’arte, concerti di musica classica ed operistica, rassegne teatrali, corsi di università popolare, conferenze, rassegne e letture pubbliche di letteratura. Nel 2008 a Santulussurgiu ha diretto A libro aperto, uno degli 8 festival letterari della Sardegna.

Ha pubblicato poesie su il bagordo, l’Avanti, Poiesis, il giornale nazionale COBAS dei Comitati di base della scuola e divulgato mediante letture in circoli, radio e su Internet. Un unico suo librino è dato alle stampe: Luminescenze, con sette disegni di Luigi Dragoni, il 174 della Collana dei Numeri, Editrice Signum d’arte diretta dal pittore Claudio Granaroli, michelearcangelo.firinu@fastwebnet.it

michele pierpaoli untitled

michele pierpaoli untitled

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Heidegger con la sua riflessione sull’«oblio dell’essere» ha avuto una influenza non positiva sulla poesia italiana del Novecento, ben pochi tra i poeti hanno letto le pagine di Essere e tempo. Il problema è un altro: la dismetria e la distassia che il Novecento ha lasciato in eredità alla poesia italiana: la positivizzazione, la sproblematizzazione dei linguaggi poetici novecenteschi, che sono sortiti fuori come funghi, come ingessati, febbricitanti, privatizzati, ionizzati da un massiccio bambardamento di talqualismo e di chatpoetry. Ci sono per fortuna numerose eccezioni: il grande vecchio Alfredo De Palchi, e poi Roberto Bertoldo, Luigi Manzi, Anna Ventura, Annamaria De Pietro e tanti altri che non posso nominare.

 C’è una «domanda fondamentale» che muove la poesia. È la domanda che interroga la Crisi. Che cos’è la Crisi? (vedi il mio commento alla poesia di Mauro Ferrari); direi che è la modalità con cui si manifesta dinanzi a noi la difficoltà di porre la «domanda fondamentale», quella domanda che consente di aprire il campo di indagine mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni. La poesia contemporanea è «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo», una superficie piatta, unidimensionale dove tutte le scritture poetiche si assomigliano, sono interscambiabili, non delimitano un «oggetto», sono orfane, prive di «tradizione», non hanno nulla dietro di sé e, davanti, si estende la pista di pattinaggio dell’«ignoto», sono delle zattere che vanno alla deriva delle correnti del mare dell’«ignoto», senza un progetto, una idea di poetica, una idea dell’oggetto da rappresentare.

 Nel mio ultimo libro di critica (Dopo il Novecento) ho chiamato questa situazione della poesia contemporanea italiana «La partenza degli argonauti» riferendomi alla mitica partenza degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. Leggendo la poesia contemporanea ho sempre la sensazione  di una partenza di massa verso il traguardo del successo e della visibilità. In questa analisi della poesia contemporanea ho sempre avuto la netta sensazione della scomparsa della «domanda fondamentale»: perché si scrive poesia, e per chi?; in assenza di questa domanda preliminare oggi si scrive poesia in base ad una pulsione corporale, ad un bisogno personale, ad un calcolo di visibilità, certo psicologicamente comprensibile, ma che non può dar luogo che a risultati irrilevanti. Spesso si ciarla di dimensione etica dell’estetica proprio da parte di chi insegue lo stesso obiettivo perseguito dalla razionalità del mercato e dell’etica monetaria: il successo e la visibilità. Si scrivono i libri di poesia come si scrivono i romanzi: si tende al successo, se non delle vendite almeno a quello della vetrina della visibilità.

Sì, la «domanda fondamentale» può anche scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli se qualcuno non la ripesca dal mare dell’oblio: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse?, e la poesia non è un prodotto delle Muse?; la poesia ha, secondo me, il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport o spot televisivo. Credo che questo inedito risalente agli anni Novanta di Michele Firinu risponda al quesito: è la cronistoria del suo rapporto con i figli e la vita nel linguaggio onirico della poesia.

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

L’isola che non c’è

Da queste altezze, su cui smeriglia il vento
e plana, tra le centauree horride, il grifone,
contemplo due pizzichi di sabbia,
ora nei piccoli pugni delle figlie,
che li disperdono
dove garrisce l’onda – frammezzo:
impalpabili ceneri della mia pira –
“Ecco – mi dico – saran duecento grani…
mille… duemila, ancora,
barbari gli anni della transizione…
e poi, felicemente:
l’uomo che si riverbera nel sole”.

Per voi, uomini di marzapane,
giunti al futuro come su una torta,
la barca dell’amore prende il vento,
carica di cornucopie,
pesca perle nel sole, e ride, gioca,
quando s’accuccia all’opra nella chiostra
dei chiari scogli,
avori e sogni
negli smeraldi mari
del quotidiano.

Morremo, ma senza mai tradire i nostri sogni,
fino ad un’ora nostra, azzurra, confidando
negli atomi che rimpastano elementi
ed energie fulgenti nelle luci
acquerellanti i varchi
delle altrui aurore.

Morremo, ma in vela verso il vostro
porto lontano,
inarresi agli squali ed ai violenti
Eoli corsari,
aguzzando i progetti ed i ricami
di faticose rotte,
come il vento che aggiusta
le barchane di sabbia
e aguglia nuove piste sui deserti.
Questo vi lasceremo, figli:
mappe, tesori
dei nostri sbagli.

Cerco di immaginarti,
e ti comparo,
uomo completo, fior di meraviglia,
con quel poco
di buono, in noi, che ti somiglia.
Ma ahi com’è lontana
cotesta spiaggia,
la tua città-campagna,
questo fraterno crogiolo variegato
di essenze, di pacati bisogni, e così pingue
di solerti adesioni all’allegrezza
del panificare.
Miserere di noi
che nei caini giorni, nelle città arruffate,
frusciavam tra gli orrori
a procacciarlo,
a prezzo delle gibbose vite,
il mal diviso, il male
accaparrato, e invelenito pane.

E cosa ne farai dei mondi
spirituali, libera luna,
quando infiocchetterai di raggi la verzura
che ne contorna e infiora le future
volumetrie civili, orgoniche:
e saran prismi, bomboniere invetriate
in cui la luce, liquida,
va sfaccettando
rapsodie per gli iridi, e tepori
sulle fraturnie.
E non avran più nulla che li spauri
se non qualch’eco, forse, attutita,
dalle nostre macerie,
questo raspare e guaiolare,
sommesso, dei nostri versi
nel nostro fango rabbuiato, con insistenza,
verso una fessura, verso una luce,
e fin oltre
l’ultimo rantolo.

Voi che rappezzerete strappi, nostri
su cieli ragguardevoli
e non avran buriane d’immaginari
e spaventevoli riciclature, mostri
dai ventri oscuri delle caverne
che ci covarono; e fummo
granaglie sbriciolate e sparse a inesistenze
che mai ci intesero, come non intendemmo
i fini, aurei, che c’intonavano
mantra in MS-DOS
e, da elevate antenne, BIP,
textures di nihil
sugli svociati echi ribattenti
a nitriti di nihil. Qui disperati,
e allegri, di pena in pena
rampicavamo al nuovo
lontanare di albeggio. E ritti,
sul crinale dei secoli,
una corale tremula intonammo,
a ciglio asciutto, e aperto,
sull’horror vacui.

(inedito, 1990)

5 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento

IL COMPLESSO DI NERONE DI SCRITTORI E PSEUDO-SCRITTORI secondo Aldo Onorati (1989)

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il gladiatore Er Batman

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il gladiatore Er Batman

Abbiamo scelto di riproporre questo articolo apparso su «Avvenire» nel giugno 1989, a firma di Aldo Onorati, perché più che mai attuale oggi in un momento di individualismo selvaggio degli scrittori, ciascuno impegnato a difendere e ampliare la propria posizione di visibilità e di potere.

Il più popolare degli imperatori romani, Nerone, conosciuto per le sue crudeltà e le sue stranezze (la patologica passione per i cavalli, la lussuria, la cupidigia), oltre che per l’incendio di Roma, fu dominato tutta la vita dalla megalomane convinzione di essere un grande artista, un cantante eccezionale. Il desiderio sfrenato di vincere ogni premio lo portava a partecipare a tutti i concorsi, con un impegno – e un ossequio al regolamento – che aumentano la contraddittorietà del personaggio.

Nerone

Nerone

Scrive Svetonio, in Vita dei Cesari:

Nerone era lui stesso che si proclamava vincitore: per questo era dappertutto, gareggiò anche come banditore. Perché non restasse da nessuna parte il ricordo e la traccia dei vincitori dei giochi sacri, ordinò di abbattere, trascinare con un uncino e gettare nelle latrine tutte le loro statue e i loro ritratti. D’altra parte è appena immaginabile con quanta ansia e con quanta emozione gareggiasse, quale gelosia provasse per gli avversari, quale timore mostrasse per i giudici. Si comportava nei confronti dei suoi avversari come se fossero stati in tutto e per tutto suoi pari, li spiava, tendeva loro agguati, segretamente li screditava, qualche volta li ricopriva di ingiurie se li incontrava, e, se erano molto bravi, cercava perfino di corromperli. Molti si guadagnavano la sua amicizia o si attiravano il suo odio, secondo che erano stati prodighi o avari di lodi”.

L’imperatore di Roma, il padrone del mondo, era afflitto da una mania di grandezza non pertinente al suo compito di governare l’impero più vasto dell’antichità. Sembra un bambino che vuole vincere a tutti i costi nei giochi fra coetanei, meschino denigratore del valore altrui (solo i grandi spiriti riconoscono l’altrui grandezza), intrigante, ricattatore, forte del suo potere per imporre le sue scarse doti di artista.

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

Roma la Grande Bellezza della Grande decadenza vigilantes, guardie private, odalische, optimati, spintrie

Nerone vive di fama propria, anche se livida, e per questo si presta ad essere un prototipo eccezionale di un difetto che dilaga specie oggi, e proprio nel mondo artistico (soprattutto nella letteratura). Pavese disse che ogni scrittore è una “primadonna”; la vanità è per molti la molla che porta a servire, in un campo in cui gli illusi hanno riempito da sempre le file degli aspiranti alla gloria cartacea. Malattia antichissima, testimoniata da Petronio, Orazio, Giovenale… Oggi si stampano più libri di quelli che si leggono. In un ambito in cui tutti sono concorrenti, in cui tutti scrivono e nessuno legge, rimane una possibilità: quella dei premi letterari. E proprio lì si ammira il complesso di Nerone: solo pochi autori, sempre quelli, vincono i premi, tutti i premi. Se Nerone non fosse stato imperatore, certamente non avrebbe potuto vincere tutte le gare. Questa verità lapalissiana l’hanno capita quelli che soffrono del suo complesso: la libidine del primeggiare, applicando anche l’aurea massima di Machiavelli secondo cui il fine giustifica i mezzi. E sì: il mondo della letteratura somiglia più a una bisca elettorale che a un’assise di spiriti magni. E la tecnica neroniana ha fatto scuola. Viene a proposito una citazione di La Rochefoucald: “Alcuni che godono della lode del mondo non hanno altro merito che i vizi utili alle relazioni sociali”.

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Puro generone romano. Produttori televisivi, pr, giornalisti (il figlio di Bruno Vespa), ninfette e soprattutto lei, la presidente Renata Polverini e il console Er Batman

Senza tirare in ballo i personaggi che in ogni epoca hanno usurpato la gloria a chi veramente la meritava, e senza commettere la leggerezza di affermare che il buon tempo andato era migliore del presente, è certo però che gli errori di giudizio dei contemporanei non sono quasi mai in buona fede. Chi premia sa di premiare l’autore, spesso la grande editrice, non l’opera. Da questo busillis parte una buona percentuale della rovina del mondo letterario. Ogni scrittore aspirante alla fama deve fare presenzialismo ad oltranza, deve puntare a fare di Sé un personaggio, ad accaparrarsi leve di comando, a entrare in traffici mondani, a ragionare secondo la logica delle camarille, rafforzare amicizie potenti, entrare in un clima, mettersi con le carte in regola per un do ut des mafioso (a meno che la Fortuna non lo scelga d’improvviso per trarlo a viva forza sul suo cocchio indipendentemente da meriti sia letterari sia di intrallazzo). Ma il tempo usato a clientelizzare la scalata letteraria viene tolto a quello che Manzoni usò per sciacquare i panni in Arno, a quello che Ariosto usò per rivedere il suo capolavoro, alla meditazione insomma, allo studio (Verdi affermava che “il genio è sgobbare”), al sacrificio. Tanti acclamati geni della carta potrebbero vendere un frigorifero al Polo Nord e un termosifone nel deserto; e allora perché non usano le loro indiscutibili capacità di arrivare magari dandosi alla politica e a qualche altra branca dalla quale non dipendano strettamente le sorti culturali, artistiche, etiche di un popolo? Perché concretare il complesso di Nerone in un campo così serio come l’arte? L’arte non è vincere un premio e vendere centomila copie di un libro, ma è funzione vitale, catartica, storica. Va bene che oggi è il tempo dei presentatori Tv e chi non diventa un barzellettista da spettacolo non vende una copia… ma ci sono valori che non si obliterano e non si declassano senza pagare un prezzo salato che si chiama inciviltà e regresso degli spiriti.

 gladiatores de Roma

gladiatores de Roma

Vai un po’ a vedere, poi, che i complessati alla Nerone sono i primi a essere dimenticati appena perdono il potere col quale potevano fare ricatti, o appena la “giusta di glorie dispensiera”, cioè la morte, li cancella definitivamente. A che è servita, allora, tutta quella nevrosi di imbrogli e di soprusi, di coinvolgimenti nel falso giudizio? A loro nulla, perché la fama non sopravvive un attimo alla loro illusione. Però ha ritardato il vero riconoscimento a chi ha puntato la fatica più all’opera che al successo effimero. Ma a questo punto mi viene in aiuto il grande Shopenhauer, con una riflessione sempre valida:

Nerone e Poppea 1983 Erotico Piotre Stanislas, Françoise Blanchard Stanislas Marie Noel Arnault Bruno Mattei

Nerone e Poppea 1983 Erotico Piotre Stanislas, Françoise Blanchard Stanislas Marie Noel Arnault Bruno Mattei

Chi merita la gloria, sia pure senza raggiungerla, possiede la cosa principale e ciò che gli manca è una cosa della quale può consolarsi con quella. Se invece l’ammirazione in se stessa fosse la cosa principale, la cosa ammirata non ne sarebbe degna. E ciò avviene realmente nel caso della gloria falsa, vale a dire immeritata. Di questa il suo possessore deve saziarsi, senza possedere in realtà la cosa di cui essa dovrebbe essere il sintomo, il semplice riflesso. Ma persino questa gloria gli viene amareggiata quando, nonostante ogni illusione che deriva dall’amor proprio, egli si sente le vertigini sui quella vetta che non è fatta per lui; la paura lo prende di essere smascherato e giustamente umiliato, specie quando legge sulla fronte dei più savi già il giudizio dei posteri. Egli assomiglia dunque al possidente in virtù di un testamento falso… Perciò anche il più ampio consenso dei contemporanei” – continua Shopenhauer (che solo in tarda vecchiaia ebbe i riconoscimenti meritati) – “avrà ben poco valore pei cervelli pensanti… Si direbbe forse lusingato un virtuoso agli applausi fragorosi del suo pubblico, se sapesse che, tranne uno o due, tutti i presenti sono sordi e per nascondersi vicendevolmente il loro difetto applaudono con foga appena vedono in movimento le mani di uno? Che dire poi se vi si aggiungesse la notizia che quei primi ad applaudire si sono lasciati corrompere per procurare gli applausi più forti al violinista più miserabile? Così si spiega perché la gloria presso i contemporanei subisca tanto raramente la metamorfosi in fama presso i posteri”. E D’Alambert, nella descrizione del tempio della gloria, scrive: “L’interno è tutto abitato da morti che in vita non c’erano dentro, e da alcuni viventi che quasi sempre, quando muoiono, vengono buttati fuori”.

aldo onoratiAldo Onorati, nato ad Albano di Roma nel 1939 è scrittore, dantista, storico della letteratura e autore di versi. Ha insegnato Lettere negli istituti superiori e ha condotto corsi di specializzazione in «Tecnica del verso». Ha pubblicato quasi tutte le sue opere con Armando editore, presso cui ha lavorato per un certo periodo come curatore dell’Ufficio stampa. È stato direttore editoriale  e di collane di critica. Giornalista, ha collaborato per decenni ad «Avvenire», «L’Osservatore Romano», «Il popolo», «Giornale d’Italia», «Specchio economico», «Giornale di Brescia» etc., ed anche alla RAI-TV, III programma, «Dipartimento scuola educazione». Ha diretto numerosi organi di stampa, fra cui «Terza Pagina», «Intervite oggi» e «Quaderni di filologia e critica».

Fra i suoi libri di narrativa più conosciuti, Gli ultimi sono gli ultimi che fu scoperto da Carlo Levi e  tradotto in Coreano, Esperanto, Francese etc.; Nel Frammento la vita, VI edizione; La sagra degli ominidi (VII edizione), che Domenico Rea ha prefato in IV ed., Lettera al padre (VI ediz.), il recente Le tentazioni di frate Amore, già in II ristampa con Tracce di Pescara e Il sesso e la vita con Edilet, prefato da Marco Onofrio, il quale ha riproposto Onorati come poeta in un’originalissima opera da lui scritta e divulgata (Il mistero e la clessidra, Edilet).

Le sue liriche sono raccolte in Tutte le poesie, Anemone Purpurea 2005. Fra i saggi critici, spicca Dante e l’omosessualità, in cui Onorati rivede l’atteggiamento della critica riguardo il giudizio dell’Alighieri sugli omosessuali; inoltre, Il crepuscolo del Novecento, I cinque pilastri della stoltezza (Armando 2003), Dante, Petrarca, Boccaccio e Boiardo ed Ariosto  e molti altri. Importante è la supervisione e il saggio critico di post-fazione che Onorati ha fatto al libro di Louis La Favia sulla scoperta di un inedito di Dante: «Chanzona ddante» (Longo, Ravenna 2012).

32 commenti

Archiviato in il romanzo, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Mauro Ferrari POEMA INEDITO  “Visioni dell’uragano” SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

magritte Un an avant sa mort, il composa «Du vert et du blanc », qui représente une vision apocalyptique

 Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) è direttore editoriale di Puntoacapo Editrice, fondata con Cristina Daglio. Ha pubblicato le raccolte poetiche: Forme (Genesi, Torino 1989); Al fondo delle cose (Novi 1996); Nel crescere del tempo (con l’artista valdostano Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2003); Il bene della vista (Novi 2006, che raccoglie anche la precedente plaquette). Quest’ultima raccolta è stata recensita da critici come Giorgio Luzzi, Giancarlo Pontiggia, Umberto Fiori, Fabio Pusterla, Luigi Fontanella, Alberto Toni, Tiziano Salari e molti altri. Buona parte dei suoi racconti sono ora in Creature del buio e del silenzio (puntoacapo 2012).

Ha inoltre pubblicato una serie di saggi di poetica: Poesia come gesto. Appunti di poetica. Novi 1999; i suoi saggi e riflessioni, compreso il libro precedente, sono ora raccolti in Civiltà della poesia (puntoacapo, Novi 2008).

Numerose le sue partecipazioni ad antologie e sillogi, tra cui l’antologia fiamminga della poesia italiana contemporanea Het stuifmeel van de sterren (Il polline delle stelle, a cura di Gemain Droogenbroodt, Point, Ninove 2000), la monografia sulla poesia italiana contemporanea (n. 110) della rivista francese Po&sie, e in varie rassegne antologiche o critiche tra cui: Voci di Liguria (Manni, Lecce 2007); Vicino alle nubi sulla montagna crollata (a cura di L. Ariano and E. Cerquiglini, Campanotto, 2008); Luca Benassi, Rivi strozzati (Lepisma, Roma 2010); Alfredo Rienzi, Del qui e dell’altrove nella poesia italiana moderna e contemporanea (Ed. Dell’Orso, Alessandria 2011); L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di Ninnj di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo (Kairos, Napoli 2013); Vuela alta palabra. Sesenta años de poesia in Italia de la neoavanguardia a nuestros días, Instituto Caro y Cuerbo, Bogotá, Colombia, a  cura di Emilio Coco (2014).

Come critico ha collaborato all’Annuario di poesia Castelvecchi e si è interessato con saggi, recensioni e interventi a molti poeti contemporanei, con particolare attenzione alle ultime generazioni. In collaborazione con Alberto Cappi ha curato L’occhio e il cuore. Poeti degli anni 90, antologia dedicata alla poesia delle ultime generazioni (Sometti, Mantova 2000); ha collaborato alla silloge critica Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (Bocca, Milano 2004); ha curato la sezione inglese dell’antologia della poesia europea La voce che ci parla (Bottazzi, Suzzara 2005). Attualmente dirige, con L. Benassi, M. Cohen, G. Fantato, G. Pontiggia e S. Ritrovato, l’Almanacco Punto della Poesia Italiana, edito da puntoacapo.

Mauro Ferrari

Mauro Ferrari

È stato Presidente della Giuria nel Premio Città di Tortona (I edizione 2008). È membro della Giuria del Premio letterario “L’astrolabio” (Pisa) e del “Guido Gozzano” di Terzo (AL). È Direttore culturale della Biennale di Poesia di Alessandria.

È stato fino al 2007 direttore della rivista letteraria La clessidra, da lui fondata nel 1995, e redattore della rivista milanese di poesia e filosofia margo e de L’altra Europa (Costantino Marco editore, Cosenza). Nel settore dell’anglistica si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e diversi altri poeti contemporanei. Suoi testi e interventi sono apparsi sulle maggiori riviste letterarie, fra cui Altri termini, Atelier, clanDestino, Coscienza storica, Erba d’Arno, Esperienze letterarie, Galleria, Graphie, Hebenon, Hortus, Il Cobold, Il lettore di provincia, La Rocca Poesia, La Mosca di Milano, Poeti e poesia, Quaderno, Steve, Testo a fronte, Testuale, Versodove, Zeta e, all’estero, Y.I.P. – Yale Italian Poetry, Yale Poetry Review, Serta, Gradiva, Meja Ponte (Brasile), Po&sie (Francia), Cuadernos del matematico e Empireuma (Spagna, trad. di Emilio Coco).

diabolik-eva-kant

diabolik-eva-kant

 

(coro degli umani)

C’è stato un tuono, senza origine come non c’era colpa.
La terra ha vibrato nel vento, ed ora le macerie
tutto intorno. Le fogne intasate. Il puzzo di marcio.

 

1

«Com’era quell’attimo,
il millennio mentale di orrore?
questo interessa al pubblico;
mentre gli occhi erano sferzati dal vento
e i corpi spazzati via:
ha parole per dirlo?»
«Non era nel tempo, quel vento, o forse
noi galleggiavamo in una bolla
già scritta, come l’uomo
che si rade a memoria
senza tagliarsi (e forse questo
è il dono vero, vedersi una volta
allo specchio nell’affanno che è la vita.)
E le parole, le parole lasciamole stare.»
2

«Nulla deforma il mio silenzio e il silenzio
che mi attornia; sono la voce muta del tempo
sottoterra, l’urlo di una geologia incessante.
Il cielo non è mio, né suppongo vostro.
I miei templi sono le argille smottate
e le rocce metamorfiche, mia cura
il buio e le sue pressioni nel tempo profondo.
Questo mi assorbe totalmente.
Non ho annotato nulla di ciò che dite.»

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

 

 

 

 

 

 

 

3

«Cosa ha lasciato l’uragano? Muri crollati,
culle abbandonate e l’aria sporca.
Le fosse colme di detriti, più pieni i cimiteri.
L’ultima pioggia ha ripulito l’aria
illimpidendo i pozzi.
Scrutiamo il loro fondo – nostro futuro.»
4

«Andate in pace, voi che migrate sulla terra
e facilmente il vento annichila: perché bramate
una forma, una radice, una salda liana.
Io sono il frattale del cielo e scorro
sulle vostre dimensioni finite:
dall’alto vidi banale confusione
di colori e suoni, o poco di più.
Questo dichiaro fermamente,
e poi la vostra Storia ci ricami pure.»
5

«Un attimo prima i cani hanno ululato
e gli uccelli si sono alzati in volo. Un
attimo, e solo noi si stava
soli nel vento. Come un barattolo vuoto.»

 Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50x100-vernice-effetto-pennellate

Lichtenstein-Quadro-stampa-su-tela-Telaio-50×100-vernice-effetto-pennellate

 

 

 

 

 

 

 

6

«Le colline hanno danzato
prima dell’uragano e il vento
ha scompigliato l’erba già smottata.
I già malati hanno trasalito. Le pecore
hanno ripreso a brucare, tra le urla.»

7

Ma quelle mani, le mani e gli occhi
che hanno veduto o solo immaginato,
scavato; e sporte sull’abisso
in cerca, hanno annaspato
senza cercare risposte,
annaspando e scavando.
Il vento trasportava le urla e il pianto,
e dal vento un ululato. I letti
vuoti, le porte scardinate, ombre
che fuggivano – era il momento
dei lupi, delle ali nere e radenti.

8

«Si devono calcolare i costi
con precisione. E questo
– indica un braccio che spunta dalle macerie –
è indecidibile, un costo e un risparmio:
introiti svaniti, ma costi azzerati;
chi siamo noi per dire cosa volesse,
che meritasse? Insomma,
senza ipocrisie,
saremmo
quasi in pari.»

helmut newton Jerry Hall

helmut newton Jerry Hall

 

 

 

 

 

 

 

 

9

«Squarciati il cielo e la terra, due baratri:
mai più di allora ci siamo sentiti
preda di entrambi, a entrambi estranei.»

10

«Se il cielo ti sembrava già un miracolo di male
ancora non avevi visto questo: non
la tempesta che mangiava terra e cielo,
ma la pace infame, un dopo che non ha fine
come se tutto ricominciasse all’infinito
mentre le pozze di sangue ristagnano.
Come se il vento attendesse
dietro le nuvole per colpire
un principe che ha perso il padre.»

bello varietà

 

 

 

 

 

 

 

11

Non avremmo sentito quel lezzo
se non per l’uragano; già tra noi,
nei polmoni e nei sorrisi come
qualcosa di cui tenere conto,
ma inavvertitamente, facendo una tara
mentale, una rotta di ritorno
che i venti e le onde travisano.

12

Uno di quelli rosi dalle certezze, factotum
del bene, alzò gli occhi, bagnò l’indice e valutò
la direzione del vento, piegando gli occhi a terra
e continuando ad avanzare. Nel passo
accorto benché incerto non s’avvide
del mondo che con lui se ne veniva via.

*
(coro degli umani)

A un cielo di povertà e naufragi attesi
l’uragano ha dato l’acqua –
uno scorrere e un precipitare.
Brancoliamo rotte ignote.

5 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

QUATTRO POESIE EDITE E INEDITE di Annamaria De Pietro SUL TEMA DELL’ISOLA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

 (Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)

Giuseppe Pedota, L'universo acronico, ani Novanta

Giuseppe Pedota, L’universo acronico, ani Novanta

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

annamaria de pietro

annamaria de pietro

Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale  paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012).

 

La discesa

Alla prima transenna la supplente
chiese il lasciapassare. Non lo avevo.
Tentai l’imbroglio di una carta bianca.
Lei si volse di fianco, e fu evidente
che era quella la carta, che potevo.
Cosí passai alla terra di nessuno
esca di una transenna, che si allarga
a coltivi selvaggi e a gigli d’acqua
fra prode asciutte che palude sfianca.
E tutto il verde sfinito vedevo,
e gli specchi dei serpi a umido fumo
doppi altamente in fermissima targa –
e il passare tardante di un canale
di costa dal fogliame in trita placca
riversa da una patria naturale –
e il filare avversario alla corrente
di alti pioppi seguaci che urge e ranca
per l’acqua lenta in celeste rilievo.

Alla seconda transenna la spia
finse di non conoscermi. Io sapevo
che era un trucco segreto, un gioco d’anca
in danza di curiale prosodia,
e a quella curia io fui sagace allievo
al passo per la terra di qualcuno.
Entrai passando una feroce marga
che pascolavano pecora e vacca,
che inverdivano piante a ricca branca
e vigne vaste d’impianto longevo,
e a cinque petali ventava il pruno.
Era dolce passare quella larga
fascia di pausa da ogni avaro male,
dove la mela e la mora di macchia
diversamente di un giardino uguale
erano sconfinata sagrestia.
E me ne andai per quella terra franca
finché la notte impose il suo prelievo.

Alla terza transenna il bracconiere
mi chiese caccia, ma io non volevo
perdere penna e sangue di vivanda,
unico patrimonio, unico avere
secco dal tempo che fuggí leggero,
per quella terra dubbia di digiuno,
per quella notte non decisa parca.
Fitta al fucile gli mostrai la tacca
che la mia sola preda segna e vanta,
e gli bastò per negare il diniego.
La terra era un tristissimo raduno
di baracche sottili come carta,
sole a ridosso di croci di scale,
pallide come neve e come biacca –
e luce non passava davanzale,
e voce non batteva le ringhiere.
Dentro la notte filava una stanca
bava di vento un labile sentiero.

Alla quarta transenna quattro cani
molossi rigiravano il severo
giro delle catene per la lanca
umida di confine. Le mie mani
sguardo quadruplice di acuto spiedo
guardava, e dalle lingue scolo bruno
gocciava fame come il cuore squarta.
Non avevo che l’offa di una bacca,
e in guerra l’uno e l’altro latra e scianca,
di me perduta rabbia di pensiero.
La terra era le strade a cerchio, e uno
era il centro del centro per cui varca
unica strada di spina radiale,
ma non di qua, ma non di là si stacca
dalla circonferenza equatoriale.
Al mezzo sta la casa dei divani
e del grammofono acceso che canta
un canto che potrebbe essere vero.

(inedito)

 

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

La landa

La landa è dove la lancia degli uccelli
che passano da un dove a un altro dove
non lascia ombra né traccia, perché assorbe
traccia e ombra nebbiosa erba di torbe,
perché la stinge via l’acqua che piove –
e se ne vanno via passando quelli
dal cielo bianco inospitale come
se ne va via la rosa dalla neve.
Pendono ghiacci in fuga alle cimase
dall’una all’altra paratia di case
e l’acqua se ne va per strada breve
dove nessuno ha notizia del tuo nome.

(da Magdeburgo in Ratisbona, Milanocosa Edizioni, Trezzano S/N 2012)

.
Il piano inclinato

Sposta il viaggio il luogo il piombo che pesa
fluttuando all’andare, cucendo i segmenti
inattingibili fino all’attimo segnato.
Volgi lo sguardo non sapendo non credendo
come chi cerca accordo e tregua da intesa
e una borsa pesante porti a lato.
Intorno, molte le vedute sorgenti
dall’estremo fondale dello specchio
posto ovunque sul cristallo spiegato.
E fai fatica non riconoscendo
dentro le direzioni sicurezza d’intenti,
mete lontane parlanti all’orecchio
con chiari richiami, con segnali evidenti.
Tu sei nel centro, da qui ogni parte è distesa
oltre i possibili passi, al confine inviolato
che raccoglie dalle carte e dalle scritte e dagli eventi
una sola parola, e due distanti, ciascuna l’altra escludendo.
Forse un mondo altro diversamente disegnato
osa una curva amplissima, tenta e aggira un crescendo –
intanto, qui, la linea impone al moto l’orrendo
unico gioco che alterna e scambia la sorpresa
di un unico colore e del suo fermo duplicato.
E tu non sai se questo piano inclinato
sia una salita o una discesa.

(da Dubbi a Flora, Edizioni La Copia, Siena 2000)

 

michele pierpaoli untitled

michele pierpaoli untitled

L’imboscata

Ora non freme fronda. È calmo il luogo.
Strette strida di uccelli e acute solo
furiose ai polsi svenano la luce.
Acqua sorgente taglia dentro ai sassi
strade di serpi, frange d’erbe inclina.
Zampe di bestie frugano. La luce
scande ventagli e inonda i fondi bassi,
foglia secante l’ansa spessa affina.

Un’aurora passò, prima, di volo,
sopra l’intrico verde. Una mattina
svolse le sciarpe in scintillato rogo,
disciolse il miele in dorati salassi.
Un meriggio distorse l’ombra, e luce
scarnì rami diversi, ad altri passi.

Così sera si posa, ora. Lo stuolo
dei testimoni alati s’indovina,
se passi, stretto e confinato al giogo
delle ramate occluse, e finge luce
la favilla degli occhi. Sfiora i massi
un’acqua fredda scoria di crogiolo.

Un’esile valanga di sconquassi
ora, se ascolti, piano si avvicina
al riparo del folto, e contrappassi
di buio e di spento bucano la luce.
Forse è solo la morte, o è una faina.

(da Dubbi a Flora, Edizioni La Copia, Siena 2000)

6 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea

NOVE POESIE SCELTE di Simonetta Longo da Notturlabio. Previsioni dall’ombra (2014)

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

 Simonetta Longo, di origine salentina, si è laureata con lode in Lettere all’Università di Lecce con una tesi sul Mefistofele di Arrigo Boito con il critico Donato Valli e si è successivamente specializzata all’Università di Pavia; vive e insegna a Milano. Agli studenti del laboratorio di poesia tenuto dall’autrice è stato assegnato il primo premio, nella sezione scuola, al Premio internazionale Mario Luzi, 2013. Ha partecipato a reading ed eventi, fra i quali: La freccia della poesia con una poetica Rissa in Galleria, manifestazione organizzata da Tomaso Kemeny e Grand Tour Poetico (2014); I 50 anni della “contestazione testuale”, evento organizzato dalla rivista letteraria Il Segnale (2013); Il silenzio dell’ignoranza e la voce della poesia, a cura di Tomaso Kemeny (Casa della poesia, Palazzina Liberty, Milano 2014); È-vento di poesia, a cura di Chicca Morone (2013, 2014); Biennale della poesia di Alessandria (2014).

Suoi testi sono presenti su diversi blog e siti letterari. E` redattrice della rivista cartacea «Pentèlite, scritture letterarie di Sicilia». La silloge poetica Notturlabio. Previsioni dall’ombra, postfazione di Emanuele Spano, è stata pubblicata nella Collezione Letteraria di Puntoacapo Editrice, maggio 2014.

Notturlabio è un tradizionale libro di carta, e dunque da sfogliare; ma è anche un’opera multimediale da ascoltare e da guardare; i versi sono originati spesso dalle sensazioni: dalla vista di dipinti o dall’ascolto di brani musicali e, in alcuni casi, dalla percezione di profumi e da altri stimoli sensoriali. E il lettore può seguire lo stesso percorso dell’autrice perché accanto ai testi sono indicate le opere figurative e i brani musicali di riferimento.

opera di Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

opera di Giuseppe Pedota, ciclo dei pianeti spenti, anni Novanta

notturlabio

notturlabio

Singoli testi contenuti in Notturlabio sono stati pubblicati in antologie: Orfeo in AA. VV., La nascita della quarta Grazia, a cura di T. Kemeny, Arcipelago Edizioni, 2013; Anche la Venere di Milo in AA. VV., Luci e ombre mitomoderniste, a cura di C. Morone, Attini Arte, 2013; About nothing in AA.VV., Verba agrestia, LietoColle, 2013 (pres. giuria A. M. Farabbi); Lithium (A L.) in AA.VV., Il Segreto delle Fragole 2013, a cura di Marinella Polidori e Agostino Cornali, LietoColle, 2012; La maga e Chanel n. 5 sulla rivista «Pentèlite, scritture letterarie di Sicilia», 2012. Inoltre,Orfeo ha ottenuto una menzione al Premio Internazionale Rodolfo Valentino, 2013 (in giuria Anna Antolisei, Roberto Bertolo, Tomaso Kemeny, Antonio Miredi, Chicca Morone, Paola Novaria);Retrogusto ha ottenuto una Menzione di Merito per votazione e per valutazione del Presidente di giuria Valentino Zeichen al Premio nazionale di poesia Mimesis 2014, XVII edizione ed è stata pubblicata nell’antologia ufficiale del premio: AA.VV., Passaggio a livello senza barriere, Rupe mutevole Edizioni, Bedonia (Parma) 2014.

Alcune liriche inedite tratte da un nuovo progetto “Untitled” sono state selezionate dalla giuria tecnica per concorrere alle fasi finali del “Premio internazionale di letteratura Città di Como” 2014 (Giuria: presid. Andrea Vitali, Giorgio Albonico, Maurizio Cucchi, Laura Garavaglia, Emilio Magni, Lorenzo Morandotti); il testo Untitled # 1 è stato pubblicato nell’antologia La vita sostenibile. Poeticodiario 2015, a cura di Guido Oldani e Marina Bignotti, LietoColle Editore, Faloppio (CO), nov. 2014. Il testo Fluttuazioni in campo sonoro è stato pubblicato insieme a un collage di Paolo Ricci in una plaquette di Pulcinoelefante Edizioni, ed. 9310, nov. 2014, Osnago.

simonetta_longo_notturlabio_copertina_collezione_letteraria_puntoacapo

Retrogusto

Nel retrogusto dell’inverno
ho annegato
la mia impossibile estate
e mangio a spicchi
i giorni
per ingannare l’attesa
davanti allo specchio impassibile
alle mie brame.

Ho assaggiato il volo
ma la dolcezza del gesto
m’è costata tre giri
di hula hoop all’inferno
e ritorno.
Non si bara col prestigiatore
quando nel mazzo
si ha in sorte
l’antiregina di fango.

Il tempo è un abisso
di rovente catrame
in cui la vita affonda
come un tacco.

Forse è per questo
che tremo
d’estate.

.
Pigmalione e la statua

Previsione da E. B. Jones, Pigmalione: La mano si arresta e Pigmalione: Il fuoco divino

I. PIGMALIONE

Ti plasmerò
ma non avrai cuore per me
e resterò a guardarti in sogno
muta.
La linea perfetta
mi consuma il sonno,
la febbre del desiderio lima il marmo
della tua esile immobilità
e il mio amore è di pietra.
Attendo.
Attendo.
Prego
un respiro alla tua indifferente bellezza
di statua.
Parla, parlami questa notte
nelle mani graffiate d’attesa
lo scalpello febbrile
si muove sui tuoi occhi vuoti di dolcezza
per me.
Vivi.
Voglio sentire la tua voce vibrante
vedere i tuoi occhi acuti
Voglio stringere le tue calde forme
mordere le tue labbra pulsanti
Voglio annusare il tuo profumo carnale
mia bianca ossessione.
Guarda, guardami, l’alba mi opprime
e il tuo bacio non dato toglie il respiro.
Svegliati dal tuo incubo di giovane eternità
allora tra le nostre mani cadrà il velo del Tempo
e franerà l’abisso che ci divide.
Non condannarmi all’assenza
dall’alto d’un impossibile piedistallo
io ti ho creato di roccia dura e amore
svegliati e prendimi
in un abbraccio di sangue.

Giuseppe Pedota nudo femminile, anni Novanta

Giuseppe Pedota nudo femminile, anni Novanta

 

II. LA STATUA

Mai mi ero schiantata
contro occhi così chiari
ed ora come statua
ho tutti i pensieri infranti
e un coccio di felicità
per ogni sguardo
resto immobile
assente alla lotta
del tuo scalpello contro la mia carne
e mentre infuri
stai plasmando il mio cuore
non il corpo che credi
strappami alla mia notte
di marmo
perché per il tuo sguardo
si è fermato il dolore
dacché
pensarti è alba
e volo d’aquila
così attenderò lo schianto
e dai tuoi occhi
nascerà il mio respiro

 

 

 

 

Nike

Nike

Nike (mutilata)

Previsione dalla scultura Nike di Samotracia (Tav. XXVI)

.
Mi dà brividi il vento
troppo leggera è la veste
sotto cui freme il marmo pario
ma devo forzare le ali
all’impeto:
Ecco la triremi!
Vi annuncerò la gloria, soldati,
dall’ombelico che vi ispira
già sulla prua
il piede destro si posa
a mietere attese
con petto proteso
all’offerta
Eppure qualcuno osò
profanarmi il sogno
(e ancora mi si chiede
dove smarrii le braccia
la testa)
È questo vento
non dà tregua al possesso
pieno
d’ogni mia forma
e l’unica mano divisa
sarà sospesa tra un saluto
e il nome in cui mi chiamano:
Vittoria

La Venere di Milo

La Venere di Milo

Anche la Venere di Milo

Pianterreno del Louvre, ala Sully, sala 16. A Mario

«Riportami alla mia isola!
sono stanca d’occhi
e immobilità

meglio era essere divisa
in due che portare la mela
del vincitore

la mia bellezza da gendarme,
caro Renoir, m’estenua
sotto i fari

e poi, chi mi ha sottratto
orecchini bracciale e fascia per capelli?
è dura l’ansia dei fori vuoti

pazienza la nudità,
ma non sapere neanche chi sono
e cosa ho perduto…

dammi la corona o almeno lo specchio
o uno scudo!
come vuoi che mi guardi il naso posticcio?

ed essere perfetta sempre
in assenza di braccia mani
e pure di un piede, credimi, stanca

potrei appoggiarmi a una colonna
o alla tua spalla
quest’aria viziata mi sfianca»

«E, così, mia cara,
anche la Venere di Milo suda
attraverso il marmo…»

 

simonetta longo

simonetta longo

La strega o come Jeanne

In memoria di Kepari Leniata, ventenne e madre di una bambina di otto mesi, uccisa con l’accusa di stregoneria a Mount Hagen–Papua Nuova Guinea il 7 febbraio 2013

.
E mi chiamate ancora
strega
allora lascerò che la strada
si srotoli come un tappeto
per la verità
e dal mio trono di immondizia
su cui mi condannate
confesserò
che avete ragione
tra fiamme
d’acre odore di gomma

E non avevo che vent’anni
E Jeanne neppure quelli

A lei consentirono
una veste bianca
a ricordarle
d’essere donna
e aver combattuto per un giglio

Io sono nuda
mentre mi straziano
e mi bruciano
viva
per amore di figlio

Jean rivendicò
la sua verginità al cielo
e il diritto a decidere per sé
in nome delle voci che la chiamavano
brandendo una spada
di libertà

Chiamatemi ancora strega
allora
se questo è il nome che date
all’insubordinata
che sceglie inquietamente
un’altra strada da quella marcata
e piuttosto che arrancare
sul tappeto
avanzerò urlandolo quel nome
strega, sì, strega!

E non avevo che vent’anni
E Jeanne neppure quelli

 

Cassandra

Cassandra

Cassandra conquistata

Previsione da E. De Morgan, Cassandra

Portami la tua corona
di rosaspina
che io mi ferisca le mani
e la fronte di sogni
non sarò poeta
se non con versi di pietra
che spaccano il vetro del mio candore
nessun dio ha ascoltato
il mio grido
come carezza trattenuta tra i capelli
in scomposta dolcezza
che dispera
Portami la tua corona
di rosa canina
che io mi strazi le orecchie
e la bocca di parole
non darmi tregua
voglio morderti le labbra
farti sanguinare il cuore
con i rubini grezzi del mio canto
nuovo per te
salvami
dallo strisciante silenzio
dalla quieta oscurità
prendi l’argento vivo del mio mistero
sciogli il tempo e lo spazio
saremo noi soli
e conquistami
Ma portami la tua corona disfiorata
che io ne faccia ghirlanda
per le mie notti insonni.

 

Berlino, Nationalgalerie, Endimione dormiente. Chatsworth

Berlino, Nationalgalerie, Endimione dormiente. Chatsworth

Il sogno di Endimione

Previsione da A.-L. Girodet Trioson, Il sonno di Endimione

L’architettura del Tempo
il sonno dell’eterno ragazzo — Endimione —
amato dalla mia luna
la scala e il compasso e il cerchio
non chiuso
il desiderio selvaggio
consumato in ellissi di parole.
Attese.
19 sogni
40 delitti senza amore
tra il dispari e il pari.
E piove nella clessidra
del mio crepuscolo di sangue
mentre tu sorgi a Oriente
impetuoso e bellissimo.
Potessi donarmi un solo istante
del tuo incendio
morirei in uno sfolgorante plenilunio d’inverno.
Ma l’angolo della tua bocca
mi ferisce e misuro giorni d’agonia
per una carezza trattenuta.
Ho ancora labbra vive
e segreti da svelare
agli specchi che imprigionano i tuoi occhi.
Potrei salvarti dalle belve degli anni feroci
con una sola parola ritmica e
indicibile.
Allora mio superbo Endimione
devi uccidere il tempo
per me.
Ma adesso tu dormi
nella sfera del tuo giovane amore scuro
ed io, intatta profezia,
tramonto.

 

la Sfinge di Edipo

la Sfinge di Edipo

La Sfinge ed Edipo

Previsione da G. Moreau, Edipo e la Sfinge

.
Io sono la Sfinge
senza enigmi
cadute le ali
e precipitato l’incanto
la mia coda di serpente
non avvelena che me stessa
ogni notte
ogni giorno
il mio corpo felino
si contorce nell’ombra del tempo
che rotola dal monte
insieme ai miei sogni infranti
divorai uomini inconsapevoli
con il mio amore oscuro
un giovane Edipo
sciolse i miei capelli alla luna
tra brandelli d’amori
estinti
e svelò il mio segreto
ma non sarà felice
chi osò profanare
il mio mistero
un abisso di rimorso
lo attende
in un cielo ingombro
di tuoni

4 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

QUATTRO POESIE di Giorgio Linguaglossa da “Blumenbilder (Natura morta con fiori)” [2013] Commenti di Letizia Leone e di Navìo Celese(pseud. Luigi Manzi)

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

Bartolomeo Veneziano Lucrezia (Borgia) in décolleté

 Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha fondato il blog lombradelleparole.wordpress.com e-mail: glinguaglossa.@gmail.com

 da Giorgio Linguaglossa Blumenbilder (Natura morta con fiori) Passigli, 2013 pp. 90 € 12

venezia 5*

Rugiada. Nella lastra gelatinosa
della fotografia è entrato un bosco
pieno di foglie… hai ripreso a respirare
come il profilo di Simonetta Vespucci!
all’orizzonte, dietro il tuo ritratto,
s’intravedono uomini armati che
scherniscono un prigioniero con le mani
legate che sostiene una croce;
una folla di pellegrini e pastori
li seguono; più oltre non posso gettare
lo sguardo: il limite esterno rivela
la cornice – la storia disegna il teatro
del mondo, sopprime le comparse
inutili e resuscita i fantasmi –
ma noi, dietro il diaframma, enigmatici…
il mio ritratto osserva il volto
del tuo ritratto; due parvenze, o due essenze!
stormiscono gli alberi; un lieve vento
inanella i tuoi capelli; tu sorridi
come la vittima al carnefice; sei sola
nella tua casa veneziana, slacci
il busto e ti avvicini alla mia ombra;
una farfalla si arresta sul tuo gomito
e tu sorridi fra i tre alberi in fiore
e i tre ritratti…
in una piega del tuo volto abita una stella.
dietro la parete vi sono tre vascelli
idrocaedro invisibile che non hai mai
visto; ma tu sospetti… e aspetti
che da una fessura esca uno stormo di uccelli
e una nuvola di anelli…

ma noi, dietro il diaframma, prismatici

*

… forse ci siamo incontrati in un budello
di Istanbul – io ero il portantino e tu
la regina assira distesa sulle mie spalle
rigonfia di perle e altezzosità… forse
siamo stati catturati nel tranello
di Abu Talal, il sultano celeste, prigionieri
del suo celeste gineceo… forse siamo
entrati nel mantello di Samelech
il diavolo dalle quattro corna e sbucati
in una notte di luna piena a Taskent
soldati del crudele emiro turco… forse
siamo lèmuri di disertori sgozzati
per ordine dello scià di Persia, dopo
una notte di orgia, nel cortile della
prigione al rullo dei tamburi… forse
siamo saltatori di Marrakesch, defunti
dopo un triplo salto mortale: le mie
mani non hanno agganciato le tue tese
allo spasimo… siamo i domatori
delle tigri del Bengala, belli come dèi,
strangolati dalla nostra impari audacia,
o contorsionisti cinesi dalla strabiliante
flessuosità che irridono il rozzo pubblico
bulgaro in un circo della lontana provincia
dell’imperatore…
forse siamo illusionisti della notte,
brilliamo come fari nella tenebra

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

* …

è probabile che ci siamo incontrati
in qualche hall d’albergo di terza categoria,
tu facevi la ballerina ed io
il perdigiorno…
o alla biglietteria di qualche aeroporto:
Santa Fè, Lisbona, Madrid, alla fine o all’inizio
di una tournée, oppure in una latrina di Mogadiscio
al termine di una soirée…
sono indizi che mi tornano alla memoria
ora che ti rivedo in un ritratto
che forse ti assomiglia…
forse progettammo di prendere un tè
in un bar di sottoripa, a Venezia; dovevamo
essere in tre: io il tuo doppio e te;
sì, il tuo doppio! che adesso si vendica
della tua esistenza!
Eravamo drasticamente giovani
questo lo rammento – quanto al resto
non mi dà tormento la stanza sprangata,
ha l’odore d’un vassoio di crisantemi…
ti sei seppellita con le tue mani
in un cunicolo dell’oblio… «ma perché?»
– mi chiedo – «perché?»
saggiamente, sono rimasto a debita distanza,
la memoria è una stanza chiusa
dove non si entra senza bussare…
dovremmo essere in due a chiedere
il permesso…
ma questo il fato non l’ha concesso

*

Dalla prospettiva isometrica dell’aria
guardo il ragno dodecapodo che risale
il margine ove dormi. Il tuo argine,
la sponda che ti raggriccia alla vita,
la sonda lasciata nell’adipocera
il sigillo nascosto nel cronometro.
Acrostòlio e termometro dell’esilio.
…………………………………..
Rammento il tuo olofrastico ritegno.
Il libro di poesie aperto come un pegno
alla sorte, la farfalla di Dinard,
Dora Markus, e non v’era bufera o segno
di ventura, né stetoscopio per ascoltarti
il cuore. Le tue mani accese dal
fiore di aconito e di belladonna così
singolari da rammentarmi le manette.
Rammento il tuo teocratico disdegno.
Vincere le barriere, essere come l’aria!
Oh, il ragno improvviso che risaliva
la tua guancia… il cammeo appeso al collo…
…………………………………………
Per chi guarda con un occhio centrale
dallo spioncino di un oblò, il reale
appare tradire il principio di costanza
il malessere quieto dell’esistenza,
l’abisso di là dal gradiente terminale…

particolare dei volti

particolare dei volti

Commento di Letizia Leone

Giorgio Linguaglossa lo dichiara già dal primo verso, in una sorta di protasi implicita nel senso delle parole assolute e metaforiche che aprono il libro, «Rugiada. Nella lastra gelatinosa / della fotografia è entrato un bosco pieno di foglie…hai ripreso a respirare»; come un poeta classico, mette subito le carte in tavola e dice chiaramente che questo poema è un modo di “guardare-attraverso”, in una doppia e tripla rifrazione di specchi. Il primo specchio potrebbe essere addirittura la goccia di rugiada (la prima parola isolata dal punto e gravata da una sua obsolescenza poetica), convocazione quasi favolistica e provocatoria di aurore primordiali, per poi ricollocare la visione in una modalità di percezione contemporanea, «dentro la lastra gelatinosa di una fotografia», o schermo liquido che sia. Questo il nostro sguardo oggi, la nostra realtà, graduata da un filtro: «Noi dietro il diaframma»:

ma noi, dietro il diaframma, enigmatici… il mio ritratto osserva il volto del tuo ritratto;

E la Storia di mezzo. Si, ma storia malinconica di Arte e Bellezza e dunque lente d’ingrandimento luminosa, a voler suggerire, nonostante tutto, che la nostra carne umana è ormai impastata nel colore della Pittura, nelle parole di Shakespeare, nei gesti di Ofelia o di Fidia che leviga il marmo. Nonostante la grande dimenticanza di una tradizione messa in rovina. Linguaglossa con una poesia raffinata e colta è qui a ribadircelo che la bellezza è vivo accadimento degli occhi e del cuore: «…hai ripreso a respirare/come il profilo di Simonetta Vespucci». Innumerevoli fantasmi artistici, alter ego, angeli e demoni, si aggirano e si specchiano in queste sontuose stanze gravate da un incantesimo saturnino tra gli emblemi e i correlativi di un tempo defunto. E siamo trascinati dalla forza poetica di un moderno gongorismo in paesaggi di drastica lussuria, risucchiati dentro i quadri del tempo appesi alle «pareti infernali»,

acclamiamo le virtù del paesaggio: stemmi, stendardi, bandiere dal tortile profilo, spadini che feriscono Balena a tratti lo sgomento di un «io» rapito dentro l’ambiguità di una percezione in bilico tra sonno e veglia, sogno decadente o allucinazione del tempo. «Sono io me stesso? -Io mi travesto a me stesso», come nella «Commedia degli errori» di Shakespeare io sono qui: lo spadino che scintilla cinto alla vita come un catetere… …Ero bello ma mi arrestai sull’orlo di un pensiero quando lo spadino mi ferì alla gola / io non sono. Io ero.

helmut newton modella che fuma

helmut newton modella che fuma

Vocazione barocca in questa proliferazione di immagini rare e preziose, in questa spirale regressiva in tanta «materia culturale remota», e per citare il Graciàn, «le cose rare sono immortali». La metafora dello specchio, in tutte le sue varianti fonda l’economia della narrazione poetica, sebbene poi la narrazione proceda per inquadrature iconiche in un «montaggio fascinatorio» sotteso dalla logica ferrea del pensare per immagini. Quella potenza immaginativa che Henry Corbin chiamò himma nel suo studio su Ibn ‘Arabī: «questa potenza del cuore è espressa in modo specifico dalla parola himma, un termine al cui contenuto si avvicina forse più di ogni altra la parola greca enthymesis, che designa l’atto del meditare, concepire, immaginare, progettare, desiderare ardentemente: cioè avere una cosa presente nel thymos, che è forza vitale, anima, cuore, intenzione, pensiero, desiderio…». La stessa potenza di rendere reali i propri fantasmi, le figurazioni dei sogni, le maschere del grande teatro della memoria. Di conseguenza una ricca nominazione di strumenti per la visualizzazione attraversa tutto il libro, a volte anche in cadenza anaforica: cornice che abbaglia, diaframma, spioncino dell’oblò, fotogrammi, vetrate screziate e specchi ustori, arricchita da un’oggettistica di richiamo, clessidre, orecchini brillanti, vaso di vetro e quadrante, monocolo e dagherrotipo ecc. Sebbene il motivo dello specchio sia generatore di effetti illusori e ingannevoli, come se leggendo camminassimo sull’orlo di un precipizio, sul muro in rovina rifratto da un caleidoscopio, accecati nella visione dei mille riflessi sgargianti di luce e di tenebre. Lo spirito di Eliot, tra i tanti evocati in queste pagine, aleggia e fosforeggia: puntellare le rovine con i frammenti della Poesia. Linguaglossa con le sue poesie ci concede un ultimo giro di walzer:

…oh, la veste sfarzosa cui seguivano i tuoi passi rutilanti e il valzer notturno di Chopin…

(…)…la tua veste di raso cremisi ondeggia come il volo di Iris l’uccello di fuoco… (…) il tuo minuto piedino accenna un’aria di minuetto

…i tuoi lenti passi sono una danza macabra di cigno, volteggia il tuo azzurro guardinfante sul giallo bosco autunnale… Allora se la Bellezza forse è il vizio cardinale / maschera da teatro, ciarpame dozzinale, questi lemuri aristocratici e galanti con passo leggero scrivono nell’aria una danza, e noi con loro ad affollare la lussuosa festa funebre, prima che tutte queste nostre rovine franino definitivamente in deserto.

(Letizia Leone)

venezia balloCommento di Navìo Celese (pseud. Luigi Manzi)

Blumenbilder mette sotto assedio il concetto di realtà, lo sospinge giustamente nel limbo dei “falsi problemi”. Nel libro si entra attraverso una vorticosa galleria degli specchi (l’occhio con il quale ti guardo è l’occhio/ con il quale tu mi guardi); o una sequenza di fotogrammi labirintici, più irreali della nebbia gelata, in cui spazio e tempo si avvolgono su se stessi, come nel nastro di Möbius. Il lettore incauto si ritrova diffratto dietro prismi e diaframmi. O addirittura sperso in una sequela di loculi occlusi, riverberati da cunicoli illusori. Avviene che, in Blumenbilder, i materiali (antropologici) della nostra cultura vengano utilizzati in un bricolage che ricompone e decompone – appunto – la realtà (l’ideale chincaglieria) e la metta in crisi: la renda fantasmatica nel momento stesso che viene asservita al poetico. Il lettore non può entrare che in ceppi, sottomesso e stordito dagli echi che s’infrangono sulle pareti, su fondali mobili e avvolgenti. La letteratura – l’arte in generale – viene riassemblata per frammenti memoriali ancora attuali e inquietanti. Nient’affatto vintage. Nel frattempo l’autore si è allontanato, eretto a pieno busto, in vedetta da un estremo punto di fuga (l’asse/ fagocitante ove si celebra il rito/ dell’oblio). Da lì egli guarda con un occhio centrale/ dallo spioncino di un oblò la minutaglia che si riflette in basso e si aggira come un ragno dodecapodo o un astruso ghirigoro di ofidi: (il reale che appare tradire il principio di costanza). L’autore ha abbandonato cinicamente il lettore al proprio destino, l’ha consegnato a una irrisolvibile antinomia; e da un lembo di galassia lo irride. Egli, infatti, come tutti i poeti, è un bugiardo. Blumenbilder è la dichiarazione di totale libertà del poeta, fino al visionarismo destrutturante e distruttivo. Fino alla dichiarazione che il reale non esiste, ma è appena un’accozzaglia babelica di figure mitiche, allegoriche; di ritratti che si accalcano, di singulti smembrati dalla memoria e dall’intelletto. A rimanere intatto, di volta in volta, è appena un oggetto inutile quanto coreografico: il «guardinfante» che nasconde e rende vieppiù seduttiva la nudità dell’essere. Anche la letteratura, la poesia più o meno recente, viene offerta al riuso. Lacerti di futurismo (pag. 48, per intero), stilemi barocchi (es. pgg. 64, 66); tentazioni gotiche (pg. 35); Mallarmé, Eliot, Montale. Ovunque il mito; e poi musica di sottofondo, e pittura; senza la volta sovrastante di un pantheon; ma in cumuli disordinati dentro fondachi e latomie. Bazar. Tanta paccottiglia che diviene orpello di nobiltà: adatta a illuminare di splendori obliqui l’irrealtà: la tortuosa irrealtà che si esplica nelle ombre problematiche di chi scrive o di chi ascolta. La parola stessa è stata indotta a un accoppiamento incestuoso, per generare mostri. Ciascuna “parola” in Blumenbilder è ridotta alla propria autonomia significante; spesso viene aspirata come dalla cannula di un sontuoso quanto sensuoso narghilè, in un budello di Istanbul…

L’autore ora è fuori da Blumenbilder: ne è uscito scalando l’albero sciamanico che lo ha proiettato nello spazio libero, dopo un’immersione visionaria quanto allucinata allorché dichiara arrendevolmente: sapevamo che il nostro marciapiede/ non era il Sipario della Storia. Un “percorso poematico”, quindi, tutto d’un fiato. Liberatorio. Il ritmo versale ha sostenuto l’escursione ipnagogica, come il rullio assordante d’un tamburo – quasi un rumore cardiaco – fino all’estasi. Salvaguardando tuttavia l’inconfessabile. Poi, l’abbandono e la distanza. La consegna al lettore.

(Luigi Manzi) Roma 26 aprile 2013

16 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, il bello, poesia italiana contemporanea

UNA POESIA di Osip Mandel’štam (1891-1938) «Trovando un ferro di cavallo» (1933) Traduzione di Serena Vitale Commento di Giorgio Linguaglossa

osip mandel'stam

 Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908  entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938  viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja  rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

Trovando un ferro di cavallo

Guardando il bosco diciamo:
ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,
pini rosati
liberi fino in cima dal ruvido fardello,
a loro di gemere nella burrasca
solitarie conifere
nell’imbestialita aria non boschiva:
sotto il salato tallone del vento resiste l’archipendolo fissato alla tolda danzante.

E il navigatore dei mari nella sua smisurata ansia di spazio
trascinando per umidi solchi il fragile strumento del geometra
confronta l’attrazione del grembo terrestre
con lo scabro livello delle acque

e respirando l’odore
di lacrime di resina dal fasciame della nave,
ammirando le tavole
inchiodate, composte in paratie
non dal buon falegname di Betlemme, ma dall’altro
– il padre dei viaggi, l’amico dell’andar per mari –
diciamo:
anche loro stavano sulla terra,
scomoda come la spina dorsale di un asino,
per le cime dimenticando le radici,
dritti sul famoso crinale,
e vociavano sotto l’insipido acquazzone,
proponendo invano al cielo di scambiare con una manciata di sale
il loro carico prezioso.

Da dove cominciare?
Tutto si incrina e oscilla.
l’aria trema di paragoni.
Nessuna parola vale più di un’altra,
la terra romba di metafore,
e bighe leggere
nei vistosi finimenti di uccelli in stormi densi per lo sforzo
finiscono in frantumi
a gara con gli sbuffanti beniamini degli ippodromi.

Tre volte benedetto chi porta un nome al suo canto:
adornata di un nome la canzone
vive più a lungo delle altre,
un nastro sulla fronte la fa eletta fra le compagne
salvandola dall’oblio, profumo troppo forte che stordisce
– foss’anche la prossimità del maschio
o il profumo della pelle di una bestia forte
o anche soltanto la fragranza della santoreggia sgualcita fra le mani.
L’aria sa essere scura come l’acqua, e ogni cosa vivente vi nuota dentro come un pesce
scuotendo con le pinne la sfera,
compatta, elastica, appena riscaldata,
cristallo dove girano ruote e scartano i cavalli,

Umida terra-nera della Neera ogni notte di nuovo disossata
da forche tridenti, zappe, aratri.
L’aria è coinvolta non meno densamente della terra,
non si può uscirne, si fa fatica a entrare.
Il fruscio zampe-verdi corre fra gli alberi:
i bambini giocano agli aliossi con vertebre di animali morti.
Il fragile calendario della nostra era si avvicina alla fine.
Grazie per ciò che è stato:
sono io che ho sbagliato, ho fatto male i conti, ho perso il filo
l’era tintinnava come una sfera d’oro, cava, fusa, nessuno la reggeva,
ogni volta a sfiorarla rispondeva “si” o “no”
come un bambino risponde:
“ti do la mela” o “non ti do la mela”
e il suo viso è il calco preciso della voce che pronuncia le parole.

C’è ancora il suono, ma la causa del suono non c’è più.
Il cavallo giace nella polvere e rantola schiumando,
ma il ripido stacco dell’incollatura
serba ancora il ricordo della corsa con le zampe da ogni parte protese
– quando non erano quattro
ma quante le pietre della strada,
moltiplicate ancora quattro volte
quante ritraeva dal suolo l’ambio lucido di calore.

Così
trovando un ferro di cavallo
si soffia via la polvere,
lo si strofina sulla lana finché brilla,
allora lo si appende sulla soglia
perché riposi
e non gli tocchi più strappare scintille dal selciato.

Labbra umane che più non hanno da dire
conservano la forma dell’ultima parola pronunciata
e la mano sente ancora il peso
anche se la brocca è traboccata a mezzo
nel cammino verso casa.
Quello che dico adesso non sono io a dirlo,
ma si strappa alla terra come grani di grano pietrificato.
Alcuni
sulle monete disegnano un leone,
altri
una testa:
pastiglie d’ogni sorta – di rame, oro, bronzo
stanno sepolte nella terra con gli stessi onori.
Il secolo, a furia di morderle, ci ha lasciato l’impronta dei suoi denti.
Il tempo mi lima come una moneta,
e ormai manco a me stesso.

(trad. Serena Vitale)

Osip Mandel'stam a Firenze 1913

Osip Mandel’stam a Firenze 1913

Commento di Giorgio Linguaglossa

Ora che dovrei tentare un commento a questa che è tra le cinque o sei composizioni più grandi del Novecento, avverto tutto l’imbarazzo e l’insufficienza del mio tentativo. Letteralmente, non saprei da dove iniziare; se da quel gerundio della traduzione di Serena Vitale (ma in russo il verbo è al presente), e poi “il bosco”, segnato da quel rituale da preghiera: “diciamo”. E siamo già proiettati nel tempo mitico della costruzione delle navi, nel tempo omerico di Ulisse che fabbrica «gli alberi maestri», fino a «l’archipendolo fissato alla tolda danzante».

«Il linguaggio poetico – scrive Mandel’štam nel Discorso su Danteè un processo ibrido, e consiste di due sonorità. La prima è il mutamento che noi udiamo e sentiamo negli strumenti del discorso poetico, il quale sorge nel processo del suo impulso. La seconda sonorità è il discorso, cioè, il lavoro fonetico e tonale rappresentato dai detti strumenti».

Se il concetto base dei simbolisti era le «corrispondenze» fra l’alto e il basso; quello di Mandel’štam, detto con le sue stesse parole, era la «trasformabilità o convertibilità» di oggetti disparati legati tra loro da un rapporto di inerenza (rapporto per eccellenza storico). Così, «il buon falegname di Betlemme» è legato storicamente ad Ulisse, «il padre dei viaggi [perché] anche loro stavano sulla terra,/ scomoda come la spina dorsale d’un asino». In Mandel’štam nessuna metafora è gratuita, essa non è ornamento, ricerca del bello o del nuovo; la correlazione tra gli oggetti è data dalla legge di “trasformabilità o convertibilità”, è una legge che ha la stessa stringente cogenza della legge di gravità; una legge fisica alla stregua della legge dei vasi comunicanti. Per Mandel’štam “soltanto la realtà può dar luogo ad un’altra realtà”, e il linguaggio poetico non differisce, né può derogare, a suo avviso, alle leggi della fisica: “L’aria trema di paragoni” in quanto sottoposta alla forza di attrazione che ogni oggetto fisico esercita su qualsiasi altro oggetto fisico. «La terra romba di metafore»; onore al poeta dunque («tre volte benedetto») che dà nome alle metafore.

Mandel’štam aveva studiato con troppa intelligenza la tecnica cinematografica per non capire che il «cinema moderno… volge in maliziosa parodia le funzioni degli strumenti del discorso poetico», poiché il suo montaggio si svolge senza alcun conflitto e ogni fotogramma segue il precedente. Mandel’štam comprende, con larghissimo anticipo su tutti i suoi contemporanei, che il discorso poetico non potrà né dovrà imitare lo scorrere quieto (o accelerato) e rettilineo dei fotogrammi del montaggio cinematografico; egli avverte tutto il pericolo di tale seducente imitazione, ed intuisce che la strada da imboccare è esattamente l’opposta: fotogrammi di specie e genere diversi devono interagire gli uni con gli altri come sorgenti energetiche in atto.

Stalin

Stalin

«Immaginiamo che qualcosa sia stato compreso, afferrato, tolto dall’oscurità di un linguaggio volontariamente dimenticato immediatamente dopo la realizzazione dell’atto di apprendimento ed esecuzione. In poesia, soltanto l’atto dell’intellezione esecutoria ha una qualche importanza, e non l’intellezione passiva, mimetica, parafrasante. La soddisfazione semantica è equivalente alla sensazione di aver eseguito un ordine. I segnali ondeggianti del significato scompaiono una volta che essi hanno svolto il loro compito: tanto più forti essi sono, tanto più duttili, tanto meno risultano indecisi. Diversamente non si potrebbe fuggire l’irretimento meccanico, il martellamento in quei chiodi prefabbricati chiamati immagini ‘poetico-culturali’… La qualità della poesia è determinata dalla rapidità e decisione con le quali essa instilla i suoi ordini, il suo piano di azione nella… natura della formazione della parole. È come se uno dovesse correre attraverso l’intera estensione di un fiume, incastrato in mezzo a veloci giunche cinesi che veleggiano in varie direzioni. Questo è come il significato del discorso poetico viene creato. La sua rotta non può essere ricostruita interrogando i barcaioli: essi non vi diranno come e perché noi saltavamo da una giunca all’altra. Il discorso poetico è una fabbrica di tappeti con una moltitudine di orditi tessili che differiscono l’uno dall’altro» (Discorso su Dante).

Il concetto di «discorso poetico» che Mandel’štam ha in mente è qualcosa di notevolmente più profondo ed ampio dei coevi concetti di ambiguità e di indirezionalità della parola poetica: viene detto a chiare lettere che “la sua rotta non può essere ricostruita interrogando i barcaioli”. E qui viene spazzata via, d’un colpo, tutta la metafisica della odierna critica reader oriented, come anche l’impostazione acritica che privilegia la “soggettività poetica” vista come una entità data e immodificabile. Mandel’štam sopportava con orrore l’indagine inquisitoria della polizia segreta e dei delatori, che chiedevano: “che significa questa parola?”, “e quest’altra?”; Mandel’štam diffidava della rozzezza inquisitoria che certi critici impiegavano nell’indagine ermeneutica, perché la parola è una “forma chiusa” non si stancava di predicare – ed è impossibile penetrare nella struttura tettonica della parola se non con il martelletto del geologo.

Nadezda Mandel'stam

Nadezda Mandel’stam

Bisogna aver rispetto per la «fisiologia» – non si stancava di ripetere Mandel’štam – «noi siamo degli smysloviki» (da smysl=significato, da cui “significazionista”) soleva ripetere Mandel’štam, criticando implicitamente sia la critica di scuola formalista russa che quella di ascendenza sociologica. Il poeta russo si augurava che qualcuno si accostasse all’opera di Dante «con il martelletto del geologo, allo scopo di accertare la struttura cristallina della sua roccia e studiare le particelle degli altri minerali contenuti in essa, studiare il suo colore combusto… giudicarla come un cristallo minerale che è stato soggetto di una grande varietà di accidenti» (op. cit.)

Questo scandagliare il campo della mineralogia alla ricerca di paragoni e metafore per rendere il senso esatto del suo pensiero, non è un vezzo di Mandel’štam, ma una procedura ermeneutica: la mineralogia gli svela la reale concrezione della parola: la mineralogia richiede, per essere compresa, la meteorologia, e quest’ultima permette la comprensione della struttura tettonica delle rocce (leggi parole). La «forma cristallografica» della parola è simile alla struttura cristallina della roccia.

Non v’è «corrispondenza» tra i due termini del reale nel senso inteso dai simbolisti, v’è “corrispondenza” nel senso inteso dagli acmeisti, di unione, come tra “vasi comunicanti”, tra due entità fisiche “in opposizione al non essere”. Erano questi i motivi che conducevano Mandel’štam ad invocare una “scienza della cristallografia” interamente “derivabile dallo spazio tridimensionale”; ed erano queste le ragioni che lo inducevano ad aborrire ogni forma di interrogazione inquisitoria del testo poetico.

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

Anche nell’Achmàtova c’è lo stesso ribrezzo per l’indagine inquisitoria: “Là, dietro il filo spinato,/ nel cuore dell’impenetrabile tajgà,/ conducono all’interrogatorio la mia ombra.

Non per vezzo Mandel’štam conduceva una battaglia indiretta contro le teorie dei formalisti, prevedendo il piano inclinato che quelle teorizzazioni sarebbero state costrette ad imboccare, fino alla nota formula della funzione autoreferenziale del testo poetico. In una parola: la funzione poetica. Concetto che segna il punto di massima problematicità della teorizzazione formalista e, al contempo, il suo risultato artistico più seducente.

Il saggio su Dante è del 1933, la poesia Trovando un ferro di cavallo è stata scritta nel 1923, molto prima che le acquisizioni teoriche fossero chiaramente impresse sulla carta e nella mente del poeta. Ma è sempre così, la poesia precede sempre, nella consapevolezza, la ragione teorica, e Mandel’štam non fa eccezione.

Per un poeta una «nuova concezione del mondo» è sempre coeva al sorgere di una nuova poesia; sono due vasi comunicanti che si alimentano a vicenda: il nuovo sguardo «cristallografico» coglie il mondo nei gangli delle sue concrezioni fisico-fossili, geologico-atmosferiche.

«Nel combinare ciò che non è combinabile, Dante alterò la struttura del tempo» (op. cit.). Questo pensiero ci porta dentro il nucleo concettuale della metafora mandelstamiana: la metafora modifica la struttura fisico-temporale del tempo nella misura in cui ordina secondo un nuovo ordine il “sincronismo di eventi, nomi e tradizioni separate da secoli” (op. cit.). Dunque, la metafora quale ponte fisico sottoposto alla «legge dei vasi comunicanti», unisce ciò che il «sincronismo di eventi» del tempo ha reso ostile alla riunificazione.

«Se mi chiedessero schiettamente cos’è la metafora dantesca? Io risponderei: non so, perché una metafora può essere definita solo metaforicamente… ma a me sembra che la metafora di Dante designi l’immobilità, il punto fermo del tempo. La sua radice non è nella piccola parola come, ma nella parola quando. Il suo quando suona simile a come» (op. cit.).

«Il Tempo, per Dante, è il contenuto della storia, intesa come un singolo, sincronico atto… Dante è un antimodernista» (op. cit.).

La figura e l’opera di Dante forniscono al poeta russo il paradigma di come deve essere-nel-mondo un poeta; fornisce anche una metodologia di resistenza al tempo in chiave politica ed estetica. Nell’antimodernismo di Dante c’è la chiave per comprendere l’antimodernismo di Mandel’štam.

«Una pietra è un diario impressionistico del tempo atmosferico, accumulato da milioni di anni di disastri, ma esso è non solo il passato ma anche il futuro: v’è una periodicità in esso. È la lampada di Aladino che penetra nelle tenebre geologiche delle età future» (op. cit.).

anna achmatova

anna achmatova

Il «discorso poetico» è per il poeta russo un ponte che collega passato e futuro. Una mosca ha cessato di vivere nell’ambra e, nel nuovo composto organico, riprende a vivere. In maniera analoga «il discorso poetico non è mai pacificato; anche dopo molti secoli vi si scoprono antichi dissidi; esso è l’ambra in cui ronza una mosca invischiata nella resina, in cui il corpo estraneo continua a vivere pur nella fossilizzazione» (op. cit.). La parola-minerale di Osip Emilevic è quella entità che continua a vivere anche dopo il decesso delle sue parti costituenti; è quindi una entità che sfida il tempo e lo supera. Il significato profondo della parola poetica risiede proprio in questa sua qualità di superare il tempo che l’ha generata; quindi “forma chiusa”, sottratta all’uso manipolatorio della quotidianità. «La parola è diventata una zampogna, (nel Discorso sarà organo, violoncello, orchestra) non a sette, ma a mille canne in cui soffia il respiro simultaneo di tutti i secoli», «Forma chiusa» come capacità di creare immagini per partenogenesi.

Sempre nel Discorso su Dante Mandel’štam mette giù alcuni appunti che sono di importanza fondamentale per l’elaborazione di un nuovo concetto di “colonna sonora”: «Il valzer – egli scrive – è essenzialmente una danza ondulatoria, neppur lontanamente immaginabile nelle civiltà ellenica o egizia, possibile invece nella civiltà cinese e pienamente legittima in quella europea moderna. (Sono debitore a Spengler di questo raffronto). Principio fondamentale del valzer è la predilezione, tipicamente europea, per i movimenti ondulatori continui, l’attenzione all’onda che pervade la nostra dottrina della materia, la nostra poesia e la nostra musica». Subito dopo, il poeta russo passa all’indagine del concetto di poesia tridimensionale: «Poesia, invidia la cristallografia, morditi le dita per l’ira e l’impotenza! Infatti, le combinazioni matematiche che presiedono alla cristallogenesi non possono prescindere dalla tridimensionalità dello spazio» (corsivo nostro).

Osip Mandel'stam 1913

Osip Mandel’stam 1913

In modo indiretto, Mandel’štam ci vuole invitare a riflettere su questo punto, che il “discorso poetico” segue sempre l’attenzione all’onda ma non può prescindere dalla concezione geologica della materia, dalla stratificazione tettonica della materia appunto perché «Dante e i suoi contemporanei non conoscevano il tempo geologico; ignoravano le ore della paleontologia, le ore del carbon fossile…». Per il poeta russo l’onda sonora è sempre inscritta nel calendario del tempo, nella stratificazione tettonica delle ere della materia: l’onda sonora è la materia stessa colta nel momento del suo slancio vitale, del suo movimento e della sedimentazione di quel movimento! Ma c’è di più, per Mandel’štam «Il discorso o pensiero poetico può essere chiamato sonoro soltanto in via convenzionale; infatti ciò che udiamo è unicamente l’interferenza di due linee, una delle quali, presa da sola, è assolutamente muta, mentre l’altra, senza il sostegno del movimento delle immagini è priva di ogni significazione e interesse e si presta alla parafrasi, sintomo certissimo, a mio vedere, dell’assenza di poesia: dove è possibile la parafrasi, le lenzuola non sono gualcite, la poesia non ha pernottato (Discorso su Dante corsivo nostro)».

Commentando il XVII canto dell’Inferno Mandel’štam ci suggerisce l’immagine di un razzo che costruisca durante il volo e lanci in orbita un secondo apparecchio, e questo ne lanci a sua volta un terzo, e così via. Dunque, autoproduzione delle immagini legate da un rapporto di filiazione (parentela semantica e fonetica delle parole). Siamo qui molto distanti da quelle poetiche novecentesche che predicheranno il «libero» gioco delle immagini, il «libero» gioco dei significanti e da tutte quelle poetiche che teorizzeranno, a più riprese, nuove modalità di écriture automatique. Siamo in un momento cruciale del Novecento, ad una svolta determinante: in un modo o nell’altro Mandel’štam viene messo a tacere, la poesia europea smarrirà il bandolo della matassa, perderà un sofisticatissimo intelletto in grado di passare a rigorosissimo vaglio critico tutte le principali contraddizioni delle poetiche del suo tempo. Significativamente, Mandel’štam scrive: «Oggi, nel 1023, l’acmeismo non è più quello del 1913. O meglio, l’acmeismo non è mai esistito. Voleva essere soltanto la coscienza della poesia. Era giudice della poesia, non la poesia stessa». In questa lettera di risposta ad un giovane poeta possiamo misurare tutto il disincanto, la disillusione del poeta verso la propria epoca («No, mai di nessuno fui contemporaneo», scriverà in una famosa poesia). «Coscienza della poesia», significa per il poeta russo la consapevolezza di un rigorosissimo vaglio critico al quale bisogna sottoporre la poesia del proprio tempo; forse c’era anche la consapevolezza di essere “postumi”, di essere giunti troppo tardi all’appuntamento con la Storia, con il «secolo cane-lupo».

La morte di un poeta non è un semplice accadimento ma il suo ultimo atto creativo, che getta, retrospettivamente, una luce inquietante sul suo tragitto artistico. Quando il giovane Mandel’štam scrive: «Solo nelle battaglie ci colpisce il fato», non poteva immaginare che presagisse la propria morte. V’è nella grande poesia una capacità di antivedere il futuro, senza possibilità di equivoci; questa veggenza, da non confondere mai con il misticismo a buon prezzo, è la spia segnaletica della grande poesia.

Le parole della poesia sono saggezza e veggenza insieme: concrezione minerale di precipitazioni atmosferiche, tragitto destinale, esistenza che incontra un destino. Ciò non toglie che il poeta tenti disperatamente di vivere, di sottrarsi al proprio destino.

  • Nadezda Mandel’štam L’epoca e i lupi Milano, 1990
  • Osip Mandel’štam Sulla natura della parola, pubblicato sul n. 4 di “Poiesis” quadrimestrale di letteratura, 1994

20 commenti

Archiviato in interviste, poesia russa, Senza categoria

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL RAPPORTO TRA CULTURA E POLITICA IN ITALIA di Roberto Onofrio

italia tripartita Roberto Onofrio è nato a Roma nel 1963. Ha studiato fisica presso l’Università “La Sapienza” di Roma conseguendo la laurea nel 1986 ed il dottorato nel 1991. Ricercatore presso il dipartimento di fisica ed astronomia “Galileo Galilei” dell’Università di Padova dal 1991, ha trascorso diversi periodi di ricerca presso l’Università di Rochester, NY, il Massachussetts Institute of Technology, MA, i Los Alamos National Laboratories, NM. Attualmente è visiting scientist presso l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge, MA, e visiting professor presso il Dartmouth College, NH. È Fellow dell’American Physical Society dal 2009, e autore di oltre centotrenta articoli su rivista e comunicazioni a congressi su tematiche di teoria quantistica della misura, fenomeni macroscopici in elettrodinamica quantistica, atomi ultrafreddi, fisica delle particelle elementari ed astrofisica.

Roberto Onofrio, fisico teorico negli USA

Roberto Onofrio

Ispirato dall’articolo di Marco Onofrio apparso su questo blog il 15 ottobre 2014, ho provato a raccogliere alcune delle mie riflessioni sul problema della meritocrazia in Italia. Data la mia visuale un po’ anomala rispetto alla maggioranza dei commentatori del blog, come scienziato che trascorre una parte consistente dell’anno all’estero, spero che i miei commenti siano stimolanti, o almeno possano far capire meglio alcune caratteristiche, in apparenza sorprendenti, del ‘sistema Italia’. La mia tesi di fondo è che non ci si può stupire della situazione attuale dato che essa è il risultato quasi deterministico, causale, della convoluzione di eventi storici peculiari della Penisola. Se si accetta questo assunto ne conseguono diversi vantaggi, anzitutto minori arrabbiature – in quanto si possono razionalizzare situazioni altrimenti percepite come grottesche –, e si può provare a convogliare energie intellettuali in direzioni più costruttive della pura demoralizzazione o dell’abbandono.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/10/15/la-letteratura-invisibile-pensieri-a-briglia-sciolta-di-marco-onofrio-sul-sistema-letterario/

La prima domanda a cui proverò a rispondere brevemente nasce dal bisogno di capire la specificità del ‘sistema Italia’: cosa rappresenta di unico al mondo l’Italia? L’aspetto immediato che risalta del nostro Paese è che è l’unico tra i membri del G7 con una civiltà plurimillenaria ad alto impatto storico. Roma è al tempo stesso la capitale di un Paese industrializzato (come del resto lo sono Berlino, Londra, Ottawa, Parigi, Tokio, Washington) e la ex-capitale politica e culturale di una civiltà antica (come del resto Alessandria, Atene, Bagdad, Damasco, Gerusalemme, Istanbul, tra le altre). Questo aspetto unico, all’intersezione tra l’attuale e l’antico, affascina milioni di turisti e visitatori ed è qualcosa di cui essere ben orgogliosi, anche perché mostra una grande solidità e continuità storica, e una notevole capacità di resilienza.

roberto cicchinè untitled 2009

roberto cicchinè untitled 2009

Tuttavia, questo è in parte anche il tallone di Achille del ‘sistema Italia’. La complessità culturale sviluppata in circa trenta secoli ha portato anche ad una stratificazione su tutti gli aspetti che determinano la funzionalità di una nazione moderna. Il richiamo alle tradizioni è spesso invocato per evitare radicali cambiamenti di rotta, per cui tutto appare come eccessivamente complicato nella vita quotidiana, in particolare nel campo legislativo e giudiziario. Inoltre, in tempi non troppo lontani il continuo richiamo ad un passato glorioso e le conseguenti politiche imperialistiche hanno anche provocato tragedie, ad esempio i due interventi ritardati ed entusiastici (e quindi in principio con la piena conoscenza e coscienza delle difficoltà alle quali si andava incontro con la scelta belligerante) nelle due guerre mondiali del secolo scorso, con le gravi perdite umane, materiali e morali che scontiamo ancora oggi. Ma l’unicità dell’Italia ed alcuni dei suoi mali odierni nascono da molto lontano, e dal modo col quale si è reagito a forze storiche esterne alla Penisola, come cercherò di sintetizzare nel seguito, per quanto si possa riassumere la storia di un Paese così complesso in poche righe.

La repubblica romana, e il successivo impero nel quale essa si trasmutò, si basava su una disciplina ferrea, un forte senso dello Stato ed uno strumento militare efficiente. È interessante al proposito leggere un brano di Simone Weil: «I Romani hanno conquistato il mondo con la serietà, la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo, con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare, con l’impiego meditato, calcolato della più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita». Sebbene sia necessario contestualizzare queste considerazioni – Simone Weil le scrive nel 1940 tentando di tessere delle analogie con la Germania di allora; in realtà la civiltà romana nasce e si sviluppa come civiltà inclusiva e multietnica, a differenza della Germania nazionalsocialista – è chiaro che Roma ha costituito un codice di comportamento studiato, emulato e raffinato dai successivi imperi di stile occidentale fino ai giorni nostri. In questo contesto il rapporto tra cultura e politica si limita, essenzialmente soltanto dopo la conquista della Grecia e dei regni ellenistici, alla dimensione celebrativo-trionfalistica, soprattutto a compensazione delle viceversa molto umili origini di Roma stessa.

Italia tricolreLa situazione cambia drasticamente con la caduta dell’impero romano. Il vuoto di potere da esso lasciato nella Penisola viene colmato dalla Chiesa. Quest’ultima, pur dotata di una propria struttura militare, per ovvie ragioni di immagine morale edifica progressivamente un poderoso e capillare impianto ideologico-culturale, costringendo le opposizioni ad agire di conseguenza. È la nascita di quello che oggi chiameremmo ‘soft power’, ovvero potere esercitato non sulla base della forza bruta di tipo militare, ma sulla base del dialogo e del controllo culturale sia ai vertici, sia alla base, anche attraverso la costituzione di ordini religiosi con scopi ben definiti. Il successivo mecenatismo nei vari stati della penisola durante l’Umanesimo e il Rinascimento è il riflesso locale di questa scelta, e la relazione tra cultura e potere diviene ancora più stretta durante quella che potremmo definire come la prima controrivoluzione italiana, più comunemente nota come Controriforma. In reazione alla Protesta si decide per un irrigidimento della cultura, che deve essere filtrata attraverso alcuni meccanismi tesi a garantirne la conformità con i dogmi della variante cattolica del Cristianesimo.

Se da una parte l’Italia evita sanguinose guerre religiose come in Germania, Francia, Inghilterra – un risultato tutt’altro che trascurabile – d’altra parte ciò ritarda la nascita di quella diversità culturale che è caratteristica del mondo moderno. Ne sono vittime quelle personalità che avrebbero potuto portare la Penisola ad una civiltà avanzatissima per l’epoca. In particolare gli impedimenti alla diffusione delle opere di Giordano Bruno nell’ambito filosofico e cosmologico, di Tommaso Campanella in campo religioso e politico, e Galileo Galilei nel rapporto tra scienza, tecnologia e società, risultano in una autodecapitazione culturale dell’Italia, che da lì in poi si avvia ad un ruolo secondario di potenza culturale, cedendo la fiaccola del primato ai Paesi del nord Europa. Il latino, anziché essere concepito come lingua franca per le lettere e le scienze in grado di permettere il dialogo colto nell’intera Europa, diventa primariamente uno strumento di autoconservazione della classe dirigente e di intimidazione delle classi subalterne, come farà poi brillantemente notare il Manzoni nel suo capolavoro.

Italia stemma della repubblicaL’unificazione politica della Penisola apre delle speranze nella seconda metà dell’Ottocento, anche a causa di una struttura dichiaratamente laica dello Stato unitario. Tuttavia, con modalità che non solo a posteriori appaiono scellerate, lo Stato unitario si lancia in un vasto programma imperialista, sproporzionato alle risorse, ambendo a colonie e al controllo del Mediterraneo. Questo in alternativa alla soluzione più razionale e realistica, e cioè dedicarsi alla costruzione di uno Stato coinvolgente le masse popolari, con tangibili vantaggi per esse rispetto agli statarelli preesistenti, e come modello alternativo alle potenze coloniali: il che avrebbe suscitato l’ammirazione e la stima del mondo intero. L’ingordigia dell’Italia unita traspare da qualsiasi analisi oggettiva e disadorna dei deliri patriottici che si tramandano di generazione in generazione sui banchi di scuola. L’Italia ha sempre dichiarato guerra, mai subìto una singola dichiarazione di guerra; e spesso, a giochi fatti, ha chiesto più del dovuto in base agli effettivi risultati sul campo di battaglia. Il disprezzo dei vinti si manifesta evitando o rimandando la resa e la diretta cessione dei territori richiesti, spesso attraverso un intermediario. Questo avviene ad esempio con l’Impero austriaco nel 1859 dopo Solferino e San Martino, e nel 1866 dopo Custoza e Sadowa; con la Francia nel 1940; con la Grecia l’anno successivo. Del resto è un esperto di diplomazia del livello di Bismark ad osservare sarcasticamente che l’Italia ha denti piccoli ma grande appetito. La credibilità politica italiana e il prestigio culturale del Paese ne fanno le spese, e nascono innumerevoli incidenti politici e diplomatici. Queste profonde incomprensioni, unite a quella che viene percepita in Italia come la grande jacquerie del XX secolo, ovvero la formazione di un embrione di Stato dei lavoratori nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, sono tra i fattori principali ai quali l’Italia risponde, in linea con la sua natura, con una seconda controrivoluzione: il ventennio fascista.

Antonio Gramsci

Antonio Gramsci

È in tale contesto di forte controllo dello status quo e di capillare repressione politica che si inserisce il concetto di egemonia culturale di Antonio Gramsci, anche a causa della sua analisi del ‘soft power’ della Chiesa cattolica. La nascita di un solido partito comunista nel secondo dopoguerra si basa sull’idea di conquistare il potere estendendo man mano il consenso sia a livello popolare sia nell’élite culturale. Nasce una forte competizione dialettica tra i due maggiori partiti popolari nel Paese, che riporta temporaneamente l’Italia nel novero della nazioni creatrici di cultura: il neorealismo è solo l’aspetto più evidente di questa stagione felice. Il tutto anche alla luce di un ripensamento della politica internazionale che finalmente vede l’Italia rinunciare una volta per tutte a megalomanie imperialistiche, con una politica di raccolta nella ovvia ricostruzione materiale e morale del Paese. Competizione culturale tra i due maggiori partiti, reclutamento delle energie sul territorio, abbandono di velleità da grande potenza e forti aiuti economici esterni per impedire il passaggio dal campo capitalista al campo socialista, consentono all’Italia di godere di un periodo di rinascita che però, proprio per la fragilità di tutti questi elementi e per la mancanza di piani a lungo termine per sfruttare al meglio la situazione favorevole, si rivela effimero.

Con la caduta del muro di Berlino prima, e la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche poco dopo, si dissolvono tutte queste condizioni. La competizione culturale non ha più ragione di esistere, la globalizzazione è in contrasto palese con la politica di raccolta prima praticata, gli Stati Uniti d’America si ritirano progressivamente investendo aiuti altrove, ad iniziare dai Paesi dell’Europa dell’est in precedenza membri del Patto di Varsavia. Infine, l’Italia torna, anche se in ambito europeo, ad una politica interventista con consistente impiego di uomini e mezzi in tutte le operazioni militari susseguenti, inclusi quei contesti, come nel caso libico, dove le azioni portano palesemente alla destabilizzazione di un’area limitrofa e alla parziale compromissione degli stessi interessi economici italiani. A questo si aggiungono mali di lunga durata, quali l’assenza di meccanismi sistematici di formazione della classe dirigente, che in un Paese moderno avvengono attraverso il sistema universitario. L’Italia del secondo dopoguerra emerge sì ferita da un dissesto umano, morale e materiale, ma è almeno rappresentata da personaggi della statura di Alcide De Gasperi, in precedenza rappresentante al Parlamento austriaco, e Palmiro Togliatti, braccio destro di Stalin. La visione globale assimilata da queste esperienze storiche risulta preziosa per la ricostruzione del Paese, e per il suo inserimento nel novero delle Nazioni Unite. Da questo punto di vista ogni paragone con la classe dirigente di oggi è, nella maggioranza dei casi, abbastanza patetico.

italia che taceNon che manchino le energie intellettuali, ma nel momento stesso in cui un Paese ha disseminato sul territorio più di un centinaio di sedi universitarie, la maggior parte delle quali carenti di infrastrutture necessarie per poter definire un luogo di studio quale ‘università’, manca il confronto tra idee diverse derivanti dalla presenza nella stessa sede di giovani provenienti da tutte le regioni. Il tutto degenera in un localismo (peraltro vulnerabile a corruzione locale nell’assegnazione di cattedre, di posizioni amministrative, di gestione dell’edilizia) ed un orizzonte limitato nello spazio che rendono uno scenario con l’emergenza degli equivalenti di De Gasperi o Togliatti altamente improbabile. Con pochissime eccezioni, le università italiane si muovono ormai in un ambito regionale, senza perseguire la formazione di una classe dirigente con visioni di ‘interesse nazionale’. Ciò rende il Paese molto suscettibile a spinte centrifughe, e non sarei sorpreso (fortunatamente non avrò la possibilità di verificarlo) se tra meno di un secolo l’Italia decidesse più o meno spontaneamente di tornare ad una confederazione di statarelli controllati da forze esterne. Sarebbe stato più opportuno incoraggiare studenti e docenti alla mobilità nazionale ed internazionale, concentrando gli investimenti su una trentina di università storiche di alto livello, con diritto assicurato allo studio, alloggi e mense per tutti, e solide infrastrutture di ricerca, affiancate ove possibile e necessario da istituzioni parauniversitarie finanziate da enti regionali e provinciali. Ora è troppo tardi per cambiare rotta, la situazione è purtroppo irrecuperabile.

Alla luce di queste brevi e superficiali considerazioni, sarebbe incredibile e quasi fantascientifico pretendere che il settore culturale propriamente detto segua una dinamica diversa dall’attuale involuzione politica ed economica del Paese. Il piattume culturale discusso nell’articolo di Marco Onofrio e nei successivi 125 commenti,  è assieme la causa e l’effetto di politiche effimere, opportunistiche, ambiziose oltre ogni misura, che si susseguono da secoli – per ragioni che poco hanno a che fare con la cultura nel senso stretto del termine. Ogni Paese sconta la mancanza di lungimiranza ed io mi stupisco, al contrario di Marco, del fatto che l’Italia sia ancora, nonostante tutto, un Paese vivace, nel quale parecchi individui lottano quotidianamente e producono cultura, se non di primo livello, almeno di discreta qualità, e con grande onestà intellettuale. Sono gli eredi dei Bruno, dei Campanella, dei Galilei, dei Gramsci, e come tali devono essere pronti a sconfitte locali e a grosse amarezze, quali l’Italia ha sempre riservato ai suoi figli migliori, salvo poi eventualmente idealizzarli post mortem.

12 commenti

Archiviato in Senza categoria