Le democrazie parlamentari dell’Occidente sono affette da una sindrome che definirei della catastrofe permanente, una Todestrieb che ci sovrasta in quanto dentrificata nella psiche degli umani. Ci troviamo in un mondo sul quale incombe uno stato di catastrofe e di auto catastrofe, il mondo della minaccia nucleare sdoganata a fattore tattico di intimidazione dell’avversario è un mondo nel quale è sempre possibile una deflagrazione atomica, un conflitto senza leggi né regole combattuto per la liquidazione fisica e totale del «nemico».
Paolo Valesio è un intellettuale e poeta a cui deve essere riconosciuta una grande dignità e perseveranza nell’indirizzare la propria ricerca poetica in direzione di una poesia «forte», «autentica», «veritativa» dove la veritatività è la segnatura del suo discorso poetico; con le parole di Valesio, l’autore è colui «che Kierkegaard chiama un “apprendista in cristianesimo”»; questo corposo libro è a mio avviso una testimonianza della drammatica situazione di imminente pericolo nel quale l’Occidente è immerso, già nel titolo vengono richiamate le figure de il «Testimone» e dell’«Idiota» che instaurano un dialogo fitto e intenso, dove la colpa lastrica i «corridoi di occasioni perdute»:
Ogni luogo ogni marchio sul paesaggio
è una condanna per il testimone
corridoi di occasioni perdute
lacune di visite e viste che avrebbero potuto
divenire visioni
ma ogni luogo ogni marca di paesaggio
ogni scorcio (sghembo, angusto, tagliente)
di quello che lui osa sotto voce ancora
chiamare “bellezza”,
è una concessione gloriosa al suo tempo di vita.
Il ritmo inevitabile di questo su-e-giù del cuore
lo lascia stordito
più ancora che stupito.
Nella copertina del libro di Paolo Valesio compare, in un riquadro, l’immagine dell’Angelo della storia di Paul Klee. In proposito, vale la pena di rammentare che nella nona tesi Walter Benjamin richiama l’immagine dell’Angelus novus di Klee, che fissa lo sguardo assorto sulle rovine: «i suoi occhi […] spalancati, la bocca […] aperta, e le ali […] dispiegate»; il passato gli restituisce ciò che «davanti a noi appare una catena di avvenimenti», anche se «egli vede un’unica catastrofe» (Sul concetto di storia 36 e 37). L’Angelo rappresenta per Benjamin l’«angelo della storia» che è capace di scoprire la «segnatura della rovina nel presente». Trascinato verso il vortice del futuro dal progresso, l’angelo guarda con orrore le catastrofi accumulate dalla modernità, le marche da cui spira il disastro della contemporaneità. Per concettualizzare un tipo di «segnatura della rovina» (dizione di Agamben), può essere utile ripercorrere gli ultimi capitoli de L’Uomo senza contenuto, il primo libro di Agamben (1970), in cui, dopo aver considerato la crisi dell’estetica, il filosofo ritorna ad interrogarsi sul destino poetico dell’umanità e sulla possibilità dell’arte come sfera che si apre all’azione per mezzo della capacità di pro-durre e di auto prodursi. Nel finale del libro Agamben accosta due angeli: l’angelo della Melancholia di Albrecht Dürer e l’Angelus novus di Paul Klee, per il tramite dell’interpretazione di Benjamin. Queste due opere suggeriscono ad Agamben due modi di definire la relazione col passato in quanto funzionano come «segnatura» dell’enunciazione. L’angelo di Klee permette a Benjamin di mettere in azione la dimensione profetica: il suo avvertimento tragico pare annunciare Auschwitz e Hiroshima, le due più grandi catastrofi della storia umana, le due rovine più mostruose, conclusione di un’accumulazione di catastrofi che giunge fino al cielo. Agamben cerca di ri-pensare la proposta estetico-politica di Benjamin e scrive un saggio di traduzione vincolando quest’angelo con la stampa dureriana del 1514, che rappresenta una creatura alata seduta, in atto di meditare con lo sguardo assorto davanti a sé; accanto ad essa, giacciono abbandonati al suolo gli utensili della vita attiva: una mola, una pialla, dei chiodi, un martello, una squadra, una tenaglia e una sega. Il bel volto dell’angelo è immerso nell’ombra: solo riflettono la luce le sue lunghe vesti e una sfera immobile davanti ai suoi piedi. Alle spalle si scorgono una clessidra, la cui sabbia sta correndo, una campana e un quadrato magico, e, sul mare che appare sullo sfondo, una cometa che brilla senza splendore. Su tutta la scena è diffusa un’atmosfera crepuscolare, che sembra togliere ad ogni particolare la sua materialità. (L’uomo senza contenuto p. 164)
Luigi Fontanella, Adriano Spatola e Paolo Valesio anni settanta
.
Due personaggi del libro di Paolo Valesio, il «Testimone» e l’«Idiota» che parlano sono in realtà la manifestazione di una unica «Voce», quella della poesia intesa, modernisticamente, come discorso poetico di una individualità erratica ed erranea che si situa in un luogo atopico che si può immaginare come un quadrilatero ai cui vertici dimorano le quattro Entità: il Testimone, l’Idiota, la Fiamminga e la Voce. Davvero, una poesia che marca la propria dissomiglianza, quella di Valesio, rispetto alla poesia di oggi.
Plotino ricorre ad una analogia: come per l’occhio la materia di ogni cosa visibile è l’oscurità, così l’anima, una volta cancellate le qualità delle cose (che sono della stessa sostanza della luce), diventa capace di determinare ciò che rimane. L’anima si fa simile all’occhio quando ci si trova nel buio. L’anima vede veramente soltanto quando c’è l’oscurità.
In un certo senso poetare dell’impensato è qualcosa di analogo al vedere le cose nell’oscurità. Soltanto nell’oscurità si possono vedere le cose in un modo diverso.
Paolo Valesio è un poeta kierkegaardiano che ha attraversato la storia contropelo, che, nell’epoca della fine della metafisica, si è creato una propria metafisica per poter investigare un mondo ormai dissacrato, privo di sacro, che ha relegato il sacro nelle discariche degli oggetti e delle parole a perdere. È di qui che prende inizio il discorso poetico valesiano. La parola diventa testimonianza di una verità che è ogni giorno di più indicibile, impronunciabile, innominabile, ma è proprio questa cesura/censura quello che consente alla poesia valesiana di diventare discorso poetico, voce, parola, dialogo. Un dialogo serrato, metafisico, con un linguaggio posato sui registri alto e medio che prende luogo tra le quattro Entità, sempre sul punto di incalzare la parola «vera», la «verità», che però non può mai essere detta perché essa ha senso soltanto se non viene pronunciata da alcuna parola. In questo paradosso, in questo contrappasso il discorso poetico di Valesio si adempie e consuma le possibilità di costruire un ponte con il lettore, una lingua comune che diventa sempre più problematica e claudicante nella misura in cui l’epoca della scomparsa del sacro celebra i suoi trionfi.
Mentre l’angelo della storia dirige il suo sguardo al passato mentre viene inarrestabilmente trascinato verso il futuro, l’angelo malinconico guarda di fronte e rimane immobile, poiché «La tempesta del progresso che si è impigliata nelle ali dell’angelo della storia si èqui placata» (Benjamin). L’angelo dell’arte appare come se fosse fuori dal tempo, come se qualcosa «avesse fissato la realtà circostante in una sorta di arresto messianico» (Benjamin), al contrario, il passato appare all’angelo di Benjamin in forma di rovina. Anche l’angelo melanconico della poesia valesiana giace estraneo agli elementi della vita attiva che sono divenuti inutili, visto che il passato trova la verità a condizione di negarla e la conoscenza del nuovo è possibile solo nella non-verità del vecchio, ma proprio questo offre al poeta la redenzione citandolo a comparire fuori dal suo contesto reale nell’ultimo giorno del Giudizio estetico, rassegnandosi alla morte o all’impossibilità di morire. La «melanconia» della parola valesiana resta legata all’angelo che è cosciente di essersi rassegnato allo straniamento e di aver così convertito in mondo reale qualcosa che non può possedere. L’arte ha il potere e la missione di recuperare il passato tramite un esercizio negativo, convertendo la non trasmissibilità in una immagine estetica capace di attivare uno spazio fra il passato intrasmissibile ed il futuro impredittibile affinché l’uomo possa fondare la sua azione e la sua conoscenza. Questo spazio poetico si converte nel punto zero dell’azione dell’uomo melanconico moderno, che, annoiato e dissacrato si rende conto che nella verità è presente la negazione della verità. Nell’Angelus novus benjaminiano l’arte si concentra sulla permanenza del passato nel presente ed obbliga a percepire le sue segnature. L’uomo dell’ipermoderno minacciato dall’accumulazione senza senso di un passato estraneo e di cui non può dar di conto, trova nell’arte lo spazio in cui passato e presente si incrociano. In questo punto la dimensione poetica mette in gioco la sopravvivenza della cultura, che, peccaminosa ed estraniata, pare impossibilitata ad unire passato e presente se non grazie alla mediazione di un’altra sfera: Per Agamben, e in guisa personalissima per Valesio, solo l’opera d’arte consente una fantasmagorica sopravvivenza alla cultura accumulata e reificata. L’arte diventa il luogo della «segnatura» della redenzione possibile nell’ambito della storia umana. L’opera poetica è l’ambito in cui, fra il passato ed il futuro, l’umano deve situarsi nel presente. Così avviene che «l’angelo della storia, le cui ali si sono impigliate nella tempesta del progresso, e l’angelo dell’estetica, che fissa in una dimensione atemporale le rovine del passato, sono inseparabili» (Benjamin). Il discorso poetico per Paolo Valesio diventa l’ultimo anello di congiunzione fra l’uomo e il suo passato, fra le rovine del passato e le rovine del presente, la «segnatura» del passaggio dell’uomo sulla terra. Nella misura in cui restano soltanto le rovine del passato, della storia e della tradizione, il luogo dell’opera poetica valesiana diventa lo spazio in cui l’umano può riappropriarsi della veritatività dei suoi enunciati e dei suoi propri presupposti storici in cui l’umano può convertirsi in artefice di azione attraverso cui ritrovare il «fondo», il fondamento di se stesso.
(Giorgio Linguaglossa)
Il sogno del Testimone (Dream Poem)
per Antonio Porta e la sua famiglia
Il Testimone siede su una panchina in Central Park a Manhattan, guardando (vedendo e non vedendo) un piccolo gruppo di ragazzini e ragazzine che hanno improvvisato sul bordo del prato lì davanti una danza molto alla buona, accompagnata da tamburelli. Gli vengono in mente brandelli di una poesia letta chissà dove chissà quando:
A uno dei ragazzi si è slacciato
il nastro rosso, è volato
ai limiti del cerchio
e il ballerino non se n’è avveduto
non lo ha raccolto
perché era tutto raccolto
dentro il giro e il nodo di sé stesso.
Lui si è alzato
[…]
ha colto il fazzoletto lentamente
lo ha tenuto in mano
per tutta la durata della danza.
e quando il ragazzo sudato
si è toccato il polso nudo e, incerto,
si è guardato all’intorno,
gli è andato vicino e glielo ha porto
con la premura calma di una madre1
Quella stessa notte il Testimone ha fatto un sogno.
Improvvido,
il braccio nudo di Gesù improvviso. Punta dove? È un’indicazione
o una bene-male-dizione? Assorto dal bruno della pelle, dall’atletica scarnità
gli sembra vedere una fila di anelli di rame,
semplici cerchi spogli eppure magici – quella piccola
magia selvaggia che era nelle spoglie del Battista: pellli
e denti d’osso in asole di cuoio; e il legno polito,
fino alla traslucenza del suo bastone, e la ciotola
dove il miele è oramai tutto leccato.
Anelli che agganciano sottili in spire
anche i Samaritani, i Siro-Fenici, quelli delle frontiere, gli idolatri
i tantissimi che lasciano negli occhi altrui
la perplessità dello sguardo – anelli che abbracciano
con amore-corrosione
consumatrice di ogni distinzione fino alla non differenza.
Ma il braccio di Gesù rimane nudo, e quegli anelli debbono esser stati
illusione dell’aria: granulata e rutilante
cortina di perline tintinnabulante
in canti “clang” silenziosi
che si travedono come
gioiell8i-essudazioni del calore
(New Haven-New York) Continua a leggere