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Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto, La Τύχη di Aristotele, Poesia di Gino Rago, Storia di una pallottola n. 8, n. 10, con una Lettera di Giorgio Linguaglossa, Giorgio Ortona, autoritratto,

Giorgio Ortona, agnostico, astemio e asintomatico 2020, olio su tela, 53,3x37,5 cm

Giorgio Ortona, autoritratto, agnostico, astemio e asintomatico, olio su tela, 533×375, 2020

Giorgio Linguaglossa

Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto

Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto. In ciò la critica del testo poetico, lungi dal ridursi a mera pratica ermeneutica, non può neanche appiattirsi a semplice teoria del senso. Se così fosse, il nucleo vuoto del reale resterebbe inviolato.
Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto. L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide precisamente con l’insensatezza del reale medesimo. Il testo poetico non risponde ad alcuna intenzione originaria di significazione, o a un «voler dire», il reale è il registro di tutto ciò che il testo non recita e che è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. Il testo poetico è proprio di un fuori-senso costitutivo del registro del reale. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio. Queste le parole di Lacan al riguardo, in uno dei numerosi tentativi di definizione del reale:

«L’Altro dell’Altro reale, ossia impossibile, è l’idea che abbiamo dell’artificio in quanto è un fare che ci sfugge, e cioè oltrepassa di molto il godimento che possiamo averne. Tale godimento sottile sottile è ciò che chiamiamo spirito. Tutto questo implica una nozione di reale. Certo, bisogna distinguerla dal simbolico e dall’immaginario. L’unica seccatura – è il caso di dirlo, vedrete fra poco perché – è che in questa faccenda il reale fa senso,mentre, se andate a scavare quello che intendo io con la nozione di reale, appare che il reale si fonda in quanto non ha senso, esclude il senso o, più precisamente, si deposita essendone escluso». 1

Tuttavia, malgrado la sua estraneità e la sua irriducibilità all’ordine simbolico, alla significazione e a qualsiasi tentativo di rappresentazione, esiste un modello in grado di riferire piuttosto adeguatamente l’opacità del reale al senso. Si tratta della lettera.

Qual è lo statuto della lettera in Lacan? Ben lungi dall’aderire al modello della scrittura tradizionale, la lettera è qualcosa di insignificante, o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o di senso, quanto l’estraneità, la revulsione ad esso. Ogni senso, così come ogni non-senso, è interdetto alla lettera, la cui solitudine indica l’emersione di qualcosa nel registro dell’esperienza umana (esperienza profondamente simbolica) come di un resto problematicamente irricevibile e non integrabile nell’esperienza stessa, in quanto dotata di senso. Esiste un’utilità della lettera, non riconducibile unicamente alla sua funzione indicativa, o sintomatica di un reale in quanto residuo o scarto non integrabile e non significante nell’esperienza del soggetto: si tratta, piuttosto, di una funzione di collegamento con una sorta di campo trascendentale del linguaggio, prima cioè che il linguaggio inauguri concatenazioni significanti di parole.

Si tratta, in altri termini, di annodare l’insignificanza della lettera al potere enunciativo delle parole, così da poter «godere del solo blaterare della parola». La questione di fondo è legata al riconoscimento del carattere esplicativo della lettera, nella misura in cui essa, prima ancora di costituirsi come segno in un sistema linguistico, polverizza il linguaggio riducendolo alla materialità di una cosa. E quella cosa che emerge come scarto nel linguaggio, altro non è che il reale stesso, non si aliena nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma vi si oppone, non fa resistenza, ma mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole. In questa prospettiva, il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione del dispositivo linguistico. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità. Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’iscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità. Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere e al non conoscere, nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime: il conoscere. Come sostiene Alain Badiou, una delle differenze sostanziali tra il reale e la realtà nel pensiero lacaniano consiste nell’inscrizione della realtà nel dominio di ciò che è, almeno di principio, conoscibile. Al contrario, il reale, che abbiamo visto essere esterno tanto al conoscere quanto al non-conoscere, non può essere pensato, per ciò stesso, nemmeno nei termini di inconoscibilità. Al di là di ogni formalizzazione, il reale lo si può solo incontrare.

Τύχη – L’incontro con il reale

Fuori dal senso, dalla verità, dal conoscibile e dall’inconoscibile, l’unico dominio cui il reale si concede è l’incontro. Ma v’è di più: nella differenza abissale che sussiste con la realtà ordinariamente intesa, il reale lacaniano è l’indice di qualcosa che appare improvvisamente nel mondo empirico e che ne interrompe il funzionamento, ne traumatizza l’esercizio. Il reale è ciò che resta disfunzionale rispetto al mondo.

Τύχη: come si sa, con questo termine ereditato da Aristotele, Jacques Lacan indica proprio l’incontro con il reale nella misura in cui esso prende le forme del trauma. E il trauma non è altro che ciò che nella realtà si presenta come inassimilabile alla realtà stessa. Trauma che irrompe nel funzionamento lineare della catena significante,che vi fa irruzione come buco, come taglio. Ma a costituirsi come trauma nel linguaggio è proprio un significante, ancorché del tutto particolare; un significante che, non ricollegandosi a nulla, incarna la mancanza, incarna il reale come iato. Eppure questo incontro è un incontro costitutivamente mancato. Nell’esperienza della psicoanalisi, sostiene Lacan, ogni appuntamento con il reale è un appuntamento tradito, eternamente rinviato. Perché il reale in sé è ciò che sfugge senza posa; non si dà appuntamento con il reale se non nella forma di un appuntamento mancato. Pur tuttavia, tale mancanza non indica affatto l’irrealizzabilità dell’incontro stesso: l’incontro con il reale si realizza nella forma della mancanza, della fuga, della procrastinazione indefinita. E l’effetto sul soggetto di questo incontro sempre mancato con un reale che si dà solo nella forma del trauma non può che essere un effetto perturbante, straniante, spossessante. Nell’incontro traumatico sentiamo venir meno la presa, il controllo su noi stessi e sull’esperienza ordinaria del mondo.

Tύχη è l’indice di una sorpresa traumatica che irrompe nella vita del soggetto. La natura evenemenziale della Tύχη in quanto incontro con il reale inscrive l’accadimento nell’esperienza e ne marca la difficoltà di controllo.
Tύχη è, altrimenti detto, l’evento dell’ «incontro del soggetto con il proprio impossibile». È l’incontro con il reale in quanto impossibile. Formula magica o ritornello sin troppo abusato nell’esegesi lacaniana, la descrizione del reale in termini di impossibile è tuttavia rivelatrice di quante e quali considerevoli resistenze e complicazioni siano intime ad ogni tentativo di inquadrarne lo statuto. Proprio per questo, il reale di Lacan, lungi dall’essere un’entità mistica, si configura come quella soglia evenemenziale indicibile che tocca il soggetto nel suo punto impossibile, così che il soggetto medesimo non sia in grado di riferirne alcunché: l’ineffabilità del reale coincide con la sua radicale estraneità all’ordine del senso e della verità. Puro punto di traumaticità. Ecco il reale. Ecco l’impossibile del reale.

Non l’irreale, dunque, ma l’impossibile come ciò che include in sé stesso il possibile nella forma dell’innominabilità, dell’ineffabilità, dell’irrappresentabilità. Ecco allora che il ricorso di Lacan alla nozione aristotelica di Tύχη per indicare l’incontro costitutivamente ed organicamente mancato con il reale, è mirato a definire il contatto del soggetto con l’impossibile di quel reale che giace al fondo di ogni possibilità, e che è limite ed origine primordiale e causativa di ogni contingenza.

1 1 J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psico-analisi 2003. p. 61 trad. It. di A. Di Ciaccia, Contri, Torino, Einaudi.

Gino Rago

Storia di una pallottola n.8

Ufficio degli oggetti smarriti di via Gaspare Gozzi. Il commissario Ingravallo ha requisito una busta con dentro questa conversazione telefonica.

Wislawa Szymborska:
«Madame Colasson,
avrei bisogno del suo cardiogramma».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, le posso concedere un cablogramma
con dentro il nulla».

Wislawa Szymborska:
«La sua pallottola viaggia sempre a scrocco…
E anche senza biglietto».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, sto dissipando le mie “strutture dissipative”.
Domani sarebbe già tardi, non posso risponderLe.
Adieu».

 

Storia di una pallottola n. 10

Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.

Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.

Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».

Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».

Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.

Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettile fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.

Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.

Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.

Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.

Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:

«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

sono passati 101 anni dal saggio di Osip Mandel’štam Sull’Interlocutore, del 1919, il poeta di oggi non può più rivolgersi a nessun interlocutore. Questa tua poesia è figlia di questo tempo. Rende bene la differenza, anzi, l’abisso che passa (e divide) tra la visione della poiesis della Szymborska (sostanzialmente ancorata alla ontologia poetica del tardo novecento) e quella tua e di Marie Laure Colasson. Siete poeti della nuova ontologia estetica. È come se fossero passati mille anni dalla impostazione di Osip Mandel’štam.
Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso purtroppo le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.
Il vero potere destituente è la potenza destituente del «nulla» che abita la poiesis della nuova poesia della nuova ontologia estetica.

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Sul Minimalismo italiano – Dialogo tra Piero Sanavio, Rossana Levati, Giorgio Linguaglossa, Valerio Pedini, – Poesie di Zbigniew Herbert, Raymond Carver, Anna Ventura, Giuseppe Talia, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa

 

Il Mangiaparole rivista n. 1

Il n. Uno uscirà in marzo, in copertina il poeta Alfredo de Palchi

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 9:59

Avevo scritto in un precedente Commento del 2014:

«Una lingua che ha cessato di essere la depositaria del «messaggio» o dell’«anti messaggio», che si deposita un po’ come la polvere sui mobili, che cade ed accade come per una sua legge di gravità, che adoperiamo quando parliamo in una stanza ammobiliata, in una camera d’albergo, nelle sale d’aspetto di un aeroporto, nel corridoio di un anonimo ufficio. Una lingua estranea e provvisoria».
Alberto Bevilacqua giunge a capire, acutamente, che oggi si può fare poesia soltanto se adoperiamo una «lingua estranea e provvisoria», una lingua che parliamo in un «corridoio di un anonimo ufficio», «in una stanza ammobiliata», in «una camera d’albergo» per incontri clandestini, una lingua di plastica, di stracci… Ecco, direi che Bevilacqua giunge fin qui… ma non può andare oltre… non può andare oltre la sua ontologia estetica…
*
Posto qui tre poesie di Raymond Carver, il padre del minimalismo americano con un commento di Valerio Pedini:

Il minimalismo viene ideato da Gordon Lish, scrittore ed editor della figura centrale per la poesia e la prosa minimale: Raymond Carver. Nella nota biografica su Carver, nel volume Orientarsi con le stelle, edito da Minimum fax, si leggono delle parole raccapriccianti che indirizzano tutta la poetica e l’arte minimale, ovvero «con il suo stile limpido” vorrei poi sapere che significa stile limpido? “ e la sua attenzione verso la «normalità» esistenziale della gente comune». Mi concentrerei su queste poche parole per delineare tutto il cosiddetto minimalismo, che diviene da dispregio, pregio. «Stile limpido»? Per chi non capisse cosa significhi limpido, per alcuni si dice lineare, per altri retorico, per altri ancora manierista, riconoscibile, ripetibile, copiabile, digitale, intimo, casalingo, facilmente comprensibile. Perché? Perché fa esempi. Situazioni quotidiane, che tutti possono comprendere e in cui tutti si possono ritrovare. Ecco tre poesie di

Gif twin tower destruction

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito

Tre poesie di Raymond Carver:

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto

Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

Distantissima dall’idea “metafisica” e “barocca”, il minimalismo ergonomico si compone in strutture rigide, facilmente modellabili. Da qui però succede il dramma letterario: la ripetizione. Carver ci presenta nella prosa uomini di bassa levatura sociale, nella poesia solo e sempre se stesso. L’esempio di un uomo divorziato, di una persona stanca, di una persona innamorata, di uno scrittore fallito. Chiunque può entrarci, perché esempi facilmente interpretabili. In qualche modo, già dall’inizio l’esempio fa sì che la poesia perda il suo valore antropologico. Viene subito inscatolata, una poesia soprammobile da trasloco, facilmente rimpiazzabile con un’altra poesia da trasloco.
Un Leopardi e un Hölderlin non li puoi copiare. Un Carver sì. E tutti l’avevano capito. A partire dalla seconda moglie Tess Gallagher, che con i suoi zuccherini e le sue ragazze povere fa una prosa e una poesia dolciastra, in cui tutte le donne potevano ritrovarsi. Metafore del quotidiano. (Valerio Pedini)

Gif Balletto in microgonna

G. Linguaglossa: Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io

Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2018 alle 11:04

A proposito del minimalismo italiano,

dirò che c’è una bella differenza tra il minimalismo di Carver e il minimalismo italiano, anzi, c’è un abisso… Quello di Paolo Ruffilli è un minimalismo inimitabile, alla maniera di Carver ma con lo stile ruffilliano.
Dirò che là dove c’è sentore di minimalismo triviale non ci sono io. Credo di essere incompatibile con il minimalismo italiano, quel medesimo minimalismo che ha imperversato sul nostro paese per più di quaranta anni come una epidemia, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi e che ha impedito di fare le riforme di cui il paese aveva estremo bisogno. Il minimalismo è il pensare in piccolo, pensare e vivere nella convinzione che tanto le cose si metteranno a posto da sole; minimalismo è stato il colpevole silenzio della Chiesa che per quattro soldi dati dallo Stato italiano alle scuole cattoliche, ha preferito tacere in lungo e in largo sulla deriva antropologica, politica, filosofica e psicologica degli italiani; minimalismo è la doppiezza, l’ambiguità, l’ipocrisia, l’ironia facile e a buon mercato. Minimalismo è avere un concetto minimale dell’etica e dell’estetica oltre che della politica. Minimalismo è il «particulare» da cui prendeva le distanze il Guicciardini; minimalismo è farsi gli affari propri, è un sistema di pensiero antropologico. Noi in Italia non abbiamo minimalisti del calibro di Carver o della Szymborska, noi qui abbiamo e Magrelli e i magrellini, i Rondoni e i rondoniani… Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA – LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Poesie e Commenti di Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Tadeusz Rozewicz, Alfonso Cataldi, Serenella Menichetti, Adeodato Piazza Nicolai

Foto Bauhaus 1

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità»

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:10

Dice bene Luigi Celi quando scrive che Eliot, Pound, Mandel’stam (ma io ci aggiungerei anche Pessoa, i polacchi: Milosz, Herbert, Krinicki, Rozewicz, Szymborska… i cechi Petr Kral, Ajvaz, Topol, Reznicek… gli svedesi Tranströmer, Frostenson, Aspenstrom… il finnico Rolf Jacobsen, la bulgara Josifova, la rumena Crasnaru, gli italiani Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino, le italiane Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna etc.) sono i basamenti sui quali è fondata la nuova ontologia estetica. Il basamento degli autori modernisti è quello che ha fatto la grande poesia europea del primo e secondo novecento, questo è indubbio. Penso che è da qui che bisogna ripartire. Tracciare le coordinate della migliore poesia europea è utile, anzi, indispensabile; fare critica del presente e del passato è il miglior veicolo per allestire la poesia del presente e del futuro.

Certo, all’interno di questo ampio ventaglio della poesia europea ci può stare chi, come Antonio Sagredo, privilegia un autore piuttosto che un altro, o che voglia spostare il baricentro della NOE un po’ più ad est… questo è ammissibile, e anzi anche auspicabile, ciascuno può e deve forzare l’elastico della NOE dove e quando e nella misura che ritiene più opportuno…

Sul problema dell’Essere e del Nulla, io ho la mia posizione, ma ciò non significa nulla di costrittivo, ciascuno può nutrire le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Presento qui alcuni miei «appunti» sulle questioni più propriamente filosofiche toccate dal saggio di Luigi Celi.

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.

Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Strilli Rago1Sul Frammento

Il frammento reca incisa in sé la traccia dell’essere-per-la-morte,apre un varco dal quale si può sbirciare nella dimensione dell’iscrizione della mancanza, nel vuoto che si apre nella mitica pienezza ontologica dell’essere.

Ma c’è mai stato un’epoca della mitica pienezza dell’essere? O è un nostro abbaglio? Un miserabile infortunio del pensiero?

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Sta tra il dado e la clessidra.

Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento». L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Si può anche dire così: il frammento è la dimora stabile dell’Estraneo.

Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.

Strilli LeoneSul Nichilismo

L’atto originario è un venire in presenza, ma può venire in presenza solo in quanto esso è un atto a partire dalla indistinzione e indifferenza del nulla che l’origina. Così, l’atto originario che viene in presenza è lo stesso atto originario che si auto annulla e recede nella indistinzione e nell’indifferenza del nulla. L’atto originario, proprio in quanto crea il tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio in quanto si-fa-presenza si fa anche assenza, ossia abolizione di essere e di presenza.

Il nichilismo è un immenso campo di possibilità, significa che il nulla è prolifico. Il nichilismo è il luogo della possibilizzazione di infinite possibilità espressive, indica che tutte le questioni sono aperte, che tutte le questioni sono possibilizzazioni del pensare, tutte le questioni sono possibili. In questa ottica si ha una grande estensione delle possibilità estetiche come forse mai si è avuto nel passato.

Presso i minimalisti inconsapevoli di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia e dell’arte alla moda di oggi.

Tra l’altro, agli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc. sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Král A tratti un libro ripostoGiorgio Linguaglossa

10 novembre 2017 alle 10:32

Ricevo e pubblico due poesie di Adeodato Piazza Nicolai alla maniera della nuova ontologia estetica:

Adeodato Piazza Nicolai

Alice nel paese del post-reale

Senza alcuna meraviglia. Manca soltanto un minuto
allo scoccare del vero
che non c’è. Poiché semplicemente non esiste…
[…]
scoccano le sei del pomeriggio serale. Ancora non nasce
la prima-vera. Il matto cappellaio non sa confezionare
il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie.
S’è appisolata sulla sponda dell’invisibile naviglio
dove il mago cinese sembra alquanto impaziente: ha quasi
perso la sua memoria e la regina lo incalza con inclemenza.
[…]
Quel mago fuori di testa è l’assassino che vuole far fuori
Il cappellaio nascosto dietro il pollaio
dove sospetta la differenza fra uovo e gallina.
O Alice, povera fanciulla caduta nel buco che non esiste.
Da lì fuoriesce l’amico coniglietto incapace di darle alcun consiglio.
Scappa, Alice, fuggi velocemente. Attenta al terrificante riflesso
dell’incantevole specchio dorato ma frntumato alla base …
[…]
Accipicchia a quel maledetto riflesso che illude ogni cosa
e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro
per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà.
[…]
Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza
per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.
Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.
La fuga per sempre sarà fugata/frugata e mai consumata dal fuoco
che non può bruciare e neanche bucare…
Bussa alla porta del Mad Hatter e/o Capellaio Matto
però nella casa non c’è più nessuno.
Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza
finale.
Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca
di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.
Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello
che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.
L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance
scivolano lacrime di gioia…
Postscriptum: domani verrà la nuova puntata quando
la Rossa Regina, nascosta in cantina, ordinerà le guardie
regali d’imprigionare il Mago cinese. Good-bye fino
alla prossima cinepresa…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 8 novembre, ore 21:45

I venetoi trasumananti
[—]
Un fosco mattino come pochi a Venezia. Un timido Ashenbach
chiuderà gli occhi per sempre sulle sabbie del Lido.
Pallido, certamente ammalato era sceso da qualche cittadina
austro-ungarica per l’ultima vacanza sulle strade immorali…
Passeggia sulle rive dell’Adriatico, una rosa nell’occhiello,
in cerca dell’ultimo bordello.
[…]
Cavalcati dai Venetoi, splendidi cavalli corrono sui colli.
… Arrivano i romani imperiali a soggiogarli;
dopo il millenio e alcuni centenni, anche
2 guerre mondiali attraverseranno il loro fertile territorio
e nel dopoguerra (anni 50-60-70) tanti di loro scopriranno
il dolce boom statunitense …
tutto cambierà: contadini-impresari, nobili e certi operai
faranno enormi fortune alle spese della Madre Gea — sono
esportatori di vini in tutto il mondo, di scarpe eleganti, di macchinari
e pure armamenti, tecnologie avanzate, ecc. ecc.
ingrasseranno le pance di banche e ricchi padri-padroni.
[…]
Più tardi spunterà la Lega nordista colma di sogni-promesse-
fandonie
per mandibolare i poveri superstiti nelle venete pianure
insieme alle montagne… Il loro slogan: “Far-Fuori-Roma-Ladrona”.
Alla fine anche loro diventeranno ladri e truffatori,
rispettabilmente marci ciarlatani.
[…]
Mediocri città, piccoli paesi e magre cittadine del Veneto,
insieme ai villaggi delle Dolomiti, si spappoleranno:
emigranti in ogni angolo del mondo in cerca di lavoro
e la tragedia cresce tuttora!
Appena concluso il referendum per ottenere poteri speciali
Ploden/Sappada diventerà terra friulana, abbandonando
(per agevolazioni economico-politiche?)
la Provincia di Belluno e passando al Friuli.
Quanti altri paesi confinanti seguiranno l’esempio?
Forse Cortina, Regina delle Dolomiti, sarà la prossima.
[…]
Due giorni fa un cadorino ventunenne
morì drogato …
con vari amici al funerale; fu sepolto in questo modo
un altro membro
del clan post-moderno venetoiano e non vetruviano …

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 9 novembre, ore 6:22

LD07

«la metafisica trapassa in micrologia» (Adorno)

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:51

‎Serenella Menichetti‎ da La scialuppa di Pegaso (FB)

MOLTI MA MOLTI SECOLI FA
C’ERA UN PAPA

C’era una volta un papa.
-Quale papa?-
-Un papa tutto d’oro
che spesso mangiava.-
-Che mangiava?-
-La pappa al pomodoro.
E poi si addormentava.-
-Dove si addormentava?-
-Sopra un trono.
Un trono tutto d’oro
e poi si risvegliava.-
-E che faceva?-
-Faceva colazione
mangiava un bel calzone,
con dentro un gran ripieno.-
-Che ripieno?
Addirittura un treno.-
-Un treno?-
-Si, un treno.
Un treno di prosciutto
se lo pappava tutto.-
-E poi?-
– Faceva un gran bel ratto-
-Ratto?-
-No, un gran bel retto-
-Retto?-
-No, un gran bel ritto-
-Ritto?-
-No, un gran bel rotto-
-Rotto?-
-Si, lui rompeva tutto.-
-Perchè tutto?-
-A causa di quel rutto-
Serenella Menichetti
“Filastroccare Fantasia in rete”

Strilli Tranströmer 1Gino Rago

10 novembre 2017 alle 10:58

Nel poema “LORO”, da me letto, riletto, metabolizzato e perfino AMATO, per il carico di novità di linguaggio non già specificatamente per i motivi e/o i temi che l’autrice affronta, Edith Dzieduszycka che atteggiamento assume verso il tempo? Che rapporto instaura con lo spazio? In quale conto tiene il ‘nominalismo’ (non necessariamente lirico): più precisamente, Edith Dzieduszycka parla di ‘alberi’, ‘animali’, ‘piante’ ,in generale, o gli alberi diventano pioppi, platani, cilieigi… E le piante vengono nominate come robinie, tigli, glicini… E lo stesso per gli animali e gli ‘uccelli’?

Nel caso di “LORO” Edith Dzieduszycka quale ruolo affida all’IO? Che uso fa l’autrice della punteggiatura? Il poema di Edith Dzieduszycka è o no riconducibile e interpretabile all’interno del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale (formidabile strumento ermeneutico concepito e adottato per la prima volta da Giorgio Linguaglossa)?

Edith Dzieduszycka in “LORO” è nello spirito premoderno, moderno, tardomoderno, postmoderno o addirittura si muove nella dimensione del transumanesimo…? E altro e altro ancora…

Credo che oggi l’esercizio d’un tentativo non dico di ‘critica’ ma più semplicemente di ‘tentativo d’interpretazione’ di un testo poetico non possa più sottrarsi agl’interrogativi prima rivelati e/o sommessamente elencati, per evitare che non soltanto in poesia ma anche nella critica letteraria la desertificazione si spinga anche nell’Amazzonia.

Ciò detto, ammiro la vastità di dottrina di Luigi Celi. Ma da quando Giorgio Linguaglossa mi ha accostato allo Spazio Espressivo Integrale, come strumento d’interpretazione dell’altrui poesia, non me ne distacco quando cerco d’analizzare l’altrui poesia verso per verso, così come ho tentato di fare con LORO di Edith Dzieduszycka, con Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa, con l’ALLEGORIA recente di Mary Colonna, con ‘il gondoliere turbato‘ di Francesca Dono di appena ieri.

Strilli GriecoGiorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 12:14

Un esempio di interrogazione poetica del nichilismo.

Donatella Costantina Giancaspero

Ripieghiamo in direzione del bar


Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,

in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.

Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…

Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)

traduzione in francese di Edith Dzieduszycka

Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.

D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous jusqu’à le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.

Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…

Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. 
Tout au fond, reste le doute.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoCommento di Giorgio Linguaglossa

La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».

I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.

Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario: adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento, un completamento musicale della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.

La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…

«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. La nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]

1] M. Heidegger Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976 p. 370

Strilli Gabriele2Alfonso Cataldi

10 novembre 2017 alle 13:42

Per mia sensibilità (per mio gusto?) la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quella che sento più attinente alle richieste della NOE nel momento in cui si appresta a rappresentare “il buco nero entro il quale tutto precipita”. Nei suoi versi non si esplicitano case senza tetti, alberi senza radici, automobili senza motori. Non nomina mai “senza”, “vuoto”, “mancanza”, sono le immagini potenti a restituirci la sua idea di nichilismo.

 Anna Ventura

10 novembre 2017 alle 17:02

Mi piace,molto, la poesia di Donatella Giancaspero,capace di evocare tutti i fantasmi che si nascondono dietro un’espressione banale (“Quanto zucchero?”).Forse, anche, per un mio ricordo personale. Perchè le storie si assomigliano tutte,e solo la pialla del tempo può restituirci la serenità dell’indifferenza; il che,purtroppo, non è una grande conquista. Ma,col tempo, impareremo ad amare i nostri fantasmi:quando saranno (cito ancora Didimo Chierico)”come calore di fiamma lontana”.

Strilli RagoMariella Colonna

10 novembre 2017 alle 18:31

Donatella Costantina,

hai fatto qualcosa di assolutamente inedito, non soltanto (inedito) da parte tua, ma dei poeti in genere: hai acceso un cristallo di luce autunnale sulla banalità del quotidiano. Non voglio rovinale la persuasa linearità delle parole

disegnate o meglio scolpite nella grigia presenza della stagione che avanza, preferisco citarti:

«…Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?…».

Forte l’idea dei passanti che aiutano il crepuscolo a spegnersi nell’inverno avaro di sole, compagni di un breve viaggio… che poi vanno scomparendo e noi ” li lasciamo andare” .come assecondando un’onda che va a morire sulla sabbia. Che la domanda senza risposta sia proprio la più facile…è un notevole invenzione poetica. In fondo è proprio vero, è alle domande più semplici che non sappiamo dare risposta!

Poesia Nuova, intensa.

 Gino Rago

 10 novembre 2017 alle 19:25

Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…

” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”

Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…

In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è

mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…

Foto Emma Watson minimalist

«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano» (E. D.)

Strilli TosiMariella Colonna

11 novembre 2017 alle 0:42

Carissimo Adeodato,

la tua favola di Alice è ASSOLUTAMENTE STRAORDINARIA. secondo me il segreto si nasconde nel doppio livello di realtà-favola su cui fai scorrere i tuoi versi, doppio livello in cui favola e realtà si intrecciano si confrontano, si negano, e infine si abbracciano drammaticamente, senza mai rivelare dove dobbiamo orientarci per assaporarne il messaggio:

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.

Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello

che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.

L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance

scivolano lacrime di gioia…”

“…Il cappello / che tu volevi ferito a morte per troppo dolore…” è il testimone concreto dei fatti: ma non sappiamo quali fatti e perché proprio un cappello faccia da testimone

“…L’aurora lo vede sbiadire: forse è un sogno di Alice, CHE VOLEVA QUEL DELIZIOSO CAPPELLO TUTTO PER SE’, o forse è un incubo di Alice, che lo VEDE SVANIRE CON LACRME DI GIOIA. O forse è tutt’e due le cose…un SOGNO che diventa un INCUBO.

Per capire è necessario risalire indietro.

“…scoccano le sei del pomeriggio serale…”

“… il matto cappellaio non sa confezionare / il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie…” qui il riferimento molto realistico dovrebbe essere alla realtà. Luigina ha l’influenza ma non vuole stare a letto ed è… dispersa in quello strano Paese dove, “nascosto dietro il pollaio, un mago assassino “fuori di testa” vuol uccidere il cappellaio… perché (soggetto è il mago) sospetta che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina… oppure che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina (in tal caso il soggetto, colui che sospetta è il cappellaio); certo il dubbio sulla primogenitura tra uovo e gallina è storico e forse qui ha come effetto uno sconcertamento del lettore che certo non pensa più a Luigina che non vuole stare a letto con l’influenza, ma all’ipotesi della Creazione del mondo a cui si contrappone ormai da un paio di secoli e più la teoria dell’Universo in evoluzione che nessuno (il signor Nemo?)avrebbe creato dal nulla, tantomeno Dio in Persona. OGNUNA DELLE DUE TESI è COMUNQUE INDIMOSTRABILE, ma sembra che comunque la Scienza contemporanea abbia preso una strada diversa con la teoria dei Quanti e il Principio di Indeterminazione di Eisenberg.

Ad Alice, adesso, conviene fuggire via, troppi misteri e pericoli la minacciano. C’è anche quel maledetto riflesso dello specchio dorato che va in frantumi alla base e , quindi, riflette male nella parte bassa, proprio quella dove potrebbe specchiarsi Alice! Adeodato la esorta a stare attenta “Al terrificante riflesso… che illude ogni cosa e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà…”.

[…] l’allusione alla mancanza del Padre di Alice introduce discretamente un motivo familiare intimo che fa ruotare di nuovo il cerchio magico in una direzione diversa, con Adeodato al posto di Lewis Carroll.

“…Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza

per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.

Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.”

Si ritorna al mistero del cappello, sottolineato però dal mistero più estraniante e coinvolgente ad un tempo:

“…Nella casa non c’è più nessuno…”

“…Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza

finale…” Il poeta allora chiede aiuto e salvezza alla favola poetica…e riapre il cerchio magico

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare…”

Caro Adeodato, questa è una gran bella poesia e Alice-Luigina sarà fiera di te! Hai fatto un bel regalo anche alla NOE! GRAZIE!

Strilli Dono Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 8:43

Sono d’accordo con Alfonso Cataldi: “Ripieghiamo in direzione del bar” è una poesia NOE, per le ragioni che ha detto e perché vi è accadimento – tutto cinematografico, con pochi dialoghi, silenzi e rumore di passi –. A ogni verso corrisponde un istante, e come passa il tempo così fanno i versi. Cessati gli uragani delle fantasie di questi giorni, fa piacere potersi rifugiare nel bar di una poesia. Tutto è visivo, anche il fondo della tazzina del caffè:

“Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone. 

E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.

Nel fondo, resta il dubbio”.

Il verso “Nel fondo, resta il dubbio” pare un’espressione del viso.

Complimenti a Donatella Giancaspero.

Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 9:35

Io non amo tanto le poesie di Eliot. L’arrivo degli americani ha sempre creato in Europa degli scompensi. E poi allora andava molto il giornalismo; che in poesia significa fluenza discorsiva, ritmo e musicalità: tutte cose che con le poesie che si fanno qui, c’entrano davvero poco.

Sulla poesia “Loro” di Edith Dzieduszycka, mi pare dissi a suo tempo che è un testo catartico, che sembra uscito da qualche incontro di psicoterapia. Mi è piaciuto ma non capisco perché se ne parli tanto. Però Edith sembra avere un forte temperamento o, quanto meno, la forza sembra essere tra i suoi obiettivi. Ma ho letto quasi niente di suo.

Antonio Sagredo: con la poesia NOE c’entra poco o nulla, perché è poeta a modo suo; se ha qualche similare bisogna guardare a Carlo Livia. Però ultimamente ho letto cose di Sagredo che ho trovato più vicine allo stile NOE; ho il sospetto che ci stia lavorando, come pure sta facendo Calo Livia.

Non sono tanto d’accordo con questa affermazione di Giorgio Linguaglossa: “Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia”, più che altro non vorrei passasse l’dea, del tutto irreale, che il pensiero possa essere chiassoso e che si voglia portare il lettore sulle montagne russe; piuttosto, sì, su qualche cima innevata… Sono invece pienamente d’accordo con Luigi Celi quando annota che ” Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano”. Del risveglio, non del sogno !

Foto profil Marilyn bianco e nero

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile. (E.D.)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 12:19

Edith Dzieduszycka Tre poesie inedite da Grovigli

«Le previsioni del tempo sono buone».

Il respiro di prima si trasformò in sospiro.
E allora diventava quello lì.
«Una settimana.
A volte di meno, a volte di più».

Dipendeva dalla densità della nuvola.
«È solo un tentativo – dissi – vediamo cosa succede».

Lui aveva insistito, incomprensibilmente.
Ma intuiva la finta.

«Sarebbe solo tempo perso – ribadii – corriamo
sul filo del rasoio. Aspettiamo un po’
e forse sapremo qualcosa di più».

L’appartamento era polveroso, grigio,
per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre.

«Io avrei scelto il mare insieme a due coppie di amici
che a lei, chi sa perché, non piacciono affatto».
*
Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano.
Un sentore un po’ acido alla gola, appena passato l’uscio.
L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè.

Provava un disagio indefinibile.
Forse per l’autunno in arrivo?
In quell’incertezza stava ogni volta il lato antipatico della faccenda.
Come cambiano i punti di vista secondo l’umore!
Ogni casa ha la sua impronta, la sua emanazione specifica.
Far capire. Non dire.
Questo era il suo vizio.

«Perché non potrebbe andare sempre così?»
Dovrò fare la spesa domani.

Il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi.
Cosa avrebbero dovuto dirsi?, domandarsi?, confessarsi?
Ma, ripartire?
– Che parola vuota, per andare dove? –
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
«Il tempo che si calmino gli animi».
Però aveva insistito, incomprensibilmente.
Anche se non era nelle sue abitudini.

Ma questa volta era diverso.
Ormai non avrebbe saputo più niente.
Doveva farsene una ragione.

*

Due settimane fa, esattamente.
Aveva tutte le ragioni del mondo per essere scocciato.
Ma che ci faccio qui?
Sto diventando masochista?
Il dentista consigliava un antibiotico.
quella città nella stagione incerta,
un po’ malinconica, avvolta nelle prime nebbie leggere dell’autunno.
Solo per agitare un po’ le acque.
Per una volta potrebbe fare questo sforzo.

– Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette –

Cinque anni dopo si era ripresentato lo stesso problema.
Una persona gentile, discreta, un po’ eterea e distratta.

La loro vita era diventata più complicata.
Non se ne capacitava.

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile.

Mario Gabriele In viaggio con Godot Cover gialla

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

«Le previsioni del tempo sono buone»

«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

«Due settimane fa, esattamente»

Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

Strilli Busacca Vedo la vampaDonatella Costantina  Giancaspero

11 novembre 2017 alle 14:05

Cari amici,

Edith Dzieduszycka, Alfonso Cataldi, Anna Ventura, Mariella Colonna, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, vi sono grata per l’interesse che ha suscitato in voi questa mia poesia. L’ho conclusa proprio pochi giorni fa e non pensavo che Giorgio me l’avrebbe pubblicata sulla rivista. È stata un’autentica sorpresa! Anche il suo commento lo è stato e la traduzione di Edith, che ringrazio doppiamente. Ormai, quando scrivo, mi sento sempre più convintamente attratta dalla nuova prospettiva poetica indicata dalla NOE. Ho compreso che questo orientamento mi si addice alla perfezione. Probabilmente, lo cercavo da sempre, ma senza saperlo e soprattutto senza che nessuno me ne potesse dare indicazione precisa. Perciò, non potrò mai ringraziare abbastanza Giorgio Linguaglossa, mia imprescindibile bussola, per aver corretto la mia navigazione poetica, che se ne andava un po’ a naso, diciamo, seguendo l’intuito… Con l’ago puntato sulla NOE, invece, sento di poter raggiungere nuovi (e non effimeri) territori espressivi.

Ecco, cari amici, questo mi sento di dire in risposta ai vostri commenti tanto positivi.

Anche il poemetto di Edith Dzieduszycka, “Loro”, si inserisce nella ricerca operata dalla e nella Nuova poesia; e questo già prima che si parlasse di NOE. Un dato significativo del fatto che certi esiti espressivi si affermano necessariamente, perché imposti dalle direttive del Tempo storico.

L’originalità del poema “Loro”, a mio avviso, sta nell’insieme compatto di forma e contenuto: l’una necessaria all’altro, in quanto la crisi profonda dell’Io (“il suo scacco ontologico”, come ebbe a dire Giorgio, in un precedente commento), la crisi esistenziale, emergente da questi versi, non può altro che avvalersi di frasi brevi, chiuse in se stesse dalla punteggiatura. E di un tono perentorio, che trova nel parlato la sua manifestazione più forte. Molto è stato detto riguardo a questo poemetto e tutto davvero illuminante rispetto al suo significato. In ultimo, il saggio di Luigi Celi mi pare esemplare.

Concludo così, rinnovando il mio grazie, unito all’augurio… Buona poesia a tutti voi!

Foto New York traffic

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta». (Marcuse)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 16:29

Per tornare al caro amico e interlocutore Luigi Celi,

sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla nuova ontologia estetica, dopo la valanga di commenti, poesie, rilievi che sono piovuti in coda al suo articolo. Ormai questo nuovo modo di intendere il testo poetico è una realtà, la poesia italiana si è rimessa in moto (con quali risultati lo vedremo, ma già alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti).

La Nuova Poesia della nuova ontologia estetica è già di per sé un fatto nuovo, direi travolgente, travolgente (lasciatemelo dire) per la stagnante poesia italiana di questi ultimi decenni. Un fatto epocale, storico, in fin dei conti. Come scritto da molti poeti qui intervenuti, già da tanti anni i singoli poeti cercavano nuove vie, nuovi mezzi di espressione, certe novità erano nell’aria da molti anni, basti pensare a poeti diversissimi che non si conoscevano tra di loro prima di incontrarsi qui su questa piattaforma: Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Talia, Anna Ventura, Alfonso Cataldi, Carlo Livia, Mariella Colonna, Chiara Catapano, Vincenzo Petronelli, Adeodato Piazza Nicolai, Luigina Bigon, Mauro Pierno, Laura Canciani… più altri autori che si situano nelle vicinanze di questo nuovo Grande Progetto e che ci seguono da tempo con interesse…

Io dico sempre che il nostro punto di riferimento deve essere l’Acmeismo degli anni dieci del novecento, il movimento che ha cambiato il volto della poesia del novecento (non solo russo)…

ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata», e che di conseguenza, si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari, che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece, in realtà, nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa, non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una cosa nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, raccolta di rottami dalle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms… non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di frammenti.

Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi che quel grande circuito che è il CERN di Ginevra identifica un giorno sì e un altro pure, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando.

La poesia si è prosaicizzata, prosasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

 Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 18:09

con le parole di Marcuse:

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

*

Nel 2010 così rispondevo ad una domanda postami da Luciano Troisio:

Domanda: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Risposta: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta.

Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di

una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti: Mario M. Gabriele, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Costantina Donatella Giancaspero; né bisogna dimenticare la riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein: i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche », o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto

di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

 

foto Le biglie

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno (A. Sagredo)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:20

Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica» – Spostare? – Se mai rovesciarla perché sia più efficace e incisiva e capace di conservare in un museo la vecchia poesia del ‘900 – poi a proposito di T. S. Eliot (così amato da Luigi Celi, e lo capisco) l’ho così rivoltato come un guanto di vecchio ermellino che non si riconosce più il suo specchio e la sua finzione in BISTROT:

*
Bistrot

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate ,
l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti
ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora,
ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche,
s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria,
è volata dal tetto decollando d’un tratto,
e mirando una tempestosa sera primaverile
ha sciolto i suoi anelli e s’è destata.

E davvero non ci sarà da aspettare
per l’aria pura che risale dai vicoli,
che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti;
e davvero non ci sarà da aspettare
per improvvisare una maschera, non incrociare i volti.
E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere,
e per oziare e per le notti dei piedi ……….
che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia.
Non c’è tempo per noi due,
e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe
e per mille realtà e reazioni
dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

E davvero non ci sarà più tempo
di rispondersi: sarò vile e non sarò vile?
Andare avanti diritto e salire sulle scalinate
con la chierica ben in vista…
e saranno muti per la folta capigliatura.
Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero
e intorno nemmeno una fibbia allentata,
e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia!
Non avrò timore di armonizzare gli universi?
Nell’eternità non c’è tempo
per indecisioni e reazioni che riempirà.

Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate.
Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi,
Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio,
ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti
sopra la musica che se ne va da un domestico spazio.
Così, come stare al sicuro?

E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati,
gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa
e quando non enunciato mi blocco su un pianoro,
quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete,
come potrei allora finire
a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini?
Perché non dovrei tutelarmi?

E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati,
questi piedi senza armille, imbrunite e coperte,
ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!.
È l’afrore che s’allontana da un vestito
che mi fa annoiare così?
Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa.
E che dovrei tutelarmi, allora?
E come finire?

Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali?
E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe
di tanti uomini in camicia insieme sui balconi?

Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati
inchiodati sulle onde di mari tempestosi.

E il premeriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così!
Irruvidito da corte dita,
sveglio… attivo… o sanissimo realmente,
in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me.
Non dovrei, dopo le leccornie,
aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità?
Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo,
malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta
mancante su un vassoio…
io sono un profeta – e questo mi interessa.
Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi.
Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver contegno,
e alla lunga, ne ero confortato.

E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio,
prima delle porcellane e delle leccornie,
fra maioliche bianche e qualche mutismo
tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio
di rinascere con un pianto,
di dilatare l’universo all’infinito
e di fissarlo in una risposta liberatoria,
di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò!
Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
non vi dirò nulla!”.
Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo,
rispondesse: “È quello che intendevo.
Si, è così”.

Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto,
ci sarebbe stato un vantaggio,
prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze;
prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta.
E non è quello, o poco di più?
È possibile non dire esattamente quello che non intendo!
Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete:
ci sarebbe stato un vantaggio
se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo
ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse
“Si, è così.
Non è questo ciò che intendevo”.

Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole;
non sono uno del suo seguito, uno che non servirà
a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno,
dissuadere il principe, incerto indocile strumento
irriverente, infelice d’essere inutile.
Non politico, imprudente e disordinato,
privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente;
quasi austero,
o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso.

Divento giovane, divento giovane.
Indosserò calzoni srotolati per intero.

Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca?
Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli.
Traducevano le sirene il silenzio una all’altra.
Non credo che erano mute per me.

Se ne venivano verso la riva per la sessa,
scompigliando la nera peluria di onde avvilite
quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.

Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato
accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte.

Fino a quando suoni disumani ci assopiscono,
e ci leviamo – su, dalle acque!

(antonio sagredo, Roma, 21/22 maggio 2015)

Foto uomo tigre

gli uomini ribelli/ gli angeli dannati/ cadevano a testa in giù/ l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione (T. Rozewicz)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:25

Per Edith i miei personali apprezzamenti che si ripetono identici a quel che scrissi a proposito dei suoi versi: asciuttezza e profondità coincidono… che è qualità rara.

Mario M. Gabriele

11 novembre 2017 alle 18:09

Basta questa poesia, Sagredo, per stare un po’ in allegria compagnia, come sarebbe bastato, per esempio a Leopardi aver scritto soltanto l’Infinito. Ma per un vecchio enologo come me che custodisce il vino delle migliori poesie, trovo questi tuoi versi, a parte le risonanze eliotiane e il timbro ironico, un vero colpo d’ala a cielo aperto.

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 18:00

E aggiungerei – anzi aggiungo e dichiaro – che è ormai maturo, se non già marcio (“La terra desolata” come titolo è errato, la traduzione precisa è “La terra marcia”! ) il tempo di ri-iniziare un NUOVO TEMPO per la Poesia, così come sempre è stato all’inizio di un nuovo secolo… la NOE sta dando un piccolo contributo, che è gigantesco vista la piattezza assoluta dello stato in cui versa la POESIA Italiana e non solo… i tempi sono già maturi (mi ripeto) poiché saremo fra un tempo non molto lontano davanti a sconvolgimenti che dire epocali è un eufemismo banale e spicciolo.

Avevo già dato un esempio con i versi delle mie 10 “LEGIONI” nel 1989… inascoltati poiché pioneristici : e questo è cosa ovvia per chi non ha orecchie. Sarebbe il caso che mi si desse l’opportunità di postarli…uno alla volta e per l’ultima volta… lo stile è quanto ci sia stato di meglio negli ultimi 60 anni: presunzione? No, consapevolezza.

Giorgio Linguaglossa

novembre 2017 alle 19:25

Scriveva il poeta polacco Tadeusz Rozewicz nel 1963:

[…]
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.

43 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, nichilismo, nuova ontologia estetica, poesia italiana, poesia italiana del novecento, Senza categoria

Antologia n. 2 nuova ontologia estetica – poesie inedite di Pavel Arsen’ev (1986) e Ryszard Krynicki (1943), Adeodato Piazza Nicolai, Giuseppe Talia, Antonio Sagredo – traduzioni di Paolo Galvagni e Paolo Statuti con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Strilli Giancaspero

(grafica degli “strilli” di Lucio Mayoor Tosi)

Giorgio Linguaglossa
31 agosto, 2017

C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».
La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. È il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.
La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime, quale suo luogo naturale, in metafore e in immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana – ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Un aneddoto, circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», redatto, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla, ormai la poesia-comunicazione ha invaso ogni pertugio di buon senso. All’epoca, avevo pubblicato (1995) sul n. 7 di Poiesis il «Manifesto della nuova poesia metafisica», che andava in direzione diametralmente opposta.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.
La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

Strilli Grieco
Due poesie di Ryszard Krynicki

[Tra i massimi poeti polacchi contemporanei, Ryszard Krynicki nasce il 24 giugno del 1943 nel lager austriaco di Wimberg, a Sankt Valentin. Ha ottenuto diversi premi letterari, tra cui il premio internazionale Kościelski (1976), è anche traduttore dal tedesco di Brecht, Nelly Sachs, Paul Celan. Il volume Punkt magnetyczny (Il punto magnetico, 1996) contiene un’ampia scelta di versi delle sue raccolte precedenti, tra cui Akt urodzenia (Atto di nascita, 1969), Organizm zbiorowy (Organismo collettivo, 1975), Nasze życie rośnie (La nostra vita cresce, 1978), la sua ultima raccolta è Kamień, szron (Il sasso, la brina, 2004). Nel 1988 Krynicki ha fondato la casa editrice a5, che pubblica poesia contemporanea, tra cui Herbert e Szymborska.
Gli esordi di Krynicki nel 1968 sono legati al movimento di Nowa Fala (Nuova Ondata), composto da poeti dello spessore di Zagajewski, Karasek, Barańczak, Kornhauser, accomunati da uno sguardo lucido e critico sul regime e dalla volontà di rispecchiarne, nella maniera più fedele, il grigiore e la disperazione quotidiani.
Nella sua poesia si riscontra la presenza di un tono quasi oracolare innestato su di un lessico sobrio, spoglio, schietto, a volte sarcastico, a volte umorale. I tratti sopra segmentali entrano con pieno diritto nella poesia occupando un posto d’onore. Esponente di spicco della generazione della Nowa Fala, Krynicki ha un timbro, una voce individuale. La sua voce si esprime bene nei momenti in cui prende posizione con interrogativi incalzanti e alti, quando può prendere posizione nei confronti del regime e della storia. Sue poesie sono reperibili nell’antologia “Almanacco dello specchio 2007”, Mondadori.]

Strilli Rago
Il poeta è pudico

Il poeta è pudico.
Lo è perché parla di sé, anche se in minima parte, immette nella poesia un moto, l’emozione di un istante vissuto proprio così, lì o altrove, ma comunque vissuto.
Almeno lo dovrebbe.
C’è chi immagina e racconta; ci inonda di versi profondi, ridondanti e colti che però non hanno vita.
Ci si può difendere da versi così? Mah!
Se piacciono, sono pur sempre poesia: falsa, copiata sbirciando componimenti di altri, ma di base una certa sensibilità c’è.
Io ho un sistema: scelgo un momento mio della giornata, butto i pensieri e leggo a voce alta, fingendomi l’autore e poi mi interrogo.
Posso dire di essere stato onesta nella lettura? Ho interpretato bene il suo pensiero? E come ne esce il suono? Scivolano le parole, o si arrotolano su se stesse?
Ecco, rispondendo a tutto questo ottengo delle prime risposte che saranno convalidate o smentite da poesie successive.
Non ho mai provato a leggere le poesie in altre lingue che la mia. Deve essere una esperienza esaltante.
Purtroppo mi difetta la pronuncia di molti idiomi, quindi è una esperienza che non farò mai.
Accetto senza riserve, quindi, il dire di questo autore. La semplicità dello scritto (e la bravura del traduttore: non scordiamoli mai) ne fa un testo prezioso.

Effetto di estraniamento

Preferisco leggere i miei versi in una lingua straniera:
occupato a rigirare cautamente in bocca
i sassolini della pronuncia corretta
sento meno la spudoratezza della mia confessione.

(traduzione di Paolo Statuti)

Strilli Leone

Due poesie di Pavel Arsen’ev

[Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a San Pietroburgo, dove vive tuttora. È ricercatore presso l’Ateneo pietroburghese (cattedra di teoria della letteratura). Pubblica versi e articoli nel sito http://www.polutona.ru, su riviste russe e straniere. Dal 2009 organizza il festival di poesia sull’Isola Kanonerskij a San Pietroburgo. È il redattore capo dell’almanacco “Translit”. Ha pubblicato le raccolte To, čto ne ukladyvaetsja v golove [Quello che non si ripone nella testa] (2005), Bescvetnye zelënye idei jarostno spjat [Idee verdi incolori dormono furenti] (2011). Suoi versi in traduzione italiana sono apparsi in Tutta la pienezza del mio petto (Lietocolle 2015)].

quando è giunta l’ora di pagare il vino
tutti in un attimo sono ritornati sobri
hanno spento la loro trasgressione francese
hanno acceso il razionalismo francese
e con zelo improbabile hanno cominciato
a contare la quota di partecipazione di ciascuno
nelle follie brille

Secondo la costituzione

il presidente risulta
il presidente conduce
il presidente introduce
il presidente è a capo
il presidente ha il diritto di fermare
il presidente viene eletto
il presidente emana
il presidente ha il diritto
il presidente può essere eletto
il presidente può avvalersi
il presidente può consegnare
il presidente insignisce
il presidente designa
il presidente non può occupare
il presidente provvede
il presidente possiede
il presidente promulga
il presidente si rivolge
il presidente determina
il presidente libera
il presidente realizza
il presidente revoca
il presidente porta
il presidente presenta
il presidente accetta
il presidente firma
il presidente conferisce
il presidente inizia
il presidente interrompe
il presidente scioglie
il presidente decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente emane
il presifentr decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente
forse

(Traduzione di Paolo Galvagni)

Strilli Dono

Giorgio Linguaglossa
19 giugno 2017 alle 15.44

Scrivevo qualche tempo addietro:
“… c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo). Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale»”.

Strilli Tosi

GiuseppeTalia (ex Panetta)
11 novembre 2014 alle 22:02
.
Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).
Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.

Quello più intrigante? Quest’altro:

Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.

Giuseppe Talia (ex Panetta)
12 novembre 2014 alle 20:17

Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

da Salumida (2010)

I vicoli di pietra sussurravano
E tu padre germogliavi d’urla
Un cerotto alla morfina piano
Cambiava i grumi delle tue pupille
Il limone giallo t’assomigliava
Magro come un gambo di nebbia
Si nasce e il mondo cambia colore
L’infanzia verde il sole giallo
Arancione in quei tramonti
Che dicono tutto
Si cresce, non si finisce mai
Di crescere, rosso, olivastro
Con gote di quel che non sai
Una caduta in bicicletta
La ferita e il sangue porpora
Nessun ideale se non il bucaneve
Il tempo carico di luce
Pieno di odori e di sapori
Sapessi dove sono anima mia
Sono dove il sole mi sbatte
Sulle rocce che si sfaldano
Sono dove il vento costruisce
Le rocce con nuovi granelli
E la pioggia solidifica e lava
Sono dove il falco fa il suo nido
E volteggia per sempre portando
Un insetto una lucertola o niente
Dove i pesci saltano sull’onda
E s’affondano nei sabbiali
Coralli ancora teneri
Sapessi a volte come il fumo
Il vapore della terra sale in aria
In piccole gocciole trasparenti
Dove la montagna erutta fuoco
Fonde l’acciaio e l’agape
La gemma che non ha valore
Ci insegna a ricordare tutto
Quando saremo fluttuanti
Fra metafore spente
Su una nave spaziale
Strapiena di gente
Notte di tuoni acqua e vento
Un finimondo finito in fretta
Un frantoio unto e dilavato
Di nuovo il sole brucia
Della frescura temporalesca
Con vigore si vendica
Stelle nella lavastoviglie
Sassi stellari e navicelle
Di sapone nello scarico
Della discarica dei gabbiani
Ingorghi di clacson e polveri
Sottili nelle viscere di Eva
Con un Adamo dal pomo torto
Nel secchio del riciclaggio
Anche oggi i passerotti
Hanno beccato le briciole
Sul balcone
Venuti a luce d’autunno
Sono volati via di colpo
Non appena la finestra

È un finale interrotto questo di Giuseppe Talia che ci richiama alla mente la poesia di Petr Král per certi suoi aspetti psichici. Il poemetto di Talia è del 2010, ha una vitalità che deriva a mio avviso dal pochissimo spazio concesso ai verbi, l’azione verbale è del tutto assente; similmente, è assente la copula «è», anch’essa messa in castigo. Il fatto è che così priva di verbi la poesia di Talia sta come slegata, sciolta, le parole sono come tanti palloncini che vanno verso il cielo e lì si perdono; prive della gravità esercitata dai verbi le parole acquistano leggerezza e gassosità, sembrano non raggiungere mai la stabilità (apparente) del significato. Una Musa last minute tanto cara a Giuseppe Talia, appesa alla improvvisazione del momento, quasi una esecuzione jazz.

(g.l.)

Strilli Gabriele
da La Musa last minute (inedito)

Guido Oldani

Fiacco di clorofilla e di gambe d’argilla
Detenuto nel container come scontenuto
Betoniera terminale del poeta mantenuto
Cementizzato nell’ars poetica, oldaniano
Realismo militante, con antologie allappanti
Per l’infelice vita di codeina e di camomilla.

Strilli Ventura

Due poesie di Adeodato Piazza Nicolai

Tu luna
Lassù come ti senti?
Sverginata allunata
calpestata espropriata
sembri perfino dimagrita.
Cosa direbbe Leopardi?
Scivolerebbe forse
una lacrima
sulle sue guancie?
Non saprei dire ma soffro
una pena infinita…
Se fossi un barbone
itinerante ti amerei
con occhi sognanti
però non lo sono.
Spreco così
parole malconcie
a lenire un poco
questa ferita.

©2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 13 luglio, ore 5:00

dall’ontologia estetica di Ajvaz

In piena umiltà inseguiamo il paradosso
della classica meta-poesia un po’ dimenticata
o messa in cantina poiché (la crediamo)
sia rimasta senza benzina. Forse meglio tuffarsi
nei labirinti borgesiani o perdersi nella sua
biblioteca infinita. Anche Jung e Jodorowski
ci conducono in fiumi sotterranei che a volte
spuntano sulla superficie, ma solo come frammenti
e lamenti delle viscere poetiche sotterrate
da troppe teorie sparpagliate a vanvera un po’
dappertutto …

E il teorema di Zeno ha ancora qualche
valore? Un disonore studiarlo tuttora? Da tempo
tento di varcare certi confini immaginari, muraglie
illusionarie. Non voglio ritornare né all’alfa né all’omega.
Lasciatemi remare e poi ascoltare il fruscio delle vele
sulla barca mai costruita dalle mie mani,
chissà se ci sono altri porti sepolti da esplorare…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 27 giugno, ore 18:30

Strilli Linguaglossa
Giuseppe Talìa
13 luglio 2017 alle 22.18

A proposito di luna, eccone tre scritte parecchi anni fa.
La prima, calza a pennello a proposito degli ultimi atti vandalici commessi all’istituto Falcone (e tutti questi “strani” roghi che bruciano in Campania, in Calabria, in Sicilia ?)

Morto il chiarore
la luna incanutita
rotola giù e si scioglie
come un’aspirina
S’acquieta il fragore
nell’aria ammutolita
si ferma sulle soglie
e scoppia come mina
E’ strage nel furore
la Torre dei Pulci ferita
Roma Milano le spoglie
e quel sospetto che affina.
La seconda, una luna che si specchia nel danno ambientale.

Dove sei?
In fondo a quale pozzo
Galleggi nel percolato?
Un cerchio di luce ! Morta?
Uno spicchio
Forse specchio
Madre?
Faccia butterata
Inguaribile
Cuore di lupo
Con ciaspole e piccone
Il biancore di neve
Candrama
Forgi il falcetto
Mieti i gambi storti.
La terza, un primo quarto (di luna)

una
sono una
non certo trina
mi vesto di crinolina
e cresco da notte a mattina
deambulante dea creta dell’universo
sono la luna di quando crescono le fragole
la luna di quando i cervi perdono le corna
minimo falcetto lievito nel sommerso
madreperla nell’immenso concesso
e porto fortuna porto sfortuna
sono di fiume e di laguna
nel cielo di china
non sono trina
sono una
una

Strilli Giancaspero

Poesia di Antonio Sagredo

Non ho mai desiderato una forma perfetta
che fosse soltanto poesia e prosa insieme
per un non comprendersi rivolto a tutti
con una misera sofferenza per il poeta e il suo lettore.

La poesia è decente quando è estranea a se stessa:
da noi si genera tutto ciò che già sapevamo,
gli occhi sono fissi per accogliere perfino una tigre,
senza requie lei nella luce con la sua coda immobile.

È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.

Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?

Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.

Mai c’è stata un’epoca in cui si leggevano libri ottusi
per avere gioia e felicità con Intolleranza e avversità.
È la stessa cosa di quando non si è letta nessuna pagina
di opere che ci giungono dalla Clinica delle Felicità.

(marzo, 2016 à la maniere di Milosz)

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Giorgio Linguaglossa intervista Franco Campegiani sulla quaestio Eraclito-Omero, sulla Nuova Ontologia Estetica, sulla Logica razionalistica in occasione della pubblicazione del libro di Franco Campegiani Ribaltamenti. Democrazia dell’arché e assolutismi della dea ragione Ed. David and Matthaus, 2016

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

Domanda: Tu hai scritto: «“Il cosmo è tutto un fremito, un gran vibrare”. Così Ubaldo de Robertis, a riprova che la sua poesia frammentaria non intende porre fuori gioco l’universale, quanto piuttosto scorgerne la luce frammentata in ogni tessera dell’immenso mosaico. Sono a tutti noti i suoi interessi scientifici professionali e i riferimenti alla fisica subatomica, nel suo caso, sono quanto mai appropriati, ma i veggenti di ogni luogo e tempo hanno sempre definito quegli elementi invisibili ed impalpabili “coscienza universale”. A parer mio, è giunto il tempo che la cultura riscopra quella sapienza arcaica, quella conoscenza che ha sempre alimentato le sorgenti più remote (e sempre attuali) del mito. Non sto dicendo di tornare alla mitologia (quella è aria fritta), ma di attingere a quel serbatoio mitopoietico».

Condivido questo punto, infatti la Nuova Ontologia Estetica è interessata a valorizzare la funzione mitica, cioè una poesia che sia un sistema simbolico e non soltanto un sistema segnico, di significanti che suonano o collidono tra di loro; non mi riferisco ai tentativi di riproposizione di una poesia che si rifà alla mitologia dell’antica Grecia, perché non avrebbe più ragion d’essere, ma di un’altra cosa. Penso ad esempio alla poesia più recente di un Ubaldo de Robertis, alla poesia di Gino Rago, penso alla poesia della Szymborska e, in Italia, a quella di Anna Ventura, e anche, se me lo consenti, a certi miei esiti mitopoietici che si riallacciano alla poesia di Kjell Espmark, Lars Gustaffsson, Zbigniew Herbert…

Risposta: La Grecia classica ereditò, snaturandoli, i miti sorti nel substrato più arcaico della cultura greca. L’avvento del razionalismo pose fra parentesi, pur senza riuscire a inaridirle, le radici misterico-sapienziali della fase precedente, facendo degenerare la mitopoiesi in mitologia. L’ostilità dei Presocratici nei confronti dei poeti e degli artisti, è sintomatica di quel degrado in senso feticistico che condusse gradatamente il mito allo smarrimento delle intuizioni originarie, dissolvendosi in una molteplicità di storie vuote e sterili, di retaggi favolistici ripetitivi. Ma i Presocratici, come momento di passaggio fra l’età della Sapienza e l’età della Ragione, da un lato favorirono lo strappo (Pitagora, Parmenide) e dall’altro (Eraclito e Scuola Ionica) tentarono di impedirne il cammino. I filosofi successivi (razionalisti) furono molto più determinati e disinvolti nell’inaridire le sorgenti del Mito. A ben guardare, questo è un processo comune ad ogni cultura, così come ad ogni singolo essere umano. Durante le fasi della crescita fatichiamo terribilmente a portarci dietro il bambino che è in noi, il sapiente che è in noi, e il più delle volte finiamo per perderne memoria con seri danni per il nostro equilibrio. Purtroppo diveniamo adulti adulterandoci, ossia creandoci illusioni, ma c’è sempre un risveglio possibile al di là dell’oblio, e a quel punto il mito risorge, l’arte e la poesia tornano a giuocare ruoli fondamentali, riportandoci alla nuda interiorità di noi stessi, all’Equilibrio e allo Zero iniziali da cui riparte sempre l’avventura della cultura e della vita. Sta lì il serbatoio dell’arte, in quell’humanitas che ci vive dentro e che, essendo eterna e immutabile, è sempre viva e attuale. Trovo che la NOE sia un’esperienza ricca e affascinante. Potrà essere foriera di novità interessanti se saprà aleggiare sulle sabbie mobili dell’ideologia. Ben vengano tutte le proposte, da qualunque parte provengano, se sapranno evocare gli archetipi, l’essenza segreta e sfuggente, il bambino imbavagliato che sanguina dentro di noi.

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Domanda: Tu hai scritto: «Emblematica la polemica di Eraclito nei riguardi di Omero, laddove questi scrive: “Possa la discordia sparire tra gli dei e gli uomini”. Risponde il filosofo greco: “Omero non sa che prega per la morte dell’universo, giacché, se fosse ascoltata la sua preghiera, tutte le cose perirebbero“. La guerra (polemos) è per Eraclito la madre di tutte le cose, il grembo che le abbraccia e le affratella, la radice dell’armonia universale».1

La avversità di Eraclito verso la poesia e l’arte ha una radice antichissima, che contiene il recondito pensiero che la poesia (e l’arte) con il suo rappresentare il polemos sia pericolosa per la compagine sociale di una comunità perché inneggerebbe ai valori di distruzione dei valori piuttosto che a quelli della coesione dei valori. Non credi tu che anche oggi gravi sul pensiero filosofico questo recondito  pre-pensiero secondo cui la poesia (e l’arte) sia segretamente nociva per la coesione dei valori (estetici e non) sui quali invece deve costruirsi una comunità? Continua a leggere

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Edith de Hody Dzieduszycka DUE POESIE EDITE da “Nella notte un treno” (2009) E CINQUE POESIE INEDITE  con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

fotogramma di un film di Antonioni

fotogramma di un film di Antonioni

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata “Ombres” (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Nel 2016 pubblica il romanzo Intrecci, con Genesi, La parola alle parole e, nel 2018 Squarci, con Progetto Cultura, Roma.

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

film fotogramma Elio Petri Ursula Andress e Elsa Martinelli

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Direi che anche noi in Italia abbiamo poetesse di tutto rispetto che si rifanno alla linea europea del minimalismo metafisico o del minimalismo esistenziale, e precisamente: Anna Ventura e Edith Dzieduszycka. Il perché è presto detto: c’è bisogno oggi di questa poesia, c’è bisogno di parlare al lettore delle condizioni di instabilità e di incertezza della esistenza nel mondo moderno in modo diretto e colloquiale, senza mettere a disagio il lettore di fronte a chissà quali metafisiche del cuore o a posticci soprassalti di angoscia. La Dzieduszycka, come del resto la Szymborska, la capostipite di questo nuovo indirizzo della più alta poesia femminile, tratta appunto questa materia, interroga il «Vuoto», il «silenzio», le «pagine bianche», «uno spazio di niente», un «treno» che srotola «i suoi vagoni». Che cosa accade in questo tipo di poesia? Nulla, non accade nulla di particolarmente significativo, ed appunto questo è significativo. «E poi / all’improvviso», succede qualcosa che non avevamo previsto né immaginato, «da carrozze sventrate» «dilagano» «parole». È questa l’epifania laica del nostro tempo prosaico. È questo l’evento. La poesia della Dzieduszycka narra instancabilmente questo evento, lo narra e lo rinarra in modo quasi ossessivo alla ricerca di una chiave, di un significato. Che sta là, o almeno sembra che stia lì, sotto il tappeto, o sotto la scrivania, o appoggiato sul davanzale della finestra, basta afferrarlo. E invece quello sfugge, si sottrae. E l’indagine prosegue, non può che proseguire la ricerca e afferrare finalmente quell’oggetto, quel significato che ci sfugge, che si sottrae misteriosamente. Ed appunto questo, credo, è il significato profondo della poesia di Edith Dzieduszycka: la scomparsa del significato dall’esistenza, la sottrazione della soglia dove quel significato un tempo lontano stabilmente dimorava. Forse, in un altro tempo, in un’altra civiltà c’era ancora «la retta via», « un percorso esatto / una strada precisa / chiaramente tracciata / davanti ai nostri passi», oggi al poeta del nostro tempo non è dato altro che «vuote vie polverose», «ignoti paesaggi sprovvisti di cornice».

edith dzieduszycka

edith dzieduszycka

da Nella notte un treno (Dans la nuit un train) Edizione bilingue, Il Salice, Locarno, 2009

Vuoto
silenzio
pagine bianche
uno spazio di niente
tranquillo furtivo treno
srotolando i suoi vagoni
immagini sfocate
suoni impercettibili
emergenti
qua e là.
E poi
all’improvviso
nell’afa d’una sera d’estate
si schiude la ferita
dilagano
pressanti
da carrozze sventrate
invadono la scena
parole accumulate
corteo d’immagini
nel tempo seppellite.

*

Un foglio di carta
una penna
nient’altro
o quasi
scarabocchi abbozzati
segni allineati
sottratti al sonno
ai sogni strappati
evaporati all’alba.
Lasciati liberi
nel cuore della notte
tornano a celarsi
facendo perdere
fugaci fuochi fatui
loro deboli tracce.

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Inediti

Se per caso
ci fosse
retta una via
un percorso esatto
una strada precisa
chiaramente tracciata
davanti ai nostri passi
sulla sabbia
l’asfalto
anche sull’acqua
se fosse lineare
decisa
evidente
sarebbe molto semplice
sarebbe troppo bello
soprattutto sarebbe
una noia.
*

Nella vita che fa?

Ma che domanda è questa?
Ma come si permette
di entrare così
con le sue scarpe grosse
dentro il mio privato?

Io a Lei non l’ho chiesto
mi sono ben guardata
d’indagare e frugare
in fondo al Suo bagaglio

Chi sa cosa sarebbe
venuto allo scoperto?
Mi vengono i brividi
a soltanto pensarci

Ognun ha le sue case
di ombre e di mistero
le cose più preziose
ed insieme sfuggenti
che si possa serbare

Lo so io “Che faccio”?

Rispondo “No di certo
giacché tutto un groviglio
si contorce all’interno
di cui nemmeno io
sospetto la risposta.
*

Che cosa verrà fuori
dalla mente assopita sul ciglio del letargo
laddove s’aggrovigliano
come nastri azzuffati da un gatto molesto

vuote vie polverose
solchi sterminati a perdita di sguardo
laddove fitta stagna una nebbia fumosa
che serpeggia e s’infiltra al di là del pensiero?

Cosa macinerà nel tremore
del sogno sull’uscio cigolante
d’un viaggio senza mèta
la coscienza incosciente?

Ignoti paesaggi sprovvisti di cornice
lande a strapiombo sopra rude scogliere
cieli vaganti e plumbei trafitti
da bagliori e nembi fuggitivi?

Cosa riporterà col risveglio
dell’alba l’ondosa mente
di quel mondo leggero
dentro il quale affonda con palpebre

di piombo e riemerge greve
di luoghi inaccessibili
indistinti sussurri bisbigliando segreti
ombre senza nomi dalle vesti stracciate?
*

Arriva sì
arriva
con l’alba incrinata
sfregiata porcellana
dalla viscida lingua
d’una nebbia in agguato
che lecca indiscreta
il davanzale grigio

Arriva sì
arriva
dapprima timido
presto incredulo
lo smarrimento

E poi scatta la rabbia
che brucia la ferita
dello star desta

da sola
nella penombra ostile

del non capire mai
cosa ci faccio

a guardare il cielo
fuori dalla finestra
mentre sbatte nervosa
alle persiane blu
l’ala dell’albero
lì piantato anche lui
a guardia di chi sa cosa.
*
Non avrò conosciuto
come Santa Teresa
estasi mistiche
né orgasmi di marmo
dagli occhi riversi

Non avrò d’Arco
Giovanna novella
in lontananza
percepito le voci
giungendo dalle nuvole

Più dubbi che certezze
finora nel bagaglio
che dietro mi trascino
roveti spine fiori
in uguale misura

e l’orizzonte spento
ad un’incerta ora
come la tenda rossa
che richiude il palco
alla fine dell’opera.

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