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Signor Ping, Signor Jitter, Signor Packet Loss, Signor Rtt, Signor Throughput, poesie kitchen di Alfonso Cataldi, Misunderstanding delle interfacce di rete, Una Domanda: Perché si parla? Intervista a Marie Laure Colasson, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa da parte della associazione eumeswil sulla Poetry kitchen, il Collasso del Simbolico e la Catastrofe Permanente – E il linguaggio poetico?

foto nuvole artificiali

Odisseo è vestito con un cappotto sovietico anni cinquanta
Guida un camion che trasporta nuvole artificiali per il Donbass
Una nuvola per un Euro
Ha ingoiato una intera scatola di Fripass
Ha fatto un twitter con la foto di un camion che trasporta delle nuvole
«Adesso – ha dichiarato alla stampa – commercio con Poseidone per far piovere, qui c’è siccità!»
Ha avuto molto successo
Poi è tornato ad Itaca

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(Giorgio Linguaglossa)

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Alfonso Cataldi

Misunderstanding delle interfacce di rete

Un po’ di anni fa (forse la Poetry kitchen non era ancora nata) un comico diceva che alla nascita ogni cittadino deve avere il diritto ad una connessione Internet. Ero molto d’accordo. Alla luce della mia attività lavorativa degli ultimi mesi, devo convenire che quella richiesta non era sufficiente. No, perché una connessione Internet, per non causare stress quotidiano al cittadino, è necessario che sia performante. A tal proposito, ho fatto la conoscenza di cinque Signori distinti, cinque protagonisti di ogni segmento di rete dati, che rispondono al nome di Signor Ping, Signor Jitter, Signor Packet Loss, Signor Rtt e Signor Throughput. Il primo è il padre dei successivi tre, l’ultimo è il primo indiziato quando l’utente si lamenta. Il signor Ping lancia pacchetti dati da un device verso un server di destinazione e misura il tempo impiegato dal singolo pacchetto a raggiungere il destinatario. È necessario ripetere la misura costantemente ed osservare come varia nel tempo; ecco che Il Signor Jitter apre il suo taccuino e prende nota del ritardo medio. Se il traffico è molto elevato e quindi gli apparati di rete troppo impegnati a smistarlo nelle giuste direzioni, succede che alcuni pacchetti non arrivino a destinazione. Il Signor Packet Loss è il freddo censore, forse ha una pistola nella tasca, ma il device non si perde d’animo: tenta e ritenta fino a che non lo assale lo sconforto ed allora alza bandiera bianca. Il più impegnato è il Signor Rtt detto anche galoppino perché deve fare il percorso due volte: quello di andata e quello di ritorno per confermare al mittente che il pacchetto è stato recapitato. Insomma comprenderete bene che se parliamo di milioni di pacchetti al minuto e di milioni di device connessi a Internet, più l’infrastruttura messa a disposizione è ampia, cioè più la banda alta e il Signor Throughput basso, e più il traffico risulta scorrevole. Ma l’infrastruttura costa, il cliente vuole risparmiare e si raggiunge facilmente la congestione. È il caos: si salvi chi può.

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Jitter si fa largo tra le metriche di una cefalea
Il preambolo non è d’obbligo.

Fatela ballare Sanna Marin.
Non fatela smettere mai.

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Rtt è in affanno ma potrebbe essere un inganno
una metrica outdated come tante altre dell’ultima mezz’ora.

Il consumer digerisce tutto
cosa dice il sample time dei confini tra l’Europa e l’Asia?

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Il Throughput al 90% allerta i generali Germanico e Tallia.
In punta di poliptoto disarcionano gli spinner più vistosi sullo schermo.

Cresce l’incertezza tra i plebei dei cinque continenti (qualcuno dice sei)
I giornali ogni giorno escono con qualche pagina in meno e una manciata di trafiletti in più.

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Trentamila misure dallo shadow router in un minuto e venti
L’ultima rilevazione è la penultima ma il software non fa in tempo ad ignorarla che arriva la terz’ultima.

Il prezzo del petrolio sale… scende…
è tornato ai valori di sei mesi fa

Il bonus energia forse verrà introdotto nella manovra della notte
se non scappa la manina con qualche novità.

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Packet loss non ha diritto a ferie e malattia
presiede “l’ufficio dell’ansia da prestazione” ma è sempre sul cantiere.

La prenotazione del volo ha esitato per trenta secondi abbondanti
domani sapremo di pacchetti terminati in qualche anfratto e morti.

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Il fascino di Ping arriva da lontano
non cambia acconciatura dal lontano ’83

«Oggi ho dato a Klea un biglietto pieno di cuoricini
Aurora in classe non mi guarda più»

Chi lo spiega al cliente dei sussulti
nel foglio Excel bi-settimanale?

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La Signora Speed delle autostrade ha usato Volume Boost per la messa in piega dei capelli.

Non teme code o bollini neri per il ponte prossimo pasquale.

Una bellissima litoranea per la migrazione delle farfalle.

Il trasporto di armi e coltelli non è garantito.
La clausola c’è ma non è pubblicizzata.

Germanico e Tallia risparmiano parole e
glassano il tempo
preparano missive che non alludono a strade alternative

La stagione che chiude il pensiero occidentale?

(08 aprile2023)

Foto manichino con vestiti su stampelle

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Rtt è in affanno ma potrebbe essere un inganno
una metrica outdated come tante altre dell’ultima mezz’ora.
Il consumer digerisce tutto
cosa dice il sample time dei confini tra l’Europa e l’Asia?
(Alfonso Cataldi)

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Giorgio Linguaglossa

Perché si parla? Continua a leggere

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Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini e Marie Laure Colasson secondo il procedimento serendipico con una Lettera di Giorgio Linguaglossa, cari interlocutori, Vi informo che la poesia kitchen è diretta come un meteorite in rotta di collisione contro i denti di drago delle parole, eretti dall’homo sapiens per chissà quale veredizione nel tempo terminale dell’antropocene, Strutture dissipative di Marie Laure Colasson –

Marie Laure Colasson Z Struttura Dissipativa 2015

  Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, acrilico, 35×55, 2015

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Struttura dissipativa “Z” di Marie Laure Colasson, acrilico 55×35 cm, 2015

ci offre la rappresentazione di oggetti cha non ci sono, che è tutto ciò che accade. L’essenziale non rappresentabile è contenuto in questa «struttura dissipativa». Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto ontico.

Una colonna color rosso imperiale che si sdipana dal basso all’alto su uno sfondo di nerità luciferina e una ricca varietà di narrazioni di contorno, intersezioni intersemiche e polisemiche in un arco di semicolori abbaglianti, cangianti e sfumanti. I colori della Colasson oscillano tra il rosso porpora, il viola cardinalizio, l’arancione acrilico, il verde bottiglia e il blu cobalto delle carrozzerie Audi insudiciate degli anni sessanta, il senape e lo zafferano, la sfumatura di melanzana delle Fiat millecento anni cinquanta, il mandarino e il ciclamino, il cinabro dei vecchi muri scrostati dell’Urbe, il carminio dei rossetti popcorn, il bianco sgualcito e rarefatto delle camicie da mettere in lavatrice, le nuances color mostarda e majonese, la cioccolata, del budino, i colori dell’ovatta usata, il rosa scialbo e livido del yogurt alla albicocca, il violetto sbiadito, il lillà, il color albume dei dentifrici antiplacca, il pourparler delle insalate francesi farcite di creme e cremagliere, gli esantemi di funghi arrostiti, gli unguenti di argan, i sorbetti alla mela verde, il vino novello e quello in barrique, la variantistica dei rettangoli amputati, delle semi sfere, delle losanghe periferiche e della colonna centrale di rosso imperiale che impressiona per la miriade di pigmenti pulviscolari di contorno che scollima con l’effetto di una luminosità iridescente.

(Giorgio Linguaglossa)

Nel tempo terminale dell’antropocene

cari interlocutori, Vi informo che la poesia kitchen è diretta come un meteorite in rotta di collisione contro i denti di drago delle parole, eretti dall’homo sapiens per chissà quale veredizione nel tempo terminale dell’antropocene. È che in questa condizione di confusione ontologica la poiesis di oggi non ha altro scampo che recitare di voler picconare quel «muro» per provare a vedere che cosa c’è là dentro, là dietro, frangere il tegumento delle parole per sondare che cosa c’è dentro l’ovetto Kinder…

Scrive Le Clézio: «Abbiamo voluto dimenticare il fatto che il mondo linguistico è un mondo totale, totalmente chiuso; non ammette compromessi, non ammette condivisione. Dal momento in cui vi siamo penetrati, non ci è più possibile tornare indietro, verso quell’altro mondo, quello del silenzio».1

Dobbiamo prendere atto che il mondo linguistico è un mondo totale, totalmente chiuso, un mondo concentrazionario, che però ammette tutti i compromessi possibili in quanto consente ogni condivisione e anche tutti i contrasti possibili proprio in quanto consente ogni condivisione. Dal momento in cui abitiamo la fase terminale dell’antropocene, ci è possibile tornare indietro o andare avanti nel futuro mediante l’immaginazione o il metaverso, verso quell’altro mondo, quello dell’immaginazione e di un universo ektraneo. Siamo quindi condannati ad andare avanti a tentoni, verso il rumore delle parole, quelle assurde, insignificanti, plurisignificanti, impostore, fasulle, farisaiche, nauseabonde. Siamo diventati esseri serendipici senza saperlo, senza volerlo; in quanto post-edipici viviamo senza la minaccia dell’angoscia, liberi da Edipo, oscilliamo tra un tartufesco non voglio e un tartufesco non posso; non siamo minacciati che da noi stessi, dalle nostre fisime e dal nostro ego, in realtà siamo tutti diventati ciechi come veggenti.

La procedura serendipica esiste da sempre, ma è solo adesso, nel tempo terminale dell’antropocene e con la poetry kitchen che questo fenomeno da episodico viene elevato al rango di consapevolezza critica e di statuto poietico, di centralità ontologica ed epistemologica, ovvero, di procedura della prassi, artistica e non.

Ha scritto Jules-Henri Poincaré  nel 1914: «Ogni giorno rimanevo […] seduto a tavolino, provavo un gran numero di combinazioni e non arrivavo a nessun risultato. Una sera, contrariamente alle mie abitudini, bevvi una tazza di caffè nero, e non riuscii a prendere sonno: le idee scaturivano in una ridda, le sentivo quasi cozzare le une con le altre, fino a quando due di esse non si agganciavano […] a formare una combinazione stabile. Al mattino, avevo stabilito l’esistenza di una classe di funzioni fuchsiane […]. Non mi restava altro da fare che mettere per iscritto i risultati.»

Il Reale la poiesis kitchen lo raffigura in modo traslato e intersemico e lo convoca in una struttura auto sufficiente e auto immune, erige la propria struttura difensiva e ostensiva perfettamente in grado di rendersi indifferente ed estranea alla prassi, perché la felicità non è nella prassi ma al di là della prassi, al di là della storia. La sola felicità compossibile è quella che è contenuta nella prassi di una poiesis intesa alla stregua di una «struttura dissipativa» come atto di negazione e di rinegoziazione.

Nella poiesis di oggi la forza della negatività è visibile nella sua rara avvertenza e nel rigore del suo statuto ontologico perché percepisce la prassi ermeneutica come intimidatoria e insidiosa, poiché la poiesis non rappresenta nulla, ritiene il concetto di rappresentazione inadeguato oltre che inefficace in quanto la felicità è sempre aldilà, irraggiungibile perché sempre un po’ più in là. Come Scrive Adorno nella Teoria estetica (1970): «La forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità».

1 J.M.G. Le Clézio, La torre di Blabele , in P. Barbetta, E. Valtellina (a cura di), Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale, Manifestolibri, Roma 2014, p. 101

Marie Laure Colasson Abstract_9

M.L. Colasson Struttura dissipativa, acrilico 25×40, 2019

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Poesia kitchen di Francesco Paolo Intini

INSEGUENDO UN PESCIOLINO D’ARGENTO IN UN SERBATOIO DEL VUOTO
(ovvero tentando un compostaggio viene fuori un puzzle)

Dal libro di Poe un pesciolino
grande quanto un orangutan
E su in alto c’è un aereo
Che ronza tutto attorno

Seguitava un pesciolino a mostrare le ferite d’argento.
Il microfono era salvo per miracolo e poteva fare il suo servizio.

L’evoluzione è ovvia. La cucina contiene tutti gli elementi di un perfetto disordine. Se la lavastoviglie è la suocera, il frigo è la nuora. C’è spazio per Antigone ma anche per un pesciolino d’argento o un’aragosta nella grotta del divano.

Invece solo un pesciolino è sembrato interessarsi a te,
ti avrebbe persino adulato e citato uno dei tuoi versi
se gli avessi promesso di tirarlo fuori dal lavandino
anche solo per le zampette d’argento.

Non è il caso di invidiare il pesciolino
che pattina tranquillo
sul ghiaccio dell’argento
godendo l’ aria fresca
dell’alcol all’aceto.

Tutti al pesciolino d’argento!
E quello si gira, fa un tentativo di sfuggire alla potenza dei piedi, a zig zag sui mattoni.
Poi arriva un verso, sfuggito da un catorcio nel cestino, che gli abbaia dietro. La ricerca del corpo fu inutile. Ognuno aveva la sua ragione, il pezzo di racconto rumoreggiava tra i denti. Le parole insomma ne furono orgogliose.
Il mondo libero è anche un pesciolino morto, tre miliardi di anni o quattro spazzati via da un verso che crede di aver visto un lupo correre dentro casa.

FORTUITO

Nuvole imbracciano il fucile
L’una contro l’altra, armate dal tuono.

Occasione di cicoria che siede
Come un platano alla cena della Caritas.

Molliche della rinascita cadono sul mattone
Tra splendori e il veleno del mostro di komodo.

Avanzano le insegne dell’acido.
Ci siamo anche noi al banchetto d’idee
Tocca alle nostre forche il nervo prediletto da dio.

Comincia così:
un difetto nella pelle o se il popolo non ha pazienza
Un orifizio, largo come la bocca di un lupanare
Poi, al rilascio dei muscoli, la zebra alza la testa
Mentre la morte veste iena.

Nemmeno un lapsus ci salverà
E il giorno che diventeremo immortali
Un afflosciarsi di bottiglia
Indicherà il fulmine abbattuto
sul re delle aspirapolveri.

Marie Laure Colasson Abstract_7

M.L. Colasson Struttura dissipativa, acrilico 25×40, 2019

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Poesie di Marie Laure Colasson

La serendipità del linguaggio corrisponde alla serendipità del funzionamento della nostra mente, come bene illustra la citazione del matematico Poincaré. La poetry kitchen non può fare a meno della prassi serendipica, e questo conferisce una novità straordinaria e dà straordinarie possibilità alla scrittura poetica. Eccone un esempio.

12.

Un berlingot* géant dit à la blanche geisha
“Écoute cette mélopée guerrière écoute
Tagada boum boum…”

“Eh bien oui c’est crever le plein
et le vider comme un cochon bio-orthogonal
assis sur un fauteuil Louis Philippe”
répond-elle allongée sur un tapis volant

“Ou bien” ajoute Eredia
“Un tuyau d’aspiration muni de 48 dents
et 3 ventricules!”

“Cela semble vraiment une source de nourriture
pour un yaourt rempli de poils de pubis”
tranche sévèrement Madame Green

L’homme du vide muet Continua a leggere

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Sylvia Plath, brani da The Bell Jar – Poesie scelte a cura di Giorgio Linguaglossa, La campana di vetro. Poesie, Daddy, Papà, I am vertical, Io sono verticale, Tulips, Tulipani, Daddy, Papà, The Munich Mannequins, I manichini di Monaco, Mirror, Specchio –

Sylvia Plath_Ted_Hughs da La campana di vetro (The Bell Jar) trad. Adriana Bottini e Anna Ravano, Mondadori, 2017, pp. 244, € 12,00

… non riuscivo a provare un bel niente. […] dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.

*

Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente.

*
Sarà anche bello mantenersi pure e poi sposare un uomo puro, ma se dopo sposati lui confessa di non esserlo, come aveva fatto Buddy Willard con me? Non sopportavo l’idea che la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo invece può condurre una doppia vita, una casta e l’altra no.

*
Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la «sicurezza assoluta» ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni.

*
… mi sentii un’incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L’unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, e anche quell’epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell’università che si trova tutt’a un tratto di fronte a Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d’oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero.
*
Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare
per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi.

Non aveva senso alzarsi.
Cosa aveva da offrirmi la giornata?

*
Vidi gli anni della mia vita in fila uno dietro l’altro come pali del telefono lungo una strada, collegati insieme dai cavi. Contai uno, due, tre… diciannove pali, ma dopo il diciannovesimo i cavi spenzolavano nel vuoto, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nessun altro palo.

*

E non mi ero lavata i vestiti e i capelli perché mi sembrava una cosa assurda.
Vedevo i giorni dell’anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l’una dall’altra dall’ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita.
Mi sembrava assurdo stare a lavarmi, se poi mi toccava rifarlo di nuovo il giorno dopo.
Solo a pensarci, mi sentivo stanca.
Volevo fare le cose una volta per tutte e basta, chiuso.
Ad ogni tentativo di suicidio, il corpo di Esther, determinato a vivere, sembra ribellarsi: «la mia carne si ritrasse, vigliaccamente, da una simile morte». Quando tenta di annegare, il suo cuore ad ogni battito, fastidiosamente per Esther che vuole morire, sembra affermare la propria presenza ovvero l’esistenza stessa di Esther: «io sono io sono io sono» non è altro che la ribellione quasi naturale e istintiva alla morte e il desiderio del corpo di vivere.
Decisi di spingermi al largo finché sarei stata troppo stanca per tornare a riva. Mentre nuotavo, il battito del cuore mi rimbombava nelle orecchie ossessivo come uno stupido motore.
Io sono io sono io sono.
«Mai aveva amato tanto il proprio corpo come in questo momento nel quale il suo possesso era così precario» scrive Jack London nel capitolo 3 di Zanna Bianca e infatti ho notato una certa somiglianza tra questa parte del romanzo di Jack London e il brano qui sotto de La campana di vetro: in entrambi sembra che, essendo la propria carne in pericolo (ne La campana di vetro per via del suicidio, in Zanna Bianca la carne potrebbe essere sbranata dai lupi), ci si affeziona ad essa e così ci si attacca ancora di più alla vita.
Non so più quale filosofo romano, quando gli avevano chiesto che modo avrebbe scelto per morire, aveva risposto che si sarebbe aperto le vene in una vasca di acqua tiepida. Sembrava facile: sdraiarmi nella vasca e guardare il rosso che sbocciava dai polsi, un fiotto dietro l’altro nell’acqua trasparente, fino ad affondare nel sonno sotto una superficie sgargiante come un campo di papaveri.
Ma al momento buono, la pelle dei polsi sembrava così bianca e indifesa che non me l’ero sentita. Era come se la cosa che volevo uccidere non fosse in quella pelle e nella sottile vena azzurra che sentivo pulsare forte sotto il mio dito, ma altrove, in un luogo più profondo, più segreto, e molto più difficile da raggiungere.
Alla fine del romanzo, l’aria metifica lascia il posto ad un’aria più rarefatta, la campana vetro non rinchiude più al suo interno Esther.
La campana di vetro stava sospesa qualche spanna sopra la mia testa e l’aria circolava liberamente intorno.

*

Ma non era detto. Non era affatto detto. Chi mi assicurava che un giorno – al college, in Europa, chissà dove, dovunque – la campana di vetro non sarebbe scesa di nuovo, con le sue soffocanti distorsioni.

*

Un brutto sogno.
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. Un brutto sogno.
Io ricordavo tutto.
Ricordavo i cadaveri, Doreen, la storia dell’albero di fico, il brillante di Marco, il marinaio del Common, l’infermiera strabica del dottor Gordon, i termometri in frantumi, il negro con i suoi due tipi di fagioli, i dieci chili messi su per l’insulina, lo scoglio rotondo tra cielo e mare simile a un teschio grigio.
Forse l’oblio, come una neve gentile, avrebbe dovuto attutire e coprire tutto.
Ma quelle cose facevano parte di me. Erano il mio paesaggio.

*.
La cucitura delle calze era dritta, le scarpe nere screpolate ma lucide, e il tailleur rosso di lana era smagliante come i miei progetti. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo…
Ma io non andavo a sposarmi. Dovrebbe esistere un rito, pensai, per celebrare la seconda nascita – per quando si è stati rattoppati, ricostruiti e omologati per la strada.

*

Feci un profondo respiro e ascoltai il mio cuore ripetere l’antica vanteria.
Io sono, io sono, io sono.

Sylvia Plath_1

Poesie di Sylvia Plath

Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
che succhia minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ci fa caso.
A volte penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
i miei pensieri finiti in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno quando starò sdraiata per sempre:
Allora gli alberi potranno toccarmi, i fiori avranno tempo per me.

I am Vertical

But I would rather be horizontal.
I am not a tree with my root in the soil
Sucking up minerals and motherly love
So that each March I may gleam into leaf,
Nor am I the beauty of a garden bed
Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
Unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
And a flower-head not tall, but more startling,
And I want the one’s longevity and the other’s daring.

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
The trees and the flowers have been strewing their cool odors.
I walk among them, but none of them are noticing.
Sometimes I think that when I am sleeping
I must most perfectly resemble them —
Thoughts gone dim.
It is more natural to me, lying down.
Then the sky and I are in open conversation,
And I shall be useful when I lie down finally:
Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.

Sylvia Plath_5
Tulipani

Guarda com’è tutto bianco, com’è quieto, coperto di neve.
Imparo la tranquillità, mentendo da sola in silenzio
Mentre la luce giace su queste pareti bianche, su questo letto, su queste mani.
Non sono nessuno; Non ho niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e il mio abbigliamento da giorno alle infermiere
E la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Mi hanno appoggiato la testa tra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
Come un occhio tra due palpebre bianche che non si chiudono.
Stupida allieva, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e passano, non danno fastidio,
Passano nel modo in cui i gabbiani attraversano l’entroterra con i loro berretti bianchi,
Fare le cose con le mani, una uguale all’altra,
Quindi è impossibile dire quanti sono.
Il mio corpo è un sassolino per loro, lo curano come l’acqua
Tende ai ciottoli su cui deve scorrere, li leviga delicatamente.
Mi portano intorpidimento nei loro aghi luminosi, mi portano il sonno.
Ora mi sono persa, sono stanca dei bagagli

——
La mia custodia per la notte in vernice come un portapillole nero,
Mio marito e mio figlio sorridono dalla foto di famiglia;
I loro sorrisi si attaccano alla mia pelle, piccoli ganci sorridenti.
Ho lasciato scivolare le cose, un mercantile di trent’anni
tenacemente aggrappato al mio nome e indirizzo.
Mi hanno ripulito dalle mie amorose associazioni.
Spaventata e nuda sul carrello verde con cuscini di plastica
Ho guardato il mio set da tè, i miei uffici di biancheria, i miei libri
Affondano fuori dalla vista e l’acqua mi è passata sopra la testa.
Sono una suora adesso, non sono mai stata così pura.
Non volevo fiori, volevo solo
Stare sdraiata con le mani alzate ed essere completamente vuoto.
Quanto è gratuito, non hai idea di quanto sia libero
——
La tranquillità è così grande che ti stordisce,
E non chiede nulla, un’etichetta con il nome, alcuni ninnoli.
È ciò su cui si avvicinano i morti, finalmente; Li immagino
Ci chiudono la bocca sopra, come una tavoletta da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi fanno male.
Anche attraverso la carta regalo li sentivo respirare
Con leggerezza, attraverso le loro fasce bianche, come un bambino orribile.
Il loro rossore parla alla mia ferita, corrisponde.
Sono sottili: sembrano galleggiare, sebbene mi appesantiscano,
Sconvolgendomi con le loro lingue improvvise e il loro colore,
Una dozzina di piombi di piombo rosso intorno al mio collo.
Nessuno mi ha guardata prima, ora sono osservata.
I tulipani si girano verso di me e la finestra dietro di me
Dove una volta al giorno la luce si allarga lentamente e si assottiglia lentamente,
E mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
Tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
E non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I tulipani vividi mangiano il mio ossigeno.
Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
Andare e venire, respiro dopo respiro, senza problemi.
Poi i tulipani lo riempirono come un forte rumore.
Ora l’aria si impiglia e vortica intorno a loro come un fiume
Impacchi e vortici attorno a un motore rosso ruggine affondato.
Concentrano la mia attenzione, ero felice
Giocare e riposare senza impegnarsi.
Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere dietro le sbarre come animali pericolosi;
Si stanno aprendo come la bocca di un grande gatto africano,
E sono consapevole del mio cuore: si apre e si chiude
La sua ciotola di fiori rossi sboccia per puro amore per me.
L’acqua che assaggio è calda e salata, come il mare,
E viene da un paese lontano come la salute. Continua a leggere

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Due poesie sul topos  “Odisseo a Telemaco” di Iosif Brodskij e Giorgio Linguaglossa. Traduzioni di Giovanni Buttafava e Donata De Bartolomeo. Odisseo è l’uomo che, per primo, fa esperienza della perdita della memoria (un vero e proprio stato di ebbrezza) e, proprio grazie a questa esperienza di perdita, può attraversare il mondo alla ricerca di ciò che ha perduto. È il primo uomo dell’Occidente a dover fare i conti con questo aspetto tipico della psicosi, d’ora in avanti tutti gli uomini saranno segnati da un meccanismo psicotico che agisce all’interno della propria psiche, In Odisseo la perdita di tempo viene a coincidere per la prima volta nella storia europea con la perdita di memoria. Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo

josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

josif-brodskij: «La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo»

È il tempo la fonte del ritmo (Brodskij)

« Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…

Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.

Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?

Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.»*

*[L’intervista di Solomon Volkov a Iosif Brodskij “Marina Cvetaeva, Primavera 1980 – Autunno 1990″, è stata pubblicata nella traduzione di Gala Dobrynina da Lietocolle, nel 2016, pp. 400 € 20,00]

Josif Brodskij e Venezia

Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo

Il problema del «tempo» che dilata lo «spazio»  è ben visibile nella poesia di Brodskij “Odisseo a Telemaco”, che è tutta costruita su questa immagine:

Eppure la strada che porta
a casa si è rivelata troppo lunga,
come se Poseidone, mentre là
cincischiavamo, dilatasse lo spazio

Il «tempo» che «entra» nella poesia e che modifica e determina la costruzione sintattica e la stessa costruzione fonologica della poesia è una grande invenzione della poesia europea, mai prima del 1972 un poeta europeo aveva immaginato questa possibilità, del «tempo» (interno della poesia) che detta le immagini e lo scorrimento delle immagini (che da esterne diventano interne al testo).

Nella poesia italiana del tardo novecento nessun poeta ha intuito questa possibilità, e si è continuato ad perorare un concetto del «tempo» come di un fattore «esterno», non come di un fattore «interno» della poesia. Il «tempo» è neutrale e naturale, non dipende dalla volontà del poeta, gli è estraneo, gli è indipendente, questa è la grande inventio del topos di Brodskij.

Nella intervista sopra citata, Brodskij affronta proprio questo aspetto: che cosa significa poeticamente il problema della «neutralità» del «tempo» della poesia di un Wistan Hugh Auden e di una Marina Cvetaeva?
Per semplificare, direi che qui si tocca un aspetto centrale della poesia del XX e del XXI secolo, un aspetto attuale, attualissimo.
Brodskij aveva compreso che nella poesia della Cvetaeva il «tempo» modifica la struttura sintattica proprio come la gravità modifica la struttura spazio-temporale. Il problema è la traduzione della poesia cvetaeviana, la più difficile da rendere in altre lingue. E qui faccio un profondo inchino alla capacità di Donata De Bartolomeo di aderire, direi quasi mimeticamente, al russo e di trasportare, nella sua traduzione, per quanto possibile, gli strati di tempo dalla lingua russa a quella italiana. Si tratta di un  difficilissimo trasbordo. La sintassi così deformata modifica a sua volta l’apparato fonetico, il quale a sua volta reagisce modificando, di ritorno, il sistema sintattico. Chi capisce di poesia può comprendere quello che sto dicendo.

In Odisseo la perdita di tempo viene a coincidere per la prima volta nella storia europea con la perdita di memoria. Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo. La «voce» del poeta non si situa più all’esterno ma è una «voce» interna al testo, è la «voce» di chi ha preso ragione della perdita di memoria e il cui discorso sorge appunto in ragione di questa perdita, soltanto a questo punto è possibile attingere la «neutralità» della «voce».

Nella mia poesia “Odisseo a Telemaco” ho consentito al «tempo» di fare ingresso nella struttura sintattico-semantica della composizione, e mi sono posto, per così dire, in posizione di terzietà. Il «tempo» introduce sempre della modificazioni nella struttura sintattica di un testo poetico, anche in modo inconsapevole, perché agisce sua sponte.

Nella famosa poesia “Odisseo a Telemaco” Brodskij dà una magistrale esemplificazione di come si possa scrivere una poesia sull’ingresso del tempo nella struttura poetica proprio nel momento in cui il suo personaggio, Odisseo, è colpito dalla perdita della memoria.

josif brodskij

Nel commento di Lacan al saggio La Negazione di Freud, viene messo in evidenza un concetto, la Verwerdung, tradotto con «forclusione». La psicanalisi lacaniana ci  dice che la forclusione è il meccanismo specifico che struttura le psicosi, meccanismo che opera sul significante che permette l’articolazione del simbolico, e, forcludendolo, impedisce che la «cosa» acceda al simbolico, che la «cosa» accada e che, conseguentemente, ritorna nel Reale, meccanismo ben visibile nelle allucinazioni o nei deliri degli psicotici. Gli uomini si possono ritenere fortunati se non incontrano questa realizzazione totale del principio di piacere se non molto raramente, in una condizione analoga a quella degli ubriachi i quali sono persi infinitamente nella loro ebbrezza, nella dimensione col tempo, con lo spazio e con la memoria strettamente correlata al tempo; è proprio grazie a questa perdita totale ciò che può permetterci di immaginarci l’esperienza della Cosa. Infatti, nessuno può ricordare quello che veramente ha  fatto in stato di ebbrezza totale, tutti gli uomini possono però ritornarci per il tramite di altre esperienze, per il tramite del ritorno.

Odisseo è l’uomo che, per primo, fa esperienza della perdita della memoria (un vero e proprio stato di ebbrezza) e, proprio grazie a questa esperienza di perdita, può attraversare il mondo alla ricerca di ciò che ha perduto. È il primo uomo dell’Occidente a dover fare i conti con questo aspetto tipico della psicosi. D’ora in avanti tutti gli uomini saranno segnati da un meccanismo psicotico che agisce all’interno della propria psiche. È un paradosso, ma è così che funzionerà la psiche degli uomini dell’Occidente, i quali grazie alla perdita della Cosa potranno accedere alle «cose», alla felicità consentita delle piccole «cose» del quotidiano. Così, Odisseo potrà fare ritorno nella piccola e brutta isoletta Itaca, presso la sua vecchia moglie Penelope, accanto al figlio che non ha mai più rivisto da quando era nella culla e che è diventato un adulto, un estraneo. È soltanto attraverso il dolore della «perdita» che Odisseo e l’uomo dell’Occidente che verrà, potranno trovare una soluzione conciliativa al proprio conflitto interiore. Nasce l’uomo dell’Occidente che acquisisce capacità rappresentative attraverso l’uso del linguaggio, ma si tratta di un linguaggio che nasce dalla perdita della memoria e dal ritorno.

Affinché la percezione si organizzi intorno alla «rappresentazione» è necessario che il soggetto vi sia introdotto da qualcuno: dalla parola della madre; la funzione materna, quella che dà accesso al simbolico, avviene attraverso l’intervento del linguaggio materno e del trauma che ne segue, questo trauma obbliga il bambino a perdere la cosa, la natura (la zoé  aristotelica), ciò che gli consentirà l’ingresso nel bios, nel corpo, un corpo regolato dalla «rappresentazione». Questo è il passaggio fondamentale e strutturale, il momento in cui si struttura la soggettività umana e sorge la storia. Lacan mette in luce come proprio a questo punto si acceda al simbolico. Da questo momento in poi, da quando entriamo nella Parola perdiamo la Cosa (il soddisfacimento reale). Per dirla con le parole dell’antropologia di Levi-Strauss, per l’essere umano la natura è immediatamente cultura. Non c’è differenza tra natura e cultura, perché in quel momento preciso sorge la soggettività umana e l’umano perde completamente l’animalità, si umanizza; da questo momento in poi non possiamo più tornare indietro, non possiamo più tornare animali: anche la crudeltà umana non ha nulla a che spartire con la ferocia naturale delle fiere. Ecco, questo è l’annuncio del simbolico: la presenza, l’intervento della parola della madre e la perdita dello stato di quiete totale nella inconsapevolezza, struttura il simbolico e dà forma alla condizione della soggettività che entra nella storia.

È inoppugnabile che con Odisseo nasce la soggettività in senso moderno, quindi possiamo affiliare Odisseo tra di noi, come nostro antenato e nostro simile.
Il soggetto, ci dice la psicanalisi lacaniana, è sempre barrato, presenta una frattura strutturale, è alienato ab initio come io (moi) nella sua immagine speculare e come soggetto (je) nella dimensione del significante. Di qui la conseguenza che il negativo (la barratura interna al soggetto che lo attraversa in lungo e in largo) non può mai essere definitivamente eliminato; l’inquietudine di Odisseo non si arresta al livello coscienziale, ma si presenta anche e soprattutto a livello inconscio, in questo luogo sarà abitata da un soggetto anch’esso barrato (con la S/s del significante in posizione di supremazia rispetto al significato); ciò vuol significare che la psicosi che mina dall’interno il soggetto (Odisseo) il quale vuole con la coscienza il ritorno, ma che dis-vuole con l’inconscio, non potrà mai più trovare una soluzione conciliativa. Il significante adesso ha il comando sulla soggettività barrata: ciò che la coscienza comanda, il viaggio, è la peripezia del significante che incide il soggetto barrato (Odisseo); il viaggio apre il soggetto barrato alla storia e lo getta in essa, vuoto e nudo, preda propizia di un significante, di un comando che gli viene dall’inconscio.
Odisseo è il primo umano che ha a che fare con il proprio «fantasma» e che decide di affrontarlo, quel «fantasma» che regola l’universo della sua esperienza. Il soggetto freudiano dell’inconscio emerge soltanto quando un aspetto-chiave dell’(auto)esperienza del soggetto, il suo «fantasma fondamentale», gli diviene inaccessibile, rimosso a un livello primordiale. Ciò è evidente quando  Odisseo ordina ai suoi marinai di legarlo all’albero maestro per non sentire la voce melodiosa del canto delle sirene, una astuzia che gli consentirà di vincere la prova di forza con il suo «fantasma», oltrepassare l’abisso che lo separa dal «fantasma».

Il topos è noto: il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non udire il canto sinuoso delle sirene e la duplice strategia di Odisseo (per i marinai la cera alle orecchie, per Odisseo la legatura del suo corpo all’albero maestro della nave). Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (1942-1947) leggono il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non sentire il canto sinuoso delle sirene così: si invita a formulare un giudizio di DUPLICE negazione: non stare né dalla parte di Odisseo né dalla parte dei suoi marinai (la «società borghese» creatrice dell’ideologia dell’illuminismo). Odisseo rappresenta la nascita e l’autoconservazione del soggetto borghese, del Sé ideologico ma anche della struttura di potere vigente nella società contemporanea. Viene descritta un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita della civiltà occidentale che, nella modernità, culmina con l’instaurarsi di un controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere umano. Ma è sulla alienazione originaria che si innesta l’alienazione secondaria, quella ideologica costruita dalla abile strategia di Odisseo, l’una non è possibile senza la compartecipazione della alienazione originaria. L’ideologia del dominio dell’Occidente sulla natura e su quella parte del genere umano in posizione subordinata non sarebbe stata possibile senza impiantare l’ideologia tutta politica del dominio sulla cancellazione della coscienza del Sé, della perdita della memoria e della consapevolezza dell’io in capo ai marinai: non udire il canto sinuoso delle Sirene significa per i marinai rinunciare ad ascoltare il linguaggio del ricordo e della corrispondenza con gli altri uomini e la natura. I imarinai ormai dovranno soltanto ascoltare e ubbidire al linguaggio di un uomo solo: Odisseo.

Come ai tempi di Odisseo, anche noi oggi viviamo in un mondo pericoloso e instabile, esattamente come ai tempi di Odisseo e di Agamennone. A quei tempi Odisseo tentò di sottrarsi alla chiamata alle armi di Agamennone fingendosi pazzo, ma poi il trucco di Palamede lo smascherò e l’Acuto fu costretto a partire con una flottiglia di itacensi alla volta di Troia.
Anche oggi noi ci troviamo all’interno di un Grande vortice: la guerra planetaria (dalla guerra di Ucraina a quella nell’Indopacifico); anche noi (la piccola Italia) potremmo tentare di fingerci pazzi, o sciocchi, o inconsapevoli, o inermi, o altro… e chiedere di essere esentati dal partecipare, anche simbolicamente, alla Grande Guerra, e forse ci riusciremmo, tanto siamo piccoli e ininfluenti a livello planetario. Ma poi il vincitore ce la farebbe pagare salato (leggi Tucidide, il discorso degli ambasciatori ateniesi ai melii).
A nulla valse la furbizia di Odisseo per scansare la guerra. La guerra ci fu, e determinò la storia a seguire.
Dentro questo gigantesco sconvolgimento che avrà ripercussioni sulle nostre vite e sulle nostre tasche (che l’Italia partecipi a vario titolo o no), noi siamo costretti a vivere. Nessun italiano di oggi vuole la guerra, tranne qualche pazzo, quindi, in realtà, siamo tutti pacifisti. Certo, sarebbe bello gettare tutte le (poche) armi che abbiamo, sciogliere l’esercito che abbiamo e dichiararci nazione pacifica e pacifista, al pari della Svizzera, ma questo avrebbe poi un costo: il vincitore della guerra di domani ci chiederà il conto, e possiamo essere sicuri che sarà molto salato.
In tutto questo calamitoso frangente, schiere di poeti continueranno a scrivere montagne di poesiole sull’io, sulle sue malizie, sulle sue masserizie e sulle sue nostalgie. Sotteggoalgia poetica di poco, se non di pochissimo conto.

(Giorgio Linguaglossa)

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Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(traduzione di Giovanni Buttafava)

Odisseo a Telemaco

Mio Telemaco,
la guerra di Troia
è finita. Chi ha vinto – non ricordo.
Saranno stati i greci: solo i greci
possono lasciare tanti morti fuori di casa…
Eppure la strada che porta
a casa si è rivelata troppo lunga,
come se Poseidone, mentre là
cincischiavamo, dilatasse lo spazio.
Non so dove mi trovo,
cosa c’è davanti a me. Una specie di isola sporca,
cespugli, edifici, grugnito di maiali,
un giardino incolto, una specie di regina,
erba e pietre*…Caro Telemaco,
tutte le isole si assomigliano
quando vaghi così a lungo, e il cervello
già si smarrisce, contando le onde,
l’occhio, infestato d’orizzonte, lacrima
e la carne acquosa copre l’udito.
Non ricordo come è finita la guerra
e quanti anni hai adesso, non ricordo.

Cresci grande, Telemaco, cresci.
Solo gli dei sanno se ci vedremo ancora.
Anche adesso non sei lo stesso bambino
dinanzi al quale trattenevo i tori.
Non fosse per Palamede, vivevamo insieme.**
Ma forse ha ragione lui: senza di me
ti sei liberato dalle pulsioni d’Edipo
ed i tuoi sogni, mio Telemaco, sono senza peccato. Continua a leggere

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Céline Menghi, ‘(H)a letto’, romanzo, Genesi editrice, Torino, 2021 pp. 78, 10,00 Lettura di Giorgio Linguaglossa, il romanzo indaga lo stato di confusione tra desiderio di felicità e uno stato di perenne dispersione esistenziale sotto l’egida di una euforia del possesso che Foucault ha riassunto con una frase emblematica: «oggi la vita è divenuta un esercizio di potere»

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 … anche quest’anno la trasmissione conferma la sua formula, a metà fra il rotocalco e il talk show

(didascalia di presentazione della trasmissione ‘Agorà’ di Rai 3)

La storia di questo anti-romanzo ci vuole dire qualcosa di noi che c’è e che scompare di continuo, che è sempre altrove, magari al tavolo ristretto del “G 7”, che una volta era il “G 8” o il “G 20”, in quel tavolo che forse esiste, o forse no, un luogo dove si «giocano» i destini generazionali, il cui accesso è per qualche mistero a noi sempre interdetto.
Scrive Sandro Gros-Pietro nel risvolto di copertina: «Un personaggio femminile racconta la vicenda, in chiave di falsetto autobiografico, incentrata sull’incontro con un’extracomunitaria dell’estremo oriente, con ogni probabilità cinese, e che porta il nome di una nota eroina dei fumetti, Zhu-Li. Il dialogo serrato… viene inserito nel più ampio dialogo interiore mantenuto sempre vivo dalla protagonista, come pista psicanalitica di analisi e di indagine psicologica dei percorsi della mente».
Ai personaggi restano le apparentemente più prosaiche questioni dell’amore, della sensualità, della condizione psicologica ed esistenziale, un pianeta di micro sensazioni che orbita intorno al cuore delle cose, ammesso che esista un «cuore delle cose».
(H)a letto è scritto in uno stile che oscilla, di digressione in digressione, tra stupore e una nostalgica rassegnazione, che contrassegna, forse, la Stimmung di una generazione, la nostra, che si è trovata tagliata fuori dalla Storia, condannata ad abitare la cornice di un asfittico quotidiano, con la conseguente riconfigurazione in chiave borghese delle categorie del desiderio e della felicità.
È una generazione, quella di Céline Menghi e la nostra, che ha dovuto subire l’ideologia invasiva della vita privata, e l’ha eretta, involontariamente e inconsapevolmente, a proprio monumento identitario. (H)a letto è l’antiromanzo della vita privata dei giorni nostri, una vita biologica e psicologica mancante però di una dimensione «altra», di cui tuttavia continua a percepire una intollerabile e incolpevole nostalgia.
È una generazione, quella che emerge dal romanzo, fondata su dicotomie e antinomie che convivono e confliggono; una generazione che vive l’esistenza come una successione di bivi, una sequenza di indirezioni in una tabella di marcia dove ogni scelta è una non-scelta o una scelta subita o involontaria. Il luogo dove si decide la felicità o l’infelicità non è il «nostro» luogo, ma un luogo che non conosciamo; scegliere a volte è nessitata, perché ogni scelta comporta un’esclusione. In tal senso, (H)a letto rispecchia una condizione diffusa del nostro modo-di-vita nel segno di una ambizione egotica che resta sempre delusa o inconsapevole. Il romanzo (o piuttosto, l’anti-romanzo) indaga lo stato di confusione tra desiderio di felicità e uno stato di perenne dispersione esistenziale sotto l’egida di una euforia del possesso che Foucault ha riassunto con una frase emblematica: «oggi la vita è divenuta un esercizio di potere».
(H)a letto non è un anti-romanzo d’un amore, tantomeno una lifelong story ma è un anti-romanzo sull’esistenza che diventa desistenza, dove due modi di essere si alternano e si contrappongono, mettendo il lettore davanti alla piacevole sensazione di essere lì, tra le righe del romanzo, a spiare.
(H)a letto è un anti-romanzo della nostra condizione di dispersione simbolica, che descrive con cautela, con leggerezza. È questo forse il tema segreto dell’anti-romanzo: gli altri ci influenzano, sempre; e non sapremo mai fino a che punto la nostra esistenza non è stata il risultato dei nostri desideri e delle nostre azioni, quanto dei desideri e delle azioni che abbiamo subìto e/o tollerato.

È un intreccio di enunciati segmentato, dissestato, sismicizzato ma al contempo elastico. La nuova fenomenologia della narratività adotta in senso postmodernistico lo storytelling quale cornice multidimensionale e prospettica in quanto a-centrica, o meglio, pluri-centrica.
Le singole unità narrative, le scene, appaiono e scompaiono da una «zona franca». Per questa ragione la formalizzazione strutturale, la composizione a polittico e a distico viene in primo piano a scapito della modellizzazione stilistica unidimensionale della poesia e della narrativa della tradizione.
Le opere della «narratività diffusa» della nuova fenomenologia della narratività si vestono di una nuova e inusitata a-centralità.

(Giorgio Linguaglossa)

Céline Menghi 1

(Céline Menghi)

Stralci dal romanzo (H)a letto

Mi sembra di colpo di non sapere più niente: dove sono, perché. Non sopporto di non sapere più niente. Lei mi sollecita il corpo, il cervello, l’anima. L’anima? Che cos’è l’anima? Ora mi vesto.

Devo vestirmi.
Devo andare.
Devo tornare.
Mi farà impazzire— Forse l’amo un po’, o lo penso, o mi piace pensarlo. Forse mi avventura pensarlo. Ma no, non è vero. Però lo penso, e, se lo penso, è perché forse sto incominciando a… No, non è vero. Mi vesto.
Devo vestirmi.
Non so domani.
La maiolica è verde acido. Ecco. Mi mancherà, domani… Guardo la mia mano appoggiata alla maiolica. In piedi, fisso la maiolica e penso. Penso molto, penso, penso, mi areno nel pensare, lo so.
Ogni volta torno.
Torno.
Accidenti, torno da lei!
E poi torno a casa.
Non faccio che tornare. Da lei, poi a casa, poi da lei, ma sempre torno a casa.
Torno, perché appena incrocio i suo sguardo, appena la sfioro…

Le pieghe del lenzuolo sono valli, canali, canyon, fanno una montagna altissima le cui pendici scivolano dal ginocchio sulla nuda pelle. Tutto così ridicolo se una ci pensa un po’ di più. Un brivido le percorre il corpo e corre a non pensarci più. Guarda qui, si dice: il letto sfatto come capelli sciolti e arruffati, la finestra spalancata tanto nessuno ci vede. Il suo corpo, qui, abbandonato come crema appena fatta e ancora tiepida, da gustare ancora, mentre uno stormo di pappagalli verdi e viola si sta posando sull’albero di arance e piano piano le svuoterà tutte. Incomincia a fare caldo.

*

La strada è deserta.
La città silente.
Un drone passa sulla mia testa.
Silenzio.
da un marciapiedi all’altro risuonano i passi.
Non sento più il rumore del traffico.
Ambulanze, ambulanze… Non è una rarità, è un suono che solca la rarefazione dell’aria e la scrive giorno dopo giorno, ora dopo ora. Scrive questa storia mai pensata

… attacca la proteina… si sposta, sabato un filamento filamento… si aggancia a un nastro…
fila fila
a noi il lamento
invisibile, piccolissimo… venerdì, sabato, picco, respiro e lamento, filamento invisibile filamento

distanziamento spostamento
si attacca la proteina si aggancia invisibile

Il tempo di svuotare la spazzatura
In sogno mi strappo i guanti come una pelle ustionata e mi guardano come se non fossi io, non mi riconosco

La strada sembra un nastro trasportatore fermo.
Lo spazio non ha solchi.
La strada è un nastro trasportatore fermo.
Lo spazio senza solchi.

*

Bai Yun duo mi porta a casa
—- Huizi
Buongiorno! persone
Le nuvole nere sono bianche come il cotone
Improvvisamente nostalgia di casa

Trascorri la luna piena qui in primavera
Lamentarsi del calendario in crescita
Forse ci sarà sempre una fragranza floreale
Ma il tempo è passato

Indipendentemente dalla primavera, fragranza floreale
Pianifica un viaggio di ritorno
La bella stagione dei fiori e degli uccelli
Sono molto grato per la bellezza della vita
Credi che avere amore interiore significhi avere

*

Lo scirocco ottunde i sensi
I fichi si spaccano sul granito
Succosa carne sulla pietra secca

Brillavano minuscoli cristalli

Mi chiedi cosa sto pensando, Enel
Premurosa, telefoni di sabato, di sera, e parlando di solitudine!
Non sto pensando

Ascolto
Guardo
Sono inciampata in un rospo nella sterrata bianca, se è vivo, sarà fortuna

Enel, concedimi una tregua

Senza connessione.
Fammi sparire con una strisciata di dito
Non passerò a Illumia d’immenso!

Il sole sferza ogni cosa dove passa, si sosta

Il cielo è opaco
Un’ala d’uccello frulla la sua ombra
Non sosta, va via e via…

Forse ti spegnerò, gas

Mi avvolgerò nella lana
Darò della lana*

  • da Céline Menghi, Foulard amaranto, Genesi editrice, 2023

foto, porta vincent-branciforti

foto di Vincent Branciforti, Porta –

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Céline Menghi è nata a Milano e vive e lavora a Roma. È psicoanalista, membro dell’Associazione Mondiale di psicoanalisi e della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. È docente dell’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza. È membro del Comitato scientifico del Consultorio “Il Cortile” presso La Casa Internazionale delle donne a Roma. Ha tradotto testi di psicoanalisi dal francese e dallo spagnolo di vari autori, tra cui Jacques Lacan e Jacques-Alain Miller. Ha pubblicato in diverse riviste italiane e straniere e due saggi con altri autori: “Invenzioni nelle psicosi” (Quodlibet, 2008), “Cinque pezzi difficili” (Alpes, 2016). È stata capo redattore della rivista “attualità Lacaniana” dal 2019 al 2022. Ha pubblicato quattro romanzi con la casa editrice Genesi: Dire mu (2019), Blu cobalto (2020, di prossima pubblicazione in lingua spagnola), (H)a letto (2021), Foulard amaranto (2023, terza al Premio Emily Dickinson).

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“Quello che rimpiango”, La lettera di Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino dell’8 luglio 1974, Pubblichiamo la Lettera perché oggi il problema sollevato da Pasolini si ripropone, ma in termini esattamente capovolti, di una Italia che continua a restare post-fascista nel profondo e in superficie, nel sottosuolo e nel soprasuolo. Come è stato possibile che, a distanza di cinquanta anni, si ripropone l’interrogativo sollevato da Pasolini di un Paese eternamente fascista e/o post-fascista? L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. “Io non rimpiango nulla di quelle antiche polemiche”, di Giorgio Linguaglossa

Pasolini al Rosati Roma

La famosa Lettera di Pier Paolo Pasolini “Quello che rimpiango” pubblicata sul “Corriere della sera” l’8 luglio 1974 scritta in risposta a Calvino, il quale aveva asserito che Pasolini era rimasto legato ad una visione mitica e nostalgica dell’Italia contadina precedente agli anni sessanta.
Pubblichiamo la Lettera perché oggi il problema sollevato da Pasolini si ripropone, ma in termini esattamente capovolti, di una Italia che continua a restare post-fascista nel profondo e in superficie,nel sottosuolo e nel soprasuolo. Come è stato possibile che, a distanza di cinquanta anni, si ripropone l’interrogativo sollevato da Pasolini di un Paese eternamente fascista e/o post-fascista?

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Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’«età dell’oro», tu dici che rimpiango l’«Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi («Paese sera», 5-1-1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.
L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu…

D’altra parte questa «Italietta», per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà l’«Espresso», vedi la noterella introduttiva («Espresso», 23-6-1974) ad alcuni interventi sulla mia tesi («Corriere della Sera», 10-6-1974): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del «Borghese».
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia. L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano – penso a De Martino – la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).
Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.

Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi: e quindi probabilmente anche migliori. Questo lo dico per una allusione («Paese sera», 21-6-1974) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l’uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul «Messaggero», (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli.» Ma: 1) certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.
(8 luglio 1974)

«In un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d’appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto.»

(Italo Calvino, Lezioni americane, 1988)

«Come scriverei bene se non ci fossi ! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!»

(Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979)

«Io non rimpiango nulla di quelle antiche polemiche»

di Giorgio Linguaglossa

È la condizione di Emergenza che determina la «rivoluzione»
È la condizione di Emergenza che determina il «nuovo politico»
È la condizione di Emergenza che determina la «nuova poiesis»

La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, ha preso conoscenza che la produzione culturale, come ogni produzione, è oggi appiattita  sulla comunicazione, anzi,  è diventata una sottovariante della comunicazione. La strategia decostruzionista di Calvino e le rabbie urticanti di Pasolini sono state derubricate dal capitale a idiosincrasie e a psicopatologie; la poetry kitchen ne prende semplicemente atto, anch’essa ha cancellato dalla propria agenda espressiva gli oggetti (come del resto ha già fatto il capitale), in quanto ha know-how delle priorità del capitalismo cognitivo che ha «cancellato» anche le merci; restano i mana, i gadget, i superpiù valoriali delle merci; tutto questo costituisce il vero volano dell’ideologia maggioritaria, quella fitta di scetticismo, cinismo, fatticismo e tatticismo che si muove all’interno di una area di interoperabilità tra i soggetti e tra i soggetti e gli oggetti, le merci, una zona di «discretizzazione» di tutte le funzioni della trasduzione del capitale, essendo la «trasduzione» nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi e delle merci (leggi oggetti) che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di «trasduzione» (ovvero, di produzione, di scambio e di consumo), essendo il rapporto di «trasduzione» un atto affine a quello  magico all’interno del quale gli elementi del rapporto si trasformano, istantaneamente, in terminali del rapporto stesso, così, il compratore e il venditore di merci una volta entrati nel rapporto trasduttivo cessano di essere meri esterni e diventano elementi interni del rapporto capitalistico. Il capitale cognitivo agisce così in modo affine a quello della magia: con un atto di bacchetta magica trasforma l’esterno in interno e degli elementi «liberi» in attori di un rapporto comunicazionale presentato come «discreto», «neutro», «neutrale» e «liberale». In tal modo il capitalismo cognitivo ha liberalizzato l’avanguardia e qualsiasi opposizione ad esso, anzi, ha fatto di più: ha «trasdotto» l’opposizione in liberalizzazione, in un fatto di legittima scelta tra due o più opzioni, e quindi l’ha legittimata e innocuizzata. Ecco perché oggi un Pasolini è letteralmente impossibile che nasca, ma anche un altro Calvino è problematico che nasca, se non come controfigura di se stesso.

È solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie al laccio del capitale cognitivo. La «nuova poiesis» ha posto nel cassetto dei numismatici la contrapposizione (ideologica) tra Pasolini e Calvino, ha «cancellato» la poiesis della soggettoalgia dell’io, il rumore del silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo presenziale, memoriale e futurologico; tutto ciò oggi appare come archeologia del capitale, ecco perché la «nuova poiesis» è affollata in modo assordante dalla presenza-assenza del «mondo» (gli anti-oggetti), in essa si assiste al «mondeggiare» degli antioggetti e al «coseggiare» delle anticose nullificate e annichilite (non da noi ma dal capitale) con tutte le loro acrobazie e follie. Heideggerianamente, nella produzione culturale del Dopo il Moderno c’è la presenza della «terra» ma come una antica memoria un po’ sbiadita e sfocata, una anticaglia da mettere in vetrina con un prezzo, come vintage, come ripescaggio del dejà vu. Le «funzioni poietiche» sono diventate, nelle nuove condizioni della ideologia qualunquoide del maggioritario, meri espedienti retorici e decorativi che stanno bene tra le suppellettili del salotto, adesivi in bella mostra da porre sul frigorifero e sulla lavatrice. I retorismi diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto trasduttivo del capitale, e gli scrittori diventano dei disoccupati dello «spirito», in coda davanti agli uffici di collocamento delle agenzie stampa delle istituzioni pubbliche e private e delle case editrici, la loro unica preoccupazione è essere ammessi alla celebrazione del magico rito trasduttivo officiato dal capitale, alla «comunicazione» del rapporto trasduttivo ed essere promossi alla funzione di salariati con contratti a tempo determinato. In queste nuove condizioni del capitalismo cognitivo fare poiesis significa interrompere, infrangere il rapporto trasduttivo che traduce tutti i terminali del rapporto stesso in elementi ad esso assimilati. Non c’è via di uscita da questa impasse che operare come sommozzatori o palombari nelle profondità di questo mare armocromista per aprire delle faglie, dei buchi nelle chiglie dei rapporti trasduttivi del capitale.

Come abbiamo visto nei collage di Marie Laure Colasson, les promenades nocturnes, gli uomini di oggi sono dei passeggiatori solitari che vagabondano in una città illuminata ma che non vedono nulla, null’altro che degli stipiti illuminati o malamente illuminati, delle striature di luci, delle sfumature, degli ibridi di colore, dei bizzarri mash up di colori inoperativi che hanno preferito disabilitare ogni operatività, che hanno preferito la disabilità alla «abilità», che non operano e non collaborano tra di loro, che non sanno neanche di dover operare e/o collaborare, perché nel simultaneo emerge l’Estraneo, una forza sconosciuta che non riusciamo a percepire, e quindi noi viviamo come se l’Estraneo non ci fosse. E invece è lì, quest’ospite sgradevole. È la condizione di «Emergenza», dicevo, che crea la «nuova poiesis» e crea noi stessi, è l’Emergenza che ci costringe ad agire, la parola della poiesis è, tra l’altro, del tutto «innocua».
La «nuova poiesis» raffigura questa generale adunanza di «inoperabilità» e di «invalidità» (che non è affatto una «resa»), noi tutti ci troviamo in questa condizione di «inoperabilità»: gli eventi che accadono senza che la nostra volontà vi possa influire (la guerra in Ucraina, la abolizione del reddito di cittadinanza, la detassazione dei ricchi e la tassazione dei poveri, il goal che la Roma incassa al 97° minuto, la prossima guerra che si profila nell’Indopacifico etc.). La nuova arte non fa altro che raffigurare, in parole (innocue), in colori (innocui) questa condizione generalizzata in cui tutti ci troviamo, una condizione di «inoperabilità» e di «invalidità».
È sufficiente saper leggere la «nuova poiesis», lì c’è già scritto tutto, c’è già scritto anche l’armocromista che disegna il nuovo look della segretaria del PD, la Schlein al posto dell’abbigliamento tradizionale e noioso di Letta e di Zingaretti. Occorre saper leggere il nuovo linguaggio kitchen per comprendere un po’ meglio il mondo.

(Giorgio Linguaglossa)

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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa e Promenades nocturnes, Collage 30×40 cm, 2023, I collages vogliono accompagnare il passeggiatore durante una passeggiata notturna al lume dei fanali e delle ombre di una città. Il solitario passeggiatore è un cittadino anonimo di una città anonima, è un senza nome, è privo di identità, non sappiamo da dove viene né dove va, Analogamente, le sue poesie kitchen sono esercizi, ghiribizzi di personaggi solitari, di avatar che «passeggiano», schermidori che si atteggiano in atti di scherma… cioè esseri anonimi e eteronimi che «consumano» il tempo e lo spazio in quanto non hanno nessuna occupazione lavorativa. Il lavoro, sembra dirci la Colasson, è la Cosa che rende schiavo l’uomo, l’unico momento di libertà e di jouissance è l’atto gratuito della promenade, È lo stato di Emergenza che produce lo spazio

Promenade notturna 7 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 4 Collage 40x40, 2023

Promenade_nocturne_14 collage 50x50, 2023

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collages denominati promenades nocturnes di Marie Laure Colasson vogliono accompagnare il passeggiatore durante una passeggiata notturna al lume dei fanali e delle ombre di una città. Il solitario passeggiatore è un cittadino anonimo di una città anonima, è un senza nome, è un privo di identità, un immigrato, un clandestino che non sappiamo da dove viene né dove va. Analogamente, le poesie kitchen  della Colasson sono esercizi, ghiribizzi di personaggi solitari, di avatar che «passeggiano», schermidori che si atteggiano in atti di scherma… cioè esseri anonimi e eteronimi che non-consumano il tempo e lo spazio in quanto non hanno nessuna occupazione lavorativa. Il lavoro, sembra dirci la Colasson, è la Cosa che rende schiavo l’uomo, l’unico momento di libertà e di jouissance è l’atto gratuito della promenade nocturne senza capo né coda, senza «finalità» o telos, con il solo scopo di liberarsi dalla schiavitù del lavoro e dalla ideologia del liberalismo, come anche di quella del socialismo che vedono nel lavoro la massima realizzazione dell’uomo-cittadino, al pari della religione che vede nel lavoro dell’anima e nella liturgia dell’anima la massima realizzazione della interiorità religiosa. Il «lavoro» è un concetto della teologia trasposto e transvalutato nella economia del Capitale. Nulla di tutto questo nell’atto kitchen di Marie Laure Colasson e in quello della poiesis kitchen, qui c’è l’irrisione e la derisione per ogni atto che provenga dall’«io penso dunque sono» o dalla «interiorità» di Ignazio di Loyola; l’atto kitchen respinge il «lavoro» con le sue ideologie d’accatto (politiche e religiose) e le spedisce indietro, nell’aldi qua della vita terrena. Il kitchen è l’atto di non-compromissione, di rigetto della seriosità tutta ideologica dell’atto del «lavoro» e della sua autoconservazione intese in accezione teologica e in quella politica. Il Kitchen che dice «Preferirei di no», apre uno spazio di profanazione e di liberazione. E si ferma lì.

Promenade_nocturne_15_collage_50x50_2023

Promenade notturna 3 Collage 40x40, 2023

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Promenade notturna 9 collage 30x40

Promenade nocturne 10 collage 30 × 40cm 2023

Marie Laure Colasson Ordo Rerum Struttura dissipativa

[Marie Laure Colasson, acrilici, Struttura dissipativa 50×50 cm, 2020 – «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo»]
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È lo stato di emergenza che produce l’immagine. È l’immagine che produce lo spazio. L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per le composizioni spaziali dei quadri di Marie Laure Colasson. Provate a togliere l’immagine dei colori dai quadri della Colasson, e tutto cade di colpo nella insignificanza amorfa.
La pittura della Colasson non è pittura astratta ma figuralità dello spazio, figuralità delle forme nello spazio, ricerca dello spazio mediante delle forme che emergono da un luogo di cui non sapevamo nulla. Delle forme abnormi, raccapriccianti sono sorte da uno stato di emergenza. L’inconscio che vive in un continuo stato di emergenza. Forme abrupte insorgono e lacerano il tessuto delle relazioni spaziali dello spazio che precedeva l’istante del loro insorgere distruggendo i fragili equilibri architettonici sui quali si reggeva la precedente costruzione spaziale. Queste Strutture dissipative indicano una emergenza, raffigurano questo insorgimento di forme abrupte che non conosciamo, di cui non ne sappiamo nulla e di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. L’insorgenza dell’Estraneo è la tematica di questa pittura. Di qui il dis-equilibrio, il dis-formismo, il cataclisma, l’apocatastasi. Queste Strutture dissipative sono la raffigurazione dell’istante in cui una forma estranea irrompe nel nostro ordinato universo percettivo e ne diffrange il lessico e la sintassi, producendone l’implosione, la erogazione di un dis-servizio che viene ad infirmare la struttura di forme in equilibrio che preesisteva all’atto dell’insorgimento dell’Estraneo. Accade il trauma. L’insorgere dell’abrupto ci respinge, volgiamo lo sguardo altrove. Non possiamo guardare più oltre, cerchiamo inavvertitamente il corrimano della distanza, siamo costretti a prendere le distanze dall’abrupto. Ci accorgiamo di essere prigionieri di una contraddizione. Non possiamo avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza, e non possiamo anelare alla latenza di ciò che vorrebbe manifestarsi nella illatenza. Mettiamo in atto istintivamente un distanziamento sociale.

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Risposta di Giuseppe Talia alla Domanda Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? con una poesia kitchen  di Giorgio Linguaglossa e Giuseppe Talia, Quando parlo della Poetry kitchen mi vengono in mente due movimenti principali dello scorso Novecento: il Futurismo e il Surrealismo comparati con l’attuale situazione mondiale, dalla lotta al Covid19, alla lotta (?) alle disuguaglianze, alla guerra in Ucraina, alla crisi energetica e alla minaccia nucleare

Promenade_nocturne_14 collage 50x50, 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne n. 14, collage, 50×50, 2023

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Domanda

 Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Risposta di Giuseppe Talia

Quando parlo della Poetry kitchen mi vengono in mente due movimenti principali dello scorso Novecento: il Futurismo e il Surrealismo comparati con l’attuale situazione mondiale, dalla lotta al Covid19, alla lotta (?) alle disuguaglianze, alla guerra in Ucraina, alla crisi energetica e alla minaccia nucleare. Le assonanze con i due movimenti sono parecchie ma con i dovuti distinguo e con la dovuta consapevolezza che lo spazio aperto dalla« nuova poesia» riconosce la base della propria epitrope.

La domanda di Giorgio Linguaglossa sulla «fine della Metafisica», forse a mio avviso andrebbe chiarita, penso che Giorgio non intenda la fine tout court della Metafisica, piuttosto un ricambio metafisico, così come è stato da sempre, essendo la metafisica connaturata all’uomo, ed è la metafisica che ci fa comprendere ciò che altrimenti non comprenderemmo. Non si prescinde dalla metafisica, quale che essa sia. Mi sembra che la definizione di «metafisica disillusa» di Roberto Bertoldo calzi bene nel contesto; in effetti, la poetry kitchen ha il merito di porre alcune domande fondamentali che non sono quelle maggioritarie che si attestano su posizioni personalistiche e che hanno esaurito la loro accidia nichilista.

La velocità, che era un caposaldo del movimento Futurista, è rinvenibile nei componimenti Kitchen: l’oggettuale rapporto con i media attraverso i dispositivi tattili, l’esautorarsi della diffusione e condivisione di miriadi di dati privi apparentemente di un senso globale, la nascita e la morte subitanea di ogni notizia a cui si sommano le fake news e le notizie non notizie, sono tutti sintomi, diremmo conclamazioni della «riduzione del Reale da trauma a spettro» (Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, 2022, pag 45).

A differenza del Futurismo, i poeti Kitchen non sono interventisti e al pari dei Surrealisti ripudiano la guerra come anche l’idea stessa di conflitto per il potere. Le immagini in movimento, il tono canzonatorio, la disillusione, le onomatopee, la personificazione, sono la più moderna dislocazione in luogo della semplice velocità; il traslato nella Poetry Kitchen è sostanzialmente ubiquo, la catena degli eventi si mescola agli oggetti e alle emozioni con differenti combinazioni di immagini pescate alla rinfusa tra la miriade di immagini e discorsi a cui siamo costantemente sottoposti.

La Poetry Kitchen non è una «scuola», mi si dice, piuttosto un ricambio d’aria, cambio di paradigma, di quelli che si rendono necessari di questi tempi per la prevenzione della propagazione del virus. La nuova aria si sintetizza in questa affermazione: la poetry kitchen adotta la fantasy dell’immaginario come supporto dell’ordine pubblico; ma questo è solo una finzione, un capovolgimento, in realtà la prassi kitchen agisce in vista del disordine pubblico. (Ibidem, Pag. 47).

In che termini però si parla di disordine pubblico? Lungi dall’essere rivoluzionaria e anarchica, nella più aderenza dei termini, la Poetry Kitchen non sembra avere nessun impegno politico, nessun motore pulsionale verso l’identificazione in uno schieramento politico piuttosto che in un altro, semmai si limita a registrare con critica totale ed integrale, questo sì, la fine, la chiusura dell’«impegno», come lo si conosceva nel recente passato, per il suo fallimento su tutta la linea. La conseguenza di ciò è che le categorie dell’illusione e dell’abbaglio prendono il posto della certezza e della verità.

La particolarità rivoluzionaria della Poetry kitchen, se proprio vogliamo rilevarla, risiede piuttosto nell’età media dei poeti che la compongono nella compagine attuale. È rilevante come la svolta, il turn over non sia partito dai giovani poeti ma da un nucleo fondativo che va oltre i settant’anni di età.

Il Surrealismo in Italia non ha avuto il seguito e la risonanza che altrove. Nella Nuova Ontologia Estetica se ne rinviene più di un barbaglio, anzi la sovversione dell’ordine pubblico investe anche il privato, nel privato sono custodite le chiavi di ciò che siamo, e se siamo ciò che comunichiamo, nel profondo del nostro luogo, “dove non si è e non si dice”, in quel vuoto si situa il rimedio della poetry kitchen.

Penso che siano tanti i punti di denuncia e i rilievi che la poetry kitchen rivela e pone nel quadro della “zona -catastrofe” che sta investendo l’Occidente. L’angoscia che ne deriva annichilisce i presupposti una volta caduti i prefissi, post-moderno, post-contemporaneo, post-human, che non facevano altro che rimandare nel tempo, spostare il punto un’asticella più in là piuttosto che dibatterlo. Dopo la posteriorità non rimane che la negazione, l’annullamento: “il non-desiderio che produce la non-angoscia.”

La non-poesia produce l’effetto catarifrangente della dispersione dell’io poetico in un non-io poetico, mascherato, ovviamente, falso e consapevole dell’irreparabilità dell’Ente che non ha più una casa certa nel non-luogo.

Il peso relativo del vuoto e dell’insignificanza vanno di pari passo con il risultato della loro somma la quale dipende dall’abbondanza isotopica, vale a dire dalla differenza di massa. Ogni autore dell’Antologia Poetry Kitchen (Ed. Progetto Cultura, 2022) ha un proprio peso specifico nella ricerca dell’isotopo con cui provare a riempire lo spazio vuoto, affinché si creino i movimenti, gli scambi, le collusioni, l’entanglement, i cortocircuiti narrativi e i droni dell’ubiquità. Alla luce di quanto detto, «prendere una carota e renderla poetica cucinandola» (dizione di Roberto Bertoldo), mi sembra un impegno da non sottovalutare se si guarda alla poesia italiana contemporanea maggioritaria dove si prende un cetriolo e si cerca di renderlo poetico facendolo passare per un crumble alle mele.

Penso di capire l’affermazione sul minimalismo impegnato sul sociale e fondato sulla quotidianità che Roberto Bertoldo rileva nella poetry kitchen, in effetti mancano nel kitchen tutte le categorie estetiche “alte” preferendo alle note alte altre note, i discorsi si muovono su piani bassi, la cloche della barra di comando è posizionata sul sorvolare invece che sull’impennarsi, non tanto per soprassedere quanto per fotografare reale e irreale, ne viene che le immagini catturate non combaciano del tutto, perché la velocità con cui il Reale-reale e quello supposto cambiano, rende quasi impossibile far combaciano i tasselli, l’immagine risulta sgranata e dai contorni non ben definiti. L’uso del distico, in questo caso, agevola la parallasse e incita l’epitrope a tendere continui agguati, a superare l’accidia nichilista. Spostare i foni del bel canto in una scacchiera sostanzialmente a-metrica, produce il disallineamento degli accenti che si posizionano non più in una funzione suasoria ma distopica.

Strilli Tranströmer 1Seconda Domanda

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Risposta

La domanda è ambiziosa e difficile, presuppone l’espressione di una poetica, di una visione che non può che essere lungimirante e dunque ardua nel suo stabilizzarsi. Le poetiche del Novecento si sono frantumate con l’avvento della Neoavanguardia, la crisi innescata dal “Gruppo 63” è stato uno tsunami che ha contribuito alla svalorizzazione del linguaggio. Lo sperimentalismo quale presupposto irrinunciabile della Neoavanguardia, si è concluso in un vortice dalla cui macinatura linguistica non è risultato nessun prodotto duraturo. L’estremizzazione plurilinguistica di Eduardo Sanguineti con Laborintus (1965) ha sparigliato le carte della poesia italiana, a seguire di quella, la rivoluzione involutoria del 1971 ad opera di Montale e Pasolini con Satura e Transumanar e organizzar, hanno invalidato le “poetiche forti”, da quel momento in poi è stato un susseguirsi di rese e qualche resistenza, ad esempio lo stesso Mario Luzi si è dovuto rinchiudere nel suo tardo-manierismo per poter sopravvivere.  L’ultimo in termini di resa è stato Gianfranco Fortini con Composita Solvantur (1994). Nel frattempo, a latere delle così dette “poetiche forti”, si sono sviluppate delle diramazioni di “poetiche deboli”. Parrebbe naturale pensare che dopo una crisi per ricostruire un rapporto e un tessuto comune, si rovisti nella tradizione, si cerchi nelle proprie radici la continuità per edificare dalle macerie di cui sopra, l’atto poetico e il suo complemento, il testo.

Le poetiche deboli del secondo Novecento sono quasi tutte imperniate sull’io lirico-io poeta investito di tutti i poteri. Sull’onda delle due linee, quella innica e quella elegiaca, le poetiche deboli si sono chiaramente attestate sulla linea elegiaca, di pascoliniana memoria nel ritmo, il contenuto, invece, ruota sulla rielaborazione elementare di sofismi e truismi low cost.

Marginalizzare l’io lirico – l’io poeta significa deviare dal centro per una visione larga, allungata sul circostante abisso. È solo prendendo coscienza dell’abisso, soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione dal proprio io-poeta-io lirico che può emergere l’indicibile, la metafora. “Nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile.” (Giorgio Linguaglossa, La Poiesis Kitchen, 2022).

Sul solco del modernismo europeo, la poetry kitchen lavora sul passaggio al post-modernismo, una volta palese che la memoria non è più collegata con la tradizione e che la tradizione non è più la storia. In questi anni di lavoro e di confronto sulla rivista telematica L’ombra delle Parole e del trimestrale di poesia, critica e contemporaneistica, il Mangiaparole, la Poetry kitchen ha esplorato un largo campo di possibilità a partire dal «compostaggio dei linguaggi deiettati, dismessi e tolti» (G. Linguaglossa, Ibidem). Il risultato sicuramente ha portato alla nascita di un coro di voci, di un flusso di nuova coscienza poetica, ibrida, fluida, mutevole, instabile, né poesia né prosa.

Mimmo Pugliese

Dis-oggettivare il tempo e la forma ritengo sia tratto saliente della Poetry kitchen. Allontanarsi un po’ di più dalla metafisica e muoversi nell’interregno del rovescio della medaglia. Rincorrere sembianze di realtà e contaminarle di altra sostanza.

Ultrasurrealismo che si esplica nella frammentazione che sonda il vuoto e nello stesso lo determina. Esattamente questo incastro provoca un movimento tellurico nel quale, per esempio, ” la pallottola” e la “gallina Nanin”, per quanto assolutamente inconciliabili nella realtà, esprimono significazione.

Ultrasurrealismo che ri-forma l’espressività conducendo non verso le «magnifiche sorti e progressive» ma che si insinua nelle intercapedini e nelle contraddizioni di un evo che ha sembianze di gambero. Può essere che produca neppure un solletico ma, tuttavia, aziona la connessione esistente tra quanto diuturnamente è e l’altrove di ciascuno.

L’ego sostituito dall’Es è l’altrove di ognuno che, galleggiando nel vuoto, accomuna “bianche geishe” e “pistacchi del commissario”, “zar di Russia” e “misuratore delle ombre” o, ancora ” sassolino inerte” e ” cane scemo”.

La spoliazione del senso significativo è il carattere distintivo della Poetry kitchen, libera-mente in libero-corpo, che solo apparentemente viaggia senza meta.

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne n. 10, collage, 30×40, 2023

Giuseppe Talia

– we-we, si dice a Napoli

– sei stato a Napoli?

– non di recente

– l’antiquario ha fatto la proposta

– conviene?

– sì, il 35% deve rimanere originale, il resto si può citare

– vero, a San Basile hai ricordato le poesie Frankenstein

– devi tener conto dell’abilità dei punti di sutura

Giorgio Linguaglossa

Kitsch poetry

Dopo essersi ingollato una boccia di marmellata all’albicocca di proprietà del poeta Mario Lunetta che abitava nella capitale in via Accademia Platonica n. 37, il pappagallo Gazprom aprì la porta d’ingresso della abitazione del critico Linguaglossa il quale stava golosamente consumando un uovo alla coque.

Sulla soglia dimorava il poeta Gino Rago con sotto il braccio destro una torta ai mirtilli, lamponi, shrapnel al fosforo bianco e una fotocopia della gallina Nanin opera di Lucio Mayoor Tosi.

Il pappagallo Gazprom aveva appena volato dall’appendiabiti al tavolo da cucina dove finì di ingurgitare i residui della torta e anche una confezione di gorgonzola che giaceva incustodita scolandosi sopra anche una bottiglia di Bourbon, si guardò soddisfatto allo specchio e proclamò con voce stentorea:

«Il vincitore della battaglia di Jena e lo sconfitto di Waterloo sono la stessa persona, sono io!».

Accadde un forte bagliore. Il critico Linguaglossa si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus antiplacca allorché una lampadina con il filo in tungsteno incandescente andò a mal partito.

Quella mattina il poeta Gino Rago stava prendendo un caffè al bar di Trebisacce, correggeva le bozze del suo libro “Storie di una pallottola e della gallina Nanin”.

Sempre a Roma, seduta ad un caffè della Circonvallazione Clodia n. 21 Marie Laure Colasson redige il verbale degli acchiappafarfalle, ci mette dentro tutti i poeti della Poetry kitchen.

Ewa Lipska stava aggiustando la redingote al pappagallo Proust quand’ecco che il poeta Lucio Tosi è diventato un bambino, la mamma gli sta aggiustando il grembiule di scuola e lo rimprovera, gli grida: «stai attento, maleducato!», «ne combini una dopo l’altra!», «sei sempre il solito!».

Francesco Intini ha appena acquistato un revolver a tamburo da 6 colpi calibro 7.65, spara un colpo in aria, dice che Faust ha chiamato al telefono Belzebù per una metastasi mattutina.

Un ippopotamo bianco sta fumando un sigaro cubano in compagnia di Francesco Intini al bar sito proprio davanti al Colosseo, quand’ecco che interviene il poeta-chimico Vincenzo Petronelli che dice: «it will not be easy to handle, il plutonio è un isotopo del favonio e il leone è la marca del water che ho in bagno. Il Colosseo è una dentiera e la groviera è un dentifricio per cani, il che è già un ottimo argomento per l’enthymema».

Proprio in quel momento a Lubjana il critico marxista Tatarkiewick stava litigando con il filosofo Žižek circa il concetto di «vuoto» nella pittura di Rothko

A Londra il cagnolino della regina Elisabetta prende ad abbaiare in tedesco rivolto allo Zar del Cremlino che le si avvicinava. «I cani hanno un istinto interessante, non trova?», ha commentato la regnante rivolgendosi al ministro degli esteri…

Note biobibliografiche

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.; con il medesimo editore nel 2017 esce la raccolta poetica La Musa Last Minute. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Giorgio Linguaglossa nasce nel 1949 e vive a Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 pubblica  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei, la Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia metastabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen  perseguita dalla rivista rappresenta l’esito dello sconvolgimento della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa viene ad esaurimento la metafisica del novecento e si entra nel condominio personale delle parole, una sorta di «nuvola» delle parole gratuite e libere, cioè a disposizione di ciascuno.

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lipogrammi, calligrammi, anagrammi, limerick, haiku, filastrocche di Antonietta Tiberia e poetry kitchen illustrate di Lucio Mayoor Tosi

Strilli Tosi

Strilli Lucio Mayoor Tosi Profilo di braccia

Strilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Caro Giorgio,

mi piacerebbe essere poeta, ma conosco i miei limiti.
E intanto, da aspirante poeta in cerca di ispirazione, mi diverto a comporre e scomporre parole, sperimentando forme metriche diverse.
Ecco perché compongo lipogrammi, calligrammi, anagrammi, limerick, haiku, filastrocche, ottava rima, sonetti in lingua e in dialetto ciociaro/romanesco e perfino ballate rap in versi alessandrini.
Tutto è cominciato quando mi sono fatta la famosa domanda:  “Se sparissero tutte le vocali all’infuori della I, di cosa scriverebbero  i poeti?”
Il resto è seguito a cascata.
Ho sistemato in forma di calligramma il lipogramma della A.
(Antonietta Tiberia)
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Antonietta Tiberia si destreggia tra narrativa, poesia e traduzioni. Ha pubblicato Calpestando le aiuole, I racconti del ponteHaiku per un anno bisestile e 5 libri tradotti: dallo spagnolo (Di oggi, Omero prende solo il fiore, poesie di M. Paoletti); dall’inglese Jorge (poesie di Sotirios Pastakas); Unspoken / Inespresso (poesie di Fatiha Morchid) e Il mio nome è Bond (autobiografia di Roger Moore); dal francese Astrologia araba (saggio di C. Aubier). Già redattrice della rivista letteraria «línfera», attualmente della rivista di poesia «Il Mangiaparole». Le piace raccontare storie. Considera il racconto una necessità narrativa. Non le interessa raccontare una vita intera, ma un dettaglio di quella vita, in prosa o in versi. Sta per vedere la luce un secondo libro di haiku, dal titolo Per le stagioni con ali di velluto.
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Lucio Mayoor Tosi I poeti significativi

Instant poetry Lucio Mayoor Tosi

Poetry kitchen di Lucio Mayoor Tosi

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen,  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Lucio Mayoor Tosi

Premere per Poesia.
Tocco e scorrimento di parole scritte.
Poet painter.
Sabato del villaggio.
Margherite.
Alla ho di ‘ho detto’, qualcosa di pertinente.
Ho, geroglifico carta zucchero non le rispondo
vicino all’orecchio. Detto. Niente Tris.
Me ne dia un altro.
Domenica d’agosto. Quattro ermellini. Vodka.
Luna senza frontiere.

caro Lucio,

la noesi della tua composizione è una tecnesi, giacché di vera e propria «composizione» si tratta, cioè di un «compostaggio» di elementi frastici disparati e dis-connessi che provengono dall’esterno, dalle periferie, da direzioni diverse e allotrope verso un «centro» che, semplicemente, non c’è. Mentre nella poesia elegiaca tradizionale il «centro» c’è, eccome, ed è l’io esperiente che coincide sempre con l’io empirico, con la persona fisica del poeta, nella tua «poesia compostaggio» non v’è alcun «centro» e neanche tanti «centri», non v’è nulla di alcunché, il «centro» è un buco vuoto all’interno del quale tutto sprofonda e scompare, una sorta di buco nero (o buco bianco?). Così, in quegli spazi bianchi tra un verso e l’altro, proprio lì si celano le parole (forse significative) che però non sono pronunciate (non sono state trovate), in quegli spazi bianchi delle interlinee ci sono le parole bianche che però non compaiono, quasi che una forza invisibile le abbia cancellate o rimosse; ed è proprio lì che si nascondono le parole (forse) significative che tu non vuoi (o puoi) intercettare, di quelle parole forse sono rimaste delle tracce, delle orme evanescenti, che tendono ad evaporare… così tutta la «composizione» tende ad evanescere, tende a vaporizzarsi nel nulla delle parole pronunciate e di quelle non pronunciate, perché, penso, nel tuo concetto di registro linguistico non si danno parole significative (del vuoto) né parole non-significative, tutte le parole, tutti i frasari sono equivalenti nel loro essere sostanzialmente l’equivalente del niente, ni-ente, e questo è il corrispondente speculare del tuo pensiero, il tuo modo di intendere la «poesia» e il «mondo» come speculari del «ni-ente», di un «non-ente», corrispondente speculare del vuoto e del nulla di cui il tuo pensiero poetico condivide la ratio (non penso, dunque sono). In tal senso, la tua poesia del fuori-senso o del non-senso intende il significativo (se così vogliamo dire) proprio in quelle parole non pronunciate che hanno abbandonato gli spazi vuoti delle interlinee.

(Giorgio Linguaglossa)

Caro Giorgio,

ti ringrazio, le tue considerazioni mi sono utilissime, come sempre. Le mie parole sono sassi trovati lungo la via, quel che conta è la solitudine del passaggio e della raccolta. È arte povera, quasi “Land art”, che è intervento sul paesaggio naturale, per noi linguistico; hanno carattere effimero, ma sono scelte per poter stare dentro una griglia, in ordine estetico che definirei “sacrificale”, di felice rinuncia. Poesie francescane, quindi, di pura esistenza e nessun significato oltre al semplice esistere (assistere) – di un monte, un grande magazzino, una giornata di pioggia, ecc. – Hanno a che fare con l’evento di parole non ancora versi, o non più versi. Non sono guidate da immaginazione ma la creano… Sì, le parole stesse, dove cadono, creano presenza attiva, si ripercuotono (cerchi nell’acqua), ma hanno la sostanza dei messaggi non decriptabili, il prendere o lasciare di spot pubblicitari; che però sono la nostra esistenza. Nascono dal pensare premeditato, lavorativo, ma ogni pensiero deve accomodarsi nello stile nominale, quindi ridursi a niente. I segni del passaggio sono resi evidenti da l’intercalare parlato, la parte prosaica. Troppo spesso parliamo parliamo, e scriviamo scriviamo, senza renderci conto della meraviglia di poter nominare. Mi piace pensarmi erede di Basho (niente meno!), portatore di quel background filosofico.
In questa poesia ho tratto ispirazione dalle slot machine.

(Lucio Mayoor Tosi)

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

Strilli Lucio Mayoor Tosi

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi citazione book

instant poetry illustrate di Lucio Mayoor Tosi

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Scambio di missive tra Giuseppe Talìa (Tallia) e Giorgio Linguaglossa (Germanico), Sullo scambio di missive tra due commilitoni della battaglia di Idistaviso tra sovraeccitazione e surdeterminazione dei significati ultronei, di Marie Laure Colasson, L’idea della «nuova poesia» si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica dell’assente e del non-referente

 

Roma facce

Due ex commilitoni, Tallìa e Germanico, reduci dalle battaglie di Idistaviso

di Marie Laure Colasson

Due ex commilitoni, Tallìa e Germanico, reduci dalle battaglie di Idistaviso, si scambiano missive, si cercano e si allontanano nella misura in cui il loro linguaggio è diventato ultroneo e tellurizzato. È un dialogo drammatico e ilare perché non c’è un cunicolo per uscire fuori dalla Storia, siamo già tutti «storializzati» costretti ad un «fuori-significato permanente» e a un «fuori-senso permanente», deiettati dalla «storia» e già tutti «storializzati». È un dialogo sovradeterminato e sovraeccitato in quanto surdeterminato, impossibile da svolgere perché comunque non condurrebbe in alcun luogo, perché il luogo del Potere è il positum, il posto. Si tratta di un dialogo «posizionale», ciascuno dei due attori ristretto nella propria «posizione» reclusoria e, al tempo stesso, «spodestato», cioè «fuori-luogo» senza alcuna possibilità di sortita politica. Di qui il loro linguaggio, che è un «fuori-luogo», un «fuori-posizione», un «luogo ultroneo». In un mondo dove il motto di Hölderlin non appare più valido: «Dove nasce il pericolo maggiore cresce anche ciò che può salvarci (Wo aber Gefahr ist das Rettende auch)», perché oggi siamo già dentro il «pericolo maggiore», siamo nell’epoca della catastrofe permanente e non si avvista nessuna Idistaviso all’orizzonte. Il dramma di Tallia e di Germanico è di essere stati deiettati dalla «storia» e di non avere una «via di uscita». Il dramma è sempre politico, l’estetica viene dopo, ecco la ragione che determina una sovraeccitazione del linguaggio di Tallia e di Germanico. Oggi, il dramma della politica delle grandi potenze sta nel dis-equilibrio permanente e che nessuno dei due contendenti (Cina e U.S.) è in grado di mantenere una egemonia globale e quindi il mondo è condannato a una competizione globale permanente, le due grandi potenze sono consapevoli del fatto che ciascuna di esse può sferrare in qualsiasi momento un attacco a sorpresa con conseguenze devastanti per l’avversario. Il dis-equilibrio permanente determina così una situazione di catastrofe permanente.

La poesia kitchen è un prodotto dell’epoca della catastrofe permanente nel quale il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico” è stato sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo «olistico» e «multi-tasking».
Il dizionario Garzanti scrive che con «multi-taksing si dice di sistema operativo (informatico) in grado di eseguire contemporaneamente più programmi alternando il tempo dedicato all’esecuzione di ciascuno di essi».
L’idea della «nuova poesia» si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica dell’assente e del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate, non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel Qualcuno che glielo consente di indicare. C’è sempre un Qualcuno, un fuori-testo, un fuori-cornice che interferisce con le nostre parole, le parole sono sempre ibride, abnormi, ultronee e chi non l’ha ancora capito è perché è rimasto alla numismatica dei francobolli fuori corso.

Scrive Giorgio Linguaglossa:
«Una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlocutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».

Per la «nuova poesia» è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.
Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità… si tratta di una dis-cordanza, di un dis-formismo che si stabilisce tra i singoli sintagmi… anche le unità di luogo e di tempo della mimesis aristotelica sembrano dissolversi in una fitta nebbia e, con la dissoluzione della mimesis, viene meno anche la giustificazione di un io plenipotenziario e panottico, viene meno anche la maneggevole sicurezza del corrimano del significato.

È una poesia che fa larghissimo impiego di «sovraeccitazioni», di shock, di sussulti, di strappi, di traumi… È perché viviamo in una società traumatizzata e tellurizzata che fa del trauma una necessità di vita e di Narciso. Basta osservare il panorama della politica di oggi: i populisti nazionalisti e sciovinisti fanno amplissimo uso della «sovraeccitazione»; gli stessi media Facebook, Instagram, Twitter, Tik Tok, i telegiornali etc non sono altro che una vetrina e un palinsesto di notizie che fanno della sovraeccitazione una surdeterminazione, una normologia profilattica; la stessa forma-merce, il design e il marketing, dipendono dallo stato di «sovraeccitazione permanente» in cui noi viviamo. Si punta allo stato di «sovraeccitazione» e di surplus di eccitazione, non vedo perché la forma-poesia ne debba rimanere estranea.

Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«La scrittura NOE (nuova ontologia estetica) è più vicina al pensare stesso, ne riprende le modalità. Per questo, nonostante le stranezze, i salti semantici, penso si tratti di poesie ri-conoscibili. Perché tutti pensano, e spesso parlano, in modo incoerente. NOE è vicina all’aspetto sorgivo del pensiero… come anche tutta la poesia di sempre, solo che in altri modi si avverte il profumo del potpourri, violette e lavanda, cose del consueto, del corredo».

Roma Caligula

Giuseppe Talìa

Tallìa

Caro Germanico,

sono molto preoccupato. Giorgio Linguaglossa
non è più quello di prima, È diventato un buono

perdona tutti, perdona anche le mie intemperanze
invece di ributtarmi nel vuoto da cui vengo.

Dice che anche il vuoto è una “cosa”, una cosa che
Contiene il vuoto stesso come un vaso che contiene

La presentificazione e il paradosso del pieno e del vuoto.
Tu lo capisci? Farnetica che la verità è più potente

Della verità stessa. Non ti pare, Germanico, delirante
Il pensiero per cui la verità che di per sé non esiste

Possa esistere in un fondo veritativo? E poi frequenta
Piazze dell’Urbe colme di sardine inneggiando

Ad un rinnovamento che dal profondo dei mari terrestri
Possa riportare questa nostra società malata di memoria

A lungo termine dal Nulla al Tutto e che il Tutto possa comunicare
Con il Tutto. Non ti pare la metonimia un sintomo grave?

Lo tengo d’occhio e ti dirò nella mia prossima.

Giorgio Linguaglossa

Risposta di Germanico a Tallia (Giuseppe Talìa)

Il posto del re è vuoto

caro Tallia,

scrivo dalla mia abitazione: Marketstrasse n. 7 nell’anno mille 3781 ab Urbe còndita.
Il posto del Re è vuoto.
La nuova poesia?, il nuovo romanzo?, la nuova critica?
L’elefante sta bene in salotto, è buona educazione non nominarlo.
Tu dici:
«Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?».
L’elefante si aggira nel salotto.
Con la proboscide fracassa il vasellame, sporcifica la tappezzeria,
rovista nei cassettoni stile liberty e post-pop,
manda in pezzi anche il lampadario di Murano
e la cristalleria di Boemia…

Il vestito di Heisenberg è morto il 25 agosto 1926
mentre si recava in tram a Copenaghen.
Noi lo sappiamo dai resoconti dei suoi studi intorno ad un misterioso ipotocasamo
una micro struttura elicoidale
un miliardo di elementi all’incirca
con innesti di mitogrammi di tantalio e cadmio.

Ricordo un trafiletto del 24 aprile 1997 sul “Sole 24 Ore”
di un poeta milanese che parlava di silenzio e di ascolto…
Masticavo quei tramezzini psicopoetici con del chewingum che attaccavo alle pareti.
Adesso ci sono i cinici, stretti parenti delle cimici, gli scettici,
gli iloti parenti stretti degli idioti.
Però gli iloti di oggi hanno un aplomb più strutturato,
intendo i loro brodini psicocritici.

Nei loro trafiletti ci vedo il vuoto apotropaico, il vuoto del Re.
Una volta c’erano anche i “francobolli” su “La Stampa”,
con all’interno una poesiuola.
Lo spettacolo non era edificante, affatto.

E certo che i lettori normali non prestavano alcuna attenzione a quelle sciocchezze.
Quindi nessuno le leggeva.

Bei tempi, caro Tallia!

Roma Cesare 1

Giuseppe Talìa

Eventum.
(Risposta di Tallia a Germanico)

Caro Germanico,

La crisi idrica è iniziata lo scorso anno.
I pozzi si asciugheranno la prossima estate.
Il popolo se ne accorgerà goccia a goccia.
Quando il vaso sarà colmo.

Giorgio Linguaglossa è un eremita.
Gli spedisco di tanto in tanto i fichi secchi della Bitinia.
Con dentro le mandorle delle Galapagos.

Da quando ha visto per primo l’elefante
In salotto sporcificare la cristalleria,
Non è più lo stesso.

Recentemente mi ha inviato un rotolo.
Con alcune domande. Uno spartiacque.

È ossessionato dal pensiero della fine
del pensiero occidentale.

L’algoritmo – metafisica del presente lo tenta.
E ci sta dentro. La crisi iniziata nel 1929.

Un Nihil si muove dall’ora da una banca all’altra.
Le legioni dispiegate cercano di fare la storia.

Un sentore di fine secolo anticipata
Fuoriesce dagli split dei condizionatori.

Lo invito a qualche incursione barbarica:
Aleja, la schiava amazoniana, recita tutta la divina Commedia;
Grunge Assistant, il liberto, traduce qualsiasi frase in tutte le lingue.

Avoir la patate/banane/pêche.
Tomber dans les pommes.
Raccontare qualche insalata.

(Come dargli torto, la bellezza del sublime
Nel disordine estraneo al bello, ci accomuna)

Un giorno Boileau mi suggerì: lascia perdere gli alessandrini.
Ignora i bellimbusti degli emistichi. Molla i signorini settenari.
I gargarismi del privé a portabilità probatoria.
Apri le finestre al nonsenso del mondo. Aria.
Chiudi le inferriate del valore assoluto.

Di te che ti nascondi.

Va verso – verso. Rompi quando è necessario.
Ti accorgerai che Eventum non è cosa di macchine.

Ricorda che l’ape esce dal fiore solo quando è ubriaca di polline.

Giorgio Linguaglossa

Risposta di Germanico (Giorgio Linguaglossa) a Tallia (Giuseppe Talìa)

caro Tallia,

qui nell’Urbe non ce la passiamo tanto bene.
La plebe è nel dubbio se stare dalla parte dei meloniani o se da quella del bullo di Mediolanum.
Oscilla.
In entrambi i casi siamo fottuti.

E poi c’è quel Cavaliere con le sue coorti di lucidascarpe e sciacalli che maneggiano sottobanco con l’azero Ozerov che viene dalla Sarmatia.

Ozerov ama il prosecco del Friuli, i fanghi del mar Morto e gli spaghetti alla amatriciana.
Scalda le sue armate ai confini della Dacia.

Al momento, è in vetta agli scudi il tribuno Conte, quel manigoldo vuole la pax, costi quel che costi, con i barbari sarmati.
Asserisce il Conte:
«La Dacia se la sbrighi da sola, non sono fatti nostri, teniamoci le legioni a guardia delle Alpi apuane, i bordi dell’impero ad est non sono questione che ci riguardi!»
Questo dice il tribuno.

Il cavaliere cincischia, i meloniani fanno minzioni, i salviniani spetazzano, i destriani caracollano per l’Urbe con le magliette e l’effigie dell’azero perfino dentro le terme di Diocleziano…

Nel frattempo, i prezzi del gas sono alle stelle, le cibarie costano quanto un occhio.
Servono rigassificatori, stoccaggi di armi e munizioni, meno climatizzatori, più balestre e balliste, obici, pilum.
Serve il grano della Dacia e meno ciarle tribunizie.

Intanto, il poeta Montale cincischia con questi versicoli:
«Le trombe d’oro della solarità»

Roma volti
Giuseppe Talìa

Tallia

Caro Germanico,

Fukuyama ha mosso le truppe di terra per tentare
Di ricreare la collettività perduta.

Bauman ha pensato bene di allagare il terreno.
Renderlo scivoloso, fanghiglioso e disaggregante.

Si naviga come con Conrad, si scrolla come per scrollarsi
Di dosso ogni responsabilità, si surfa come a Bondi Beach,
Si entra e si esce come si fosse con Proust, ci si accontenta
Di poco come per ipertrofia congenita dell’io sono,
Si lasciano tracce inesistenti come minimale chic.

L’altro giorno si parlava con Laterzo sed Peiora:
Shakespeare vivacchiava con il bonus studenti.
Montale teneva con il reddito di cittadinanza.
Pasolini veniva invitato spesso nelle Domus.

Gli altri a seguire, tra un’ospitata e l’altra
e il bonus docenti qualcosa pure gli entrava nelle tasche.

Pare che si riuniscano di tanto in tanto per capire
Come resistere nell’autonomia differenziata dell’Impero.

Giorgio Linguaglossa

Germanico

Caro Tallia,

Il poliptoto è entrato nel retto di Putler

Bum! il poliptoto è entrato nel retto di Putler lanciato dall’incrociatore Moskvà
L’Elefante suona l’olifante
Ne esce il pesce Lavrov con squame e sopracciglia dipinte
Odisseo commercia con il petrolio e il gas dei russi, manduca fagiani e noccioline del Ponto Eusino
Confonde Cesare con la regina Zenobia, però ha un occhio peritissimo per la valuta pregiata della Signora Circe
Il pesce Lavrov tira per la giacca il Signor Putler
Ne esce una marmellata di essenze all’isotopo di deuterio e un rotolo di carta igienica con impresso l’aureo sigillo della defecatio del Tirannosauro
Accadde nel Cetaceo che una proboscide con squame di coccodrillo prese a crescere dal retto dell’Ibrido

«It is high time to put this on the agenda»,
disse Odisseo appena uscito dall’antro di Polifemo aggrottando le sopracciglia.
«The event has occurred»,
così chiuse la questione l’itacense alla conferenza stampa convocata da Penelope.

Dopo aver ingoiato il poliptoto il pesce Lavrov non trovò di meglio che rifugiarsi di nuovo nel retto del Signor Putler
Ed ivi compì la defecatio e la prolificatio

Il topo saltellò sul piattino con del formaggio bucherellato, morse un fiordo di Emmental Switzerland e lo trangugiò
Dal retto del pesce Lavrov uscì un minuscolo Putler all’isotopo di plutonio in forma di supposta o di Sputnik
Lo psicozoico tossì e crebbero delle margherite all’intorno

«Benvenuti – esclamò il manigoldo – alla fine dell’Antropocene, ovvero, l’Età della Catastrofe Permanente!»

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.; con il medesimo editore nel 2017 esce la raccolta poetica La Musa Last Minute. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Maria Rosaria Madonna (1942-2002) Una poesia, La tassa per il soggiorno terreno, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, il viaggio nell’Oltretomba, il viaggio di Dante nell’Inferno, il viaggio verso l’Isola dei morti; c’è Caronte che richiede il pedaggio, ma il pedaggio viene pagato da un «signore vestito in abito scuro» con delle «patacche», con dei sesterzi manifestativamente «una moneta fuori corso», di qui la stupefazione della voce narrante (Maria Rosaria Madonna) che si chiede: colui che si appresta al viaggio vuole pagare con una «patacca»? È possibile pagare con una «moneta fuori corso»?

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Maria Rosaria Madonna (1942-2002)

(Poco prima dell’approdo all’Isola dei morti)
La tassa per il soggiorno terreno

«Se vengono a riscuotere la tassa
per il soggiorno terreno – disse

un signore vestito in abito scuro, “una specie di
esattore delle imposte”, pensai –

pagherò con questa moneta, con
una moneta fuori corso».

Era lì, sulla soglia della porta. E qui mi mostrò
un soldo antico, probabilmente un sesterzio

del quarto secolo dopo Cristo con l’effigie
di un imperatore romano sul verso

e una bilancia sul retro.
«Una lega d’argento con poco argento

e tanto metallo povero!»
chiosò con ironia il convenuto ammiccando…

– la fessura nel mento ebbe un sussulto –
«Vuol dire che pagherà con questa patacca?»

– chiesi allibita –
«Nient’affatto, intendo pagare con una moneta

stabile, la moneta dell’Impero,
perché stabilmente consegnata all’oblio»,

replicò l’interlocutore lisciandosi il mento
con un gesto sordido del pollice.

«Ma non era nei patti», tentai di obiettare.
«Appunto perché non era nei patti»,

rispose l’ombra alla mia destra
mentre svoltava lo stipite della porta d’ingresso

e si dileguava nella strada buia…

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Maria Rosaria Madonna abbiamo la tematica metafisica per eccellenza: il viaggio nell’Oltretomba, il viaggio di Dante nell’Inferno, il viaggio verso l’Isola dei morti; c’è Caronte che richiede il pedaggio, ma il pedaggio viene pagato da un «signore vestito in abito scuro» con delle «patacche», con dei sesterzi manifestativamente «una moneta fuori corso», di qui la stupefazione della voce narrante (Maria Rosaria Madonna) che si chiede: colui che si appresta al viaggio vuole pagare con una «patacca»?. È possibile pagare con una «moneta fuori corso»?, si chiede la voce narrante, cioè con la moneta della «falsa coscienza» come giustificazione?, chi è questo «signore vestito in abito scuro» che vuole gabbare Caronte? È un «signore» che si presenta sotto le sembianze di «una specie di esattore delle imposte», pensa la voce narrante. Così, ponendo questa semplice Domanda, Madonna stravolge e ribalta la convinzione teologica e politica che si possa arrivare all’Isola dei morti sbandierando la propria «falsa coscienza» come giustificazione delle malefatte compiute nell’esistenza storica. È questa la grande problematica che Maria Rosaria Madonna solleva: il giudizio sulle azioni della propria esistenza storica: ma la Domanda cade nel vuoto, nel vuoto di risposta della storia d’Italia e dell’Europa, perché è soltanto osservando retrospettivamente la storia d’Italia e dell’Europa che possiamo rintracciare la Risposta alla Domanda.
E la Domanda posta da Madonna è: È possibile fare poesia dopo la fine della metafisica? Come e con quale moneta pagare per il viaggio? E quale poesia è possibile scrivere dopo questo cataclisma che ci ha investito tutti? Domanda gigantesca di cui nessuno in Italia si è accorto e che Maria Rosaria Madonna lascia per coloro che verranno, cioè noi postumi abitatori del presente storico.
Si può allora vedere nella questione dell’evento il momento centrale di questo genere di poesia, una estrema radicalizzazione della problematica fenomenologica dell’apparire delle parole nel dis-ordine del discorso poetico; si tratta di un dis-ordine che squassa le parole e l’ordine del discorso e che investe la «giusta coscienza» secondo la quale giunti al termine della vita storica, abbiamo o no il diritto di pagare Caronte con una falsa moneta?, con una «patacca»?.
La Domanda di Madonna mette a nudo lo scollamento che è avvenuto tra la coscienza e le sue azioni, tra le parole e le azioni, tra le parole e le cose. Le parole diventano allora varie e eventuali, eventuali in quanto gratuite, varie in quanto arbitrarie. E allora non resta che fare poiesis con le parole arbitrarie e con le «patacche». Le «imago» sono strettamente intrecciate con il dialogo, le immagini sono dialogizzate, personalizzate tra il morto che chiede di entrare nell’Isola dei morti mediante una «patacca», mediante un raggiro, e i pensieri della poetessa che problematizzano il dialogo stesso. La bellezza della poesia è in questa idea di fare una poesia che consta di un dialogo metafisico che  Madonna trae ovviamente dalla Commedia dantesca. Una poesia anti-moderna per eccellenza questa di Madonna.
La parola la si trova nel registro basso. Nella poesia di Madonna è evidente che il registro basso ospita le sue domande; in Madonna il registro del triviale convive con il registro culto, il sublime ormai con i suoi connessi e le sue adiacenze è stato definitivamente estromesso dalla dicibilità dalla dizione poetica. Le parole di Madonna si presentano con il vestito consueto di tutti i giorni, ma in realtà sono nuove, risuonano al massimo del diapason.
La parola è evento e, insieme, il luogo nel quale si mostra l’evento. Come dire che l’evento è la parola che lo indica.
La parola ci guarda, ci osserva, sta lì da sempre, attende un nostro cenno, un cenno di accoglimento, ma c’è una resistenza (conscia e inconscia) che noi opponiamo con pervicacia e supponenza, la resistenza dell’inerzia del linguaggio condiviso, del linguaggio sociale, del linguaggio della normologia.
Allora dobbiamo chiederci: si dà un evento senza la parola che lo nomina? La risposta è NO. È la parola che chiama l’evento in quanto lo indica. È perché siamo «guardati» dall’evento che siamo anche «guidati», condotti dalla parola che non ci aspettavamo.

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942, Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con sedici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trovano adesso la luce le poesie di uno dei poeti di maggior talento del  Novecento italiano. Alcune sue poesie inedite sono apparse nella Antologia da me curata: Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016). Nel 2018, sempre con Progetto Cultura di Roma, esce Stige, Tutte le poesie (1990-2002).
(Giorgio Linguaglossa)

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Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023, Poesie kitchen, La foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé

Marie Laure Colasson Les choses de la vie
[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020]
La foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino… Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale potevaentrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) delladecisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia.
(g.l.)

.

Gli esseri umani posti in determinate condizioni storiche percepiscono una certa rarefazione, un assottigliamento delle essenze, delle cose, quello che Heidegger chiama il nulla (Nichts) nel quale è immerso l’EsserCi, in questa particolare condizione avviene una dis-proprietà, una Uberwindung, una Gelassenheit, la poesia acquista una sorta di tonalità di fondo (Grundstimmung), una particolarità dell’essere-nel-mondo, uno stato emotivo proprio. Il “nulla” (Nichts) sarebbe il vero motore non visibile della poesia che avviene allorquando il poeta va oltre l’ente, eccede l’ente. È essenziale che l’autore faccia un passo indietro rispetto alle parole, le parole se verranno, verranno da sé, saranno loro a guidare l’autore. E con ciò l’autore sottoscrive la fine della sua autorialità. La «nuova poesia» reca il contrassegno della fine della autorialità, del soggetto plenipotenziario e della pratica discorsiva fondata sull’io.
Se leggiamo la prima strofa di una poesia di Marie Laure Colasson scritta prima del suo incontro con la poetry kitchen, nel 2019, ci troviamo di fronte ad una serie di tocchi da pittrice, ad un quasi impressionismo post-lirico, ma il passo successivo verso la poetry kitchen è stato subitaneo, perché era già inscritto nell’ordine del giorno. È importante questo mettere a raffronto una poesia pre-kitchen con una poesia kitchen, si avverte che è intervenuto un Evento imprevisto e imprevedibile, e il linguaggio è saltato via da tutte le pareti con tutti i suoi bulloni e chiodi che lo tenevano malamente malfermo. (g.l.)

Marie Laure Colasson

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel

Tanti tocchi che introducono ad una tonalità emotiva, ad un concerto di suoni e di parole che non hanno alcun rapporto tra di essi, ma che, tutti assieme costituiscono una «questità di cose», quella cosa complessificata che conforma una Grundstimmung, una tonalità emotiva di fondo. Ed è appunto questa la caratteristica della nuova poesia. In realtà questo «Nulla» è pieno di cose, di momenti, di esperienze, di sensazioni, di cose di cui non sapevamo di sapere.

Promenade nocturne 10 collage 30 × 40cm 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

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Marie Laure Colasson
(da Les choses de la vie, 2022, trad. di Edith Dzieduszycka)

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres

“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour

Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………

L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane

Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d‘enfants “

Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet

Miss vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable

Rullio di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte cavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Cambiano secondo le ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

Promenade notturna 9 collage 30x40

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

.

E adesso una poesia kitchen inedita del 2022

2.

.

[Umwelt fait en 2004, durée 1 h et 6 mn coreografie Maguy Marin
musique Denis Mariotte pour le Festival Equilibrio 2022]

.

Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent

2.

Pannelli a specchio e sei personaggi
suono musicale assordante ripetitivo
infernale il soffio del vento fra i pannelli

Frammenti del tourbillon della vita
una mela morsicata a trentadue denti
un sandwich divorato
uno strofinaccio schiavo della pulizia
una defecazione di 3 pantaloni abbassati
delle lampade elettriche che frugano il suolo
delle chiappe di donne illuminate a crudo
di schiena 3 chador color arancia
delle bretelle di salopette che si aggiustano
dei sacchi di immondizia
le corone del potere
dei cappelli per tutte le stagioni
dei vestiti insolenti unisex rossi gialli bianchi
delle dispute degli stupri
degli atti amorosi sessuali
dei rifiuti gettati sulla scena

Il tutto il poco il niente
le mascelle digrignano

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

6.

“Le concret – dit la blanche geisha –
c’est d’utiliser un parapluie
lorsqu’il pleut sous les peupliers au printemps”

Eredia qui savourait un hamburger d’insectes
répondit: “ou bien du gel dans chaque artère
mais également l’intelligence qui tombe dans une poussette d’enfant”

Les têtes d’abricots se foutent totalement
du bleu et du vert lorsque l’orage éclate”
répliqua Madame Green en fumant sa cigarette électronique

Le noir de Londres simulation vêtue de son contraire
prétendit “qu’au Musée Grévin l’on trouve
des phénomènes inanimés comme un piano liquide
des porte-jartelles de lézards en mutation
des masques qui se soufflent le nez sans faire de bruit”

“Et l’abstrait?! demande Bellmer
la réponse resta suspendue avec des poupées
démembrées au centre du temple de
Ramsès II où aboyait Kandinsky

6.

“Il concreto – dice la bianca geisha
è di utilizzare un ombrello
a primavera quando piove sotto i pioppi!

Eredia che assaporava un hamburger d’insetti
rispose: “oppure del gel in ogni arteria
ma egualmente l’intelligenza che cade in una carrozzella per bambini”

“Le teste d’albicocca se ne fottono totalmente
del blu e del verde quando scoppia il temporale”
replicò Madame Green fumando la sua sigaretta elettronica

Il nero di Londra simulazione vestita del suo contrario
pretese “che al Museo Grévin si trovano
dei fenomeni inanimati come un piano liquido
di giarrettiere di lucertole mutanti
maschere che si soffiano il naso senza rumore”

“E l’astratto?! chiede Bellmer
la risposta restò sospesa con delle bambole
smembrate al centro del tempio di
Ramses II dove abbaiava Kandinsky

(inediti, da Nuove poesie, 2023)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Critica di una poesia elegiaca di Giorgio Caproni e di Patrizia Cavalli, “Alba” e “Cosa non devo fare”, La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento, Poesia limerick per bambini di Guido Galdini, poesie kitchen di Vincenzo Petronelli, Tiziana Antonilli, Antonio Sagredo

Foto Come arredare una parete bianca e noiosa

Poetry kitchen di Giorgio Linguaglossa

.

Come arredare una parete bianca e noiosa?
Qui ci metto un semaforo, sotto, un tavolino giallo con una tazza da caffelatte
Lascio i grattacieli in grigio sul cielo grigio
Accanto, in primo piano, mezzo divano In alto a dx c’è scritto Exit 7 – 800 m.
Due frecce in alto: Highway

.

“Alba” di Giorgio Caproni

*
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

dall’elegia alla nuova fenomenologia del linguaggio poetico

di Giorgio Linguaglossa

In questa poesia di Giorgio Caproni abbiamo un campionario degli stereotipi della poesia elegiaca: colori esangui, lividi, parole non pronunciate, forse fantasticate ma mai dette, si ode però da lontano «un tram», il personaggio che parla pronuncia parole deserte, create per aumentare il senso di angoscia e di sonnolenza della coscienza. La parola finale «morte» è la degna conclusione di una poesia manierata, stilizzata in eccesso, sovraccarica e sovrassatura di lividori. La poesia è ambientata in un luogo lontano e indistinto, «nei vapori di un bar», in un «inverno lungo», «che brivido attenderti!», «nel sangue è gelo», «tremitio tra i denti», «ora nell’ermo/ rumore oltre la brina io», «Amore, io ho fermo/ il polso», «Ma tu, amore,/ non dirmi, ora che in vece tua già il sole/ sgorga». C’è tutto il repertorio stereotipico elegiaco come concentrato, c’è tutto quello che ci deve essere per commuovere il lettore e adescarlo, farlo partecipe dell’angoscia e dell’infelicità dell’io parlante, c’è tutta una lessicalità scelta («nell’ermo rumore», «il sole sgorga», «attendo la morte») per intenerire il muscolo cardiaco del lettore.

La noesi della poesia elegiaca è una tecnesi, ovvero, è il prodotto eufonico di un campionario organologico che traccia una genealogia organologica dei suoi strumenti musicali. Ma è anche una nemesi. Gli strumenti sono sempre quelli della poesia elegiaca: si percepisce un sottofondo di pianoforte rallentato e ovattato e un violino che suona una musica sdolcinata. Si tratta ora di capire perché e come questa genealogia organologica collimi con quella di una economia libidinale regressiva, cioè al servizio del Super-Io, con una postura e una postazione ideologica avvitate nella «intimità», nella «interiorità», nel «dolore»; più precisamente qui si tratta di una economia libidinale caratterizzata dalla capacità che ha l’elegia di fissare una tecnesi e una noesi in un tempo e in uno spazio memorabili e slontananti di cui essa è la rappresentante estetica dell’economia libidica. L’elegia mette in atto una attività immaginativa orientata alla stabilizzazione e alla fissazione dell’economia libidica su un oggetto continuamente perduto e ritrovato («Ma tu, amore», «Amore, io ho fermo il polso»). L’elegia, che in sé è sempre regressiva, ha bisogno di una economia libidica anch’essa regressiva, implica sempre il ritrovamento di un passato, di una noesi e una tecnesi rivolte al tempo passato e al perduto «Amore», nonché, di una implantologia di strumenti musicali che fanno appello alle intermittenze del cuore. Sia chiaro, una organologia non vale affatto un’altra, una organologia elegiaca come questa di Caproni implica e riflette una economia libidinale sostanzialmente basica e statica, regressiva, arrestata in un tempo passato che non tornerà, che non potrà tornare. Appunto, regressiva.

Una poesia kitchen e una poesia per bambini invece implicano l’adozione di una implantologia organologica ontologicamente «altra» che corrisponde ad una «altra» economia libidinale e a un’«altra» postazione ideologica. La poesia per bambini deve tenere conto che i bambini vivono esclusivamente nel presente, che a loro il passato non dice assolutamente nulla, e che il futuro è importante solo come prosecuzione del presente; la poesia kitchen dunque implica una attività per il futuro. Una nuova forma artistica implica sempre una defunzionalizzazione e una rifunzionalizzazione delle precedenti noesi e tecnesi, in altre parole implica sempre l’invenzione di una nuova economia libidinale «altra», e di un controllo del Fantasma. Resta il fatto che questa rivoluzione noetica e tecnesica coinvolge un drastico ricambio della implantologia organologica che corrispondeva allo statu quo ante. Infatti, la poesia kitchen è progressiva, è diretta verso la disambiguazione del significato, fa appello al trans-individuale. Quando un fatto è immaginabile, ergo può diventare reale, si tratta soltanto di riuscire a pensare l’immaginabile.
* [organologia: elenco degli strumenti musicali di una data epoca]

La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento

La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento, non mi risulta che la poesia italiana della soggettoalgia ipocondriaca abbia fatto altrettanto. Ad esempio, la poesia della soggettoalgia controllata di una poetessa storica del novecento, Patrizia Cavalli, è oggi debordata a dolorificio permanente, a poesia della esondazione dell’io. Leggiamo una tipica poesiola della Cavalli:

Cosa non devo fare

 per togliermi di torno

la mia nemica mente:

ostilità perenne

alla felice colpa di esser quel che sono,

il mio felice niente.

.

La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, è per eccellenza aliena a far riferimento a qualsiasi soggettoalgia dell’io, anzi, nutre una vera e propria allergia alla fabbrica del dolorificio della poesia italiana di questi ultimi decenni, la nuova fenomenologia della poetry kitchen si rivolge alla mente recettiva dei bambini, ai negozianti, alle commesse della Oviesse e dell’Upim, al pubblico futuro che ama il metaverso, ha in sé una forza tellurica dirompente che viene agita e agitata da un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind, un «gioco» di citazioni dei linguaggi del mondo delle Agenzie linguistiche («lo stato di cose esistente» di Marx in versione attuale) che intende sovvertire la lettura normologante del mondo. Una sorta di remix e mash up di linguaggi radiofonici, telefonici, privati e mediatici, di voci interne e di voci esterne, di interferenze, di entanglement. Smash and mash up, potremmo dire riepilogando.

La poetry kitchen contiene in sé una carica di libertà, di vivacità, di allegria e di sedizione veramente rivoluzionaria, incontenibile, imprevedibile; mi fa piacere questa magnifica espressione di libertà e di grottesca ilarità che mette all’asta il minimalismo elegiaco svelandone l’arcano implicito: che chi cerca il minimal prima o poi finirà con il trovarlo accontentandosi del minimal. Ma noi non cerchiamo il minimo, semmai, il maximum telluricamente esperibile e compossibile.

La poetry kitchen è una struttura complessificata che vede la convergenza di una simultaneità di spazi, di tempi (reali e immaginari), di frasari allotri, è una hilarotragoedia, tanto per usare una parola nota. C’è una corrispondenza biunivoca fra la sintassi e la semantica: la semantica inaugura un movimento di sensi e di significati, costruisce una narrazione, una storia; la sintassi dipana un ordine, definisce uno stato, edifica una tradizione. La fine di una metafisica ha prodotto un capovolgimento fra l’alto (il sublime) e il basso (il cafonesco), ha prodotto un capovolgimento tra la lontananza e la prossimità, un capovolgimento fra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose; telos della poiesis è di stabilire un riallineamento, un diverso dis-ordine tra le cose, un dis-ordine fra le parole e fra le parole e le cose. La fine della metafisica è la fine della tradizione con tutte le sue convenzioni e categorie e si preannuncia con grandi sommovimenti e rivolgimenti dello «stato di cose esistente»; la nuova poiesis non può che riflettere le forze soverchianti della storia che l’hanno prodotta. Così stando «lo stato di cose esistente», perorare la continuità della poiesis e della tradizione nello stato di cose esistente, è un atto politicamente regressivo, culturalmente disarmato, significa voler accontentarsi di salvaguardare la funzione ancillare e decorativa della poiesis.

Vincenzo Petronelli

Fragmenta historica

Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico.

Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.

“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.

Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”

“Who by fire? Who in the night time?”

Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.

Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

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pseudolimerick per bambini

di Guido Galdini

c’è una giraffa seduta sul sofà
che ha ordinato una coppa di Campari
a chi le chiede: dimmi, come va
risponde: mica male i miei affari
vieni a sederti un poco qui vicino
che ci facciamo un giro di ramino

ma la giraffa è animale assai ingombrante
per alzarla ci vuole un carro ponte
così il malcapitato che ha subito
l’onore di ricevere l’invito
si è dovuto ridurre alla metà
per non essere invaso e stritolato
da quell’ampia giraffa sul sofà.

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Tre poesie di Tiziana Antonilli

Il protocollo

Il paziente aveva firmato il lenzuolo n. 14,
la notte legarono una vena al lavabo.
Anche alla vegetariana imposero la camicia di forza
infermieri e carcerieri giocavano a poker con i vitelli.
I testimoni sempre off line, ma provvisti di consenso informato.

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Manuale in cinque punti

Bere un filo d’erba per gli omega tre
fare un riassunto dei globuli rossi e cestinarli
corpo a corpo dopo il primo sgarbo ai glutei.
Infilzare due volte al giorno le papille gustative
consolare il chilo e l’etto per il complesso d’inferiorità.

.

Controvento

I migranti sulla crosta di ghiaccio
si erano piegati gli abeti in tasca.
Con i guanti non ancora scaduti
si prendevano per mano
e ritoccavano il make up della bora.
I muscoli cardiaci sprizzano sangue sui pattini.
Se i Tre Confini preparano intemperie
non resta che il Daspo perenne.

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Una poesia di Antonio Sagredo

Il sogno dello specchio confortò la sinfonia,
i tasti riflessi si mutarono in suoni libertini
e si sparsero sulle note i grani di un eretico rosario.
Mancò un’arietta per essere linfa e cenere.

Il settenario appoggiò i gomiti su uno scordato pianoforte
e si scarnificò la gola per cedere all’ugola dorata il canto.
Non c’erano che merletti e uncinetti tra le dita intricate
come le immagini ricciute d’un etilico poeta irlandese.
(2023)

Tiziana Antonilli ha pubblicato le raccolte poetiche Incandescenze (Edizioni del Leone), Pugni e humus (Tracce). Ha vinto il premio Eugenio Montale per gli inediti ed è stata inserita nell’antologia dei vincitori “7 poeti del Premio Montale” (Scheiwiller). Tre sue poesie sono entrate a far parte di altrettanti spettacoli teatrali allestiti dalla compagnia Sted di Modena. Il suo racconto “Prigionieri” ha vinto il Premio Teramo. Ha pubblicato il romanzo Aracne (Edizioni Il Bene Comune) e la raccolta di poesie Le stanze interiori (Progetto Cultura, 2018). Insegna lingua e letteratura inglese presso il Liceo Linguistico “Pertini” di Campobasso. Sue poesie sono presenti nella Agenda. Poesie kitchen edite e inedite, Progetto Cultura, 2022.

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi compomnimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018). È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970. Sono laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiedo ad Erba in provincia di Como, dove sono approdato diciotto anni fa per amore di quella che sarebbe poi diventata mia moglie, ho una figlia di 14 anni.

Dopo un primo percorso post-laurea che mi ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ho successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale, che mi ha condotto al mio attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; nel contempo proseguo nel mio impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia, occupandomi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Dal 2018 sono presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato specificamente nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni miei scritti sono comparse nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sul blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022,2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudenkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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Risposta alla Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica? È solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie, Poesie di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Francesco Paolo Intini

Uomo sotto la neve

Lucio Mayoor Tosi, Uomo in bicicletta sotto la neve, 2023, opera digitale

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Risposta alla Domanda:

Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica?

La «nuova poesia» crea le sue «nuove» categorie ermeneutiche. La «nuova poesia» è nient’altro che «una messa in scena» con annesso e connesso la abolizione del simbolico e del sublime. La sublimazione presuppone la rimozione, è per questa ragione che la «nuova poiesis» avendo abolito la sublimazione può fare a meno, correlativamente, anche della rimozione. Una volta libera da queste due estremità la «nuova poiesis» può estendersi sulla superficie della estimità, essendo libera anche della intimità o interiorità che della rimozione ne è storicamente il prodotto alienato e contraffato.

La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, si muove all’interno di una zona di interoperabilità tra gli oggetti (interni e esterni) e gli attanti, una zona di discretizzazione di tutte le funzioni della trasduzione, essendo la trasduzione nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di trasduzione; è solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie; heideggerianamente, c’è la presenza della «terra», con tutta la sua pesantezza e voluminosità che ingombra. Le funzioni poetiche diventano così meri espedienti. E gli espedienti diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto trasduttivo.

Che altro è l’espediente della «pallottola» che nella poesia di Gino Rago attraversa ampi spazi e svariatissimi personaggi di plurimi tempi se non una relazione trasduttiva, un colloquio costante con la morte?, con la sua presenza ingombrante?; che altro sono gli inciampi linguistici e gli shifter, gli scambi di binari semantici di Francesco Paolo Intini se non l’ossessione della pulsione di morte dei significati convalidati dalla pratica sociale?, che cosa sono quei «pendeloques» (ciondoli) di Marie Laure Colasson se non manifestazioni del «mondeggiare» degli oggetti ovunque si volga lo sguardo?, quel «mondeggiare» che avviene in una condizione di assenza di orizzonte?, anche le «descrizioni» di Vincenzo Petronelli in realtà sono espedienti che portano fuori strada il lettore, interpretano una variante di quel «mondeggiare» privo di mondo e di orizzonte che è nient’altro che la nostra epoca glocale. Secondo il filosofo marxista Slavoj Žižek la freudiana pulsione di morte deve essere adottata quale categoria centrale del capitalismo, una categoria che si è internalizzata ed è diventata una adiacenza del mobilio psichico. La pulsione di morte abita il cuore del capitalismo odierno. La poetry kitchen è ossessionata dalla presenza di questa pulsione di morte che tenta di esorcizzare con un caleidoscopio di immagini, di figure, di icone, di avatar e di situazioni ultronee, ma si tratta pur sempre di un esorcismo, di una magia bianca in realtà la pulsione di morte è la protagonista assoluta della poesia kitchen che avviene mediante una «messa in scena» che avviene all’interno di una relazione di trasduzione che converte gli estremi in, come dire, estimità internalizzate.

La pop-poesia kitchen può essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura: un negoziante, un orologiaio, un barista, un bambino, chiunque tranne che da un letterato.
«Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo lessico che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il kitchen è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato e privatizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle Agenzie emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. Così, ogni discorso diventa un percorso kitchen ad ostacoli.

Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog rientri nel silenzio dell’Essere. Andiamo tutti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo; diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose e intonse per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto più volte Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbe sottoscriverle anche un filosofo marxista, e magari verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.

(Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)

Marie Laure Colasson

Poesia n. 34 della raccolta Les choses de la vie (Progetto Cultura, 2022).

34.

Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král

Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez

Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur

La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir

Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages

Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible

La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable

Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.

*
Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král

Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso

Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero

La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio

Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi

Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile

Finita la deboscia i gabbiani
lasciano delle impronte sulla sabbia

Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo

Mimmo Pugliese
Il tango ha i capelli ricci

Hai nascosto le parole dietro i denti della pioggia
le matite accanto ai gatti sugli scafali del metaverso.

La memoria degli aghi di pino
bussa alla catatonia del polonio.

Sulle sbarre di sabbia diventa latte il ritorno
girato l’angolo è magro il fruscio del segnalibro.

Tra virgole d’asfalto si riposano gli elefanti
sorvolano il sudore i citofoni delle banche.

La giacca di flash-back centrifuga bustine di thè
su ponti inesistenti resistono passeri rampanti.

Non ti hanno visto partire
erano spenti i semafori.

Ha capelli ricci il tango uscito dallo specchio
ZZzzz…ZZzzz… video in riconnessione…..

Fuori è pomeriggio

Il pomeriggio che abbaia
si perde dietro all’eco del labirinto

Un rumore di motori scende dai tetti
innervosisce le briciole, scompone il vento

Nella fessura degli armadi
la luce bagna impermeabili nuovi

Quando la collina naviga nella pioggia
sono àsole le canne sulla strada

Alberi che non ti sono mai piaciuti
sciolgono gli intrighi delle onde

Ha dita di sale la botola
che scrosta i muri alla fine del fiume

La traiettoria del sonno si lascia dietro
scarpe e cifre smaltate sulla camicia

Mordono la luna gli storni
mentre parli ai cani della vendemmia

Francesco Paolo Intini
MARLIN

Ci sono missili che fanno la spesa al supermercato
Comprano nature morte senza copyright.

E intanto che nel nervo X si elencano le sinapsi da bloccare
Bartolomeo Colleoni segna un punto nella partita a golf

Ma forse non c’è stato e dunque il fegato chiude il coledoco
dopo la pestilenza , subito dopo Pasqua, oppure prima della Lotteria

Anche ora che la minaccia sembra sepolta
I contromissili di questa parte mostrano grossi sigari dalle ogive.

Ci sarà come trovare aria pura negli intestini
Penetrare da qualche altra parte e respirare nel duodeno.

Nell’attesa che il pancreas blocchi il dotto
Una gru parla in Televisione di una foglia
Che si secca di scendere giù dall’ albero.

Rallegra un Marlin con la testata bionda
Più della moglie appena uscita dal parrucchiere

CARO DESTINO

C’è un destino sul fondo del tegame
Ne parla Tiresia su richiesta di Re Nasone
La condizione umana coperta di teflon
E la Sfinge che torna al suo quiz:
Quale caffè dopo il postmoderno?

Diresti che il pranzo è servito e il ragù galleggia sul Tg
Chi alza la mano per spostare un bicchiere
giura d’aver visto l’angelo ma un bagnino lo convince
che raccogliere bollini è il Bene dell’umanità.

Gazze e corvi continuano a beccarsi.
La peste diffonde le sue idee nell’intestino crasso.
C’è un’appendice che s’infiamma
Un’idea, l’immortalità del moplen
che scuote come un T-rex nell’ano.

La stessa carne esposta ai pesci
E dunque che vale spogliarsi di bianco
Rendere al blu le bare?

E’ un affaccendarsi di notai ed eredi al letto di morte.
Ah ma se facciamo firmare una Guernica
Finisce che la cornice ci fa causa!

La linfa sale alla testa del verde
Quanti giri fanno i sanfedisti?

La vista del mandorlo si annebbia
La lingua ingrandisce l’ascessi a spese del dentista cieco.

Affini! Macchinisti!
Grida Antigone che si sbellica dalle risate
scambiando Creonte per l’onorevole Trombetta.

Lucio Mayoor Tosi
Primo pomeriggio

Un sottopentola, o tovaglietta. Di paglia, un po’ sfrangiata ai bordi.
Per forza di colore bordò. Chiaramente usata.

Anche farsi una sigaretta. Tavolo con casamenti per l’intero universo.
Nessun profilo, tutte le cose messe di fronte.

Quando d’improvviso. / E’ l’ora dei nani, tre quattro mosse
in paradiso di coscienza. E lì scavare, scavare.

Grigio, colore dominante. Acqua di colonia. Blu e nero
il monitor confinante col cimitero.

Un campo di luce più ristretto di quello del sole. Ora
primo pomeriggio. Raggi dal sottosuolo bene attivi.

Fermo come impalcatura ascolto. Se cuore e bellezza
siano confinanti.

«Confina con me. Il sottopentola» dissi. Quindi lei
sbattè la porta. E giurò di non vedermi mai più.

L’importanza di ogni cosa è misurabile scandendo
ogni sillaba del prontuario “Nuovo tempo”. Metodi

per il soccorso giornaliero. Homo sapiens. Prima
del digiuno. Lui e la sua coorte di oggetti.

Una poesia, quella di Lucio Mayoor Tosi, che sopravvive priva di alcun principio gerarchico, direi anarchica, con un metro polisillabico in distici che sta lì come una sentinella armata; ma armata di che?, di nulla, direi, perché la poesia è costruita senza alcuna costruzione (costrizione), sembra nata già decostruita, già rottamata e buona per la pattumiera del non riciclo. Sembra quasi che l’autore di Candia Lomellina si diverta a produrre scarti non riciclabili, scarti inquinanti ma non tossici, scarti che aggiungono inquinamento a inquinamento, così, giocando spensierato e alleggerito da tutti i pesi, perché l’importanza di ogni cosa (non) è misurabile, e l’homo sapiens se ne sta lì «Lui e la sua coorte di oggetti». (g.l.)

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume saggistico di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Poesie per bambini di Osip Mandel’štam,  prima traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova da ”Il fornello a petrolio”, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, la struttura sincipitale della poesia per bambini

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Giorgio Linguaglossa

Sulla scrittura delle Poesie per bambini di  Osip Mandel’štam

Osip Ėmil’evič Mandel’štam nasce a Varsavia da una famiglia della media borghesia ebraica. I primi versi Osip li pubblica nel 1910 su «Apollon», la rivista della nuova scuola poetica: l’acmeismo. Nikolaj Gumilëv, l’inventore dell’acmeismo, nel 1913 scriveva: «In cambio del simbolismo sorge una nuova tendenza, comunque la si voglia chiamare: acmeismo (dalla parola acmè, il più alto grado di qualcosa, il fiore, la stagione del rigoglio), oppure adamismo (visione virilmente ferma e chiara della vita), che in ogni caso esige un maggior equilibrio di forze e una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto di quanto non sia avvenuto nel simbolismo».

Nel 1912 Mandel’štam entra nella prima “Corporazione dei poeti acmeisti”, si lega con Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Nel 1913 pubblica Kamen (Pietra), nel 1922 Tristia. Le poesie per bambini Il fornello a petrolio di cui qui si presentano un congruo numero, sono del 1925. Nel 1923 Mandel’štam viene colpito dal primo «invito» a non pubblicare versi. Di qui in avanti il poeta vivrà unicamente dei magri redditi che gli derivano da traduzioni e da qualche sporadica collaborazione letteraria.

Nella notte tra il 13 il 14 maggio 1934 il poeta viene arrestato dagli agenti della polizia segreta. Durante gli interrogatori gli contestano una sua poesia scritta contro Stalin. Mandel’štam trascorre tre anni di confino a Voronež, durante i quali scrive le grandi poesie della maturità. Scontata la pena il poeta e la moglie tornano a Mosca, dove il 2 maggio 1938 Mandel’štam viene arrestato e deportato. Ufficialmente, la data della morte è il 27 dicembre 1938.

Tutta la poesia della maturità di Mandel’štam, se si fa eccezione di Pietra, che pur rivela una perfetta levigatezza del verso di squisita fattura ellenistica, poggia sulla consapevolezza che la concezione del mondo del poeta si trova sempre in contrasto con il proprio tempo, «contropelo rispetto al mondo». Nel Discorso su Dante egli parla di una capacità visiva affatto speciale e specifica del poeta che gli permette, al pari degli uccelli rapaci e dei defunti della Commedia, di distinguere gli oggetti lontani, di scorgere i particolari a distanze enormi, pagando lo scotto di ciò con la cecità verso il presente. Già in uno dei suoi primi saggi, Sull’Interlocutore, l’allora ventiduenne poeta parlava della «preziosa consapevolezza della verità poetica»; sin da giovane si considerava un «costruttore»: «dalla triste gravezza anch’io un giorno creerò il bello». Nessun disgusto per la materia grezza, la acuta percezione della sua pesantezza, delle sue qualità intrinseche (la solidità, il peso, il colore, l’incastro): di qui l’idea di una poetica non «di tipo normativo», bensì «biologica», basata cioè sulle qualità originarie, fisiologiche, della materia. Mandel’štam non usava mai il termine «creazione», né il verbo «creare», concetti questi che gli erano totalmente estranei; l’acmeista ha bisogno dello spazio tridimensionale, per lui la terra «non è un fardello, non è un caso infausto, bensì il palazzo donatoci da Dio». Se per Mandel’štam si può costruire soltanto nell’ambito della tridimensionalità, ne consegue che muta radicalmente lo sguardo dell’artista verso il mondo degli oggetti: questo mondo può essere ostile all’artista, ovvero al «costruttore», perché gli oggetti ci sono dati per fungere da materiale da costruzione. La pietra ne è un esempio eloquente. È «come se essa agognasse ad una esistenza diversa» e si volesse inserire «nella volta a crociera» di una «cattedrale gotica». E proprio come la cattedrale gotica rappresenta il compimento della pietra, «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento, come il martello nelle mani del muratore; l’unica realtà è l’opera stessa» (Il mattino dell’acmeismo).

Mandel’štam aveva un concetto corporeo della parola, distingueva «la forma interna della parola dalla parola-segno e dalla parola-simbolo» cara ai poeti simbolisti. Accolse freddamente i celebri versi di Gumilëv sulla «parola» ma senza spiegarne mai il motivo; diversamente da Gumilëv intendeva anche l’importanza del numero dei versi e delle strofe di una composizione. Infatti, usava contare il numero delle righe e delle strofe di una poesia ed il numero dei capitoli nella prosa. A Voronež, Mandel’štam assiste meravigliato alla nascita di poesie di sette, nove, dieci, undici versi che entravano in azione gli uni con gli altri fino a comporre poesie più lunghe: stava nascendo una nuova forma. Venivano alla luce di getto, misteriosamente, nuove poesie di una lunghezza inusitata.

Nelle composizioni de Il fornello a petrolio si assiste ad una peculiarissima fusione delle immagini, dei concetti e delle rime dal punto di vista dell’occhio infantile. È il nuovo tipo di sguardo che determina la nuova forma della poesia.

Le poesie qui tradotte fanno parte di un ciclo di composizioni di genere «leggero», da non intendere nel senso di «cose minori», bensì nel senso di «esercitazioni», esercizi tematici con i quali spesso i poeti provano il proprio bagaglio tecnico in relazione ad oggetti «semplici», prima facie, ma che nascondono in sé notevolissime difficoltà di costruzione e di assemblaggio. Di tale natura è per l’appunto il tentativo compiuto con le poesie del ciclo Il fornello a petrolio. Innanzitutto, un oggetto di uso quotidiano (il fornello a petrolio, il ferro da stiro, le galline «parlanti» etc.), per un interlocutore letterariamente non smaliziato: i bambini, per i quali sarebbe superfluo approntare poesie stilisticamente elevate che rimarrebbero del tutto incomprese, meglio puntare sulla semplicità, mediante tecnicismi elementari ed universali che formano la base per la comprensione della poesia «alta», ossia i giochi di parole, i lapsus ed i giochi di immagini, con le parole di Mandel’štam, una struttura «sincipitale». Orbene, non si creda che un poeta del calibro di Mandel’štam voglia unicamente occuparsi di esercizi fonematici o di equilibrismi di immagini. Niente di più alieno dalle sue vere intenzioni. Il poeta russo tenta qui una vera e propria «muscolatura» delle immagini, pone in essere una ricca strumentazione di nervature interne sotto forma di gioco, di sciocchezze, di nugae. Ormai vicino alla morte, Mandel’štam in una lettera a Tynianov ci chiarisce il concetto di certa sua produzione: «È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, io sputo sulla poesia russa, ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo…». C’è in queste poesie una sorta di sospensione del mondo degli adulti, dove le leggi stesse della gravità e della connessione spazio-temporale sembrano saltate. Ma non è Mandel’štam il poeta che aveva scritto: «L’uomo non è più padrone a casa sua… Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire… Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi?». Sì, è il poeta russo che si prova qui con il mondo degli oggetti che non obbediscono più alle leggi della fisica degli adulti. Gli oggetti sembrano essersi ammutinati e si comportano in modo bizzarro.

Dunque, «sciocchezze» di tipo superiore, «sciocchezze» per l’educazione estetica dell’umanità futura. L’interesse dei poeti verso l’infanzia lo si può riscontrare, in generale, quando le sorti dell’umanità seguono momenti di criticità, e non è un caso che un poeta come Mandel’štam si rivolga ai bambini russi quale concreto «interlocutore» della poesia a venire, quando la lotta per l’imposizione di un nuovo modello di poesia è divenuta problematica e l’esito stesso, la stessa sopravvivenza della poesia nel «nuovo» mondo appariva problematica. D’altra parte, Mandel’štam non aveva bisogno di un lettore qualsiasi. Non certo che disprezzasse i lettori come detestava gli attori che solevano recitare versi in stile «trombonesco», aveva bisogno di un «interlocutore», di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi appena composti. Ma per questo ufficio era sufficiente la moglie Nadežda. L’educazione estetica dei lettori era un concetto che lo faceva sorridere di scherno; a questo ci pensavano già i simbolisti con la loro aura sacrale, i futuristi e i lefovci con l’estetizzazione della politica. Mandel’štam preferiva parlare degli «uomini», non dei «lettori»: «gli uomini conserveranno le poesie… se ne avranno bisogno, le troveranno da soli, trovano sempre quello di cui hanno bisogno».

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Nell’isola di Sevan, Mandel’štam aveva notato che le lenti del binocolo “Zeiss” aumentavano l’intensità del colore, lo rendevano più puro. Mandel’štam non si stancava mai di lodare le capacità di questo binocolo, finché non lo citò in una delle sue poesie più belle.

In un certo senso, l’operazione che il poeta compie in queste Poesie per bambini è di riuscire ad ottenere una poesia più immediata, ingenua, che lo conduca più in prossimità degli oggetti e ne sveli la particolare nobiltà «fisiologica»; tutto ciò senza ricorrere al alcuna nobiltà denominativa. Non per nulla Mandel’štam possedeva un acutissimo senso del tatto, come i bambini, toccare le cose lo aiutava a riconoscerle. Per lui il poeta «tocca» la forma interna degli oggetti ancor prima che questi si materializzino in parole. Il toccare lo aiutava a ricordare, ed il ricordo era lo stadio che immediatamente precedeva il vestito di parola. In queste poesie per bambini, Mandel’štam per prima cosa ricompone per lo sguardo infantile oggetti ad essi familiari, che nella vita quotidiana dell’epoca essi avevano continuamente sotto gli occhi (per esempio, il ferro da stiro incandescente che le nostre nonne ponevano sul davanzale della finestra per farlo raffreddare; il fornello a petrolio con le sue particolarità costruttive, etc.).Questi oggetti vengono animati dall’interno come se fossero delle entità viventi e parlanti: così l’elettricità è paragonata ad un «fuoco freddo» che fa illuminare la lampadina; il latte non bollito si trasforma in yogurt per via di trasmutazione quasi magica, e così via. Ovviamente, nella versione in italiano raramente è stato possibile rendere i parallelismi fonetici che stigmatizzano le trasmutazioni; cionondimeno, non tutta la freschezza e l’agilità di queste composizioni viene perduta; ciò che resta è sufficiente a farci apprezzare l’alta qualità della manifattura poetica che è alla loro base. Ad esempio, nella composizione numero dieci è stato possibile conservare la rima del testo russo con una analoga in italiano. Tanto basta a rendere lo squisito sapore dell’originale, nonché, degno di nota è il raffinatissimo nesso incrociato dei «violinisti» e dei «trombettieri» legati dalla giuntura della rima in «elle» e dall’unità di luogo e di tempo dell’azione: il mercato.

L’interesse per la poesia infantile era comune ai poeti della generazione di Mandel’štam; ricordiamo qui per inciso le poesie della bambina ucraina che Velimir Chlébnikov commentò già prima degli anni ’20, dove la ingenua «trasgressione… solleva il velo dai versi monotonamente rivestiti dal metro». Lo sforzo di Chlébnikov era orientato verso la rottura della struttura sillabico-tonica della versificazione simbolista. La trasgressione consapevole e ingenua era intesa nel senso di un recupero del parlato quotidiano. Se Chlébnikov fu il primo ad introdurre nella poesia russa le rime «marginali», prima di lui repertorio della poesia comica, un grande continuatore di questo indirizzo è rappresentato da Majakovskij e dalla rivista “Novij Satirikon”, nonché dal poeta umoristico Sasa Cërnyj, autore, tra l’altro, di uno splendido racconto lungo, Diario di un cane, pubblicato a Parigi nel 1926, dove il mondo degli adulti è illuminato dal riflettore del punto di vista dello sguardo infantile. Ad esempio, anche nella prosa il punto di vista infantile-ingenuo produrrà i racconti stranianti di Daniil Charms. La teorizzazione di Chlébnikov sulla lingua come di «un gioco alle bambole», così che «la parola è una bambola sonora e il dizionario una raccolta di giocattoli», fu una delle più feconde per la poesia russa. Poiché «la lingua si è naturalmente sviluppata a partire da poche unità basilari dell’alfabeto», compito del poeta per Chlébnikov sarà di riassemblare, sulla base di pochi «straccetti sonori» una lingua transmentale che si sviluppi a partire da pochi radicali con l’aggiunta di suffissi e affissi, in direzione di un linguaggio «stellare», «pentaraggiale», universale, dove i tradizionali nessi semantici e sintattici si affievoliscono per far posto ad un nuovo processo di etimologizzazione e semasiologizzazione dei testi. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua, in Mandel’štam lo sguardo infantile costruisce gli oggetti. Mandel’štam invidiava nei bambini quella loro particolare attitudine ottica che permette loro di ricostruire, da oggetti immobili gli oggetti in movimento; impadronirsi di questa facoltà avrebbe significato una grande acquisizione per un poeta. Affinare la facoltà ottica e tattile significava poter padroneggiare in misura eccelsa gli oggetti, riconoscerli in ogni loro istante, riuscire a rappresentarli in modo più icastico, completo. Per Mandel’štam i cinque sensi erano una «finestra sul mondo», in particolare, la vista ed il tatto, i più sublimi; facoltà che nell’uomo moderno erano ormai in declino. Tratti infantili erano presenti anche nella personalità di Mandel’štam, il quale era solito vantarsi, dinanzi all’Achmatova, delle prodigiose capacità della propria vista, e di frequente, per le strade di Pietroburgo, sfidava la amica poetessa a chi leggeva per primo il numero dei tram in arrivo. La moglie di Mandel’štam fungeva da arbitro. Con grande scorno di quest’ultimo, vinceva sempre la Achmatova. Mandel’štam era solito chiamarla la «piccola vespa», si era convinto della suprema acutezza della vista della Achmatova e la ammirava. Nessuno riusciva a capire perché mai Mandel’štam frequentasse assiduamente il museo zoologico di Pietroburgo: per sfogliare libri e studiare la struttura della vista di uccelli, insetti, lucertole, mammiferi. Fu così che «l’occhio sincipitale» degli insetti entrò in una delle sue poesie più alte. Mandel’štam era convinto che i bambini vedessero meglio e più in profondità degli adulti, fu per questo che intraprese a scrivere un ciclo di poesie per bambini, per tentare di impadronirsi di questa suprema capacità visiva. Era convinto che per poter costruire una grande poesia fosse necessario riconoscere gli oggetti in modo sintetico e diacronico, con sguardo plastico ed animistico, con occhio parallattico e sincipitale.

Risposta all’inchiesta “lo scrittore sovietico e l’ottobre” inaugurata dalla rivista “Citatel’ i pisatel’” (Lettore e scrittore) del 1928

La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la «biografia», la sensazione di un significato personale.

Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono, per ora, necessari.
La domanda su come debba essere uno scrittore, mi è del tutto incomprensibile: per rispondere dovrei inventare uno scrittore, il che significherebbe scrivere le sue opere in sua vece.
Sono altresì profondamente convinto che, sebbene gli scrittori dipendano dai rapporti di forza sociali e ne siano condizionati, la scienza moderna non possegga alcun mezzo per evocare la comparsa di questo o quell’autore che ritiene auspicabile. Dato lo stadio embrionale dell’eugeneutica, gli incroci e gli innesti culturali possono dare i risultati più inaspettati. È invece possibile una produzione in massa dei lettori. Per questo esiste un mezzo diretto: la scuola.

Mandel’štam aveva compreso un fatto fondamentale: che per fare poesia occorre ritornare ad avere uno sguardo, in un certo senso, «infantile» (dizione di Mandel’štam), che occorre ripristinare uno «sguardo sincipitale» (dizione di Mandel’štam) delle api e delle lucertole, e «stereometrico» (dizione di Mandel’štam), che occorre vedere la «parola» (del linguaggio poetico) dall’interno e dal di fuori, da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso (dizioni di Mandel’štam)… e che questa particolare attitudine del linguaggio umano e di quello poetico è una attitudine naturale… soltanto le stratificazioni culturali ottundono lo sguardo costringendoci ad un VEDERE istituzionalizzato ed nomologato.. La poetica dell’acmeismo, nelle intenzioni del poeta russo mirava a mettere in risalto le cose non solo perché esse sono cose in senso ontologico ma perché le cose nel linguaggio sono altra cosa dalle cose in sé. Mandel’štam diceva che «bisogna considerare la parola come un fascio, ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza però dirigersi verso alcun punto ufficiale».

Straordinaria e acutissima intuizione.

Mandel'stam2

da Il fornello a petrolio di Osip Mandel’štam
I
Le belle gallinelle andarono dalle spocchiose pavonesse:
“Dateci almeno una pennuccia, suvvia, coccodè – coccodè”
“Ci mancherebbe altro!
Che vi siete messe in testa?
Pensate: a cosa vi serve?
Noi non siamo vostre amiche: ma pensa, coccodè – coccodè”

II

Un pan di zucchero
né morto né vivo.
Hanno preparato del tè fresco:
serviteci pure lo zucchero!

III

Per guarire e lavare
Il vecchio dorato fornello a petrolio,
gli tolgono la testolina
e lo riempiono d’acqua.

Il ramaio, dottore del fornello a petrolio,
guarirà il fornello malato:
lo pulisce con l’ago sottile.

IV

Amo molto la biancheria,
sono amico di una camicia;
non appena la vedo –
stiro, ripasso, scivolo:
– Se voi sapeste quanto
mi fa male stare sul fuoco!

V

“Per me che sono non bollito, rozzo,
è facile diventare yogurth!”
diceva a quello bollito
il latte non bollito.

Ma quello bollito
risponde con dolcezza:
“Io non sono un completo rammollito:
ho la pellicina”. Continua a leggere

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Video di Gianni Godi, voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson, Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫metafisica☼? Nel mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso, Discorso della Montagna, poesie kitchen di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mimmo Pugliese

Video di Gianni Godi voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson

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Oggi, nel 2023, non si può porre mano ad alcuna ermeneutica dell’arte a seguito della Fine della poiesis, di quella che un tempo si chiamava «arte» nel tempo della storia lineare e progressiva; oggi, nel tempo della storialità (cioè della storia non-progressiva), la fine dell’«arte» trascina con sé anche la fine della critica d’arte. E qui il discorso si chiude. La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale»; ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situi all’interno tra le due cornici, nell’intercapedine tra le due cornici là dove si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis ovviamente priva di «essenza» e di qualsivoglia «interiorità».
Quelle interiorità ridotte a palline luminescenti, sfere che rimbalzano e galleggiano all’interno di una macchina celibe dove majorette in reggicalze ballano con scheletri redivivi il tutto accompagnato da spezzoni di triviali musichette marziali e acuti di un melodramma soporoso…

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(Giorgio Linguaglossa)

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Domanda

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della ♫ fine della storia ☼?
–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫ metafisica ☼?
–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi ♫ eventi epocali ☼?

Promenade notturna 1, Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage, 40×40, 2023

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Marie Laure Colasson

Rispondo in breve alla prima domanda di Giorgio Linguaglossa

perché è quella che ritengo fondamentale, le altre sono domande di contorno di cui mi sarà lecito rimandare ad altra occasione l’onere di una risposta.
Con la parola «♫metafisica ☼» di cui si parla nella domanda penso si intenda la legislazione del linguaggio a cui noi tutti storicamente sottostiamo: la grammatizzazione della voce orale che ha fondato la nostra civiltà occidentale con tutti i suoi innumerevoli tropi e figure retoriche. Ma la «metafisica» è l’opera di una gigantesca grammatizzazione, non è un corpo unitario e infrangibile, la si può infrangere togliendo alle parole la loro destinazione di legalità e di utilità, sospendendo, con un atto di deposizione, le parole dal loro significato ordinario.

Nel pensiero di Walter Benjamin la verità si dà solo nei «cocci del pensiero», nelle parole depositate sul fondale marino del dimenticato, sottratte al rimosso e all’oblio dalla rete del «pescatore di perle» e del «pescatore di stracci». Benjamin aveva escogitato una precisa strategia in grado di infrangere l’incantesimo di una tradizione che considerava alla stregua del «bottino di guerra» dei «vincitori della storia». Si tratta di una straordinaria collezione di citazioni, minuziosamente appuntate sui suoi taccuini e della quale il filosofo faceva il contenuto fondamentale della sua speculazione.
La citazione, come forma del nominare, se sradicata dal suo contesto semantico e sintattico originario, consente di ricongiungersi alla potenza del dire prima che intervenga la legislazione del senso e del significato. Le citazioni organizzate dalla tecnica del montaggio recidono i vincoli che le tenevano avvinte alla ♫metafisica☼ del «significato»; qui il principio di autorevolezza dell’enunciato viene soppiantato da quello di libera individualità delle parole liberate dalla sottomissione al significato ordinario socialmente condiviso.

Ha scritto Linguaglossa in un commento postato il 28 febbraio 2023:

“Oggi abbiamo a disposizione la «musica» e le «parole» ovunque: non solo nelle sale concerto, ma, nei teatri, nei cinema, nelle sale d’aspetto dei dentisti, nei negozi di alimentari, nei supermarket… come la «musica» anche le «parole»: siamo invasi da parole di tutti i conii, da quelle bicefale a quelle alto allocate, parole insulse, prometeiche, cafonesche, a quelle prive di significato, parole vuoto a perdere… così non solo negli aeroporti ma anche in spiaggia e finanche nel mare a bordo dei pedalò siamo assediati dalle musichette orripilanti e dalle parole dei bagnini… tutto questo ha cambiato il nostro rapporto con la musica e con le parole; innanzitutto, dobbiamo liquidare una volta per tutte l’ideologema mitico della «voce originaria», come se ci fosse una mitica «voce» nella mitica «interiorità» in grado di affiorare in superficie
(con tanto di duende) e di irrorare di bellezza composita il foglio bianco del poeta intonso. Tutto ciò è un mito! In realtà, non c’è nessuna «voce» originaria e tantomeno «narrante», non c’è nessuna «origine» e nessuna «autenticità» da salvaguardare e quindi non c’è nessuna «duende» originaria, nessuna «nostalgia», non c’è nessuna «autenticità» da liberare nella voce dispiegata. Tutti miti di un bel tempo che fu. E con la scomparsa della «voce» originaria del poeta, abbiamo i suoi sostituti: delle «voci» multilaterali che provengono da ogni dove.”

Il poeta di oggi agisce in modo analogo a quello del «collezionista» di Benjamin, le parole intimamente intrecciate all’origine del loro valore d’uso e di scambio si configurano presso la nuova fenomenologia del poetico, una volta liberate dall’origine, in guisa antisistematica; libere di agire in base al principio di libertà, le parole non sono più soggette alla legislazione di quella «metafisica» (la tradizione) che ne irrigidisce il senso e il significato.
Possiamo considerare il collezionismo di oggetti di Benjamin una procedura analoga al collezionismo di frasari nella poetry kitchen, una procedura che consente di sostituire il valore d’uso e di scambio delle parole con un valore dato dal mero piacere disinteressato del poeta. Così, gli oggetti liberati dalla schiavitù dell’utilità e del significato, vengono «riscattati». Si tratta di un’attività rivoluzionaria governata dal kairos che sconvolge l’ordine imposto dal passato e legittimato dalla tradizione.
Le citazioni anonime, i frasari anonimi costituiscono il nucleo centrale della tecnica compositiva della nuova fenomenologia del poetico, nella quale non vige il principio logico-causale ma un intento azionatorio-predicatorio insito nel linguaggio. Verrebbe da pensare, allora, che proprio il kairos rappresenti la categoria portante della poetry kitchen.
Il kairos che governa il rinvenimento di «perle e coralli» (dizione di Benjamin) perduti, il kairos che culla il passeggiatore, il flâneur, nel reticolo delle strade di Parigi.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”.1

1 Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti

Giorgio Linguaglossa
Discorso della Montagna

Il Presidente del Globo Terrestre alzò la cornetta del telefono
Urlò:
«Il misuratore dei bidet è andato a prendersi un caffè, ha attaccato un cartello alla vetrina del negozio di ortofrutticolo di via Pietro Giordani con su scritto:
“Torno subito”»
E continuò con questi frangenti:

«È in corso la denazificazione della poetry kitchen!
È in corso la saponificazione della formaldeide!
Non dimenticate di prendere un’aspirina, la sera, e una di Lexotan la mattina e dopo i pasti, vi toglie il mal di stomaco
È vietato fornicare con la vicina di ombrellone
Ai nani è vietato indossare gli shorts
È vietato pomiciare con un LGBT
È vietato chiudere i rubinetti del gas prima di uscire
È vietato chiudere i flow cash dei bancomat
È consentito indossare la canottiera solo d’inverno
Non è permesso immergere i savoiardi nel caffelatte
Non dimenticate di assumere il prolettico dopo pranzo
La penicillina è diventata astemica
La majonese è una combriccola milanese
L’alopecia è una torta Sacher con la Lichtung al centro
Il poliptoto è il nome scientifico della medusa mediterranea
Il maggiordomo Camembert ha deglutito per errore la créme caramel di propietà del poeta Michal Ajvaz
Madame Colasson usa sempre il filo interdentale Colgate Control»

Fu a questo punto che Papa Francesco dal Vaticano interloquì in modo appropriato:

«Spolverate più spesso la piramide di Cheope con lo spazzolino da denti Kukident e poi lucidatela con il lucido da scarpe Nugget
Non fidatevi del Mago Woland, è un malmostoso putleriano, un fidejussore, un profittatore
Ogni evento ha il suo contrario ope legis
Il periplo è analogo al peplo
Il contrattempo è in allestimento
Il contraddittorio è in allestimento
Il collutorio contiene la clorexidina
È in allestimento anche il futuro
Per il passato ci incontreremo domani»

Gli ofidi sono ventriloqui, parlano spesso con i T-Rex
Il Velociraptor ha deglutito il pesce Lavrov
Anassagora beve un bicchierino di vodka in compagnia di Prigožin
Il cateto di Pitagora litiga con l’ipotenusa di Aristarco

Così il Parlamento ha votato la fiducia al Governo di unità nazionale
La legge di stabilità contiene l’autorizzazione al termovalorizzatore dell’Urbe
Il pappagallo Totò ha augurato “Buongiorno!”
Achille ha raggiunto la Tartaruga
Un pesce in marsina si sta lavando i denti con Pepsodent anti placca quando il misuratore dei bidet, il Mago Woland, dopo aver masticato un würstel ha continuato con questi frangenti:
«Dio è diventato impotente! Questa è la migliore prova dell’esistenza dell’Essere e del Dasein, lo stigma della sua impotentia coeundi!»

Nel mondo capovolto Churchill va in bicicletta e Fausto Coppi è il primo ministro del Regno Unito
Lo scolapasta andò a picchiare contro la pentola di Chernobyl in ebollizione
Fa ingresso nell’ologramma il Corvo di Salaparuta il quale spedisce una cartolina alla papessa Giovanna con su scritto “Viva l’Italia!”
Nella circostanza, un nano esce da una poesia di Michal Ajvaz, bussa alla porta della abitazione del critico Linguaglossa e non trova di meglio che radersi la barba con una lametta Bic tripla lama
Si guarda allo specchio, sorride, fa dei versacci, dei cilecca e dei princisbecchi e dice:
«Caro Linguaglossa, Lei è il terrore dei poeti elegiaci!»

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken ha dichiarato al G7:
«We’re not going to tell the russians how to negotiate, what to negotiate and when to negotiate»,
con una postilla significativa:
«They’re going to set those terms for themselves»

Marie Laure Colasson

Das Ereignis ereignet (l’evento avviene, Heidegger), L’ultimo periodo della vita di Heidegger è stato dedicato alla nozione di Evento (Ereignis), ma il filosofo non è riuscito a cavare un ragno dal buco. Il concetto di Evento è sfuggente, imprendibile, se fosse prendibile non sarebbe un Evento. Per esempio, la nuova poesia. Bene, se fosse leggibile non sarebbe più un Evento. Per essere Evento non deve essere né leggibile né prevedibile.
La poesia di Linguaglossa è l’unico discorso che Gesù potrebbe pronunciare se tornasse sulla terra. Che altro potrebbe dire? Non c’è nulla da dire di significativo…
L’Evento è in se stesso una Enteignis, («espropriazione»), ciò che eravamo prima dell’evento ora non siamo più. L’Evento è ciò che rivoluziona il nostro «proprio», ci dispossessa delle nostre proprietà e ci restituisce alla espropriazione di noi stessi. L’Evento non è qualcosa di cui pensare ma qualcosa che avviene, che precede il pensiero e lo trasloca. II pensiero post-metafisico che prende dimora nell’evento, non è un atto di fede ma una presa d’atto, una presa di coscienza dinanzi a ciò che si presenta come irriconoscibile, infatti l’Evento è sempre irriconoscibile, si presenta come nuovo linguaggio di cui appropriarsi. Con lo svanire dell’essere nel rapporto di scambio nasce il «nuovo». Heidegger afferma che dell’Evento non si dà una teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’esperienza non è qualcosa che mistico […] ma è il raccogliersi che porta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimento che può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» è già esso stesso esperienza dell’evento.
Al di là dell’alone di mistico che aleggia nelle parole del filosofo tedesco, possiamo tradurre il concetto così: prima della Rivoluzione Francese non c’era nulla tranne l’ancien Régime, nessun Evento, dopo di essa il nuovo evento cambia la storia dell’Europa e del mondo occidentale e le coscienze degli uomini. L’imprevedibile (e l’irriconoscibile) è diventato realtà. Analogamente, una «nuova poiesis» all’inizio è sempre imprevedibile e irriconoscibile, ma dopo di essa la poiesis è cambiata per sempre. Prima del 1954, anno di pubblicazione del libro d’esordio di Tomas Tranströmer, 17 poesie, la poesia europea era diversa, pensava e scriveva ancora in chiave di mimesis, era neoverista nelle sue profondità; dopo quel libro la poesia europea è cambiata, per sempre. Certi Eventi che accadono non tutti li intercettano, e magari i suoi effetti risuonano a distanza di decenni, ma questo risiede nella struttura stessa dell’Evento che si presenta sempre con le caratteristiche della invisibilità e della impredittibilità.

Due parole sul bellissimo video di Gianni Godi. Questo è per me un Evento, inatteso e imprevedibile in quanto Evento. Che Gianni Godi abbia preso lo spunto dalle mie «strutture dissipative» mi dà soddisfazione… le nuoveopere camminano, gli eventi sono in cammino… La nuova poesia è difficile, problematica, irriconoscibile molto più facile è fare le poesie della interiorità e della bellezza sfregiata. Sull’amore non saprei che dire, io che ho molto amato, dinanzi all’amore resto senza parole. E forse questo è la migliore poesia: una poesia senza parole, come una musica senza note… l’ideale per ogni poeta o musicista.

Marie Laure Colasson

da Un masque rouge fait de pétales de coquelicot

1.

Un masque rouge fait de pétales de coquelicot
empeste d’opium les bouches d’égouts de Paris

Un crâne étiré en pain de sucre
boit assidûment le sang des aigles

Un nain et un géant mongol
détectent l’oreille au sol les confessions d’un merle

La blanche geisha cachée derrière un écran de soie noire
entrevoit l’orifice hideux d’un boa chansonnier satirique

Eredia embrasse à coups de poings
et de mitraillette une monstrueuse ventouse

D’une voix timbrée le siège du bus
écrase une meute survoltée dans un étau de charpentier

Des petits riens s’échappent en tous sens
les couronnes des rois flirtent avec le temps

(inedito)

Una maschera rossa fatta di petali di papavero
impesta d’oppio i tombini di Parigi

Un cranio a forma di pane di zucchero
beve con assiduità il sangue delle aquile

Un nano e un gigante mongolo
percepiscono con l’orecchio al suolo le confessioni d’un merlo.

La bianca geisha nascosta dietro uno schermo di seta nera
intravede l’orifizio schifoso d’un boa chansonnier satirico

Eredia bacia a colpi di pugni
e di mitraglietta una mostruosa ventosa

Con una voce altisonante il sedile dell’autobus
schiaccia una muta esasperata nella morsa di un falegname

Piccoli niente scappano in tutte le direzioni
le corone dei re flirtano con il tempo

Mimmo Pugliese

La barca

La barca è finita in cielo
gli elefanti in salopette stordivano tarocchi

Zigomi e seni quadri marciavano in cassaforte
una ruga di cortisone abbraccia pupazzi di neve

Le lampade della sera si inginocchiano alle tonsille
ha fatto boom il promemoria del gelsomino

Le schiene delle bottiglie dirigono il traffico
dalla tana il dentifricio scavalca la cresta dei galli

Sabbia e sale avevano scarpe intrise di occhiali
bighe contromano masticavano aghi

Posacenere demodè inseguivano molluschi
portapenne a transistor affilavano rasoi

Le trame dei tappeti erano aloni di bocche
dal bagnasciuga spuntava la gobba delle piramidi

Il petto sudava tricicli
sulla cima del ventaglio pioveva

Cornicioni resettano metri di caffè
la catapulta diventa dirigibile

Al centesimo mese dell’anno il sirtaki vomita inchiostro
vetri distopici scarnificano la risacca

Gianni Godi  è nato a Monte Porzio nel ’37 (Pesaro-Urbino). GG è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. In un momento di debolezza ha pubblicato a proprie spese il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia.  (Date le dimensioni da lui richieste, 160 x220 cm, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia. È convinto di fare cose bellissime e complicate dalla confusione ed è per questo che da un po’ di tempo ha deciso di dare un taglio sferico alla sua vita museale dove ha finora esposto tutte le sue opere. Alcuni eventi trascorsi: 1985 – Lavatoio Contumaciale – Roma – Sorrisi e Canzoni non stop………2009 – Onishi Gallery – New York – XX WOMEN MADE IN SOUTH OF ITALY- Video e Foto di Donne di San Luca (RC)…2012 Roma – RO.MI. – Videoart – Contamination 5. 2006 FESTA NAZIONALE DELL’UNITÀ – Pesaro – Arti Elettroniche a cura di MM Gazzano – Video-installation Piciedroquadro per single. 2007 Danon Gallery – NY, – THE FLOWER OF BUDDHA Silk and metal carpets from the Forbidden City. Proiezione su parete scura del videoclip Fiore di Loto. 2012 Castelvecchio di Monte Porzio – Pu – 3 GIORNI DI CENERE – rassegna di parole e forme – agosto 2012 – Installazioni e performance in piazza –

2014  Teatro del Lido – Ostia Lido – Con l’Associazione Spazi all’Arte – Proiezione del Cortometraggio TRASH SPLENDOR – https://youtu.be/Y3dswdnVfTM
2015. Un Video inserito nella rappresentazione TEATRALE dell’opera RED ROSES AND DOMESTIC ACID,  di Pilar Castel (Quarzell) andata in scena  nell’agosto 2015 a New York.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e del volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Intervista a Andrea Temporelli a cura di Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?, Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Foto Man Ray nudo

Man Ray, nudo

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Figlio di un fiore e di un piccolo merlo, Andrea Temporelli con la poesia ha esplorato Il cielo di Marte (Einaudi, Torino 2005), prima di far ritorno alla Terramadre (Il Ponte del Sale, Rovigo 2012), ma i conti con il mondo letterario contemporaneo li ha risolti con il romanzo Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, Rimini 2015) e con il volume di interventi critici militanti Smarcamenti, affondi e fughe (Ladolfi, Borgomanero 2016). Insegna nella scuola secondaria a Borgomanero (dove è nato nel 1973) e interviene su YouTube con un personale Dis/corso di scrittura creativa, che s’interroga sul senso della scrittura in un tempo in cui la società letteraria non esiste più.

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Domanda

Gentile Andrea Temporelli le pongo la domanda che ho rivolto ai poeti italiani:

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Question

Dear Andrea Temporelli, I ask you the question I asked Italian poets:

– What poetry can you write at the time of the end of the story?

– What poetry to write at the time of the end of metaphysics?

– What is the task of poetry before these epochal events?

Answer

Premessa: non esiste la poesia, esistono i singoli gesti poetici. I vari “oggetti linguistici” che accorpiamo sotto l’unica sigla di genere possono essere anche radicalmente diversi. Ciò significa che il discorso sulla poesia conta poco e deve essere sottoposto alla verifica del testo e della sua ricezione storica. Così, più che ragionare in astratto su quello che penso, cercherò di mostrare come mi sembra di aver risposto nei fatti, ovvero con i testi appena usciti nel libro L’amore e tutto il resto (Interlinea).

Ciò detto, verrebbe da affermare che “fine della storia” e “fine della metafisica” siano altrettante etichette, mentre la poesia lavora sull’esperienza concreta e reale. Però devo ammettere che, quando ho iniziato il lavoro che si è ora compiuto nel libro, percepivo effettivamente in me un senso della fine. Non era il semplice giro del millennio a dare questa percezione, era la sensazione concreta che ciò che io definivo “Novecento” si era esaurito. Tutti i poeti con cui mi confrontavo, sia i maestri riconosciuti sia i poeti contemporanei, mi parevano ancora prigionieri di un orizzonte che mi appariva come ormai privo di senso. Il Novecento è il secolo dell’ironia che distrugge ogni visione del mondo presupponendo alternative che in realtà non sa elaborare: una forma di intelligenza che si limita alla pars destruens, insomma (con ciò che di sano porta con sé, contro ogni bigottismo o fanatismo, per esempio). Il Novecento è il secolo anche della sperimentazione formale estrema. Il suo personaggio ideale è la figura umana dell’“inetto”, dell’uomo senza qualità, dell’anti-eroe (anche qui, con aspetti positivi: nessuno crede più nella figura romantica, tutta d’un pezzo, dell’eroe capace di cambiare la storia). Il suo lascito complessivo è il male di vivere, la depressione, la disillusione estrema. Ecco, io ho percepito nettamente questo senso della fine: forse non è esattamente la “fine della storia” della domanda, ma credo che la presenza nella mia raccolta di una poesia intitolata Novecento sia significativa. E dunque, che fa la poesia al tempo della fine? Rintraccia possibili indizi di un altro principio.

La “fine della metafisica” mi fa venire in mente alcuni versi da Verifica della storia: “vivere non basta / e dio non è possibile. Da secoli”. Eppure, se la cultura occidentale ci ha davvero condotto qui, su questo fronte, la poesia percepisce, senza barare, senza pretendere di non vedere il presente o di rendere reversibile il tempo, l’evoluzione ulteriore. E si tratta magari di un evento non prevedibile, non logico, propriamente poetico. Mi sembra di dire questo nella poesia Epoca. La penultima strofa afferma: “Per ciò elemosina giorno su giorno / un senso, scava nelle mani aperte, / dona a tutti un destino. Inventa. Annuncia: / un nuovo mondo dietro l’angolo aspetta”. Sottolineerei l’uso del verbo “elemosina”: la poesia non è fonte di un sapere precostituito, va oltre la cultura stessa: è sapienza primigenia, vitale. Può trovare la ricchezza nelle mani vuote. Può inventare un destino, come anticamente i miti “servivano” la vita, la favorivano. E se qualcosa di nuovo esiste, è già potenzialmente qui, dietro l’angolo: occorre solo trovare uno sguardo capace di dargli credito e di offrirgli la cura necessaria per svilupparsi.

Il “Novecento” che sentivo alle spalle sembra, storicamente, riproporsi ciclicamente (basti pensare alla guerra attuale), ma forse una parte dell’umanità incarna una figura umana già esausta e superata, anacronistica, mentre altri sono già altrove, già cercano di fissare i tratti distintivi di una nuova figura di uomo. Nella mia poesia il richiamo a Marte è probabilmente l’emblema di quell’altrove verso cui ci stiamo indirizzando. Dunque, il compito della poesia è di guardare “l’ultimo orizzonte” e cercare, fino alla fine, di glorificarne la bellezza – nella speranza, certo, che sia la traccia di un inizio. Ma, se anche così non fosse (come si lascia intendere nella poesia con cui chiudo il libro, Postilla per l’alieno), la poesia ha il compito di registrare e certificare la verità di quella bellezza che la morte stessa non potrà comunque smentire.

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(Andrea Temporelli)

Domanda

– Qual è la sua posizione rispetto alla poesia europea del novecento?

Question

– What is your position with respect to 20th century European poetry?

Answer

Caspita, la domanda fa venire le vertigini. Se per “posizione” si intende un giudizio critico sulla poesia europea, presuppone una levatura intellettuale straordinaria. Se per “posizione” si intende il collocamento della propria esperienza stilistica, presuppone parimenti un ego sconfinato. Di primo acchito, verrebbe da sentirsi soltanto piccoli e inadeguati, del tutto disorientati. In effetti, la risposta più corretta sarebbe: “Non so”. Avrei una nube di pensieri in movimento, e anche di sensazioni tutte da verificare… Balbetterei ipotesi su ipotesi, contraddicendomi ripetutamente.

Ma cerco appigli nel libro. Geograficamente, i richiami a luoghi di provincia sono dominanti: torrenti, montagne, boschi, ma anche cascine, case specifiche, vicini di casa… e poi il cortile, gli interni… La poesia si radica in un territorio preciso e in una lingua precisa. Dunque, guardo all’Europa da qui, dalla lingua e dalla cultura italiana. Ma l’Europa entra anche nei miei versi, sia come paesaggi (in Ballata del mese di maggio per esempio si richiama lo scenario della guerra nel Kosovo del 1999) sia come cultura: l’epigrafe del libro è di Mandel’štam, la “terra marcia” di Fronte del bene comune è prossima alla terra desolata di Eliot, l’angelo della mia poesia sembra un richiamo a Rilke (che però si innesta su un mito familiare), e poi chiamo direttamente in causa le “baldracche di Baudelaire” oppure Kafka… Sì, direi che la poesia europea lascia un velo, in queste pagine. Eppure, sempre stando ai miei versi, lo sguardo non sembra fissarsi sull’Europa, semmai sull’occidente in un senso più ampio, ma a questo punto inserito in un contesto globale…

Ahimè, avrei voluto rispondere in modo positivo, chiamando in causa un’identità europea e un posizionamento rispetto ad essa, ma non posso farlo. L’Europa è terra di confluenze diverse, un ponte sul mondo, da attraversare in entrambe le direzioni. L’Europa in generale, e la poesia europea nello specifico, sono dunque soltanto un’intercapedine tra la mia pagina e il mondo, tra il mio cortile e Marte.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come post-modernista?

Question

Can we define his poetry as postmodernist?

Answer

Fine e inizio, dicevamo, si compenetrano, e a tratti non si possono distinguere. Ciò che adesso è “post” qualcosa, forse si potrà definire un giorno “pre” qualcos’altro. Poeticamente sono attratto soprattutto dalla seconda ipotesi. Ho ben coscienza, per quello che è nelle mie possibilità, di ciò che ho alle spalle. Ma il senso della fine da cui sono partito ha generato una nausea alla quale ho risposto, umanamente, con il desiderio. Non so se quello che sto per dire ha senso, ma io mi sento più all’inizio di qualcosa che alla fine di altro. Per ora mi basta pensare che la mia poesia sia “pre”-sente. Essere davvero presenti, centrati nel respiro e nel pensiero, consapevoli della scena in modo da non essere “giocati” da essa: dentro i congegni della nostra società complessa, ma senza appartenere ad essi. Credo sia questa l’unica, eterna dimensione contemporanea della poesia. La poesia contemporanea è quella sintonizzata bene nel presente, ovvero quella che, in ogni epoca, riesce a guardare lungo quel crinale infinito e sottilissimo che sta tra il ricordo del noto da una parte e l’ansia dell’ignoto dall’altra (come nell’equilibrista della mia poesia Vertigine), l’unico tempo giusto perché qualcosa accada, anche il primo battito di ciò che sta per arrivare: essere presenti significa a quel punto pre-sentire…

Questa mia visione è una nuova maschera del modernismo o è il suo superamento? Francamente, non saprei dirlo. Dovrei volgere lo sguardo verso uno dei due abissi, rientrare nella prospettiva storicistica. Non ho alcuna intenzione di farlo, “Finché la carne bianca a fuoco ara / una mano ispirata”.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come “Poesia del tramonto”?

Question

Can we define his poetry as “Poetry of the sunset”?

Answer

“L’appuntamento è qui su questa pagina / mio capitano di poche parole, / lettore in fuga dalla somiglianza / che mi fa tuo seguace contro il tempo”. “E adesso voglio un nome impronunciato, / bianchi tutti i quaderni, persi i crediti”… “… di tutti / i confini ho dolore, / ho passione per tutti gli orizzonti”. “Lontano / i vincitori esultano – / ma il pane in tavola è più buono, i figli / sono uomini fatti e nella luce / lattiginosa del portico parlano / come guide già esperte”. No, non direi che la luce che percepisco sia una luce di tramonto.

Domanda

Come è cambiata nel corso dei decenni la sua poesia?

Question

How has your poetry changed over the decades?

Answer

L’amore e tutto il resto comprende versi composti tra il 1996 e il 2022. Le oscillazioni formali ci sono, ma erano presenti fin dall’inizio. Finora, ho sempre trapuntato le forme canoniche: ho sperimentato il loro superamento in alcuni tratti, per eccesso di formalizzazione; le ho scantonate con andamenti apparentemente più liberi, in altre fasi. Il verso perfetto rischia di generare nausea o di suonare vuoto, di interferire con la voce reale della poesia. Ma queste oscillazioni sono rimaste costanti in me, in questi anni, quindi non sono da considerare un reale mutamento, ma un movimento congenito e continuo – almeno finora. Se dunque la raccolta tiene e risulta compatta, come mi sembra, arriverei a sostenere che non c’è stato un reale cambiamento, se non una ovvia sedimentazione figurale e un illimpidimento espressivo.

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Man Ray foto rue de la transfusion de sang

Domanda

La civiltà europea è giunta alla sua fine? O è possibile un nuovo inizio?

Question

Has European civilization come to its end? Or is a new beginning possible?

Answer

Credo di avere già risposto. L’Europa è una terra di passaggio, un luogo di confluenze, un margine. Ammaliati dalla spiritualità indiana o dalla disciplina nipponica, abbiamo un calendario babilonese, un dio ebreo, una matematica araba, una filosofia greca e una praticità latina; vestiamo tessuti cinesi, sfruttiamo minerali africani, mangiamo frutta sudamericana e… ci scaldiamo col gas russo. In questa visione, essere un margine è una ricchezza inestimabile, perché significa essere per eccellenza luogo di commercio, di conoscenza e di scoperta. Anche politicamente, quando le forze che interpretano positivamente il concetto di “confine” vinceranno su quelle che pretendono, per paura e ignoranza, di difendere “identità nazionali” fasulle, inizierà una nuova epoca. Ma dirò di più: non esistono muri che possano fermare le migrazioni. Le resistenze saranno, alla fine, superate, volenti o nolenti. Possiamo soltanto decidere se vivere questa trasformazione in modo pacifico oppure in modo più traumatico. L’identità europea è una non-identità, una perenne prossimità all’altro. L’identità europea è la “somiglianza”. E questo fa paura a molti.

Domanda

Grazie per la sua gentile disponibilità Andrea Temporelli, vuole dire ai lettori italiani la sua opinione sul futuro della poesia?

Question

Thank you for your kind availability Andrea Temporelli, do you want to tell Italian readers your opinion on the future of poetry?

Answer

Non c’è niente da dire sul futuro della poesia. Il futuro della poesia non esiste. Il futuro della poesia si fa. Poeticamente.

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Quattro Autori kitchen Marie Laure Colasson, Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone, Francesco Paolo Intini, Sul montaggio, una sequenza di vuoti, di spaziature, di amnesie, di lapsus, di interferenze, di rumori di fondo, di non detti, di sfondi laterali latenti che delimitano il susseguirsi degli enunciati e delle icone. Il lavoro di montaggio va fatto esattamente in quello spazio della percezione che possiede contemporaneamente il compito di separare e unire, di isolare e ricomporre. Quello spazio Warburg lo chiamava «Denkraum», lo spazio tra un pensiero e l’altro, lo spazio dell’intervallo che si configura proprio a partire da quegli spazi vuoti che attendono di essere connessi

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita
foto di Eliot Elisofon, La vita come ripetizione infinita

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Giorgio Linguaglossa

Sulla natura delle formazioni discorsive kitchen

Il montaggio richiede di comporre la sequenza come una pellicola cinematografica in 3D; una sequenza non è costituita soltanto di immagini o solo di spazi pieni, ma soprattutto di vuoti, di spaziature, di amnesie, di lapsus, di interferenze, di rumori di fondo, di non detti, di sfondi laterali visibili e/o latenti che delimitano il susseguirsi degli enunciati e delle icone. Il lavoro di montaggio va fatto esattamente in quello spazio della percezione che possiede contemporaneamente il compito di separare e unire, di isolare e ricomporre. Quello spazio Warburg lo chiamava «Denkraum», lo spazio tra un pensiero e l’altro, lo spazio dell’intervallo che si configura proprio a partire da quegli spazi vuoti che attendono di venire connessi. L’approccio di demistificazione delle poesie kitchen dei quattro autori implica la consapevolezza di una poiesis effetto di demistificazione in quanto il linguaggio viene impegnato in una contesa con il senso chiaro e distinto della poiesis del novecento, quella del soggetto cartesiano. Non si dà né maschera né menzogna né verità perché non c’è alcuna pretesa di verità, si ha semmai un effetto di verità che non può mai valere per il soggetto in quanto esso è stato già espropriato a monte della propria soggettità in quanto il soggetto è già da sempre decentrato e lateralizzato, nasce già come effetto di linguaggio, effetto di significanti. Essendo infatti il soggetto nient’altro che un effetto del linguaggio. Asserire che il linguaggio è il luogo dell’equivoco e che tuttavia nella sua equivocità, esso purtuttavia dice e mostra qualcosa, equivale ad affermare con Aristotele che «l’essere si dice in molti modi». Ne deriva che il discorso poetico è quel discorso che dice l’essere in molti modi. Da un esame dell’«asse verticale» di una formazione discorsiva kitchen emergerà  il legame strutturato con altre pratiche extra discorsive, se poi passiamo all’esame dell’«asse orizzontale», giungiamo alla visione dei rapporti interdiscorsivi, ovvero, delle forme di connessione interattiva tra i due assi. Il kitchen è il risultato dell’intima e indissolubile interconnessione tra i due assi,  e l’unico giudizio ammissibile sarà la condizione di realtà o di possibilità degli enunciati. Non si tratta quindi di condizioni di validità degli enunciati ma unicamente di condizioni di realtà, di possibilità. Il «senso», se senso v’è in un testo kitchen, si dà soltanto dall’improvvisa apparizione di un enunciato, nel bagliore di un attimo; questo senso dis-senziente può sorgere sempre e soltanto nel campo di esercizio di una funzione enunciativa, senza riguardo per alcuna soggettività reale perché gli enunciati abitano sempre e soltanto l’eventuale del reale. L’ordine del discorso e l’ordine del pensiero, lo spazio in cui pensiamo, può essere lacerato: è la situazione limite delle «eterotopie», ovvero, sorta di «contro-spazi» di cui le culture dispongono e «in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati»1; tali eterotopie sono talvolta luoghi fisici (ad esempio i cimiteri) oppure ideali, che si trovano  solo sulla carta, come nel caso dell’«enciclopedia cinese» di Borges da cui prende l’incipit l’intero progetto teorico de Le parole e le cose di Foucault. Le «eterotopie» svolgono un ruolo epistemologico speciale nella misura in cui denudano l’essere del discorso e con esso del pensiero, proprio «perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruiscele frasi, ma anche quella meno manifesta che fa “tenere assieme” (a fianco e difronte le une alle altre) le parole e le cose»2. Sorgono due domande: chi parla? e cos’è ciò che dice? Si tratta di due quesiti radicali, perché pongono in questione allo stesso tempo l’essere del discorso e l’essere del soggetto Parlante. Ma è bene ribadire che non c’è alcun mistero né alcuna anteriorità nel Parlante, il senso del suo discorso sarà all’interno del discorso stesso, non oltre e meno che mai nelle cose le quali sono altrettanto equivoche quanto il linguaggio che le esprime. Giunti a questa conclusione possiamo asserire una volta per tutte che il linguaggio poetico kitchen abita integralmente le «eterotopie», che altro non sono che quei luoghi che consentono l’irruzione evenemenziale dell’atto enunciativo.

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1 Id., Eterotopie, in  Archivio Foucault III, a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 310.
2 M. Foucault,  Les mots et les choses, Gallimard, Paris, 1966, trad. it. di E. Panaintescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967, p. 8.
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Strilli Lucio Ricordi

[poesia di Lucio Mayoor Tosi]

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Marie Laure Colasson

Cito da Paul Valéry: «L’arte nel mercato universale è più ottusa e meno libera»

«L’Arte, considerata come attività svolta nell’epoca attuale, si è dovuta sottomettere alle condizioni della vita sociale di questi nostri tempi. Ha preso posto nell’economia universale. La produzione e il consumo delle opere d’Arte non sono più indipendenti l’una dall’altro. Tendono ad organizzarsi. La carriera dell’artista ridiventa quella che fu all’epoca in cui egli era considerato un professionista: cioè un mestiere riconosciuto. Lo Stato, in molti Paesi, cerca di amministrare le arti; procura di conservarne le opere, le «sostiene» come può. Sotto certi regimi politici, tenta di associarle alla sua azione di persuasione, imitando quel che fu praticato in ogni tempo da ogni religione. L’Arte ha ricevuto dai legislatori uno statuto che definisce la proprietà delle opere e le condizioni di esercizio, e che consacra il paradosso di una durata limitata assegnata a un diritto ben più fondato di quelli che le leggi rendono eterni. L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, etcetera…

L’Arte si pone così a lato dell’Industria. D’altra parte, le numerose e stupefacenti modifiche della tecnica, che rendono impossibile ogni ordine di previsione, devono necessariamente influire sull’Arte stessa, creando mezzi del tutto inediti di esercizio della sensibilità. Già le invenzioni della Fotografia e del Cinematografo trasformano la nostra nozione delle arti plastiche. Non è del tutto impossibile che l’analisi estremamente sottile delle sensazioni che certi modi di osservazione o di registrazione fanno prevedere conduca a immaginare dei procedimenti di azione sui sensi accanto ai quali la musica stessa, quella delle «onde», apparirà complicata nel suo meccanismo e superata nei suoi obiettivi. Diversi indizi, tuttavia, possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata.»

Strilli Tosi

Strilli Tranströmer1

Una poesia

Umwelt fait en 2004, durée 1 h et 6 mn coreografie Maguy Marin
musique Denis Mariotte pour le Festival Equilibrio 2022

Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent

*

Pannelli a specchio e sei personaggi
suono musicale assordante ripetitivo
infernale il soffio del vento fra i pannelli

Frammenti del tourbillon della vita
una mela morsicata a trentadue denti
un sandwich divorato
uno strofinaccio schiavo della pulizia
una defecazione di 3 pantaloni abbassati
delle lampade elettriche che frugano il suolo
delle chiappe di donne illuminate a crudo
di schiena 3 chador color arancia
delle bretelle di salopette che si aggiustano
dei sacchi di immondizia
le corone del potere
dei cappelli per tutte le stagioni
dei vestiti insolenti unisex rossi gialli bianchi
delle dispute degli stupri
degli atti amorosi sessuali
dei rifiuti gettati sulla scena

Il tutto il poco il niente
le mascelle digrignano

Strilli Talia2

Strilli Busacca Vedo la vampa

Raffaele Ciccarone
13 gennaio 2023 alle 17:00

Miscellanea

Della miscellanea dorata gli zoccoli delle alture,
solo lo sposalizio tra elettroni garantisce
l’emicrania del mazzo di fiori.

Algoritmo del profumo in affanno di acuto piedistallo
senza burro non c’è felicità per il risotto.

La pioggia di clorofilla rigenera missili opachi
nel purè di patate inattesi i rilievi glicemici
pur dalla cottura dei cavoli verdi nei piani cartesiani.

Riparate le congiunture, le mappe di Pick liberano farfalle
che sfuggono da ogni dove
al momento l’esibizione dei cuscini porta alle suite migliori.

Ci risiamo col motore per la formula uno
generato da slalom di successi dovuti
a pannelli solari sotto spinta fotonica, ma solo per ora!

 

Mimmo Pugliese
13 gennaio 2023 alle 19:27

CUCCHIAI

Un fascio di cucchiai misura
la distanza tra un tampone ed il cratere di una bomba

Sotto un cielo di ontani
strambano soldati e streghe

Cigni neri ingoiano la strada
in un congelatore sagome conservano bruchi

Ideogrammi entrano ed escono dal muro
origami di carne prosciugano il faro

Una piuma sospende gli ordini del giorno
basta un secchio di vernice per impiccare i tulipani

Hai composto il numero sbagliato
le ante degli stivali seducono sedativi

Arrivi in tempo per assistere al sole
che inciampa su una pertica e si suicida

Strilli LeoneFrancesco Paolo Intini
13 gennaio 2023 alle 21:22

MA QUALE ESPERIMENTO? LA POESIA È REVERSIBILE

La scorribanda è stata micidiale.
Tutto un susseguirsi di corvi e passeri feroci

Difficile competere con Lucifero
Sul fronte Ovest.

Le bordate di droni alla ricerca di cosa salvare
e missili che fanno zig zag sulla nutella.

Da qui si vede un azzurro appena accennato su un visetto d’ elefante
Poi inizia l’ignoto, re dei clandestini.

Perché uscirsene con un collasso?
Non è più nero l’arresto del miocardio?

Bisogna prendere una pompa di benzina
E farle sputare gli anni di piombo.

In un angolo blindato c’è Obama, di fronte l’ipotenusa
Ma è possibile, o porco di un cane, che non abiti Pitagora?

Interroghi un cateto ti risponde il Sole
Con una barzelletta sul pigreco.

Qui nel cuore dei teoremi manca Mike.
E picchi martellano l’intonaco.

Ripareremo la sua coronaria destra con bostik
poi aizzeremo i pirati contro i boat people
tra spruzzi di vodka e il mar di coca cola

Nessuno è mai fuggito da Kabul
Senza portarsi dietro uno stent, anche piccolo.
Arriveremo al Don con un bypass.

Il gatto nero sistemò i cuscini sul motore
Le lune di Marte si eclissarono all’ Air Force
E un filo d’erba strozzò il do di petto nella culla. Continua a leggere

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Valerio Magrelli, La guerra, la pace, disegni di Alessandro Sanna, Rizzoli 2022, pp.48, € 16, Nei linguaggi del Grande Labirinto di Giorgio Linguaglossa, Per Magrelli, che ha sempre aspirato a perdersi come i bambini all’interno dei linguaggi e che interpreta da sempre una narrativa e una poesia che non considera più necessaria alcuna ermeneutica, l’approccio ad una poesia per bambini è stato un risultato agevole perché essi non hanno bisogno di una guida ermeneutica, Ma almeno a Magrelli va il merito di non averci affibbiato del modernariato in piena epoca di ipermoderno metalmediatico

valerio magrelli 4

valerio magrelli

Nei linguaggi del Grande Labirinto

di Giorgio Linguaglossa

Oggi tutto è compreso nel presente. 1 vale 1. 2 vale 2. È tutto compreso, prendi tre paghi uno. Viviamo tutti in una Grande Dimensione polifrastica, un Grande Labirinto dove si parla una Babele di linguaggi disparati nei quali i bambini si perdono. I bambini non sanno nulla dei generi poetici e dei sottogeneri narrativi, però capiscono tutto, tutto l’essenziale. Così, in un panorama in cui i parametri fideistici che fino in pieno novecento indicavano i conflitti estetici tra forme poetiche e i generi romanzeschi, oggi quei parametri indicano l’impiego che si fa di essi per restare editorialmente sulla cresta dell’onda con tanto di iniezioni nella narrazione di massicce dosi di déjà-vu, di cronaca e di situazioni maramaldesche. La partita della immaginazione senza fili è relegata alla sfera dei bambini e l’ultroneo del pensiero infantile viene derubricato dagli adulti a modello autoriflessivo, così il «successo» non si gioca più all’interno della letteratura, perché passa per altri e ben più potenti media, attraverso le stanze dei bottoni e dei salotti televisivi. Ma i bambini nulla sanno del linguaggio degli adulti, per loro il linguaggio è una palestra della immaginazione senza fili, ma gli adulti che vivono stabilmente nella zona di compromissione che chiamano libertà, non sono più capaci di dialogare con i bambini, mancano di un linguaggio idoneo perché hanno perduto il senso del gioco.
Dopo Il pubblico della poesia, antologia di autori di poesia pubblicata nel 1975 da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, siamo ormai giunti al pubblico del varietà privatistico e mediatico che nel frattempo è diventato pubblico della chatpoetry e del romanzo chat; l’indotto conta più del dotto e del prodotto e l’affiliazione più del merito, i linguaggi tendono a diventare una efficiente organizzazione, all’interno del Grande Labirinto, della “Ditta” di riferimento.
Sopra tutto questo panorama giunge la luce fioca dal lampione della Ragione. C’è una platea in chiaroscuro che chiede ai libri di essere bianchi e, soprattutto, blasoni sociali, etichette e benemerenze, i libri sono considerati non più che dei videogiochi. Più lontano ancora, l’angusto cortile di casa che è la letteratura delle benemerenze, sfuma nelle galassie dello storytelling e nella glaciazione di una generica scrittura creativa in promozione generalizzata a televendita. La letteratura, che nella modernità era una lingua speciale, è diventata oggi comunicazione ordinaria, il modo più spiccio per affermare il proprio Ego, la propria autorialità e la propria autostoricizzazione.
Per Magrelli, che ha sempre aspirato a perdersi come i bambini all’interno dei linguaggi e che interpreta da sempre una narrativa e una poesia che non considera più necessaria alcuna ermeneutica, l’approccio ad una poesia per bambini è stato un risultato agevole, diciamo così naturale, perché essi non hanno bisogno di alcuna guida ermeneutica, sono già diventati anzitempo sufficientemente e precocemente adulti da aver preso a prestito dagli adulti il loro cinismo e la loro ipocrisia; per il poeta romano che ha da sempre preferito agire tra i piani sconnessi della paraletteratura, della letteratura, del midcult e delle (rarissime) opere complesse, non è stato disagevole trovare un linguaggio che corrispondesse alle esigenze dei bambini. Ma almeno a Magrelli va il merito di non averci affibbiato del modernariato in piena epoca di ipermoderno metalmediatico, lui almeno è sincero: adotta il registro del minimalismo del linguaggio infantile che è una modalità plausibile e presentabile: quello delle micro storie e delle piccole morali con cui il poeta romano presenta la Storia degli eventi bellici di oggi ai bambini. Magrelli questo compito lo esegue con perspicacia e acume, forse il suo libro migliore, perché qui l’autore non utilizza gli stereotipi della cronaca ma accenna soltanto e di sfuggita alla Storia con la maiuscola, la Storia che ci minaccia di estinzione con la guerra nucleare.
La frase di Lacan: «Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto», Magrelli la risolve facendo poesie per bambini, perdendosi nel linguaggio solo come un bambino può perdercisi, le sue poesie per fanciulli sono un eccellente interludio alla assurdità e alla incredibilità della guerra, e la forma-poesia diventa un congegno davvero assurdo, ultroneo, anzi il miglior congegno linguistico atto a descrivere l’assurdità e la barbarie della guerra vista dal punto di vista dei bambini con la psicologia dei bambini; l’autore romano si cimenta nel compito di presentare ai bambini i lati assurdi di quella cosa orribile che chiamiamo guerra. Che però, dal punto di vista psicologico dei bambini appare come un mondo capovolto. E Magrelli ci riesce al meglio, fa una poesia in modalità infantile.
Scrive l’autore in una didascalia in calce al volume:

«Fino a oggi, non avevo mai scritto versi dedicati ai bambini. Avevo soltanto composto poesie sui bambini, e soprattutto un saggio sui disegni dei bambini. Ciò significa che adesso succederà qualcosa di opposto: saranno loro a osservare i disegni che Alessandro Sanna ha creato a partire dai miei testi. Ma cosa implica “Scrivere per i bambini”?
Visto che non l’ho fatto mai prima di ora, sono l’ultimo a poterlo dire. Posso però raccontare come mi sono regolato personalmente ho giocato su forti contrapposizioni, ricorrendo a soggetti precisi attraverso un linguaggio preciso. Ognuno ha una sua propria idea del bambino: io lo immagino curioso, avido di sapere, il “polimorfo perverso” di cui parlava Freud. Certo, me lo figuro ancora svantaggiato rispetto all’adulto, in quanto dotato di meno strumenti a sua disposizione – pochi, ma assai più potenti (basterebbe pensare alla sua forza di immaginazione!).
Dunque, ho cercato di stabilire un ponte radio in grado di unire le mie parole, illustrate, al suo ascolto. Ecco, io spero esattamente nel miracolo di una sintonizzazione, nel miracolo di un canale che si apra tra il mio lavoro e lo splendore infantile.
(v.m.)

Scrive Marie Laure Colasson:

«È vero, qualcuno, leggi la poetry kitchen, ha smobilitato il discorso poetico del Grande Labirinto, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo. Nessuno di noi (adulti) fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce. Il bello della modalità kitchen (o infantile) è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaci che partono dal principio di affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice.
Questa poesia per bambini è nata felice, perché scritta con un linguaggio infantilizzato, minimal, sembra scritta durante un terremoto della 9a scala Mercalli. Sei stato per caso in Turchia? (attento allo tsunami!). Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci più sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci e degli adulti che parlano la Lingua del Labirinto, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo possiamo dire, senza innaffiarci di «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci».

Valerio Magrelli la guerra la pace

testi scelti da La guerra, la pace, (2022)

La guerra nella neve

La guerra nella neve
ha un non so che di irreale.
Tutto viene attutito:
anche i colpi di cannone
vengono fuori avvolti nell’ovatta.
C’è un’aria bianca, frizzante, natalizia,
ma nessuno che nasce,
anzi, il contrario.

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La Pace nella neve

La Pace nella neve
ha un non so che di irreale.
Tutto viene attutito:
anche i saluti
vengono fuori avvolti nell’ovatta.
C’è un’aria bianca, frizzante, natalizia,
che spinge il mondo a rinascere,
anche se tutto sembra seppellito.

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La guerra in riva al mare

La guerra in riva al mare
è soltanto ridicola.
Le spiagge bianche, le onde, il sole fresco,
e invece di sdraiarci mezzi nudi
soffochiamo coi caschi, le divise,
la sabbia che si infila nelle scarpe
e quelli che ci sparano acquattati
dalla pineta.
La guerra in riva al mare è una vergogna.

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La Pace in riva al mare

La Pace in riva al mare!
Ignorarla, è ridicolo.
Le spiagge bianche, le onde, il sole fresco,
e noi sdraiati mezzi nudi,
la sabbia che ci indora,
e qualche pecorella acquattatella
nella pineta.
La Pace in riva al mare…
rinunciarci, è un peccato.

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La guerra in città

la guerra in città
non ha senso.
Appena arriva, saltano le regole.
Adesso vanno tutti contromano
e senza che nessuno glielo vieti.
Sono spariti i divieti:
come è possibile circolare così?

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La Pace in città

La Pace in città
è la festa dei sensi
Teatri, cinama, palestre, librerie,
ristoranti, caffè, pasticcerie.
E tutto regolato come un orologio,
frecce, semafori, strisce pedonali…
Chi viola le leggi, viene sempre multato.
Si può vivere meglio di così?

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La guerra in campagna

la guerra in campagna
fa meno impressione.
Sembra di più una caccia
a qualche animale nascosto.
Anche i vestiti sono quasi uguali,
mimetici, per non farci scoprire.
E c’è un’eccitazione in tutti noi,
per questa specie di gioco a nascondino.
Anche se dopo è brutto,
vedere l’altro giocatore a pezzi.

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La Pace in campagna

La Pace in campagna
è il paradiso.
Finalmente vietata la caccia,
l’animale si mostra, non più timoroso,
mentre l’uomo si mostra sapendo
di non suscitare timore.
E c’è un’eccitazione in tutti noi,
per questa festa unanime.
Abbiamo superato la ferocia della natura,
siamo natura spogliata del suo male.

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La guerra nella pioggia

La guerra nella pioggia
è un doppio schifo.
fa freddo e sei bagnato,
ma l’ombrello è vietato:
si è mai visto un soldato con l’ombrello?
Potremmo addirittura definire “soldato”
chi non porta l’ombrello.
Perché l’ombrello si usa in tempi dolci,
dove ci si protegge dalla pioggia.
In guerra, invece, nessuna protezione,
nessuna cura, nessuna attenzione.

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La nebbia in tempo di pace

La nebbia in tempo di pace:
liquido amniotico.
Tutto è dolce e indistinto,
tutto è attutito
cullati nella pancia della mamma.

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Antonio Sagredo, La Gorgiera e il Delirio, Schena, 2019, pp. 170 € 18, Ermeneutica di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari, un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e affidabilità. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto

Promenade notturna Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage 30×40, 2023 –
La poesia è fare il giro del giorno in ottanta mondi  (Anonimo romano)

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L’eternità è una perdita di tempo

(Antonio Sagredo)

La perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione

Questo volume è una antologia della poesia di Antonio Sagredo (poeta salentino trapiantato a Roma) che raccoglie le sue poesie dal 1989 al 2018. Il titolo rimanda alla «gorgiera» dei ritratti di Velazquez e al «delirio» di cui quei ritratti sono stati attinti dopo che Freud ha scoperchiato che sotto la «maschera» c’era il vuoto dell’inconscio, un abisso che avrebbe dato la stura alle peggiori nequizie della storia del novecento. La foto in copertina ritrae il giovane poeta sul palcoscenico truccato  in modo vistoso con della biacca sul volto e un cappello a cilindro. Per rappresentare il «vuoto» era necessario un locutore che ne parlasse in un suo esclusivo e personalissimo idioletto che facesse scoccare diapason acustici e mixage di registri linguistici dal plebeo al sublime, con il lessico chiesastico che fa scintille con quello da ebreo errante dell’impero asburgico, un linguaggio poetico quello di Sagredo che non sembra avere parentele o filiazioni rispetto alla tradizione poetica italiana. Un libro, dunque, sortito fuori dal nulla del «valore» (da cui l’abisso dell’inconscio) e dal nulla della tradizione poetica (numerosissime sono le recriminazioni di Sagredo contro la triade Ungaretti-Quasimodo-Montale e avverso i riformismi moderati del tardo novecento). Sagredo è davvero un caso di incompatibilità con tutto ciò che gli è attiguo, non è ragguagliabile a nessun altro poeta del novecento italiano, nel bene e nel male, se così si può dire. Il poeta salentino (ma anche romano di adozione) riprende la «linea innica» dei Canti orfici di  Dino Campana opportunamente restaurata in un linguaggio inventato di sana pianta salmodiando insieme l’osceno e lo sguaiato con il rococò, sceneggiando il ribrezzo per gli scheletri, i tabernacoli, esaltando la Morte barocca e la putredine degli Angeli in crescendi che sconfinano in una miriade di punti esclamativi. Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari. Il «folle» flusso di parole di Sagredo elaborato senza alcuna geometria euclidea buca lo spazio curvo e la pluralità dei tempi, la costruzione si muta continuamente in de-costruzione, l’autore conduce l’orchestra in un «sapiente» delirio abitato da «Santa Clitoride», «Dulcinea», «Don Chisciotte», il «Minotauro» etc. governato e sorvegliato da un io dispotico e psicotico che, in un certo senso, anticipa la nuova fenomenologia del poetico o poetry kitchen e le si avvicina tangenzialmente; ma Sagredo è Sagredo, il suo linguaggio è un abito tagliato su misura su di lui e su nessun altro. In tal senso, il suo modo di operare linguisticamente è il tipico modus di un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e autorevolezza. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto.

Ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico

Se è lecito affermare che ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico, ne deriva che la forma-narrativa e la forma-poesia di base sono quelle «anti-edipica» e «antimetafisica» come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari; vale a dire che la forma dello storytelling è diventata una narrazione priva di un limite esterno, di un confine, e priva anche di un confine interno; così la forma-racconto e la forma-poesia si presentano come un intreccio virtuosisticamente alimentabile all’infinito, al pari della marxiana «catena del valore» che non può mai arrestarsi e che alimenta nel capitalismo cognitivo la produzione di beni e servizi  pena il crollo simultaneo del sistema tutto. Il sistema lavora come una catena di eventi nella quale sarà sempre possibile aggiungere nuovi anelli, nuove tessere al mosaico, nuove varianti al «valore» e al «disvalore». Sarà sempre possibile aggiungere una piccola tessera alla catastrofe e al disastro.

La catena del valore perde valore

La simmetria stilistica tracima e trasborda in virtuosismo e in anti simmetria. La catena del valore perde valore, diciamo così, ma anche la anti-simmetria perde valore, accumula perdite su perdite. Ne sono tipici esempi nel postmoderno classico i romanzi di Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1923), Musil L’uomo senza qualità (1930,1933, 1943) e Il maestro e Margherita (scritto tra il 1928 e il 1940) di Bulgakov, e, nei tempi recenti, I figli della mezzanotte (1981) di Salman Rushdie e Museo dell’innocenza (2008) di Orhan Pamuk. Quello che è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale si può riassumere così: nel secondo postmoderno cioè all’avvento dell’età anti edipica e anti metafisica è avvenuto che la forma-narrativa liberatasi dalle pastoie del senso e del consenso ha contaminato la forma-poesia sgretolandola al suo interno: distruggendo l’Autore-locutore, ha determinato il decesso della autorialità, con la conseguenza che sono saltate in aria tutta una serie di retoriche che contraddistinguevano il romanzo e la poesia dell’ottocento e del primo novecento. La jouissance ha sostituito il desiderio, un desiderio lacanianamente forcluso che è strasbordato dagli argini in seguito alla forclusione del Nome-del-Padre e di Thanatos riducendosi a mero symptôme, mera ridondanza, mero mot-valise, mero refrain; così la trama (romanzesca e poetica una volta liberata dalla obeissance al plot e alla ratio del racconto), se ne è andata per i fatti suoi, è stata defenestrata piuttosto che liberata, e così la funzione-autore ha assunto i connotati tipici dello storytelling con ipertrofia e disseminazione dell’Io «smargiasso», «cafonesco» e «derisorio», ovvero, diventando mero elemento accessorio dello storytelling, intreccio senza conclusione, scherzo ludico, patema derisorio e auto derisorio.

Si impone così una nuova concezione della trama: essa, in tempi di miseria simbolica, non viene più intesa come condizione strutturale del desiderio, non chiede più di essere considerata come un elemento determinato dal Finale, tant’è che un critico, Calabrese, parodiando il titolo del celebre lavoro di Kermode, parla di un «sense of a nonending» che dilaga nel romanzo postmodernista e nelle recenti «poesie privatistiche» postate dalle anime sensibili di moda oggi che si cibano di camembert e di vitel tonnè, e magari con tanto di targa pacifista che fa sempre bon ton; quindi: nessun epilogo, nessun archetipo «clausulare» hanno sorretto nel postmodernismo il sogno infranto di un Fine che coincidesse con la Fine. Senza una conclusione (ma con l’intervenuta forclusione), e quindi senza una finalità né un momento di determinazione del senso, il plot deve ricercare la propria ragione testuale nelle variazioni, nelle biforcazioni, nelle deviazioni. A parte ciò, una testualità dovrebbe a questo punto ipotizzare la possibilità di un nuovo tipo di testualità conseguente alla fine della condizione postmoderna, se è vero, come scrive Karl Marx, che «Alles was fest ist, schmilzt in der Luft» (Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria);1 è lecito quindi definire questa forma-narrativa o forma-poesia come «evaporata», «dissolta» «in der Luft» (in aria), con tanto di benedizione marxiana per tutto ciò che appare nella poststoria in quanto volatile, diffusa ovunque negli spazi aperti, priva di una forma specifica, poiché mancante di una figura che la articoli come faceva un tempo lontano l’autore che garantiva l’autorialità del testo. Tutto ciò è evaporato e con essa evaporazione sono evaporate le «forme» e le «parole». Tutto ciò richiama alla mente la «evaporazione del Padre» cara a Lacan.

Miseria del Simbolico

Eliminato il Padre, eliminato il Figlio, eliminato Edipo, eliminato l’Autore, eliminato il Lettore, eliminato Creonte, eliminato il Plot, eliminata la Forma-poesia, eliminata la Parola significante, pontificante, eliminata la Legge del Finale e dell’Inizio sono rimaste le parole nude, quelle gratuite, smargiasse, ipoveritative, idiolettiche, quelle con la blefarite negli occhi e con gli aculei, quelle professionali della catena del valore; resta la Miseria del Simbolico del privatismo riduzionista dei fatti gli affari tuoi, resta la jouissance (rimossa, indecente, onanista: le parole baldracche) la quale, in nome dell’Io (l’Autore) e dell’Anima bella ha iniziato a proliferare in modo incontrollabile e dissennato sotto gli archi della post-storia. La storialità si nutre della Miseria del Simbolico.

Per quanto concerne lo scadimento della dimensione del plot (filmico, narrativo, poetico e narrazionale), si legga il famoso romanzo a puntate che Salman Rushdie sta facendo al computer chiedendo la collaborazione dei lettori della rete per quanto concerne verianti e colpi di scena da inserire nella trama. Tutto ciò è un fatto di enorme importanza, il fatto che un computer sia in grado di scrivere un romanzo anche senza l’apporto guida di un Autore in quanto l’Autore non c’è più, è scomparso. Occorre pensare una teoria plausibile per questa inedita modalità del récit e delle sue ripercussioni sul sociale che sono già in atto da tempo. Nella poesia kitchen ad esempio è già possibile fare una mappatura dei caratteri e delle maschere in nacchere  che la forma-narrativa e la forma-poesia hanno ereditato dall’avvento dello storytelling privatistico oggi divenuto quintessenza della poiesis comunicazionale. Il fatto è che la narrazione si è dissolta «in der Luft» (nell’aria) «evaporata» e «dissolta»; la spia di ciò sta in un’ossessiva attenzione alle «parole» gratuite, opportunamente privatizzate e sterilizzate (eufoniche o cacofoniche fa lo stesso) anche a discapito del significato, infatti, nella forma-poesia di Antonio Sagredo e, in modo ancor più vistoso nelle poesie in modalità kitchen, il senso è estroiettato dalla logica narrazionale della forma-poesia del novecento. Il senso del testo è un fuori-senso, un non-senso ultroneo che non dipende più dalla trama in sé (come nella forma-romanzo del novecento), né dalla successione e dalla combinazione degli eventi linguistici (come nella forma-poesia del novecento). Nella poesia che promana dalla Miseria del Simbolico non si può pensare se non in termini di locutore e di locuzione, di grammatizzazioni, di idioletti e non più di successione dei significati e/o di ragionamenti dell’Io empirico (come nella poesia dell’ottocento e del novecento, si pensi alla poesia-ragionamento di Leopardi); in Sagredo e nella poesia in modalità kitchen è la mancanza stessa del Finale e dell’Inizio, la mancanza del Padre e del Figlio, di Edipo e di Creonte che agisce retroattivamente inficiando la grammatizzazione, il logos narrazionale, la forma-poesia che conoscevamo. Forse Sagredo e il Kitchen hanno preso in parola le parole di Heidegger: «Das Nicht nichtet» (Il Nulla nientifica), e operano di conseguenza.

(Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa)

1 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei [1848], Severus, Berlino, 2017, trad it. Manifesto del Partito comunista, p. 18.

Antonio Sagredo La gorgiera e il delirio

III

Là, rantoli di muffa, delizie, torce
e broccati, ciarle di accesi candelabri,
come sulla via dei misteri fittizie sfingi, Tamerlano
con tamburi e denti le stanze acquetasse
e fosse il tempo solo rostri d’ossa non scarniti.
Lascia che i vermi aspettino!
Perché possano infiniti digitali annullare
i miti con domande e corde, fustigare visioni
e abbracci di Orfei.
E’ solo, è solo il gallo sui crateri!
Le Madri su stampi di fauno, sbiadite, Tommaso!
La tela dei neurini manipoliamo come banderuole:
sono visite cortesi, maschere corazzate
di colomba, surrogati di corone o gemiti imperiali.
Quando la pietra più che al volo
all’indugio spezza l’asta della luce, il tuo cranio
possa lacrimare in barba ai veri morti tra giostre
rinascimenti lutti e spine, renderti giustizia
tra tumuli e tumulti. Caccerò il roditore d’ossa,
non spezzerò il pane,
né il vino offrirò, né il sale,
né il cantico dal passo di lumaca, ma il morso
di un’àncora… col sonno tra le mani, alle analisi
di neve sui divani, la lira e il libro opporrò,
urla fossili, grumi di nere frecce,
il sangue strizzato da una perla al dio compatto. Continua a leggere

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Andrea Temporelli, Plusvalenze letterarie ovvero Amicizia e letteratura. Oltre l’amichettismo in 5 passi, Video L’apprendista genio, corso di scrittura creativa

Plusvalenze letterarie
di Andrea Temporelli 11 febbraio 2023

Plusvalenze letterarie

Si discute spesso, e ancor più si fanno pettegolezzi, intorno alle cricche letterarie, ai giochi di scambi di favore di taluni che si considerano “amici”. Senza cadere nel moralismo, cerchiamo di puntualizzare cinque buone prassi, per difendere sia l’amicizia sia la credibilità letteraria

Plusvalenze letterarie ovvero Amicizia e letteratura. Oltre l’amichettismo in 5 passi

Recentemente, si è tornato a discutere di una questione da sempre presente nella società letteraria, ovvero dei rapporti di amicizia, che talvolta sembrano scadere in un legame interessato, una specie di alleanza strategica per promuoversi a vicenda. Si è parlato di amichettismo letterario per identificare la pratica di scambi di favori, ossia di recensioni, inviti, fascette, pubblicazioni e quant’altro. Così Luigi Mascheroni, su “Il Giornale” (La sciamana prodigio dell’amichettismo intelligente, 28 novembre 2022):

Funziona così. Per dire. Chiara Valerio chiama Teresa Ciabatti, la quale poi ricambia intervistandola per quattro pagine su «7» del Corriere della sera, a pubblicare nella collana «PassaParola» che dirige per Marsilio, dove ospita, tra gli altri, sia Carlotta Vagnoli (con la quale colloquia su l’Espresso e che presenta al Salone del libro di Torino) sia Michela Murgia (dalla quale viene intervistata sull’Espresso e insieme alla quale mette in scena lo spettacolo Istruzioni per l’uso al teatro Carcano di Milano, la cui direzione artistica è di Lella Costa, che prima o poi pubblicherà per «PassaParola») sia Annalisa De Simone, che a sua volta invita Chiara Valerio e Teresa Ciabatti all’Italian Pavilion per la mostra del cinema di Venezia, istituzione con cui lavora Chiara Tagliaferri (moglie di Nicola Lagioia e amica di podcast di Michela Murgia), e dove quest’anno era in giuria Nadia Terranova, mentre su Radio 3 Chiara Valerio invita nella sua rubrica «L’isola della sera» sia Carlotta Vagnoli sia Michela Murgia sia Teresa Ciabatti e tutte insieme scrivono un racconto per l’antologia Le Nuove Eroidi e uno per l’antologia I figli che non voglio, tirando dentro anche Nadia Terranova e Loredana Lipperini, e così mentre su Repubblica e la Stampa si recensiscono a vicenda – la Murgia scrive del libro della Ciabatti la quale invece parla di quello della Valerio che viene intervistata dalla Lipperini – poi tutte scrivono dei libri che escono da Solferino, cinghia di trasmissione editoriale della sinistra di penna e di potere, e intanto fanno una settimana estiva in vacanza al festival dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e una invernale alla “Nuvola” di Roma per la fiera della piccola e media editoria, ma in realtà una sorta di convention ombra del Pd, «Più libri più liberi». Curata da Chiara Valerio.

L’ambiente letterario, che una volta poteva identificarsi idealmente in un salotto, ora pare ridursi a un privé esclusivo, a cui si può accedere se si appartiene alla stessa area politica, alla stessa agenzia, alla stessa casa editrice, oppure se si dirige una collana o un festival o una scuola di scrittura a cui poter invitare altri scrittori sulla cresta dell’onda e via dicendo.

Dovendo prendere spunto dalla cronaca di questi mesi e cercando un tema popolare per rendere l’idea, verrebbe da parlare di un sistema predisposto per garantirsi a vicenda delle plusvalenze letterarie.

Ma se affrontare questo tema senza scivolare in un atteggiamento moralistico è complicato, tentiamo comunque qualche considerazione elementare.

Intanto, a livello linguistico, abbiamo un problema, nella lingua italiana. La parola amicizia è diventata terribilmente ambivalente. Rivendicare di “avere degli amici” è in pratica una viscida minaccia. Ci manca una parola adeguata per riferirci a quei rapporti magari “amichevoli”, ma che non si scostano poi molto dal vasto giro delle “conoscenze”, delle relazioni sociali più o meno stabili e costanti. L’amicizia è altra cosa. È per natura esclusiva, elettiva, riservata a pochissimi. Quanti? C’è chi arriva a sostenere che di amici non se ne possano avere più di due e tre. Ma già uno sarebbe un tesoro inestimabile. E si può vivere, perché no, anche senza averne.

Auspicherei in tal senso che si tornasse, al posto del termine “amicizia”, a usare con più frequenza parole come “stima” o “ammirazione”, che vanno bene persino in riferimento a certi presunti “nemici” letterari (ovvero per coloro i quali, si presume, siano posizionati in una diversa prospettiva culturale o stilistica e sim.) o in riferimento a individui che non si conoscono di persona, e di cui si apprezzano le opere.

Nello scollamento sempre più evidente che si nota fra una ipotetica classe “vip” di scrittori e una massa di scrittori da “sottobosco” e di aspiranti, c’è da notare che l’amichettismo ai piani alti stimola un – talvolta più ingenuo, ma del tutto analogo – amichettismo ai piani bassi. L’idea di stringersi in rapporti più autentici perché non invischiati con la gestione di poteri, reali o presunti, è subdola. E Loredana Lipperini ha ricordato l’esistenza anche del nemichettismo, che traccia ulteriori steccati, diffonde ombre e spesso veri e propri pregiudizi, intossica le relazioni umane.

Eppure, chi può permettersi a cuor leggero di giudicare i rapporti altrui? Perché non credere e anzi plaudire i rapporti di amicizia autentica? In altri termini: come gestire e difendere le amicizie, in ambito culturale, affinché non si confondano con la semplice cricca?

Per quel che mi riguarda, promuoverei in qualsiasi modo queste semplici pratiche.

Anzitutto, sarebbe opportuno giocare a carte scoperte: dichiarare l’amicizia, non nascondere i fatti e i rapporti. Portarla a tema, perché si riconosca nella sua genuinità.
Ma il primo punto ha poco senso se non comporta anche, in seconda battuta, una ricerca di moderazione e di sobrietà. Ecco, non è opportuno che le relazioni siano così stabilmente esercitate negli ambienti letterari. Con gli amici si esce anche senza un ricorrenza specifica da celebrare, ci si ritrova in occasioni informali. Anzi, due amici sono più a loro agio seduti in platea, anziché sotto i riflettori del palco.
Quando si parla dell’opera di un amico, è importante ricordarsi di argomentare. L’elogio scoperto, in fin dei conti, è poco elegante e, alla fine, poco efficace, forse persino controproducente. Il presupposto è che l’amicizia non deve impedire lo sguardo oggettivo sui testi. L’opera e l’autore vanno separati sempre, anche nel caso di un amico.
Anzi, l’amico è per certi versi la persona più esigente, il primo che ti ricorda chi sei, quanto vali, quanto puoi puntare in alto. E dunque è quello che sa criticarti con dolcezza e fermezza, in modo costruttivo, per tenerti sulla giusta strada, quando ai suoi occhi stai sbandando. “Se non hai un amico che ti critica, paga un nemico perché lo faccia”, dice il saggio.
Infine, quando si celebra un amico, quando lo si promuove, quando lo si difende, è bene dimostrare in qualche modo che lo si fa non per il bene di due sole persone o di una piccola comunità, ma per un bene comune, per valori che dovrebbero stare a cuore a tutti.
Al di là di queste e altre pratiche, poi, ci sarebbe da ricordare quanto pesi la “credibilità” che ogni singola persona si costruisce, in ogni ambito in cui si spende. Ma per non correre il rischio, anche su questo versante, di cadere nel moralismo, annotiamo soltanto l’opportunità di coltivare il senso dell’apertura al confronto, della curiosità anche verso chi non frequenta gli stessi salotti e non mette regolarmente like ai tuoi post, insomma verso chi non “fa parte del giro”. Ecco, sarebbe salutare saltare più spesso steccati, togliere tag, infrangere pregiudizi. Guardare, insieme agli amici, oltre sé stessi – dal momento che l’amico non ti ostruisce la vista sul mondo, ma semmai ne fomenta uno sguardo attento. Per esempio, promuovendo qualcuno che “non ha potere”, che non può ricambiare. Farlo solo perché si crede veramente in lui o, meglio ancora, si apprezza disinteressatamente la sua opera.

Ma a questo livello, che pure sarebbe il livello minimo per certificare la persistenza di un’autentica “tradizione letteraria”, si innescano già nuovi problemi: il rischio di dar adito, anche implicitamente, al clientelismo e suscitare nuovi pregiudizi…

Commento

Dal privato al privè il passo è breve, in realtà siamo tutti invischiati in un modo o nell’altro in una zona di compromissione generalizzata, una sorta di privè e non mi stupisce che un politico esperto e autorevole come Bersani chiamasse il partito cui un tempo apparteneva “la Ditta”, quasi fosse una sua pertinenza privata, una location di cui si ha le chiavi in tasca… in letteratura vale il principio della “Ditta” chi appartiene alla mia “Ditta” avrà degli sconti e dei lasciapassare, gli altri, chi non appartiene alla mia “Ditta”, saranno tassati ed esclusi. Questa idea della “Ditta” è qualcosa che insudicia la mente, una vera pandemia che ammorba il nostro Paese in tutti i suoi risvolti.

Le parole del direttore di “Repubblica” Maurizio Molinari ospite di Myrta Merlino a L’Aria che tira su La77: «Il 60 per cento di astensioni è un dato agghiacciante per la nostra democrazia»

«L’idea di descrivere la realtà con le battute è un modo di fare giornalismo che si commenta da sé. La realtà vera è che gli italiani hanno seguito Sanremo come fanno ogni anno, è un momento di identificazione nazionale che ha a che vedere con la tradizione del nostro Paese. In questo caso il tema sono stati i diritti ma lo è stato anche al Super Bowl. Il risultato elettorale è tutt’altra cosa. Ha a che vedere con la vittoria schiacciante di Giogia Meloni e di Fratelli d’Italia e con il dato agghiacciante dell’astensione che punisce soprattutto l’opposizione ma anche la maggioranza – ha aggiunto Molinari -. Perché nessuno è riuscito a giocare il fattore entusiasmo a proprio vantaggio. Il risultato è quello di una minor partecipazione degli italiani alla vita pubblica e quindi di una democrazia indebolita».

Anche la poesia in Italia vive da decenni in una situazione di «democrazia indebolita», ciascun attore di quel palcoscenico gioca una propria partita nella quale il criterio base è assecondare sempre la propria posizione per indebolire quella di qualsiasi altro attore considerato al pari di un usurpatore al trono di legno della auto storicizzazione.

(Giorgio Linguaglossa)

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Il collasso del Simbolico, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Jacopo Ricciardi e Giorgio Linguaglossa, Il doppio, il triplo, il sosia a cui rimanda storicamente il concetto di persona, che come sappiamo ha nella teatralità della maschera la sua scaturigine e su cui si fonda gran parte della politica e della teologia occidentale o, secondo l’indicazione di Carl Schmitt, della teologia politica, negli avatar non ha più ragion d’essere. Gli avatar non sono persone, non compiono azioni, non possono essere responsabili di nulla, non gli si può imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità, la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare e parlare a vanvera

Foto smartphone

Il collasso del Simbolico di Giorgio Linguaglossa

Nella vicenda che la poiesis mette in scena nella poetry kitchen, è evidente la disconnessione da ogni visione tragica dell’esistenza a cui rimanda la nozione di destino, in quanto ogni gesto della «maschera», ogni sua parola è una messa in mora dell’azione, del crimine, della colpa e dell’imputazione; ancora più significativo in tale vicenda è il superamento della dialettica tra maschera e volto, che costituisce il presupposto di ogni rappresentazione del comico e del drammatico. Gli avatar, al di là di ogni possibile dubbio, sono totalmente maschera; essi non possono gettare la maschera, in quanto sono privi di azione, privi di identità, privi di psicologia, non sono emblemi simbolici, dietro di essa non c’è nulla, c’è un fondale vuoto. Per converso, divenire «maschera» significa assumere totalmente l’apparenza come cifra dell’esistenza, significa perdere ogni personalità, ogni identità, ogni certezza in favore della identità della maschera. Il doppio, il triplo, il sosia a cui rimanda storicamente il concetto di persona, che come sappiamo ha nella teatralità della maschera la sua scaturigine e su cui si fonda gran parte della politica e della teologia occidentale o, secondo l’indicazione di Carl Schmitt, della teologia politica, negli avatar non ha più ragion d’essere. Gli avatar non sono persone, non compiono azioni, non possono essere responsabili di nulla, non gli si può imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto, alcuna identità, la maschera non è capace di azione, può solo gesticolare e parlare a vanvera. Vuoto di rappresentazione, vuoto di identità, vuoto di rappresentazione. Di conseguenza, abbiamo il collasso della politica, collasso dell’etica e collasso della poetica, il collasso della rappresentazione.
In due parole: il collasso del Simbolico. (Giorgio Linguaglossa)

Domanda Di Mariella Bettarini e Risposta di Giorgio Linguaglossa su:

Che cosa identifica una poesia da una non-poesia?

In una recentissima intervista di Mariella Bettarini rivolta ad alcuni autori di poesia contemporanei le cui risposte sono state pubblicate sui n. 106-107 “L’area di Broca” 2019, alla domanda “Come si identifica oggi il linguaggio della poesia?”, rispondevo:

«Non c’è nessun criterio per identificare il linguaggio della poesia. Ma c’è un concetto. La poesia è una idea che inerisce ad un concetto. Ma, in assenza di un supporto critico credibile e attendibile, chi o che cosa – mi chiedo – riscatterà la «poesia» da questa condizione di mancanza di concetto?».

Alla successiva domanda della Bettarini:

Oralità, scrittura, virtualità: come interagiscono i differenti canali nella realizzazione del testo poetico?
Rispondevo così:

«”Oralità, scrittura, virtualità” non hanno alcuna interazione con la poesia. La poesia di una comunità di parlanti interagisce con la lingua della comunità nel suo complesso e con le condizioni storiche e sociali di quella comunità linguistica».
La mia convinzione è che rispondere come ha risposto Maurizio Cucchi: “Ogni forma o aspetto del reale può diventare materia di poesia”, sia fuorviante perché manca di un nesso essenziale, perché equivale a dire che è inutile munirsi di un concetto, cioè di una poetica in quanto tutto può entrare nella forma-poesia. Il che sarebbe anche vero ma per il tramite di un «filtro», ovvero, come si diceva una volta: di una «poetica», o, come si scriveva un tempo: di una «ricerca».
Rilevo come questa posizione panlogistica tipicamente tardo novecentesca aumenti la confusione invece di ridurla, non si sa più che cosa distingua la forma-poesia da una forma giornalistico-mediatica con degli a-capo, non tiene conto del fatto che anche la forma giornalistico-mediatica non può contenere tutto di tutto, nel senso che anche la scrittura giornalistica o informativa deve operare una selezione di argomenti e di esposizione, si deve attenere a rigorosi principi guida e a rigorosi limiti tematici ed investigativi. Il che mi sembra inequivocabile.
La mia impressione è che si operi in mezzo ad una confusione concettuale che rende ancora più confuso il criterio per mezzo del quale possiamo individuare la forma-poesia per distinguerla dalla non poesia. In tal senso ci viene in soccorso la domanda chiarificatrice formulata dal «giornalaio della critica, ovvero il me stesso»:

«Pongo un interrogativo, lo pongo a me stesso e ai lettori: in quale direzione deve avviarsi la poesia contemporanea? C’è una direzione di ricerca privilegiata? Come quella della nuova ontologia estetica o nuova fenomenologia del poetico? Oppure, tutte le ricerche sono, a parità di diritto, ammissibili ed equipollenti?».

A mio avviso il nodo di Gordio della problematica è questo: sono tutte le direzioni di ricerca equipollenti ed equivalenti?
La risposta non potrà essere ambigua o salomonica, o ipocrita e generalista, bisognerà rispondere a questa domanda con un «sì, sì», o con un «no, no».

Una mia Kitsch poetry del 2019

Stanza n. 93

La crossdresser Gipsy Fox, nuda, con la gabbia per il pene,
oscilla sull’altalena, manda dei kiss kiss e dei cuoricini
al gentile pubblico di Facebook.

Il Commissario con la mascherina interroga Ençeladon.
Il pappagallo giallo-verde sventola la bandiera italiana alla finestra.
Ripete ossessivamente:
«Preferiti, Commenti, Scarica, Condividi, Chi siamo!»

Il trans Aurelio Bang augura a tutti: «Merry Christmas!».
La femboy Barbie si dichiara credente, fa sesso con il macho Zozzilla
davanti alla webcam.

Lady Malipierno porta al guinzaglio la tgirl Andrea
con manette dorate fetish.
Chiede spesso al cagnolino di abbaiare.
Si è fatto anche assumere come buttafuori o buttadentro,
lì all’ “OfficinaBar”,
quel locale equivoco, qui alla Piramide,
frequentato da transgender, lesbiche ed etero…
In seguito ne persi le tracce…

So, per sentito dire, che divenne l’amante di Lady Malipierno,
che lo introdusse nelle segrete stanze della sua alcova
e delle sue adiacenze negli ambienti del sottobosco politico…
che riceveva con un senatino di crossdresser…

Fanno ingresso in scena il Commissario e il filosofo Cogito.
Si accomodano in poltrona e guardano un film porno.
«I comunisti sono scomparsi», dice il Commissario.
«Il salotto color fucsia invece era tenuto da Madame Hanska,
ma era riservato agli ufficiali della Gestapo», disse il filosofo.
«Questo però è il racconto di un’altra epoca il cui ricordo
sbiadisce lentamente…»

La subgirl Korra Del Rio prende il caffè before bondage banging.
Le gemelle Kessler agitano le gambe sul palcoscenico.
al ritmo della musichetta da Carosello “Da-da-un-pa”

«Abbiamo interrotto il telefono senza fili della pandemia»,
dice l’assessore alla sanità della Lombardia.
Così il Covid19 se ne va in giro da 39 giorni
a braccetto con Gina Lollobrigida.
«Outbreak in Lombardy, Italy», titolano i giornali esteri.

La tigre dello zoo di New York ha il Coronavirus.
Il pappagallo dichiara all’erario che ha fatto l’autocertificazione.

Lady Fremdy boy passeggia in via Sistina con collarino nero in pizzo,
stringatura in lacci e borchie di metallo ai seni,
l’anello fallico vibrante gold con un set per bondage
e un kit sadomaso new style.

Il Signor Spectator dice: «Nella foto la pipa è sempre una pipa»,
si fa un selfie con la crossdresser Andrea Lou Salomè.
Barry Friedman, un mio vecchio amico vive a New York, un bellimbusto…
che esercita il mestiere di dogsitter e copula con madame Altighieri.
All’epoca faceva il giocoliere agli angoli della 33a Street…
Un illusionista di successo.
Rammento che poi si dedicò al mestiere di squillositter di madame annoiate,
ben più remunerativo.

Il vento del meriggio accompagna i passi pensierosi del filosofo.
Cogito torna a casa nella Marketstrasse n. 7.
Accende la radio.
Fischietta un ritornello da avanspettacolo degli anni sessanta:
«La notte è piccola per noi, troppo piccolina!…»

Jacopo Ricciardi

1.
Dal crepitare di un falò esce un passo di gatto.
Il gatto arde tranquillo.
È vestito da molte fiammelle –
dalle sue zampette morbide
si sollevano smosse quattro fiamme
(Lì dentro arretrato
il passo ha più passi.
Nel passo un lentissimo passo –
in avanti la corsa non può fermarsi.
Indietro la corsa non può fermarsi.
È il ritmo di una forza che non può arrestarsi.
Oltrepassa una membrana che non può muoversi
e non incontra mai nessuno.
La membrana è sempre attraversata.
È la superficie immobile di un respiro
che si increspa e permane.).

9.
molti passanti passarono entrando nel semaforo
e lì dentro il gallo cantò formicolando,
si aggrappò un’arca che passava di lì,
ne scese un Sansone stralunato
che raccontava di peripezie tra globi e con persone,
nessuno ascoltava ovviamente,
il vuoto lo faceva transitare, caldo o freddo come un motore,
ridicolo il vuoto,
lacrimevole, ascella alga, frammento di un carro, scocca di un polipo,
un ermafrodito cantante di favole ritorte,
belle come appendiabiti che aspettano,
vólti che sono solo pellicole di vólti
che pure hanno intere giornate di soli da dire senza notti,
lì molti alberghi in fila uno accanto all’altro, e baraonde nelle vie,
canottiere sedute ai bar
con a fronte bignè dialoganti, repertori di storie lunghissime,
solo a raccontarle si spezzerebbe l’olio,
oggetti di ogni genere con diversissime personalità transitanti
si affidavano spintonandosi per strada,
un cinema e un solo teatro in quei reticoli introvabile
eppure colmo di cose di ogni tipo
che uscivano dall’entrata o entravano nell’uscita
dell’immagine mutante,
lì soggiornava con un cesto di fragole, mangiandosele mature,
un nastro trasportatore,
era fatto da più menti e non sapeva dove tornava indietro
e quante volte, questa perdita di memoria non lo affaticava
anzi remava sempre nella giusta direzione
là dov’era, lungo un babà surgelato,
latrina di latte prezioso e venduto
molto spesso
arabico genitoriale assassino invecchiato
bene
come quel palazzo su Marte.

Francesco Paolo Intini

5 febbraio 2023 alle 11:09
«L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una verità di natura sfuggevole, probabile più che certa, una verità ‘al limite’, che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino ad un certo punto e soccorre una illuminazione; una folgorazione improvvisa. Scienza e poesia non possono camminare su strade divergenti.»  (Nanni Balestrini)

Chiaramente i versi della mia poesia, messi nell’ AI, hanno germinato altri versi alla rinfusa come apparirebbe un frullato se invece di metterci frutta di fragole ci mettessimo melanzane, chiodi e cemento armato. Nessun riferimento al Re Nasone, né alla tomba di Tutankhamon, violata e maledetta, messi in libertà nel teatro dell’immaginazione e delle passioni (esecrando il primo quanto misterioso e affascinante il secondo). In quanto al rapporto tra scienza e poesia , esso rimane tutto da esplorare ma se c’è una indicazione da seguire, almeno per me, è in questa verità probabilistica e plasmatica, indicata da Balestrini, che lascia nell’osservatore\ scrittore prima ancora che nel lettore, sempre un senso d’incompiutezza e di mancanza di senso, ma lontanissimo dal calcolo, dall’algoritmo, dalla progettazione di alcunchè.
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La famosa poesia composta da Nanni Balestrini con un computer IBM nel 1962 giovandosi dell’uso di un algoritmo, forse l’operazione più rivoluzionaria e contestatrice della neoavanguardia bene mette in mostra i due elementi fondanti della operazione avanguardistica: il Fattore caosmatico e il Fattore parodistico della poesia neoermetica ancora in vigore negli anni sessanta, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese – La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale», ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situa all’interno tra le due cornici, dove tra le due cornici si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis priva di essenza

foto I drink coffee

foto pubblicitaria presa dal web

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Giorgio Linguaglossa
27 gennaio 2023 alle 10:10

Ecco adesso la famosa poesia composta da Nanni Balestrini con un computer IBM nel 1962 giovandosi dell’uso di un algoritmo, forse l’operazione più rivoluzionaria e contestatrice della neoavanguardia che bene mette in mostra i due elementi fondanti della operazione avanguardistica : il Fattore caosmatico e il Fattore parodistico della poesia neoermetica ancora in vigore negli anni sessanta.

Nanni Balestrini

TAPE MARK I

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

I capelli tra le labbra, esse tornano tutte
alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco
io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita
lentamente, e malgrado che le cose fioriscano
assume la ben nota forma di fungo, cercando
di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.

Nell’accecante globo di fuoco io contemplo
il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine
delle cose accade, la testa premuta
sulla spalla: trenta volte più luminose del sole
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.

Giacquero immobili senza parlare,
trenta volte più luminosi del sole essi tornano tutti
alla loro radice, la testa premuta sulla spalla
assumono la ben nota forma di fungo cercando
di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano
si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.

Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante
globo di fuoco, esse tornano tutte
alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse
le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera
e giacque immobile senza parlare, trenta volte più luminoso del sole, cercando di afferrare.

Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita
lentamente nell’accecante globo di fuoco:
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole
giacquero immobili senza parlare, si espandono
rapidamente cercando di afferrare la sommità.

Come si vede, la neoavanguardia lavora sulla trama, sul plot plurilingue, sulla versificazione con taglio narrativo, sulla demifisticazione, sulla imitatio derisoria della poesia postermetica; siamo in presenza di una contraffazione, di un raffreddamento semantico del discorso, di una riscrittura, di una soprascrittura, di una evidente una falsificazione che sfocia nella caricatura del verso poetico neoermetico auto celebrativo ed elegiaco.
Come si può notare, le differenze tra i testi della poetry kitchen e i testi della neoavanguardia sono abissali. È l’abissalità della storia che si presenta capovolta. Dal punto di vista della neoavanguardia la poetry kitchen appartiene ad un altro mondo. E viceversa.

Testi della Poetry kitchen

Francesco Paolo Intini

LAUDATO SIA IL TORTELLINO IN SCATOLA AL MASTERCHEF

Ma quale sliding story, il suo piatto è una merda!

MENZIONE O MINZIONE D’ONORE?

Sarebbe bastato fare un’aggiunta a una battuta di caccia del re Nasone
più cruenta del solito.
Meno cani al seguito e fagiani e corde d’impiccati
Tutto perché non si è fatto in tempo a prenotare sulla Ferdinandea
Dove pisciare e affogare in grande.

SEGNALATO O SEGNATO?

Tra le pillole rosse ce n’è una blu. Scrollare il tamburo prima dell’uso.
La storia del giustiziere notturno tra avvertenze e indicazioni.
Evitare in gravidanza. Potrebbe far male a Maria Carolina
E dunque non partorire mitraglie e forche e nodi scorsoi.

GIURIA O GIUNTA?

Si alzi signora. Non ha mai sentito che ci sono rotule obbedienti alla 104?
Avanzano le sedie a rotelle nell’ Asl. Proclamano indipendenza dall’osso sacro.
Ah lazzaroni che fate al collo della Sanfelice?
Morire a giugno è cosa possibile
Ma vincerà la lotteria di capodanno, come piace al re.

MOTIVAZIONE O MORTIFICAZIONE?

Eburneo sarà lei. Il mio nome è colesterolo.
Il vademecum parla chiaro: luna a pois prima di morire e niente filo per le sottane.
Consulti il medico e non si faccia prendere dall’esaltazione.
Un colpo al cuore, un altro a Leonora

INSINDACABILE O ETERNO RITORNO?

Un dente maledice la mascella.
La mandibola difende la gengiva
La carie benedice il nervo.
-Alle pinze. Disse il dentista ma google scrisse panze
E riempì di bolo lo schermo del computer.

Carri, missili, aerei avanzarono sulla tastiera tranciando lettere e consonanti.
Cosa scriveranno adesso?
Lascia che i nervi si arrangino da soli. Tra correnti ci s’intende.
E mentre gli ampere risalgono gli scoli
avanza nel buio l’ascia del macellaio .

PRIMO PREMIO O VITTORIA?

Qui giace Tutankhamon sepolto con l’arco di Diana al mignolo
la passione per il fucile a tromba, il coccodrillo nell’ intestino.
Risalendo il Nilo pervenne il potenziale a una decisione.
Meglio sarebbe non rivelare la ricetta, ma tant’è!

Giorgio Linguaglossa

La fine dell’arte nel tempo della storialità

In Dopo la fine dell’arte (1997) Danto compie una rivoluzionaria operazione culturale, pone il problema seguente: cosa pensare dell’arte dopo la caduta dell’idea di un progresso storico dell’arte? In un primo momento, all’epoca delle avanguardie europee dei primi anni del novecento, l’arte diventa improvvisamente autocosciente, riflette su se stessa e sul proprio destino, diventa insomma auto-riflessiva, cessa di operare una rappresentazione del mondo per concentrarsi esclusivamente su alcuni aspetti del mondo così come essi si presentano e così come essi sono visti. «L’Età dei Manifesti», peculiarità dell’epoca “moderna” (poco meno di un secolo dall’Impressionismo al Brillo box di Warhol del 1964), si caratterizza per la raggiunta caducazione del concetto di «mondo»: l’arte è arte ogni volta che prende se stessa a parametro di riferimento di se stessa, quello che conta è se stessa come verità del proprio concetto. L’arte viene prima del concetto di se stessa. L’arte è ciò che l’autore o le istituzioni che contano dicono di essa. In questa scorciatoia speculativa che è, tra l’altro, una tautologia, l’arte afferma se stessa in quanto non è nulla di nulla, non conta più nulla ed è fatta di nulla. L’arte del periodo post-storico è quella in cui «tutto è possibile» (l’everything goes di Danto). Di conseguenza ogni ermeneutica che la tratta si dovrà necessariamente schiantare sulla superficie del nulla di cui è fatta l’arte moderna dopo Brillo box di Warhol. Per Danto1 si deve porre la domanda seguente: perché la critica dell’arte dopo la fine dell’arte?

La risposta che al momento possiamo dare è che oggi, nel 2023, non si può porre mano ad alcuna ermeneutica dell’arte a seguito della Fine della poiesis, di quella che un tempo si chiamava «arte» nel tempo della storia progressiva; oggi, nel tempo della storialità (cioè della storia non-progressiva), la fine dell’«arte» trascina con sé anche la fine della critica d’arte. E qui il discorso si chiude. La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale», ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situa all’interno tra le due cornici, dove tra le due cornici si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis ovviamente priva di «essenza».

1 A. Danto, After the end of art, Priceton Bollingen 1997, pag. 198: «One does not escape the constraints of history by entering the post-historical period».

Giorgio Linguaglossa

Il poliptoto è entrato nel retto di Putler

Bum! il poliptoto è entrato nel retto di Putler lanciato dall’incrociatore Moskvà
L’Elefante suona l’olifante
Ne esce il pesce Lavrov con squame e sopracciglia dipinte
Odisseo commercia con il petrolio e il gas dei russi, manduca fagiani e noccioline del Ponto Eusino
Confonde Churchill con Fausto Coppi, però ha un occhio peritissimo per la valuta pregiata della Signora Circe
Il pesce Lavrov tirò per la giacca il Signor Putler
Ne uscì una marmellata di essenze all’isotopo di deuterio e un rotolo di carta igienica con impresso l’aureo sigillo della defecatio del Tirannosauro
Accadde nel Cetaceo che una proboscide con squame di coccodrillo prese a crescere dal retto dell’Ibrido

«It is high time to put this on the agenda», disse Odisseo appena uscito dall’antro di Polifemo aggrottando le sopracciglia.
«The event has occurred», così chiuse la questione l’itacense alla conferenza stampa convocata da Penelope.

Dopo aver ingoiato il poliptoto il pesce Lavrov non trovò di meglio che rifugiarsi di nuovo nel retto del Signor Putler
Ed ivi compì la defecatio e la prolificatio

Il topo saltellò sul piattino con del formaggio bucherellato, morse un fiordo di Emmental Switzerland e lo trangugiò
Dal retto uscì un minuscolo Putler al plutonio in forma di supposta o di Sputnik
Lo psicozoico tossì e crebbero delle margherite all’intorno

«Benvenuti – esclamò il manigoldo – alla fine dell’Antropocene, ovvero, l’Età della Catastrofe Permanente!»

Marie Laure Colasson
27 gennaio 2023 alle 19:48

La concisione delle brevi stofe rende un vantaggio a Francesco Intini in quanto gli consente una concentrazione massima delle parole. E in effetti, la differenza tra la scrittura del Computer di Nanni Balestrini del 1962 e quella kitchen di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa o Raffaele Ciccarone del 2023 è un salto, ma un salto storico, l’operazione derisoria di Balestrini garantisce il successo della operazione che la segue a distanza di sessanta anni, la Poetry kitchen. Il derisorio chiama al telefono il derisorio a distanza di sessanta anni. Le operazioni di rinnovamento artistiche sono sempre “telefonate”, il Futuro è sempre in collegamento con il Presente, e il Presente è sempre in collegamento con il Passato, in specie ora che il Passato ha cessato di coincidere con la Tradizione. La Tradizione oggi è il Futuro. Il Futuro è diventato rocambolesco. E derisorio.

13.

Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent Continua a leggere

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Dieci poesie kitchen di Nunzia Binetti, Quello che nella poesia della tradizione è il momento epifanico, ovvero una istantanea reazione emotiva, nella poetry kitchen diventa lo spazio vuoto, lo iato di un significante vuoto ed eccedente che prende corpo in parola, la parola incomunicativa, incomprensibile del momento kitchen, come si vede bene nella poesia di Nunzia Binetti, è una parola parlata dall’Estraneo o, come recita la Binetti, da un «avatar», In definitiva, la poesia delle modalità kitchen altro non è che una de-costruzione ininterrotta una volta che il virus kitchen si sia introdotto in una tradizione saponificata e imbalsamata

Nunzia Binetti

Nunzia Binetti

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Nunzia Binetti nata a Barletta in Puglia, dopo il Liceo Classico e studi in medicina ha intrapreso quelli di Lettere moderne e Beni Culturali , laureandosi presso l’Università degli studi di Foggia con una tesi sulla Poesia Contemporanea femminile in Puglia. È impegnata nel sociale, e in particolare nella promozione delle donne nelle Arti e Affari (già presidente della Fidapa BPW. sezione di Barletta e già membro della task force twinning BPW International).  Cofondatrice del “Comitato della Dante Alighieri Barletta”, è anche membro del Consiglio Direttivo. Ha recensito e prefato raccolte poetiche di autori  e pubblicato articoli letterari su “Vivicentro Notizie Rassegna Stampa” e su “ Versante Ripido”, in web. Sue poesie sono presenti in molte antologie poetiche (Campanotto Editore), (ED.Giulio  Perrone –Roma), ( LietoColle) e nelle antologie: Fil Rouge (CFR editore) e Il ricatto del Pane (CFR Edizioni ). Nel 2010 ha esordito con la prima Silloge completa In Ampia Solitudine (CFR – Editore) e nel 2014 con la Raccolta Di Rovescio (CFR .Editore), tradotta anche in francese nel 2017 da Roberto Cucinato, pubblicata in Francia e regolarmente depositata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.  La rivista serba “Bibliozona” (della Biblioteca Nazionale di Nis) ha pubblicato una sua poesia in lingua serba. È stata recensita nelle Riviste letterarie: Capoverso (Ed. Orizzonti Meridionali), I fiori del male (Ibiskos Ed.) , dal quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”, dalla Gazzetta di Verona” e, in web, nella rivista on line lombra delle Parole.wordpress.com . Nel gennaio 2019 ha pubblicato la sua ultima raccolta poetica Il Tempo del Male (Terra d’ulivi edizioni). Progetta di pubblicare, a breve, una nuova silloge poetica che includa una sezione vicina allo sperimentalismo.

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Commenti

Prosa troppo diligente e lessico ricercato, o anche solo doverosamente appropriato, possono creare difficoltà per chi voglia accomodarsi nella stretta della frammentazione. Il frammento è cura dimagrante, i suoi affetti sul linguaggio sono immediati. Stop and go, interruzione (morte del pensiero e sue parole) sono costanti, e così le riprese (vero e proprio reset). Il fuori-senso, le repentine deviazioni, inseriscono e rendono visibile, anche in lettura, il fattore T-tempo, che è parte costitutiva del pensare originario: il qui e ora, ma del tutto inventato.

(Lucio Mayoor Tosi)

Il virus kitchen nella tradizione saponificata, sanificata e ininterrotta della poesia narrativeggiata a vocazione maggioritaria

Le poesie di Nunzia Binetti sono la riprova di come la contaminazione e la infiltrazione tra un linguaggio poetico ereditato (quello narrativizzato) e quello nuovo della poetry kitchen stia dando ottimi risultati. La Binetti parte dal linguaggio poetico dell’io che si confessa allo specchio di questi ultimi decenni per allontanarsene in direzione di un linguaggio ibrido, meticciato, con inserti kitchen, cioè lateralizzati, spostati dal significato consueto e condiviso e dalla soggettività registrata. Il risultato è probante, l’autrice dimostra che la transizione e la transazione tra un linguaggio noto e conosciuto, addomesticato, e uno nuovo, ignoto e non addomesticato può dare ottimi risultati. E noi non possiamo che incoraggiarla in questa direzione. E non è detto che tra infiltrazione e transazione vi sia inimicizia o contraddittorietà, la prassi kitchen ci dice che nelle modalità kitchen l’infiltrazione del virus kitchen in un corpo «sanificato» e saponificato come quello della tradizione post-lirica italiana può dare ottimi risultati.

Alla base della poesia di accademia incentrata sulla perorazione di una soggettività in preda di una particolare esantema soggettoalgico c’è la convinzione che la forma-poesia debba essere una veicolazione narcisistica di un’istantanea reazione emotiva, invece alla base della poesia della nuova fenomenologia del poetico c’è la convinzione che la forma-poesia debba essere una forma di «incomunicazione» (per riprendere una dizione di Alfredo de Palchi degli anni sessanta), di non-coincidenza permanente tra la parola e la cosa. Come si vede, i conti tornano, anche a distanza di sei, sette decenni dalla poesia depalchiana e dalla neoavanguardia. Ma i conti sono destinati a tornare e a ritornare imbrogliati nella matassa dei nodi di Gordio e dei nodi scorsoi della tradizione saponificata e sanificata e ininterrotta della poesia narrativeggiata a vocazione maggioritaria.
Quello che nella poesia della tradizione saponificata è il momento epifanico, ovvero, una istantanea reazione emotiva che vorrebbe tradursi in una parola epifanica, nella poetry kitchen diventa lo spazio vuoto, lo iato di un significante vuoto ed eccedente che prende corpo in una parola; la parola incomunicativa, incomprensibile del momento kitchen, come si vede bene nella poesia di Nunzia Binetti, è una parola parlata dall’Estraneo o, come recita la Binetti, da un «avatar». L’io ne resta diviso, spiazzato («Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso»), e veniamo proiettati in un’altra dimensione («La musica si interruppe»), e l’avatar prende posizione, prende direttamente la parola, ecco il momento diegetico («l’avatar assunse un tono perentorio,/ sfilò per tutto il corridoio…»); ed ecco il momento mimetico dove parla l’io: («Errore, delitto preterintenzionale!»), interviene l’avatar femminile («No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità»). Subito dopo si cambia fotogramma, ecco che interviene un terzo personaggio “Lady Tristezza” (o forse è ancora l’avatar che parla?). In definitiva, la poesia delle modalità kitchen altro non è che una de-costruzione ininterrotta una volta che il virus kitchen si sia introdotto in una tradizione saponificata e imbalsamata.

Noi sappiamo che la soggettività non è mai «autentica», è sempre impura, contaminata; fin dall’inizio è impregnata di impersonale, perché solo la lingua pubblica (cioè di nessuno, arbitraria e presoggettiva), le offre i dispositivi grammaticali per formare l’“io”, infatti, Lacan ha scritto: «Lalangue sert à de toutes autres choses qu’à la communication». In conformità a questa impostazione, il pre-individuale precede la soggettività, ergo la lingua del pre-individuale è più vera di quella della soggettività, ecco la ragione della modalità kitchen: posizionarsi e direzionarsi verso il pre-individuale del linguaggio poetico è la via prescelta dalla poesia della nuova fenomenologia del linguaggio poetico.

(Giorgio Linguaglossa)

Dieci Poesie inedite di Nunzia Binetti

«Il La è Bemolle». Così si presentò l’avatar.
Pensai a un intralcio, a una devianza di percorso

La musica si interruppe, l’avatar assunse un tono perentorio,
sfilò per tutto il corridoio…

«Errore, delitto preterintenzionale!» replicai.
«No. Il croco, il tuorlo, ci mostrano il giallo che è il retro dell’identità» Ella rispose.

Lady Tristezza emerse da un mare di suoni,
sirena per finta. Frammenti di sughero poi vennero a galla.

**

Elisa amò Beethoven. Non lo confessa.
Oggi non sa più amare.

Tra Schengen e Lampedusa affondò il mare.
Ruth Benedict volse lo sguardo a un crisantemo e ad una spada.
Il crisantemo è divenuto nero.

Ogni Bellezza uccide.
La gara è tra i gerani, sui balconi a farsi cogliere.
Il mito d’Elena ritorna per (s)fiorire.

Nessuna Giustizia è scienza esatta.
La luce della luna echeggia tra le foglie morte.

Notte, sii sempre buona!

**

Il meccanismo del sistema accelerato ha piglio tribale e
ritmo di danza.

I figli uccideranno sempre i padri.

Mendel in tutta fretta mobilitò caratteri alieni dominanti.
I vincitori persero tutto, anche l’onore.

«Siatemi almeno voi fedeli nei miei infiniti modi d’essere».
Così l’ameba parlò alle sorelle ortiche.

Tossine apolidi affiorarono dal mare.
Un seme scivolò nel solco sbagliato

Così nacque un australopiteco super sapiens.

**

«Ho perso l’anello che portavo al dito perché mi sono sposato con la poesia».
Scrisse Dunn, pensando a Puskin, ma la lettera tornò indietro,

non fu recapitata.

Ma qui vivono uomini mezzo-gatti, ad essi tutto è indifferente.
Hanno comportamenti gattici.

Bifore di cattedrali ospitano gabbiani.
La profilassi è solo antibatterica.

E l’Angelus trasalisce per certe maldicenze dei credenti contro i preti.
Inutile agire sui tufi spolpati dagli eventi.

Ed ora discorriamo dell’autunno.
«Cosa sai, tu, dei melograni?», mi chiese.

«Intonano canti funebri sulle terrazze di novembre»,
risposi non molto convinta. Continua a leggere

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I tre periodi della poesia di Cesare Viviani da  “Poesie 1967 – 2002”  (2003) a “Dimenticato sul prato” (2023), Viviani con le opere degli anni successivi all’esordio del 1973 prende cognizione che ormai la spinta propulsiva del neosperimentalismo si è affievolita e che occorre perlustrare nuovi linguaggi, nuove dinamiche endogene ai linguaggi, nuovi lessici. Il percorso durerà più di un ventennio ma alla fine il poeta dovrà accettare il verdetto che la «poesia» non ha più nulla da dire di nuovo o di importante o di significativo, e arriva ad un testo fuori-poesia, se così possiamo dire – Sostanzialmente, l’ultimo periodo della poesia di Cesare Viviani è un linguaggio del «se così possiamo dire», un linguaggio camuffato e artefatto oltre che costruito tutto in diminuzione, in diminuendo, in dimagrimento. Ma di che cosa? È ovvio: del senso e del significato (a cura di Giorgio Linguaglossa)

Promenade notturna Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson Collage 30×40, Passeggiata notturna, 2023

Come con dovizia di ragioni asserisce l’autore della vasta e argomentata introduzione al volume antologico di Cesare Viviani, Enrico Testa, l’opera poetica del poeta di adozione milanese ma senese di nascita (anno 1947) si può suddividere in due periodi: il primo che va dai primi tentativi risalenti agli ultimi anni sessanta e poi pubblicati in plaquette a Parma, in parte riproposta nel 1983, da Scheiwiller, in Simmulae; Viviani esordisce con L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), seguono Piumana (Guanda, 1977), L’amore delle parti (Mondadori, 1983) e Merisi (Mondadori, 1987); il secondo periodo ha inizio nel 1990, con Preghiera del nome (Mondadori) e prosegue con L’opera lasciata sola (Mondadori), Una comunità degli animi (Mondadori, 1997), Silenzio dell’universo (Einaudi, 2000), Passanti (Mondadori, 2002), La forma della vita (2005), Credere nell’invisibile (2009). A questi due periodi aggiungerei un terzo periodo che inizia con Infinita fine (2012), passando per Osare dire (2016), Ora tocca all’imperfetto (2020), e Dimenticato sul prato (2023), opere tutte edite da Einaudi.

La poesia di Viviani trova subito, fin dai suoi esordi, l’attenzione della critica militante, ma le ragioni che hanno condotto ad una rapida accettazione della sua poesia sono tutte ascrivibili al quadro di riferimento culturale della società letteraria del tempo. Il lavoro di Viviani incontra e interpreta in modo encomiabile l’orizzonte di attesa di cui quella cultura critica forniva lo zoccolo e la chiave interpretativa. La poesia del «primo periodo» di Cesare Viviani cresce e si consolida sulla cresta d’onda di quella cultura, interpreta, nel senso migliore del termine, la cultura da cui proviene. Certo, il tema dell’incomunicabilità, dopo l’esistenzialismo francese, certo teatro del surrealismo e della  nostrana neoavanguardia diventa quasi un topos banalizzato e alla moda; ma quella cultura critica che si era fatta carico di rappresentare in Italia la tematica dell’incomunicabilità, con la poesia di Cesare Viviani attinge gli esiti tra i più complessi e maturi. Nella letteratura poetica del tardo novecento non si era ancora visto un fenomeno letterario così evidente: nasce una poesia dell’irriconoscibilità e della incomunicabilità: i personaggi sono stati soppiantati da parvenze, da voci intermittenti, da reclute implicite e criticamente cifrate che intervengono nel testo come lessemi terremotati che disgregano e disorganizzano la logicità della sintassi fin dentro le fibre semantiche del discorso poetico. Il risultato è che i testi vengono composti mediante una stratigrafia lessematica dove il «lapsus morfematico» agisce da «morfema migratorio», agisce come un virus linguistico che attacca altre cellule linguistiche che finiscono per disarticolare il testo. Non soltanto la tradizione lirica di stampo fonosimbolico viene esautorata e destabilizzata, ma anche i risultati conseguiti dalla neoavanguardia vengono stravolti e sorpassati, proprio in curva, e doppiati da Viviani che scrive sul crinale degli anni settanta e ottanta. Operazione lucidamente orientata sul sorpasso. Vengono così abilmente dribblate le istanze fonologiche e plurologiche dei coevi tentativi di quegli anni mediante un’operazione «eversiva» ancor più radicale. La versificazione diventa una sommatoria di istanze enunciativo-assertive che non intende condurre ad alcun senso ma neanche al non-senso. Nella misura in cui la prima poesia di Viviani non ricerca il non-senso, essa vi approda partendo da un altro versante: cadono sotto questo diserbamento molecolare anche le istanze della poesia gnomica, che presuppone, ancora acriticamente, che possa sopravvivere, in qualche modo, sotto la coltre di relitti e di detriti linguistici della nuova civiltà una noumenicità del senso o un fondamento purchessia di esso.

Il secondo periodo inizia all’incirca con Preghiera del nome (1990) e segna una poesia che alberga una restituzione di senso al senso. Ora, la poesia diventa «riconoscibile», l’eversione terroristica del primo periodo è ormai alle spalle. Del resto, Viviani prende atto, con acume e tempismo, che la «trasparenza» dello spazio mediatico è contiguo e speculare alla insondabile profondità del capitale finanziario che vi transita nel tempo di un batticiglio: il capitalismo del tardo moderno, o post-moderno che dir si voglia, ha assorbito senza scossoni il bombardamento del linguaggio umanistico della poesia, anzi, nel momento in cui il linguaggio pubblicitario si presenta come la nuova e vera avanguardia della nuova società mediatica, Viviani opera una sterzata di 180 gradi, comprende che nelle nuove condizioni del mercato globale, nel momento in cui le vecchie ideologie sono ormai infungibili e inutilizzabili, l’unica cosa che resta da fare è tentare di ricostituire il legame tra la parola poetica e il suo referente, la «riconoscibilità» della poesia ma come capovolta. Viene reintrodotto il «quotidiano», viene reintrodotta la «scena», i personaggi vengono ricostruiti e diventeranno inseguiti ed inseguitori, assassini, nemici e padroni; viene ricostruita la filigrana della sintassi, il lapsus morfematico scompare per sempre dalla scrittura dei testi. Il testo letterario ospita ora una fenomenologia sempre più «ostile» alla scrittura poetica: il linguaggio dei gesti e delle conseguenze dei gesti si sostituisce al linguaggio delle parole, ovvero, fa ingresso il metalinguaggio. È sufficiente esaminare una poesia di Preghiera del nome: Il cittadino mi vede seduto/ sulla panchina che la prima luce/ imbianca, meravigliato/ si ferma e vuole/ che gli risponda. Dice/ che sono bianco in volto”, dove l’atto di portare «bianco in volto» è la conseguenza, il risultato, il precipitato di un qualcosa che non si ha più ragione di attestare; il linguaggio poetico si limita a darne il resoconto repertale, come post mortem. In questo tipo di fenomenologia al linguaggio poetico è riservato un ruolo ben preciso: illuminare, per via indiretta, le conseguenze dei segni che hanno ormai perduto la leggibilità univoca della precedente generazione poetica e della precedente civiltà letteraria. In questo processo di de-territorializzazione del linguaggio poetico, Cesare Viviani si scopre più in avanti, sempre più in avanti rispetto a tutti gli altri poeti della sua generazione. Ma è con L’opera lasciata sola che Viviani fa un passo decisivo verso la rivoluzione copernicana del suo linguaggio poetico, che ora si presenta con una compattezza semantica inusitata: abbandona gli istituti retorici della precedente maniera per recuperare una fraseologia prosastica modulata in vista di un climax solenne, dove le retoriche convergono a rafforzare la im-potenza delle parole lasciate quasi nude e disadorne dinanzi all’ambigua indeterminazione del reale; così si riaffaccia il racconto e la parola si fa carico del vettore del pensiero impoetico. Non è un caso che la critica abbia qui segnalato «forti contiguità con la poesia di Luzi» (dalla introduzione di Enrico Testa), ma è un Luzi laicizzato e de-numinizzato; aspetto questo che sarà preponderante in specie nelle opere seguenti: Silenzio dell’universo (2000), Passanti (2002) e seguenti, dove il discorso poetico viene riconsiderato, problematizzato e investito delle responsabilità che ora incombono in modo sempre più pressante sul testo in vista della possibile imminente minaccia alla sopravvivenza della poiesis nell’epoca odierna.

Cesare Viviani Ora tocca all'imperfettoNel 1973, con il libro di esordio, L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), Viviani partecipa in prima linea al moto di decostruzione messo in atto dalla neoavanguardia, quel fenomeno che Alfonso Berardinelli definirà nel 1975 nella Introduzione alla antologia Il pubblico della poesia (1975) «l’equivoco che aveva permesso ai Novissimi di avere tanto successo: credersi ancora avanguardia e fingere di vivere mezzo secolo prima. Proporre se stessi come la soluzione più avanzata del problema dell’arte era un gioco che ancora piaceva molto, prometteva di fare un certo scalpore e ovviamente gratificava parecchio gli autori. Credersi più moderni e più attuali di ogni altro dà senza dubbio qualche soddisfazione e infatuazione».

Viviani con le opere degli anni successivi al 1973 prende cognizione che ormai la spinta propulsiva del neosperimentalismo si è affievolita e che occorre perlustrare nuovi linguaggi, nuove dinamiche endogene ai linguaggi, nuovi lessici. Il percorso durerà più di un ventennio, ma alla fine il poeta dovrà accettare il verdetto che la «poesia» non aveva più nulla da dire di nuovo o di importante o di significativo. Viviani pensa che forse questo è il segno dei tempi, che i tempi non richiedono più una poesia che dica cose importanti o significative o comunque degne di evidenza e che forse ciò che ha da dire si può dire con parole elementari e con una sintassi semplicissima, come nella prosa, per andare, per così dire, direttamente al centro delle cose, ammesso e non concesso che quelle cose fossero lì dirimpetto, o di lato, che comunque fossero presenti in qualche modo, e consenzienti o conniventi con le esigenze della soggettività. Nel frattempo, però, in quegli anni ottanta e novanta, il peso specifico della «poesia» perde sempre più terreno e autorevolezza di fronte alla comunicazione e alla nuova società affluente che non richiede più nulla alla «poesia» e che la «poesia» non è in grado di recepire. E Viviani entra nel secondo periodo della sua produzione, una sorta di ponte di passaggio verso il futuro e i linguaggi del futuro, verso, cioè, i linguaggi che ancora non ci sono, che non hanno fatto ingresso nell’orizzonte di attesa delle poetiche. E adesso facciamo un passo in avanti saltando gli anni novanta e gli anni dieci del nuovo secolo: ci troviamo nel 2010, accade così che alla fine del secondo decennio del nuovo secolo il poeta milanese pubblica quel piccolo trattatello titolato: La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (2018), una sorta di accettazione, con ammonimento condizionato, del fatto incontrovertibile dell’esaurimento della «poesia» così come l’avevamo conosciuta e frequentata e l’inizio di una «cosa» sconosciuta, del tutto differente dalla «poesia» della tradizione. È stato per Viviani un tragitto doloroso e una presa d’atto dolorosa della realtà dei fatti. Viviani non lasciava margine a dubbi, e quella dizione del titolo: «A meno che…» suonava sì un po’ retorica e di prammatica quasi per scacciare, con un gesto apotropaico, il fatto della «fine», ma era una sentenza inappellabile, passata ormai in giudicato.

Ecco come Alfonso Berardinelli descrive la situazione della poesia italiana fotografata al 1975 ma le cui conclusioni sono valide anche oggi, infatti il critico le confermerà nel 2017 quando ripubblicherà con Castelvecchi l’antica antologia Il pubblico della poesia pubblicata nel 1975. Ecco il commento del critico romano ex post:

«Dovendo descrivere questa situazione e questi fenomeni, mi convinsi che la sola cosa possibile era teorizzare non una tendenza, ma la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni. L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagées sia gli avanguardisti. Era vero invece che nessuna situazione storica dell’arte è definibile a priori in termini di autocoscienza politico-teorica, ma che questa definizione si può ottenere (in termini comunque non univoci) solo a posteriori, leggendo gli autori che pur vivendo negli stessi anni scrivono ognuno a modo suo. L’ambivalenza che è stata subito notata nel mio saggio introduttivo. Effetti di deriva esprimeva appunto i miei dubbi, anche se nel gergo teoricistico di allora. I poeti della mia generazione erano manifestamente più liberi di andarsene ognuno per la sua strada: ma questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica (e da molti suoi eccessi soffocanti e sofistici).

Si poteva fare di tutto in poesia: inventare e ritrovare soluzioni formali moderne, premoderne, manieristiche, neoclassiche, colloquiali, di esibito esoterismo o di smaccato autobiografismo. Questo era indubbiamente (come si disse più tardi) “postmoderno” e faceva sentire più liberi di essere quello che si era senza la costrizione di adeguarsi ad un super-io ideologico o formalistico. Questa inedita libertà creativa, però, avrebbe richiesto una capacità di autocontrollo critico perfino superiore a quella che si era vista in passato. Invece avevo il sospetto che anche quando scrivevano poesie migliori di quelle di Sanguineti, Porta e Balestrini, i poeti de Il pubblico della poesia sapevano meno chiaramente quello che facevano: lo facevano a volte benissimo, ma più a caso. Come autori erano poco strutturati. Per questo proposi di intitolare l’ultima sezione dell’antologia Come credersi autori? L’intenzione era questa: indicare che i poeti più intelligenti conservavano un congruo scetticismo sulla figura pubblica dell’autore, sulla figura mitica del poeta, ma anche sulla figura professionalmente produttiva del poeta “in carriera”».

Cesare Viviani è giunto alla medesima conclusione alle quali siamo giunti noi dell’Ombra in un libretto pubblicato da il melangolo nel 2014: La poesia è finita. La differenza è che noi dell’Ombra abbiamo preso atto della «fine» e ne abbiamo tratto le conseguenze, abbiamo percorso e stiamo percorrendo un sentiero di profondo rinnovamento della forma-poesia e del linguaggio poetico. La poesia di Viviani, questa ultimissima, è la spia segnaletica della fine di un intero linguaggio poetico, l’ultima spiaggia dove c’è rannicchiata e disteso sull’amaca a prendere il sole il ceto poetico che si è autocandidato nei decenni recenti a ceto maggioritario.

Cesare Viviani parte dal principio che il reale si dà nella forma ipoveritativa e non è rappresentabile se non nella forma di frammento, ma in lui il frammento è a monte dell’opera che verrà, non è un risultato ma una petitio principii. Già prima di nascere la poesia del terzo periodo di Viviani viene alla luce nella forma di frammento pieno di fermento. Per questo motivo la causa agente della sua poiesis è il dubbio programmatico, lo scetticismo che tutto aggredisce come una ruggine il metallo, il dubbio che il tutto non sia in quel che appare e che anche la migliore poesia è un epifenomeno del nulla. La sua poiesis afferma perentoriamente: «ingannare il tempo». E di qui prosegue la sua corsa a dirotto tra le stazioni del nulla (parola che inutilmente cercherete nella sua opera), cioè l’indicibile e l’impensabile. Ecco perché la veste formale di questa poiesis è l’aforisma e il pensiero «imperfetto», per amore dell’onestà intellettuale verso quella cosa, la poesia, che, come recita il titolo di uno dei suoi libri di riflessione di poetica: «la poesia è finita», che, esattamente non è un enunciato negativo, perché nel pensiero di Viviani la poesia può anche finire, può assentarsi per anni o per decenni, per poi magari, all’improvviso, ripresentarsi senza alcuna ragione apparente con una nuova veste formale ed espressiva, senza che fosse stata richiesta o cercata.
La poesia per Viviani non è un «falso» né un «vero», né un «positivo» o un «negativo», è semplicemente l’evento di un assentarsi dai luoghi frequentati dalle parole scostumate del nostro tempo. Lo scetticismo ipoveritativo della poiesis di Viviani dà luogo a una poesia che fa della imperfezione e della provvisorietà il proprio punto di forza, capovolgendo in tal modo la propria debolezza in forza. Parrebbe che la logica della disgregazione del mondo amministrato sia giunta a tal punto di profondità da non lasciare alla poiesis alcuna chance di ripresa. Il frammentismo trascendentale di Viviani si nutre proprio di quella disgregazione (Logik des Zerfalls – Adorno) del mondo divenuto globale, ne è ad un tempo, riflesso e prodotto, «mosaico dorato» che è «fuori dalla natura». Quel dubbio e quello scetticismo radicale giunge, alla fin fine, a ristabilire un qualche valore alla poiesis, anche se in modo transitorio e periclitante. Un dispositivo destituente sembra in opera in questo tipo di scrittura, un abbassare il livello comunicazionale per adire un sublivello, una sub-comunicazione. La cultura che si è positivizzata dà luogo all’anti positivo della prassi poietica, sembrerebbe questa la conclusione cui è giunto Cesare Viviani. Quindi, il non-chiudere è per definizione l’ultima possibilità che resta alla prassi dopo l’assunzione che «la poesia è finita». Continuare a scrivere «poesia» anche dopo che «la poesia è finita».

Cesare Viviani Dimenticato sul prato

«Idea della poesia» (Cesare Viviani, da a poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…, il melangolo,2014) 2014)

«L’essenza della poesia, che la fa distinguere da ogni altra scrittura, non risiede ovviamente nei dati caratteristici esteriori, quali metrica, prosodia, rima, lessico e figure retoriche. E nemmeno, passando a realtà interiori, risiede nel modo del rispecchiamento, quando il lettore crede di vedere rispecchiate nella poesia le proprie emozioni, i propri stati d’animo.

L’essenza della poesia, la sua straordinaria energia, è qualcosa che sfugge a ogni definizione e oggettivazione: nessuno ha mai definito l’essenza, la peculiarità della poesia, nessuno è mai riuscito a definirla, a codificarla, così che non si possono misurare o confrontare due testi, per sapere quale è il più dotato di poesia, e nemmeno al limite stabilire se un testo è o non è poesia, se è poesia o un tentativo non riuscito. Non c’è oggettivazione possibile di valori, se non una moltitudine di lettori che concordano ma pur sempre su esperienze di lettura non oggettivabili, su elementi di valore non definibili. L’essenza della poesia è una vertigine, la vertigine che si prova di fronte all’abisso del vuoto…
Allora se l’essenza della poesia è inafferrabile, si può ben dire che l’essenza della poesia è l’esperienza del limite delle capacità umane di afferrare, capire, definire, sistemare: è l’esperienza del limite.

Così è per tutta l’arte. E come non c’è differenza tra linguaggi pittorici (figurativi e astratti), così non c’è differenza tra linguaggi realisti ed ermetici: sia gli uni che gli altri sono strumenti, apparati, modi tangibili, e diventano poesia solo in quanto realizzano l’esperienza del limite, la vertigine del vuoto, lo smacco della separazione e della perdita, la spoliazione degli strumenti umani, la fine del sapere, del controllo e dell’orientamento.

Allora la poesia, la parola della poesia, non deve preoccuparsi di comunicare, di farsi capire, di ottenere effetti, di conquistare lettori, di raggiungere finalità, di collegarsi ai contesti, di dare valore alla società, all’etica, ai contenuti esistenziali, ai valori. La parola della poesia deve avere a cuore l’esperienza del limite, del vuoto, della separazione, della perdita. La parola della poesia ha valore in sé in quanto offre al lettore la possibilità dell’esperienza del limite ed è sempre “poesia pura”, anche quando gronda di contenuti: essa non ha bisogno di niente e con questa autonomia irriducibile costringe il lettore all’esperienza del limite di decifrabilità e di interpretazione, alla perdita di scienza e coscienza, di controllo razionale ed emozionale, al vuoto di concetti e alla scomparsa del senso. Costringe il lettore all’esperienza del limite delle sue capacità di acquisizione e di intervento, di potere e di dominio.

È una vera, profonda vertigine: è l’esperienza vertiginosa della spoliazione e della nudità.»

Fondamentale per l’arte

C’è un elemento a mio avviso fondamentale, un elemento base, essenziale, costituzionale, senza il quale l’arte non esisterebbe: è la discontinuità. Prendiamo ad esempio la poesia (ma questo discorso vale per ogni altra espressione artistica): la scrittura della poesia nasce da una frattura dei significati abituali del sentire e del pensare, nasce da una discontinuità dell’esperienza e del pensiero. C’è un’immersione nell’ascolto, un ascolto assoluto nella scrittura della poesia, nel quale l’organizzazione dell’io scompare, scompaiono il buon senso e il giudizio, così come ogni valutazione normale, quotidiana delle cose, scompare l’ambiente ordinato intorno a noi, e c’è solo quest’ascolto assoluto, vertiginoso della parola che diventa la protagonista nell’esperienza del poeta. Anche il linguaggio può rompere con le tradizionali regole della grammatica e della sintassi, anche il senso si interrompe ed entra in circolazione a pari merito il non senso. Insomma l’inizio di ogni evento artistico è la discontinuità.

E anche nella lettura della poesia, così come nel rapporto con ogni altra arte, è necessaria la discontinuità. L’ammirazione che prende il lettore di poesia, o l’osservatore di un quadro, o l’ascoltatore di una musica, è un sentimento intenso, quasi indefinibile, insensato e disinteressato, gratuito, che distanzia e distacca il lettore, o spettatore o ascoltatore, dall’ambiente circostante, dai pensieri e dalle emozioni che provava fino a un momento prima – i «suoi» pensieri e le «sue» emozioni – e lo immerge in una condizione impersonale di scoperta, di creatività, di vertiginosa apertura e novità.

(L’ammirazione è sbilanciamento, disorientamento, è instabile e discontinua, imprevedibile e incalcolabile: se fosse stabile e prevedibile, continua e abituale, sarebbe un assetto rassicurante, una garanzia di seduzione e di conquista, un disinvolto e sfacciato utilizzo del’esperienza).»

Interpretazione

L’interpretazione è la forma maggiore di perversione. È la più forte e la più frequente espressione di dominio.» 1

*

È accaduto così che Viviani abbia ereditato in pieno tutta la leggerezza, la gassosità, la sproblematizzazione, la inadeguatezza intellettuale e la falsa coscienza delle soggettività nelle  democrazie parlamentari dell’Occidente (nell’epoca del Covid e della guerra in Ucraina), dell’indebolimento definitivo delle poetiche un tempo «forti» (la poesia di Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna). La poesia debole e de-responsabilizzata ha così finito per egemonizzare il panorama della poesia italiana del tardo novecento e di questi ultimi due decenni: e siamo arrivati al  post-sperimentalismo indebolito e impoverito, le poetiche neo-gotiche e privatistiche, le ex poetiche dei quotidianisti dell’area lombarda e i mix di disformismi vari: quotidiano + privato + post-sperimentalismo.

Dimenticato sul prato è opera scritta «tra i primi mesi del 2018 e il settembre del 2019» annota l’autore; il fatto poi che Viviani risieda da sempre a Milano, pur non essendo milanese, si è rivelato, per lui, senz’altro un vantaggio nella misura in cui la presa di distanza dalle ex poetiche «quotidianiste» ha accresciuto il potenziale non-belligerante del «terzo» e ultimo periodo del suo linguaggio poetico. Inoltre, il punto a vantaggio-svantaggio (a seconda dell’opposto punto di vista) di Viviani è che abbia accettato di scrivere nella lingua della tribù nella forma della «nuda lingua», una lingua disertata dal politico con una sintassi elementare  e una prosodia afona, atonica. E questo perché il poeta milanese si esprime nel linguaggio della «ruminazione», che è un linguaggio «interno» non etero-diretto e neanche soggetto-diretto ma che si situa in una via di mezzo tra i linguaggi dell’esterno e il linguaggi dell’interno senza essere niente di tutto ciò, niente che voglia apparire come intenzionale e significazionale, quindi un linguaggio essenziale e funzionale (ma non alla comunicazione), ma nemmeno niente di inessenziale, e neanche di idoneo alla comunicazione; un linguaggio, appunto, non puro ma spurio, di mera modalità, di mera postura, che non ha nulla del sensazionale e del significazionale e nulla della mimesi, un linguaggio che è diventato neutro, afono e atonico per impossibilità di essere oggettivo e/o soggettivo, linguaggio di brevi «ruminazioni» che appaiono e scompaiono negli orli della psiche, che non sono diretti alla comunicazione, ma, sostanzialmente, sono diretti verso la «in comunicazione», un tentativo di circoscrivere il linguaggio poetico dotandolo di una potenzialità non-espressiva, non-comunicazionale. Un linguaggio costruito sugli effetti di deriva dei linguaggi. Eppure, basterebbe un soffio, cambiare appena una vocale o una consonante per mutare questo linguaggio in… poetry kitchen. Alcuni esempi?

Da sempre la necessità
lotta con l’amore,
da un lato la maternità
dall’altro il predatore
(c.v.)

*

Dice di un pensiero antico
«Se desideri avere un amico
e lo vai cercando,
desideri Dio»
(c.v.)

*

L’anima è prostituta,
perché si unisce a ogni genere
di ragioni, energie e armonie,
e unica riesce, distaccandosi da tutto,
a diventare pura,
a innalzarsi fino a una certa
perfezione.
(c.v.)

*

Fare diventare un’asserzione
verità
non è mistificazione,
è necessità
e perché quest’assoluto?
Perché la vita non è altro che vera.
Non è altro Continua a leggere

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Indagine sulle ragioni della Crisi della Poesia italiana mediante la prospezione di cinque antologie di poesia dal 2000 ai giorni nostri: “Parola plurale”, “Dopo la lirica”,  “La poesia italiana dal 1960” edite nel 2005 fino a “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” (2017) e alla “Poetry kitchen” (2022), Ha ancora senso produrre Antologie generaliste? Ha ancora senso puntare sul ventaglio pluralistico? Ha ancora senso puntare sull’archivio degli autori invece che sulla settorialità delle proposte? E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti, La nuova fenomenologia della forma-poetica, a cura di Giorgio Linguaglossa

Nell’anno 2005 vengono pubblicate tre Antologie di poesia: Parola pluraleDopo la lirica e  La poesia italiana dal 1960 a oggi.

Il problema metodologico sconfina e rifluisce in quello della datazione delle singole opere di poesia. Grosso modo tutte e tre le antologie scelgono l’anno 1960, l’anno della rivoluzione operata dai Novissimi e dalla neoavanguardia quale linea di demarcazione dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura delle proposte di poesia accompagnate dalla caduta del tasso tendenziale di problematicità delle proposte stesse che collimeranno con posizioni di poetica personalistiche da parte delle personalità più influenti. Affiora una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità. La storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione. Così Daniele Piccini dichiara nella introduzione alla sua antologia i suoi intendimenti metodologici:

«…nonostante tutto ciò e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico verificatosi per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori esponenti di essi e le  poetiche più interessanti è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia». (Daniele Piccini 15)

Antologia Dopo la lirica Enrico testa

Piccini dichiara di voler mettere un freno all’esplosione demografica delle antologie e lo fa con un’antologia ristretta a poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro» (Piccini 36). Coerentemente con questa premessa, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Risulta però evidente che la selezione dei nuovi autori introdotti: Rondoni, Ceni, Mussapi sia piuttosto il prodotto di una mancanza di intraprendenza per non aver incluso nessun autore che non fosse già ampiamente confortato da una lunga frequentazione dei luoghi deputati della poesia.

 Dopo la lirica

Il periodo considerato va dal 1960 al 2000, la selezione include ben 43 autori di poesia a cura di Enrico Testa. Nella Introduzione, dopo un excursus sulle linee di forza della poesia degli ultimi tre decenni, il curatore presenta i poeti in rigoroso ordine cronologico. Pur nella ampiezza e sobrietà del quadro storico contenuto nella introduzione, alla fin fine il criterio adottato dal curatore finisce per essere quello del catalogo e dell’appiattimento degli autori in un quadro storico unidimensionale. Un quadro storico dal quale sbiadiscono le differenze (se differenze ci sono) tra un autore e l’altro e neanche viene spiegato perché proprio quelli siano i prescelti e per quale ragione o giudizio di gusto o di eccellenza. Se la poesia odierna è in crisi di crescenza esponenziale, il curatore amplia a dismisura i poeti inclusi nella antologia, quando invece sarebbe stato ovvio attendersi una restrizione delle maglie in verità larghissime. A questo punto, l’analisi linguistica dei testi si rivela per quello che è: un valore informazionale e di alcuna utilità ai fini della storicizzazione che avrebbe dovuto giustificare perché proprio quei poeti e non altri siano stati selezionati. Testa sfiora la problematica centrale: le «grandi questioni del pensiero e, in particolare, il nichilismo», senza però essere in grado di storicizzare la presenza «di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e magica degli oggetti». (Testa XXXII)

Il criterio guida della antologia è la individuazione di una «rottura radicale della lirica italiana» verificatasi intorno agli anni Sessanta. Verissimo. «Rottura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni di essi sulla struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente gli autori della precedente generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) con una piccola concessione alla poesia dialettale: Loi, Baldini. Possiamo però condividere lo sconforto del curatore il quale si trova a dover rendere conto dell’esplosione di un «genere indifferenziato» e inflazionato come la poesia «post-lirica» con conseguente difficoltà a tracciare un quadro giustificato della situazione; a nulla serve tentare di giustificare questa condizione mettendo le mani avanti con l’argomento secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», con il risultato ovvio che tracciare «una cartografia imperfetta è allora preferibile a uno scorcio o veduta parziale» (Testa XXVI).

Così risulta affatto chiaro quale sia per Testa la linea di sviluppo che la poesia italiana ha seguito dal 1985 al 2005. Infine, ritengo un rimedio non sufficiente l’intendimento del curatore di ridimensionare il peso di alcuni autori: Benedetti, Buffoni, Dal Bianco quando invece sarebbe occorso più coraggio e più intuizione nelle esclusioni e nella indicazione delle linee di forza del quadro poetico.

Antologia La poesia italiana dal 1960 ad oggi alberto bertoni

A quindici anni dalla apparizione della antologia Dopo la lirica risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi due lustri, Testa si limita ad indicare le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana», questioni peraltro abbastanza confuse su cui si potrebbe anche essere d’accordo ma manca l’essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti, l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida ma ancora vaga e ondivaga, non sufficientemente delimitata. Per aggiungere alla «mappa» dei 43 autori altri autori per completare il quadro sarebbe occorso una diversa campionatura e uno studio più articolato sugli autori della militanza poetica che nel lavoro di Testa non c’è probabilmente a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare del villaggio poetico italiano.

Parola plurale

Otto giovani critici (nati tra il 1966 e il 1973) si sono spartiti 64 autori, nati tra il 1945 e il 1975, firmando otto diverse introduzioni; l’antologia mette un punto sulla situazione poetica fotografata; alcuni autori già selezionati ne Il Pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli del 1975 e già presenti nella Parola innamorata. Il modello di riferimento resta quello de Poeti italiani del Novecento di Vincenzo Mengaldo.

Si procede per inflazione: gli autori confluiti nella Parola plurale sono 64, numero pari a quello dell’antologia di Berardinelli e Cordelli. Il primo capitolo non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, ma già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, il saggio di Berardinelli è qui diventato Deriva di effetti. I curatori danno molto rilievo alla frattura posta al centro dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dai quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si esaurisce l’esperienza della Neoavanguardia «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano. 20); il 1971 conclude l’evoluzione del genere lirico con le raccolte di Montale e Pasolini (Satura e Trasumanar e organizzar), e apre un nuovo periodo che privilegia il privato con Invettive e licenze di Dario Bellezza. L’idea di fondo di Parola plurale è mettere il punto finale al periodo inaugurato dalla antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 per ripartire dalla idea di una selezione degli autori in base ad un codice o modello «plurale», nonché di riposizionare il genere antologia mediante la introduzione del fattore «collegialità».

Antologia Andrea Cortellessa

L’organizzazione «policentrica» mengaldiana, rinvigorita da una affabile struttura saggistica che inquadra i testi si scontra con il problema oggettivo della omogeneizzazione dei criteri e dei giudizi di gusto dei singoli curatori che affiancano Cortellessa; il Fattore «plurale» agisce nella selezione e nella organizzazione di una mappa dove ogni inclusione ed ogni esclusione viene appesa al giudizio di gusto dei singoli curatori; la pecca è che in mancanza di un comune orizzonte di ricerca, la «collegialità» del lavoro finisce inevitabilmente per coincidere con la «generosità» delle singole inclusioni.

Il problema della «mappa», in mancanza di un progetto che rientri in un preciso orizzonte dei mutamenti della forma-poesia, finisce per periclitare in una generosa pluralità di gusti e di posizioni di individualità prive però di un pensiero critico omogeneizzatore che può nascere soltanto da una attiva militanza  e nel vivo del territorio poetico. Così spiega un curatore la sua idea: «La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. (Alfano et al. 9)

Dei 64 poeti, circa una ventina obbediscono ad una linea neo o post-sperimentale, tutti gli altri sono posteggiati in una sorta di narratività allo stadio comunicazionale della scrittura poetica. Accade così che Parola plurale, sicuramente uno dei cataloghi più aggiornati sotto il criterio bibliografico, non riesce ad evitare la pecca di una sorta di «generosità» della scelta degli autori inseriti in costanza di latenza di una ricognizione critica della poesia italiana. Il risultato complessivo non va oltre il truismo della «generosità» senza riuscire a rinverdire o a riposizionare un canone o modello prevalente e né i modelli laterali e/o accessori. Anche puntare il dito sulla de-ideologizzazione della scrittura poetica, non solo non è un criterio di per sé sufficiente, ma, a mio avviso, il discorso critico lasciato così a metà strada perché non approfondito sulle poetiche e sugli stili dei diversi autori rischia di aggravare il problema della «generosità» che rischia di apparire una «gratuità». La latitanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare dei confini della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordo

La nuova fenomenologia della forma-poetica

Finita questa prospezione, chiediamoci: ha ancora senso produrre antologie generaliste?, ha ancora senso puntare sul ventaglio pluralistico delle proposte?, ha ancora senso puntare sull’archivio degli autori invece che sulla settorialità delle proposte?

Come è finita la guerra di Troia non ricordo

E siamo giunti a Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di chi scrive, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della «Proposta per una nuova ontologia estetica» (2017) o Una nuova fenomenologia della forma-poetica, una piattaforma di poetica sicuramente militante che almeno ha il merito di mettere dei paletti divisori in modo visibile. La «nuova ontologia estetica» non vuole essere né una avanguardia né una retroguardia, ma un movimento di poeti che ha dato un Alt alla deriva epigonica della poesia italiana che dura da cinque decenni; la proposta è un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), verso il Decreto poesia, diciamo, parlamentarizzata che dura da alcuni decenni in una imperturbabile deriva epigonica: la cosiddetta poesia a vocazione maggioritaria che fa dell’ogettoalgia e della soggettoalgia i binari del cromatismo emotivo di una forma-poesia eternamente incentrata sul logos dell’io.

E qui vengo alla attualità. La proposta di una antologia della Poetry kitchen (dicembre 2022) di 16 autori complessivi, varata in questi ultimissimi giorni ha almeno il merito di essere giunta a quella «rottura radicale» tanto cercata dalle proposte antologiche che la precedevano e alla identificazione di un «nuovo paradigma» e, se non altro, a un dimagrimento del numero degli autori inclusi. Almeno questo traguardo è stato raggiunto.

E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti. Continua a leggere

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana

Breve retrospezione sulla Crisi della poesia italiana del secondo novecento, La Crisi del discorso poetico, La nuova fenomenologia del poetico, La Poetry kitchen, La Crisi esplode negli anni sessanta, Il Grande Progetto, Lo stile della NOE è quello delle didascalie dei prodotti commerciali e farmaceutici, L’Ispirazione, La NOe dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta

Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo il punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un «Grande Progetto».

Breve retrospezione sulla Crisi della poesia italiana del secondo novecento. La Crisi del discorso poetico

Di fatto, la crisi della poesia italiana è già visibile nella metà degli anni sessanta. La mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un «Grande Progetto», abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poietico e sul piano del linguaggio poetico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, anti poesia, chiamatela come volete, con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Qualche anno prima, nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà (1968) di Zanzotto («il signore del significante» come lo aveva definito Montale), si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno

«Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. Anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1 

In verità, nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche. Davanti a questa rivoluzione in progress che si è svolta in vari stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha tascabilizzato la metafisica, da un titolo di un libro di poesia di Valentino Zeichen (1938 – 2016), Metafisica tascabile (1997), ha scelto di non prendere atto del «sisma» del 18° grado della scala Mercalli che ha investito il mondo, di fare finta che il «sisma» non sia avvenuto, che tutto era e sarà come prima, che si continuerà a fare la poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, chat-poetry.

Un «Grande Progetto»

Qualcuno ha chiesto: «Cosa fare per uscire da questa situazione?».

Ho risposto: Un «Grande Progetto».

Che non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutte le stagioni. Il problema della crisi dei linguaggi post-montaliani del tardo novecento non è una nostra invenzione, è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico. Si diceva una volta di «ontologia estetica».

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Io invece penso a qualcosa di dissimile, ad una poesia che possa durare soltanto per un attimo, per l’istante, mentre ci troviamo in soggiorno, prendiamo il caffè o saliamo sul bus; i secoli a venire sono lontani, non ci riguardano, fare una poesia «fur ewig» non so se sia una nequizia o un improperio, oggi possiamo fare soltanto una poesia kitchen, che venga subito dimenticata dopo averla letta.

Per tutto ciò che ha residenza nei Grandi Musei del contemporaneo e nelle Gallerie d’arte: per il manico di scopa, per il cavaturaccioli, le scatolette di birra, gli stracci ammucchiati, i sacchi di juta per la spazzatura, i bidoni squassati, gli escrementi, le scatole di Simmenthal, i cibi scaduti, gli scarti industriali, i pullover dismessi con etichetta, gli animali impagliati.

Non ci fa difetto la fantasia, che so, possiamo usare il ferro da stiro di Duchamp come oggetto contundente, gettare nella spazzatura i Brillo box di Warhol e sostituirli con la macarena e il rock and roll.

Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria

«Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria. Non è un fiorellino da mettere nell’occhiello della giacca: è un modo di pensare, di vedere il mondo in cui ci troviamo: un mondo confuso, denso, contraddittorio, illogico. Cercare di dire questo mondo in poesia non può quindi non presupporre un ripensamento critico di tutti gli strumenti della tradizione poetica novecentesca. Uno di questi, ed è uno strumento principe, è la sintassi: che oggi è ancora telefonata, discorsiva, troppo sequenziale, ancora identica a quella che è prevalsa sempre di più fra i poeti verso la fine del secolo scorso, in particolare dopo l’ingloriosa fine degli ultimi sperimentalismi: finiti gli eccessi, la poesia doveva farsi dimessa, discreta, sottotono, diventare l’ancella della prosa.»

Rebus sic stantibus

Che cosa vuol dire: «le cose come stanno»?, e poi: quali cose?, e ancora: dove, in quale luogo «stanno» le cose? – Ecco, non sappiamo nulla delle «cose» che ci stanno intorno, in quale luogo «stanno», andiamo a tentoni nel mondo delle «cose», e allora come possiamo dire intorno alle «cose» se non conosciamo che cosa esse siano. (Steven Grieco Rathgeb, 2018)

«Essere nel XXI secolo è una condizione reale», ma «condizione» qui significa stare con le cose, insieme alle cose… paradossalmente, noi non sappiamo nulla delle «cose», le diamo per scontate, esse ci sono perché sono sempre state lì, ci sono da sempre e sempre (un sempre umano) ci saranno. Noi diamo tutto per scontato, e invece per dipingere un quadro o scrivere una poesia non dobbiamo accettare nulla per scontato, e meno che mai la legge della sintassi, anch’essa fatta di leggi e regole che disciplinano le «cose» e le «parole» che altri ci ha propinato, ma che non vogliamo più riconoscere.

Carlo Michelstaedter (1887-1910) si chiede: «Quale è l’esperienza della realtà?». E cosi si risponde

«S’io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s’io ho sete, la realtà è più o meno liquida, è più o meno potabile, s’io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun’altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri. ”Ma noi non guardiamo le cose” con l’occhio della fame e della sete, noi le guardiamo oggettivamente (sic), protesterebbe uno scienziato. Anche l’”oggettività” è una bella parola. Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno ma in sé: aver in un punto “il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo,” nella attualità della mia vita tutte le cose, l’”eternità resta raccolta e intera… È questa l’oggettività?…».2

Molto urgenti e centrate queste osservazioni del giovane filosofo goriziano che ci riportano alla nostra questione: Essere del XXI secolo, che significa osservare le »cose» con gli occhi del XXI secolo, che implica la dismissione del modo di guardare alle «cose» che avevamo nel XX secolo; sarebbe ora che cominciassimo questo esercizio mentale, in primo luogo non riconoscendo più le «cose» a cui ci eravamo abituati, (e che altri ci aveva propinato) semplicemente dismettendole, dando loro il benservito e iniziare un nuovo modo di guardare il mondo. La nuova scrittura nascerà da un nuovo modo di guardare le «cose» e dal riconoscerle parte integrante di noi stessi.

Dopo il novecento

Dopo il deserto di ghiaccio del novecento sperimentale, ciò che resta della riforma moderata del modello poesia sereniano è davvero ben poco, mentre la linea centrale del modernismo italiano è finito in uno «sterminio di oche» come scrisse Montale in tempi non sospetti.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi (1926 – 2020) con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e della sua opera migliore Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo dell’experimentum: il pre-sperimentale e il post-sperimentale oggi sono diventate una sorta di terra di mezzo, un linguaggio koinè, una narratologia prendi tre paghi uno; dalla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956)  si passa alla stagione postindustriale: con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese,. La poesia italiana vivrà una terza vita ma in un cassetto: derubricata e decorativa.

Breve riepilogo

Se consideriamo due poeti di stampo modernista, Ennio Flaiano (1910–1972) negli anni cinquanta e Angelo Maria Ripellino (1923-1978) negli anni settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi: Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremmo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista?, ma è la sua metafisica che oggi è diventata irriconoscibile. La migliore produzione della poesia di Alda Merini (1931 – 2009) la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio, con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli (1930 – 1996, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista, come schiettamente modernista è la poesia di Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1976) e l’Antologia Tu quoque (2014), di Giorgia Stecher di cui ricordiamo Altre foto per un album (1996, e Tutte le poesie, Progetto Cultura, 2022) e Maria Rosaria Madonna (1940- 2002), con Stige (1992), la cui opera completa appare nel 2018 in un libro curato da chi scrive, Stige. Tutte le poesie (1980-2002), edito da Progetto Cultura di Roma. Il novecento termina con le ultime opere di Mario Lunetta, scomparso nel 2017, che chiude il novecento, lo sigilla con una poesia da opposizione permanente che ha un unico centro di gravità: la sua posizione di marxista militante, avversario del bric à brac poetico maggioritario e della chat poetry, di lui ricordiamo l’Antologia Poesia della contraddizione del 1989 curata insieme a Franco Cavallo, da cui possiamo ricavare una idea diversa della poesia di quegli anni.

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».3

Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata e capovolta, diventa soggettiva, si riduce ad un principio, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità mitiche del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.

Il caso Mario Lunetta

Questo assunto Mario Lunetta (1934 – 2017) lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.

La pseudo-lirica privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

La nuova fenomenologia del poetico

L’estraneazione è l’introduzione dell’Estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi attori nel luogo già conosciuto. Il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della nuova poesia. Queste sono le categorie sulle quali la nuova poesia costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo forfettario, è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; i simboli, le icone; i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte, nella vita e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story lo story telling… si tratta di flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback. Non ci sono più le problematiche privatistiche. È il vuoto però.

Lo stile della NOe (nuova fenomenologia del poetico) è quello delle didascalie dei prodotti commerciali e farmacologici

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. La NOe scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi della NOe interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

Ma tutto questo armamentario retorico

Ma tutto questo armamentario retorico che era già in auge nel lontano novecento, qui, nella nuova fenomenologia del poetico viene archiviato. È questo il significato profondo del distacco della poesia della nuova fenomenologia del poetico dalle fonti novecentesche; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera.

L’ispirazione

L’ispirazione è rubinetteria di terza mano, utensileria buona per i pronostici del totocalcio, eufemistica della banda bassotti, cretineria della «Pacchia è finita», epifenomeno di un armamentario concettuale in disuso, concetto cafonal-kitsch, concetto da Elettra Lamborghini in topless per poveri di spirito.

Forse sarebbe meglio parlare dell’Elefante
L’Elefante sta bene in salotto, è buona educazione non scomodarlo

L’Elefante si è accomodato in poltrona. Tant’è, si fa finta di non vederlo, così si può sempre dire che non c’è nessun elefante, che i bicchieri sono a posto, le teche di cristallo intatte, le suppellettili pure, che la poiesis gode di buona, anzi, ottima salute, che non c’è niente da cambiare, che la poiesis da Omero ad oggi non è cambiata granché, che da quando il mondo è mondo la poiesis è sempre stata in crisi… come dire che il linguaggio normologato è il nostro riparo, non abbiamo più niente da dire né da fare. Ed è vero: la poesia italiana che si fabbrica in Egitto non ha veramente nulla da dire, evita accuratamente e con tutte le proprie forze di vedere l’Elefante che passeggia in salotto e che con la sua proboscide ha fracassato tutto ciò che c’era di fracassabile. L’Elefante adesso si è accomodato in poltrona. È disoccupato. Il suo posto è stato preso dai corvi.

La NOe

La NOe (nuova fenomenologia del poetico) dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, 1970, p. 76
2 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica Joker, 2015 pp. 102-103 (prima edizione, 1913)
3 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

 

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Le procedure della de-figurazione e della de-localizzazione in opera nel linguaggio poetico, Poesie inedite in italiano di Petr Hruška, traduzioni di Antonio Parente, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Dopo Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, gli ultimi poeti pensanti del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di ri-orientare le categorie del pensiero poietico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini e Lunetta la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso

Pulsar rosso 2022Marie Laure Colasson, Pulsar rosso, acrilico 30×40 cm, 2022

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«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una»

(Charles Baudelaire)

Nel suo Éloge du maquillage (1863), Baudelaire accenna alla necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare mero artificio, fiction di un homo artifex, ultima emanazione dell’ homo Super Sapiens.

La «de-figurazione» è la procedura poetica di preferenza adottata da Petr Hruška, infatti il poeta di Praga pensa lo «spazio poetico» come uno spazio dis-locato, dove gli oggetti umani e le parole che non gli corrispondono più sono, come dire, spostati, lateralizzati:

La prima neve ha accentuato ogni cosa.
La libertà dei cespugli.
I metri quadri dei monolocali.
La tenuità dei bambini
delle famiglie separate.

*

le posizioni sconosciute degli interruttori
alcuni giorni di speranza
di cose spostate

*

In cucina il ricordo del sugo al pomodoro
come
ultimo
immane
atto criminale.

Oggi applicare ai testi la de-figurazione, la dis-locazione e la trasfigurazione è un obbligo giuridico per un poeta in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e dai logotecnici implica necessariamente una caratterizzazione eccentrica della testualità e del disallineamento frastico.

È il linguaggio pubblicitario e mediatico che impone al linguaggio poetico le sue regole di condotta, non più il contrario, come avveniva negli anni sessanta; si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Così come la politica la fa la comunicazione. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estera non può fare a meno di ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima  misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.

La de-figurazione  è una procedura retorica che consente di prescrivere una «figura» linguistica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, mediante la introduzione nel testo proposizioni liberamente dis-locate, spostate, lateralizzate, liberate dalla cogenza referendaria del referente. Ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal pensiero alla parola e dalla parola al referente che corrisponde ad una parola che non corrisponde più al pensiero pensato e né al pensiero non ancora pensato; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio vuoto che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della delocalizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro da queste poesie di Petr Hruška dove l’espressione che mira al referente viene ad essere esautorata e sostituita da mini enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva. Così il referendum libertario ha sostituito la solidità del referente.

La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite, e quindi anche glocale, in esa agiscono vettori contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo (in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione) ma ci si muove nel quadro di lateralizzazioni e di smottamenti linguistici, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà già in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei. Oggi una poesia europea che non  abbia una qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni derivative ed epigoniche.  Pensare ancora con le categorie della poesia epigonica: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi, vagologismi, virtuosismi. La globalizzazione e la glocalizzazione in quanto processi macro storici non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.

È quindi impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico. È viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento secondo lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre, occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione del poetico. Dopo Franco Fortini, Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna, gli ultimi poeti pensanti del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di ri-orientare le categorie del pensiero poietico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini e Lunetta la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

(Giorgio Linguaglossa)

Petr-HruskaCenni biografici

 Poeta e storico della letteratura, Petr Hruška appartiene a quella generazione di scrittori il cui debutto letterario si colloca nel fermento culturale ceco degli anni Novanta. Nato nel 1964 a Ostrava, ha dovuto scontrarsi con i limiti imposti da una società illiberale già nella scelta dell’indirizzo dei propri studi, cosa che lo ha portato inizialmente a laurearsi in ingegneria. Soltanto dopo la Rivoluzione di Velluto e la caduta del regime nel 1989 ha potuto dedicarsi agli studi letterari (lettere ceche e teoria della letteratura) e intraprendere la carriera accademica specializzandosi in poesia ceca contemporanea. Tuttora lavora al Dipartimento di Letteratura Ceca dell’Accademia delle Scienze. Debutta come poeta nel 1995 con la raccolta Obývací nepokoje (“Soggiorni inquieti ”, Sfinga 1995), accolta con grande favore dalla critica, alla quale seguono Měsíce (“Mesi ”, Host 1998) e Vždycky se ty dveře zavíraly (“La porta si chiudeva sempre ”, Host 2002); queste tre raccolte sono state pubblicate in unico volume con l’antologia Zelený svetr (“Il maglione verde” Host, 2004). Fin dall’inizio del suo percorso letterario l’autore si è distinto per la poetica vicina al quotidiano e per le ambientazioni prevalentemente domestiche, scelta che gli è valsa la definizione da parte della critica di “poeta della cucina”. La spiccata tendenza al realismo non era una novità nella poesia e in generale nell’arte ceca, ma anzi ha costituito un’istanza sempre viva e sentita fin dal periodo della seconda guerra mondiale, quando il collettivo artistico Skupina 42 (Gruppo 42) aveva affermato il bisogno in letteratura di riavvicinarsi al reale dopo gli slanci immaginifici delle avanguardie. Va sottolineato che tale poetica era fortemente malvista dal regime, poiché essendo concentrata sul quotidiano perdeva di vista i grandi ideali additati dal realismo socialista. Hruška si riallaccia dunque a questo filone letterario, pur sperimentando e intraprendendo sentieri stilistici e tematici tutti propri. La raccolta Auta vjíždějí do lodí (“Le macchine entrano nelle navi ”, Host 2007) si discosta lievemente dalla “poetica della cucina ” elaborata fino a quel momento per approdare a spazi urbani o connessi alla dimensione del viaggio, sempre però mantenendo le ormai tipiche atmosfere d’inquietudine che costituiscono l’impronta inconfondibile dell’autore. Nel 2012 esce la raccolta Darmata, che gli vale l’assegnazione del Premio Statale per la Letteratura. Con Darmata la scrittura di Hruška raggiunge una maturità espressiva notevole: la raccolta si configura come un’indagine sulle possibilità di ognuno di travalicare la propria solitudine per entrare in un’autentica prossimità con l’altro e comprende anche testi più sperimentali che testimoniano una riflessione sulle potenzialità comunicative della lingua. Nel 2017 viene pubblicata Nevlastní (“Di nessuno ”, Argo), antologia che raccoglie i testi editi e inediti il cui protagonista è un peculiare personaggio di nome Adam. Nella raccolta Nikde není řečeno (“Da nessuna parte si dice ”, Host), pubblicata nel 2019, la poetica hruškiana, pur mantenendosi fedele a se stessa, evolve ulteriormente nello stile e nei temi, manifestando un pensiero più maturo sui valori individuali e collettivi. Come già accennato, l’autore affianca alla creazione poetica l’attività di storico della letteratura, nell’ambito della quale vanno ricordate due monografie dedicate rispettivamente all’opera di Karel Šiktanc (2010), poeta surrealista praghese, e a quella di Ivan Wernisch (2019), grande poeta sperimentale e leggendario antologista mistificatore. Oltre a ciò ha curato un’antologia di versi di Ivan M. Jirous, icona dell’underground ceco, e l’opera omnia di Jan Balabán, prosatore di grande talento scomparso prematuramente, nonché amico intimo del poeta. Scrive inoltre anche articoli per le maggiori riviste, intervenendo attivamente nei dibattiti culturali del paese. Nel 2018 si è dimesso dal suo incarico di presidente di giuria del Premio Statale per la Letteratura a causa del suo disaccordo con i recenti sviluppi politici nel paese. Nel 2020 è stato pubblicato il volume V závalu (“Nella frana”, Revolver Revue) che raccoglie articoli, prose brevi e frammenti. Cinciallegra

(Elisa Bin)

Petr-Hruska Premio Valigie Rosse V edizione

petr hruska

Poesie di Petr Hruška

La prima neve ha accentuato ogni cosa.
La libertà dei cespugli.
I metri quadri dei monolocali.
La tenuità dei bambini
delle famiglie separate.
Una cinciallegra è volata nel mio timore
che se ora morissi
la mia ultima parola sarebbe
sevo.

.

Sorriso a tutti denti

Le loro speranze ansiose
sorrisi gonfiabili di salvataggio
esperienze avventate
e altre mani madide

In questo stato di cose è il bimbo
cena inarrestabile
prima
di qualche altro giorno

.

Domenica

Il pomeriggio accalca alla finestra.
La calura
Tennessee Williams.

In cucina il ricordo del sugo al pomodoro
come
ultimo
immane
atto criminale.

. Continua a leggere

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Discorso di Vincenzo Petronelli, Lasciamo il 2022 l’anno della guerra in Ucraina ed entriamo nel nuovo anno. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua, La posizione della NOe e della Poetry kitchen nel contesto internazionale, Poesie di Miroslav Krleža e Giorgio Linguaglossa

di Vincenzo Petronelli

Promemoria per l’anno 2022 che ci lasciamo alle spalle

Senza dubbio, quest’articolo [ https://lombradelleparole.wordpress.com/2022/12/09/ilya-yashin-il-testamento-di-un-oppositore-russo-colpevole-di-aver-detto-la-parola-guerra-giunti-alla-fine-della-seinsvergessenheit-adesso-sappiamo-da-massimo-cacciari-krisis-d/comment-page-1/#comment-80210  ] ci pone di fronte ad una riflessione cruciale per le sorti del sapere e della poesia odierni, dato che il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, sfociato nell’edonistico dagli anni’80 del secolo scorso. Sappiamo peraltro come in Italia, questa stagnazione abbia investito in modo particolare la poesia, in buona parte, nelle sue forme dominati, relegata ad arte da salotto o da festival; ciò non toglie, ovviamente, che anche nel periodo suddetto ci siano state voci che abbiano tentato di fare poesia seria, ma indubbiamente l’orientamento prevalente è andato in un’altra direzione.
Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non hanno ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, è da considerare questo come uno degli aspetti più deleteri che la cosiddetta “poesia del quotidiano” ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto “velo” poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica immanente alla lingua poetica, soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) perché he più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino, nei confronti della lingua tutta.

Anche la poesia ha invece abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di “normalizzazione” politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà ann’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
La bellissima allocuzione di Ilya Jashin ci conduce direttamente al nocciolo di questo discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie. L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla “macchina politica” che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.
A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep.Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad istanze di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e nefasti come la storia ci ha del resto già insegnato.
La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.

È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare facendosi i fatti propri, ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbattersigli addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protgonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimoni, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza.

Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico – culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’ “uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che hanno di fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia, ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea della stessa controinformazione rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo un modello per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi messaggi improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.

Appare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza vengono messe in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di mettere in discussione libertà sociali ormai consolidate, per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae la sua maggior propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.
E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla nuove tirannie.
Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa questa condizione in anticipo sul in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.

Miroslav Krleža

NOTTURNO DI SAN SILVESTROMILLENOVECENTODICIASSETTE
(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)

Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle strisce di tutti i meridiani.

Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terrore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro. Continua a leggere

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Lettera di Simone Carunchio a Giorgio Linguaglosa a proposito della presentazione della Antologia Poetry kitchen tenutasi alla Fiera del Libro di Roma, La Nuvola, l’11 dicembre 2022, con l’elenco degli assiomi e delle linee di forza della poetry kitchen e due poesie dell’autore, La fine della Metafisica?

Il Mangiaparole 18 Poetry kitchen

Caro Giorgio,

Mi auguro tutto bene per te. Per me non c’è male.

Come sempre ringrazio te e tutta la redazione e i poeti che si aggirano all’Ombra per gli spunti di riflessione che vengono proposti. Ultimamente non sono più riuscito molto a seguire e ancor meno a partecipare alle discussioni sull’Ombra delle parole. Un po’ perché la produzione è talmente ampia da lasciare storditi; un po’ perché avevo bisogno di ‘disintossicarmi’; un po’ perché ho smesso di fare il pendolare e, quindi, avevo meno tempo di leggere altre carte che non fossero quelle di lavoro.

Mi sono però interessato. A fondo, all’antologia Poetry kitchen. E di questo vorrei parlare. Impulso che mi è venuto soprattutto dopo aver assistito alla presentazione del libro alla Fiera del libro di Roma dell’11 dicembre 2022. Come sai, mi occupo del giuridico, in particolare tributario, e, pertanto, in questi ultimi tre anni da fare ce n’è stato moltissimo a causa del fatto che quasi tutti gli aiuti statali erogati per fronteggiare le varie urgenze, prima sanitaria e poi bellica, sono passate per il fisco. Materia, quella tributaria, peraltro, ancora alla fase embrionale (rispetto per esempio al diritto civile).

Prendo spunto da queste brevi note iniziali, concernenti in particolare la mia utile attività, per mettere subito in chiaro, come già feci presente anni fa (era il 2017, ormai, quando ti inviai una lettera sulla NOE, poi pubblicata il 5 giugno 2017 su L’Ombra delle parole, sui temi del frattale, dello spossessamento dell’io e del giudizio), che non mi trovo affatto in accordo con espressioni tipo “la fine della metafisica”. La metafisica, infatti, che si concretizza in tutto ciò che esiste (ma magari non c’è, ma talvolta anche sì), si manifesta quotidianamente, a mio parere, in primo luogo nell’istituzione, la quale non è finita per niente; anzi: pare più viva che mai! Forse anche troppo! Ciò che è venuto a mancare è l’ontologia, il discorso sull’essere (e il dover essere e il non essere e il poter essere), il quale è talmente complesso che racchiuderlo in solo discorso pare davvero impresa impossibile.

In ogni caso, forse, si sta dicendo la stessa cosa, solo utilizzando e sostituendo i due diversi vocaboli. E così arrivo a bomba a uno dei capisaldi del tuo Saggio introduttivo La poetry kitchen presente in apertura dell’antologia di poesia contemporanea Poetry Kitchen: la fine della metafisica.

Comunque sia, premetto, prima di addentrarmi nell’analisi del Saggio, oggetto primario di questo intervento scritto, che, come già affermato in precedenza, mi sono deciso a scriverti in proposito perché, come sai (o almeno credo che tu sappia), sono stato presente alla presentazione della suddetta antologia alla Fiera del libro di Roma del 2022 di pochi giorni fa, riuscendo a comprendere meglio il ‘gesto’ insito nel modo di fare poesia in Cucina. Ciò che ho appreso in presenza è l’oggetto secondario di questo intervento scritto. Naturalmente il mio scopo attuale è quello di spingere sempre più in là il pensiero.

Antologia Poetry kitchen

Orbene, che si ricava dal Saggio introduttivo?

Sulla base di un solido pensiero filosofico (Žižek e Agamben in primis, ma anche Platone; Foucault, Lyotard, Wittgenstein, Adorno, Baudrillard, Welsch, Desideri, Ferraris, Leopardi, Marx, Heidegger), che prende in considerazione la sociologia, la psicoanalisi, la politica, l’esistenzialismo, mi sembra che si affermi:

– che la realtà, la vita, è troppo per essere presentabile e trattabile;
– che l’ideologia è di supporto alla realtà;
– che la realtà è divenuta liquida;
– che la realtà è relativa (compreso il soggetto e l’oggetto);
– che la realtà è divenuta tecnologica;
– che si è nell’epoca della fine della metafisica;
– che l’umanità è suicidaria;
– che il linguaggio non ha più contatti con la realtà;
– che il soggetto è assoggettato al linguaggio;
– che il soggetto ‘artistico’ cerca di dominare il linguaggio;
– che l’arte è imitazione di imitazione di idee (imitazione della realtà?);
– che l’arte è tale perché lo decide un’autorità;
– che qualsiasi oggetto può divenire arte (e che quindi c’è un progresso fenomenologico sociale nel quale l’arte da aulica è divenuta bassa);
– che nell’arte c’è un di più che corrisponde a ciò che non c’è;
– che il concetto di mimesis non è più valido;
– che la nuova poesia è evento linguistico (e che pertanto rappresenta se stesso?);
– che la nuova poesia è affollata di mondo;
– che la nuova poesia corrisponde al sublime tecnologico;
– che la nuova poesia non ha più messaggi da inviare;
– che la nuova poesia ha origine in un luogo (mistico) precedente al linguaggio (alla lingua?) (Es, Inconscio, Preconscio) (fondamento negativo);
– che la nuova poesia è fuori dal significato, dal significante e, forse, anche dal significativo;
– che la nuova poesia è gratuita;
– che la nuova poesia è rivoluzionaria (poiché tende a nuovo ordine delle cose);
– che la nuova poesia è performativa (è quello che è);
– che il nuovo poeta non vuole dominare il linguaggio;
– che la nuova poesia è realistica al massimo grado, in quanto irrealistica;
– che la nuova poesia non ha più niente da dire;
– che la nuova poesia non propone nessuna etica (morale?);
– che la nuova poesia questiona la verità;
– che la nuova poesia è un prodotto dell’attività immaginativa e della tecnica;
– che la nuova poesia ha come tecnica di riferimento quella del cinema (montaggio) (e che quindi sintassi e semantica sono ‘antiquate’);
– che la nuova poesia, come qualsiasi prodotto della creazione, ha come scopo il non detto;
– che la questione fondamentale è l’adattamento al Nuovo in gioco di perenne dialettica (degli opposti, dei contrari, della contraddizione).

Corretta la ricostruzione del messaggio del Saggio? Mi pare di sì. Eh sì: la dialettica, la dialettica degli opposti. Quando un discorso può effettivamente dirsi vero (e non falso)? Forse solo quando è contraddittorio, poiché rappresenta fedelmente la realtà, o meglio la percezione logica della realtà, la quale, come dimostra la fenomenologia, quando è sottoposta ad analisi (la realtà), essa non può che apparire contraddittoria: è la struttura della lingua fonetica (esemplare in questo senso è Linee di fenomenologia del diritto di Kojève: alla fine della storia – che si potrebbe anche identificare con il presente non analizzato – il diritto è tutto e niente allo stesso tempo).

Il Saggio introduttivo mi pare che sia perfettamente dialettico nella sua logica consequenzialità. Per esempio: la poesia non ha più niente da dire, ma dice la questione della verità; la poesia è nella verità che rappresenta se stessa, ma essa rappresenta la realtà liquida; il soggetto artistico tenta di dominare il linguaggio, ma il poeta non vuole dominare il linguaggio; etc. Un discorso dialettico così strutturato è un discorso forte, difficile da attaccare. Per farlo, rispettando la stessa dialettica, è necessario quindi porre di fronte al testo un contesto diverso e, in più, identificare alcuni valori, alcune fondamenta, che non sono messi in discussione nel testo ma ne appaiono come i capisaldi.

Un primo fondamento è il seguente: la poesia è un’arte. Ma siamo certi di questo?

Un secondo fondamento è che il nulla possa produrre l’essere. Ma siamo certi di questo?

Relativamente a tale ultima questione (che poi ci può condurre alla prima), la quale deriva da un’impostazione esistenzialmente atea, si può opporre, per esempio, il pensiero religioso, nel quale si afferma: come è possibile affermare, come fanno in molti, che dal nulla scaturisca qualcosa? Solo da una cosa può scaturire una cosa: il non essere è una cosa come anche l’essere è una cosa (tra i vari: Kardec, Il libro degli spiriti). Certamente è poi possibile discettare su che tipo di cosa sia: ci sono cose che esistono, ma non ci sono (per esempio la responsabilità), e ci sono cose che esistono e ci sono (per esempio un bicchiere).

E tale questione interpretativa si pone al massimo grado nella lingua e nelle creazioni effettuate mediante la stessa, ossia, in particolare nella poesia. Nell’ambito delle altre arti (pittura, scultura, fotografia, musica, cinema, etc.), vale a dire di altri linguaggi, la questione del non essere si pone più che altro in via speculativa, ossia di discorso (naturalmente logico) sull’opera d’arte, e non afferisce direttamente all’opera in sé, la quale è lì, presente, nella complessità dei suoi significati nell’istante stesso della fruizione.

Ecco che quindi la riconducibilità della poesia alle altre arti (e pertanto alla loro condizione di prodotto di mercato) mi pare non così scontata (senza contare il diverso impegno degli arti, del corpo, nelle arti e nella poesia, la differente fruizione da parte dell’utente, etc.). Ne consegue, quindi, che anche l’analogia tra l’artista e il poeta possa e debba essere messa in discussione (e quindi dovrebbe essere messa in discussione la comunanza che tra le varie categorie della creazione è stata effettuata dalle avanguardie del secolo scorso).

In questo senso il ruolo del poeta e dell’artista nel mondo contemporaneo dovrebbero forse essere distinti: il poeta mi pare che possa sopportare una ricostruzione della realtà, nella sua verità, molto più complessa di quello che può avvenire nelle altre arti, soprattutto per la semplicità tecnica del suo mezzo, la quale non ha necessità di importanti supporti esterni (quali apparecchi e strumenti vari).

In più il poeta ha a disposizione la stessa ‘materia’ delle istituzioni: le parole. Ecco che quindi il fascino per il cinema non può eliminare le tecniche proprie della parola: retorica e sintassi in primo luogo. Inoltre non è possibile scappare al senso: esso può essere latente o patente, ma è comunque presente (anche perché, comunque sia, la letteratura è sempre autobiografica, che essa espliciti l’io o meno). O almeno il lettore è automaticamente indotto a cercarlo.

Per esempio, io lettore ho dato un senso ai versi della Tagher e di Intini citati nel Saggio: Ewa si rende conto che non può sfuggire al senso (e il senso attualmente è quello del galoppatoio, quale metafora della condizione umana nella nostra società), o, meglio, che per lasciare gli stacci ha necessità di cominciare a galoppare; e Intini sopravvive alla socialità (scafandri e onde radio quale metafora della stessa società organizzata come un galoppatoio) per cercare qualcosa di intimo. In questo senso ho quindi trovato piacere in altre poesie, le quali mi hanno permesso di interpretare la realtà diversamente da come mi capita di fare in automatico. Continua a leggere

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Le figuralità e le Figure nella poesia Kitchen, La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso, Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati e costituiscono un non-luogo, un atopon, Poesie kitchen di Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Mauro Pierno, Mimmo Pugliese, Jacopo Ricciardi, Ritratto di Giorgio Linguaglossa, fotografia, È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta ha il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì; soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto

Ritratto di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson, Ritratto di Giorgio Linguaglossa, fotografia 2022

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Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé, se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,
celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)

Le figuralità nella poesia kitchen

Nelle figuralità presenti nelle poesie kitchen si può rintracciare il percorso che unisce e separa la poesia del novecento e/da quella della nuova ontologia estetica. Sono le figuralità che fanno la differenza.
Le figuralità sono delle vere e proprie tecnicalità, ripropongono la stessa logica anti-entropica e al contempo auto-trascendente della vita. Sono l’espressione di quel fondo pre-individuale presente in ciascuno di noi.

Ogni figuralità è tecnicalità. In ogni oggetto tecnico della poiesis possiamo vedere in atto la dynamis della «natura» umana, quella dimensione originaria che consente all’uomo di esternarsi e di porsi in relazione con quanto lo circonda; quel supporto naturale che permane come un apeiron, serbatoio di potenzialità infinite. L’artificialità delle figuralità non è dunque in alcun modo opposta alla spontaneità produttiva della natura, è anzi consustanziale all’artificialità che contraddistingue l’azione umana, che rappresenta la «natura» umana in svolgimento. La tecnicalità rende visibile al di fuori non tanto semplicemente ciò che l’uomo è nel di dentro, quanto il processo dentro-fuori e io fuori-dentro. La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso.

Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati. Una delle leggi antropologiche fondamentali è quella dell’immediatezza mediata, strutturalmente connessa a quella dell’artificialità naturale, nonché a quella del luogo utopico, del non-luogo a-topon.

Parlare di tecnica e di naturalità delle figuralità vuol dire parlare del medesimo. Le figuralità sono la spia di una poesia altamente artificiale, in quanto la tecnica è essa stessa prodotto di artificio, prodotto della dimensione aperta, storica, evolutiva e ibrida dell’essere umano. L’ibridazione con l’alterità nasce da una incompletezza che non è un difetto da colmare bensì una possibilità che conduce ad un oltre, che è per l’uomo la possibilità produrre una dinamica ad un tempo biologica e culturale, innata e acquisita, ontogenetica e filogenetica. La fisicità umana è fondamentalmente protesica, la physis umana è immediatamente meta-fisica.

Già Carlo Marx affermava che l’uomo è Gattungswesen, essenza generica o ente naturale-generico, apertura potenziale al mondo che si determina in modalità temporale e comunitaria. L’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso; è in rapporto-a e in relazione-con (zoon politikon); la sua natura non rigidamente statica, ma dialettica e dinamica lo spinge verso il mondo per entrare in rapporto con esso. Che l’uomo abbia un Verhältnis (tanto “relazione” quanto comportamento, azione: relazione), significa che la sua condotta di vita è una questione di modi di essere, il suo comportamento concerne il come agire in ogni determinata situazione.L’uomo è per natura uno sperimentatore, è sempre al di là (ek) del limite (peira) immediato imposto dalla natura. L’uomo è il medium tramite cui la natura si spinge al di là dei propri limiti. La tecnica appartiene all’essenza umana come esserCi, va inserita nel mondo, come disvelamento pro-vocante che pro-cede da physis, dal disvelamento producente del mondo che tocca l’uomo come natura che si fa storia. Se la techne è un modo dell’aletheuein dell’essere, è perché essa è la pro-vocazione della natura nei confronti dell’uomo, è quel movimento di fuoriuscita da sé con cui la physis chiama a sé nella forma del superamento di sé, apre lo spazio dell’umano, costituisce l’uomo in quanto ente storico-culturale in quanto ente che deve corrispondere al movimento sottrattivo di una natura che si dà nascondendosi e venendo meno nella sua immediatezza. L’uomo è così per sua natura un ente non-centrico, ec-centrico rispetto a qualsivoglia forma di centricità, di chiusura autocentrica; è sempre s-centrato e de-centrato rispetto a se stesso.

Se «espandiamo [e introiettiamo] tecnologia», è «per scoprire chi siamo e chi possiamo essere… la tecnica, i suoi apparati, non sono una deviazione rispetto alla norma o alla natura umana, ma piuttosto ne sono una amplificazione, una stilizzazione e una manifestazione eminente. […] Ciò che avviene attraverso la tecnica è una vera e propria rivelazione: ciò che si oggettiva nelle protesi è la natura umana, noi possiamo sempre specchiarci negli attrezzi che abbiamo fabbricato […] e dirci: ‘Questo sei tu’. […] La tecnica non è aberrazione, è rivelazione, ci mostra chi siamo davvero, e funziona non come uno specchio deformante, ma casomai come un microscopio o un telescopio»1.

1 M. Ferraris, Anima e iPad. Rivelazioni filosofiche, Guanda, Parma 2011, 11, 68.

Strilli Transtromer le posate d'argento

Poesie a-centriche di
Mauro Pierno

La parte meno esposta.
La parete del divisorio, questo lo ricordi?
L’ultima sigaretta,
va bene, la penultima!
L’orientamento spostato a ovest,
troppa luce! È quanta polvere, ancora?!
Hai dimenticato ancora
le lenti nel cassetto.
Queste, queste
dovresti averle sempre con te Jack.
Hai tante donne per la testa Jack!
I visipallidi ispirano così tanta devozione.
Caricate…
puntate…fuoco!

*

La pagina elettronica ha le sinapsi allungate
una silhouette a basso costo,
le code dei cavalli arrugginite.
La scopa, Hansel,
ha in dotazione un aspiratore elettronico
ed un pettine per crani calvi
e sdentati.

Mimmo Pugliese

Gatti e pavoni

Gatti nelle steppe tengono per mano arance
vele schiacciano briciole sul cartongesso
un trattore elettrico scuote alberi di catrame
nel garage del Colosseo
hanno profili di melagrana le donne gitane
i fucili degli argonauti ululano alla serotonina
l’abilità dei licheni persuade l’inviato speciale
il pollice di Robin Hood è depresso
no, è vivo! fa la corte alla glottide
gli acini non si radono da tempo
il gallo allude
gladiatori contaminano l’olio di oliva
gli apostrofi corrono in salita
dalla punta dell’Adriatico si vede Stonehenge
il bonus casa telefona alla luna
il cerume soffre di insonnia
Paperone starnutisce ai pavoni

Jacopo Ricciardi

brani poetici tratti dall’antologia Poetry Kitchen (2022).

Un mal di testa è un grande ombrello nero
una piovra con un eccesso di tentacoli.
Un gatto dal dorso ardente
acciambellato in ogni cosa
sogna un mal di testa. Qualche gatto
si alza per correre senza fine –
insegue il mal di testa
sotto l’ombrello.
Un mal di testa entra nel piccolo cranio del gatto
che non sa dove andare. Ogni direzione
è possibile
sarà svolta seguendo il vortice di un orecchio.

*

Si immergono luminosi dentro anelli scuri.
In su si afferrano con unghie a mezzaluna
a successive orecchie e discendono quatti
un orecchio alla volta sulle tracce di un mal di testa
guardando ripiani di pietra e pareti finire
nell’acqua di una terma – entra
ogni gatto in una bolla
espulsa dal fondo terrestre fino a una fessura
e salendo nel caldo liquido e aprendosi sulla superficie
lancia il felino nell’odore pregnante
mentre riposa acceso di luce su un calore
memoria di un indimenticabile bruciare.

*

Un podismo estenuante
che genera gatti infiammati
fermi accanto ai falò.
Altri falò soli
figli del non muoversi
del mancato saluto
stuprati da ogni cosa
in un respiro che va a onde circolari.
Queste lagune immobili
come stratificazioni di sanguisughe
bocche contro bocche che trovano solo aria
e rumori di tarli che avanzano che arretrano
salendo o scendendo fintamente nell’idea.

*

La folla di ceppi cade insieme
sanno di resina
che cola nella spaccatura circolare
lì si arrampica sui cerchi del legno
li discende come gradini –
il proliferare del tempo è in briciole.
Il tonfo che fanno a terra è sordo
e non scompone la resina appiccicata.
Le orecchie appiccicate alla resina al tronco.

*

Molti gatti in corsa su differenti vortici di orecchie
sotto il grande ombrello nero di una piovra.
Saltano sulle groppe dei segugi –
vanno riconoscendo il luogo con la lingua –
accendendoli appena e bruciacchiandoli
per finire nel fondo inghiottiti in una nascita –
lì in fondo la vasca della sauna
dove trapela una terma
dove l’acqua è ferma
percorsa da un respiro circolare
stigma di un luogo
come dei ceppi caduti riassorbiti densi in essa.
Sul largo ombrello una miriade di falò.
Intorno sta un paesaggio deforme.

Strilli Tranströmer 1

Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire, e in un ritratto non si possono disegnare. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Fare un ritratto è un atto subdolo: cercare di scavare nell’inconscio del Conscio senza darlo a vedere, non c’è principio di ragion sufficiente che regga. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio e fatto, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’Altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto. Il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre e come può, riproponendo di continuo ciò che non può esser detto in altri modi, ovvero, con altre parole; in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto, e così allarga il campo della dicibilità e restringe quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis. L’ontologia positiva è questo allargare di continuo il campo della dicibilità restringendo quello della linguisticità.

È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta ha il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì; soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende: ciò che io intendo è sempre diverso da ciò che io dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.

Pensare l’Evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo» del linguaggio è una sciocchezza e una improprietà; chi è fuori del quel «luogo» linguistico non comprenderà mai l’Evento di quel linguaggio che deriva da quel «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo: il situarsi emotivamente dell’Esserci in un «luogo linguistico». Ogni luogo ha la sua particolarissima tonalità emotiva, il suo personalissimo colore. E la poesia è il miglior recettore di questa tonalità.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Jacopo Ricciardi, poeta e pittore, è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn. Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), Dei sempre vivi (Stampa 2009, 2021), Quarantanove Giorni  (Il Melangolo, 2018), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il Melangolo, 2015). Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste PoesiaL’immaginazioneSoglieResine, Levania e altre. Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Ha collaborato con Il Messaggero in una rubrica di letteratura a lui dedicata: Passeggiate romane. Ha scritto di arte su Flash Art onlineArt a part of cult(ure) e Espoarte. Ha al suo attivo diverse mostre personali, E fiorente e viva e simultanea, Galleria WA. BE 190 ZA (Roma, 2001),  Nella nebbia dell’esistente, Area 24 (Napoli, 2010), Materie senza segno, Lipanjepuntin (Roma, 2010), Dialoghi d’arte, L’originale (Milano, 2011), Una stanza tutta per sé. Visioni da Shakespeare, Casa dei Teatri (Roma, 2012), Paesaggio terrestre, Area24 (Napoli, 2015), e diverse collettive Epifania, Galleria Giulia (Roma, 2000), Maestri di oggi e di domani, Galleria Giulia (Roma, 2001), Biennale del Mediterraneo, interno Grotte di Pertosa (Salerno, 2002), XXIX Premio Sulmona, Ex Convento di Santa Chiara (Sulmona, 2002), Segnare / disegnare Accademia di San Luca (Roma, 2009), ADD Festival 2011, Macro (Roma, 2011), 90 artisti per una bandiera, Chiostri di San Domenico (Reggio Emilia, 2013), Accademia Militare (Modena, 2013), Vittoriano (Roma, 2013), Ex Arsenale Militare (Torino, 2014), Tribù, Area24 (Napoli, 2014). Ha pubblicato due cataloghi d’arte delle sue opere: Jacopo RicciardiNella nebbia dell’esistente, prefazione di Nicola Carrino, Area24 Art Gallery, 2009; Jacopo Ricciardi, Paesaggio Terrestre, opere 2008-2014, a cura di Sandro Parmiggiani, Grafiche Step Editrice, 2015. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Ilya Yashin, Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”, Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto, Commenti di Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

 

Il Mangiaparole 18 Poetry kitchen
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twiter poetry di Giorgio Linguaglossa

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La ferita alla spalla Diomede l’ha guarita con insert di acido ialuronico antiadesivo, anticoagulante e ibuprofene
Erinomaco attraversando lo Scamandro ha incontrato una freccia in un occhio
Briseide è ingrassata ed è stata ripudiata
Aspasia fa la cura dimagrante
Eudossia guarda il televisore e si gode Odisseo che nel frattempo è tornato ad Itaca da quella megera di Penelope
Demostene è stato sostituito da Piantedosi
Il price cap è stato fissato a 60 euro al barile

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Giorgio Linguaglossa
5 novembre 2022 alle 17:18

È cosa nota la determinazione heideggeriana dell’essenza della metafisica come oblio della differenza di essere ed essente, nonché la contrapposizione del pensiero metafisico ad un pensiero più originario che che viene individuato da Heidegger nei detti dei pensatori aurorali presocratici. Si presenta così un contrasto: un’immagine della storia dell’essere che comincia con il pensiero autentico aurorale per poi cadere nell’oblio della differenza con l’avvento di Platone di contro ad un’immagine che pone la stessa storia dell’essere come storia dell’oblio – togliendo, allora, ogni compiuto riferimento autentico all’essenza dell’essere.
Per Heidegger la Seinsvergessenheit – l’oblio dell’essenza dell’essere, sarebbe succeduta ad un pensiero aurorale più autentico che sconosceva la Seinsvergessenheit. Da qui ecco il Wesen, l’Ente È qui in questione l’inizio della Metafisica – la quale resta pur sempre il pensiero dell’oblio.

Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto. Nella situazione attuale della storia ridotta a storialità e della fine della metafisica ridotta a fuori-della-metafisica, la parola così deiettata ridiventa «piena», priva di sfumature semantiche. Ci troviamo nell’epoca della comunicazione universale che deprime ogni sfumatura di senso e preferisce la differenza bianco/nero dove il chiaroscuro viene tendenzialmente cancellato e rimosso e il Grande Altro tende a occupare e sostituire il piccolo altro… ed ecco la parola che rimbalza come una pallina di gomma…

Marie Laure Colasson
5 novembre 2022 alle 19:31

Scrive Linguaglossa :

«Nasce allora il Partito poetico a vocazione maggioritaria. Ecco, il mio lavoro fin dagli anni novanta ad oggi si è diretto a infrangere il tegumento del Partito poetico a vocazione maggioritaria. Il Logos chiama il Nomos, potremmo dire, la parola ha perso se stessa, vaga in una zona di compromissione nella quale a latitare è il significato, il referente, l’oggetto e che nulla lo giustifica, né il soggetto egolalico né l’oggetto posizionato… la parola liberata apre al discorso libero e liberato… così nel mondo storializzato (privo di storia) la poesia del novecento si allontana alla velocità della luce…»

Così, scopriamo che il Partito poetico a vocazione maggioritaria che fa della poetologia è rimasto privo di giustificazione, scopriamo che è arbitrario, né più e né meno come il disegno di decreto legge messo giù dal ministro Piantedosi dove ti accorgi che la norma manca di oggetto, davvero! l’oggetto è scomparso, si parla di “raduni” di 50+1 persone… Non si era mai vista prima d’ora una formulazione di tal fatta: è il mondo storializzato dove tutto è possibile perché tutto è arbitrario. Il linguaggio si sta storializzando. Così una norma che commina fino a 6 anni di carcere in realtà è senza oggetto, si parla di “raduno”, e il cittadino diligente d’ora in avanti dovrà prima fare il conteggio di quante persone ci siano in un “raduno”, se sono 49 potrà partecipare ma se sono 50, NO, perché a 51 scatta la sanzione penale fino a 6 anni di carcere. È talmente grossolana questa norma con la filosofia che la sottende che, ecco: le parole finalmente liberate si rivelano arbitrarie. La ideologia che sostiene e sottende quelle parole si rivela essere ancora più grossolana, rozza, inquisitoria, totalitaria. Evidentemente Piantedosi è andato a scuola di normazione da Putin!

Due domande a Giorgio Linguaglossa

6 novembre 2022 alle 15:21

Domanda: Una strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica?

Risposta. Sì, è una lotta incessante perché il «significato» permea il linguaggio comunicazionale impedendo di scorgere ciò che è al di là di esso, il significato è la cadaverizzazione del linguaggio… e la Musa muore anch’essa soffocata dai truismi e dai convenzionalismi.

Domanda: «Il non-senso sfugge alle leggi che governano il sistema capitalistico»?

Risposta: Penso di no, penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore, del significante e della accumulazione del capitale che in sé è un non significato in quanto atto di fede. Nient’altro.
Il capitalismo è una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede, si ha fede nella crescita del capitale e nella bontà di questa crescita come il credente ha fede in Dio e nella bontà delle sue azioni. Se cessasse la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cesserebbe di colpo anche il capitalismo. Entrambe le fedi: in Dio e nel Capitale sono legate insieme in un modo misterioso…

Marie Laure Colasson
14 giugno 2021 alle 19:43

Sulle ragioni della Crisi

Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:

«Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club – racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. – «Joyce, Duchamp, Picasso, Brèton… ci trovavamo alla Coupole dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

Francesco Paolo Intini
2 novembre 2022 alle 13:04

Caro Antonio Sagredo,

prima di scrivere sull’Ombra ho cercato di imitare Majakovskij, ma anche un po’ Esenin e Lorca, Eliot e Pound e Transtromer e da quando la mia frequentazione su questo giornale è diventata costante, chiunque mi sia capitato a tiro compreso Linguaglossa e tutti gli amici che sai e che fanno a meno di raccontarsi a partire dal proprio io. Perciò è difficile stabilire cosa di realmente mio sia rimasto.
Penso a una specie di deflagrazione dei linguaggi come se tutti questi poeti avessero incontrato sotto i loro piedi una mina colma di tritolo ed al sottoscritto toccasse di ricomporli seguendo i contorni di un puzzle assurdo. Tentativo goffo e destinato a perdersi o ad essere irriso da chi cercasse nell’ opera qualcosa di somigliante alla completezza e alla logica.

Confesso però che c’è un certo piacere nel ricomporli alla luce di qualche stacchetto pubblicitario e al mondo perfetto della cucina. Provo perciò a barcamenarmi in questo Stige e a portare a riva qualche verso pellegrino. Ma come ben sai mica è facile l’entrata nella città di Dite. Angeli delle tenebre stanno lì a guardia, pronti ad arpionarli e rigettarli al largo. Molti sono i peccati da pagare e anche qui ci vuole intelligenza, grazia e molta pazienza per andare avanti. Ciao.

Ilya Yashin

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Ilya Yashin

Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”
07 dic 2022 da Il Foglio

Esorta i russi a combattere, opporsi, essere ottimisti per contrastare il regime di Putin: è il discorso che Ilya Yashin ha tenuto alla fine del processo che lo vede imputato per non aver usato l’espressione “operazione speciale” in riferimento all’invasione dell’Ucraina. Il discorso che l’oppositore russo Ilya Yashin ha tenuto alla fine del processo che lo vede imputato per aver usato la parola “guerra”. È stata proposta una condanna a nove anni da trascorrere in una colonia penale. 

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Il Capitale, per la legge della riproduzione allargata, ha bisogno di reinventare se stesso ogni giorno in modo nuovo; il capitalismo cognitivo di oggi ha assunto a tempo pieno e indeterminato lo sperimentalismo delle post-avanguardie e lo ha messo a reddito, a produrre un plus di reddito, Poesie kitchen di Tiziana Antonilli, Mimmo Pugliese, Francesco Paolo Intini, La poiesis non ha più alcuno spazio di manovra e di resilienza, neanche residuale ed epigonico; deve, se vuole superare il fosso, saltare il guado, andare sulla sponda opposta del futuro. La nuova poesia nasce soltanto andando verso il futuro, facendo un «salto» e uno «scatto» verso il futuro, mettendo tra parentesi il passato, la tradizione

Il modo di raccontare di Alfonso Cataldi parte da due personaggi reali: il figlio di sette anni e il venditore ambulante sulla spiaggia Joaquim; lo storytelling ha dunque una base di realtà ma il procedimento poetico non è mimetico, si allontana dalla mera mimesis per approdare, in modo personalissimo, ad uno storytelling in modalità kitchen. Il risultato è di ragguardevole originalità. L’ho detto molte volte che la poetry kitchen è una serie di modalità kitchen, non c’è un modello o un ombrello di realismo o di irrealismo, tantomeno il kitchen è una scuola di poiesis, il supermoderno ha messo fuori gioco e fuori campo tutte le idee di poesia racconto che abbiamo conosciuto nel secondo novecento e che sono finite con l’ultimo storytelling di Pierluigi Bacchini, lo storytelling di un mondo vegetale disertato dagli umani. Tutte quelle categorie e mini categorie che sono state impiegate nel tardo novecento: il mini canone, la poesia ottica, mnestica, memoriale, elegiaca, antielegiaca, neoorfica, adamitica, sperimentale, quotidianista etc. si sono rivelate di scarso peso e di scarsissimo orizzonte teorico e poietico.

Il fatto è che non c’è più nulla di sperimentale nel mondo di oggi perché tutto è diventato sperimentale, ogni branca di attività segue il marchio di fabbrica dello sperimentalismo, il Capitale, per la legge della riproduzione allargata, ha bisogno di reinventare se stesso ogni giorno in modo nuovo; il capitalismo cognitivo di oggi ha assunto a tempo pieno e indeterminato lo sperimentalismo delle post-avanguardie e lo ha messo a reddito, a produrre un plus di reddito; dirò di più (e questo lo dico ai giovani come Davide Galipò che pensano ancora in termini di neosperimentalismo e di post-avanguardia), lo sperimentalismo è oggi divenuto un ideologema, una stampella di sostegno del mercato che ogni giorno deve sperimentare nuove forme-merce, nuove parole d’ordine, nuovi cliché, nuovi apparati. Nelle nuove condizioni del capitalismo glocale e globale di oggi, come ha bene indicato Byung-Chul Han in Psicopolitica, la poiesis non ha più alcuno spazio di manovra e di resilienza, neanche residuale ed epigonico; deve, se vuole superare il fosso, saltare il guado, andare sulla sponda opposta del futuro. La nuova poesia nasce soltanto andando verso il futuro, facendo un «salto» e uno «scatto» verso il futuro, mettendo tra parentesi il passato, la tradizione e la sua storia ideologicaAncora è da fare il progetto agambeniano della Storia d’Italia attraverso la storia delle sue categorie, le categorie a saperle leggere e individuare, rivelano sempre il lato in ombra della storia culturale e politica del Paese..

(Giorgio Linguaglossa)

Tiziana Antonilli

Il figlio

Il figlio in Erasmus aveva perso i pantaloni negli incendi d’Australia.
Le certificazioni Cambridge sudano sulla pancia.
Flora piangeva per le lingue intrecciate in deroga.
Lui nascose nella toilette dell’aereo
i panni sporchi rifiutati dalla lavatrice di casa.

Chiusure

Un’incursione di panda ha contaminato la biglietteria.
Un pioppo divelto continua a piangere fiocchi di neve.
Il viale tornato pulito è stato acquistato dalle pompe funebri.
Ognuno ha masticato la brochure per non intasare
il sistema fognario del Comune.

Freddo

Il borsone era una pera farcita.
Con la panchina il mattino giocava a dama
ma nessuno si è fermato.
A notte fonda la coperta si trascinò in un bar
e partorì sul pavimento un lombrico viola.

Mimmo Pugliese
29 novembre 2022 alle 12:00

Gatti e pavoni

Gatti nelle steppe tengono per mano arance
vele schiacciano briciole sul cartongesso
un trattore elettrico scuote alberi di catrame
nel garage del Colosseo
hanno profili di melagrana le donne gitane
i fucili degli argonauti ululano alla serotonina
l’abilità dei licheni persuade l’inviato speciale
il pollice di Robin Hood è depresso
no, è vivo! fa la corte alla glottide
gli acini non si radono da tempo
il gallo allude
gladiatori contaminano l’olio di oliva
gli apostrofi corrono in salita
dalla punta dell’Adriatico si vede Stonehenge
il bonus casa telefona alla luna
il cerume soffre di insonnia
Paperone starnutisce ai pavoni

a proposito del «noi»

Non ci resta che uscire definitivamente dalla forbice concettuale tipica delle avanguardie e della politica leninista del novecento: distruzione/costruzione, avanguardia/retroguardia, élite/massa, classe borghese/classe subalterna, egemonizzati/omogeneizzati, apocalittici e/o integrati. In realtà siamo tutti diventati egemonizzati e omogeneizzati, eterni subalterni, mediatizzati e mitridatizzati, integrati nell’apocalisse e nell’apocope; siamo tutti diventati dipendenti delle apocope,* siamo scomparsi (deleted) e al nostro posto c’è una virgoletta, lassù, in alto. È l’epoca dello sdoganamento del nucleare facile e prêt-à-porter. Mi si dirà che sono un pessimista: forse che sì forse che no, non c’è altra via di uscita dallo standard della merce (la merce non rivela mai il suo arcano di feticcio) e dei prodotti culinari quali sono diventati i feticci «artistici». In queste condizioni la nuova fenomenologia del poetico e la poetry kitchen sono l’unica via (molto stretta, un vero e proprio collo di bottiglia) che può perseguire la poiesis oggi nel nuovo mondo semi globale e semi glocale, un mondo parallattico, nella accezione che ne dà Slavoj Žižek.

*apocope /a·pò·co·pe/ : sostantivo femminile – Caduta della vocale finale di una parola ed eventualmente anche della consonante che la precede: ‘san’ da santo; da non confondersi con l’elisione, che si ha quando la vocale finale cade solo davanti ad altra vocale. In enigmistica, amputazione.

(g.l.)

 

Francesco Paolo Intini
1 dicembre 2022 alle 22:37 
“Se un matematico è una macchina per trasformare caffè in teoremi” (Paul Erdos), cosa è un poeta? 

Il caffè crede di rimanere in tema.
Non immagina la iena che azzanna dal duodeno.

In una jeep, un grizzly
il cui unico piacere è spalmare dolore su un würstel.

Oh, il corso d’opera del distinguo sul mangiare
La misura? La sesta non copre i capezzoli.

Ma un buon caffè merita il paradiso solo a sentirlo discutere con l’aria.
-Tu hai gambe grasse per star fermo e riflettere, io ci tengo allo jogging tutte le mattine
Un fruscio qui, uno là e le malve si saziano, persino un’agave sorride
E parla di calcio, omettendo tristezze.

La debacle degli ammogliati è stato un disastro.
Speriamo l’anno prossimo. Qui tra pali del telegrafo
Non c’è modo di trovare un cent di allegria
L’ultimo Morse partì per l’Australia ma tornò vestito da poeta
Con un lenzuolo nell’obitorio e le ceneri sotto braccio.

Che serve fasciarsi di ridicolo in Parlamento?

I granchi intanto si affacciano al tema.
-È una palestra per soli scapoli. La tendina nasconde il cabaret “Allo scoglio”.
Una palla al centro si trova sempre.
Basta guardare giù in fondo e afferrare una coda di rospo.

La tv viene a galla
con i polpi attaccati ai raggi fiammanti

Un cormorano risale deluso:
c’è noia tra i programmi della lavastoviglie
E per giunta il fritto di alici ha ripreso a guizzare
Anche se rimase stecchito a gambe in su.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Tiziana Antonilli ha pubblicato le raccolte poetiche Incandescenze (Edizioni del Leone), Pugni e humus (Tracce). Ha vinto il premio Eugenio Montale per gli inediti ed è stata inserita nell’antologia dei vincitori “7 poeti del Premio Montale” (Scheiwiller). Tre sue poesie sono entrate a far parte di altrettanti spettacoli teatrali allestiti dalla compagnia Sted di Modena. Il suo racconto “Prigionieri” ha vinto il Premio Teramo. Ha pubblicato il romanzo Aracne (Edizioni Il Bene Comune) e la raccolta di poesie Le stanze interiori (Progetto Cultura, 2018). Insegna lingua e letteratura inglese presso il Liceo Linguistico “Pertini” di Campobasso.

 

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Da Mario Lunetta (1934-2017), Poesia di Satana, con video di Gianni Godi, a Davide Galipò passando per la Poetry kitchen, poesie di Giorgio Linguaglossa, Esercizio per violino e tamburo, Mitoglifici, Lettura del romanzo di Céline Menghi, Dire Mu (2019), È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

Giorgio Linguaglossa

Davide Galipò e Charlie Nan sono sulla strada giusta, il loro tentativo è beneaugurante e va salutato con favore… ma il problema della stagnazione della poesia italiana di questi ultimi decenni non può essere risolto facendo riferimento esclusivamente al lavoro del Gruppo 93, quello era un movimento tutto interno alla nicchia del «letterario» e del «poetico» e, inoltre, non possedeva un solido ancoraggio filosofico, non andava al di là del «letterario» e delle forme del letterario, di qui la sua presa insufficiente sullo stesso «poetico» e sul «letterario», i problemi di fondo della poiesis rimanevano esclusi dal loro raggio di pensiero. Il mio invito è andare oltre, procedere in avanti con la riflessione critica, affrontare le questioni che stanno alla base del fare poiesis oggi.

Tempo fa chiedevo :

– Dopo la distruzione delle forme avvenuta nel novecento, siamo arrivati alla distruzione dell’orizzonte di attesa. È stato qualcosa che ha colpito al cuore la poesia del soggetto panopticon, dell’io plenipontenziario. L’io è stato de-fondamentalizzato, il soggetto legiferante è stato de-localizzato e l’ontologia negativa di Heidegger è stata sostituita con una ontologia positiva.

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poiesis dinanzi a questi eventi epocali?

Risposta (indiretta) di Maurizio Ferraris:

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».

(Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 113)

Esercizio con violino e tamburo

K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]

Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.

«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere

e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.

«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.

Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.

«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.

Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.

Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»

(2018)

23 novembre 2022 alle 10:37 

È plausibile ipotizzare una nuova avanguardia oggi dopo la fine del post-moderno?

Mettiamo il problema nei giusti termini marxiani e chiediamoci:

Il soggetto scabroso (the ticklish subject) di Zizek è l’altra faccia della medaglia dell’oggetto scabroso (the tickish object)? Sì, o no?

Il rapporto soggetto oggetto è un rapporto dialettico e conflittuale, l’alterità dei due Fattori implica una loro riconoscibilità che è sempre data all’interno di un contesto, ovvero, di una serie di rapporti di produzione e di forze di produzione. È l’equilibrio tra queste forze contrastanti ciò che produce il soggetto e ciò che determina l’oggetto. (L’io che acquista una Fiat Punto è esattamente ciò che la merce Fiat Punto riconosce in me come acquirente. È il Capitale che sovraintende all’intero processo).

Sia il soggetto che l’oggetto sono entrambi scabrosi, osceni, inemendabili, indomandabili. La vera domanda che occorrerebbe porre al soggetto è: Che cosa sono io che compro la Fiat Punto?, o meglio, Che cosa sono diventato io per prediligere l’acquisto della Fiat Punto?

Non diversa è la posizione di un «poeta» che voglia porsi nel mercato pubblico. Il mercato pubblico riconosce in me esattamente ciò che io sono: un venditore di merci. Questo è quanto. Se «io» come «autore di poesia» mi metto sul mercato delle merci poetiche, sarò riconosciuto dal mercato delle merci poetiche esattamente così come io mi sono messo in vendita. Che poi la mia personale predilezione sia verso una nuova avanguardia e verso una nuova retro guardia non fa alcuna differenza. Il nuovo Capitalismo cognitivo queste cose le ha digerite da alcuni decenni, sa che l’io come soggetto, che l’attività del soggetto è quella di sottomettersi alle condizioni poste dal mercato delle idee e dal mercato delle merci, altra via di fuga non c’è, se non nella fantasia.

E allora, chiederà il lettore, quale deve essere la posizione del soggetto nelle attuali condizioni? –

Semplice, rispondo: la posizione del soggetto scabroso sarà quella di tentare di sottrarsi alle condizioni produttive che relegano il soggetto nella soggettità e l’oggetto nella oggettità, cioè porsi Fuori del meccanismo identitario e di riconoscibilità del Capitale all’interno delle quali prospera il processo produttivo e la stessa soggettività.

Davide Galipò
24 novembre 2022 alle 15:44

Caro Giorgio, mi permetto di integrare il tuo discorso con alcune riflessioni. Pasolini scriveva che l’arte è “la merce che non può essere consumata”. A tal proposito, la Neoavanguardia ha riportato, con il Gruppo 63 e l’esperienza del Mulino di Bazzano, l’oggetto-libro e nella fattispecie il libro di poesia alla sua condizione materiale di oggetto, appunto, per decostruirlo attraverso le opere dei poeti neoavanguardisti, che attraverso il collage, la performance e il segno tentavano di fuggire dalla forma-libro. La loro poesia è rimasta comunque merce, così come il loro tentativo di decostruire la narrativa degli anni ’60, ma per lo meno il loro si registra come tentativo in tal senso (leggasi a tal proposito Adriano Spatola, “Verso la poesia totale”, 1978).

Dopodiché ci sono stati gli anni del riflusso, gli anni di Piombo hanno lasciato posto agli anni della Milano da bere, nel 1989 il muro di Berlino crolla e con esso le ideologie, il neoliberismo sembra aver vinto la sua battaglia egemonica sul resto del mondo. Il Gruppo 93 e i suoi seguaci non possono, per forza di cose, contrapporsi con la loro poesia al mercato: poiché solo il mercato esiste, pena la dissoluzione totale o peggio, l’insensatezza del loro agire poetico (rimando all’articolo “Contro il presenzialismo” su Neutopia).

Con la fine del postmodernismo e l’apertura della nostra epoca pre-moderna, che io faccio coincidere con l’11 settembre 2001, anno dell’attentato a Ground Zero, ma a detta di Roberto Bolaño e degli infrarealisti potrebbe risalire benissimo all’11 settembre 1973, anno del golpe americano in Cile e della destituzione di Salvador Allende, con l’instaurazione della dittatura militare di Augusto Pinochet, si potrebbe dire che oggi l’avanguardia abbia assunto una nuova urgenza e una nuova spinta propulsiva.

Ma è un’avanguardia differente dalle avanguardie passate, che parte dalle pratiche e non dai manifesti. Una poesia che voglia essere rivoluzionaria oggi dovrebbe innanzitutto occuparsi di rivoluzionare le forme, poiché ci sono molti modi per scrivere una poesia reazionaria: la prima è nei contenuti, la seconda è nella forma.

Cinque anni fa, con NEUTOPIA e con il gruppo d’azione poetica SALINIKA abbiamo provato a dare alcune risposte in questa direzione, partendo dalle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, costruttivismo russo) per capire quale fosse il senso di una nuova avanguardia nella contemporaneità. Alcuni di noi l’hanno vissuta in chiave più situazionista, altri oggi sono partiti dall’ipertesto e dalla realtà virtuale. per comprendere quale possa essere il terreno sul quale le nostre poesie possano diventare totali, dunque entrare interamente nella realtà per proporre un campo differente da quello del mercato editoriale.

Il Liminalismo, i Mitilanti e la Poetry Kitchen secondo me sono esempi che si stanno muovendo in tal senso. A tal proposito, vi lascio il mockumentary sulla nostra attività poetica, girato a Torino nel 2017. Spero ci sarà presto occasione di approfondire il discorso. Continua a leggere

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L’Elefante ha generato un gran numero di corvi, Il corvo ha iniziato a parlare ma parla con il linguaggio delle fake news, delle ipo-verità, delle iper-verità, delle post-verità, con i linguaggi serendipici e post-edipici, cioè con i linguaggi del Labirinto e del Minotauro, Il kitchen è finto-finto, non c’è nulla di vero, nulla di mimetico, i “compostaggi kitchen” sono il finto-finto al quadrato, Poesie kitchen e commenti di Lucio Mayoor Tosi, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Giuseppe Gallo, Giorgio Linguaglossa

foto Lucio Mayoor Tosi Washington Il Colosseo

Compostaggio finto x finto di Lucio Mayoor Tosi

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Lucio Mayoor Tosi
18 novembre 2022 alle 11:54

Dieci caravelle. R. Crowe nei panni di Nettuno
giunto da Marte per fare sci nautico. Lago di Como,
Illinois.

Tazza di camomilla. Nonno sul divano.
Come essere felici in dieci secondi. Crowe
non ammette ritardi.

In questa poesia, pubblicata sull’antologia Poetry chitchen, il vero finto è resto manifesto nei primi versi. In vero finto sono scritte le recenti composizioni di Giorgio Linguaglossa, di Gino Rago, Marie Laure Colasson, oltre che nelle sorprendenti “ragnatele” di Francesco Intini e di altri. Nelle poesie di questi autori emerge anche l’elemento fantastico, non esattamente surreale, al quale va accostato il fuori senso. Sembra proprio che Vero finto, Fantastico e Fuori senso siano categorie esclusive della poetry kitchen.
Mi chiedo però se queste modalità possano bastare a se stesse, o invece debbano servire a qualcosa, cioè se debbano essere indirizzate a concretezza; quindi capire quale attinenza vi sia tra queste e l’Intenzione e la Traccia. Qui chiedo a Giorgio…

Giorgio Linguaglossa
18 novembre 2022 alle 12:03

La poetry kitchen, come un virus, aspetta il corpo vivente del linguaggio per distruggerlo e portarlo allo stato inorganico

«Ora, se c’è una forma di vita che pericolosamente muove sul confine più estremo tra l’organico e l’inorganico, questa è il virus, con la sua capacità anfibia di abitare due stati distinti. Quando non è in contatto con una cellula ospite, il virus rimane completamente inattivo. Durante questo periodo, al suo interno non si dà alcuna attività biologica. Nondimeno, questo ha poco dell’inorganico, e mostra quanto falsante sia l’opzione a tutta prima intuitiva e plastica dell’inorganico come opposto all’organico. Il virus, in effetti, è un organismo obbligato all’attesa, fermo in uno stato semplice, privo di vitalità, in cui è detto “virione”. Insensibile com’è ai tempi lunghi, il virione aspetta l’ospite appropriato, che gli consenta quel minimo, o massimo, di attività vitale mediante cui poter superare la soglia dignitosissima del vivente e sfoderare quella panoplia di arnesi e sotterfugi che lo portano all’auto-replicazione. Capacità, quest’ultima, che gli permette di correggere il viziaccio tipico degli specchi e della copula, che Bioy Casares ritiene abominevoli perché moltiplicano il numero degli esseri umani. Essì: perché l’auto-replicazione dei virus tempera, e non di poco, quella umana.»
(Mariano Croce)
da minimaetmoralia oggi

Giorgio Linguaglossa
18 novembre 2022 alle 14:28

L’Elefante ha generato un gran numero di corvi