Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

Fabio dainotti cover

L’osservazione di Andy Warhol secondo cui in futuro ognuno godrebbe di un quarto d’ora di notorietà esprime un totale scetticismo nei confronti della possibilità di fare opere artistiche tali da restare come azioni significative per i contemporanei e i posteri. Siamo diventati tutti degli scettici integrali, dei lucidi paranoici, abitiamo la follia dello psicozoico senza rendercene conto.
Occorre quindi prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: «Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione». Il delirio, la derelizione, il soliloquio a voce alta o voce bassa, soprattutto se sistematizzato e messo in forma di lirica, vorrebbe dare una apparenza di ordine e di senso alle esperienze di caos. È che è diventato impensabile dare un ordine di senso al caos dei giorni nostri, ma Fabio Dainotti è un affezionato storyteller, un raccontatore di storie, lui non vuole mettere ordine al caos né indire una gara per un concorso pubblico in materia di una lingua pura, la sua poesia è spuria, invariabilmente legata al plot, al racconto magari sui morti o sui nati morti alla maniera di Giorgia Stecher, senza però che intervenga l’elegia. Dainotti è un poeta ormai eslege e ipocondriaco, ha messo nel cassetto degli agenti patogeni l’elegia considerandola come una indebita intromissione di un esigente creditore nell’ambito del nostro conto corrente. È possibile pensare, sulla scia di Lacan, che il soliloquio sia una salutare reazione che ha luogo quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, ovvero, quel significante-escluso, significante-Padrone a cui non corrisponde alcun significato. Ora, è che questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto. La perdita di autorevolezza e di senso del soggetto-autore non riguarda soltanto la letteratura, ma ogni forma d’arte e di presenza nell’esistenza, Dainotti è uno spigliato investigatore, sa che l’intromissione dell’io nel testo poetico deve essere ridotta al minimo presentabile, e si comporta di conseguenza, la riduce ad un piccolo io che se ne sta in un cantuccio e di lì osserva lo sbrogliarsi della matassa dell’esistenza.
Questo preambolo per dire che al di sotto di quest’ultimo libro di Fabio Dainotti c’è una situazione storica di disincanto, di dissoluzione, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni prototipiche del nostro tempo di crisi epocale. Le tematiche del libro sono le più varie; mi limito a citare i titoli di alcune poesie, per lo più composte da una sola parola (Grillo, Scarpine, Sconforto, Mareggiata, Pioggettina, Bimbo, Bimba, Alla Madre, In morte, Notturno, Rimorso, Viaggi, Pierrot, Burlesque, Bisticcio, Cattedrale, Lettera, Ricordi di scuola, Sera, Ars poetica, Effe, Abatino, Sara, San Marco, Il gatto, Fillide, Congedo, Piove, Sguardo, L’albergo dei morti, Miliardaria, Mattino milanese, Mattino vicentino, Novecento, Cane e padrone, Famiglia, Cimitero marino, Orario d’apertura etc.). Come si vede già dai titoli, risalta la nominazione blasé, svagata e disincantata del dettato poetico di Dainotti:

Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori, la vita celebra
i suoi trionfi, in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne ricorderà.

È il cane il più saggio tra gli umani di oggi. È l’aspetto grottesco quello che traspare tra le parole gentili del poeta di Cava de’ Tirreni. Ecco un altro esempio di poesia disillusa e disincantata:

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Ma dove sono i re e le regine
di cartapesta con le teste mozzate?
Prigionieri di polvere e incantesimi
negli abbaini pieni
e sogni infranti e di luna.

Dov’è re Ezio, prigioniero illustre,
dove la sua bionda carceriera?
e Federico, vento di Soave,
a quale porticina di convento
bussò, stanco di vivere e di regnare?

Son tutti morti, non c’è più nessuno.
L’erba è cresciuta e ora il vento la spinge
sulla collina.

Non ci saremmo mai imbattuti in questo genere di poesia, una sorta di neo-crepuscolarismo declassato e privo di elegia, se non vivessimo in un periodo di grande crisi economica, politica, sociale, e crisi del linguaggio poetico. Dainotti risponde alla crisi plurima con un linguaggio soliloquiale, limpido e disilluso di chi ha cessato di credere alle balsamiche virtù progressive della storia, malgrado tutto, e alle virtù benefiche dell’io plenipotenziario e penitenziario:

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Ciò che resta non è neanche più il non-senso, che sarebbe pur sempre una istanza plausibile, quanto l’indebolimento del senso fino alla esaustione, fino alla fine del senso stesso. Tutti quei valori di un tempo che ci appare lontano, d’improvviso oggi non valgono più nulla, sono caduti in disuso, sono stati, come si dice oggi con una brutta parola, rottamati. Fabio Dainotti ne prende nota nel suo taccuino post-lirico e si rivolge al lettore con il suo registro post-musicale medio, con il suo tono sornione, dimesso e auto ironico da neo-crepuscolare giunto in ritardo all’appuntamento con il treno dell’ipermoderno.
La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere.

(Giorgio Linguaglossa)

da L’albergo dei morti, manni, 2023

Famiglia

“Un treno lanciato nella notte”
ci aveva portato su al Nord,
io all’università; tu per lavoro,
con la tua valigia da emigrante.
Si parlava di temi difficili: la vita,
e la letteratura, si fumava;
intanto si viaggiava
verso un incerto destino.

Era, la solitudine, ghiacciata;
neppure il vino mi scaldava il cuore.
Scrivevo lettere d’amore,
ma senza il suono di una voce umana
la voce della mia amata lontana.

Indossai il mio abito elegante,
e presi il treno da Pavia a Milano;
ed eccomi in Piazza Tricolore,
dove mi porta il tram, scampanellando;
poi pochi passi ancora, caro amico,
e suono il campanello alla tua porta.

Viene tua madre, in vestaglia ancora,
e sono già le undici.
È lei che porta avanti la famiglia,
l’emigrazione al Nord e poi il lavoro
trovato a tutti i figli. Anche al marito:

a un tratto lo intravvedo
dietro una porta semichiusa,
vestito già da vigile;
parrebbe un generale,
se non fosse il sorriso bonario.

Poi c’è Filippo, il figlio donnaiolo;
rincasa tardi d’estate, apre il frigo,
afferra qualche cosa da mangiare
incurante di me; poi ti canzona
bonariamente e se ne va a dormire.

Cimitero marino

Mia madre, il generale,
(così, scherzosamente, i suoi nipoti),
ha prenotato, ieri, una cappella
al cimitero; non di campagna;
rivierasco: costiera cilentana.
Mi sento sollevato:
non voglio essere interrato
da solo, senza tutti i miei parenti;
da solo, come sono sempre stato.

Laggiù sono cresciuto,
tra le colline e il mare,
coi miei fratelli, con la mia cavalla
ombrosa come me, nella sua stalla
di legno. Laggiù i primi amici:
il figlio del barbiere, perdite amans
(in traduzione innamorato perso)
di una biondina, che non se lo filava
per niente; e Nunziano Sarnicola,
orfano, così giovane, di padre,
sempre con la maglia nera:
sembrava strana, quando lui rideva.

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Orario d’apertura

I
a Claudio, morto giovane

Da un bar all’altro, da un locale all’altro,
aspettanto l’orario d’apertura.

A volte c’era una ragazza, una
che amava te, la Carla; un’altra presa
da quella nostra vita vagabonda.

Si univa a noi sovente Marco, ma una sera
che si faceva tardi, scappò via
dal cinema imprecando
(l’indomani doveva lavorare
per non perdere il posto un’altra volta).

Aveva una tresca con una
donna di quarant’anni, maritata;
per giunta una parente, sua cugina;
e, se non bastasse, zoppa: una sciancata.
C’era da sbellicarsi dalle risa.
Ma anche da invidiarlo, sotto sotto:
ci raccontava dei particolari
piccanti, segreti d’alcova,
che la sua amante, esperta, conosceva.
Lui non voleva, giustamente,
che noi se ne parlasse ad alta voce. “penseranno
che vado a letto”, disse, “con mia nonna!”

Non aveva nessuno;
quella donna attempata soltanto,
che gli donava uno straccio d’amore,
come un profumo –
e noi. Perciò al funerale (era stato
un incidente d’auto, lui guidava
un furgone: il suo ultimo mestiere),
c’eri soltanto tu, fratello, dietro
al feretro, in una clemente
giornata di pioggia, su al Nord.

da un bar all’altro, da un notturno all’altro,
e sempre alla ricerca di qualcosa.

Uno sguardo d’intesa, una parola
del lessico familiare, smozzicata,
per suscitare una risata,
tra una sigaretta (sempre l’ultima)
e un bicchiere, quello della staffa.

II.

E c’era pure Emanuele Zilli,
una guardia giurata: una notte
facemmo lega con certe donnine;
provvedevamo noi al pagamento
da parte dei clienti; uno di loro,
un po’ brillo, di soldi non ne aveva:
pagò con uno cheque, che provvide lo Zilli a staccare;
gliene rimasero altri due in mano.

Al mattino pensava di incassarli
presso la Banca, ma tu gli dicesti:
(si era davanti a un bar,
aspettando l’orario d’apertura),
“Ma vuoi finire sui giornali?”

Andammo a casa sua, una sera, la moglie
che non sapeva niente dell’invito,
quando Emanuele aprì la porta: “Buh!”
gli fece, per farlo sobbalzare.
Poi ci vide, arrossì
come una bimba: la povera gente
si divertiva così, con un niente.

E adesso se n’è andato pure lui, caduto
dal motorino, battendo la tempia
su un marciapiedi; dissero, però,
gli amici a crocchi, piano, al funerale,
che era stato ammazzato.

fabio dainottiFabio Dainotti è nato a Pavia nel 1948 e vive a Cava de’ Tirreni. Le sue raccolte di poesia: L’araldo nello specchio (prefazione di Francesco D’Episcopo, Avagliano editore, 1996); Sera (Pulcinoelefante, con un disegno di Salvatore Carbone); La Ringhiera (nota di Vincenzo Guarracino, Book Editore, 1998); Ragazza Carla Cassiera a Milano (con disegni di Valerio Gaeti, Signum, 2001); Un mondo gnomo (Stampa alternativa, 2002); Ora comprendo (prefazione di Luigi Reina, Edizioni Scettro del Re, 2004); Selected poems (Gradiva, 2015); Lamento per Gina e altre poesie (prefazione di Sandro Gros-Pietro, Genesi Editrice, 2015). Ha collaborato a numerose riviste di settore ed è presente in molte antologie. Ha curato la pubblicazione Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (Bulzoni, 2010). È condirettore dell’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. fabiodainotti@libero.it

7 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea

7 risposte a “Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

  1. PIETRO EREMITA

    Una descrizione nemmno tanto poetica di una narrazione nemmeno tanto poetica.

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  2. antonio sagredo

    Gent.le Dainotti,
    mi sarebbe piaciuto di più un titolo come “l’Ospizio dei morti” comunque…
    avrebbe dato più senso ai Suoi versi:

    non voglio essere interrato
    da solo, senza tutti i miei parenti;
    da solo, come sono sempre stato.

    poichè non è la solitudine del vegliardo che bisogna cantare (che è scontato) quanto il rancore che i Morti portano verso chi è prossimo alla Morte, e non vuole morire.
    Non sono dunque i residui e i frammenti che restano a dover essere motivo esistenziale quanto la fine di questi avanzi che non trovano luoghi e tempi dove depositarsi, e restano sospesi nella speranza di divenire sostanze compatte e organiche sempre

    da un bar all’altro, da un notturno all’altro,
    e sempre alla ricerca di qualcosa.

    Siffatta resurrezione non avverrà mai perchè “forse, priva di una vera ragione per esistere” . (Linguaglossa)
    ——————————————————
    Mi fa piacere che Lei viva a Cava dei Tirreni, città che conobbi già poco più che nenonato, e che dissero alcuni parenti… mi salvò la vita, ma non dalla Morte, aggiungo. io.

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  3. Le democrazie parlamentari dell’Occidente sono affette da una sindrome che definirei della Catastrofe permanente, una Todestrieb che ci sovrasta in quanto dentrificata nella psiche degli umani. Viviamo in un mondo sul quale incombe uno stato di catastrofe e di auto-catastrofe; il mondo della minaccia atomica sdoganata a fattore tattico di intimidazione dell’avversario è un mondo nel quale è sempre possibile una deflagrazione nucleare, un conflitto senza leggi né regole combattuto per la liquidazione fisica e totale del nemico.

    Nel Reale si è aperto un “buco”. Con la locuzione Catastrofe permanente intendo quando un sistema complesso giunge ad un punto di rottura dell’equilibrio di forze strutturalmente divergenti e contraddittorie, un punto in cui tutti i parametri vengono, per così dire, capovolti, cioè non corrispondono più ai precedenti (alla catastrofe) parametri di riferimento. Quando tante piccole variazioni si verificano entro un sistema di riferimento, esse provocano la distruzione di quel sistema, una vera e propria morfogenesi che partorisce un mondo capovolto, dal quale si può guardare al vecchio mondo come un mondo catastrofizzato in quanto, appunto, capovolto.

    La guerra di invasione dell’Ucraina rischia di far traboccare il vaso di Pandora della Unione Europea. È ovvio che in questo rivolgimento del mondo capovolto venga a capovolgersi anche la poiesis.

    I fantasmi presenti nella poetry kitchen hanno la consistenza di un buco, di un vuoto di senso, assumono il carattere di fantasy, di storytelling. Occorre dunque distinguere tra “realtà” e Reale: la prima è strutturata simbolicamente e costituisce la struttura reticolare in cui viviamo nel quotidiano, mentre il secondo è il trauma che interrompe questo normale fluire. Di più: la realtà simbolicamente strutturata non è un sistema dominante dispotico, ma una “fragile ragnatela” transitiva, fluida, ostacolata internamente proprio dal blocco del Reale traumatico – e proprio per questo sostenuta dalla fantasia, che quindi svolge anche un’altra funzione, quella di “sostegno ontologico” del Reale traumatico.

    Lo storytelling dell’io di Fabio Dainotti tenta di reagire a questo “vuoto” traumatico raccontando delle storie. In fin dei conti le storie sono dei tentativi di riempire e suturare quel vuoto di senso, quel “buco”. I personaggi di cui è piena la poesia di Dainotti fungono da fantasmi. Se vogliamo è da questo punto di vista che dobbiamo leggere la sua poesia. Il mondo si è capovolto (si sta capovolgendo) e anche la poesia si sta capovolgendo. Le guerre di Israele e di Ucraina decideranno delle future guerre e del capovolgimento del mondo che si avrà con la vittorie (eventuali) degli Stati autoritari e delle destre autoritarie del mondo (Russia, Iran Cina, Corea del nord etc.) alleate delle destre deglle democrazie di Occidente. La poesia di Fabio Dainotti io preferisco leggerla come lo storytelling di un mondo che sta per finire, il canto del cigno. È sempre il contenuto politico, il sottofondo del contenuto politico che decide gli esiti ultimi delle forme artistiche.

    Ieri ero in macchina con Marie Laure Colasson e Edith Dzieduszycka, tornavamo da un evento che si era tenuto al caffè letterario Mangiaparole (dove ho incontrato Alfonso Cataldi), e sono rimasto incastrato nel fraffico per un’ora e mezza a causa della manifestazione femminista e femminile del Circo Massimo (che era finita due ore prima). Ecco, finalmente ho visto una marea umana di giovanissimi/e (13, 14 anni) e di famiglie che avevano manifestato per uno stato non più patriarcale, per uno stato dei diritti. Ieri sera ho capito, come un flash, che saranno le rivendicazioni per lo stato di diritto che capovolgerà l’attuale maggioranza di governo in Italia (e in Europa), la richiesta di diritti più ampi diventerà nel prossimo futuro la linea di divisione (e di scontro) tra la destra patriarcale e retriva e la sinistra progressista e civilista. In questo capovolgimento il ruolo delle donne, il ruolo del femminile sarà decisivo. Nella sfida per la AI sarà determinante il ruolo delle donne e del femminile.

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  4. noticine miserabili in margine ai grandi eventi :

    Il coordinatore del gruppo di psicologi e giuristi è Alessandro Amadori nel 2020 ha autopubblicato La guerra dei sessi, un libro in cui nega la violenza maschile e sostiene tesi cospirazioniste sul tentativo delle donne di dominare i maschi. Il suo punto di vista somiglia molto a quello reazionario e retrivo del generale Vannacci.
    Come è possibile che Alessandro Amadori sia stato scelto come consulente del governo?
    Come è possibile che un ufficiale che sostiene tesi illiberali, contrastanti con i valori della Costituzione sia diventato generale dell’esercito italiano?

    Fate attenzione ai linguaggi

    Fate attenzione ai linguaggi, quando un linguaggio tramonta, un altro sopravviene e prende il posto di quello deperito. Il linguaggio belluino della Meloni fa da contraltare e coabita con il linguaggio bambinesco della poesia di Vivian Lamarque e con il linguaggio pacificatorio della “narratrice” che ha vinto l’ultimo Strega. E questi sono davvero un pessimo segnale dello stato di salute della società civile.

    Noticina miserabile

    La poesia e il romanzo a vocazione maggioritaria che si sono fatti e si fanno in Italia sono un atto di fede. Un mobilio di seconda mano, gestuale, gergale, idiomatico, postruista con i mobili presi in prestito dai vicini rivenditori e dai vincitori linguistici, che si esprime tramite idiomatismi, con perifrasi idiomatiche, monadico-mediatiche, ovvero, romanzi e poesie turistiche ricchi di geografia, di «luoghi» riconoscibili, ricchi di topologia turistica. Ecco la ragione della ossessione percussiva di tematismi corporali piuttosto che di tematiche. La poesia e il romanzo come bisogno corporale, come atto di fede e non come operazione intellettuale.
    Poesia e romanzo della decrescita felice.

    Noticina miserabile di Marie Laure Colasson
    (26 luglio 2023 alle 19:23)

    Scrive Linguaglossa:

    “Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estetica non può fare a meno che ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico”.

    Che io parafraserei così:

    “Oggi la politica estera la fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estera non può fare a meno che ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.”

    Ho cambiato una sola parola “estetica” con “estera”. E il bello è che il discorso, nonostante questo cambiamento di parola, ha ancora un senso, conserva ancora un senso!, il senso sopravvive, come una gramigna, anche alle più violente delle distorsioni e interpolazioni perché noi cerchiamo sempre un senso anche quando il senso non v’è.

    E allora:

    non resta che “tornare a fare poesia difficile”.

    Noticina a margine
    Giorgio Linguaglossa
    – 26 luglio 2018

    Prendo lo spunto da questa recensione al libro di Enrico Castelli Gattinara, Pensare l’impensato. Roma, Meltemi, 2004, pp. 331, € 23,00, di Maurizio Der Suchende – 04/01/2006

    «L’impensato finalmente pensato?»

    Il viaggio si inaugura con la scena della crisi della centralità dell’io nella cultura occidentale contemporanea e da qui si dispiega fra i bordi per lo più immaginari che delimitano le varie discipline della cultura umana: fisica, filosofia, psicologia, estetica, epistemologia, pratiche artistiche e pratiche scientifiche.

    L’Autore ci suggerisce che non dobbiamo sgomentarci a causa dello spaesamento indotto dalla de-centralizzazione, anzi ‘a-centralizzazione’ del soggetto, dell’io, rinvenibile – guarda caso – quasi contestualmente nella letteratura e nell’arte in generale, nella filosofia, nelle discipline scientifiche. Anzi, ci invita a cogliere tutto ciò come una preziosa occasione per individuare e/o nutrire enormi potenzialità innovative, impensati percorsi di ricerca e azione.

    Quindi, rivoluzione ‘a-centrica’: l’Autore ci rammenta che si può avere una prospettiva ‘centrata’ (per esempio, sulla Terra, sull’uomo), una prospettiva ‘de-centrata’ (il soggetto è ancora lì a far valere le sue istanze dogmatizzanti, sia pure in un rapporto dialettico con un altro da sé), ma soprattutto c’è una prospettiva ‘a-centrata’, dove il focus non si sposta da un centro ad un altro, ma dove – non essendoci centri di irradiazione o di statico e reiterato riferimento – sono presenti molteplici incroci da cui si distendono vie di incessante flusso esperenziale. Ed è questa, come ci ha già da tempo segnalato l’eretico Nolano, la prospettiva più feconda, ma soprattutto più aderente al vissuto materiale e antropologico di ciascun essere umano.

    Accanto a questa a-centralizzazione dell’io va colta la sua “diluizione”, ma anche e soprattutto “la sua intima e inaggirabile complessità.” (p. 103)

    E, allora, “cosa ci fa l’io nella scienza?” (cap. secondo, pp. 43-73). Posto che anche le scienze (ma, forse, sarebbe più rigoroso dire le discipline scientifiche?) sono un qualcosa di intimamente sociale, né solo soggettivo, né solo oggettivo, “esse sono prese in un tessuto di relazioni che ne rende ragione e al quale contribuiscono a dare ragione. L’io ne fa parte, a condizione di essere anche lui una cosa fra cose, un terzo e non più un primo. Né oggetto, né soggetto, ma crasi, incrinatura, o tramite, dove si svolgono effettivamente le cose, dove accade l’evento del conoscere e del capire. Dove si lascia un’impronta e s’incrociano le vie. L’io come un crocevia, un nodo della rete.” (p. 70)

    È proprio questa diversa prospettiva, fra l’altro, a sollecitare un tuffo nelle sfumature di confine che segnano le relazioni fra arte in generale, le pratiche artistiche in particolare, ed epistemologia, o più concretamente le pratiche scientifiche. Sono sfumature che non annebbiano, ma che ci consentono di cogliere impensabili aspetti di concetti e pratiche rilevati da pochissimi artisti, pensatori e scienziati occidentali: per esempio, “la complessità del semplice” (cap. quarto, pp. 103-124); “s-delimitazioni scientifiche”, che (ri)guardano la verità come orizzonte infigurabile, dove si intravede un poliedrico incrocio fra filosofia, scienza e arte (cap. quinto, paragr. 6, pp. 153-158); altro terreno comune della filosofia, della pratica scientifica e di quella artistica, è l’esperienza (cfr. per es. il paragrafo ‘L’esperienza come gioco’, pp. 188-194); la costitutiva qualità relazionale di concetti come ‘spazio’, ‘corpo’ (che, fra l’altro, ci vien di domandare se sia anche origine e fonte dell’Etimologia), ‘forza’ (cfr. in particolare i capitoli decimo e undicesimo, rispettivamente pp. 249-264, 265-286).»1]

    Commento in appendice

    Quando noi de lombradelleparole.wordpress.com peroriamo una de-angolazione prospettica, una de-centralizzazione dell’io, una de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto poniamo l’urgenza di un nuovo logaritmo delle parole, poniamo con urgenza l’urgenza. Le parole sono sempre quelle, ma è il logaritmo che rimodella il logos. Se utilizziamo lo formula: «pensare l’impensato» non è soltanto una bella frase, una frase ad effetto ma è una direzione di marcia per indicare un traguardo che sta oltre il «pensato» e il «visibile». Ciò che rientra nella «visibilità» normalizzata è il normale, qui stiamo dicendo qualcosa d’altro che la migliore filosofia italiana ed europea sostiene da tempo. È la tesi di Enrico Cstelli Gattinara. È un segno di grande arretratezza culturale fare romanzi o poesie dove queste problematiche sono cose sconosciute. La direzione di ricerca de lombradelleparole.wordpress.com è da tempo instradata lungo questa direttrice di marcia. Occorre essere chiari: fuori da questa direzione di ricerca non c’è nulla di importante, c’è il talk show della chat poetry e dello chat-novel.

    1] Enrico Castelli Gattinara insegna ‘Epistemologia della storia’ nella facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università “La Sapienza” di Roma (Italia); inoltre, svolge seminari presso l’ École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (Francia). È direttore dal 1996 della rivista semestrale di cultura, arte e filosofia, “Aperture” [aperture@tiscalinet.it – http://digilander.iol.it/aperture%5D.

    Ha pubblicato Epistemologia e storia (1996); Les inquiétudes de la raison (1998); Strane alleanze (2003) e numerosi articoli di estetica, epistemologia, psicologia e storia su riviste specializzate italiane ed europee.

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  5. PIETRO EREMITA

    Scusatemi se la mia ignoranza è notoria.
    Non so cosa significa “dentrificare”, ma so benissimo cosa significa “gentrificare”.
    Chiedo lumi, unilmente.

    P. M.

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  6. gentile Pietro Eremita,

    le rispondo con questa poesia di Antonio Sagredo che ho “rubato” Tra Roma e Praga ed. bilingue ital/ceco, 2023, a cura di Kateřina Di Paola Zoufalová

    Camera di Praga

    Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
    le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne vuote…
    Il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico e umiliato
    l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

    Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
    la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
    il negromante a squarciagola: ecco, questo sono gli altari,
    dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi profeta!

    Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
    e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
    con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
    la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

    Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
    Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
    al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
    Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

    Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
    capriccio e parvenza di sé stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
    eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
    stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

    (Vermicino, 16-20 maggio 2008)

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  7. PIETRO EREMITA

    grazie dell’arguta risposta

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