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Il menù non prevede la critica letteraria, Quando la critica diventò teoria di Alfonso Berardinelli con la replica di Javier Cercas, El critico matòn, Il critico teppista,  a cura di Matteo Marchesini, cover di Agenda con poesie kitchen di Lucio Mayoor Tosi

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Bozzetti di cover di una Agenda con poesie della poetry kitchen a cura di Lucio Mayoor Tosi

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Qualche tempo fa, sulla rivista “L’età del ferro”, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un saggio nel quale – replicando a un articolo volgarotto di Javier Cercas contro di lui – riassume molto bene la storia e lo stato della critica (non solo letteraria). Lo riporto qui, perché credo sia utile a chi discute del tema:
(Matteo Marchesini, https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754)

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IL MENU’ NON PREVEDE LA CRITICA LETTERARIA
Quando la critica diventò teoria
di Alfonso Berardinelli
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Sono cresciuto in un periodo in cui la critica era quasi tutto. Oggi è quasi niente.
Non rimpiango quei tempi, gli anni cioè fra il 1960 e il 1980. Non li rimpiango perché l’attività critica e la sua tradizione moderna, che ebbe inizio intorno alla metà del Settecento, subì un’improvvisa e accelerata mutazione che sembrò renderla più potente e autorevole, ma ne modificò rapidamente le caratteristiche. Fino a pochi anni prima, benché le diverse correnti critiche fossero influenzate da particolari ideologie, filosofie e scienze, la critica letteraria era rimasta fondamentalmente saggistica. Le idee contavano, ma la forma linguistica e letteraria, lo stile, non ne erano sostanzialmente compromessi. L’idealista Benedetto Croce, il marxista Gyorgy Lukacs, i filologi Leo Spitzer e Erich Auerbach, gli eclettici Walter Benjamin e Edmund Wilson, erano dei veri saggisti, prosatori originali di prim’ordine. Usavano certe idee, applicavano un loro metodo di analisi e restavano fedeli ai loro criteri di valutazione. Eppure il loro stile di pensiero era anche uno stile letterario. Chiunque li avesse letti appena un po’, sarebbe stato in grado di distinguere quasi a orecchio il tono, il ritmo, la qualità della loro prosa. In altri critici, meno fedelmente interessati a filosofie e metodi, come Frank R. Leavis, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, la critica coincideva interamente con il loro personale modo di leggere e di scrivere. Per non parlare dei maggiori e più noti scrittori-critici: T. S. Eliot, Paul Valéry, D. H. Lawrence, Wystan H. Auden, Octavio Paz, e più recentemente John Updike, Gore Vidal, Vargas Llosa, Italo Calvino… La critica non poteva ancora essere confusa con lo studio accademico, né con la teoria o scienza della letteratura.
Fu infatti proprio intorno al 1960 che una lunga tradizione si interruppe. Quasi tutto ciò che era stato scritto in passato, si trattasse di critici romantici o simbolisti o realisti, sembrò all’improvviso approssimativo, impressionistico, poco scientificamente fondato e ormai improponibile e impraticabile. La prima edizione di Theory of Literature di René Wellek e Austin Warren uscì a New York nel 1942: poteva sembrare solo una sintesi didattica, ma poi ci si rese conto che quel libro segnava una svolta. L’attenzione ormai si concentrava, come mai prima, sulla teoria generale della letteratura e sulle metodologie dello studio letterario. Fu così che, fra teoria e metodi, la precedente accezione saggistica e valutativa della critica si indebolì fino a sparire. Letterarietà (o “specifico letterario”), autonomia del Testo, Funzione poetica del linguaggio, prendevano il posto di una più generica, empirica nozione di letteratura e dei suoi generi. Così la teoria e la metodologia svalutavano la lettura come esperienza personale e la critica come attività tipica di singoli critici.
La cosa andò avanti per circa un ventennio, dal 1960 al 1980: e sono proprio quelli gli anni gloriosi e noiosi della Nuova Critica che mi sembra difficile rimpiangere. La teoria della letteratura divorò, ingoiò la letteratura. Ci furono anni in cui sembrava che gli scrittori scrivessero per ubbidire e piacere ai teorici, prevedendo la loro “scientifica” approvazione. Con decenni di ritardo rispetto alla diagnosi di Ortega, si provocò una nuova specie di “disumanizzazione dell’arte”: era una letteratura fatta di testi puri e assoluti, o volutamente mescolati e ibridi, o programmaticamente illeggibili, comunque testi senza autori (era proibito parlarne) e senza lettori (sostituiti da tecnici di laboratorio di analisi).
Il critico sospettato
Tutto questo non è che un prologo. Con il crollo inaspettato e mai spiegato dei due pilastri della Teoria, lo strutturalismo e la semiologia, che partendo dalla linguistica avevano colonizzato soprattutto in Francia tutte le scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia), si creò una situazione diversa per la critica letteraria. Non più “disumanizzata”, ma ormai anche troppo umana e vulnerabile, la critica rinunciò ad agire sotto garanzie teorico-scientifiche. In quanto filologia e storiografia, diventò studio letterario ambientato nelle università: gli insegnamenti di teoria letteraria si trasformarono in Letterature comparate, orientate in senso prevalentemente tematico. In quanto critica vera e propria, tornò a essere più spesso giornalistica e saggistica, praticata soprattutto da scrittori, e prese di nuovo la forma molto empirica, rischiosa e provvisoria della recensione. A questo punto si capì che la critica letteraria, se deve esistere, esiste soltanto perché c’è qualcuno che vuole scriverla e non riesce a farne a meno. Insomma: la critica sono i critici.
Diventa chiaro allora che ogni critico non può più evitare di prendersi le sue responsabilità e di correre i suoi rischi. Ormai da almeno trent’anni la critica non vive più come applicazione di teorie né come strumento di lotta autopromozionale di gruppi “d’avanguardia”. Torna a essere un’impresa personale sempre sospettabile di parzialità e di soggettivismo. Non essendo più mascherata da “scienza del testo letterario”, la sua autorità pubblica è diminuita fino a diventare irrilevante. Da quando ogni critico gioca individualmente la sua partita, non può contare che sulle proprie ragioni e argomentazioni, preferenze, scelte e strategie retoriche. Chiunque abbia la vocazione o passione intellettuale e letteraria della critica si presenta come un caso a sé. In quanto si esprime in forma saggistica, può avere un posto fra i generi letterari; ma non ne ha più fra le professioni culturali istituzionalmente previste.
Anche il legame che esisteva in passato fra letteratura e critica, fra scrittori e critici, si è indebolito. Fare critica non solo dà fastidio (cosa che accadeva anche in passato) ma sembra quasi inconcepibile: poco meno che un abuso, un’intrusione, una pratica intellettuale vagamente perversa, alla quale si dedicano individui animati da sentimenti insondabili o torbidi come frustrazione e gelosia nei confronti di narratori e poeti: autori “creativi”, mentre il critico, sterile com’è, può solo essere un vizioso giudice, un distruttore e denigratore del lavoro altrui.
Per due secoli si è apprezzata la letteratura soprattutto per il suo valore e potenziale critico nei confronti della realtà sociale. Anche i più grandi e originali inventori di forme e di miti (Baudelaire e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, Kafka e Eliot) venivano letti come chiaroveggenti critici sociali. Oggi, invece, alla critica si tende a contrapporre la creatività. Queste due funzioni letterarie e conoscitive vengono così separate. Dunque chi prova a criticare il creatore, che è amico della vita, può essere solo un distruttore, un nemico della vita. Si dimentica quanti siano stati, nella storia di tutte le letterature, i narratori, i poeti, i drammaturghi, critici della vita falsa per amore della vita. Un caso personale?
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Trascrivo qui un breve articolo che il narratore Javier Cercas mi ha dedicato recentemente. Credo che sia il chiaro sintomo di un’insofferenza e diffidenza che si sta diffondendo in tutti gli ambienti culturali, ma soprattutto in quelli artistici, letterari e perfino filosofici. Nelle arti visive la critica si limita perlopiù a giustificare l’incomprensibile. I filosofi notoriamente, poi, non discutono tra loro. In sostanza, ci si meraviglia che un critico critichi, invece di limitarsi a spiegare che in un’opera letteraria tutto va esattamente come doveva andare fra intenzioni e risultati, stile e tema. Ma ecco l’articolo:
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«Da un paio d’anni è stato pubblicato in Spagna un libro in cui si aborriva Umberto Eco; si sminuivano Borges, Beckett e Calvino; si ridicolizzava Foster Wallace, e si deprecavano: le “nuove tecnologie” (quindi, generalizzando), l’attuale romanzo francese (analogamente a casaccio), la poesia (totalmente in astratto); nel libro si difendevano alcuni autori, da Dante a Orwell (cosa utile, beninteso), ma se ha attirato l’attenzione è stato per i suoi attacchi: Alfonso Berardinelli contro tutti, ha intitolato questo giornale la sua recensione del libro. Berardinelli è il nome del suo autore; Leggere è un rischio, il suo titolo. Infine: non ho letto a sufficienza Berardinelli per affermare che sia un critico teppistico, ma il fatto è che spesso lo sembra.
Chi è un critico teppistico? Innanzitutto, non bisogna confondere un critico teppistico con un critico provocatorio, quale forse è lo stesso Berardinelli: il critico provocatorio fa venire voglia di leggere, mentre quello teppistico la reprime; il critico provocatorio incita, mentre quello teppistico eccita soltanto. Inutile dire che il critico teppistico non è necessariamente uno scrittore mancato: ci sono critici teppistici che sono scrittori, o che lo sono stati, e qualche volta ottimi; e va da sé che non ci sono critici teppistici solo fra i critici letterari: ce ne sono fra tutti i tipi di critici. Non c’è niente di più facile che distruggere un libro, per buono che sia (anzi, sono i libri migliori ad essere i più vulnerabili, perché si prendono i rischi maggiori), e il critico teppistico sfrutta a fondo questa facilità, giustamente convinto che distruggere un libro significhi mettersene al di sopra e, lodarlo, al di sotto. Di solito il critico teppistico non è stupido, però non è nemmeno così intelligente come crede; in realtà, sarebbe meno stupido se non si credesse così intelligente. Si parla molto della vanità degli autori, ma comparata a quella dei critici teppistici è un nonnulla. Come qualsiasi teppista, il critico teppistico non si distingue per il suo coraggio, perciò non agisce mai da solo: lo fa sempre protetto da un coro di sostenitori. Benché la critica sia una forma di creazione, per il critico teppistico è una forma di distruzione, perché è molto più difficile costruire che distruggere ma è molto più mediaticamente redditizio distruggere che costruire. Il critico teppistico punta alla critica ad hominem, agli attacchi personali, e considera un successo che uno scrittore smetta di scrivere a causa delle sue critiche. Al cr\\el XX secolo, giudicava che quando un critico attacca un libro lo fa “per esibirsi” (“to show off”). Non credo che sia sempre così. La critica è indispensabile, il critico non può mai rinunciare a prendere posizione e a volte deve essere severo. Berardinelli afferma che a volte deve essere iconoclasta; sono d’accordo. Però una cosa è essere un critico iconoclasta, un’altra essere un critico teppista.»
(Javier Cercas, El critico matòn “El Paìs”, 12 luglio 2018)
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La reazione di Cercas alla presenza di un critico che critica, chiunque egli sia, è così istintiva da risultare quasi incomprensibile. Ad averlo tanto allarmato da spingerlo a un attacco autodifensivo non è neppure un libro, che evidentemente ha più sfogliato che letto, ma un articolo-intervista che su quel libro è stato pubblicato dal “Paìs” due anni prima. Il fatto che qualcuno possa non avere nessuna stima letteraria per i bestseller “culturalisti” di Umberto Eco, o che osi dire che Borges, Beckett e Calvino sono caratterizzati non solo dalle loro qualità ma anche dai loro limiti (nessuno dei tre, per esempio, ha considerato il romanzo un genere ancora praticabile), è qualcosa che Cercas non riesce ad accettare. Sembra sfuggirgli completamente che nei miei giudizi c’è una polemica non priva di una sua logica e di ragioni storiche: quei tre scrittori sono stati (ognuno a suo modo) idoli di una “poetica postmodernista” che non rappresenta affatto la Postmodernità nel suo insieme, epoca che ha occupato l’intera seconda metà del Novecento e nella quale c’è stato posto per artisti del tutto diversi come Francis Bacon e Jackson Pollock, Jean-Luc Godard e Stanley Kubrick, Solgenitsin e Garcia Marquez. È una poetica elaborata soprattutto in Francia con l’inizio degli anni sessanta: la poetica di un’écriture che negava i generi letterari e postulava come dovere o necessità storica la fusione di narrativa, poesia, autoriflessione teorica. Non è un caso se per circa vent’anni la letteratura francese abbia smesso di produrre romanzi, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti la tradizione del romanzo non si è mai interrotta e ha finito per rendere marginale la narrativa europea. In ogni arte naturalmente gli esperimenti non sono proibiti, tutt’altro: ma credo che si debba distinguere fra gli esperimenti riusciti e quelli falliti.
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Quanto alla mia critica della generale accademizzazione e burocratizzazione della cultura, o dell’attuale espansione incontrollabile e invasiva delle tecnologie, mi meraviglio che Cercas si meravigli. Ci sono fenomeni che riguardano una trasformazione senza precedenti della nostra vita individuale, mentale, sociale e di tutte le forme della nostra cultura. Di questo si discute da tempo e lo prova una ormai vasta e varia bibliografia internazionale.
Partendo da alcune mie valutazioni umoristicamente enfatizzate da un articolo del Pais, Cercas inventa, per liquidarmi, la categoria del critico “teppista”. La inventa e ne perfeziona in negativo la descrizione, mettendolo, mettendomi in ridicolo (è uno che ama solo Dante e Orwell!) e mostrando che si tratta di un fenomeno degenerativo il cui scopo è soltanto demolire i libri migliori e impedire che vengano letti.
Quanto all’osservazione di Auden, secondo cui un critico che attacca un libro lo fa solo per esibirsi (“to show off”), è interessante ma discutibile (quale autore non si esibisce?). Auden però ammirava molto un critico assoluto come Karl Kraus, un vero distruttore satirico ben consapevole di esibirsi, compromettersi, esporsi (“sich preisgeben”), mettendo in gioco e a rischio la propria persona con ognuno dei suoi giudizi.
Purtroppo Cercas non ha voluto correre il rischio di leggere con un po’ d’attenzione il mio Leggere è un rischio, e neppure ha sentito il bisogno di dare un’occhiata a qualcun altro mio testo, prima di elaborare il suo ritratto del “maton”. Nonostante le formule di buona educazione e di rispetto democratico per l’attività critica in generale, mi sembra che Cercas si comporti lui stesso come un critico “teppista” (mi fa fuori con una sola parola: “teppista”). Infine loda la bella idea platonica del critico iconoclasta. Ma quando ne vede uno in azione si spaventa e lo insulta.
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Don’t worry: for criticism makes nothing happen
Mi pare che si stia dimenticando la tradizione della critica, la sua necessità culturale, il suo stile, i suoi maestri moderni e antichi. Se la critica si è spesso mescolata alla satira, all’aforisma aggressivo, è per accrescere la sua efficacia rappresentativa, comunicativa, retorica. E se è vero che il critico saggista è un tipo di scrittore, gli autori di cui parla, pur esistendo nella realtà, sono anche suoi personaggi. Non succede anche nei ritratti pittorici? Il papa Innocenzo X di Velazquez (non a caso rielaborato da Bacon) è un capolavoro di invenzione realistica o contiene soltanto malevole intenzioni deformanti? Quando poi la società peggiora e questo diventa un tema, compaiono i quadri critici, satirici o visionari di Hogarth e Goya.
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In realtà la critica è una delle più naturali, ovvie, inevitabili attività della mente umana. Su idiosincrasie, rifiuti, avversioni, intolleranze si è costruita gran parte della letteratura moderna. Giacomo Leopardi non sopportava né il romanticismo nordico né il progressismo liberale. Baudelaire ridicolizzava l’avant-guarde del suo tempo. Kierkegaard detestava Hegel. Tolstoj disprezzava moralmente l’estetismo simbolista. Kraus considerava il giornalismo “magia nera”. Proust attaccò Sainte-Beuve. Eliot giudica Hamlet un’opera fallita e Shelley un poeta per adolescenti. Edmund Wilson riteneva Kafka uno scrittore sopravvalutato, pieno di difetti e di debolezze. Adorno e Horkheimer attaccarono per tutta la vita sia il neopositivismo che l’ontologia metafisica di Heidegger. Fra le molte “strong opinions” di Nabokov c’è la svalutazione di Dostoevskij, considerato artisticamente approssimativo, oltre che sentimentale. Ricordo una descrizione che Giorgio De Chirico fa di una riunione di surrealisti a cui aveva partecipato: li ritrae come un gruppo di fatui poseurs, se non di imbroglioni… Naturalmente si potrebbe continuare a lungo.
La critica non è, non può essere solo questo. Ma non si può sognare una critica sempre sobria, equanime, equilibrata e comprensiva con tutti. Esistono le passioni e le vocazioni critiche. Poi ci sono i professori di letteratura, che sono un’altra cosa. Di solito vedono la critica come un’attività non professionale, o perfino come una forma immorale di libertinismo. Ho saputo recentemente che in un concorso universitario un candidato è stato respinto perché sembrava più un critico che uno studioso. Se fossi in lui, sarei felice di aver meritato una tale condanna.
Credo comunque che la critica sia impotente ed è bene che lo sia. È bene che non rappresenti interessi di gruppo, né riceva autorità da qualche istituzione pubblica. Oso criticare senza remore né censure solo autori di grande o eccessivo successo, perché rappresentano idee e gusti dominanti e perché sono certo di non danneggiarli e di non rovinare la loro carriera.
Come la poesia in un famoso verso di Auden, direi che la critica, in sé stessa, “makes nothing happen”. Non fa succedere niente. La cosa più probabile è che metta in cattiva luce chi la esercita”.

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Antonio Sacco, Lo haiku nei poeti occidentali, Federico Garcia Lorca, Pound, Allen Ginsberg, Paul Eluard, Pierre-Albert Birot, Paul Claudel, Andrea Zanzotto, Jorge Luis Borges, Tomas Tranströmer, Jorge Luis Borges, Mario Chini,  Edoardo Sanguineti, Rilke, Octavio Paz

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Prendiamo qui in esame il rapporto fra lo haiku e i grandi poeti occidentali del XX secolo, più in particolare questo breve scritto vuole essere un excursus storico – poetico che mira a focalizzare l’attenzione sulle modalità con cui i grandi poeti occidentali sono entrati in contatto con questo genere letterario e, inoltre, desidererei porre enfasi come, essi stessi, si siano cimentati in questo genere citandone alcuni esempi.
Le prime traduzioni di haiku in Occidente furono pubblicate agli inizi dell’900 in Francia e in Inghilterra, esse esercitarono un influsso sugli imagisti anglo-americani a cui si legò Ezra Pound (1885-1972). Pound fu tra i primi ad avvicinarsi allo stile haikai e fu un grande studioso del giapponese, sostenne, fra l’altro, che:

“L’immagine è di per sé il discorso. L’immagine è la parola al di là del linguaggio formulato”.
E questo è importante perché, come sappiamo, lo haiku ci propone delle immagini suggerendo al lettore più che dire esplicitamente. Pound stesso, nel 1913, pubblicò una breve poesia simile agli haiku molto famosa, In a Station of the Metro:

The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.
*
L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.

Come possiamo notare abbiamo, nel componimento testé citato, una poesia di due versi, quattordici parole totali e nessun verbo che descrivono un momento nella stazione della metropolitana.

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Alba

As cool as the pale wet leaves
of lily-of-the-valley
She lay beside me in the dawn.

Alba

Fresca come le pallide umide foglie
dei mughetti
Giaceva accanto a me nell’alba.

(tratta dalla raccolta Lustra, 1916)

Oltralpe è al poeta Paul-Louis Couchoud che si deve la nascita del movimento dello haikai francese: nel 1905 egli pubblica l’opuscolo anonimo Au fil de l’eau a cui fa seguito, un anno dopo, Epigrammes lyriques du Japon. Lo stesso Couchoud si cimentò nella scrittura di componimenti haiku pubblicando i propri scritti sull’Esagono, egli si convinse che le caratteristiche dello haiku quali la brevità, il potere suggestivo evocato, l’emozione lirica immediata, la rarefazione dei legami logici e, soprattutto, l’assenza di spiegazione potessero rappresentare un’importante innovazione per tutta la poesia francese. Seguendo questa linea tracciata da Couchoud nel 1920 Jean Paulhan dà alle stampe un’antologia di haiku sulla rivista «Nouvelle Revue Française»: il suo scopo è di render noto e far attecchire in Francia questo genere poetico al fine di rinnovare e dare nuova linfa vitale alla produzione lirica francese. Questa antologia conobbe un buon successo negli anni Venti e nei decenni successivi dovuta anche alla presenza di autori come Paulhan, Paul Eluard e Pierre-Albert Birot, tanto che si può dire che con esso lo haiku viene legittimato oltralpe. Paul Eluard (1895-1952) in particolare fa suo lo stile dello haiku riproponendo a più volte, in raccolte successive, gli undici haiku pubblicati nella Nouvelle Revue Française: questo a significare quanto lo colpì questa forma poetica che fa del linguaggio rarefatto e spoglio, privo di orpelli la sua peculiare caratteristica.

Le coeur à ce qu’elle chante
elle fait fondre la neige
la nourrice des oiseaux

Cantando con il cuore
fa sciogliere la neve
la nutrice degli uccelli

(P. Eluard)

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Cent Phrases pour éventails (“Cento frasi per ventaglio”, 1927) è la raccolta di Paul Claudel (1868-1955), un altro grande nome della poesia francese del Novecento, di componimenti in stile haiku. Il movimento haikai francese suscita l’interesse anche di Paul Valéry, che non si cimenta con questa forma poetica ma che nel 1924 cura la prefazione a una raccolta di haiku tradotti in francese di Kikou Yamata.
Lo stesso Paul-Louis Couchoud diventa il tramite attraverso il quale anche Rainer Maria Rilke, che visita e soggiorna a Parigi più volte, entra in contatto con il fermento artistico e letterario in Francia, anche Rilke in tal modo si avvicina al genere haiku. Il poeta dei Sonetti a Orfeo, soprattutto nell’ultima sua produzione, mira ad una progressiva riduzione dell’Io, ad un distacco dell’Io poetante dalla realtà rappresentata, è molto colpito dal modo di comporre dello haijin. Ebbene anche Rilke sperimenta, cimentandosi, componimenti in stile haikai scrivendone ben ventinove:

Tra i suoi venti trucchi
cerca una boccetta piena:
è diventata pietra

(R.M. Rilke) Continua a leggere

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16 – 18 giugno 2019, Dialoghi e Commenti di Vari Autori sulle 4 Domande del 1996,  Poesie di Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Mauro Pierno, C’è una Domanda Fondamentale che muove la poiesis?, Che cosa salvare del ‘900? di Tzvetan Todorov

Gif Fellini

Gino Rago

Che cosa salvare del ‘900? Ho pensato di mettermi a camminare, per un breve tratto con Tzvetan Todorov per una storia delle idee su e di un secolo alla ricerca della

MEMORIA DEL MALE nella TENTAZIONE DEL BENE

“Mi ricordo del primo gennaio 1950: avevo undici anni, e poiché la data rappresentava già una cifra abbastanza tonda, mi domandavo con qualche inquietudine, seduto ai piedi di un albero di Natale che allora si chiamava albero di Capodanno, se avrei raggiunto quella data altrimenti più tonda che è il primo gennaio 2000. Era talmente lontano, mezzo secolo ancora da attendere! Sarei sicuramente morto prima. Ora ecco che un batter d’occhio più tardi quest’altra data è arrivata, e mi incita, come tutti, a pormi la domanda: che cosa bisogna conservare di questo secolo? Dico proprio secolo, anche se si cambia contemporaneamente di millennio: quest’ultimo non si lascia afferrare, l’altro sì.

Il «Times Literary Supplement», periodico letterario londinese, ci sollecita ogni anno a scegliere il «libro dell’anno»; alla fine del 1999 chiedevano anche il «libro del millennio». Ho giudicato la questione così futile che non ho mandato alcuna risposta. Il secolo, invece, produce senso: è la nostra vita più quella dei nostri genitori, tutt’al più dei nostri nonni. Un secolo è il tempo accessibile alla memoria degli individui.

Non sono uno «specialista» del ventesimo secolo, come può esserlo uno storico, un sociologo, un politologo, né voglio diventarlo adesso. I fatti, almeno nelle loro grandi linee, sono noti; oggi, come si dice, li si trova in tutti i buoni manuali. Ma i fatti in sé non rivelano il loro senso, che è ciò che m’interessa. Non vorrei sostituirmi agli storici, che già fanno bene il loro lavoro, ma riflettere sulla storia che essi stanno scrivendo. Il mio sguardo sul secolo è quello non di uno «specialista», ma del testimone interessato, dello scrittore che cerca di capire il proprio tempo. Il mio destino personale determina in parte il punto d’approccio che scelgo, e ciò in duplice modo: per le peripezie della mia esistenza e per la mia professione. In due parole: sono nato in Bulgaria e ho vissuto in questo paese fino al 1963, mentre era sottomesso al regime comunista; da allora abito in Francia. Per un altro lato, il mio lavoro professionale concerne i fatti della cultura, della morale, della politica, e pratico, più particolarmente, la storia delle idee. La scelta di ciò che vi è stato di più importante nel secolo, di ciò che quindi permette di costruirne il senso, dipende dalla vostra identità. Per un africano, per esempio, l’avvenimento politico decisivo è sicuramente il colonialismo, e poi la decolonizzazione. Anche per un europeo – e qui mi occuperò essenzialmente del ventesimo secolo europeo, facendo solo brevi incursioni negli altri continenti – la scelta è ampiamente aperta. Alcuni direbbero che l’avvenimento maggiore, sulla lunga durata, è ciò che è chiamato la «liberazione delle donne»: la loro entrata nella vita pubblica, la loro presa di controllo della fecondità (la pillola) e, al tempo stesso, l’estensione dei valori tradizionalmente «femminili», quelli del mondo privato, sulla vita dei due sessi. Altri privilegeranno la diminuzione drastica della mortalità infantile, l’allungamento della vita nei paesi occidentali, gli sconvolgimenti demografici. Altri ancora potrebbero pensare che il senso del secolo è deciso dalle grandi conquiste della tecnica: dominio dell’energia atomica, decifrazione del codice genetico, circolazione elettronica dell’informazione, televisione.

Sono d’accordo con gli uni e con gli altri, ma la mia esperienza personale non mi dà nessun chiarimento supplementare su questi temi; essa mi orienta piuttosto verso una scelta diversa. L’avvenimento centrale, per me, è la comparsa di un nuovo male, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato buona parte del mondo; che oggi è scomparso in Europa, ma per nulla in altri continenti; e i cui strascichi restano presenti fra noi. Vorrei quindi interrogare qui, innanzitutto, le lezioni dello scontro fra il totalitarismo e il suo nemico, la democrazia.

Presentare il secolo come dominato dalla lotta fra queste due forze implica già una distinzione di valori che non tutti condividono. Il problema deriva dal fatto che l’Europa non ha conosciuto un totalitarismo ma due, il comunismo e il fascismo; che questi due movimenti si sono violentemente opposti, sul terreno dell’ideologia e poi sui campi di battaglia; che ora l’uno ora l’altro si sono visti avvicinare agli stati democratici. I tre raggruppamenti possibili fra questi regimi sono stati tutti praticati una volta o l’altra. In un primo tempo, i comunisti considerano insieme i loro nemici (tutti dei capitalisti!), le democrazie liberali e il fascismo distinguendosi come forma moderata e forma estrema del medesimo male. A metà degli anni Trenta, e più ancora durante la seconda guerra mondiale, la distinzione cambia: democratici e comunisti formano allora un’alleanza antifascista. Infine, qualche anno prima dello scoppio della guerra, e soprattutto dopo la sua fine, è stato proposto di considerare fascismo e comunismo come due sottospecie del medesimo genere, il totalitarismo, parola rivendicata all’inizio dai fascisti italiani. Tornerò più avanti sulle definizioni e sulle delimitazioni; ma è già chiaro, dall’articolazione globale che scelgo, che questa terza distinzione ai miei occhi è la più illuminante.

La scelta dell’avvenimento maggiore restringe sensibilmente il mio tema. Non solo mi limiterà per l’essenziale a un unico continente, il mio, ma il secolo stesso si abbrevia un po’: il suo periodo centrale va dal 1917 al 1991, anche se bisognerà risalire indietro e, per altro verso, interrogarsi sul suo ultimissimo decennio. Fatto più importante, mi limito a un solo avvenimento della vita pubblica, lasciando nell’ombra tutti gli altri, come vita privata, arti, scienze o tecniche. Ma la ricerca del senso ha sempre un prezzo: essa procede per scelta e messa in relazione – che avrebbero potuto essere altre. Il senso che credo di intravedere non esclude quello degli altri – vi si aggiunge, nel migliore dei casi. Il mio punto di partenza, la duplice affermazione secondo cui il totalitarismo è la grande innovazione politica del secolo e che esso è anche un male estremo, comporta già una prima conseguenza: bisogna rinunciare all’idea di un progresso continuo, al quale credevano alcuni grandi spiriti dei secoli passati. Il totalitarismo è una novità, ed è peggio di ciò che lo precedeva.

Ciò non prova affatto che l’umanità segua inesorabilmente una china discendente, ma solo che la direzione della storia non è sottomessa ad alcuna legge semplice né, forse, ad alcuna legge tout court. Lo scontro fra totalitarismo e democrazia, come quello fra le due varianti totalitarie, comunismo e nazismo, costituisce il primo tema della mia inchiesta. Il secondo ne deriva per il fatto stesso che questi avvenimenti appartengono per l’essenziale al passato e sopravvivono fra noi solo grazie alla memoria. Ora, quest’ultima non è affatto assimilabile a una registrazione meccanica di ciò che accade; essa ha forme e funzioni fra cui è obbligatorio scegliere, la sua istituzione conosce fasi che possono subire perturbazioni specifiche, essa può essere assunta da attori differenti e condurre ad atteggiamenti morali opposti.

La memoria è sempre e necessariamente una buona cosa, e l’oblio una maledizione assoluta? Il passato permette di capire meglio il presente o serve il più delle volte a nasconderlo? Le memorie del secolo saranno dunque, a loro volta, sottoposte a esame.

Infine, anche se si tratta innanzitutto di riflettere sul senso di questo avvenimento centrale, mi vedo obbligato a prendere conoscenza anche del passato più immediato, quello posteriore alla caduta del Muro di Berlino, per interrogarlo alla luce degli insegnamenti scaturiti dall’analisi precedente. Una volta vinto il totalitarismo, sarebbe sopravvenuto il regno del bene? O nuovi pericoli incombono sulle nostre democrazie liberali? L’esempio che scelgo qui è tratto dall’attualità recente, poiché si tratta della guerra in Iugoslavia e, più specificamente, degli avvenimenti nel Kosovo. Il passato totalitario, il modo in cui si perpetua nella memoria, infine le luci che getta sul presente formeranno dunque i tre tempi dell’inchiesta che segue.

Ho scelto di mescolare a questa riflessione sul bene e sul male politici del secolo un richiamo di alcuni destini individuali fortemente segnati dal totalitarismo, che tuttavia hanno saputo resistergli. Gli uomini e le donne di cui parlerò non sono del tutto diversi dagli altri. Non sono né eroi né santi, e neppure dei «giusti»; sono individui fallibili, come voi e me. Tuttavia hanno seguito tutti un itinerario drammatico; hanno tutti sofferto nella loro carne, e al tempo stesso hanno cercato di far passare il frutto della loro esperienza nei loro scritti. Costretti a vedere da vicino il male totalitario, si sono mostrati più lucidi della media e, grazie al loro talento come alla loro eloquenza, hanno saputo trasmetterci ciò che avevano imparato, senza tuttavia mai diventare dei perentori distributori di lezioni. Queste persone provengono da paesi diversi, Russia, Germania, Francia, Italia, e tuttavia qualcosa li accomuna. Da un autore all’altro (anche se ci sono sfumature) si ritrova lo stesso sentimento, quello di uno spavento che non conduce alla paralisi; e anche uno stesso pensiero, per il quale trovo una sola etichetta appropriata, quella di “umanesimo critico”. I ritratti di Vasilij Grossman e di Margarete Buber-Neumann, di David Rousset e di Primo Levi, di Romain Gary e di Germaine Tillion sono lì per aiutarci a non disperare.

Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo? Sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori. Gli si darà il nome degli scrittori e dei pensatori che erano da vivi i più influenti, che suscitavano più entusiasmo e controversia, quando a cose fatte ci si accorge che si sono quasi sempre ingannati nelle loro scelte e che hanno indotto in errore i milioni di lettori che li ammiravano? Sarebbe un peccato riprodurre nel presente gli errori del passato.

Per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo.”

Alla fine della passeggiata saluto Todorov all’ombra di un pioppo tremulo e su sua richiesta lo lascio con sé stesso, anche per il suo desiderio di riprendere fiato. In me, un senso di leggerezza inconsueta al termine del monologo di Todorov per tutta la camminata: i dubbi sovrastano qualche sparuta anguilla di certezza. E mi sento più vivo. Nel dubbio mi ricarico. Fatte le debite proporzioni e stabilite le necessarie differenze, il dubbio è in me ed è nell’economia generale della mia vita ciò che Sciascia è stato per Camilleri, su ammissioni reiterate dello stesso Camilleri:

“Quando sento le mie batterie scariche leggo o ri-leggo Leonardo Sciascia…”

Giorgio Linguaglossa

cari Francesco Paolo Intini e amici e interlocutori,

non vi nascondo che all’epoca le risposte dei letterati a queste Quattro Domande [ndr leggi precedente post] furono, dal mio punto di vista fortemente insoddisfacenti e riduttive. A quel tempo, siamo nel 1996, cominciai a prendere coscienza che era pleonastico e anzi controproducente sollevare questioni o istanze che avrebbero potuto insospettire ed irritare le istituzioni stilistiche. Infatti, di lì a poco ricevetti una cartolina postale di Andrea Zanzotto il quale mi comunicava che «non sono interessato alla direzione presa dalla rivista» [ndr, il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, che a quell’epoca coordinavo]. Quello fu il suggello, l’imprimatur della sentenza: alle istituzioni stilistiche vigenti non interessava e (non interessa) che si mettano sul tappeto questioni «allotrie», e comunque, non formulate secondo le convenzioni chiesastiche della ortodossia culturale. Ne presi atto.

Sono passati 23 anni e la situazione di cultural lag non è cambiata, anzi, sembra peggiorata. il conformismo nazional-elitario delle istituzioni stilistiche ha raggiunto l’apice. E la riprova ne è che sull’articolo sulla poesia e la storia culturale di Mario Lunetta, nessuno dei suoi amici o estimatori ha sentito la necessità di scrivere un commento anche di due righe per ricordare le battaglie del poeta romano degli ultimi cinquanta anni, battaglie che si possono anche non condividere (e infatti il sottoscritto non condivideva affatto molte sue posizioni culturali e di poetica), ma il rispetto e la riconoscenza per un poeta intellettuale come Mario Lunetta dovrebbe essere fuori discussione anche da chi non la pensava come lui.

Penso che le 4 Domande del 1996 andavano al cuore delle questioni del fare poesia, ieri come oggi. L’Interrogazione fondamentale, di che cosa si tratta? Ma, esiste veramente?, o è una fandonia inventata da un poetucolo? Ecco, qui, proprio su questo punto ci si gioca il testimone del passaggio dalla generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Bigongiari, dei Sanguineti a quelle che hanno occupato le posizioni delle cosiddette istituzioni stilistiche. La caduta del tasso di intelligenza delle questioni teoriche e filosofiche presso le generazioni che sono seguite è stata perpendicolare e catastrofica. Gli autori educati ed edulcorati di oggi non sono in grado di dire niente di significativo sulla questione della Interrogazione fondamentale, non hanno né la competenza (non essendo poeti), né la cultura filosofica necessaria per affrontare un tale argomento.

Lucio Mayoor Tosi

L’accusa di «metempsicosi» si spiega solo in riferimento al fantasma, e ho idea che accada per il modo in cui talvolta viene esplicitato. Nelle poesie NOE vi sono esempi innumerevoli. Per questa e altre questioni d’accusa, il fatto è che sembra mancare il lettore creativo-attivo a cui queste poesie sono rivolte; un lettore capace di non prendere tutto alla lettera, al quale anche la categoria della metafora sia venuta a noia. Non ci si accorge dell’apertura che si crea grazie all’uso del frammento; che probabilmente viene inteso come ennesimo escamotage strutturalistico, mentre invece è l’esatto contrario, in quanto la “nuova” struttura serve esattamente a de-strutturare, creare varchi, consentire dissonanze altrimenti impossibili. Si dirà che ne va del “senso”, evidentemente. Già, come se il senso fosse un uccellino da tenere in gabbia…
In effetti, caro Giorgio, sembra un paradosso, quello di de-strutturare ricorrendo a una nuova, seppur labile e soggettiva, strutturazione. Ma questi sarebbero tecnicismi; e arrivo a dire che sembra un parlare da pittori (quello che tu dici del ciabattino), come faceva De Chirico quando recensiva una qualche mostra d’altri: l’impasto, la scelta del colore (tutto quel «bitume» in Caravaggio); epperò è necessario: più fisica che metafisica.

Mauro Pierno

L’agorà ha una fuga, un
cortocircuito riconoscibile. Un

gusto memorabile. Una cialda.
Un passo double che arricchisce

la sintassi, la pagina labile di un pensiero,
questo profumo di nocciola.

La gelateria noe
in fondo la trovi sempre all’ombra. Continua a leggere

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Dialoghi e Poesie, La storicità debole dell’Epoca del presentismo mediatico, Le parole piene, Le parole comunicazionali della poesia di oggi, Octavio Paz, Marie Laure Colasson, Nunzia Binetti, Guido Galdini, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Maurizio Cucchi

 

Giorgio Linguaglossa
11 giugno 2019 alle 12:33

Leggiamo la poesia di Marie Laure Colasson

Vert de l’eucalyptus
Rose pale de la rose
Dans la transparence
D‘ un petit verre d‘eau de vie
Sous l‘éclairage d‘une lampe de chevet
Sérénité

Oiseaux noirs des campagnes
Leurs cris étranglés
Les corbeaux

La mélancolie sonore
D‘ Erik Satie
Te vide de toute pensée
………………écoute

Une bande de rats
Vêtus de jeans troués
Fumaient des havanes
………pas des prolétaires

Perdre la vue
Michel Onfray
Comment dormir
Comment……………
Comment…………………..

Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.

A suo modo Marie Laure Colasson scrive secondo i parametri della nuova ontologia estetica senza peraltro averla mai incontrata prima in quanto la poetessa francofona che abita a Roma frequenta la rivista soltanto da pochi giorni. Ciò vuol dire, come non mi stanco di ripetere, che le cose sono nell’aria, che un poeta che abbia sensibilità linguistica non può non accorgersi che l’atmosfera delle parole è cambiata, che è cambiata la sensibilità per le parole, e sono cambiate anche le parole.

Quelle parole di un tempo, che abitavano la sintassi di un Cesare Pavese o quella di un Sanguineti, adesso sono state messe in mora, sono state fatte sloggiare da quegli indirizzi, sono state evacuate dalla forza pubblica, il ministro della mala vita, Salvini, ha chiamato i bulldozer e ha fatto tabula rasa delle loro residenze, di quelle bidonville che erano l’accampamento delle parole di uno Zanzotto o degli apologisti epigonici di oggi. Quelle parole non esistono più, sono state bandite e rese obsolete. Ma non da noi dell’Ombra, ma dalla storia.

Non so se sia stato il «dolore» delle parole come pensa Nunzia Binetti, io sto ai fatti: le parole si sono raffreddate, non sopportano più i massaggi cardiaci degli innamorati della parola poetica e degli esquimesi posiziocentrici del vuoto a perdere, le parole della Musa fuggono da chi vuole accalappiarle con l’accalappiacani o con lo scolapasta. Il fatto è che le parole della poesia non sanno più dove rifugiarsi, fuggono, scantonano, preferiscono dimorare negli immondezzai di Roma (Grazie sindaca Virginia Raggi!), nelle risciacquature dei lavabo, nelle pozzanghere dove ci sono cinghiali e gabbiani ad abbeverarsi…

Il Signor Avenarius, un personaggio delle mie poesie, dice: «Le parole hanno dimenticato le parole», sono state attecchite dall’oblio delle parole, un virus pericolosissimo che ci sta decimando senza accorgercene. Siamo lentamente invasi dalle parole piene, le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi.

Giuseppe Gallo
11 giugno 2019 alle 13:52

Carissimo Giorgio, una veloce precisazione per segnalare che m’ero accorto di quanto avevi suggerito sulla ontologia negativa di Heidegger, infatti ti scrivevo in data: 25 maggio 2019 alle 9.19 :

Caro Giorgio, trovo molto interessante l’appunto che esplichi sulla ontologia negativa di Heidegger: «l’Essere è ciò che non si dice» che oggi si rovescerebbe nel suo opposto “l’Essere è ciò che si dice.” e la sua estensione alle poesie di Marina Petrillo e di Donatella Giancaspero. Noto però, che i due assiomi hanno come radice sempre la parola e il linguaggio. Anche il “non si dice” ha bisogno di essere espresso alla stessa stregua di ciò “che si dice”. È sempre il linguaggio che deve parlare…

Poi non abbiamo avuto modo di discuterne. Oggi hai ripreso l’argomento e hai anche richiamato il testo di Massimo Donà, Aporia del fondamento (2009). Penso che la questione sia di capitale importanza… ne è testimonianza la tua più che trentennale esperienza… dobbiamo finirla di indossare gli oscuri “pepli” di quelle poetiche che perpetuano pianti e lagni intorno a ciò che non si sa e non si può sapere… altrimenti l’unica soluzione è un silenzio immane. E non possiamo nemmeno ruotare a vuoto intorno all’indicibile perché rischieremmo di fare la fine della mosca imbottigliata di Wittgenstein per mancanza di collusione con l’esterno… dobbiamo tornare alla complessità della parola e del linguaggio: è solo in questa dimensione che bisogna sperimentare i sentieri e i percorsi… ho la vacua speranza che non siano stati tutti interrotti… In fondo già nel suo severo “Poema” Parmenide poneva a confronto la “via della notte” e la “via del giorno”…

Giorgio Linguaglossa
11 giugno 2019 alle 15:47

caro Giuseppe Gallo,

Ecco l’incipit di L’arco e la lira di Octavio Paz, poeta e saggista tra i più significativi del nostro tempo:

“Scrivere, forse, non ha altra giustificazione che tentare di rispondere alla domanda che ci siamo fatti un giorno e che, fino a quando non ci saremo dati una risposta, non ci darà tregua.“

Una volta, anni fa, uno scrittore di chiacchiere poetiche mi ha fatto questa domanda: “tu che la sai, perché non ci riveli qual è la domanda fondamentale che dobbiamo porci?” – Tu comprendi bene che dinanzi alla albagia e alla truculenza ignorante di una tale domanda io sia rimasto in silenzio, cosa potevo rispondergli?

Sempre Paz scrive:

«La storia dell’uomo si potrebbe ridurre a quella delle relazioni tra le parole e il pensiero. Ogni periodo di crisi inizia o coincide con una critica del linguaggio. Subito viene a mancare la fede nell’efficacia del vocabolo… Persino il silenzio dice qualcosa, poiché è saturo di segni. Non possiamo sfuggire dal linguaggio… Per catturare il linguaggio non abbiamo altro modo che usarlo. Le reti da pesca per le parole sono fatte di parole… Il linguaggio, nella sua realtà ultima, ci sfugge. Questa realtà consiste nell’essere qualcosa di indivisibile e inseparabile dall’uomo. Il linguaggio è una condizione dell’esistenza dell’uomo e non un oggetto, un organismo o un sistema convenzionale di segni che possiamo accettare o disfare».1

Ecco, caro Giuseppe, però adesso sappiamo che le famose «corrispondenze» tra le parole, ci hanno portato fuori strada, perché è proprio del linguaggio dei segni portarci fuori strada. Andare fuori strada è quella la strada. Nel linguaggio non dimora la verità, esso è la verità, la sola e unica verità di cui possiamo fare conoscenza, ma, appena preso possesso di queste verità, ecco che il linguaggio ci mostra l’altro lato della medaglia, ci indica qualcosa d’altro che la verità richiama. Senza fine. Un richiamo rimanda ad un altro richiamo. La verità è allora questo portarci fuori. La verità è ciò che si dice, non ciò che non si dice. È questa la tremenda verità della ontologia positiva. Con il che, per chi capisce la portata delle conseguenze che derivano da questo apoftegma, cambia il modo di considerare il discorso poetico e di abitare il linguaggio poetico.
[…]
Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».

1] O. Paz, L’arco e la lira, a cura di Ernesto Franco, il melangolo, 1991 p. 33

Francesco Paolo Intini
12 giugno 2019 alle 10:06

Non Dio

Resta un dubbio sul gatto nero
Se i palazzi ruotano intorno.

I fotoni eccitano le rivoluzioni
La materia oscura inghiotte i quartieri.

Le ombre illuminano
E dal loro centro emergono gli occhi.

I teologi rimasero sconvolti dalla natura della luce
così in dettaglio non s’era mai visto l’essere.

Se doveva pensarsi Dio
bisognava liberarlo dai fotoni e dunque

Le strade si riavvolsero, il traffico rimase inghiottito
Il corpo nero diventò l’imploso di gechi e malve

Il pazzo che scrisse “ Dio c’è” nel triangolo stradale
è il folle che disse “ Dio è morto”.

Lucio Mayoor Tosi
12 giugno 2019 alle 10:48

Nel «dialogo» non si fa differenza tra vivi e morti. Se non vi è differenza, allora siamo tutti vivi, o tutti morti. Se morti, a che vale buttarsi dal Pont Mirabeau? Forse a togliere tra di noi il disturbo…
“– è il dialogo che apre alla soluzione problematologica”. Non il monologo, quindi.
Un passo in avanti nel tempo e ci si ritrova morti. Finalmente immuni. Sarebbe una delizia? Ma se siamo morti e vivi, cosa cambia? Il nostro essere in natura; che da quando abbiamo smesso di migrare ci tocca di accendere il riscaldamento… Lo dicevo stamane agli aironi che vivono qui, nelle pozze d’acqua delle risaie. Agli aironi, perché no?

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 11:16

cari amici,

siamo inesorabilmente invasi dalle parole «piene», le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi, e quelle che usiamo tutti i giorni nei nostri commerci quotidiani. Le parole «piene» sono quelle di Salvini & company, sono quelle che chiamano a raccolta, imperative, piene di significato, piene di steccati.

No, le parole della poesia sono un’altra cosa, esse sanno di essere deboli e fragili, sanno di non poter contare sul proprio statuto di verità ontologica, sanno di poggiare su una ontologia meta stabile, soggetta alla mutazione, soggetta al toglimento, alla de-coincisione.

A me francamente fanno ridere le certezze dei poeti della domenica, quelli che mi dicono: «ma come fai a togliere l’io da una poesia?».

Ecco, dinanzi a questa domanda io non ho nulla da dire. Cosa potrei dire? Tutto l’ultimo libro di Maurizio Cucchi è il discorso di un io plenipotenziario: io di qua, io di là, io così, io colà… Probabilmente, opino che se l’autore mette dappertutto l’io ne sarà convinto, sarà in buona fede, forse pensa che l’io sia un passepartout che apre tutte le porte. Io invece, molto modestamente, sono convinto che l’io chiuda tutte le porte, chiude i discorsi invece di aprirli, e li chiude perché è convinto di coincidere con l’esserci, perché crede ingenuamente nell’eternità e nella bontà epistemologica dell’io. L’io si basa su questa credenza popolare: l’io è vero, tutto il resto è falso. Opinione accettabilissima per il senso comune, ma priva di qualsiasi significato filosofico.

È chiaro che un io di questo genere userà soltanto parole «piene», parole «vere»; dividerà le parole: di qua le parole vere e piene, di là le parole non-vere e non-piene.

Guido Galdini
12 giugno 2019 alle 15:35

A dire “io” si finisce subito.
Per questo continuiamo a ripeterlo.

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 16:14

Questa che segue è una poesia di un notissimo poeta italiano, la prendo come parametro ed esemplificazione di quello che dicevo sopra. La composizione inizia con la descrizione del pensiero dell’io, poi passa alla auto fustigazione di «noi animali», per poi proseguire con una ruminazione mentale oziosa e peregrina, del tutto vacua e irrisoria: «E laggiù dove andrò, remoto», cui segue tutta una infiorettatura di pensierini irrisori e gratuiti estrapolati dalla camera più segreta dell’io «nell’ultimo conato»…
Ecco, qui siamo in presenza di quello che volevo dire quando parlavo di «parole piene», di parole ad uso di tutti, di parole arroganti in quanto proiezione di un «io» nascosto, ascoso in chissà quale profondità mentale. Lo dice il testo stesso, all’io «piace… assaporare la più elementare forma di dominio». Sì, il dominio delle «parole piene», che si rivelano essere parole vacue, ingorde, irrisorie, fidejussorie… Le parole della storicità debole dell’epoca del presentismo mediatico. Continua a leggere

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Cinema Azzurro Scipioni (Roma, via degli Scipioni, 82 martedì, 9 febbraio 2016 h. 18.30, seguirà cocktail) – Presentazione della Antologia bilingue, testo italiano a fronte, “POEMS” di Antonio Sagredo,  Chelsea Editions, New York, traduzione di Sean Mark; intervengono: l’Autore, Donato Di Stasi, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone – Lettura dei testi: Michelangelo Firinu – Accompagnamento musicale: Andrea De Martino. Per informazioni: (0039) 3393446073 – – – Antonio Sagredo DUE POESIE “La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico” e “La soglia del duende” con Commento di Giorgio Linguaglossa e Autocommento dell’autore – “LEstraneo (Unheimlich)”, “La poesia di Sagredo, atto «incipitario» e «atto fondativo»”, “Frantumare il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante”, “Nelle poesie di Sagredo noi sediamo in platea mentre sulla scena ha luogo una recita”

Cinema Azzurro Scipioni (Roma, via degli Scipioni, 82 martedì, 9 febbraio 2016 h. 18.30, seguirà cocktail) – Presentazione della Antologia bilingue, testo italiano a fronte, “POEMS” di ANTONIO SAGREDO,  Chelsea Editions, New York (2015), traduzione di Sean Mark; intervengono: l’Autore, Donato Di Stasi, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone – Lettura dei testi: Michelangelo Firinu – Accompagnamento musicale: Andrea De Martino. Per informazioni: (0039) 3393446073
antonio sagredo teatro abaco1971 skomorochi (4)

antonio sagredo teatro abaco1971 skomorochi con A.M. Ripellino

Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche.

Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. Alberto Di Paola e K. Zoufalová. Nel 2015 pubblica  Poems Chelsea Editions di New York, antologia bilingue con testo a fronte in italiano.

Antonio sagredo teatro politecnico-1974

Antonio Sagredo teatro politecnico-1974

Commento di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Antonio Sagredo è un evento irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per eventualizzarsi deve pescare nelle profondità dell’Estraneo (Unheimlich) in quanto, come scrive l’autore, «le maschere si somigliano». La sua è una poesia che sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità del discorso poetico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura, non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.

Scrive Octavio Paz ne “L’arco e la lira”: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».

Il discorso poetico di Sagredo è fondatore di un evento: un mondo surrazionale e incipitario. Vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellizzarla secondo una nuova logica illogica, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’evento fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso.

.

C’è un insieme ballerino e convergente:
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!

.

Solitudine della logica: punto del non-ritorno.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.

.

Solitudine del punto.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.

.

L’inizio non ha fine all’inizio della fine!

.

È un atto poetico che vuole situarsi all’inizio della costruzione della Lingua, in una solitudine assoluta ed eroica. È un atto maniacale e spasmodico, incipitale e magmatico.

Ogni atto «incipitario» è un «atto fondativo». La poesia di Sagredo va letta in quest’ottica: come ogni fondazione di città, traccia il decumano e il cardo e le innumerevoli vie trasversali che li attraversano. Anche nella poesia sagrediana si pone il medesimo problema di disseminare i sensi e le direzioni di senso ai fini dell’orientamento nella Città del Verbo. Sagredo sa bene che in ogni atto fondativo di parola si cela il Teatro della Rappresentazione, un rito, un altare (divelto), un logos (rimosso), un messaggio (tradito) ove il parlante è contraddetto e contraddistinto dalla parola parlata. La parola sagrediana assume la forma di una erotecnica, è sospinta da un desiderio di parola che vuole rimettere la parola al centro della scena della rimozione e del tradimento (di qui l’abbondanza nella sua poesia di armi bianche, di scene di tradimento, di sanguinamenti, di oltraggi etc.). La poesia sagrediana è una rappresentazione teatrale di un teatro finto, posticcio, bislacco, è una parola di cartapesta e di ceralacca; una parola consunta e infingarda che guarda con orrore e dispetto al discorso poetico che crede ingenuamente di risolvere il conflitto tra il conscio e il rimosso, tra il tradimento e la fedeltà, tra il soprasuolo e il sottosuolo con il semplice ricorso ad una parola referenziale che tradisce un concetto federativo tra discorso poetico e reale (visto come una serie di oggetti che stanno di fronte al parlante e che il parlante deve rispecchiare).

Antonio Sagredo copPrimo intento di Sagredo è quindi frantumare il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante, il tacere al parlare, il parlare al tacere visti come soluzioni non accettabili ed insufficienti; secondo intento è rimescolare l’ordine e il disordine delle parole, considerate quali frattaglie algebriche della impossibilità di attingere un senso o una direzione di senso nella Città del Verbo. Lo scompaginamento, lo scassinamento e il caos verbale che ne conseguono sono il diretto risultato di un atteggiamento quasi donchisciottesco del poeta che si rivela impagliatore di frasari, fustigatore di parole, allibratore di scommesse perduteOltraggiatore di quisquilie, posteggiatore di improperi, fustigatore di imperatori. È l’irruzione nel Discorso della Ragione Poetica, dell’Estraneo, dell’Alterità, del Simbolico, dell’Immaginario direbbe Lacan, della barra in-significante, della traccia perduta e dimenticata. Forse, Antonio Sagredo è più prossimo ad Amleto di quanto si immagini, discetta sulla orditura del cosmo nel mentre che prepara il suo delitto di cartapesta. Forse, l’Utopia di Sagredo è un sogno, il sogno della uccisione del totem del Padre, sopprimere l’Estraneo…

Leggiamo una breve poesia di Antonio Sagredo:

.

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

.

La poesia parla di una «gorgiera»? (elemento di una vestizione seicentesca che appariva immediatamente sotto il collo maschile, simbolo di nobiltà e di elevato censo sociale); ma la «gorgiera» è un attante di specificazione di un’altra parola chiave del testo: «di un delirio». Qui, subito all’inizio, troviamo una sineddoche, si nomina una parte del tutto per indicare il tutto; è quindi «il delirio» il centro del motore simbolico della poesia, ma appena leggiamo le parole seguenti del primo verso, ci accorgiamo che «la gorgiera» è diventata il soggetto che mostra che «la Via del Calvario Antico», qui si tratta di un accenno semantico alla crocifissione di Gesù, ma è appena un accenno, perché subito dopo si parla di «un crocicchio» dove «la calura» fa una cosa strana, Sagredo usa il verbo neologismo «atterò» (che non sappiamo che cosa possa significare ma che richiama alla mente una serie di accezioni semantiche secondarie). Dunque, siamo arrivati alla metà del secondo verso e già le cose si presentano maledettamente complicate. Ma che cos’è che «attera» (forse nel senso di atterrare, azzerare, sopprimere) «i miei pensieri»?. E qui di nuovo riemerge l’io spodestato dalla «gorgiera» del primo verso la cui presenza viene sottintesa nella declinazione alla prima persona dell’io poetante: «i miei pensieri». A questo punto veniamo informati che «che dall’Oriente […] «fu accecato» «il faro d’Alessandria». Il «faro d’Alessandria» si capisce subito dopo che è «Kavafis»…

Insomma, la poesia procede a zig zag, mediante espedienti del senso che straniano in continuazione il senso del testo, lo straniano appunto introducendo delle deviazioni continue. Il testo si presenta come una serie continua di deviazioni da una immagine, da una simbolica all’altra. La procedura sagrediana è questa: un infinito adeguarsi del senso. Sagredo fa con la mano sinistra quello che con la mano destra disfa; fa e disfa la tela di Penelope. È un falsario, un imbonitore e un rivoluzionario al tempo stesso, procede per tradimenti del senso e dell’orizzonte di attesa del lettore. Una instancabile ricerca di una traccia in direzione di una archi-traccia. Che non verrà mai trovata. Che non può mai essere trovata. Un Salvator Dalì della poesia italiana.

Nelle poesie di Sagredo noi sediamo in platea mentre sulla scena ha luogo una recita (non dimentichiamoci che Sagredo è stato attore ed è stato un ammiratore della poesia attoriale di Ripellino); nella recita Sagredo recita a soggetto. Ha in mente soltanto un canovaccio, sa a memoria soltanto alcune battute ma, al momento dell’entrata in scena, il canovaccio viene tradito, consegnato al pubblico e tradito. Sul palco del teatro si annuncia una messinscena, si allestisce uno spettacolo, si allestisce un parricidio simbolico che si risolve in un ossessivo, maniacale, spostamento degli oggetti e della suppellettile della casa paterna. Sagredo fa nella sua poesia ciò che Shakespeare ha fatto nell’Amleto, crea, e mentre che crea sente il bisogno di distruggere ciò che crea. È un cerchio simbolico che qui ha luogo. Un assassinio del Totem, sempre ripetuto e sempre rinviato. La poesia sagrediana diventa così un atto liturgico, regredisce a rito apotropaico. Sagredo decostruisce il testo nel momento in cui lo mette in scena o, almeno, nel momento in cui tenta di metterlo in scena.

antonio sagredo Politecnico Teatro 1974-skomorochi (2)

antonio sagredo Politecnico Teatro 1974-skomorochi

Antonio Sagredo La soglia del duende

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 Mi giunsero notizie come varianti mostruose da ogni luogo terrestre: l’orrore
non era più una novità per me, gli eventi sugli occhi battevano i ritmi delle visioni
recidive: catastrofi, apocalissi il nostro pane quotidiano… i tasti del duende scellerati:
Sono rose nere queste quotidianità, ma non sono le mie rose!

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Voi forse credete le croci meno mostruose delle scimitarre? I candelabri meno
mostruosi di quelle? Caroselli, giostre, morgue, obitori, mattatoi ad uso comune…
tutto o nulla fluisce dalla pianta dei piedi al midollo… meno cantavo più la canzone
mi era sonoramente insensata: fuoco del sangue! sangue del fuoco!

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Ho spremuto la Morte come un limone di primavera quel giorno romano che il silenzio
oscillava al canto del gallo come una banderuola gitana. Eloisa, meretrice di Siviglia,
batteva i quattro boulevards dell’arena, lei che era gobba come una prefica medievale
cantava Santa Teresa barocca dal volto più affilato di una falce!

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Sugli altari delle lagrime scrisse con dita di cera un epitaffio muliebre con gli stiletti
delle sue unghie arcuate … era famosa come la bambina dei pettini e gareggiava
con le ballerine di Cadice, e danzava al canto di Silverio l’emorragia dei gesti dai balconi
giudei dei fiori di sale… mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
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La soglia e la ferita mi contesero il poeta sulle scale delle lagrime: era la squillante
voce piombata degli zoccoli sul nero suono muschiato…un’aria con odore di saliva
di bimbo, di erba pestata e velo di medusa sotto nuovi portali di scoperta.
Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!

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Roma, 10 ottobre 2015
antonio sagredo-1971

antonio sagredo-1971

Autocommento di Antonio Sagredo

 Caro Giorgio,

cerco di spiegarmi: Intanto dovresti sapere cosa è il duende. Se non lo sai dovresti leggere il testo di Federico Lorca del 1930: El duende teoria y juego. Il poeta assegna alla ispanità 4 linee come strade o boulevards, e sono: gitano, barocco, ebraico, romano.

la prima strofa:

a tutti giungono notizie da tutto il mondo e sono notizie tragiche colme di orrori di vario genere, si presentano, come visioni recidive (nulla al mondo è cambiato in meglio e tutto gli orrori si ripetono fin dalle nostre origini tant’è che è pane quotidiano!), al contrario del duende che non si ripete mai.

Il duende questa forza di cui si sa e non si sa la natura ci suona il cervello (midollo) dai nostri primordi e suona scelleratamente: il quarto verso mio è tratto dalla poesia “Me ne fotto” del 2011. “Rose nere” coincidono (non lo sapevo prima) con quanto ci riporta Lorca nel suo scritto su menzionato, citando una frase di un personaggio spagnolo, dice Lorca:” Manuel Torres pronunciò questa splendida frase <tutto ciò che ha suoni neri ha duende>“.

seconda strofa:

croci sta per cristianesimo; scimitarre sta per islamismo; candelabri sta per ebraismo . sono le tre religioni monoteiste e tutte e tre responsabili delle catastrofi e tragedie dell’umanità! Esse sono: caroselli morgue, ecc. alla portata di tutti, cioè tutti sono in grado di realizzare apocalissi! E il duende fluisce  in noi dalla pianta dei piedi fino al midollo (dal testo di Lorca), vuole significare che questa forza-nonforza penetra in noi e ci cambia e con la stessa tendenza se ne esce da noi! –(il duende non sta nella gola (Lorca) ciò significa che il poeta canta invano! e meno il poeta canta più il suono (nero) della canzone diviene insensato da non comprendere più dove sta il nostro fuoco e il nostro sangue: vuol significare che il duende (questa energia) è così padrona di noi che noi stessi non sappiamo più chi siamo.

terza strofa:

la terza strofa richiede obbligatoriamente la conoscenza del testo di Lorca. Giorno romano  (una delle quattro grandi strade della tradizione spagnola – Lorca)… banderuola gitana…; Eloisa, la meretrice personaggio reale di Siviglia… gobba come una prefica… che (mia versione) canta Santa Teresa, barocca, induendata (sovrassatura di duende!) al massimo grado! – Lorca nel testo ci dice che la Musa e l’Angelo non hanno alcuna importanza per il duende, che sta altrove e che è di altra natura!

E ci dice qualcosa di fondamentale importanza che riguarda il Poeta: il duende ama la lotta, anzi il duende è la lotta stessa!… “e questa lotta per l’espressione e per la comunicazione dell’espressione a volte acquisisce, in poesia, caratteri mortali”.(Lorca) – (frase che definisce i miei versi!).

quarta strofa:

“sugli altari delle lacrime…” chi scrisse con mano di cera? Fu la Musa vinta, dice Lorca. E Santa Teresa? (carne viva!), e  il Duende? E il Poeta? E la Meretrice? = la bambina dei pettini che gareggia (mia versione) con le ballerine di Cadice, elogiate da Marziale (Lorca)… al canto di Silverio (gran personaggio spagnolo reale, artista e compositore di musiche…)… balconi giudei… – “mirando del mio corpo il non agire… e poi non più”: (mio verso tratto dalla poesia del 2004 Ponte del suono)… e ho scoperto di aver detto qualcosa di stupefacente sul duende che non sapevo e cioè che il non agire – (scrive Lorca: ”Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare”).

quinta strofa:

Il duende sta ai bordi (soglia) , sta  alla ferita, e esso stesso bordo e ferita. Scrive Lorca :” Angelo e Musa scappano con violino o ritmo, e il duende ferisce, e nella guarigione di questa ferita, che mai rimargina, risiede l’insolito, l’inventato dell’pera umana”.

Il verso: … si contesero il poeta sulle scale delle lacrime (lacrime come ferite aperte, carne viva, voce del poeta che è errato che resti nella gola quando il duende è invece l’energia che dalla pianta dei piedi sale fino al midollo!)… si, ma giunge con suoni neri di zoccoli piombati? Suono del piombo! E infine del testo Lorca scrive :”Ma dov’è il duende? [è in] un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create”.

 Il mio verso finale:

Ma contro la geometria del pianto mi truccavo con gesso di Ruidera!

Che significa? È una uscita soltanto teatrale come di solito uso fare? Oppure no?

Scrive Lorca.”il duende è il sangue che  respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili… Che il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue”.

È tutto una serietà apparente, oppure no?

Di contro tutte le geometrie (“per cercare il duende non v’è mappa, né esercizio”, scrive Lorca) qui, del pianto (ma possono essere altre geometrie) io oppongo il trucco con gesso di Ruidera

(Ruidera, località lacustre nella arida regione di Castilla-La Mancha). Il trucco, per me, scompagina ogni classificazione geometrica della vita, per questo è una altra via che segna l’entrata trionfale del duende… sulla SOGLIA appare e tutto si inizia!

 

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte VI) Kikuo Takano, Octavio Paz, Salvatore Toma, Mariella De Santis, Anthony Robbins

magritte golconda

magritte golconda

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

 

 

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano cop

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kikuo Takano

Sempre una voce

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Se piangi
vai oltre il dolore.
E ti accorgi che nell’addio
c’è l’incontro”.
Così ti parlava Dio, sfiorandoti
con la mano la schiena.

Sempre una voce
ti ha avvisato: “Con pazienza
aspetta, e per meglio guardare
impara a chiudere gli occhi”.
Così ti parlava Dio, con una lieve
carezza sui capelli.

Quando nel dolore piangevi
senza poter far nulla
quel Dio lo avevi accanto,
a volte ti portava sulle sue spalle.

 

Se ti dico

Se ti dico che è la destra,
mi rispondi: “Anch’io la destra”,
se ti dico che è la sinistra
mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
E così insieme abbiamo atteso l’alba.
Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
era il desiderio dell’uno per l’altra
e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
e noi, senza neppure toccarci,
eravamo stupiti da tanto desiderio.

“Siamo stati stupiti come bambini…”
E ora tu mi disprezzi
“sì, ti odio
perché l’hai contemplata come in estasi
senza svegliarmi con uno schiaffo
anch’io abbagliata da quella visione”.

Senza darti uno schiaffo.
un pesante schiaffo.
E noi, in quell’istante,
eravamo già oltre quella “domanda”;
tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
io avrei detto il mio
e con questi nostri addii
avremmo potuto iniziare
ogni notte e ogni mattina.

Ma ancora mi chiedi:
“Non poteva quell’addio
prender congedo dall’addio?”
Ed io ancora ti ripeto
quando diversa è la “domanda”,
che sparisca quella “domanda”.
Abbiamo fatto esperienza non d’amore
ma di tempo, il tempo vuoto,
e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
Avesti dovuto capirlo anche tu.

Ma alla fine che cosa vuol dire?
Se mi confronto con te,
scuoti il capo in modo banale
e banalmente mi rimproveri.
Erano inutili quei giorni,
inutili quelle lotte.
Oggi sentiamo come peccato
l’esperienza dopo aver recuperato
ciò che abbiamo vissuto.
Oh, la spola della tessitura!
È un terribile filo: più costruisce la trama
più si sfila l’altra parte del bandolo
E passano i giorni in cui mi capita
di dipanare sempre fil filo.

(da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e trad di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

 

Octavio Paz (1914-1998)

Octavio Paz (1914-1998)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Octavio Paz

La luce sostiene – lievi, reali –
il picco bianco e le querce nere,
il sentiero che avanza,
l’albero che resta;

la luce nascente cerca il suo cammino,
fiume titubante che disegna
i suoi dubbi e li trasforma in certezze,
fiume del’alba su palpebre chiuse;

la luce scolpisce il vento sulle tende,
fa si ogni ora un corpo vivo,
entra nella stanza e guizza,
scalza, sul filo del coltello;

la luce nasce donna in uno specchio,
nuda sotto un diafano fogliame
uno sguardo la incatena,
la dissolve un palpebrare;

la luce palpa i frutti e palpa l’invisibile,
brocca dove bevono chiarori gli occhi,
fiamma tagliata in fiore e candela in veglia
dove la farfalla dalle ali nere si brucia:

la luce apre le pieghe del lenzuolo
e i risvolti della pubertà,
arde nel camino, le sue fiamme divenute ombre
si arrampicano sui muri, edera di desiderio;

la luce non assolve né condanna,
non è giusta e non è ingiusta,
la luce con mani invisibili innalza
gli edifici della simmetria;

la luce se ne va per un varco di riflessi
e ritorna a se stessa:
è una mano che si inventa,
un occhio che si guarda nelle sue invenzioni.

La luce è tempo che si pensa.

(da Il fuoco di ogni giorno Garzanti, 1992 trad. Ernesto Franco)

 

Salvatore Toma

Salvatore Toma

salvatore toma copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salvatore Toma

Testamento

Quando sarò morto
che non vi venga in mente
di mettere manifesti:
è morto serenamente
o dopo lunga sofferenza
o peggio ancora in grazia di dio.
Io sono morto
per la vostra presenza.

*

Presso mezzogiorno
mi sono scavata la fossa
nel mio bosco di querce,
ci ho messo una croce
e ci ho scritto sopra
oltre al mio nome
una buona dose di vita vissuta.
poi sono uscito per strada
a guardare la gente
con occhi diversi

(da Canzoniere della morte, Einaudi, 1999)

 

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Mariella D Santis, foto Dino Ignani

Mariella DeSantis copertina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mariella De Santis

Porta d’ingresso

fummo una porta d’ingresso, un numero civico
che fatico a rammentare, un passaggio in taxi
per le vie di Roma che dell’autunno scroscia
nel grembo delle donne la sottile decadenza.
Non altro nascondono le poetabili foglie d’oro
o le muffe dei funghi se non quel simile umore
che a corpo ancora non freddo si netta
per decente inumazione.

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Le cose che vanno

Le cose che vanno
non sempre hanno il tempo
di tiepidi addii,
a volte poi sembra vadano
invece restano per sempre
a morire con noi.

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Punti cardinali

verso sud, dove più tu sei lontano, ci sono io
a est la tua gioia che è sempre per domani
a nord ti fermi anche se vorresti andare
forse a quel sud guardando, da cui fuggo io
e non ci incontriamo mai se non nelle punte
ad ovest di due letti solitari. Continua a leggere

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