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UN POEMETTO di Gëzim Hajdari “Custode della mia uva” tratto da Delta del tuo fiume (Ensemble, 2015)  con un Commento di Giorgio Linguaglossa

da sx Gezim Hajdari Marco Onofrio Giorgio Linguaglossa Roma presentazione del libro

da sx Gezim Hajdari Marco Onofrio Giorgio Linguaglossa Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” Biblioteca Rispoli 2015

 Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.

Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.

Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.

La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.

È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia.

gezim-hajdari-nel-suo-studio-2006.

gezim-hajdari-nel-suo-studio-2006.

Ha pubblicato in Albania: Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte). Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010. Ha pubblicato in Italia in bilingue: Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001; Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013; Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006; Maldiluna/ Dhimbjehëne, Besa, 2005. II edizione Besa 2007; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014; Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012; I canti dei nizam/ Këngët e nizamit (i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012; Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013.

Libri reportage di viaggio: San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, 2004; Muzungu, Diario in nero, Besa, 2006. Libri sull’opera di Hajdari: Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore 2010. La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari, a cura di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble 2014. Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.

Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 – È co-curatore in italiano: dell’antologia I canti della vita (con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore 2008. È curatore e co-traduttore (insieme ad Andrea Gazzoni) dell’antologia Dove le parole non si spezzano (con testo originale a fronte) del poeta più importante delle Filippine, Gémino H. Abad, (Edizioni Ensemble 2014).

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx  Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari, Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

Ha pubblicato in Italia in edizione bilingue: Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993; Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995; Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000; Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001; Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013; Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007; Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006; Maldiluna/ Dhimbjehëne, Besa, 2005. II edizione Besa 2007; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005; Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007; Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007; Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008; Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008; Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014; Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011; Nur. Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012; I canti dei nizam/ Këngët e nizamit (i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012; Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013. Libri reportage di viaggio: San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico, Fara, 2004; Muzungu, Diario in nero, Besa, 2006 – Libri sull’opera di Hajdari: Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, a cura di Andrea Gazzoni. Cosmo Iannone Editore 2010. La besa violata. Eresia e vivificazione nell’opera di Gëzim Hajdari, a cura di Alessandra Mattei. Edizioni Ensemble 2014

Ha tradotto in albanese: L’antologia Poesie /Poezi, ( con testo italiano a fronte) di Amedeo di Sora. “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999. Forse la vita è un cavallo che vola, / Ndoshta jeta është një kalë fluturak, (con testo italiano a fronte, Edizioni Empiria 2000. L’antologia/ Eshka dhe guri/ Il muschio e la pietra (con testo italiano a fronte) di Luigi Manzi. Besa 2004.

Ha tradotto in italiano: I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012. Leggenda della mia nascita/ Legjenda e lindjes sime (con testo albanese a fronte) di Besnik Mustafaj. Edizioni Ensemble 2012. Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rrofte kenga e gjelit ne fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013 – È co-curatore in italiano: dell’antologia I canti della vita (con testo arabo a fronte) del maggior poeta tunisino del Novecento, Abū’l-Qāsim Ash-Shābb, Di Girolamo Editore 2008. È curatore e co-traduttore (insieme ad Andrea Gazzoni) dell’antologia Dove le parole non si spezzano (con testo originale a fronte) del poeta più importante delle Filippine, Gémino H. Abad, (Edizioni Ensemble 2014).

dal Risvolto di copertina del libro di Giorgio Linguaglossa

Il logos poetico di Gëzim Hajdari è governato dalla legge dell’identità nella molteplicità poiché parte dalla presa d’atto dell’esilio fisico e spirituale del parlante il quale non abita più la patria, la Heimat del linguaggio e del paesaggio, perché ne è stato escluso da un ingiusto esilio. Privato della propria patria, il parlante è  costretto a peregrinare di terra in terra, a mescolare il proprio idioma con quello di altri paesi e di altre Lingue, il suo sarà un canto dell’erranza e della trasfusione di Lingue nella Lingua universale-primordiale che sola può ospitare il canto dell’erranza. Al pari di un aedo antico, Hajdari parla la «lingua degli antenati, lo kiswahili», si mescola con altri erranti di tutte le lingue e di tutti i paesi, costretto ad inseguire il proprio destino come un Fato pagano: il canto della fedeltà e dell’infedeltà alla propria Lingua e al proprio popolo, di qui il Tragico che incombe su ogni parola pronunciata, il giganteggiamento dell’io, il canto dell’addio («Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»); infatti la forma di questa poesia  è calcata, alla maniera antica, su quella dell’epicedio e dell’inno. È la voce dell’oracolo antico che parla («Io venivo dai luoghi dell’oracolo di Delfi»), che si rivolge all’antica deità-femminile della «savana», del mondo femminile da lungo tempo scomparso che è compito dell’aedo riportare in vita.

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume cop(Tratto da Delta del tuo fiume. Ensemble, 2015)

Gëzim Hajdari

ROJË I VERËS SIME

Burrë skifter mbërritur nga toka e gurtë e Drasisë,
larguar nga atdheu yt në pranverë,
natën, nën shi,
i mposhtur,
pa një shtërngim dore,
dëgjoje kët’ thirrje vajzërore në muzg:
mos e braktis vreshtën time në pjekje,
jam e re, kam ende dëshirë për ty,
për dimrat e tu,
për shirat e tua,
për hijen tënde të huaj.

Trupi im prej kaprolleje dridhet,
eja t’më shuash, po digjem horë,
flakët ma pushtojnë gjoksin prush,
lëkura ime vallzon,
venat e mia këndojnë,
gjinjtë e mi fërgëllojnë,
buzët e mia të gjakëruara përvëlojnë,
hëna e errët e mbivetes sime
çel lule erotike gjithë aromë.

Harroje ezilin e hidhët,
tokën tënde njerkë në Lindje,
përtej detit të errët,
shqipet e zeza dykrerëshe që ta shqyejnë pa mëshirë
mishin e dobët ballë kalimtarëve.

Në Ballkanin tënd,
delirë dhe pluhur,
askush s’të pret,
veç mallkimit të xhinëve.

Dua të ta lehtësoj plagosjen e gurëve në trup
dhe dhimbjen e gjëmbave të zinj ngulur në lëkurë
me mushtin e dëlirë të verës sime.
Mos kij frikë nga shpirtrat e ligë,
asnjë njeri me të zeza s’troket në derën tënde të vjetër,
askush s’të ndjek pas për të të thikuar.
Ka kohë para se librat e tu – murgj të hidhëruar –
ta varrosin në heshtje trupin tënd
majëkodrës së errët.

Dorëzohu lakmisë sime dashurore tok me xhinët
e vragat e tua,
mirëprite thirrjen time prej gruaje
në kët’ gadishull të drishshëm me trupa zezakësh të mbytur.
Perënditë të zbritën nga Alpet e Arbërsië
për të të vënë në provë dashurie,
për të të shpallur të barabartë me to,
për t’më takuar mua, vashëz të arrirë
mbërritur në Çoçari nga detet e Jugut,
lajmëtare e ezilantëve në ikje.
Shqipëria jote, nënë dhe kuçedër,
të ka lindur e rritur
për të të shqyer mes gurëve
e mallkuar trupin,
gjuhën tënde
dhe sytë e tu
gjer në verbëri.

Mos i kthe sytë nga vendi ballkanas,
në lëkurën tënde veç gjëmba e vraga të thella,
majëkodrave të vendlindjes prehet terrori i viteve të gjelbër .

Burrë ezilant,
jam vreshta jote në mbretërinë tokësore,
lindur nga rropullitë e dheut të kuq të Saturnit,
për të të dehur me nektarin tim vajzëror
e ta humbësh rrugën e kthimit në Darsi,
për të të bërë të vdesësh e të rilindësh mijëra herë në ezil.
Dua të jem e burgosura e gjogut tënd të egër,
dua të jem himn i kërcellit tënd të epshëm.

Ti je pika që më ushqen me ezil,
më vadit si shiu i rrëmbyer në vjeshtë dheun e çarë,
më mban zgjuar e gjallë në gadishullin me tërmete,
më fekondon nga stina në stinë me hëna të plota
dhe mbyll qarkun tim,
dua të marr frymë me lëkurën tënde ezilante.

Burrë fshatar,
dua të fekondohem në vendlindjen tënde të hershme,
majëkodrës së errët me tërshërë të gjelbër
ku ndeshen demat e gjakosur hamulloreve
dhe ndërzehen rrufetë,
Dua t’i jap jetë një fisi të ri
sepse lufta jote prej guerrieri të vazhdojë,
sepse emri yt gdhendur mbi gurë të jetojë ndër shekuj
dhe Verbi yt mbretëroftë në mbretërinë e Njerëzve.

Puthi buzët e mia të tulta,
kafshoji thumbat e gjirit tim siç kafshoje kokrrat e razakisë
së kuqe në Hajdaraj,
Puthi gjinjtë e mi si dy pjeshka të kodrave të vendlindjes,
të ëmbël si hallva të vendit tënd Lindor,
si pekmez mani të kuq përgatitur nga Nur.
Shijoje frutin e lëngët të luginës sime të freskët
që parfumon si myshku i blirit në pyllin e Çapokut ,
e mirëprite natën time-perlë në shtratin me gurë stralli.
Përshkoje trupin tim dorëzuar me arkanin tënd,
pije qafën time prej kaprolleje,
shtërngoji me duart e tua prej profeti hiret e mia,
pëmendi gishtata e mi filiza pranverorë.

Burrë Laokont,
hyj në korijen time të etur tok me gjëmimet
e vetëtimat e provincës tënde bujqësore,
shuaje etjen time te burimi yt.

Jam vera rubinë e shtatorit që kullon
në oborrin e Verbit tënd shtegëtar
dhe ti, ezilant e rojtar i vreshtës sime plot musht.
Krahët e mi: degë që të shënjtërojnë,
duart e mia: lastarë që më lidhin duarve të tua,
gishtat e mi: rrënj që presin të lërojnë trupin tënd të pjekur,
dikur bari dhish.

Dashuria jote ezilante,
dashuria jote e huaj në kalim,
dashuria jote herezi,
dashuria jote pjellori blasfeme.

Burrë dem që parfumon eros,
sapo më vështron, unë lagem,
sapo më fshik, unë ndjehem grua,
sapo më zotëron, u dorëzohem xhinëve të tu,
sapo më prek gjer në fund, unë klith,
kur ti më lëron me plugun tënd, qaj nga gëzimi,
kur ti derdhesh, ndjej energinë tënde erotike
teksa përshkonë lëkurën time të lëmuar
si fëshfërima e erës që fshik valët
e dunave në shkretirë ;
jam duna jote,
ikja jote,
kur ti vdes tek unë, une ringjallem tek ty.

Burrë ballkanas,
jam robinja jote,
dua të blihem prej teje në pazarin e luleve.
Trupi im, kalorëse e çarmatosur,
gati për tu përshkuar nga shpata jote e pafajshme.
Lëshoji shirat e tu të bardhë pyllit tim të zi
e shëmbi argjinaturat e brishta të ujrave të mi.
Dua t’i ulërij botes se unë të dëshiroj,
dua t’i rrefej botes se unë dashuroj një burrë,
dua t’i klith para botës se ti je burrë
dhe unë jam grua.
Dua t’i ndaloj njerëzit në rrugë e tu them:
«e di që s’ju intereson aspak por unë dashuroj një burrë epik!»

Burrë guerrier i Lindjes,
mbërthemë me trupin e fuqishëm mashkullor
si një dem i harbuar i Shegasit ,
shfletomë siç shfleton era pranverore
sythat e lajthatës në zabelin e zhveshur,
gjelbëromë me lavën tënde të vakët pjellore
siç gjelbëron oazi mes rërës në shkretëtirë,
dhe bëj që nga perla ime të lindin fruta erotike
me ngjashmërinë tënde.
Të himnizoj siç celebrohet një kult hyjnor në Darsi,
të shënjtëroj siç shënjtëroheshin perënditë
në Arbërinë e lashtë,
jam Zana e Tempullit tend,
rojë e flakës së përjetshme.

Burrë Uliks,
jam Sirena jote,
e do të bëj çmos të jetë i gjatë udhëtimi yt,
do të të mbështjellë me mjegulla të verbëra,
e do të të shoqëroj me këngë detare
do të të udhëheq nëpër portet e panjohur të detit mesdhe
gjatë kthimit për në Itakë
dhe ti ndërmend gjithnjë Arbërinë tënde.

Gezim Hajdari colline di Fondi, 2006

Gezim Hajdari colline di Fondi, 2006

CUSTODE DELLA MIA UVA

Uomo falco che giungi dalla terra petrosa di Darsìa ,
fuggito dalla tua patria in primavera,
di notte, sotto la pioggia,
sconfitto,
senza una stretta di mano,
ascolta il mio richiamo di fanciulla:
non abbandonare la mia vigna acerba,
sono giovane, ho ancora voglia di te,
dei tuoi inverni,
delle tue piogge,
della tua ombra straniera.

Il mio corpo di puledra trema,
vieni a domare l’incendio,
le fiamme invadono il mio ventre focoso,
la mia pelle danza,
le mie vene cantano,
i miei seni fremono,
le mie labbra rosse ardono,
la luna oscura del mio pube
germoglia fiori di eros.

Dimentica l’amaro esilio,
la tua terra matrigna dell’Est,
oltre il mare negro,
le nere aquile a due teste che divorano impietosamente
la tua debole carne
di fronte ai passanti.

Nei tuoi Balcani,
delirio e polvere,
nessuno ti attende,
solo la maledizione dei xhin ;

Voglio lenire le ferite di pietra sul tuo corpo
e le spine nere conficate nella tua pelle
con il mosto candido della mia uva.
Non temere gli spiriti maligni,
nessun uomo nero bussa alla tua vecchia porta,
né qualcuno ti insegue per accoltellarti.
C’è tempo prima che i tuoi libri – monaci mesti –
seppelliscano in silenzio la tua salma
in cima alla collina buia.

Concediti alla mia brama d’amore con i tuoi xhin
e le tue stigmate,
accogli il mio richiamo di donna
in questa penisola tremante di corpi negri annegati.
Gli dei ti hanno fatto scendere dalle alpi dell’Arbëria
per metterti alla prova d’amore,
per proclamarti pari a loro,
per incontrare me, giovane fanciulla
giunta in Ciociaria dai mari del Sud
messaggera degli esuli in fuga.
La tua Albania, madre e gorgone,
ti ha fatto nascere e crescere
per divorarti tra i sassi,
maledicendo il tuo corpo,
la tua lingua
e i tuoi occhi
fino ad accecarti.
Non voltarti indietro per vedere il paese balcanico,
nella tua pelle solo spine nere e stigmate profonde,
in cima alle colline native giacce il terrore degli anni verdi

Uomo esule,
sono la tua vigna nel regno della Terra,
sorta dalle viscere del suolo rosso di Saturno,
per farti inebriare con il mio nettare di fanciulla
e farti perdere la via del ritorno alla tua Darsìa,
per farti morire e rinascere mille volte in esilio.
Voglio essere prigioniera del tuo destriero selvatico,
come il campo arato sotto le piogge d’autunno,
voglio essere inno del tuo giunco flessibile.

Tu sei la goccia che mi nutre di esilio,
mi bagna come la pioggia bagna il suolo spaccato in autunno,
mi tiene sveglia, viva nella penisola di terremoti
mi feconda di stagione in stagione con la luna piena
e chiude il mio cerchio,
voglio respirare tramite la tua pelle esule.

Uomo contadino,
voglio essere fecondato nel tuo villaggio di una volta,
in cima alla collina buia di biada verde
dove si scontrano i tori insanguinati nei campi trebbiati
e si fecondano i fulmini.
Voglio partorire una nuova stirpe
perché la tua lotta da guerriero continui,
perché il tuo nome inciso sulle pietre si tramandi nei secoli
e il tuo Verbo regni nel regno degli Uomini.

Bacia le mie labbra carnose,
mordi i mie capezzoli come mordevi i chicchi rossi
del razakì ad Hajdaraj,
bacia i mie seni come le pesche della collina del tuo villaggio,
dolci come halwa del tuo Oriente,
come il pekmez di gelso rosso che ti preparava Nur .
Assapori il frutto succoso della mia valle
che profuma come il muschio del tiglio del bosco di Çapok ,
e cogli nel tuo letto di pietra focaia la mia notte-conchiglia.
Percorri il mio corpo arreso con il tuo arcano,
bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie,
nomina le mie dita rami di primavera.

Uomo Laocoonte,
entra nella mia selva assetata insieme ai tuoi tuoni
e ai lampi della tua provincia agricola,
spegni la mia sete nel tuo sorgente.

Sono l’uva candida di settembre che cola
nella corte del tuo Verbo errante
e tu, esule e custode della mia vigna.
Le mie braccia: rami che ti santificano,
le mie mani: corde che mi legano alle tue mani,
le mie dita: radici che attendono di scavare nel tuo corpo maturo:
un tempo pastore di capre.

Il tuo amore esule,
il tuo amore straniero di passaggio,
il tuo amore eresia,
il tuo amore fertilità blasfema.

Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,

appena mi possiedi, mi arrendo ai tuoi xhin.
Quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
quando tu mi scavi con il tuo vomero, piango di gioia,
quando tu ti versi in me, sento la tua energia erotica
percorre la mia pelle nuda
come il soffio del vento che sfiora le onde
delle dune del deserto;
sono la tua duna,
la tua fuga,
quando tu muori in me, io rinasco in te.

Uomo balcanico,
sono la tua robinjë ,
voglio essere comprata da te al mercato dei fiori.
Il mio corpo è una soldatessa disarmata,
pronto per essere infilzata dalla tua spada innocente.
Lancia le tue bianche piogge sulla mia foresta nera
e rompi gli argini fragili della mie acque.
Voglio urlare al mondo che ti desidero,
voglio confessare al mondo che io amo un uomo,
voglio gridare al mondo che sei uomo
ed io sono donna.
Voglio fermare la gente per strada e dire:
«so che non ti importa nulla ma io amo un uomo epico!»

Uomo guerriero dell’Est,
afferrami con il tuo corpo muscoloso,
come un toro selvatico di Shegas ,
sfogliami come sfoglia il vento di primavera
le gemme del siliquastro nel bosco spoglio,
inverdirmi con la tua tiepida lava fertile
come inverdisce l’oasi in mezzo alla sabbia del deserto.
e fai sì che dalla mia conchiglia sorgano frutti di eros
a tua somiglianza.
Ti amo come se celebrassi un culto divino in Darsìa,
ti santifico come venivano santificate gli dei
nella antica Arbëria,
sono la Sacerdotessa del tuo Tempio,
custode della sua fiamma eterna.

Uomo Ulisse,
sono la tua Sirena,
farò sì che lungo sia il viaggio,
ti avvolgerò con nebbie cieche,
e ti accompagnerò con canti marini,
ti guiderò per i porti sconosciuti del mare nostrum
al ritorno nella tua Itaca,
e tu rammenta sempre la tua Arbëria.

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POESIE SCELTE di Faslli Haliti dalla ANTOLOGIA (1969-2004) EdiLet, 2015 a cura di Gëzim Hajdari Presentazione di  Gëzim Hajdari

Tirana scorcio urbano

Tirana scorcio urbano

dalla Introduzione di Gëzim Hajdari

Il poeta Faslli Haliti credeva come Majakovskij ed Esenin in un socialismo dal volto umano. I due poeti della Russia sovietica hanno cantato e sublimato con grande fervore, seppur per breve tempo, la rivoluzione bolscevica e il compagno Lenin. Sulle orme di Majakovskij e di Esenin iniziò il suo cammino poetico anche il giovane poeta albanese di Lushnje. Erano gli anni ’60 quando Haliti scriveva: «Per voi, Partito ed Enver Hoxha[1], noi dormiamo anche sul ghiaccio / per voi noi ci copriamo con lenzuola di neve». Il poeta di Lushnje ha amato molto nella sua gioventù i cantori della madre Russia e, dopo la tragica fine del comunismo nella sua Albania, Haliti diede la ‘colpa’ proprio ai suoi maestri sovietici perché aveva creduto ciecamente in loro. Così come Majakovskij ed Esenin, anche il poeta Haliti, pur in una dimensione assai diversa, rimase ‘vittima’ dell’utopia marxista, che fece decina di migliaia di morti in Albania seminando in tutto il Paese terrore, morti, sangue e distruzione di massa.

 Faslli esordisce nel panorama poetico albanese alla fine degli anni ’60. Proprio nel 1969 venne pubblicata la sua prima raccolta, Sot (Oggi). I suoi versi portano un nuovo respiro poetico nel panorama del realismo socialista, l’originalità, la sobrietà del pensiero, nonché un forte senso critico nei confronti della burocrazia del regime. Il suo linguaggio è lapidario e tagliente. L’intensità del verbo e la particolarità dello stile, fecero attirare l’attenzione dei lettori e della critica ufficiale. Questa silloge vinse il secondo premio nazionale per la poesia. Haliti è di origine contadina, e come tale, portava nei suoi testi la musicalità della campagna, le voci della vita e l’angoscia del vivere quotidiano. Profumi campestri, stagioni, colori, simboli e figure mitologiche percorrono la geografia del suo io poetico, come sfida alla retorica della cultura ufficiale del regime. Fermezza e ribellione convivono nel suo messaggio poetico.

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

 Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano senza pietà il cuore della burocrazia del regime comunista. Si può dire che la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi: «Lui aspetta che tiri vento / Non per vedere gli alberi spogli / Non per veder cadere le foglie gialle / Ma per far alzare il lembo della giacca / E far vedere la pistola nella cintola. / Lui aspetta che venga la primavera / Non per mietere e falciare / Ma per togliere la giacca / E far vedere sotto la giacca / La pistola[2]». Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista, e aspramente criticato durante il IV° famigerato plenum del PCA, nel ’73. Che condannò in prigione decine di intellettuali e scrittori accusandoli di essere influenzati dall’arte borghese dell’Occidente.

Erano gli anni in cui la critica ufficiale insisteva perché nell’arte si rispecchiassero ancora maggiormente gli insegnamenti e le idee del Partito; gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione dell’uomo nuovo del socialismo, plasmato dal partito e forgiato sotto l’incudine della classe operaia e contadina; “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigila, giorno e notte, per difendere le vittorie e la patria dai nemici. Nelle opere letterarie, i temi esistenziali e metafisici, come per esempio il sentimento di oppressione e di incertezza quotidiana, erano proibiti. Persino le parole ‘amore’, ‘morte’, ‘buio’, ‘freddo’, ‘angoscia’ venivano considerate pericolose. Coloro che osarono rompere col ‘pesante silenzio’, che aveva cancellato memoria e sogni di libertà, lo pagarono a caro prezzo. Il valore di un’opera si misurava rispetto alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe», motto che proveniva ovviamente dalla letteratura madre dell’Unione Sovietica.

  Il terrore continuo e sistematico del regime nei confronti degli uomini di cultura soffocò gli spazi e l’energia della Parola. Sul palcoscenico insanguinato della poesia albanese si recitava la più fosca tragedia del tempo. Di fronte a questa tragedia umana, a questa oppressione costante, per sopravvivere spiritualmente e artisticamente i poeti rivolsero lo sguardo alle tradizioni e alla poesia del passato. Così la linfa della loro ispirazione diventò la tradizione orale e l’epica. Per sfuggire alla censura, Haliti si rivolge al mito e all’allegoria per esprimersi. La sua parola affonda le radici nel mito classico greco-latino per rileggere la realtà; la sua poesia divenne quasi un gioco fiabesco, in cui s’intrecciano il reale con il surreale. Ma i censori del regime vigilano, non si fanno sorprendere per fermare in tempo il poeta ribelle.

  La macchina inquisitoria di Hoxha praticava mille forme diverse di repressione per stritolare i “nemici della nazione” e del comunismo. All’occhio vigile dei guardiani del regime nulla poteva sfuggire. Decine di poeti e scrittori vennero allontanati, mandati nelle periferie o nelle campagne per la rieducazione ideologica. Certi furono imprigionati e i loro libri messi al bando. L’elenco dei poeti perseguitati dal regime è lungo e tragico. Le milizie di Enver Hoxha controllavano ogni angolo della vita culturale del Paese. Per il dittatore, lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Il marxismo divenne l’unico principio estetico della poesia e dell’arte.

besnik Mustafaj HoxaAl poeta Haliti venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi: fu mandato in campagna per essere «rieducato», in quanto persona indesiderata dal Partito.

 Per diversi anni, pur essendo professore di italiano e di francese, lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

      Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore e indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Costoro organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista. / Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine / con il pugno della classe operaia / spezzate i denti / ai compagni. / Per spezzarli ci vogliono pietre / che non abbiamo[3]». I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale «Shkëndija» (La scintilla)[4], organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e Tahsin Xh. Demiraj. Tahsin, dal ‘74 all’89, fu regista presso il teatro della città di Lushnje, ma venne licenziato su ordine del Partito. Per 15 anni lavorò in un’azienda di Durazzo che produceva materiali plastici. In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha per protestare contro la condanna del poeta Haliti; Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino[5].

      L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella  rivista che curava, «Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».

Tirana square

Tirana square

Nonostante tutto questo, il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia, e altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo), e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola «una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria»[6]. Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» («Il percorso del Partito»), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola)[7]. Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi. Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La lunga condanna al silenzio ha fatto pesare molto sul suo futuro e sul destino della sua poesia. La presentazione del nuovo libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Rammento come oggi quel pomeriggio. Alla presentazione partecipava il segretario del Partito Comunista, Rudi Monari, il quale, insieme allo ”pseudo-poeta” M. Nezha, mise alla berlina il poeta e il suo nuovo libro. I testi che abbiamo scelto per il lettore italiano raccolgono il meglio del poeta, che va dal primo libro Sot (Oggi) 1969, fino alla raccolta Iku (Se n’è andato) 2004. La scelta di proporre questo poeta al lettore italiano, non è casuale ma fa parte di una missione culturale ben precisa, quella di costruire la memoria storica e culturale della mia Albania, come parte integrante della memoria della cultura europea. Faslli Haliti e Besnik Mustafaj (Leggenda della mia nascita, Edizione Ensemble 2012, cura e traduzione del sottoscritto), fanno parte di quei poeti che, pur vivendo e scrivendo sotto il canone del realismo socialista, sono riusciti a creare valori letterari di portata internazionale, che resistettero anche dopo il crollo della dittatura di Enver Hoxha, uno dei regimi sanguinari più spietati dell’Europa del secolo scorso.

[1] Enver Hoxha (1908-1985): il dittatore comunista

[2] In «Nëntori 4», pp. 154-159, Tiranë 1972.

[3] Idem.

[4] In «Shkëndija», Lushnje, 25.1.1973.

[5] In «Zëri i popullit», Tiranë, 2. 8. 973.

[6] In «Zëri i popullit», Tiranë, 26. 7. 1973.

[7] In« Revista Rruga e Partisë», Nr. 3. p. 41. Tiranë 1974.

Faslli Haliti copertinada OGGI / SOT  (1969)

UNË, MËSUESI I FSHATIT

Çaj baltrat e rrugës.
Çizmet mbyten e zhyten në baltë.
prapa, në llucë,
mbeten gjurmët e mia,
si mbresa të thella në trurin e rrugës,
mbeten gjurmët e çizmeve
të NISH-gomave-Durrës.

Eci.
Në kokë formula,
Konvencione,
Kryengritje fshatare,
Esklamacione dhe vargje poetësh
Dhe imazhi i vajzës brune,
Që prapa mbeti,
Kur mua më përcolli
Herët nga qyteti.

Futem në klasë.
Era shtyn xhamat me gjoks.
Nxënësit shikojnë çizmet e mia me baltë,
Pantallonat e mia zhytur në çizme,
Flokët e mi të qullur,
Që kullojnë,
Që varen teposhtë,
Si flokët e Senekës,
Shikojnë ditarin e lagur
Dhe supet qull të xhaketës.

Dhe lodhja më ikën, më zhduket pas kësaj,
Si balta që rrugëve thahet,
Si balta që zhduket në maj…

IO, INSEGNANTE DI CAMPAGNA

Affronto il fango della strada.
I miei stivali vi sprofondano.
dietro
restano le mie orme,
impresse nella memoria della strada,
orme di stivali di gomma di Durazzo.

Cammino.
Nella mente formule,
convenzioni,
ribellione di contadini,
esclamazioni e versi di poeti
e l’immagine di una fanciulla bruna,
che mi accompagnava
di buon’ora.

Entro in classe.
Il vento con furia colpisce i vetri
gli alunni scrutano i miei pantaloni,
e gli stivali infangati,
i miei capelli bagnati
che gocciolano
come i capelli di Seneca,
scrutano i miei quaderni,
e la giacca bagnata.

La stanchezza sparisce
come il fango dalle strade
nel mese di maggio.

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

a destra: Faslli Haliti e Gezim Hajdari

ARDHJA E VJESHTËS

Mbi koka jeshile pemësh
Natyra derdhi bojë të verdhë,
Vjeshta krahët e artë
Mbi fusha i hodhi
Dhe kodrave lart.

Fytyrën pa vjeshta mbi pellgjet me ujë,
Flokrat bionde pakrehur, rrëmujë.
Shirat ardhjen e saj
E shpallën me gaz e me bujë.

Qielli si lodër vigane gjëmoi,
Krisën pushkë rrufetë,
Si pushkë gazmore në ditën e dasmës,
Në pritje të nuses që zbret.

ARRIVO DELL’AUTUNNO

Sulla fronte dei verdi alberi
la natura getta il mantello dorato,
con le ali d’oro copre l’autunno
la campagna
e la collina.

Sulle pozzanghere il volto dell’autunno
con i capelli biondi spettinati.
Le piogge con i tamburi proclamano
il suo arrivo.

Come in un gigante grancassa tuona il cielo,
i fulmini sparano come fucili gioiosi
nel giorno del matrimonio,
in attesa della sposa.

MIRAZHE HËNE

Hëna pluskonte në bardhësinë e një reje
si e verdhë veze.

Dhe unë fëmija i dikurshëm që kisha uri
zgjasja duart drejt vezës hënore,
reflekse hëne haja ndër gishtat e mi
netve të dëborta dimërore.

Hëna piqej në prushin e yjeve
si misërnike e verdhë,
djersë të verdha djersinte,
avuj buke përhapte në qiell.

Dhe unë fëmija që kisha uri
zgjasja duart, të thyeja një copë,
por hënën e hanin netët
dhe unë s’e haja dot!

MIRAGGI DI LUNA

La luna galleggia nel bianco di una nuvola
come il giallo dell’uovo.

Ed io bambino affamato di allora
tendevo le mani verso l’uovo lunare,
mangiavo riflessi lunari stretti tra le mie dita
nelle notti nevose invernali.

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais,
e profumo di pane,
diffondeva nel cielo.

Avevo fame,
tendevo le mani per spezzarne un boccone,
ma la luna veniva mangiata dalle notti
ed io non riuscivo ad averla!

Faslli Haliti

Faslli Haliti

LULE DHE FRUTA

Të gjitha lulet,
Të egra,
Të buta,
Luet i kanë të bukura.

Mos ubesoni lueve të bukura pa fruta!

TUTTI GLI ALBERI

Tutti gli alberi,
selvatici,
e domestici,
fioriscono.

Non credete ai bei fiori senza frutta!

TRASPARENCË

Nuk lulëzojnë lule të zeza
Mbi pemë,
Mbi pjeshkë,
Mbi lëndina.

Nuk i fut të zezë pranverës natyra.

(1982)

NON FIORISCONO FIORI NERI

Non fioriscono fiori neri
sugli alberi,
nei prati,
sui peschi,
nella pianura.

La primavera non mette il nero alla natura.

(1982)

UNË NUHAS PRANVERËN

Nyja, nyjen thërret.
Me rrezet paralele zgjaten kërcellët,
Blerimi hap syrin e gjelbër gjithë qejf.
Ujrat pranverorë buzëqeshnin të qeta,
Pemishteve pjeshka fustanin e purpur
Nis zbukuron me lulet e veta.

Nyja, nyjen thërret,
Zgjaten kërcellët,
Rrinë përpjetë.

ATTENDO LA PRIMAVERA

Le gemme chiamano l’un l’altra.
Come raggi paralleli crescono i ramoscelli,
il verde inverdisce sempre di più,
le acque primaverili scorrono tra le ombre,
nel giardino il pesco abbellisce di porpora,
il parto dei suoi fiori.

Le gemme chiamano l’un l’altra,
crescono i giunchi rigogliosi
verso l’alto.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

da NON SO TACERE / S’DI TË HESHT (1997)

MIRAZHE HËNE

Hëna pluskonte në bardhësinë e një reje
si e verdhë veze.

Dhe unë fëmija i dikurshëm që kisha uri
zgjasja duart drejt vezës hënore,
reflekse hëne haja ndër gishtat e mi
netve të dëborta dimërore.

Hëna piqej në prushin e yjeve
si misërnike e verdhë,
djersë të verdha djersinte,
avuj buke përhapte në qiell.

Dhe unë fëmija që kisha uri
zgjasja duart, të thyeja një copë,
por hënën e hanin netët
dhe unë s’e haja dot!

MIRAGGI DI LUNA

La luna galleggia nel bianco di una nuvola
come il giallo dell’uovo.

Ed io bambino affamato di allora
tendevo le mani verso l’uovo lunare,
mangiavo riflessi lunari stretti tra le mie dita
nelle notti nevose invernali.

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais,
e profumo di pane,
diffondeva nel cielo.

Avevo fame,
tendevo le mani per spezzarne un boccone,
ma la luna veniva mangiata dalle notti
ed io non riuscivo ad averla!

da NON SO TACERE / S’DI TË HESHT  (1997)

NË FËMIJËRI

Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit,
E lemerisshme,
Tmerr.
Në vend të këngës së saj pranverore
Dëgjoja të qarat e saj tragjike në pranverë.

Dëshira ime është:
Të thyeja krahë skifterësh egërsisht.
Në fëmijëri,
Pa e ditur këshillën e xha Hygoit:
«Kush shëron krahun e skifterit
Përgjigjet për kthetrat e tij…»

Ǒlemeri,
Ǒtmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
Dhe mos të t‘i thyeja krahët ty, skifter!

NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

Faslli Haliti

Faslli Haliti

NUSJA

Gjyshja pret që nusja të lindi djalë,
Gjyshi përfytyron një nip me emër trimi,
Babai dëshiron një bir të talentuar,
Inteligjent, mundësisht
Gjeni.

Nusja thur triko për një njeri.

(1984)

LA SPOSA

La nonna attende che la sposa partorisca un maschio
e sogna un nipote dal nome coraggioso,
il padre desidera un figlio di talento,
intelligente,
genio.

La sposa tesse una maglia per il figlio.

PRANVERË

Sythi shkrin dëborën me zjarrin e lules,
Lulja pohon pranverën,
Lidh frutin
Dhe bie me nderim.

Toka e pret me blerim.

(1984)

PRIMAVERA

La gemma fa sciogliere la neve con il fuoco del fiore,
il fiore annuncia la primavera,
si trasforma in frutto
e cade a terra con onore.

La terra inverdita lo accoglie.

(1984)

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.

Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.

Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.

La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.

È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone.

Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia. Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

9 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica della poesia, Poesia albanese del Novecento

Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, critica della poesia

LA COMMEDIA COME PARADIGMA DELLA CIVILTÀ OCCIDENTALE di Gianni Vacchelli L’esperienza di Dante: tra «attualità» e sfida. Per una lettura simbolica della Commedia – La Commedia come viaggio, metafora dell’Occidente e Libro delle relazioni

Dante Alighieri 2  Questa croce [di luce] è, pertanto, quella che unisce tutte le cose mediante la parola (Atti di Giovanni)

 Peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata (Dante, Cv I, iii, 4)

 La prassi di liberazione è l’azione possibile che trasforma la realtà (soggettiva e sociale), tenendo sempre come riferimento ultimo una qualsiasi vittima o comunità di vittime (E. Dussel, L’etica della liberazione nell’età della globalizzazione e dell’esclusione)

 La sfida di Dante al nostro tempo di Gianni Vacchelli

 Dante è una sfida per il nostro tempo. Se egli è «attuale» (cfr. Cv II, iii, 15; III, xiii, 5.7), come recita il titolo di questo libro, subito potremmo affermare che è sommamente «inattuale», al fuoco di una di quelle contraddizioni vitali tanto affascinanti per il Poeta, maestro di superamenti e revisioni di se stesso e della sua opera. La sua cosmovisione non è più la nostra e sembra irrimediabilmente passata. Ma l’inattualità vera (come l’attualità del resto) non è tanto cronologica, perché 700 anni e più ci dividono dal Medioevo dantesco.

Il punto è altrove: Dante è appassionato di integrazioni e tutta la sua opera è il tentativo grandioso di raccogliere i frammenti sparsi – di una vita, di un’epoca, di una filosofia, di una teologia, di una poesia, di un cosmo, di un corpo, di un’anima – per riunirli in un insieme polifonico, armonico. Non è solo il genio del Medioevo che mette ordine, crea summe e summule, crede in un kosmos ad orologio. È lo sforzo personale, interiore ed intellettuale di un uomo per trascendere le fratture, le possibili disintegrazioni. La dimensione del monaco – cioè di colui che fa unità dentro se stesso, che si raccoglie integrandosi – è archetipica: non la si onora soltanto entrando in monastero[i]. È un’aspirazione profonda dell’uomo, una sua sete costitutiva e tanti sono i modi di viverla quanti sono gli uomini. Per Dante monastero fu il mondo tutto.

 È qui che Dante ci sfida ed è «in atto»: perché noi siamo programmaticamente scissi, dualistici o monistici, spesso troppo materiali, quando non, magari per reazione, troppo aerei e spiritualitizzati. Il regno, ormai così vacillante, delle nostre specializzazioni è chiamato a giudizio dal genio universale di Dante. Ma, soprattutto, sono le nostre schizofrenie interiori, i nostri Dr. Jekyll e Mr. Hyde che ci pullulano dentro, il nostro essere “uno nessuno e centomila” ad agitarsi di fronte allo sguardo armonizzatore e sapiente del Poeta. O forse (peggio?) non sappiamo nulla dei nostri inferni, e l’Inferno di Dante, tra l’altro formidabile mappa conoscitiva di traumi e ombre, per noi è solo un ricordo sbiadito e noioso di scuola. Ma anche qui il Poeta «sto alla porta e busso» (cf. Ap 3, 20).

La Commedia non è solo un capolavoro da leggere. Ci sfida, ma soprattutto ci parla di noi e ci invita al risveglio, a vivere con profondità, ad entrare nel mistero della realtà.

L’attualità di Dante appartiene anche all’Istante – in cui si può “essere” e risolversi –, meno ai minuti (o ai secoli) che passano.

Dante Alighieri

Dante Alighieri

Il genio di Dante: un tesoro inesauribile (e da ri-scoprire?)

 Dante, con la sua Commedia, è perennemente vivo, potente, contemporaneo; la genialità poetica dantesca è penetrata anche nella memoria popolare: così Paolo e Francesca, Farinata, Ulisse, il conte Ugolino, Virgilio, Cacciaguida, Beatrice, San Bernardo, ma anche la selva oscura e le tre belve appartengono all’immaginario collettivo (ma non solo, vedremo, anche al mundus imaginalis delle nostre profondità). Stupisce poi la grande attualità linguistica[ii], pur nell’inevitabile distanza storica: Nel mezzo del cammin di nostra vita è forse l’incipit più celebre della letteratura di tutti tempi (o almeno di quella occidentale) e non sembra avere ormai 700 anni e più, tanto “ci parla” e ci conquista subito, immergendoci immediatamente in medias res, “nel mezzo della storia”. Non tutto Dante è così “trasparente”, anzi, tuttavia la sua inventiva linguistica è veramente prodigiosa, e sempre varia, inedita. Dante è anche, non dobbiamo dimenticarlo, un eccezionale narratore, capace di catturare la nostra attenzione.

 Ora, è veramente molto questo, ma non tutto. L’opera dantesca infatti è un vertice artistico (e umano), anche perché contiene in sé una straordinaria attualità esistenziale, conoscitiva, interiore e simbolica: la Commedia non è solo un libro da leggere, ma anche da vivere[iii], così come lo è stato per il Poeta. Insomma leggere diventa viaggiare: viaggiare nel mistero del libro e viaggiare dentro se stessi.

Forse il “nostro oggi”, pur così carico di contraddizioni, è il tempo opportuno per “ri-scoprire” Dante, vivendone tutte le straordinarie potenzialità poetiche ed interiori. Una leggenda medievale che iniziò a circolare subito dopo la diffusione del grande poemadiceva che avremmo compreso la Commedia dopo 7 secoli. Forse è proprio così, nani sulle spalle di giganti, come vuole Bernardo di Chartres, possiamo pure vedere oltre…

 Per una lettura simbolica, olistica

 Se siamo frammentati nella vita (e chi non lo è?), molto probabilmente lo saremo anche nella lettura (che è un atto vitale e imprescindibile: leggiamo, in qualche modo, tutte le volte che guardiamo, interpretiamo, non solo quando i nostri occhi sfilano tra le righe di un libro. Leggere è vivere). Lettori frantumati anatomizziamo e dissezioniamo quello che ci capita a tiro. Dante è un poeta di genio assoluto. Questo probabilmente è ammesso da tutti. Ma oltre che poeta (o meglio: nel suo essere poeta), Dante è molto altro ancora: teologo, filosofo, politico. Mistico. E uomo, naturalmente. Il letterato finissimo, l’artefice della parola versato in tutte le tecniche retoriche e narrative convive in lui– in tensione creativa – con l’indagatore dell’interiorità, col ricercatore dei divini misteri (che non sono solo divini, ma di tutta la realtà).

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti

 Non possiamo più leggere Dante frantumandolo in parti. La triade uomo-poeta-mistico – meglio ancora della pur apprezzabile diade «poeta e visionario» di Dronke[iv] – non deve essere infranta a cuor leggero. Significa rischiare di non comprendere a fondo Dante. Significa ad esempio contraddire la sua intuizione trinitaria, quel sempre presente e pure misterioso numero 3 che domina la sua opera.

È un kairos, un’esigenza profonda del nostro tempo quella di incamminarci, pur tra fragilità, errori e mancanze inevitabili, verso una lettura simbolica, olistica, “intera”, capace di tenere insieme la molteplicità di un autore immenso come Dante senza ridurlo a monistica e statica unità o a dualismi laceranti. Peccati opposti ma complementari. Anche qui il pensiero trinitario dantesco ci verrà in aiuto.

Dante era appassionato di compimento. Nell’Epistola XIII, scritta per il signore di Verona Cangrande della Scala che lo aveva a lungo ospitato ed onorato, il poeta cita, tra i motivi ispiratori, il Cristo, «colui che [discese è lo stesso che anche] ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose» (Ef 4, 10) e il mistero della sua trasfigurazione (Mt 17, 1-8; Dante cita il v. 6). Il compimento del Cristo, che discese negli abissi e ascese oltre i cieli, è uno dei simboli della Commedia. Come pure la trasfigurazione, dove niente è trascurato, niente tralasciato. Tutto è integrato, assunto. Niente viene accantonato o considerato come non redimibile, inclusi il corpo e la memoria umana[v].

 La ricerca di Dante è sempre creativa, e così somma e temeraria. L’incipit del Monarchia è emblematico: guai all’uomo che ripete solamente, che non reca frutto, che non cerca con tutto se stesso di apportare qualcosa di veramente autentico nella sua personale inchiesta (cfr. Mon 1, 1-6). Se Dante ha vissuto in un continuo e straordinario superamento questa tensione conoscitiva dall’altezza del suo genio, e sarebbe caricaturale e insano volerlo imitare, pure possiamo forse seguirlo, dai nostri limiti, nello sforzo di tenere insieme la complessità della realtà, senza amputarla, con riduzionismi e semplificazioni. Nessun contributo interpretativo degno deve essere trascurato, quanto piuttosto assunto in un disegno più grande, olistico.

 Le grandi intuizioni dantesche

 Dante ama la Sapienza e la sua opera ne è intrisa. Nella sua mente e nella sua ricerca artistica con tutte le sue forze si è adoperato per «far tesoro» ed essere di essa «vaso» (cfr. Pd I, 11.14). Le intuizioni dantesche non cessano di meravigliare e se la Sapienza non è monopolio di nessuno, stupisce la concentrazione eccelsa che di Lei si dà nel poema sacro.

La visione trinitaria o, come diremo spesso nel corso del saggio con Panikkar, «cosmoteandrica»[vi], è il centro dell’universo dantesco, il fulcro della sua mistica, il perno della sua lettura del liber mundi. Dante valorizza al massimo grado la teologia trinitaria, in modi assai fertili anche per l’oggi, forse persino insuperati: soprattutto la cala nella vita, a tutti i livelli. In effetti, con buona pace del mito tecnologico, l’evoluzione non è solo lineare. Dante non usava il computer e ancora attendiamo (sia detto senza polemica) l’autore che ci darà la “nuova commedia” nell’era digitale.

 La Commedia è divina, a patto però che sia anche umana e cosmica. L’aggettivo del titolo – si sa – non è dantesco e non rende perfettamente giustizia alla sua visione del mondo: Dio in essa è non meno al centro dell’uomo e del libro della natura. Dante celebra la dignità dell’uomo con una convinzione che difficilmente si dà persino nell’umanesimo (tolti forse Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e pochi altri). Dante canta non solo l’humanitas ma la divinitas dell’uomo. In tempo di “risorse umane”, di “debiti e crediti” o di “effetti collaterali” (così i caduti – civili per lo più – nelle nostre guerre “intelligenti”) fare memoria che l’uomo è un «piccolo cosmo» e un «dio in miniatura» non è poca cosa.

Il titolo Commedia poi, tra l’altro, testimonia, pur senza nessun facile idillio, un ottimismo di fondo, che in Dante è tutto meno che ingenuo. Colpisce però in un uomo che ha profondamente sofferto e che ha visto “l’inferno in faccia”. Pur sapendo che «un abisso chiama l’abisso» (cfr. Sal 42, 8), Dante non si arrende e ascende alla luce.

Gianni Vacchellli cop dante E ancora: la Commedia è una mappa dell’interiorità dell’uomo che sconvolge per la sua precisione, per le sue conoscenze dei cosmi delle profondità. Dante è “psicologo finissimo”, senza privilegiare però la mente. Mai dimentica il corpo e quella dimensione insondabile della realtà che può essere detta, almeno in alcune tradizioni, divina.

Se la sua cosmovisione, come accennavamo, scientificamente è superata, pure simbolicamente parla. I pianeti ancora esistono e non sono solo “quantità matematizzabili”: ci parlano di noi, sono in noi, anche se lo scientismo (non la vera scienza) l’ha dimenticato.

La Commedia è un viaggio, metafora che è nel DNA dell’Occidente (ma pure dell’Oriente, crediamo), almeno da Odisseo. È un viaggio esteriore (nella geografia, nella storia, nelle conoscenze di ogni sorta), ma soprattutto interiore. Dante è stato tutte e due: viaggiatore fuori (talvolta suo malgrado, complice l’esilio) e grandioso «intro-nauta» (internet non c’entra).

La Sapienza è eterna, ma i riflessi che di lei promanano dall’opera dantesca, abbagliano. L’uomo di oggi ne è lontano, ma anche quanto mai vicino: per desiderio, per nostalgia e realmente (almeno nei suoi momenti migliori).

 Incontri determinanti: la donna amata, il maestro…

 La Commedia è sempre libro della relazione e di relazioni: con se stessi, con il divino, con la natura. E naturalmente con gli altri: nelle relazioni più vere e autentiche l’altro non è solo diverso (alius), ma anche un secondo me (alter)[vii]. In verità sempre l’altro è me, mi fa da specchio. Persino nell’immagine più dissomigliante, sfigurata, nel fondo dell’inferno, posso ritrovarmi: in Ugolino, divoratore metaforico (e probabilmente non solo) della sua prole, Dante può conoscere se stesso e la sua umanità. In ognuno di noi c’è anche l’abietto, l’assassino; l’inferno è (anche) dentro di noi.

Eppure gli incontri determinanti, le relazioni delle relazioni della Commedia sono altre. Nulla sarebbe Dante senza Beatrice. In lei Dante vive il massimo trascendimento, l’uscita da sé, l’esodo dell’amore, ed insieme il più intenso contatto con se stesso, con la sua essenza. Beatrice è un mistero, di fronte a cui sostare in silenzio e tutto adoperarsi per comprendere. In Beatrice Dante incontra la donna, l’amore, se stesso, il Cristo, la realtà tutta, umana divina e cosmica. Beatrice è così per lui: cosmoteandrica. Si sa che gli innamorati vedono nell’amato il tutto, il totum in parte. Le proiezioni sono in agguato, le illusioni pure, ma gli innamorati possono essere gli unici svegli, gli unici reali, a contatto con la realtà. Così è per la Sulamita e il suo Diletto nel Cantico dei Cantici (cfr. Ct 8,5), così per Beatrice e il suo amato nella Commedia. Che il geniale poemetto biblico dell’amore umano-divino-cosmico sia qui citato non è certo un caso: esso è modello essenziale per la vicenda amorosa del Poeta e del «sol de li occhi miei» (Pd XXX, 75); anch’esso è libro della relazione e di relazioni.

Petrarca Beatrice è il centro della poesia dantesca: farne solo una donna o, forse peggio, solo un simbolo significa far implodere la visione del mondo dantesca, spezzarla dualisticamente o semplificarla monisticamente. Beatrice è con tutta evidenza e semplicità se stessa, una donna in carne ossa amata dal Poeta, e altro da sé, senza divisioni e senza confusioni.

Beatrice è il simbolo dell’avventura umana poetica e mistica di Dante. In lei tutto si integra, in lei è armonia, lei stessa è armonia. Se Beatrice è altro da Dante – e in quello spazio abissale e divino di diversità che si aprì nell’incontro, fu il trascendimento fondamentale, il varco di tutti i varchi, l’apertura delle aperture –, pure Beatrice è Dante. Essa è anche realtà interiore, che sia il «fondo dell’anima», il nucleo divino sigillato nelle profondità, la divinizzazione.

Ma anche senza Virgilio nulla sarebbe. Egli è il maestro esteriore e interiore. È la Ragione illuminata (non postmoderna), ma molto altro. Per Dante è il poeta dei poeti, la poesia, la classicità pagana nel suo apice, l’iniziato, il saggio e il «dolce padre». La relazione con Virgilio è tra le più straordinarie, profonde e umane della Commedia. Il mistero della non salvezza di Virgilio è probabilmente anche quello della sua salvezza. Se Virgilio è l’incompiuto, il preannunciatore, il Battista[viii], Dante è Gesù, non Erodiade/Erode. In qualunque caso non c’è decollazione del maestro in Dante, ma integrazione.

Uno dei paradossi trinitari del poema è questo: il contatto con le mie profondità, con la mia essenza è salvezza. Altrimenti rimango alienato, dannato. Eppure da soli non ci si salva. La relazione è sempre al centro: è sì con se stessi, ma anche con il prossimo. L’amicizia, l’amore intridono la Commedia e per Dante sono così, immanenti e trascendenti. Sempre.

La relazione è anche cosmica: i cieli, i pianeti, la luna, il sole e le stelle sono, dentro e fuori di noi, nostri interlocutori essenziali. La relazione è con tutta la realtà, risveglio alla Realtà.

Dante Alighieri 6Intenti dell’opera: l’esperienza sapienziale

 La Commedia vive, come sa Bachtin,

nel “tempo grande”. [Le grandi opere] infatti […] non possono vivere nel futuro se non hanno assorbito il passato: l’opera non nasce interamente oggi; se così fosse, non potrebbe neanche vivere nel futuro. È così che […] “possiamo dire che né Shakespeare né i suoi contemporanei conoscevano il ‘grande Shakespeare’ come noi adesso lo conosciamo. Comprimere nell’età elisabettiano il nostro Shakespare è assolutamente impossibile[ix].

 Questo non significa neppure, naturalmente, che Dante non vada anche passato al vaglio critico, che la Commedia sia tutta ricevibile e non, in alcune parti, “demitizzabile”. Eppure ci interessa soprattutto una sua “transmitizzazione”, che non perda di vista il logos, ma che neppure misconosca le ragioni del mythos (trinitario) che sottende il capolavoro dantesco.

La nostra intenzione pertanto è distante da studi solo filologici, pur nel rispetto (molti testi di tal natura ad esempio sono qui integrati), e non è legata unicamente al tempo storico, senza mai disprezzarlo (perché altrimenti, consciamente o meno, si viene a fare il gioco dei dominatori, che lo elidono per dirsi “naturali”). Quello che qui si ricerca riguarda la nostra interiorità, il nostro essere, le nostre origini (che non sono solo kronos, perché non siamo solo tempo). Il taglio per così dire è “sapienziale”, senza mai trascurare uno sguardo critico. Vale la pena ricordare anche che il punto di vista che attraversa il libro è quello di uno scrittore che legge un altro scrittore, tra i più grandi di sempre. La via poetica (ma anche “poietica”), letteraria è qui sentita come una delle esperienze più inclusive, più integrali, più profonde dell’esistenza umana stessa e della realtà tutta. E così, crediamo, Dante sentì.

 La Commedia è un libro scritto da un uomo che, nelle bonacce come nei marosi della vita, cercava la saggezza (o che, almeno, ad un certo punto ne fece la sua aspirazione più profonda). Scrittura e vita sono interpenetrate nel gran libro dantesco, pur non coincidendo. Da qui la nostra costante opzione in favore dell’“esperienza”, del “vissuto”, piuttosto che del “detto”. Del simbolico piuttosto che dello “storico”(che è però, al massimo, trasceso). Nel medioevo del resto la filosofia è insieme «sapienza, religione, scienza della vita spirituale, poesia e alchimia. È conoscenza di sé, di Dio e dell’universo»[x]. Non è solo pensiero razionale. La filosofia, e ancora di più la poesia – che per Dante è il sapere-sapore sommo, inclusivo di ogni altra conoscenza – è frutto dell’unione, dello hieros gamos («nozze sacre») di amore e conoscenza[xi]. Attraverso la poesia Dante si è innamorato della Sapienza, che pure s’identifica, non esaurendosi, nella poesia. Il genio ardito ed audace di Dante era sommamente libero e non poteva non amare la Sapienza, lei che non tollera di essere addomesticata e imbacuccata con i panni della serva. La Sapienza basta a se stessa, perché consustanzialmente unita allo «Spirito/vento[che] soffia dove vuole»(cfr. Gv 3, 8).

dante alighieri 4 La poesia al suo vertice in Dante è mistica. E quindi Sapienza. Per Dante poetare non è tanto creare un sistema, produrre una nuova dottrina, ma vivere secondo le leggi della sapienza. Dedicarsi alla poesia per lui è consacrarsi alla bellezza, «alla conoscenza, averne esperienza, diventare amico della Sapienza, nel senso stesso in cui Pitagora rifiutava l’appellativo di sophos, preferendogli quello di philo-sophos, che rispondeva meglio alla sua ricerca. Il filosofo è un iniziato»[xii].

La Commedia è un’iniziazione alla Sapienza. Uno poi vi accede e la vive secondo le sue capacità. Inevitabilmente almeno qualcosa di quella “trasfusione alchemica” esperita spero possa tralucere in queste righe. Il resto – specie se non intimamente vissuto e assaporato – non conta ed è chiacchiera che inchioda chi la fa. È terribile cadere nella mani della Sapienza, parafrasando san Paolo (cfr. Eb 10,31).

La parola iniziazione significa “visione in profondità”, “ingresso” in un modo di leggere l’opera diverso, nuovo (anche perché tradizionale e aperto a tutti gli apporti). Un entrare con tutto se stessi nell’interezza dell’opera, per viverne l’avventura, persino per vivere la vita (con i rischi che questa comporta). Insomma: l’impegno è richiesto, anche se il libro non è pensato per pochi. Del resto i piccoli sono nutriti col latte, ma il pane spetta agli adulti di buona volontà, che vogliono affrancarsi. Nessuno è escluso, pur che lo voglia. Come non pensare alla mirabile pagina del Convivio, dove il poeta sintetizza, con commossa partecipazione, il senso del libro:

 Intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato [del sapere cui ho accennato prima, rivolgendomi ai «miseri», cioè alla gente comune, che non può dedicarsi allo studio, per le mille faccende della vita], e di quello pane [cioè il commento] ch’è mestiere a così fatta vivanda [cioè le poesie raccolte e da commentare], sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata (Cv I, i, 11).

[…]Questo [cioè il commento alle poesie raccolte ] sarà quello pane orzato [d’orzo] del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce (CvI, xiii, 12).

 Nel Libro dei Proverbi la Sapienza in persona ha imbandito la tavola ed invita da ogni punto della città a mangiare del suo pane e bere del suo vino (cfr. Pr 9, 2-5). Quali migliori auspici, se non questi, e sommi, per il nostro “libello”?

Pure un’iniziazione a Dante e alla sua Commedia deve alludere, piuttosto che dire, alla maniera della Sibilla. L’initium è, come ovvio, soprattutto kairologico: un in-eo, un “entro dentro il testo” nell’ottica della profondità, della concentrazione. Il testo è solo un pretesto offerto al lettore perché “tessa” il suo. Questo significa anche, in altro senso, che non si tratta tanto di tornare a Dante (il che sarebbe un integralismo ermeneutico), quanto di ripartire da Dante. Continua a leggere

19 commenti

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VERSO LIBERO O VERSO ARBITRARIO O VERSO INVENTATO? – dialogo tra Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Valerio Gaio Pedini e Giorgina Busca Gernetti sopra il “Ghazal” e lo “Sher” di Mirza Asadullah Ghalib

  1. Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

    Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

    Mirza Asadullah Ghalib affascina il lettore per la freschezza, quasi ingenuità, nel contempo profondità filosofica dei suoi versi, strutturati in distici rimati nel modo illustrato con precisione da Steven Grieco.
    I veri poeti della fascinosa India, almeno per le mie scarse conoscenze, hanno questo nucleo ispirativo: il cielo notturno, le stelle, l’alba, la natura, gli uccellini, i fiori, l’amore, la sofferenza dell’uomo e la pazienza nel sopportarla. Mi riferisco anche a Rabindranath Tagore, benché l’epoca, la regione indiana, la lingua, la struttura delle poesie siano diverse da quelle di Mirza Asadullah Ghalib.
    Forse è l’anima dell’India che sa creare poeti così grandi.
    Mi piace riportare alcuni distici veramente pregevoli (quattro Ghazal e uno Sher):
    .
    “non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
    chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere”
    .
    “le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
    perché mai ascesero nude, radiose nella notte?”
    .
    “”suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
    fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome”
    .
    “al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
    ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti”
    .
    “non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
    io sono la voce del mio stesso spezzarsi”

    (Giorgina Busca Gernetti)

    Giorgio Linguaglossa 2012

    Giorgio Linguaglossa 2012

  2.  

    È che oggi forse si dovrebbe ritornare a scrivere in distici, in ritornelli di distici… riprendere le antiche formule e ripartire da lì; scrivere pensieri conchiusi in immagini nell’arco di un distico, e poi nel distico seguente percorrere di nuovo il solito schema (magari con una variante), ovvero, provare ad introdurre un altro verso (la strofe caudata di tre versi) etc., e così via.
    Il fatto è che oggi si è persa la manualità della scrittura, si scrive senza far riferimento a nessun genere o sotto genere, e i risultati si vedono purtroppo! – Il parallelismo cui costringe un distico è una forza magnetica, un binario che soltanto chi sa e ha la poesia nella propria pelle può capire; il parallelismo implicito in un distico, è cosa diversa da un distico con una coda (aggiunta di un terzo verso), a volte (anzi, sempre) basta una variante a cambiare il centro di gravità di tutto il componimento.
    Quindi io consiglierei chi vuole fare poesia a studiare le antiche formule, di scrivere in distici, per esempio, e in immagini di distici…

    Chiedo ad Antonio Sagredo e a Steven Grieco di farci conoscere la loro dotta opinione.

  3. Rilucono le stelle in un frammento
    d’immenso nella notte senza vento.
    .
    L’assenza dell’amata squassa l’animo
    dell’uomo che la invoca in un lamento.
    .
    Acceca il sole con la luce d’oro
    i mietitori curvi sul frumento.
    .
    Prestami la tua arte, sacro vate,
    perché possa cantare il mio tormento.
    .
    Foglie frementi nel bosco armonioso
    di canti d’uccelli in festoso concento.
    .
    GBG

    Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

    Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

  4. Steven Grieco

    Certo, la questione della forma a cui accenna Giorgio sarà sempre un problema per la poesia e per i poeti. Ma è proprio, e in modo sovrano, la struttura aperta o libera a valere oggi come forma poetica “tradizionale”. Quella che più ci impone un rigore. (Per il domani, chissà.)
    A proposito, sembra che i giovani giapponesi usino spesso il haiku o il waka per messaggiarsi tramite telefonino… O allora è stata solo una moda qualche anno fa, che è già tramontata.
    In questi tempi spietati, ma anche incredibili e entusiasmanti, in cui ogni tradizione è stata ridotta all’assurdo, sembra che un vero poeta (ma, se è per quello, anche un vero artista con i suoi dipinti e le sue installazioni) debba mettere tutto il rigore e la disciplina proprio nella forma aperta, la forma per eccellenza che ti dà tutte le possibilità, ma poi ti castiga se di essa hai fatto cattivo uso.
    Lo stesso Ghalib lamentò verso la fine della sua vita, in un suo distico (che adesso non ho a portata di mano), il fatto che la forma del ghazal e le immagini convenzionali ad esso associato (rosa, usignolo, giardino, candela, rugiada, etc.) imprigionassero troppo la sua vena creativa. Più moderno dei moderni, già alla metà dell’Ottocento, quando i poeti francesi iniziavano solo vagamente a muoversi in questa direzione, Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta.
    Tanti anni fa ho visto le bozze originali di diverse poesie di Shelley. Aveva già deciso il metro e la rhyming scheme, il tipo di rima, ponendo sopra il rigo gli accenti tonici (8, o 10, a seconda). Gli accenti tonici c’erano già tutti, ma qua e là ancora mancava la parola prescelta per completare quel verso (di solito all’interno del verso, per ovvie ragioni). Ecco, questo ti fa capire che il poeta che usa una forma poetica specifica deve comunque già avere nel cuore e nell’orecchio il ritmo – voglio dire la musica – del verso, prima ancora della scelta di tutte, tutte le parole. Per un poeta di secondo ordine potremmo dire: ah, ecco, la musichetta a scapito del senso, ma le bozze delle poesie di Shelley invece ci mostrano quanto la musica già contenga il senso profondo del dire, e quanto in poesia musica e significato non possono proprio scindersi.
    Ed ecco che mi vien da pensare che quindi anche il poeta oggi deve imporsi una grandissima disciplina con la forma aperta: perché una poesia senza musicalità e comunicazione di un significato (quale che sia e in qualsiasi modo lo si faccia, anche a testa in giù), be’, non so, forse non si tratterebbe più di poesia. Penso ad esempio, in musica, a uno Stockhausen o uno Scelsi, che hanno lavorato con forme in qualche modo aperte ma dandosi una disciplina immensa, lo senti in ogni nota, e quel rigore è proprio una delle cose che ti entusiasma, ti fa pensare che è solo con la forma (se anche per ritrarre il chaos), che possiamo comunicare, comunicando perfino realtà, immagini, concetti sublimi.
    Detto questo, faccio posto a tutte le definizioni possibili della parola poesia, ovviamente. Ancora oggi vale quello che disse Montale una volta, “in poesia tutto fa brodo.”
    Questo anche per la forma della poesia.

    foto di Steven Grieco

    foto di Steven Grieco

  5. Caro Steven,

    è vero quello che tu dici, che condivido al 100%. Tu scrivi che già «Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta», perché si era reso conto che la forma chiusa tradizionale del distico era troppo costrittiva per la sua poesia.
    Ecco, siamo arrivati al punto. Nel Novecento siamo passati attraverso una rivoluzione delle forme espressive, siamo passati dalla forma-chiusa alla forma-aperta (U. Eco L’opera aperta, 1962), fenomeno che ha investito il romanzo, la poesia, la pittura, la scultura, la musica, l’architettura etc., quindi un fenomeno globale, come si dice oggi. Ma per la poesia è poi intervenuto un fenomeno, al tempo, ancora più vistoso e più misterioso: la caducazione del verso tradizionale per il verso libero e la caducazione del verso libero per il verso arbitrario, dove ciascun autore è libero di adottare il verso (nel senso della lunghezza) che più gli aggrada. Se oggi apriamo un libro di poesia di un autore contemporaneo, troviamo appunto il verso arbitrario(non so quanti autori ne siano consapevoli), dove l’arbitro del verso è deciso dallo stesso autore, dove è l’autore che dà legittimità alla lunghezza e alle intensità (foniche e toniche e ritmiche) del verso. Siamo arrivati alla Babele del verso arbitrario, e i risultati sono piuttosto evidenti. Siamo arrivati al punto che non esistono più le differenze tra la forma-poesia e la forma-prosa, addirittura non si ha più cognizione di quella cosa chiamata un tempo laforma-poesia.
    Ma torniamo al verso-arbitro o arbitrario e veniamo ad esso, esaminiamo la sua struttura interna ed esterna. Vorrei invitare i lettori ad andare a rileggersi una poesia di un poeta contemporaneo che abbiamo pubblicato su questo blog: Gezim Hajdari nella poesia “Il contadino della poesia

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/15/fare-il-contadino-della-poesia-di-gezim-hajdari-con-una-nota-di-armando-gnisci/

    È chiaro che qui ci troviamo davanti ad un sistema aperto dove ciascuna frase raddoppia e ripete la struttura semantica della frase precedente mediante una variatio del significato e del ritmo interno ed esterno dei versi. Siamo davanti alla forma più elementare e primordiale del linguaggio poetico, il verso singolo che viene ripetuto con varianti all’infinito, la repetitio. Qui dunque il sistema è aperto, apertissimo, e permette al’autore di introdurre le varianti che crede opportune al fine di ottenere un effetto moltiplicatore dell’intensità orchestrale.

    E fin qui ci siamo. Esaminiamo (per semplicità di ipotesi) adesso un effetto di moltiplicazione interna di un singolo verso di una, perdonatemi, mia poesia:

    Kinder Nacht. Kinderschreck. Kinderspiel.*
    Un cane rabbioso abbaiava.
    Ma tu non c’eri. Guardai indietro.
    C’era un corridoio con tante stanze chiuse. L’hotel Astoria.

    (*Notte di bambini. Spauracchio. Gioco infantile.)

    Come si vede, la ripetizione di parole (composte, in tedesco) che iniziano con una medesima parola (Kinder, ovvero, bambini), serve ad introdurre un effetto moltiplicatore (e straniante) della forza semantica, inoltre i punti introducono delle cesure, degli stop. Così che si ha: moltiplicazione della ripetizione + cesure = Ritmo a singhiozzo, ritmo interrotto, interruzione e ripresa = effetto di straniamento. I tre versi che seguono (sono frasi nominali e dichiarative) sono spezzati da punti. Con l’ovvio effetto di concentrazione e di spezzatura interna dove il lettore è costretto a fermare l’occhio e la lettura a voce (o silenziosa). Qui mi sono permesso di impiegare il verso-arbitrario nel senso che sono io l’autore ed io soltanto posso intervenire sul dove e sul come interrompere l’ordine del discorso e riprenderlo a mio gradimento. Ho scelto una mia composizione per non fare torto a nessuno. È chiaro che nelle mie intenzioni definire un verso verso arbitrario non c’è alcuna connotazione negativa o spregiativa, è semplicemente un dato di fatto, un evento. Ed è una procedura che io utilizzo spessissimo nelle mie composizioni in vista di un determinato fine; cioè è una procedura consapevole, filtrata però da quella particolarissima cosa chiamata sensibilità verso la Lingua e i suoi linguaggi letterari.

    Ecco, io ritengo che l’italiano di oggi abbia in sé DELLE ENORMI POSSIBILITA’ DI ESPRESSIONE, È UNA LINGUA MATURA…

    Dimenticavo: altra cosa dal verso arbitrario è il verso inventato, cioè quella entità che non si distingue in nulla dalla prosa. E allora non si capisce perché in tanti ci si ostina ad andare a capo (dal punto di vista narrativo e metrico) quando non c’è alcuna ragione di andare a capo. Potrei, di ciò, portare migliaia di esempi, ma diventerebbe un gioco al massacro che non mi diverte, anzi, che mi deprime.

    Steven Grieco

    Giorgio, vado subito all’ultima cosa che dici nel tuo commento più sopra. Sì, hai perfettamente ragione. Poesia è poesia, prosa è prosa. E’ anche vero che la linea di demarcazione è molto vaga, ma mai così tanto da permettere una totale confusione fra i due generi. E allora Baudelaire, che scriveva i poèmes en prose? Perché ricorrere a un ritmo totalmente prosaico quando grandi poeti del passato hanno indicato come si potrebbe “usare la prosa nella poesia?” – e cioè una forma più attuale, che può dare maggiore libertà nell’esprimere concetti e realtà che inevitabilmente finirebbero per straripare dalle forme poetiche tradizionali (e forse anche dalla forma libera con verso spezzato sul lato destro della pagina). Anche altri, più di recente, l’hanno fatto, Transtroemer è un esempio. Ma poi c’è René Char, e tantissimi altri.
    Quando scrivo una poesia in inglese, non dimentico mai la metrica interna della lingua, è una cosa naturale. Forse è più difficile per un italiano pensare in endecasillabi (eccezion fatta per Dante) che per un inglese pensare in versi giambici di quattro-cinque piedi. La prosa inglese tende già di per se stessa a scomporsi abbastanza spontaneamente in versi giambici di questo tipo. E quindi quando scriviamo un verso, molto spesso il nostro pensiero già ci offre questa forma, questa soluzione. Che però nel mondo odierno talvolta suona piuttosto scontata, old-fashioned, soprattutto quando viene coltivata di proposito, come fanno migliaia di poeti di lingua inglese oggi che non hanno molto da dire.
    Nemmeno Shakespeare rispettò sempre quel metro, spesso i suoi versi sono endecasillabi, o versi di nove sillabe – eventualmente con una compensazione nel verso precedente o successivo, ma si tratta di giochetti inventati principalmente da critici e filologi: Shakespeare non pensava in questo modo, solo in casi precisi e specifici ebbe forse un reale bisogno di contare (per infondere quella inaudita musicalità ai sonetti, per es.). Anzi, egli è più di tutti colui che infranse le regole linguistiche eppure seppe rispettarle, che optò per un pensiero aperto, dettato dalla sua dinamica interna, eppure seppe rimanere dentro le forme tradizionali poetiche, espandendole e nobilitandole.
    Dobbiamo sforzarci oggi di “sentire” il verso prima di scriverlo, di “far succedere” il proprio pensiero dentro una forma in bilico fra “chiusa” e “aperta”, dentro un verso più dinamico, continuo o spezzato, se vogliamo veicolare il mondo in cui viviamo.
    L’esempio che tu, Giorgio, dai nel tuo commento citando un brano di una tua poesia è quello che ho in mente io. Mi rende felice che altri la pensino, almeno in parte, come me. (A proposito, bel ritmo dinamico, repentino, complimenti!)
    Zeitgeist: ci sono soluzioni che ci fornisce proprio il tempo in cui viviamo.
    Vado avanti: penso a uno dei più grandi poeti russi della seconda metà del Novecento, Gennady Aygi, messo nel dimenticatoio dai letterati del suo paese perché era ciuvascio, e perché nei suoi versi non rispettò la metrica e le convenzioni tradizionali della poesia russa. Peter France, suo amico storico e traduttore in inglese da sempre, individua nel verso di Aygi, totalmente “libero”, una metrica interna prevalentemente giambica, che comunque finisce per rispettare il ritmo della lingua e della poesia russa.
    Vedete l’ironia? Certo, Aygi era troppo grande per non saperlo: ma sentì forte il bisogno di scarcerare il verso russo da quei versi troppo regolari, troppo inamidati e incravattati, creando invece sulla pagina linee di parole più lunghe, di colpo spezzate, riprese al rigo successivo, con spazi vuoti, parentesi, tutto quello che gli serviva per esprimere quel suo pensiero così forte, così lacerato e profondo.
    In Italia oggi è raro lo slavista che abbia anche soltanto tradotto una poesia di Aygi. Assenza macroscopica, che ha dell’incredibile ma dice tutto sulla pavidità e sul conservatorismo degli studi letterari. Sarà un grande giorno quando qualcuno si deciderà a compiere quest’opera.
    E quindi, la forma “arbitraria” è ben diversa dalla forma aperta secondo il rigore che questa esige. Quando questa è ricercata fortemente, dinamicamente, anche dolorosamente per dire la realtà che ci sta davanti, e non per dire una nostra idealizzata riduzione e privatizzazione del mondo, ecco che salta fuori quello che cerchiamo – il verso veicolante, illuminante.
    Non è un sogno, oggi ci sono poeti in tutte le lingue che riescono a fare questo.

    1. Vorrei ricordare, caro Steven, l’acutissima notazione di Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la sua novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

      Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non era che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
      Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

      Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è l’immagine (statica e/o dinamica); ma non dobbiamo dimenticare che l’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.

      Per esempio tu, in una tua poesia, nel tuo linguaggio ripeti mimeticamente la struttura elementare dell’universo. Mi spiego:

      Giravo le spalle all’orto, immerso
      nel grigio smisurato del cielo

      una voce chiarissima risuonò:
      “non hai visto?”

      con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
      in una nuvola di fiori
      “Ah, sì, il susino…”

      È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e.. scopre «il susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista scopre il «susino».
      Una poesia come la tua, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto più concreto si possa immaginare

    2. Valerio Gaio Pedini

      Questo discorso, che spesso, teniamo privatamente io e Giorgio Linguaglossa è fondamentale. Il verso libero va preso con cautela. Come la forma rima e le metriche. Giorgio con Uccelli (1992), scritto in endecasillabi, mostra una padronanza totale del verso. E la mostra poi anche con il verso libero sperimentale in Blumenbilder (2013). Altri poeti che hanno la padronanza metrica e libera sono primo fra tutti Antonio Sagredo o Alfredo De Palchi, Maria Rosaria Madonna. Quanto è utile tornare al distico? Potrebbe essere utilissimo, come puntare all’haiku, solo che i temi andrebbero variati, in modo che avessero un’attinenza sociologica maggiore. Il problema è che non li si evolve e penso sia gravoso per la poesia. Il verso libero è diventato una grande piaga, come la rima. Così, il verso libero a volte rischia di creare solo confusione, ho letto ultimamente poesie scritte da sedicenti poeti incapaci di capire che i loro versi erano goffi, degli a capo fatti a caso. Mentre la rima è un problema perché rischia di cadere nella scontatezza. e se non la si maneggia bene, diventa fumo. Ed è singolare che una giovanissima poetessa come Siria Eva Comite abbia compreso tutto ciò e scriva una poesia razionalissima, studiatissima, precisissima, senza perdere di intensità ma aumentandola, rispetto ad alcuni suoi precedenti tentativi di verso libero goffi.

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 POESIE SCELTE IN LINGUA URDU di MIRZA ASADULLAH GHALIB (1797-1869) traduzione di Steven Grieco-Rathgeb in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. UN POETA PER TUTTI I TEMPI – La lingua Urdu e il ghazal – Singoli sher (Prima traduzione in italiano)

IndiaCenni biografici

Mirza Asadullah Ghalib nacque a Agra nel 1797 e morì a  Delhi nel 1869. Discendeva da una famiglia turca dell’Uzbekistan. Come altri uomini di stirpe nobile e guerriera dell’Asia Centrale, il nonno, Mirza Kokan Beg, era calato in India verso la metà del XVIII sec. in cerca di fortuna.

Orfano del padre a 5 anni, Ghalib crebbe come rampollo di una famiglia aristocratica non agiata. Imparò in giovanissima età a scrivere versi in Persiano, oltre che in Urdu. A 13 anni fu sposato con Umrao Begum, una ragazza del suo stesso ceto. Dopo il matrimonio si trasferì a Delhi. Nacquero figli, ma i due non raggiunsero mai una vera intesa, vivendo in appartamenti separati nello stesso haveli (casa padronale). Tranne un lungo viaggio compiuto a Lucknow, Benares e Calcutta, il poeta non lasciò mai più Delhi.

La famiglia conobbe diverse disgrazie. Forse la più grave per il poeta fu la scomparsa in giovane età di Arif, l’amato figlio adottivo. Le ristrettezze economiche lo perseguitarono per tutta la vita. Non riusciva a pagare il macellaio e il vinaio, perché infatti mangiava quasi solo carne e pane, ed era bevitore appassionato. Spesso dovette ricorrere agli usurai.

Ghalib ebbe una relazione molto intensa con una cortigiana che morì giovane in circostanze mai del tutto chiarite, ma certo tragiche. Tali esperienze, e l’indifferenza dei contemporanei verso la sua opera, lo portarono sempre più ad appartarsi dal mondo. Per un breve periodo fu precettore poetico dell’ultimo Imperatore Mughal, Bahadur Shah Zafar, grazie a cui poté percepire una pensione, peraltro modesta.

Nell’ultimo periodo di declino dei Mughal, le casse di stato erano vuote, e la stessa famiglia regnante era ridotta sul lastrico. Nel Lal Qila, un tempo splendido palazzo imperiale, il Badshah, le mogli e i fedeli ormai occupavano poche stanze, dove erano costretti a vivere al lume di qualche fioca candela. La fine dell’Impero fu affrettata dalla presenza nel subcontinente degli Inglesi, intenti a influenzare le vicende politiche a proprio vantaggio, senza intervenire di prima persona. L’instabilità politica sfociò nella grande e cruenta sommossa nazionale, detta The Indian Mutiny (1857-59), di cui Mirza Ghalib fu diretto ma imparziale testimone.
 

huñ garmi-e nishāt-e tasavvur se naghmah-sanj
maiñ andalīb-e gulshan-e nah āfrīdah huñ

 
nelle mie melodie è il riverbero di una gioia profonda –
sono l’usignolo di un giardino che sarà

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

L’eco dei torbidi che sconvolsero il mondo e l’epoca di Ghalib sono in genere rintracciabili soltanto nell’epistolario di questo grande letterato, molto meno nella sua opera poetica. Le lettere ci dicono che egli visse i suoi tempi con tutto lo slancio umano di cui era capace un uomo della sua sensibilità. Oggi però noi ci ci rendiamo conto che l’angoscia ghalibiana dell’essere, la sua solitudine, hanno una dimensione  cosmica e senza tempo. Ghalib è poeta non della storia, ma dell’eternità.

In India il modernismo viene in genere fatto risalire al secolo 19°, e all’impatto che l’Occidente ebbe su questa parte del mondo. Senza negare questa ovvia realtà, l’opera poetica di Ghalib tuttavia esprime un modernismo Indo-centrico che non ebbe niente a che vedere con le influenze occidentalizzanti, ma è frutto di dinamiche culturali specifiche al Subcontinente, avviate in tempi più antichi, e di cui elemento fondante è l’incontro secolare fra due grandi tradizioni culturali – la Persiana e l’Indiana. Ghalib si situa al vertice di questo processo.

Se l’affermarsi dell’essere umano come individuo è uno dei tratti determinanti del modernismo in genere, possiamo dire che Ghalib fu uno dei nostri primi moderni. Egli iniziò a definire l’uomo in questo senso. Privato delle antiche narrazioni come modello per il proprio agire, delle certezze della tradizione, della solidarietà di un determinato ceto o gruppo sociale, della sicurezza di religione e fede in Dio, l’uomo moderno emerge come individuo solo, vulnerabile, ed esposto a tutte le intemperie, che si interroga su ogni cosa e vive con forte angoscia l’oscurità della vita. Non ha né casa né dimora, ma si trova, rahguzar, sul ciglio della strada (vedi sher n. 4, “non un tempio, non la Ka’aba…”).

Dove si pone dunque l’uomo in questo mondo ostile;  quale la condizione del poeta di fronte a se stesso e agli altri; dove si situa l’amore in una società caratterizzata dall’indifferenza?

Da qui è breve il salto al quesito cruciale – cosa sia l’Essere – che sottende tutta l’opera poetica di Ghalib. Tuttavia, egli è profondamente scettico di ogni possibile spiegazione: “ogni luogo, ogni attimo, cantano il proprio specifico non-essere nell’Essere”. In questo il nostro poeta si avvicina per certi versi al nichilismo occidentale. Con la differenza che in lui il rifiuto del mondo è del tutto assente, e la disperazione si stempera nella coscienza che la fine corsa del nichilista è anch’essa inganno, semplice tappa sulla via dell’infinita esistenza, della memoria che involontariamente crea i diversi stadi e le inesauribili trasformazioni della vita. A questo proposito, un suo distico, prossimo al pensiero indiano tradizionale:

Self-encrypted is what we take as our waking state
they are still in dream who have awoken in dream
 

ascoso in sé è quel che noi pensiamo realtà diurna
sono ancora in sogno coloro che si svegliano in sogno

India 5Il mondo allora diventa tamasha, uno spettacolo che ora diverte, ora lascia sdegnati. Ghalib ebbe suprema la facoltà di ridere di se stesso, della sua poesia e delle sue passioni. Da una parte il poeta intravede in ogni attimo l’unità del Tutto – “sempre il cielo si china giù per salutare la propria luce” – da un’altra egli si trova a contemplare i frantumi della vita, dell’amore, dello spirito.

Oggi Ghalib ci appare come un gigante della poesia, e noi volgiamo lo sguardo verso lui per ringraziarlo del suo estremo ardire e della sua angoscia, del suo spirito innovatore e penetrante, soprattutto per essersi addentrato, senza facili certezze, nel dilemma dell’essere e del non-essere.

Sempre scettico di se stesso, Ghalib spinge i suoi lettori a esserlo di se stessi.

donna cinese antica

donna cinese antica

La lingua Urdu e il ghazal

 La lingua Urdu si sviluppò in India dal X sec. in poi, negli accampamenti militari degli invasori musulmani provenienti da Occidente. Essa è commistione delle lingue locali, basate sul Sanscrito, con elementi di Persiano, Arabo e Turco. Con il tempo l’Urdu divenne lingua letteraria delle più raffinate. Grandi poeti lo preferirono al Persiano per scrivere le loro opere più significative.

Il ghazal, forma poetica di origine Araba e poi Persiana, si articola in una sequenza di singoli bayt, o distici, in numero variabile.

I due versi del primo distico fanno “rima” (più propriamente si tratta di un ritornelloradif). Questa si ripete nel secondo verso di ciascun distico successivo. Lo schema dunque è: aa, ba, ca, da, ea, fa, ecc.

Se è impossibile enumerare in questa sede le altre convenzioni stilistiche legate alla forma, è necessario però dire che il ghazal non prevede, in genere, lo sviluppo di un dato tema poetico su tutto l’arco della composizione – così come succede, ad esempio, nel sonetto occidentale (che da esso sembra derivare). Ciascun bayt (distico) affronta un tema, una riflessione, una immagine, e la sviluppa, risolvendola al suo interno, per cui risulta un mondo completo in se stesso.

Si dice che il ghazal sia l’anima della poesia Urdu. In Ghalib esso è come una collana di perle: ogni distico è unico, ma legato agli altri per mezzo di un filo tanto sottile quanto tenace.

Questa è la prima volta che viene proposta una scelta di ghazal del poeta indo-musulmano tradotta in italiano e disancorata dalla ricerca filologica pura.

Le poesie di Ghalib, specialmente in forma di popolarissime canzoni, costituiscono ancora oggi nel subcontinente un patrimonio poetico vivente amato e condiviso da tutti. Tipico di quell’ethos è proprio il singolare fatto che i versi di un poeta così arduo e spesso oscuro, possano stare sulle labbra anche dell’uomo di strada. Ciò è dovuto in parte al fatto che in Ghalib, è del tutto fluido il passaggio, nello stesso contesto, dal dialogo amoroso al dialogo profondo con il Sé e con l’Inconoscibile.

Presentiamo tre ghazal e una serie di sher,  nome che designa un distico che spicca per bellezza e significato, e viene dunque spesso scorporato dal ghazal di appartenenza e presentato da solo.

Per la traslitterazione dall’originale in lettere Romane, si è usato il sistema diacritico semplificato.

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

               Ghazal

sab kahāñ kuchh lālah-o-gul meñ numāyāñ ho ga’īñ
ķhāk meñ kyā sūrateñ hoñgī kih pinhāñ ho ga’īñ

non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere

yād thīñ ham ko bhī rangārang bazm-ārā’yāñ
lekin ab naqsh-o-nigār-e tāq-e nisyāñ ho ga’īñ

anche noi ricordiamo lo splendore di sontuose e polìcrome feste
meri arabeschi ormai, che sbiadiscono nella nicchia dell’oblìo

thīñ banāt un-na’sh-e-gardūñ din ko parde meñ nihāñ
shab ko un ke jī meñ kya ā’ī kih ’uriyāñ ho ga’īñ

le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
perché mai ascesero nude, radiose nella notte?

jū-e khūñ āñkhoñ se bahne do kih hai shām-e firāq
maiñ yih samjhūñgā kih sham’eñ do firozāñ ho ga’īñ

la sera dell’addìo, sgorghi pure un fiotto di sangue dagli occhi –
mi farà pensare a due luci diventate incandescenti

in parīzādoñ se leñge khuld meñ ham intiqām
qudrat-e haq se yihī hūreñ agar vāñ ho ga’īñ

di questa progenie di fate ci vendicheremo in cielo –
se per giustizia divina le ritroveremo houri (donzelle) lassù

nīñd us kī hai dimāgh us kā hai rāteñ us ki haiñ
terī zulfeñ jis ke bāzū par pareshāñ ho ga’īñ

suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome

maiñ chaman meñ kyā gayā goyā dabistāñ khul gayā
bulbuleñ sun kar mire nāle ghazal-khvāñ ho ga’īñ

al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti

vāñ gayā bhī maiñ to un ki gāliyoñ kā kyā javāb
yād thīñ jitnī du’ā’eñ sarf-e darbān ho ga’īñ

e se anche andassi lassù, che risposta dare alle ingiurie di lei:
le preghiere che ricordavo le sprecai tutte sul guardiano

jāñ-fizā hai bādah jis ke hāth meñ jām ā gayā
sab lakīreñ hāth kī goyā rag-e jāñ ho ga’īñ

il vino è afflato vitale – le linee della mano che regge il calice
vanno tutte pulsando verso la grande vena dell’Essere

ranjh se khūgar hu’ā insāñ to mit jātā hai ranj
mushkileñ mujh par parīñ itnī kih āsān ho gaīñ

quando al dolore l’uomo si abitua, il dolore se ne va –
di guai me ne capitarono tanti, finché non mi parvero leggeri

yūñ hī gar rotā rahā ghālib to ay ahl-e-jahāñ
dekhnā in bastiyoñ ko tum kih virāñ ho ga’īñ

gente del mondo! se Ghalib continua a versare lacrime così
questi rioni affollati diventeranno una città fantasma

India 4
Singoli sher

* * *
yā rab zamānah mujh ko mitātā hai kisliye
lauh-e jahāñ pah harf-e mukarrar nahīñ hūñ maiñ

Dio mio, perché il Tempo mi cancella?
io non sono una lettera (cifra) scritta due volte sulla lavagna del mondo

* * *
ab maiñ hūñ aur mātam-e yak shahar-e ārzū
torā jo tū ne ā’inah timsāldār thā

e ora io sono, e il dolore di una città che anela:
lo specchio che rompesti era creatore d’immagini

* * *
dair nahīñ haram nahīñ dar nahīñ āstāñ nahīñ
baithe haiñ rah-guzar pah ham ghair hameñ uthā’e kyūñ

non un tempio, non la Ka’aba, non una porta, né una soglia:
stiamo seduti sul ciglio della strada – perché mandarci via?

* * *
nah gul-e naghmah hūñ nah pardah-e sāz
maiñ hūñ apnī shikast kī āvāz

non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
io sono la voce del mio stesso spezzarsi

* * *
hai kahāñ tamannā kā dūsrā qadam yā rab
ham ne dasht-e-imkāñ ko ek naksh-e pā paaya

dove sta il secondo passo del desiderio, oh Signore –
sulla desolazione del vissuto abbiamo trovato
l’impronta di un piede solo

India 6

Ghazal

hāñ khayo mat fareb-e hastī
har chand kaheñ kih hai nahiñ hai

no, non consumarti nell’abbaglio delle apparenze
anche se dicono, “qualcosa c’è, forse non c’è”

hasti hai nah kuch adam hai ghalib
ākhir tu kyā hai ai nahiñ hai

Ghalib, Essere e Nulla entrambi vacillano –
in fondo, come puoi tu essere e non essere

.

Ghazal

nah hu’ī gar mire marne se tasallī nah sahī
imitihāñ aur bhī bāqī ho to yih bhī nah sahī

se la morte non mi recasse alcun conforto, pazienza
dovessi superare altre prove, di nuovo, pazienza

ek hangāme pah mauqūf hai ghar kī raunaq
nauhah-e gham hī sahī naghmah-e shādī nah sahī

è il continuo via vai che dà calore alla casa –
se questo è un grido di angoscia, non un canto festoso, pazienza

nah satā’ish kī tamannā nah sile kī parvā
gar nahīñ haiñ mire ash’ār meñ ma’nī nah sahi

non ho sete di plausi, né bramo compensi:
se nei miei versi non è alcun senso, pazienza

.

Ghazal

zulmat-kade meñ mere shab-e gham kā josh hai
ik sham’a hai dalil-e sahar so ķkhamosh hai

nella mia buia dimora, la notte di dolore trabocca
c’è una candela, segno dell’alba, ma è spenta (ma ora riposa)

dāgh-e firāq-e suhabat-e shab kī jali hu’i
ik sham’a rah ga’i hai so vuh bhī ķhamosh hai

arsa dall’angoscia del notturno lasciarsi
è rimasta una candela – anch’essa è spenta

āte haiñ ghaib se yih mazāmiñ khiāl meñ
ghālib sarīr-e khāmah navā-e sarosh hai

giungono dal Vuoto questi temi all’immaginare –
Ghalib! il frusciare della penna è richiamo dell’Arcangelo

*Questo lavoro è frutto di una collaborazione fra A.shok Vajpeyi e Steven Grieco. Il primo dei contributori è poeta in lingua Hindi e saggista. Ha creato e diretto per diversi anni il Bharat Bhavan Culture Centre, Bhopal, nel Madhya Pradesh. Il secondo è poeta in lingua Inglese e traduttore.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com

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POESIE di Luigi Fontanella da “L’adolescenza e la notte” (2015) con due Commenti di Giorgio Linguaglossa e Flavio Almerighi uno stralcio della prefazione di Paolo Lagazzi e una Intervista all’Autore di Flavio Almerighi

bello volti in serie Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica.  Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012), Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013, Premio Città di Sant’Anastasia). Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera.   luigi.fontanella@stonybrook.edu

Luigi Fontanella foto, 2014 Grecia

Luigi Fontanella foto, 2014 Grecia

 Luigi Fontanella L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015 pp. 86 € 12.50

Stralcio dalla Prefazione di Paolo Lagazzi

 Una specie di solitudine amorosa, o di amore per gli altri intriso di solitudine, di amarezza, di un sentimento d’inappartenenza serpeggia lungo le istantanee di questo “album” di foto sui generis, di questo “libro” di cui l’autore accarezza le pagine mentre vorrebbe lacerarle, forse perché sa che nessun destino, nemmeno il suo di poeta, può mai essere racchiuso in qualche forma compiuta, che tutto è insieme se stesso e altro da sé, che la vita è “un’avventura continua” che potrebbe a ogni istante risucchiarci nel vuoto. Così l’anàbasi, a tratti, diventa una catàbasi, una discesa nelle spirali della pena come nella poesia che comincia con versi carcerari e un po’ tremendi (“Ci fanno l’appello. Uno per uno / ogni mattina, consegnati / in una colonia estiva“) e che termina con una confessione di sgomento “cosmico”, di lutto da orfano del vero Dio (“Siamo figli di un dio secondario. / Nessuno ci difenderà, / nessuno forse veramente ci ama“). Non è questo, tuttavia, il punto d’approdo dei versi. Solo attraverso un resoconto totale con gli anni della sua sofferta eppure dolcissima crescita al mondo, del suo apprendistato, della sua educazione sentimentale il poeta sa di poter rappresentare ai nostri occhi le radici del proprio destino, della propria chiamata alla poesia. Affondando in un terreno nutrito insieme di corpi e voci, di “scorie” e pugni, di passioni e disamori, di gesti vivi come tiri in porta e di nomi risonanti come echi mitici, queste radici si diramano nello spazio e nel tempo, crescono lentamente e in modo inarrestabile, diventano albero, spingono la loro linfa verso il cielo.

Nella seconda sezione del libro una specie di alone arcano e impronunciabile come il bisbiglio di una divinità del nulla assorbe ogni cosa, custodisce e rinnova le parole e i silenzi di una vita ormai a lungo vissuta. La notte è la cifra di tutti i conti che non tornano e insieme una forza “intatta, / senza compromessi” nel suo buio splendore, nel suo invocare “una calma rivolta”, un lento dissesto dei falsi grumi della realtà. Di notte si può leggere, sperando che i libri sfuggano al vento del nonsenso… Soprattutto, di notte si può ricordare. Ecco che, allora, mentre “gli spettri dei corpi che fummo” si staccano dalle pareti del buio, l’infanzia ritorna in punta di piedi. Il bambino mai morto nel poeta lo chiama a nuove avventure: le minuscole, spudorate mani del primo rinascono nei gesti del secondo mentre, raspando contro i suoi fogli, scavando nelle “caverne” della scrittura, cerca il centro proibito della vita, quel pozzo fragile e immenso dove ogni notte il mondo precipita per salvare un po’ d’amore, qualche illusione, o almeno la luce silenziosa dell’alba.

Luigi Fontanella L'adolescenza-e-la-notteCommento di Giorgio Linguaglossa

 Luigi Fontanella  prova, scarta, rifiuta, è insoddisfatto, quest’ultima sua opera la si può definire come un cantiere aperto, tentativi riusciti, tentativi scoperti, tentativi immaginati, nondimeno egli è sicuro del suo linguaggio, ogni parola è frutto di una risonanza, di una profonda meditazione. In un certo senso, proprio del poeta è non esser mai sicuro del proprio linguaggio, il suo è un procedere per deragliamenti, sillabazioni, citazioni dalle ombre dei ricordi, lampeggiamenti e lacerti del proprio quotidiano di un tempo passato alla ricerca della verità del tempo vissuto. Direi che Fontanella ha l’angoscia dell’espressione perché rifiuta la maldestra ottemperanza ad una espressione incompiuta e insufficiente dei linguaggi poetici già collaudati. Il linguaggio non può non apparirgli insufficiente e inadeguato, almeno finché non sia stata trovata l’espressione che più si avvicina alla cosa desiderata o designata.

Anche Carlangelo Mauro in un recente libro di approfondimento critico su alcuni poeti contemporanei, aveva notato «però che nella produzione più recente Fontanella va praticando una poesia in prosa diversa dal verso lungo del poemetto, mi riferisco in particolare alla sezione di “Inediti” (202-2005) contenuta in L’azzurra memoria, che all’uscita aveva già attirato l’attenzione di Cucchi come tendenza foriera di possibili positivi sviluppi (M. Cucchi “Gazzetta di Parma”), già visibili nella più ampia e interessantissima campionatura della sezione “Intermezzo” di Oblivion (2008), caratterizzata da una maggiore asciuttezza e antiliricità, non immune da proficue influenze della cosiddetta linea lombarda come si è ampliata e diversificata, rispetto alla sua prima fase, in questi ultimi anni».*

Altrove, a proposito di Oblivion lo stesso critico annota che «la capacità di fare vera poesia è quella di dare un senso – attraverso la memoria letteraria, per quella necessità straordinaria che diviene “agnizione”, anzi quasi una illuminazione – al “bighellonare” qualsiasi al vedere un oggetto qualunque come può essere un vuoto contenitore di merci; capacità di partire dalla quotidianità più prevedibile per approdare all’utopia di uno sguardo che cerca, con ogni sforzo visivo, la poesia che giace nel fondo delle cose e nella coscienza, attende come un “fiore azzurro”, simbolo in Fontanella, della vita sognata e trasformata attraverso l’immaginario, di essere colta».*

Interessante un’auto dichiarazione di poetica dello stesso Fontanella nella quale il poeta afferma di non credere ad una poesia e ad un linguaggio sganciati dalla «materia magmatica» come dal «senso ludico» insito in essi e aggiunge: «Da qui anche quell’atteggiamento cautelativo di certa critica conservatrice di fronte – ancora oggi – a poeti che hanno apertamente (e soffertamente) sfidato o sperimentato le risorse estreme della propria lingua poetica, magari anche ‘giocando’ con essa […] Con questo non voglio dire che un poeta scriva solo per giocare (che sarebbe cosa, comunque, bellissima)». ** L’adolescenza e la notte è il tentativo del poeta di scavare tra le ombre proiettate all’interno della sua «caverna»:

Scavo ogni notte nella mia caverna
penetro nelle tacche della ruota dentata

L’arte poetica è considerata alla stregua di una maieutica, di una discesa anagogica al fondo dei ricordi tra l’inconscio e il preconscio. Come si può evincere dallo stralcio di poesie presentate, Fontanella predilige una dizione scabra, ossuta, irta di determinativi, di sostantivi, di cose; l’armonia è la risultante di diversi fattori, ma non nel senso di una sinfonia eseguita da un’orchestra, quanto di una musicalità scabra nella quale l’autore immette le sue variazioni metriche. È in questa atonalità di fondo che si può parlare di dissimmetria della musicalità della poesia di Fontanella; il suo allontanamento dalla tonalità metrica dell’endecasillabo novecentesco è del tutto visibile ed eloquente; la  metricità della sua poesia deriva da un procedimento per associazione e per contatto tra segmenti metrici fortemente dissonanti e dissociati calati in un «parlato» basso, di derivazione sicuramente meneghina ma, insomma, direi ormai ampiamente invalsa e collaudata nella poesia italiana più recente e metricamente più evoluta.

* Carlangelo Mauro Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei Sinestesie, Avellino, 2013 pp. 26,7
** op. cit. p. 19
 

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

 Commento di Flavio Almerighi

Il nostro cortile è un campo di battaglia
piccoli trionfi o cadute nella polvere
tra Tonino Iannone e Franco Arpino.
Bisogna sbrigarsi a crescere (p. 37)

L’adolescenza è stata inventata durante la seconda metà del XX secolo. Prima i bambini diventavano adulti, strappati alla fanciullezza venivano mandati nei campi e nelle fabbriche, cosa che accade comunemente anche oggi in molti paesi “in via di sviluppo”.  Erano adolescenti molti milioni di caduti durante le guerre mondiali dentro e fuori i campi di battaglia. Dopo gli anni Quaranta del secolo scorso l’adolescenza è diventata un diaframma sempre più consistente tra l’infanzia e l’età adulta, un business, infine uno status perenne causa la crisi dell’ultimo decennio, adolescenti fino ai quarant’anni, precari, bamboccioni.

Un tempo la notte atterriva, il buio che portava era assoluto e senza penombre, la mancanza di luce diurna generava mostri e paura. Il tempo ha ideato lune sempre più importanti e la notte non è più vissuta nel terrore di essere divorati o posseduti durante il sonno, è diventata il momento più romantico, libero, raccolto dell’intera giornata. Ha acquisito fascino e talento.

L’adolescenza e la notte, ultima fatica poetica di Luigi Fontanella (Passigli, 2015), mette insieme con originalità due concetti, due mondi,  apparentemente lontani. O forse nessuno prima ci aveva mai pensato. Assimila il ricordo al dormiveglia, l’evocazione al momento migliore per evocare. La notte è una donna incinta, dentro di lei batte già un altro cuore. Ho tratto un’infinita bellezza dalle letture e riletture di questo libro affascinante cui non trovo punti deboli o criticità. Un lavoro molto maturo. Ho voluto per questo confrontarmi direttamente con l’autore ponendogli alcune domande,

ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia (p. 65)

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the ...

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …

Qual è il trait-d’union tra l’adolescenza e la notte in questo libro?

Inizialmente non c’era un concreto e preciso nesso, se non quello della mia volontà di unire due nuclei di lavoro che si interseca(va)no tra immaginazione e memoria; qualcosa che Paolo Lagazzi ha poi in buona parte intuito nella sua Prefazione. Rimando anche alla mia Nota finale. Potrei aggiungere, a posteriori, ma in modo abbastanza scontato, che le due parti del libro rappresentano l’alfa e l’omega di ogni umana esistenza: l’infanzia/adolescenza e la tarda maturità/senilità. Ma in questo non c’è alcuna “autoindulgenza”: sono semplicemente fasi della vita che io credo convivano talora armonicamente, talora ossimoricamente, talora addirittura in modo buffo.

Anni giovanili: un luogo nostalgico e non più raggiungibile?

Luogo, almeno per ciò che mi riguarda, nient’affatto nostalgico, in quanto a me sembra di vivere, almeno psicologicamente, una specie di eterna giovinezza. Ad essa attingo continuamente, con una naturale disponibilità a farmi sorprendere dalla cosiddetta Realtà o – come diceva la Ortese (la più grande scrittrice del nostro Novecento) – dall’Irrealtà quotidiana.

Come mai la scelta di non titolare i brani?

Ho dato un titolo alle mie poesie nei miei anni giovanili. Ora lo faccio molto raramente perché mi sembra una cosa posticcia, stucchevole, che quasi mai nasce insieme a una poesia, cioè al suo farsi. In genere i titoli delle poesie si stilano quasi sempre “a freddo”, dopo averle scritte.  E poi, non mettendo un titolo a ogni testo, a me sembra di dare una maggiore continuità tra una poesia e l’altra, come in una sorta di continuum interiore che va rincorrendosi, così come avviene con l’eco (mi viene in mente un bellissimo quadro di Delvaux intitolato appunto L’écho).

Soprattutto nella sezione “La notte” ho notato uno stile discorsivo di tipica matrice angloamericana contemporanea. Si sente influenzato dall’ambiente in cui vive e dagli autori con cui giunge a contatto?

 È probabile che questo “stile discorsivo” mi derivi, in parte, sia dalla mia intensa lettura di poeti americani contemporanei sia da un mio desiderio di riscoperta e di rilettura di un filone presente anche nella nostra letteratura, e cioè quello legato alla “ballata” (nella poesia medievale un grande Maestro in questo senso è stato Guido Cavalcanti), o al “racconto onirico in versi” (un mio libro, intitolato Bertgang, uscito tre anni fa presso Moretti & Vitali Ed., riflette esattamente questa mia disposizione).

A tutto ciò occorre aggiungere una mia affezione o “empatia” verso il genere del poème en prose; penso a grandi modelli come quelli di Baudelaire e Campana, o, per avvicinarci a qualche esempio più recente, a certi componimenti in prosa poetica dell’ultimo Raboni.

Come vede il momento attuale della poesia italiana?

Lo vedo zoppicante e nebuloso, con una schiera sempre più crescente di poeti della Domenica e sempre meno lettori. C’è inoltre una preoccupante disaffezione alla poesia in senso generale, già a partire dai quotidiani e dalle riviste: luoghi dove i libri di poesia trovano poco, pochissimo spazio critico. Manca poi in Italia una vera educazione alla Poesia; per es. non ci sono corsi universitari dedicati esclusivamente ad essa, come diversamente avviene in Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, gli Stati Uniti, ecc.

In questo modo i percorsi, le strade della poesia diventano più difficili e contorti. Allo stesso tempo, penso che un vero poeta, nonostante le difficoltà crescenti e la frantumazione qualunquistica della comunicazione, in particolare telematica, dove ognuno può improvvisarsi poeta e può crearsi il proprio blog (ci sono per fortuna alcune buone eccezioni, ma sono poche), abbia il dovere di essere coerente prima di tutto con se stesso, cercando una sua strada che poi corrisponde alla sua personale verità.  Credo che già questa fedeltà alla propria voce, al proprio credo, al proprio modo di esprimerlo (Pasolini diceva che su tutto si può barare tranne che con lo stile) sia già un importante obiettivo per il “ruolo” che ogni poeta dovrebbe ascrivere a se stesso nell’odierna società.  Non credo al poeta/profeta; credo, voglio credere, però, come già mi è avvenuto di dire, a quel poeta che sia sensibile ai guasti della sua “civiltà”, e reagisca nella maniera a lui più congeniale, cioè da poeta, e dunque con la sua parola, senza mai sacrificare l’immaginario che è dentro di lui. Che sappia insomma, baudelairianamente, esprimere l’utopia nella carne del linguaggio. Sarebbe bello se la Poesia contribuisse davvero a migliorare il mondo in cui viviamo.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Non sono mai entrato nella vita.
Mai appartenuto a qualcuno. Storie
che giungevano al termine, al punto
verticale della fine. Ma mi commuovo
per un nonnulla, l’adolescenza
è assoluta ed eterna
è l’unica cosa che resta.

*

A occhi socchiusi scorrono
vilipendi e ferite. La sfida
è per chi ci precede. Oppure
làsciati andare:
la nebula mente
soffia un breve respiro.

*

Si preparava la scenografia
del futuro. Il principio era questo:
un momento e già subito un ammasso di anni… Oggetti
accumulati che col tempo
perdono ogni precisa identità
ogni significato. Rivivono
in occhiate notturne
prima di andare a letto
solo di passaggio solo di passaggio
appena fissati per un attimo
e già rientrati in se stessi.
Scenografia che andrebbe scompigliata
dovrei disfarmene, distruggerla.
Mi sopravvivrà
chissà in quale altro spazio
chissà per quali altri immemori occhi.

*

Corriamo in fila
di fronte al padre di Tonino Iannone,
giardiniere sempre un po’ stupito, un po’ trasognato.
In altre stanze smania
una figlia di nessuno.
Chi raccoglierà queste nude foglie?
Il tempo cambierà in fretta.
Nessuno scende più per quella
stradetta che ci conduceva a Fratte:
tutto stravolto tuto stritolato
in un subbuglio di crescita orrenda. Nulla
più riconoscibile.
Salerno, Via Parmenide 30:
cinque anni della mia adolescenza.

*

Ristabiliamo le distanze
fra ciò che è sempre stato imminente
e il vuoto che ci è accanto.
La tua voce è in quell’orlo
che corona il cratere. Un sibilo
e si disperde la polvere del giorno. Non sai
più se è ieri o domani
perché domani e ieri
sono precipitati nel nulla
e le sillabe impazzite
si confondono tra di loro.
La nostra adolescenza
resta incisa in un’espressione
un po’ casuale, in un profilo sghembo,
in un gesto che non è mai nato
ma che c’è sempre stato.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Talvolta la notte sorprende
chi l’attraversa. La notte
che assorbe tutto, che custodisce
o rinnova il silenzio, i giochi della mente,
incoscienze, il sangue di qualche innocente.

La sacra notte, che a tua volta sorprendi
nel suo grumo, intatta,
senza compromessi. Una storia
come immaginata, perfetta nei suoi
scismi, nei suoi effetti, nei suoi delitti.

Come quella volta –
4 febbraio 1983 – che l’attraversasti barcollando
il sangue ti colava sulla fronte
sempre di più, avanti, nel buio pesto
dalla 207 fino a 100 Park Terrace West.

A casa lo specchio ti rimandò
la tua faccia inorridita… telefonasti
a Judith meccanicamente, ti disse soltanto
di socchiudere la porta d’ingresso
prima che tu, immemore, stramazzassi a terra.

Poi altri spazi, bianchi, bianchissimi.
Tutto più leggero, tutto più soffice
come la neve che trasognato
vedevi turbinare nei fiocchi
che si stampavano sul parabrezza.

Ora è solo racconto, film muto, labbra
semoventi di barellieri e infermieri
le identiche domande ogni poco:
sogno e realtà nell’unica sequenza,
sempre la stessa, sempre la stessa.

È solo un racconto,
film muto che ripete la notte: questa
notte che si è data appuntamento
con un’ altra di trent’anni fa.

Mount Sinai, 4 febbraio 2013
*

Adesso nell’oscurità
tutto appare composto e fermo.
Tutto già ben disposto
ben organizzato, mentre
guardo di nuovo i miei libri allineati.
Stanotte non voleranno via
dai loro ripiani. Non permetterò
che precipitino giù, che abbandonino
il proprio abitacolo, legati
uno accanto all’altro
per puro destino alfabetico.

*

Siamo tutti e tre
in un grande letto: Anna, l’antica
e tu la presente, una
accanto all’altra, ed io
nel mezzo, in perfettissima armonia.
Stringo la mano ad ambedue
dolce e silenziosa la nostra intesa.
… ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia.

*

Acquetarsi infine
sottrarsi almeno per un breve intervallo
da ogni male, libero volare
assottigliarsi gradualmente
fono a svanire nel buio, essere
tu il buio, il buio assoluto.

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Sandro Bondi e Nichi Vendola due poeti in fuga dalla politica – “Vado verso la vita”, urlò D’Annunzio. Oggi lo seguono Sandro Bondi e Nichi Vendola. Dalla politica, tornano alle liriche – di Stefano Di Michele

Sandro Bondi

Sandro Bondi

da “Il Foglio quotidiano” 19 aprile 2015

 Urlò D’Annunzio – il sempre vociante Vate: “Vado verso la vita!”, transitando fulmineo dai banchi della Destra a quelli della Sinistra. Più temerariamente, Sandro Bondi e Nichi Vendola verso la poesia sono già andati. E ora, quasi orbi della politica, alla stessa si apprestano a tornare – e la Musa Calliope, priva di scampo, forse rassegnata attende. Sandro – l’uomo di Berlusconi, da cui dolorosamente si separa, e Nichi – l’uomo di Eddy, di cui è felicissimo fidanzato, sono stati (pur su fronti opposti) i versificatori del ventennio che si chiude, i rimatori dei giorni andati, i verseggiatori delle loro buone cause. Uomini dal pensiero rapido, dalla metafora veloce, la terzina pronta in canna, hanno scandito il loro percorso politico tra rime e liriche, con fervore di scrittura (e non sempre adeguata critica a sostegno, piuttosto malevola, a dire il vero). E ora che la stagione si avvia a conclusione – un sottrarsi, un dileguarsi, un commiato comunque – facile prevedere che sui marosi della poetica le loro vite future troveranno ancora e sempre conforto. Il pur temibile Fatto così l’altro ieri titolava l’abbandono di Bondi, ora rifugiato nella pace di Novi Ligure come Catullo nella villa di Sirmione: “Vorrei essere dimenticato” – e annotava il quotidiano, sul senatore che fu berlusconiano di cuore e di poemi: “E chiede un favore con una terzina: ‘Io vorrei essere dimenticato / io vorrei che il mio nome non fosse più importante / io vorrei chiudere qui la mia esperienza politica’”. Dolente abbandono, anima ulcerata: avrebbe forse un giorno composto. Ben diversa l’uscita di scena di Vendola, che in tal modo il suo abbandono ha argomentato: “Il mio obiettivo più grande è quello di recuperare l’allegria, la cosa che mi è più mancata in questi anni. E poi voglio riprendere a leggere: per dieci anni non ho scritto un verso e non ho letto un libro di poesie”. Sandro, più mesto, pare prendere congedo con le parole del “collega” (diciamo) Pablo Neruda – “Amare è così breve, e dimenticare così lungo”; Nichi, di suo, si apposta più nei pressi della Vanoni e di Vinicius de Moraes – “Buonanotte all’incertezza / ai problemi all’amarezza / sento il carnevale entrare in me. / E sento crescere la voglia, la pazzia / l’innocenza e l’allegria…”.

Nichi Vendola

Nichi Vendola

 Peraltro, volendo ben poetare, l’allegria è sentimento da tenere a bada – troppo vicino costeggia la soddisfazione, essendo questa “sentimento di natura tiepida, e di qualità inferiore”, come scriveva Natalia Ginzburg recensendo le poesie (“non mi piacciono affatto”) del volume “Epitaffio” del suo amico Giorgio Bassani, “perché mi sembrano piene di soddisfazione”. Scrisse pure: “Un mio amico, Cesare Garboli, dice che sono insieme Carducci e Magritte. Io però non riesco a vederci né Carducci né Magritte. Ci vedo soltanto la soddisfazione”. Perciò l’eccesso di buonumore la felicità creativa non sostiene – e in effetti, a pensarci bene, Vendola è stato finora poeta più propenso se non al tragico al gravoso impegno, sorta di pensoso Hikmet del Salento, “la lotta è il mio canto, e la gioia, e la sorte radiosa degli amici”, così che, quasi sulle orme del “Lamento per Ignacio Sánchez Mejías” di García Lorca, compone il suo più esteso e sollecito (morte a luglio, poema a settembre: neanche un cambio di stagione, ché a volte la poesia, nell’urgenza delle cose, è come un ascesso dentale: pulsa e preme) “Lamento in morte di Carlo Giuliani”: “Lascia che io pianga muto / senza quel tuo limone / limone asfalto e sputo (…) di un celerino a uccello / ti spezzano i carati / del sogno tuo degli anni / l’ora del manganello / rintocca nei tuoi panni…”. Pure qui – né Carducci né Magritte, e latita magari García Lorca. Ma Vendola è pur sempre un generoso militante del pensiero e dell’impegno, e in una memorabile intervista tanto seppe definire la sua poesia, “credo nella poesia come parto doloroso, come partita gioiosa, come partenza verso territori semantici tutti da scoprire”, quanto alzare la voce contro il degrado del poetare attuale – avendo il karaoke e il povero Apicella “ferito quasi a morte tutte le Muse”, un eccidio. E dunque, nella vasta morìa circostante, posa lo sguardo: “Siamo assediati da pessima poesia, rime leggere e di facili costumi, senza studio né gravidanze scritturali autentiche…” – che poi chissà: ma che cazzo so’, le rime di facili costumi?

Ugo Foscolo

Ugo Foscolo

 Di suo, nella mestizia dell’addio – quasi addio al se stesso dell’ultimo ventennio – Bondi figura in una disposizione d’animo più adatta a mutarsi definitivamente in poeta, idealmente trasfigurato a metà tra il Foscolo dei “Sepolcri” e il sempre caro Neruda, “posso scrivere i versi più tristi, questa notte”. Non a caso “delicato Sandrone” lo chiama il Messaggero – quasi fosse un fragilissimo John Keats, “il cui nome fu scritto nell’acqua”, ché a tale delicata dissipazione pare ora aspirare pure Bondi. Che poi, quasi dantesco contrapasso (“così s’osserva in me lo contrapasso”) sembra il suo: che generosamente su molti il generoso fiorire della sua poetica riversò – davvero “rosa aulente, / splendiente” dei giorni dorati del berlusconismo ora per sempre persi: a cascata, a settimanale impegno su Vanity Fair, in arabescate trasfigurazioni che solo le anime più vili e grevi potevano percepire quale eccesso di piaggeria e non piuttosto come amorosa/amorevole estensione del suo universo. A riprova, non solo le poesie dedicate a Silvio (adesso, nell’abbandono e nell’invocata dimenticanza, certo un sussulto leopardiano deve percorrerlo – Silvio, rimembri ancora?), alla consorte sua, alla mamma (“Madre di Dio”, pensa tu), persino alla segretaria Marinella, “muto segreto / inconfessata attesa”, e chissà come Dudù sfuggì; ma anche alla più stretta colleganza di partito, così da cantare il “fiore reclinato” della Brambilla o il “presente d’amore” di Letta (Gianni), o le nozze di Elio Vito, “tra le tue braccia magico silenzio”, del resto sempre ottima cosa. E persino Cicchitto in dono ebbe da Bondi uno tra i suoi componimenti elaborati, con periglioso, si potrebbe dire oculistico, abbandono: “La mia fede / è la tenerezza dei tuoi sguardi”, e mai prima di allora (e per la verità mai dopo di allora) gli sguardi di Cicchitto furono oggetto di pubblica attenzione poetica. Ma è proprio qui ciò che solo la poesia può: come Mario Tessuto con “Lisa dagli occhi blu” o, meglio ancora, Montale con “La casa dei doganieri” – chi, prima di lui, l’aveva mai avvistata? Ma pure ai suoi avversari, generosamente Bondi non negò il piacere di appositi lirismi: così a Veltroni, “Tenero padre, / madre dei miei sogni”, così alla fascinosa Anna Finocchiaro, “Nero sublime / Lento abbandono / Violento rosso”, quasi quasi evocando certi sussulti amorosi di Kavafis: “I versi suoi! Infuocati sguardi / Dove ripalpitano i suoi miraggi”. Eugenio Scalfari, uno mica di facili gusti, “per l’alto mare aperto” abituato a navigare, figurarsi a Novi Ligure dove nemmeno c’è il porto, durante un dibattito si lasciò andare: “Per come parla Sandro Bondi, lo incarterei e porterei a casa”. Son soddisfazioni massime, queste. E ora, questo suo sospiroso e laterale sortire dalla scena pubblica, quasi lo avvicina a un poeta che più distante da lui non potrebbe essere, il Charles Bukowski di sbronze e mignotte e ippodromi: “Scrivere una poesia non è difficile, difficile è viverla”.

Kavafis

Kavafis

 Nichi e Sandro – i due poeti che la plebea scena politica nostra hanno attraversato, e che ora abbandonano uno evocando dimenticanza l’altro bramoso di allegria – hanno vissuto in maniera diversa questa loro duplice veste di eletti e di versificatori. Sempre in Nichi, pure nel dibattere e comiziare, il poetare premeva sulla favella – frusciare e ammonticchiare festoso, tipo: “Le primarie sono una vera spinta di vita, immettono un alito profumato nel centrosinistra…”, magari: “La poesia libera l’anima. Appena posso mi rifugio nella poesia…”, oppure: “Io sono reo di porto abusivo di sogno…” (codesta ammissione risultava nel distico per la presentazione dei due dvd “Le parole del futuro”, nientemeno, “La ballata di Nichi Vendola”), così quasi uno si aspetta di sentirlo andare avanti attacando alle parole sue quelle di Lee Masters, “voi che vivete, siete davvero degli sciocchi / voi che non conoscete le vie del vento”. In Sandro, lo sdoppiamento era assoluto – mai il politico concedeva, nel pubblico confronto, il volo sognante che il poeta serbava per momenti di maggiore estro. Dualismo che lo stesso tenero vate di Fivizzano riconosceva (intervista con Sabelli Fioretti): “Ci sono due Bondi. Il primo è quello che sono, quello che credo di essere, che sento di essere. Il secondo è un altro Bondi. Quando mi rivedo in televisione mi meraviglio di me stesso. Molta gente me lo dice”. In Sandro, sempre verso l’assoluto la poesia tende – “Perdonare Dio” il titolo di una sua raccolta, “Vita vitale / Vita ritrovata / Vita splendente” certi versi dedicati a Berlusconi: senza, peraltro, voler minimamente affiancare i due soggetti. Nichi, che a sette anni debuttò con una poesia intitolata “Mamma” (un pizzico di Ungaretti e un sospetto di Gino Latilla, “son tutte belle le mamme del mondo / quando un bambino si stringono al cuor!”), fu persino capace di una bellissima filastrocca – che da Sandro Penna piuttosto felicemente dalle parti di Rodari lo spostava: “C’era una volta una piccola bocca che ripeteva la filastrocca di una gattina color albicocca che miagolava in una bicocca dove viveva una fata un po’ tocca che raccontava la storia bislacca di una bambina che sta sulla rocca e che ripete la mia filastrocca nata un po’ allocca e cresciuta barocca…”. Poi, purtroppo, con ricadute piuttosto dolorose nel quotidiano, come quando per sponsorizzare la lista Tsipras (gli sta bene!) fece il verso alla famosa poesia “If” di Kipling: “Se pensi che le persono sono più importanti delle merci. / Se pensi che la comunità sia più importante del denaro…”. Con giustificato spavento, sia i lettori sia gli elettori si defilarono.

Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi

 Sono stati gli ultimi due esponenti del politico/poeta, Bondi e Vendola – razza in estinzione che forse mai più si ripresenterà. Oddio, vero che il poetare è cosa somma e insieme cosa facile e incontrollabile (chi mai ci tutela da ogni matita e ogni pezzo di carta?), così che pure il genio che vergò le parole: “A XY andai / a te pensai / e questo ricordo ti portai”, così da porterle imprimere volendo sulla cotognata di Bari o sotto la gondola di plastica di Venezia o nei pressi di Padre Pio, potrebbe aspirare alla categoria. Ma se a un politico/poeta si deve pensare, inevitabilmente il pensiero corre al comunista Pietro Ingrao, appena fresco centenario, che ha pubblicato diversi libri, come “Il dubbio dei vincitori” e “L’alta febbre del fare” – senza similitudini tra questo e quelli. “Chi nel campo arde / fascine / mai saprà / di che sete nel consumarsi / è l’acre fumo / che fugge” – così certi suoi versi. E così: “Senza giurare, / quando il chiaro dorme, spalancate le fonti. / Ponete i nomi”. Spiegò Ingrao, nella sua autobiografia: “Valse allora per me la risonanza della parola e la successione dei suoi significati, il loro dilatarsi a formare una trama”. Scrisse il Manifesto (Massimo Raffaelli), esteticamente e politicamente rapito: “Per Ingrao, la poesia è infatti non una riposta anticipata o differita ai problemi del fare e dell’agire ma, al contrario, è la domanda perpetua sul senso del fare dell’agire, individuale e collettivo…”. Ci fu anche un democristiano poeta, ormai dimenticato, Bernardo d’Arezzo (ministro e pure commercialista), che diede dalla stampe due raccolte, una con prefazione di Domenico Rea e l’altra del comunista Antonello Tormbadori – e il volume presentato da Eduardo De Filippo (però). E tra i poeti un altro comunista, Maurizio Ferrara, coi suoi sonetti romaneschi da Anonimo Romano (ché “ultimo, anonimo e minuscolo fedele del Belli” Ferrara si definiva) – “Er male è com’un fumo che ciài drento, / che ’gniquarvorta er corpo fa ’na mossa / la fa lui puro, ar movese s’ingrossa / come fa la fumata sotto er vento”.

Aldo Palazzeschi

Aldo Palazzeschi

 Per il resto, piuttosto che comporre di loro, per fortuna i politici preferiscono citare. Nei momenti più solenni, più solenne s’alza la citazione. Così Occhetto, che dismette il Pci, all’ultimo congresso lacrima e chiama in soccorso Tennyson: “Venite, amici, che non è mai troppo tardi per scoprire un nuovo mondo. / Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte…”. E Forlani, nel cupo di Tangentopoli, reagì con Dante e il suo Inferno: “Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo. / io non vi discernea alcuna cosa…”. Più prosaicamente, nel 1994, alla radio con Livio Zanetti, Berlusconi preferì farsi trasportare dai meno impegnativi versi di “Rio Bo” di Aldo Palazzeschi: “Tre casettine / dai tetti aguzzi, / un verde praticello, / un esiguo ruscello: Rio Bo, / un vigile cipresso…”. L’aveva ripassata sabato sera coi suoi figli, spiegò: “C’era la gara tra tutti i bambini per vedere chi l’imparava prima, alla fine l’ho imparata anche io”. Però. (Comunque, anni fa Berlusconi si lanciò a sorpresa in un omaggio nostalgico alla Prima Repubblica, “quando si era capaci di recitare i versi di Guido Cavalcanti per rafforzare un argomento e si era abili nel giocare di fioretto un attimo dopo aver tirato sciabolate”, e il riferimento era alla famosa disputa tra il segretario del Pci Palmiro Togliatti e il giornalista Vittorio Gorresio sull’argomento). Bertinotti, nei momenti di maggiore pathos sempre alla splendida “Itaca” di Kavafis ha fatto ricorso (un po’ metafora dell’andare a zonzo piuttosto che arrivare: perfetta per la sinistra): “Itaca ti ha dato il bel viaggio / senza di lei mai ti saresti messo / sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”. D’Alema, quando tra i filare della sua vigna ha presentato a un perplesso e vigile Alan Friedman il suo cagnone di settanta chili, a nome Aiace, lo ha fatto citando Vincenzo Cardarelli: “Sempre obliasti, Ajace Telamonio, / ogni prudenza in guerra, ogni preghiera…”. E Veltroni, per anni e anni, si è tirato dietro certi bellissimi versi di Borges, “I giusti” – per spiegare la sua idea di sinistra, come distico al suo libro “Senza Patricio”, per conquistare la platea argentina durante un viaggio ministeriale da quelle parti: “Chi accarezza un animale addormentato. / Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto…”.

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“Delta del tuo fiume” di Gëzim Hajdari. “La poesia epica dell’esilio” Lettura di Marco Onofrio

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume copDelta del tuo fiume (Ensemble, 2015, pp. 172, Euro 15) di Gëzim Hajdari è un libro di rara intensità poetica, uno dei più potenti e impressionanti che io abbia letto negli ultimi anni. È un libro che, come un arco teso, permette alla poesia di slanciarsi oltre i propri limiti, superare i confini della parola, significare ben al di là di ciò che dice. Malgrado Hajdari affermi di «pisciare sulle poetiche», conclude Delta del tuo fiume con una lunga poesia-manifesto, “Contadino della poesia”, che funge da specchio di autoconsapevolezza e chiave di accesso al libro. Hajdari coltiva un’idea di poesia come “bestemmia” – cioè preghiera laica rivolta al sacro elementare – che lacera il velo cosiddetto “civile” delle ipocrisie deputate a coprire la verità oscena dei rapporti sociali, l’inferno della convivenza, l’orrore eterno della Storia. La poesia è denuncia, atto inconciliabile d’accusa. La parola non conferma i patti disonesti, non regge il sacco ai ladri nel tempio profanato, ma è eversione che articola il dissenso e osa pronunciarlo con la massima sincerità possibile, costi quel che costi. È eresia, è “besa”, cioè promessa, parola data, confidente appartenenza al fondamento etico. È impegno di autenticità. È dignità che mette in gioco il valore della vita.

Essere “contadino della poesia” significa

tornare all’Essere
riscoprire le radici
bere alla fonte
parlare con i sassi
ascoltare la terra
rileggere il cielo e la terra
(…)
sapere chinarsi a raccogliere
chiamare le cose per nome (…)
lavarsi con la terra (…)
ridare la dignità perduta al Verbo, cioè
la dignità perduta all’uomo,

Gezim Hajdari cop inglesee dunque recuperare il «senso epico, musicale e civile della parola», ricostruire il «tempio della parola» distrutto dagli «eunuchi del minimalismo sterile». Questo significa scrivere in modo semplice ed essere profondi al tempo stesso. La poesia di Hajdari, infatti, è colta e insieme popolare – così come è, sempre, la poesia autentica. Una poesia umana e antropologica a 360°, aperta al dialogo con le realtà del mondo, al di là delle infinite gabbie di rappresentazione.

Scrive Neruda: «La poesia ha perso il suo legame con il lontano lettore … Deve recuperarlo … Deve camminare nell’oscurità e incontrarsi con il cuore dell’uomo, con gli occhi della donna, con gli sconosciuti della strada, quelli che a una certa ora del crepuscolo, o in piena notte stellata, hanno bisogno magari di un solo verso».

gezim hajdari copertinaA patto però – aggiunge idealmente Hajdari – di «essere poeta, non scrittore di poesia». Il preziosismo “laureato” del modello petrarchesco distolse la poesia dal suo cammino: emersero le vanità, le pose artificiali, i conti di ragioneria. Ancora Neruda: «la fonte della grandezza cominciò a estinguersi. Quest’antica sorgente aveva a che vedere con l’uomo intero, con la sua apertura, la sua abbondanza traboccante».

Hajdari scrive poesia con l’occhio che, penetrando le paludi della crisi, traguarda l’unità cosmica dell’uomo “come se” fosse ancora possibile. Occorre «sentirsi parte della totalità», cioè «vivere al confine / ubriaco di mondi»: «vivere negli altri», «attraversare la vita», «recuperare il legame tra parola e verità, tra poesia e vita»: «diventare carne e sangue delle proprie parole».

L’operazione poetica consegue alla discesa nel proprio «io centrale»: con la stessa inesorabile naturalità del fiume verso il proprio delta marino, o del maschio verso il nido caldo della donna che lo invita al ricongiungimento. L’«io centrale» è il nucleo dove convergono e partono i raggi del mondo: c’è un cosmo di vasi comunicanti sotto la superficie impediente, dove i dualismi apparenti si sciolgono in rapporti complementari, poiché “tout se tient”. È una via antitetica ad ogni operazione narcisistica: Narciso si specchia nel mondo e ovunque vede se stesso; Hajdari specchia il mondo nel proprio «io centrale», che coincide con la visione aperta, cosmica, globale di tutto l’esistente. La condizione che lo porta ad avere questo sguardo è quella dolorosa dell’«esule esiliato nell’esilio», che già strappò a Dante Alighieri versi immortali. Hajdari è in esilio come «traditore e nemico della patria» (la nativa Albania) per aver denunciato crimini e abusi della dittatura di Enver Hoxha. Hajdari ha accettato il prezzo della libertà, la solitudine terribile del lupo senza collare, la povertà, la fame, l’esilio. Solo così ha potuto «coniare la moneta del proprio Verbo» ed essere Poeta. Creativo perché libero, e libero perché creativo.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

Fiero, irriducibile, allergico al potere e ai suoi mille compromessi, estraneo alle gerarchie letterarie “ufficiali”, Hajdari affida anzitutto al valore della pagina la rivendicazione del suo mandato poetico e la traccia della sua presenza di poeta-profeta e guerriero. E lo è anche nel raccontare «la ferita mortale dell’uomo svuotato dalla dittatura del denaro», gli infiniti tradimenti perpetrati dagli uomini all’Uomo, e al pianeta – l’unico che abbiamo – cui appartiene anche chi stoltamente ne provoca la distruzione. Il mondo è da sempre dominato da dinamiche di invidia cattiveria egoismo violenza prevaricazione malversazione ingiustizia ignoranza maleducazione… la jungla umana è più sottilmente feroce di quella animale. L’Amore è un autentico miracolo. Scrive Cesare Pavese: «Tu sarai amato quando potrai mostrare la tua debolezza senza che l’altro ne approfitti per affermare la propria forza». La poesia, infatti, è una Cassandra dal canto inascoltato: il mondo va, decisamente, da un’altra parte.

Scrive Hajdari:

Le nenie delle donne
non riescono ad asciugare il sangue degli uomini
versato lungo il confine nemico.

Eppure crede ancora nel «potere della poesia»; come in Congo, dove recitano i versi del poeta senegalese Senghòr – vate e ideologo della “négritude” – «al posto delle preghiere quotidiane». La poesia autentica propone allo sguardo una visione cosmica. Come quando, dall’aereo in volo, i confini geopolitici convenzionali, coi vari recinti di filo spinato, scompaiono magicamente: lo spazio vitale è tutt’uno, il mondo è uno, l’Uomo è lo stesso ovunque – oltre le infinite diversità – è il cielo è l’unica bandiera.

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

La scrittura, in Delta del tuo fiume, articola una poesia “in fuga” che nasce dalla condizione di esilio permanente del poeta: e sgorga non a caso da Roma, che Hajdari definisce «patria degli esuli», «città in fuga verso la leggenda e l’oblio del destino». Delta del tuo fiume è uno straordinario viaggio poetico, che parte dalla Roma eterna («nata dall’esilio» di Enea) e a Roma infine riconduce, la Roma storica di oggi (città degli scandali, da «scomunicare», secondo Hajdari, come capitale d’Italia: città delle banalità letterarie «osannate e glorificate dalla mafia politica e culturale» che determina la Curia dei “poeti ufficiali” in un gioco di corruzione, scambi di favori e ruberie – come nella vecchia gestione del Centro “Montale”, denunciata da Hajdari e Luigi Manzi nel 2003). Un viaggio da Roma a Roma: e nel frattempo si percorre il mondo. La poesia come Viaggio nel continente-Uomo: discorso che si produce “in movimento”, dall’incrocio paradigmatico dell’asse spaziale con quello temporale. Il poeta, attraverso lo spazio, raggiunge una dimensione storica pancrona, diventa contemporaneo di ogni epoca, dialoga con uomini che non potrebbe mai incontrare di persona. Ad esempio, va a trovare Rabindranàth Tagore in India; oppure giunge al Cairo e sprofonda nel tempo, per ricevere il benvenuto, al porto di Alessandria d’Egitto, da Alì Pascià – che visse tra il 1700 e il 1800 – per poi finire «nel letto di Cesare, tra balsami e incensi» dove lo guida «l’infedele Cleopatra»; oppure è ospite in Cina del poeta Li Po (che morì nel 762 d. C.) con cui si intrattiene a bere vino e a recitare versi.

La “condicio sine qua non” del Viaggio è la rottura con le menzogne della “civiltà” occidentale, i suoi «falsi altari impietriti», come già Rimbaud, Gauguin, Dino Campana et alii. «Vado via Europa, vecchia puttana viziata», scrive Hajdari. «I tuoi ruderi non mi incantano più». E quindi, «domani, di buon’ora / partirò con la prima nave del Tirreno, / dal porto del Circeo (…) / verso la Croce del Sud / senza voltarmi indietro». «Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini / e delle bandiere insanguinate». Che è un modo anche per negare in blocco il “Sonderweg” dell’Europa, cioè il suo cammino speciale nella storia del mondo, apportatore di grandi conquiste civili e insieme di orrori indicibili; e inoltre un modo per chiamare la lingua a bruciare, a rinnovarsi dalle proprie ceneri, trasformando lo sguardo e il rapporto stesso con le cose: «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne».

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Andar via dall’Europa significa anzitutto uscire dai vincoli della Forma: aprirsi all’incontro libero e diretto con la Vita, la carne calda, le labbra tumide, i seni dorati, le sabbie lunari dei deserti, i cieli stellati, i venti oceanici, il sale dei mari del Sud, gli spiriti delle cose, l’ombra delle parole, i richiami antichi, le lingue tribali sconosciute, i tuareg, i griot, gli sciamani. Emerge naturalmente la potenza ancestrale della Donna-femmina-terra-pube-origine, delta del fiume cosmico. Hajdari scrive, sul corpo della donna, versi erotici di accesa sensualità e di infinite risonanze universali:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
giunta dall’oblio dell’arco del tempo.
(…) I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango (…).
Nei tuoi occhi verdeazzurro ho ascoltato il canto delle balene,
il richiamo dei felini in agonia,
e ho visto tramontare l’occhio inverdito del giorno (…).
I tuoi occhi tinti d’Africa, come l’oceano Indiano all’alba;
i tuoi seni pieni all’insù, come due colline nere e solitarie (…)
il tuo pube in fiamme, tra le cosce alte da gazzella,
come una conchiglia dorata.

E la splendida poesia “Custode della mia uva”, dove la donna stessa gli parla, invitandolo a celebrare insieme la vita:

mordi i miei capezzoli come mordevi i chicchi rossi
(…) bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie
(…). Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,
(…) quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
(…) quando tu muori in me, io rinasco in te.

Gezim Hajdari_1Ed ecco l’Africa, «Madre nostra», «donna stuprata» dai colonizzatori bianchi: «nei tuoi occhi di bambina grida il Verbo della grande solitudine, / si rinnova la stirpe umana». Ecco l’incontro spazio-temporale con la Tanzania, il Congo, il Niger, il Golfo Persico, il Marocco, il Sahara, il Mali, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. I cronotopi si aprono “in fieri”, nel divenire avventuroso del viaggio, svelando l’anima dei luoghi. Un viaggio che discende nelle profondità ancestrali, e ovviamente non esclude gli incroci storici con l’Africa insanguinata dalle guerre, dove uomini con gli occhi sbarrati dal terrore «fuggono lungo il confine / insieme alle bestie impazzite». L’Africa ha stregato il poeta, lo ha messo in crisi, lo ha cambiato per sempre.

Tu, Africa, hai Scomunicato il mio Verbo.
Dal giorno che attraversai le curve negre dei tuoi giorni,
non sono più io.

L’Africa è «infinita nudità» che toglie le sovrastrutture, brucia le maschere, fa cadere tutti gli artifici. È la terra dove perdersi per ritrovarsi, dove dimenticare tutto per ricordare:

non ho più memoria (…)
ho perso il mio nome.

A forza del tuo amore, sono diventato Africa.

E ancora: «Ho affidato alla sabbia la mia memoria». La sabbia del deserto: quanto di più mutevole e impermanente!

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Non solo l’Africa, ma anche l’est asiatico: la Cina, il Vietnam, le Filippine. Manila e il fetore insopportabile della “smokey mountain” del quartiere Tondo – montagna di immondizie di cui si cibano migliaia di miserabili, tra cui opera il missionario Giovanni Gentilin. Andare lontano, sempre più lontano: «mai così lontano dalla patria e dai miei sassi cannibali». Sentirsi sperduto nel mondo. Sdraiato sull’erba, bere la luce degli astri. Parlare con gli altri senza conoscere una parola delle rispettive lingue: intendersi su un piano umano universale. Arrivare all’essenza. Eppure, malgrado i tentativi di dimenticarsi e confondersi nel mondo, non riesce a mitigare la profonda insoddisfazione:

Quando finirà questo esilio?
Albania sono ancora vivo (…)
Tace la tua ombra assassina (…)
La mia ombra non trova pace,
erra impazzita tra le dune della fuga.

Sullo sfondo di ogni luogo si sovrappone l’immagine straziante dell’Albania, patria e infanzia lacerata, che nelle vene del poeta ha seminato «solo panico e terrore», perché è un Paese – scrive Hajdari – che «nutre per uccidere», è terra matrigna che divora i propri figli. Anche nel «sonno nero» dell’Africa, sente la voce di sua madre:

“Gezim, copriti bene,
il freddo dei Balcani punge”.

Egli non può dimenticare la sua terra, nel bene e nel male. E la ritrova nei luoghi più impensati: a Calcutta, per esempio, incontra Madre Teresa, che è di origine albanese. L’Albania dialoga anche con l’origine mitica di Roma: Enea fa tappa a Butrint (luogo antico dell’Albania) prima di giungere sulle sponde del Tevere. Sono proprio gli albanesi ad accompagnarlo in Italia con le loro navi. Segnato per sempre dal regime di Enver Hoxha, Hajdari cerca ad ogni latitudine le radici eterne dell’odio e del terrore, che la Storia usa per limitare o estinguere la libertà dell’uomo, mortificando la bellezza delle sue energie creative. La Storia è piena di despoti che hanno riempito il mondo di crimini e sventolato governi-fantoccio a servizio dei poteri imperialistici. Il processo di “civilizzazione”, con le sue menzogne, ha santificato cose vergognose (come le guerre) e ricoperto di vergogna cose sacre (come il sesso).

Ma la poesia è dalla parte della vita, delle sue ragioni, delle sue verità. La poesia non si lascia ingannare, anzi: lotta perché l’uomo non venga più ingannato, perché apra gli occhi, si liberi di tutte le catene e sia finalmente felice. La poesia di Gëzim Hajdari è profondamente etica nella sua stessa vocazione ontologica, che la rende centrata sull’“essere parola” di ogni cosa, e dunque potenzialmente atta ad incarnare un’opzione di coscienza condivisa, a livello di trasformazione profonda, di cammino collettivo degli individui (ciascuno con il suo percorso). Il canto di Hajdari nasce dalla natura, come il vino dai raspi della vigna, e raccoglie tutta la cultura che conosciamo (cioè il senso di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere, al di là di tutti gli impedimenti) per riconsegnarla infine alla natura, su un piano evolutivo superiore. Una poesia di cui c’è assoluta urgenza storica: proprio in quanto nuovamente, eternamente ancora umana, piena di luce cosciente e lontanissima dal grigiore di tante sterili lallazioni contemporanee.

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”. Ha fondato, insieme a Giorgio Linguaglossa, il blog lombradelleparole.wordpress.com

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POESIE SCELTE di Jules Laforgue (1860-1887) “La prima notte”, “Domeniche”, “Chiaro di luna”, La sigaretta”, “Per il libro d’amore” “Lamento dell’organista di Notre-Dame di Nizza” traduzione di Luciana Frezza

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the

Jules Laforgue nasce il 16 agosto 1860 a Montevi­deo, da una famiglia di origine bretone. All’età di circa sei anni fa ritorno con i suoi in Francia e si stabilisce a Tarbes, nei Pirenei, città natale del padre, dove compie i suoi studi liceali. Nel 1876 si sposta con la famiglia a Parigi, prima in rue des Moines, poi al n. 5 di rue Berthelot. Ma ben presto i suoi tornano a Tarbes, tranne la sorella, che però non tarderà anch’essa a lasciarlo. Frattanto è diventato segretario del critico e storico del­l’arte Charles Ephrussi (poi direttore della Gazette des Beaux-Arts). Nasce il suo amore per l’arte figurativa, per la pittura impressionista, per le stampe e le acqueforti, e il suo gusto del lugubre: ama i pittori di danze macabre; lui stesso, versato nel disegno, infiora i suoi manoscritti di figure di scheletri, spesso abbigliati in toga o in frac. Sempre in questo periodo di vita parigi­na stringe amicizia con Sandah Mahali (Madame Mültzer), con Charles Henry, con Paul Bourget, con Gustave Kahn (e ai due ultimi dedicherà le Complaintes e l’Imi­tation de Notre-Dame la Lune). Per interessamento di Charles Ephrussi è nominato lettore privato dell’impe­ratrice tedesca Augusta (1881). Nello stesso anno gli muore il padre (la madre gli era mancata nel 1877); con la sorella Maria si trova ad essere l’unico sostegno di una numerosa famiglia. In Germania rimarrà, a Berli­no, a Coblenza, a Baden, dal dicembre del 1881 fino al settembre del 1886, con frequenti ritorni in Francia e a Parigi. La lettura alla vecchia imperatrice gli occupa poco tempo; dispone quindi di molte ore da dedicare alla sua « vie de dilettante », al suo lavoro di poeta, ai suoi scritti filosofici e critici, all’annotazione di impres­sioni, osservazioni e pensieri, alle sue acqueforti. Ha inoltre frequenti occasioni di muoversi, di viaggiare, accompagnando la sovrana in tutti i suoi trasferimen­ti. In Germania legge Hartmann, Hegel, Spinoza, e s’i­nizia alla musica. Dopo le molte passioni platoniche del periodo francese, ama per un anno una misteriosa R., probabilmente una dama di corte dell’imperatrice. Nel gennaio 1886 conosce a Berlino Miss Leah Lee, giovane insegnante d’inglese, donna gracile e come lui debole di polmoni. Lasciato nel settembre 1886 il suo posto di lettore, la sposa a Londra nel gennaio 1887 e si stabiliscono a Parigi. Accasciato dalle ristrettezze eco­nomiche e dalla poca salute muore in questa città il 20 agosto 1887 nella più assoluta miseria. La giovane moglie non tarderà a seguirlo, dopo meno di un anno.

Jules Laforgue

Jules Laforgue

OpereLes complaintes (1885); Imitation de Notre-Dame la Lune (1886); Le Concile féerique (1886). Postumi apparvero le Moralités légendaires (sei racconti filosofici in prosa, 1887) e i Derniers vers (1890). Le Sanglot de la Terre, 29 liriche scritte fra il 1878 e il 1883, fu pubblicato nell’edizione delle Poésies complètes (1903); Œuvres Complètes (1924-25).

Luciana Frezza da: « Poesie, di Jules Laforgue ». Prefazione, traduzione, note e bibliografia a cura di Luciana Frezza, Lerici, Milano 1965

La première nuit

Voici venir le soir doux au vieillard lubrique.
Mon chat Mürr, accroupi comme un sphinx héraldique,
Contemple inquiet de sa prunelle fantastique
Monter à l’horizon la lune chlorotique.

C’est l’heure où l’enfant prie, où Paris-Lupanar
Jette sur le pavé de chaque boulevard
Les filles aux seins froids qui sous le gaz blafard
Vaguent flairant de l’œil un mâle de hasard.

Moi, près de mon chat Mürr, je rêve à ma fenêtre.
Je songe aux enfants qui partout viennent de naître,
Je songe à tous les morts enterrés d’aujourd’hui.

Et je me figure être au fond du cimetière
Et me mets à la place en entrant dans leur bière
De ceux qui vont passer là leur première nuit.

La prima notte

Ecco scende la sera, dolce al vecchio lascivo.
Murr il mio gatto siede come araldica sfinge
contempla, inquieto, con la sua pupilla fantastica
viaggiare all’orizzonte la luna clorotica.

E’ l’ora nella quale l’infante prega, dove Parigi-fogna
getta sul pavimento dei viali
le sue falene dai seni freddi che, sotto la luce spettrale
del gas, l’occhio che fiuta un maschio casuale.

Ma, presso il mio gatto Murr, sogno alla finestra.
Penso a bambini che ovunque, in questo istante, sono nati.
Penso a tutti i morti sotterrati oggi.

E mi figuro d’essere in fondo al cimitero,
e entrando nelle bare, mi metto al posto
di quelli che qui passeranno la loro prima notte.

(Da Singhiozzi della terra)

Patrick Caulfield (1936-2005) pop art inglese anni Sessanta

Patrick Caulfield (1936-2005) pop art inglese anni Sessanta

Dimanches

Hamlet : Have you a daughtcr?
Polonius : I have, my lord.
Hamlet : Let her not walk in the sun :
conception is a blessing; but not as your
daughter may conceive.

Le ciel pleut sans but, sans que rien l’émeuve,
Il pleut, il pleut, bergère! sur le fleuve…

Le fleuve a son repos dominical;
Pas un chaland, en amont, en aval.

Les Vêpres carillonnent sur la ville,
Les berges sont désertes, sans idylles.

Passe un pensionnat (ô pauvres chairs!)
Plusieurs ont déjà leurs manchons d’hiver

Une qui n’a ni manchon, ni fourrures
Fait, tout en gris, une pauvre figure.

Et la voilà qui s’échappe des rangs,
Et court! Ô mon Dieu, qu’est-ce qu’il lui prend

Et elle va se jeter dans le fleuve.
Pas un batelier, pas un chien Terr’Neuve.

Le crépuscule vient; le petit port
Allume ses feux. (Ah! connu, l’décor!)

La pluie continue à mouiller le fleuve,
Le ciel pleut sans but, sans que rien l’émeuve.

Domeniche

Amleto : Avete una figlia?
Polonio : Sì, mio signore.
Amleto : E allora state attento che non
passeggi al sole : concepire è una bene-
dizione, ma non certo nel modo in cui
potrebbe concepire vostra figlia.

Piove senza uno scopo, un nulla che commuova il cielo,
Piove, pastora, piove sopra il fiume…

Il fiume ha il suo domenical riposo.
Non una chiatta, né a monte né a valle.

Sulla città lo scampanio dei Vespri,
Le rive son deserte, senza idilli.

Passano le educande (o che povere carni!)
Con l’invernale manicotto alcune.

Una senza pelliccia o manicotto
Fa, tutta in grigio, misera figura.

Ed ecco scappa fuori dalle righe
E corre! Santiddio, che mai le ha preso?

Va a buttarsi nel fiume.
Ci fosse un barcaiolo, un terranova.

Il crepuscolo giunge; il porticciuolo
Accende le sue luci. (Scenario conosciuto!).

Sempre continua a piovere sul fiume,
Piove senza uno scopo, un nulla che commuova il cielo.

Clair de lune

Penser qu’on vivra jamais dans cet astre,
Parfois me flanque un coup dans l’épigastre.

Ah! tout pour toi, Lune, quand tu t’avances
Aux soirs d’août par les féeries du silence!

Et quand tu roules, démâtée, au large
A travers les brisants noirs des nuages!

Oh! monter, perdu, m’étancher à même
Ta vasque de béatifiants baptêmes!

Astre atteint de cécité, fatal phare
Des vols migrateurs des plaintifs Icares!

Oeil stérile comme le suicide,
Nous sommes le congrès des las, préside;

Crâne glacé, raille les calvities
De nos incurables bureaucraties;

O pilule des léthargies finales,
Infuse-toi dans nos durs encéphales!

O Diane à la chlamyde très-dorique,
L’Amour cuve, prend ton carquois et pique

Ah ! d’un trait inoculant l’être aptère,
Les coeurs de bonne volonté sur terre!

Astre lavé par d’inouïs déluges,
Qu’un de tes chastes rayons fébrifuges,

Ce soir, pour inonder mes draps, dévie,
Que je m’y lave les mains de la vie!

Patrick Caulfield (1936-2005)

Patrick Caulfield (1936-2005)

Chiaro di luna

Pensare che mai nessuno vivrà su quell’astro
talvolta mi sferra un colpo all’epigastro.

Ah, tutto per te, Luna, quando avanzi
nelle sere d’agosto attraverso le fantasmagorie del silenzio!

E quando disalberata fili al largo
per i neri frangenti delle nubi!

Oh! salire, e perdutamente dissetarmi
alla fonte dei tuoi beatifici battesimi!

Astro accecato, faro fatale
dei voli migratori degl’Icari gementi!

Occhio sterile come il suicidio,
noi siamo il congresso degli stanchi, e tu presiedi!

Cranio lustro, schernisci la calvizie
delle nostre incurabili burocrazie;

o pillola delle finali letargie,
trasfonditi nei nostri duri encefali!

O Diana dalla doricissima clamide,
l’amore fermenta, prendi la tua faretra e sulla terra

pungi i cuori di buona volontà
con un dardo che inoculi l’essere aptero!

Astro lavato da inauditi diluvi,
qualche tuo casto raggio febbrifugo

si svii, stasera, per inondare le mie coltri,
in lui mi laverò le mani dalla vita!

La cigarette

Qui, ce monde est bien plat: quant à l’autre, somettes.
Moi, je vais résigné, sans espoir à mon sort,
et pour tuer le temps, en attendant la mort,
Je funte au nez des dieux de fines cigarettes.

Allez, vivants, luttez, pauvres futurs squelettes.
Moi, le méandre bleu qui vers le ciel se tord
me plonge en une extase infinie et m’ endort
comme aux parfums mourants de mille cassolettes.

Et j’entre au paradis, fleuri de reves clairs
où l’on voit semeler en valses fantastiques
des éléphants en rut à des chreurs de moustiques.

Et puis, quand je m’éveille en songeant à mes vers,
je contemple, le creur plein d’une douce joie,
mon cher pouce roti comme une cuisse d’oie.

da Le sanglot de la terre

.
La sigaretta

Sì, questo mondo è piatto, e quanto all’altro, frottole.
Senza speranza vado mansueto alla mia sorte;
per ammazzare il tempo, aspettando la morte,
fumo in faccia agli dei sottili sigarette.

Su, viventi, affannatevi, o scheletri futuri.
Me, l’azzurro meandro che verso il cielo si torce
mi sprofonda in un’estasi infinita e m’addorme
come ai morenti aromi di mille bruciatori.

Ed entro nel fiorito eden dai sogni chiari,
dove elefanti in fregola si intrecciano alla fioca
danza delle zanzare, in fantasiosi valzer.

E quando poi pensando ai miei versi mi scuoto,
contemplo, il cuore pieno di dolce gioia, il caro
mio pollice arrostito come un cosciotto d’oca.

Patrick Caulfield (1936-2005) english pop artist anni Sessanta

Patrick Caulfield (1936-2005) english pop artist anni Sessanta

Pour le livre d’amour

Je puis mourir demain et je n’ai pas aimé.
Mes lèvres n’ont jamais touché lèvres de femme,
Nulle ne m’a donné dans un regard son âme,
Nulle ne m’a tenu contre son cœur pâmé.

Je n’ai fait que souffrir, pour toute la nature,
Pour les êtres, le vent, les fleurs, le firmament,
Souffrir par tous mes nerfs, minutieusement
Souffrir de n’avoir pas d’âme encore assez pure.

J’ai craché sur l’amour et j’ai tué la chair!
Fou d’orgueil, je me suis roidi contre la vie!
Et seul sur cette Terre à l’Instinct asservie
Je défiais l’Instinct avec un rire amer.

Partout, dans les salons, au théâtre, à l’église,
Devant ces hommes froids, les plus grands, les plus fins,
Et ces femmes aux yeux doux, jaloux ou hautains
Dont on redoraient chastement l’âme exquise,

Je songeais: tous en sont venus là! J’entendais
Les râles de l’immonde accouplement des brutes!
Tant de fanges pour un accès de trois minutes!
Hommes, soyez corrects ! ô femmes, minaudez!

.
Per il libro d’amore

Posso morir domani e non ho amato.
Le labbra mie non hanno mai toccato labbra di donna,
Nessuna m’ha donato l’anima in uno sguardo,
E nessuna m’ha stretto sul suo cuore estasiato.

Non faccio che soffrire, per tutta la natura,
Gli esseri, il vento, i fiori, il firmamento,
Soffrir con tutti i nervi, pienamente
Soffrir per non aver l’anima ancora a sufficienza pura.

Sputato ho sull’amore ed ucciso la carne!
Mi son folle d’orgoglio irrigidito contro la vita!
E solo sulla Terra all’istinto asservita
Io sfidavo l’istinto con un amaro riso.

Nei salotti, a teatro, in chiesa, ovunque
Innanzi a uomini freddi, raffinati, importanti,
Ed a donne dagli occhi dolci, gelosi o alteri
A cui rindoreremmo castamente
L’anima lor squisita.

Pensavo: tutti lì sono giunti! Udivo
Gli ansiti dell’immonda congiunzione dei bruti!
Quanto fango per uno sfogo di tre minuti!
Maschi, siate corretti! Donne, datevi alle moine.

.
Complainte de l’organiste de Notre-Dame de Nice

Voici que les corbeaux hivernaux
Ont psalmodié parmi nos cloches,
Les averses d’automne sont proches,
Adieu les bosquets des casinos.

Hier, elle était encor plus blême,
Et son corps frissonnait tout transi,
Cette église est glaciale aussi!
Ah! nul ici-bas que moi ne l’aime.

Moi! Je m’entaillerai bien le cœur,
Pour un sourire si triste d’elle!
Et je lui en resterai fidèle
À jamais, dans ce monde vainqueur.

Le jour qu’elle quittera ce monde,
Je vais jouer un Miserere
Si cosmiquement désespéré
Qu’il faudra bien que Dieu me réponde!

Non, je resterai seul, ici-bas,
Tout à la chère morte phtisique,
Berçant mon cœur trop hypertrophique
Aux éternelles fugues de Bach.

Et tous les ans, à l’anniversaire,
Pour nous, sans qu’on se doute de rien,
Je déchainerai ce Requiem
Que j’ai fait pour la mort de la Terre!

Patrick Caulfield  (1936-2005)

Patrick Caulfield (1936-2005)

Lamento dell’organista di Notre-Dame di Nizza

Ecco, i corvi invernali
Han salmodiato in mezzo alle campane,
I rovesci d’autunno son vicini,
Addio piccoli boschi dei casini.

Ieri era ancor più livida,
Rabbrividiva tutta intirizzita,
Ed è gelida pure questa chiesa!
Ah tranne me quaggiù nessuno l’ama!

Io, io mi ferirei senz’altro il cuore
Per un dei suoi sorrisi così tristi!
E per sempre le resterò fedele
In questo mondo che ci spadroneggia.

II giorno in cui la terra lascerà
Mi metterò a suonare un Miserere
Così cosmicamente disperato
Che Dio dovrà rispondermi per forza!

Purtroppo resterò solo quaggiù,
Dedito a quella cara morta tisica,
Cullando il cuore mio troppo ipertrofico
Con le fughe di Bach imperiture.

E tutti gli anni, nel suo anniversario,
Per noi due, senza che nessun lo immagina,
Scatenerò il mio Requiem
Composto per la morte della Terra

Luciana Frezza è nata a Roma nel 1926 dove muore nel 1998. Oltre alla attività di traduttrice dei poeti simbolisti francesi ha scritto le seguenti opere di poesia:

Cefalù ed altre poesie (Sciascia 1958),
La farfalla e la rosa (Feltrinelli 1962),
Cara Milano (Neri Pozza 1967),
Tempo di speranza (Neri Pozza 1971),
La tartaruga magica (Florida 1984),
Ventiquattro pezzi facili (Cominiana 1988),
Parabola sub (Empiria 1990).
Agenda, per All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller 1994 (postuma).ISBN/ISMN:88-444-1259-4
Comunione col Fuoco. Tutte le poesie, Editori Internazionali Riuniti 2013 (postuma). ISBN 9788835993346

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Flavio Almerighi SEI POESIE INEDITE SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Appunto critico impolitico di Giorgio Linguaglossa

pappagallo del Costa Rica

pappagallo del Costa Rica

L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’utopia (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

 Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (Aletti, 2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da varie riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti). Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016).

Toshiko Hirata  Bicchiere

Toshiko Hirata Bicchiere

Appunto critico impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il principio di esposizione paratattica regna sovrano nella poesia di Flavio Almerighi. I frammenti aforistici indicano che è imminente un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce di un linguaggio ridotto a lacerti pseudo aforistici, si tratta di paralipomena, di frammenti conflittuali che non chiedono più di essere pacificati e composti. Forse, nel principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è la poesia di Almerighi, si può rintracciare una sorta di scorporazione da un testo originario che è stato rimosso. Di qui le sue tipiche domande: «Amore, / cosa faremo dopo l’amore?». È chiaro che per Flavio Almerighi si può poetare soltanto con un linguaggio sobrio e sgombro di petali o di smottamenti del cuore; si può poetare intorno al «non-luogo», cosa non diversa che poetare intorno ai «luoghi», entrambi dissestati e s-postati altrove, secondo il disegno razionale (e irrazionale) che l’economia globale assegna loro. I «luoghi» quindi sono per Almerighi traslocabili ed «affabili», come gli «oggetti», «disciplinati» alquanto che «chiedono educatamente scusa» in quanto «protagonisti» del nostro tempo «d’erotica scolastica». La sopraffina ironia di Almerighi chiama le cose con il loro nome: «mi piacciono le donne quadrate…»,  comprime gli oggetti e le parole che parlano degli oggetti, perché sa che soltanto tenendole/i insieme mediante un collante si può sperare che esse/essi durino almeno il tempo della loro fruizione da parte degli utenti; anche l’«utopia perduta» è uno di questi «oggetti» e, come tale, dotato di valore e messo sul mercato dei non-luoghi sfitti. Nella asciutta poesia di Almerighi puoi notare in filigrana l’economia delle parole non educate e non amministrate che il poeta lascia filtrare con ironica disinvoltura occupato nelle sue faccende intorno agli «oggetti» (ovvero, l’ottimo luogo «utopia imbottita d’erotica scolastica»), tra scoppi di risa compressi e l’ironico motteggiare del cicaleccio di un quotidiano ormai denaturato, insignificante (il nessun luogo).

Davvero, non potremmo definire optima questa poesia di Almerighi, essendosi perduta la chiave ermeneutica per aprirci quei mondi optimi che un tempo lontano definiva il luogo della poesia. È la poesia stessa a reclamare il proprio posto «nel vano degli oggetti», un posto davvero scomodo, e de-territorializzato.

Pappagallo Costa Rica

Pappagallo Costa Rica

d’erotica scolastica

riparliamo del vano degli oggetti,
utopia imbottita d’erotica scolastica
indubbiamente affascinate, studenti affabili
disciplinati e in linea
chiedono educatamente scusa,
prima linea primo vagito
poi futuro inarcato da protagonisti
sui colori rampicanti di sbalordite primavere
canzoni del cuore a rima con torpore,
se stessa vissuta più volte
lasciata crescere, annaffiata a sottintesi
come foglia a distico, perfetta
scordata nel vano degli oggetti

.
alla stazione di Viergne

alla stazione di Viergne
ho ritrovato l’utopia perduta,
reperto interrato schiacciato
crivellato di passi
un marzo, nero fino alla cintola,
mi manchi – dico
anche tu – risponde,

ho lasciato decantare
l’inatteso piacere,
quando un cane, sette vite tutte morte
mi ha morsicato più forte,
ha morso dove una lettrice disattenta
muove di getto su una poltrona rossa
mostrando attraverso le ginocchia,

dura un tempo l’armonia.
l’antisemita muore di sete
e una zanzara sculetta
dentro un destino
facilmente spiegabile,
il fuciliere prende la mira
senza mancare un colpo

Toshiko Hirata Bicchiere

Toshiko Hirata Bicchiere

Quattordici poemi

mi piacciono le donne quadrate
fanno bambini vestiti,
all’occorrenza sono bionde
ma si lasciano sposare al naturale,
tirano fino a notte fonda
e fanno il bagno spesso,

nonostante quattordici poemi
in teoria mai consegnati
e belli come capelli lisci,
stanotte ne ho sognata una
e come odisseo sono uscito presto,
anzi non sono rientrato

¬tempi minimi nonostante tutto
per prendersi il servizio buono,
quell’altrove è sempre qui
torneremo a casa, lei ed io

.
Nessuna tonalità epica

Un uomo e la sveglia del mattino
che tarda, la suoneria scordata,
l’uomo chiede per quale principio
la giornata sia già fredda, già patita

prende altri cinque minuti,
rivede gli amori della vita,
ne bastano solo due, muove le gambe,
ha freddo non ha più sonno.

La giornata scende a dodici ore,
nessuna tonalità greca
nelle lenzuola sfatte del ritorno
stesso mare mai spostato.

Non c’è sconto
dopo l’inverno altro autunno,
inoccupato dal mestiere di vivere
osserva il cuore – guscio di noce
riparare nel mallo.

Pappagallo Costa Rica

Pappagallo Costa Rica

La settima arte

Amore,
cosa faremo dopo l’amore?

Affretteremo l’eloquio, il piacere
autentico. Finto che sia.
Ci fermeremo
come su celluloide la settima arte
per rivederci più avanti a cose fatte?

Gli anni impiccati oscillano,
il tempo misurato a pendolo e baci
corre prima, scompare ladro
e la tristezza un laccio esile lega,
avvince di lacrime fino a riderne.

Del mio riso scorgo la vergogna
abbracciata alla pienezza breve,
su tutto un bisbigliare di farfalle,
e dentro qualcosa lasciato aperto.
Sbatte.

Amore,
cosa faremo dopo l’amore?

.
Nove Maggio 1978

Facevo la Quinta quand’è morto Impastato,
maggio e già era rigido inverno,
stavo abbracciato a un grembo di rose
finendo per pungermi e sanguinare

di tutte le lettere scritte per niente,
sono la più lunga, messo in bottiglia
affidato al mare dal guscio di ceralacca,
arrivo oggi che sono spaccato e vecchio

e voglio per me un po’ d’infinito.

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Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Post-meridionalismo Il 16 aprile, a Roma la presentazione della Antologia “Il rumore delle parole.  Poeti del Sud” (EdiLet, 2015) interventi di Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa

Antologia Il rumore delle parole (2)La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa.

Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone. Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili. Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica». Il critico ha proseguito accennando alla attuale «stagnazione del panorama editoriale»  per via delle cointeressenze che attraversano il mondo dell’editoria le cui coordinate editoriali sono dettate dagli Uffici stampa. Cesare Pavese o Vittorio Sereni si muovevano in un diverso assetto editoriale e culturale, non avrebbero mai accettato una situazione come quella odierna. I criteri di selezione dell’Antologia sono stati altri, si sono individuati gli autori in base a  criteri meramente estetici.
Sia Letizia Leone che Giorgio Linguaglossa hanno poi inquadrato la poesia del Sud, come anche quella del Nord nell’ambito della crisi dell’ontologia che è avvenuta nel tardo Novecento.

Altra categoria entrata in crisi, a detta dei presentatori, è la categoria del «nuovo». La poesia è piuttosto da considerarsi come un evento (Ereignis) che capita nel tempo e nello spazio e che si situa nell’intersezione tra due coordinate, che abita un preciso punto dello spazio, del tempo e della storia; una volta avvenuto, l’evento cambia la dimensione, si aprono nuove e inedite prospettive. I critici si sono soffermati su un punto in particolare che contraddistingue la poesia del nostro tempo: gli autori dell’Antologia non si pongono più come seguaci di una ideologia, di un canone, di un modo di scrittura ma aderiscono ad una visione centrifuga e periferica assieme, assumono punti di vista assai distanti gli uni dagli altri e stili di scrittura assai differenti.
Altro elemento invariante rilevato dai critici è  che nessuno degli Autori presenti nella Antologia può esser considerato un epigono del minimalismo italiano così come si è configurato negli ultimi decenni del Novecento. In tale accezione gli stilemi del minimalismo sono stati assunti e fusi insieme ad esperienze stilistiche e culturali le più diverse. Sia Linguaglossa che Letizia Leone hanno sottolineato gli sforzi degli Autori di procedere verso un diverso modo di convocare le cose e gli oggetti in poesia, insomma, di chiamare le cose col proprio nome anche se in poesia non è poi così scontato che i risultati estetici seguano meccanicisticamente alle premesse, il nodo centrale è che le parole vanno messe dentro una qualche tradizione linguistica e stilistica, hanno vita soltanto in una tradizione ma laddove questa manca o accusa un periodo di «latenza», anche la poesia che si tenterà di fare accuserà il colpo; ma se la poesia diventa consapevole di questo nesso storico-estetico, allora la poesia del Sud potrà assumere in tale orizzonte culturale un ruolo significativo e propulsivo.

Letizia Leone ha infine definito interessante e valido il discorso sul rapporto poesia filosofia riportato nell’introduzione al volume in questione, ed ha accennato alla connessione interna tra i due poli. In tal senso Linguaglossa, ha detto la Leone, conferma la sua vocazione militante, una sorta di rabdomante alla ricerca delle falde poetiche (del Sud).
La Leone ha poi accennato alla lucidità ermeneutica e di diagnosi indispensabile per mettersi sulle tracce di quel sentiero della Linea meridionale di poesia individuata negli anni Cinquanta da Contini, Quasimodo, Gatto… da una terra appenninica da cui si va in esilio, una terra di emigrati e sradicati, da Scotellaro a Calogero.
Quasimodo auspicava una Carta poetica del sud nel 1953, cosa interessante per testare la distanza da una situazione odierna che vede autori meridionali del Novecento come Bufalino Sciascia Ortese Serao spesso dimenticati dai programmi scolastici, con danni inestimabili verso un ingente patrimonio spirituale e artistico del nostro paese.
L’articolazione  geodetica e geopoetica,  sia la latitudine che la longitudine, “colloca” il linguaggio poetico (Brodskij) nell’ambito della storia e contribuisce a cambiare la Lingua e il linguaggio poetico.
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo.

Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica.
Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito  parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che  Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica. Così, la figura del poeta è ragguagliabile a quella di un esiliato, il poeta è un de-territorializzato, de-istituisce più che istituire qualcosa, s-fonda più che fondare quella cosa che chiamiamo la Lingua poetica; gli Autori accomunati nell’Antologia sembrano voler quantomeno invertire questa tendenza, vogliono recuperare l’esercizio del pensiero, sentono di abitare un senso della storia dove la parola poetica è dolore della mancanza della parola; a tal proposito la Leone ricorda Quasimodo il quale ricordava che la nascita di un poeta è sempre un atto di disordine.
Al termine della presentazione critica è seguito il reading degli Autori presenti in sala: Gino Rago, Daniele Santoro, Silvana Palazzo,  Marisa Papa Ruggiero, Michele Arcangelo Firinu, Marco Onofrio, Raffaello Utzeri, Giulia Perroni.

A.F.

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile Gino Rago

Fuis 16 aprile Gino Rago

fuis 16 aprile  Giulia Perroni

fuis 16 aprile Giulia Perroni

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POESIE SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO o DELL’IDENTITA’ (ovvero, il poeta allo specchio) – Poesie di Kikuo Takano (1927-1998) “Lo specchio”, “In me” – Poesie di Bertolt Brecht (1898-1956) “Scacciato per buone ragioni”, “A coloro che verranno”

hopkins Autoritratto

john hopkins Autoritratto

 (È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

 È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della attuale produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano

 Kikuo Takano nato a Sado nel 1927 muore nel 1998, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo.

In me

In me c’è qualcosa di rotto.
Sono come l’orologio che si ferma
poco dopo averlo caricato,
come il piatto incrinato che non torna
nuovo se anche
lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.
Sono come il tubetto di dentifricio
quando nulla ne esce
se anche lo premi,
come la pallina da ping-pong ammaccata
che non può tenere più in gioco
nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati
dal principio, senza motivo, in me:
l’ombrello che non sta aperto, il violino
fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,
il rubinetto intasato, il flauto
sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo d’animo,
l’ira non mi trascina, né mi tormento
come una volta, anzi mi auguro
di potermi riempire
di quelle cose inutili,
restando distrutto e schiacciato,
in questo trovando il mio orgoglio.

Lo specchio

Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini!
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è, al tempo stesso, l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.

(da L’infiammata assenza Edizioni del Leone, 2005 cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Berthold Brecht (che poi semplificò il suo nome in Bertolt) nacque ad Augusta, in Baviera, nel 1898 da una famiglia discretamente agiata, della borghesia industriale.
Nel 1917 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Monaco, ma poi passò a quella di medicina perché era più facile, per uno studente di quel corso, evitare il servizio militare. Proprio in quegli anni pubblicò poesie e opere teatrali. Nel 1922 riscosse un discreto successo con Tamburi nella notte e nello stesso anno si sposò con l’attrice Marianne Zoff. Nel 1924 si trasferì a Berlino e nel ’27, fallito il primo matrimonio, si sposò con un’altra attrice, Helen Weigel, da cui ebbe due figli. A Berlino si affermò come drammaturgo e fece amicizia e collaborò con molti musicisti del tempi come Kurt Weil e Paul Hindemith.
All’avvento del nazismo al potere, nel 1933, Brecht con la famiglia dalla Germania in volontario esilio: andò in Danimarca e vi rimase fino al 1939, manifestando idee comuniste, anche se non si iscrisse mai al partito. Alla vigilia della seconda guerra mondiale dalla Danimarca passò in Svezia e di qui in Finlandia e in Russia per approdare, infine, negli Stati Uniti d’America dove si stabilì in California, a Santa Monica, fino al 1946 vivendo quasi totalmente isolato. Sospettato di attività antiamericane, nel 1948 rientrò in Europa e si stabilì a Berlino Est dove, malgrado il suo professato comunismo, fu guardato con sospetto per le sue posizioni polemiche e per il suo individualismo. Tuttavia le sue opere erano rappresentate ovunque e proprio a Berlino egli organizzò la compagnia teatrale Deutsches Ensemble (1949) che divenne ampiamente famosa in tutta Europa. Brecht morì a Berlino nell’agosto 1956 per infarto cardiaco.

La Raccolta Steffin di Brecht comprende poesie composte fra il 1937 e il 1940).

 

Bertolt Brecht

 Scacciato per buone ragioni

Io son cresciuto figlio
di benestanti. I miei genitori mi hanno
messo un colletto ed educato
nelle abitudini di chi è servito
e istruito nell’arte di dare ordini. Però
quando fui adulto e mi guardai intorno
non mi piacque la gente della mia classe,
né dare ordini né esser servito.
E io lasciai la mia classe e feci lega
con la gente del basso ceto.

Così hanno allevato un traditore, istruito
nelle loro arti; e costui
li tradisce al nemico.

Sì, dico in giro i loro segreti. In mezzo al popolo
sto e spiego
come ingannano, quelli, e predico quel che verrà, perché io
sono introdotto nei loro piani.
Il latino dei loro preti venali
lo traduco parola per parola in lingua volgare, dove
si rivela un imbroglio. La bilancia della loro giustizia
la tiro giù e mostro
i falsi pesi. E le loro spie riferiscono
che siedo con i depredati quando
tramano la rivolta.

Essi m’han diffidato e m’hanno tolto
quel che col mio lavoro ho guadagnato. E quando non mi sono emendato
mi hanno dato la caccia; ma
ormai in casa mia
soltanto scritti c’erano, che svelavano
le loro trame contro il popolo. Così
m’han perseguito con un mandato di cattura
che mi imputa una mentalità degradata, cioè
la mentalità dei degradati.

Dove giungo, sono uno marcato a fuoco
per tutti i possidenti; ma i nullatenenti
leggono il mandato di cattura e
mi concedono un rifugio. Quelli, io sento
dire allora, per scacciarti avevano
buone ragioni.

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno ... (B. Brecht)

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno … (B. Brecht)

A coloro che verranno

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha ancora ricevuta.

Quali tempi sono questi quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’angoscia?

È vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto.)

“Mangia e bevi, – Mi dicono: – E sii contento di averne”
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.

Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tema trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!

II

Nelle città venni al tempo del disordine
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all’amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m’era stato dato.

III

Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa la voce roca. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.

(1939)
(da Poesie di Svendborg (1939) Traduzione di Franco Fortini, Einaudi, 1976)

 

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Roman Jakobson da “Poetica e poesia” sulla poesia di Velemir Chlebnikov e Vladimir Majakovskij con due poesie “A tutta voce” e “Il violino e un po’ nervosamente” tradotte da Paolo Statuti

cernichov-fantasie-architettoniche

cernichov-fantasie-architettoniche

[Roman Jakobson da “Poetica e poesia” trad. it. Einaudi, 1985, pp. 3-7]

[…] Supponiamo che ci sia data un’immagine reale, una testa, e la metafora ad essa riferita sia una botte di birra. Allora, il parallelismo negativo sarà: «non è una botte di birra, ma una testa». Il parallelismo reso logico sarà il paragone: «la testa è come una botte di birra». Il parallelismo inverso sarà: «non una testa, ma una botte di birra». E infine, lo svolgimento nel tempo del parallelismo inverso sarà la metamorfosi: «la testa è diventata una botte di birra» («la testa non è più una testa, ma una botte di birra»).

Nel Diavoletto di Chlebnikov, assistiamo, in qualche modo, al processo stesso di attuazione della costruzione verbale:
L’uomo seduto (col boccale in mano):

«Offro volentieri da bere
ai miei signori ospiti.
I bordi del bicchiere schiumante
sono larghi e inondati, –
non vorreste, sfingi, un pezzetto di pesce?
La birra si innalza fino all’Ariete e al Cancro, –
però non vi piacerebbe, sfingi, un gambero?
La birra non costa più di cinque copechi,
si slancia fino alla via Lattea.
Nel mio bicchiere c’è schiuma stellare,
scorgere nel vasto cielo un vassoio con birra e antipasti
è un’usanza neo-russa».

Il bicchiere di birra assume le dimensioni dell’universo.
Lo stesso procedimento di attuazione del parallelismo inverso, come costruzione dell’intreccio, si trova nelle Memorie di un pazzo di Gogol’ e anche nel racconto di Sologub In prigione.
Un esempio di attuazione del parallelismo negativo diretto:

Egli guardò nel terem* di Marinka,
c’è là un colombo insieme a una colomba,
e se ne stanno a tubare naso a naso
e ad ali aperti si abbracciano.
E s’infiammò a Dobrynja il cuore palpitante,
e tese Dobrynja il suo robusto arco,
e mise Dobrynjuska una freccia rovente
e tirò al colombo e alla colomba,
ma finì da Marinka nell’alto terem,
proprio sullo stipite della finestrella.
E le ruppe il pettinino di vetro,
e le spezzò il fermaglietto d’argento,
e uccise a Marinka il caro amico,
e anche il giovane Tugarin Zmeevic.

[*Parte superiore delle case dei boiari, o casa in forma di torre]

Velemir Chlebnikov

Velemir Chlebnikov

Qui è attuata una formula di questo tipo: un colombo e una colomba fanno l’amore, Dobrynja tira una freccia al colombo e alla colomba: ma non sono due colombi che fanno l’amore, egli non ha tirato al colombo e alla colomba, bensì a Marinka nell’alto terem, e le ha ucciso l’amato.

Un esempio di attuazione del paragone si trova nella commedia di Chlebnikov L’errore della morte. La signora morte dice che ha la testa vuota come un bicchiere. L’ospite chiede un bicchiere. La morte si svita la testa.

Un esempio di attuazione di entrambi i membri del parallelismo, non in successione temporale ma in ordine di coesistenza: «Con viso rasato, smunto, e i lunghi capelli passa correndo lo scienziato e grida, strappandosi i capelli: “Orrore! Ho preso un pezzetto del tessuto di una pianta, della pianta più comune, e d’un tratto sotto il mio occhio armato esso, mutando con malizia i suoi tratti, è diventato il vicolo Volynskij, con la gente che va e viene, le finestre delle tende semiabbassate, qualcuno che legge e altri che semplicemente, stanchi, siedono vicini, e io non so dove andare, – nel pezzetto di pianta sotto la lente d’ingrandimento, o nel vicolo Volynskij, dove io abito. Così non sono sempre lo stesso, là e qui, sotto la lente d’ingrandimento, nel pezzetto di pianta e nel cortile di sera”» (Il diavoletto).

Vladimir Majakovskij e Lilja Brik nel 1915

Vladimir Majakovskij e Lilja Brik nel 1915

Attuazione della metafora:

A un uomo grosso e sporco
regalarono due baci.
L’uomo era goffo,
non sapeva
che farsene,
dove ficcarli.
la città,
tutta in festa,
intonava alleluja nelle cattedrali,
la gente usciva per sfoggiare abiti.
Ma nella casa dell’uomo faceva freddo,
e nelle suole c’erano dei buchi, piccoli, ovali.
Egli scelse un bacio,
quello più grosso,
e se lo infilò come una caloscia.
Ma il freddo mordeva,
lo addentò per le dita,
«E va bene,
– si adirò l’uomo, –
li getterò via questi inutili baci!.
li gettò.
E d’un tratto
spuntarono al bacio le orecchie,
prese a girare su di sé,
e gridò con una voce sottile:
«Mammina!»
L’uomo si spaventò.
Avvolse nei brandelli dell’anima il corpo tremante,
se lo portò a casa,
per metterlo in una cornice azzurra.
Frugò a lungo nella polvere, nelle valigie
(cercava la cornice).
Si volse a guardare:
il bacio giaceva disteso sul divano,
enorme,
grasso
Ecco, cresciuto,
ride,
s’infuria.

(Majakovskij)

Majakovskij lilia Brik jalta-1926

Majakovskij lilia Brik jalta-1926

Un procedimento analogo venne impiegato a scopo umoristico nel Satiricon: come i bambini capiscono il linguaggio degli adulti. Lo stesso motivo si ritrova nel romanzo di Belyj Kotik Letaev. Cfr. anche l’attuazione della metafora nella pittura illustrativa, ad es. nella miniatura bizantina.

Attuazione dell’iperbole:

Io volavo, come una bestemmia.
L’altro piede
mi insegue ancora per la strada vicina.
(Majakovskij)

majakovskij illustrazione

cernichov-fantasie-architettoniche

L’ossimoro attuato rivela chiaramente la sua natura verbale poiché, secondo la definizione della filosofia contemporanea, se ha significato, esso non ha oggetto (come ad esempio «il cerchio quadrato»). Tale è il «Naso» gogoliano, che Kovalev considera un naso, mentre quest’ultimo scuote le spalle, è vestito in uniforme, ecc.

[…] L’abolizione del limite fra significati reali e metaforici è un fenomeno tipico del linguaggio poetico. Spesso la poesia opera con immagini reali come se fossero figure verbali (procedimento inverso di attuazione): tali sono, ad esempio, i calembours.

[…] Sulla trasformazione di immagini reali in tropi sulla loro metaforizzazione, è basato il simbolismo come scuola poetica.

Nella scienza della pittura sta apparendo una rappresentazione dello spazio come convenzione pittorica, del tempo ideografico. Ma alla scienza è ancora estraneo il problema del tempo e dello spazio come forme del linguaggio poetico. La violenza del linguaggio sullo spazio letterario è soprattutto evidente nel caso della descrizione, quando le parti che coesistono nello spazio si dispongono in successione temporale. Sulla base di ciò, Lessing persino rifiuta la poesia descrittiva…

[…] Per quanto riguarda il tempo letterario, un vasto campo di ricerca è rappresentato dall’artificio dello spostamento temporale… «Byron ha cominciato a raccontare dalla metà dell’avvenimento o dalla fine». Oppure cfr. per esempio La morte di Ivan Il’ic, dove lo scioglimento è dato prima del racconto… In Chlebnikov osserviamo l’attuazione dello spostamento temporale, per di più scoperto, cioè non motivato…

majakovskij

majakovskij

Poesia di Vladimir Majakovskij tradotta da Paolo Statuti

 
A tutta voce
(Во весь голос)

(Prima introduzione al poema)
Egregi

compagni posteri!
Scavando
nello sterco impietrito
del presente,
studiando le tenebre odierne,
voi,
forse,
chiederete anche di me.
E, forse, dirà
il vostro erudito,
con la mente
piena di questioni,
che viveva da qualche parte un tale
cantore dell’acqua bollita
e nemico acerrimo dell’acqua corrente.
Professore,
togliti gli occhiali-bicicletta!
Io stesso racconterò
del tempo
e di me dirò.
Io, fognaiolo
e portacqua,
dalla rivoluzione
richiamato,
io per il fronte ho lasciato
i signorili giardini
della poesia –
capricciosa megera.
Che giardino guarda e ammira,
figlia,
la casa,
pulisci
e stira –
io da sola l’ho piantato,
solo io l’annaffierò.
Chi versa strofe dai catini,
chi spruzza
dalla bocca –
leziosi Mitrejki,
saccenti Kudrejki –
come raccapezzarsi!
Per la melma non c’è quarantena –
mandolinano tutto il giorno:
«Tara-tena, tara-tena,
ten-n-n…»
Non è un grande onore,
se tra le rose
alzano i miei busti
nei giardinetti,
dove scatarra la tubercolosi,
dove un teppista abbraccia una puttana
e la sifilide impera.
Anch’io
della propaganda
ho le tasche piene,
anch’io
potrei scrivere
romanze su di voi, –
è più redditizio
e più allettante.
Ma io
me stesso
ho domato,
e con il piede pesante
ho schiacciato la gola
della mia canzone.
Ascoltate,
compagni posteri,
l’agitatore,
lo strillone-caporione.
Soffocando
i torrenti della poesia,
io avanzerò
tra volumi di liriche,
da vivo
ai vivi parlando.
Verrò da voi
in un futuro comunista,
non come
il melodioso bardo eseniano.
La mia poesia giungerà
attraverso i crinali dei secoli
e attraverso le teste
dei governi e dei poeti.
La mia poesia giungerà alla meta,
ma essa vi giungerà,
non come una freccia
lanciata da Cupido a sorte,
non come arriva
a un numismatico una consunta moneta
e non come arriva la luce delle stelle morte.
La mia poesia
con la fatica
sfonderà la mole degli anni
e apparirà
ponderosa,
rude,
visibile,
come ancora oggi
è visibile l’acquedotto,
eretto
dagli schiavi di Roma.
Nei tumuli di libri,
di versi seppelliti,
ritrovando per caso la ferraglia delle strofe,
voi
con rispetto
prendetela in mano,
come vecchia
arma fatale.
Io
l’orecchio
con la parola
non sono avvezzo a carezzare;
il delicato orecchio di ragazza
nei riccioli
dal doppio senso sfiorato
non arrossirà.
Dopo aver disteso in parata
le mie pagine-plotoni,
io passerò
il fronte delle strofe.
I versi stanno
pesanti come piombo,
pronti anche alla morte
e alla gloria immortale.
I poemi sono morti,
canna contro canna
dei titoli puntati
e squarciati.
L’arma
del genere
preferito,
è pronta
a lanciarsi con un grido,
s’è irrigidita
la cavalleria delle facezie,
avendo alzate delle rime
le lance acuminate.
E tutte
le truppe fino ai denti armate,
che venti anni nelle vittorie
hanno passato,
fino all’ultima
pagina
io affido a te,
proletario del pianeta.
Il nemico
della classe operaia –
è anche il mio nemico,
giurato e di vecchia data.
Ci hanno chiesto
di andare
con la bandiera rossa
anni di lavoro
e giorni di fame.
Noi aprivamo
di Marx
ogni volume,
come in casa
propria
apriamo le persiane,
ma anche senza lettura
noi sapevamo
da che parte andare,
contro chi lottare.
A noi
la dialettica
non l’ha insegnata Hegel.
Essa al suono delle lotte
nei versi è penetrata,
quando
sotto le pallottole
i borghesi fuggivano da noi,
come noi
un tempo
fuggivamo da loro.
Che
dietro ai geni
come vedova sconsolata
si trascini la gloria
in una funebre marcia –
muori, o mio verso,
muori, come semplice soldato,
come ignoti
all’attacco sono morti i nostri!
Io sputo sopra
il bronzo dei monumenti
io sputo sopra
il viscido marmo.
Grondiamo di gloria –
noi tutti noi, –
che il nostro
monumento comune
sia il socialismo
eretto
nelle lotte.
O posteri,
controllate i galleggianti dei dizionari:
dal Lete
emergeranno
i resti di parole
come «prostituzione»,
«tubercolosi»,
«blocco».
Per voi
che
siete sani e destri,
il poeta
leccava
gli sputi dei tisici
con la ruvida lingua del manifesto.
Con la coda degli anni
io divento la somiglianza
di mostri
fossili con la coda.
Compagna vita,
su,
presto bruciamo,
bruciamo
in cinque anni
il resto dei giorni.
A me
neanche un rublo
hanno portato i versi,
di ebano
non è arrivato un mobile in casa.
E tranne
una camicia fresca di bucato,
dirò sinceramente,
a me non serve niente.
Entrato
Nella Commissione di Controllo
dei luminosi
anni che verranno,
io sulla banda
di poeti
scrocconi e furfanti
solleverò
come tessera bolscevica,
i miei
libri di partito –
tutti quanti.

(1929-1930)

Lilia Brik

Lilia Brik

Il violino e un po’ nervosamente
Il violino coi nervi tesi, supplicando,
a un tratto scoppiò in pianto
così infantilmente,
che il tamburo non resse:
“Bene, bene, bene!”
E lui stesso si stancò,
non finì di ascoltare il violino,
sgattaiolò in fretta
e se ne andò.
L’orchestra estraneamente guardava
il violino che si sfogava nel pianto
senza parole
senza tempo,
e solo chissà dove
uno stupido piatto
strepitava:
“Cos’è?”
“Com’è?”
E quando il flicorno –
cornoramato,
sudato,
gridò:
“Scemo,
piagnone,
asciugati!” –
io mi alzai,
barcollando, mi arrampicai tra le note,
tra i leggii curvi per lo spavento,
chissà perché gridai:
“Mio Dio!”,
mi buttai al collo di legno:
“Sai una cosa, violino?
Noi ci somigliamo tremendamente:
ecco anch’io
urlo –
ma non so dimostrare nulla!”
I musicisti ridono:
“S’è invischiato e come!
E’ venuto dalla fidanzata di legno!
Che testa!”
Ma io – me ne frego!
Io – sono un bel tipo.
“Sai una cosa, violino?
Dai –
Vivremo insieme!
Sì?”

(1923)

Paolo Statuti è nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989).
Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia.
Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi.
A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska.
Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.

Traduzioni pubblicate di Paolo Statuti dal polacco in italiano:

Baterowicz, Marek “Canti del pianeta” Roma, Ed. Empirìa, 2010
Brzechwa, Jan “Una giornata tutta da ridere con il prof. Kleks” (Akademia
Pana Kleksa) Roma, Città Nuova, 1992
Brzechwa, Jan “Avventure di viaggio con il prof. Kleks” (Akademia pana
Kleksa), Roma, Città Nuova, 1996
Broniewski, Wladyslaw “La Comune di Parigi” Roma, Ragionamenti n.180-181
gennaio-febbraio 1989
Dobraczynski, Jan “L’invincibile armata” Casale Monferrato, Piemme, 1994
(ristampa Milano, Gribaudi, 2011)
Dobraczynski, Jan “La spada santa” (Storia di s. Paolo) Milano, Gribaudi, 2002
Dobraczynski, Jan “Il fuoco arde nel mio cuore” (santa Teresa d’Avila)
Milano, Gribaudi, 2004
Dobraczynski , Jan “Ho visto il Maestro!” (Maria Maddalena) Milano,
Gribaudi, 2005
Dobraczynski, Jan “Il cavaliere dell’Immacolata” (s. Massimiliano Kolbe)
Milano, Gribaudi, 2007
Ficowski, Jerzy “Poesie” Stilb n.7 gennaio-febbraio 1982
Ficowski, Jerzy „Il rametto dell’albero del sole” Roma, Edizioni e/o, 1985
Galczynski, K. Ildefons “Visioni di san Ildefonso ovvero Satira sull’universo”
Roma, La Fiera letteraria n.3 2 gennaio 1973
Grzesczak, Marian “Poesie” Roma, Tempo presente n. 9-10 giugno-
Agosto 1981
Małgorzata, Hillar 20 poesie, Edizioni CFR, ottobre 2013
Iwaszkiewicz, Jaroslaw “Poesie” Roma, La Fiera letteraria n. 27 7 luglio 1974
Urszula, Kozioł 20 poesie, Edizioni CFR, marzo 2014
Lesmian, Boleslaw “Poesie” Roma, La Fiera letteraria n.20 20 maggio 1973
Ewa, Lipska 20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014
Milosz, Czeslaw “Poesie” Roma, Tempo presente n.6 dicembre 1980
Mrozek, Slawomir “Un caso fortunato” Sipario: rassegna mensile dello
Spettacolo n. 315-316 agosto-settembre 1972 (tradotto
in collaborazione con Zbigniew Chotchowski)
Norwid, Cyprian k. “Il pianoforte di Chopin” Roma, Ragionamenti, n.183
aprile 1989
Pomianowski, Jerzy “Guida alla moderna letteratura polacca, con annessa
antologia di poeti polacchi contemporanei” Roma, Bulzoni
1973 (traduzione di 62 poesie di poeti diversi)
Poświatowska, Halina “50 poesie scelte”, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, 2014
Statuti, Paolo “Viaggio sulla cima della notte: racconti polacchi dal 1945 a
oggi” Roma, Editori Riuniti, 1988 (questo lavoro è stato molto
apprezzato da Herling-Grudzinski. Nell’antologia sono presenti
55 autori con un totale di 55 racconti)
Stryjkowski, Julian “Austeria” Roma, edizioni e/o 1984 (tradotto in
collaborazione con Aleksandra Kurczab)
Wojtyszko, Maciej “Bromba e gli altri e la saga dei Claptuni” Effelle di Marino
Fabbri Roma 1986

Przygotowane do druku: K.I. Gałczyński 20 poesie, Edizioni Joker
A. Kamieńska 50 poesie, Edizioni Joker
A. Świrszczyńska 41 posie, Edizioni Joker

Dużo wierszy umieściłem w moim blogu musashop.wordpress.com

Traduzioni pubblicate di Paolo Statuti dal Russo in Italiano:

Blok, Aleksandr: “I dodici”, La Fiera Letteraria, 13.6.1971, N. 18
Poesia, sett. 2014, N. 296
Bagrickij, Eduard: “Il canto di Opanas”, La Fiera Letteraria, 28.5.1972, N. 22
Chlebnikov, Velemir: “La perquisizione notturna”, La Rassegna Sovietica, 1990
Poesia, aprile 2014, N. 292
Chodasevič, Vladimir: “Poesie”, Tempo Presente, giugno-luglio 1986
Cvetaeva, Marina: “Poesie”, Grafie Russe, Libro Aperto Ediz., maggio 2013
Inber, Vera: “Vas’ja il Fischio”, La Fiera Letteraria, 5.12.1971, N. 43
Majakovskij, Vladimir: “Poesie”, Grafie Russe, Libro Aperto Ediz., maggio 2013
Mandel’stam, Osip: “Poesie”, Grafie Russe, Libro Aperto Ediz., maggio 2013
“30 poesie”, Edizioni CFR, 2014
Pasternak, Boris: “30 poesie”, Edizioni CFR, 2014
Puškin, Aleksandr: “32 poesie”, Edizioni CFR, 2014

Traduzioni pubblicate di Paolo Statuti dal Ceco in Italiano:

Havliček-Borovsky, Karel: “Elegie Tirolesi”, La Fiera Letteraria, 19.11.1972, N.47
Wolker, Jiři: “Poesie”, La Fiera Letteraria, 27.1.1974, N. 4

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Archiviato in critica della poesia, poesia russa del Novecento

POESIE SCELTE di Fabio Dainotti da “Selected Poems” Gradiva 2015 “Il canzoniere desublimato” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

bello fermo immagineFabio Dainotti è presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato per anni direttore e poi presidente. Condirige l’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Ha curato la pubblicazione presso Bulzoni de Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco (2010). Ha commentato canti del Paradiso e tenuto conferenze dantesche. Ha pubblicato di poesia: L’araldo nello specchio, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni, 1996; La Ringhiera, Book, Bologna 1998; Un mondo gnomo, Stampa Alternativa,Viterbo,2001; Ragazza Carla Cassiera a Milano, Signum, Bollate, 2001; Ora comprendo,  Edizioni Scettro del Re,  Roma, 2004; Selected poems, Gradiva, New York, 2015. Ha partecipato e partecipa alla vita culturale cittadina, prima come membro del Comitato culturale, poi come membro del Comitato per le onorificenze. Ha collaborato e collabora a quotidiani e riviste di carattere culturale, come “Poiesis”, “Misure critiche” e altre. È presente in numerose antologie. I testi presentati sono tratti da Selected poems Gradiva, 2015 N.Y.

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Giorgio Linguaglossa Il canzoniere desublimato

La poesia di Fabio Dainotti è stata felicemente definita da Francesco D’Episcopo «diario quotidiano e sussultorio dell’esserci» (prefazione a L’araldo nello specchio – Poesie 1964-74) edito nel 1996 da Avagliano editore, una sorta di ironica, autoironica e desublimata epopea del quotidiano, ed insieme diario lirico della passione amorosa, canzoniere di una materia non più cantabile ma soltanto orientabile: il rapporto amoroso o lo stato di innamoramento, con tutto ciò che ne consegue in termini di prevalenza del dispositivo ottico e le visioni  in plein air, come dall’alto di un elicottero, rispetto al dispositivo fonetico e fonematico, dove la raffinata lectio dei classici del Novecento risulta perfettamente digerita. Soluzioni penniane si giustappongono su lacerti di ascendenza foscoliana, il tutto immerso in un liquido di contrasto tipicamente post-moderno: un modernismo metaironico che avvolge il dettato come una linda camicia inamidata e stirata. In questa operazione non è più significativa l’assonanza, la rima o il significante, quanto ciò che spegne la tradizionale orchestrazione sonora, ciò che decolora e sbiadisce i vistosi panni novecenteschi. Leggiamo la seconda poesia della raccolta citata, dove il sabiano andante largo si stempera in uno sviluppo poematico di stampo neocrepuscolare:

Il tuo passo spedito non ha eguali
se incedi su scarpine collegiali
 
ondeggia la tua gonna pieghettata
autunnale nel sole la vetrata
 alta dell’edificio mi richiude
ma io le palme a voi tendo deluse
 
non vedi me che ti vedo parlare
all’amica a te unita nell’andare.

Già allora Fabio Dainotti mette a punto la tecnica del contrappunto e del controcanto, che poi utilizzerà in tutta la sua successiva produzione, che è una tipica operazione estetica post-moderna:

Non dovrei attardarmi sotto il cielo
del parco che circonda la tua villa
e non dovrei fumare un’altra sigaretta
fermo nell’umida ombra della notte
col mio inconfondibile trench bianco
neppure dovrei credermi Humphrey Bogart
solo perché son cupo e silenzioso
e parlo poco e vado dritto al sodo
e la lobbia calcata ho bene in testa
con la testa abbassata avanti agli occhi.

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

Come recita il titolo, L’araldo nello specchio, vuole anche alludere alla condizione narcisistica che contraddistingue le relazioni umane, il carattere riflesso, la sostanza riflessa che contraddistinguono la riproduzione estetica, quasi che la serenità dell’autocoscienza dell’operazione estetica comporti un distacco necessitato e premeditato, donde la predisposizione melanconica e autoironica dell’io poetico. Con il senno di poi, diremmo che sarà questa la cifra stilistica significativa di tutta la produzione successiva di Fabio Dainotti, erede tardo novecentesco della dissociazione lirica che il Novecento ha lasciato in eredità agli ultimi giunti.

“Minuscoli pharmaka, per esorcizzare l’ansia, per compensare perdite e furti del Tempo, a funzionamento ironico, giocoso”, scrive Vincenzo Guarracino nella prefazione  alla plaquette Un mondo gnomo (Milano, Stampa alternativa, 1994). Ma non ci si lasci ingannare dalla apparente leggerezza dei testi, o dalla grazia quasi penniana, Dainotti è un autore che non adopera mai le rime baciate se non quando esse sono veramente indispensabili, citate, mimate per ricordare che esse un tempo fecero pur parte della tradizione alta:

Positiva, chiara
come un mattino di marzo, Sara;
azzurra e amara.
 
Se Sali sull’ascensore,
se poi scendi, amore,
se avvii il motore,
 

col tuo arioso foulard di seta in testa
coi tuoi veloci knicher bocher
saresti una figurina irreale

 se non fosse l’inferno
di quella trafittura
amara, sotto lo sterno.

Nella successiva plaquette pubblicata nel 2001, Ragazza Carla cassiera a Milano trent’anni dopo, ritorna il metodo del controcanto, questa volta ad un autore novecentesco come Pagliarani. È scomparso ogni intento neoverista, ogni impegno populistico, che pur tenevano alta la dimensione dell’impegno dell’opera di Pagliarani, sono scomparsi gli interni piccolo borghesi, è caduta l’illusione di un possibile anche se improbabile riscatto; ciò che resta è soltanto un edonismo post-consumistico dove la delusione del personaggio Carla sta per tramutarsi in depressione:

Anche Milano si sveglia a quest’ora
La Milano com’era (o com’è ora?
La cassiera sbadiglia
frammenti di piacere nell’ora silenziosa
Rotta da primo fragoroso tram;
il corpo consumato
nella notte d’amore ancora duole.
Calze rossetto un’altra fregatura
Pensa: che vada tutto alla malora.

Sono venute a mutare le condizioni sociali e politiche del fare poesia e, paradossalmente, lo stesso oggetto: la ragazza Carla, nonché le condizioni dello stile. Siamo in pieno post-moderno, sembra dirci Dainotti, e questo, oggi, è l’unico modo di fare poesia. La poesia di Ora comprendo (Roma, Scettro del Re 2004) costituisce un raro esempio di come si possa fare un elegante minuscolo canzoniere alla maniera antica, alla maniera di Catullo, Orazio, Mimnermo.

Nell’età che è trascorsa dal ciclostile degli anni Sessanta al computer portatile dell’era internettiana, nel mentre che sono perente, in caduta libera, tutti gli avanguardismi e le parole innamorate, tutti i manierati eufuismi delle poetiche posticce, Fabio Dainotti ci consegna ventuno composizioni con un linguaggio trasparente e leggero, sul filo di rasoio del tratto di penna agile ed algido. Una donna che si assottiglia, si allontana e scompare sul limite interno della cornice del quadro. Ogni composizione è come un fotogramma, sottratto al tempo, deprivato di essenza. Ciò che rimane è un profumo, un alone, un’aura desublimata come solo è possibile nell’età della leggerezza dell’essere. E che la leggerezza sia una tremenda croce che si abbatte sugli abitanti del nostro tempo epigonico, opino non c’è dubbio alcuno, se appena gettiamo lo sguardo su queste poesie così accuratamente trattate da apparire denaturate.

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

Che un poeta contemporaneo guardi ai modelli di duemila e più anni non deve in alcun modo meravigliare, perché sono venute a cadere le ipotesi di scritture modernistiche o post-modernistiche, per il loro non essere più all’altezza dei tempi, se per modernismo si intende una poetica che alligni, come un alligatore, sulla superficie della pellicola del Novecento. E non v’è cupezza in questo canzoniere, non v’è magrezza, c’è la scioltezza e l’agilità di un’età che ha perso essenza, e così la passione è occasionale, gli incontri, imbarazzanti mistificazioni o divertite dissimulazioni. Non c’è più il volo di un Hermes in grado di gettare un ponte tra gli umani e l’oggetto amato confinato nella sua bidimensionale incomunicabilità. Gli amanti sono trattati come figurine di seta o trapezisti mossi da una mano invisibile, e i gesti stereotipati sono il frutto del sogno di un burattinaio misterioso che forse ha dimenticato che la vita ha la stessa stoffa del sogno e i burattini, a loro volta, sono il sogno di un orco denaturato e immaginario, e l’orco è l’invenzione di un dio assente, un deus absconditus nell’epoca che ha perduto tutti i suoi dèi.

E’ come se una maledizione avesse tolto la gravità da sotto al tavolo del mondo, così che gli oggetti e i burattini galleggiano sul mare dell’inessenza, sbattuti di qua e di là, senza tempo e senza spazio, in una dimensione sottile come la pellicola di un film. E il burattinaio è un orco che ha dimenticato la propria in essenza e le sue parole sono della stessa pasta delle parole del poeta: questa è la posta in palio, solo così questo canzoniere d’amore può vedere la luce in un mondo dove tutte le luci sono spente. Leggiamo la poesia intitolata “Piove” tratta dall’ultima raccolta:

M’affaccio alla finestra: piove, piove.
E lei chissà che cosa fa? Si muove
svelta in cucina col grembiule, o guida
il suo fuoristrada arancione
pieno di figli che accompagna a scuola
con l’inseparabile cagna sul sedile posteriore;
e poi rimane sola
a Battipaglia e traffica bellissima
col fruttaiolo le mele, si bagna
i capelli sottili, quella trama
preziosa la pelle del suo viso
che sembra la réclame del bagno schiuma
ma è un’antica bellezza levigata,
affinata dai secoli, dal tempo.

Leggiamo un’altra poesia significativa della scomparsa dell’oggetto, “Alma ausente”:

Celeste non ha occhi, veramente:
se guarda me, non vede quasi niente;
eppure l’amo tanto.
Celeste non ha mani, veramente:
infatti m’accarezza solamente
in sogno; piango intanto
da solo tristemente.
Celeste non ha cuore, veramente:
se le parlo d’amore non sente niente.
L’amo ciecamente.

La bellezza da bagnoschiuma o “Celeste” che non ha occhi e che non ha mani e non ha cuore, indicano che veramente il poeta moderno è rimasto senza oggetto; non c’è più una ragazza Carla piccolo borghese che cerca il riscatto e la risalita sociale. Dal punto di vista strettamente sociologico-estetico, l’oggetto ha perduto l’aura che lo rendeva interessante e quindi degno di considerazione in sede estetica. Ciò che rimane al poeta moderno è soltanto il metodo del controcanto: la finzione di accettare l’oggetto come se fosse un soggetto, la finzione di accettare l’esistente come se davvero fosse esistente.

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Une femme mariée di Jean-Luc Godard

Da L’araldo nello specchio, Avagliano Editore, 1996

Ulcus
Per Elvira

Ulcus vivescit ut ignis
Lucrezio

Al lume di candela,
copiose mi discendono,
ma silenziose, in cave gote lacrime,
perché arde la piaga come fuoco.
E impietrano, gocce
di cera. In secchi boschi, tramontato
il sole, i lupi azzannano la luna.

Da Sera, Edizioni Pulcinoelefante, 1997

Sera

In memoria di nonna Anna Maria
Fitti si richiamavano gli uccelli,
il sole impensieriva dietro gli alberi.
Il vento ti levava dalle braccia
la stanchezza di un giorno: era la sera.

Da La Ringhiera, Book Editore, 1998
1

Slanciata tu non sei, neppure bassa
(se muori adorerò la tua carcassa).

Lontana sei più piccola
della mia mano;
vicina
sei dettaglio di labbra, primo piano.
14

Quasi ogni giorno ti vedo passare
col nastro tra i capelli. Mi fa male
non fermarmi con te, con te parlare
a lungo sotto gli alberi del viale.

.
Da Ragazza Carla cassiera a Milano trenta anni dopo, Signum, 2001

.
Anche Milano si sveglia a quest’ora

Anche Milano si sveglia a quest’ora,
la Milano com’era (o com’è ora)?
La cassiera sbadiglia
frammenti di piacere nell’ora silenziosa,
rotta dal primo fragoroso tram;
il corpo consumato
nella notte d’amore ancora duole.
Calze, rossetto, un’altra fregatura.
Pensa: che vada tutto alla malora.

.
Da Un mondo gnomo, Stampa Alternativa, 2002
Alla stazione prossima

Cordoba
Lejana y sola
Lorca

È grassa e ingioiellata la cassiera
e certo m’inganna sul conto, ma devo
abbandonare tutto, ripartire,
un automa, un gnomo, nella neve .

Alla stazione prossima ventura,
destrieri porteranno la mia morte
– una giovane morte tra le rose;
una bevanda d’oro lenirà,
per un istante, la mia sete d’altro,
alla stazione prossima ventura.

Alla stazione delle Effe Esse
il treno è soltanto un locale.
Ma quando parte, quando arriva a Cordoba?
I volti: affilati gioielli
Luce, luce irreale !
Assomiglia a una casa di piacere.
La corona di spine, poi le rose
alla stazione prossima ventura.

.
Da La coscienza captiva in Maliardaria, di Fabio Dainotti di Carlo di Lieto, Simone Editore, 2006.

.

fumetto volto femminile

fumetto volto femminile

Corporale

Per Elvira

L’immenso edificio dei ricordi
Proust

Se sfiori i tasti bianchi e neri come
i tuoi pensieri rondini volate
oltre mare per sempre,
forse è per caso, forse in sogno, infatti
si muove la tua chioma al ralenti.

Ma suono non emette; chi ha tolto
le mie stampe dal muro, chi ha sciolto
a Cloe la cintura e poi fuggì?

Altro tempo. Altro inverno a Marienbad:
mi venivi incontro con le ciocche
ritmiche al tuo marciare musicale,
– frangersi della ghiaia sul vialetto
dei nostri incontri misteriosi, certo
sorvegliati da un occhio che si aprì;

e con i lembi aperti come rose
– ferite delle tue labbra amorose
di quell’amore breve.

Ma ci ripassi per Vicenza, tu?
La rivedi la Villa Malinconica,
sulle rive del Brenta ?

.
Da La coscienza captiva in Maliardaria, di Fabio Dainotti di Carlo di Lieto, Simone Editore, 2006.

.
Cane e padrone

a T. Mann

.
Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori la vita celebra
i suoi fasti in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne rammenterà.

.
Novecento

Chi l’avrebbe mai detto
che i tavolini dei Caffè all’aperto
sono muti e senz’ anima nei pomeriggi deserti,
quando anche la ghiaia celeste ha qualcosa da dire alle statue,
quando i passeri incerti salutano la morte dell’estate
e gli amori impossibili per le belle sconosciute
sono storie narrate a mezza voce
davanti a una pinta di birra in angiporti fumosi,
dove uomini col moncherino sputano al passaggio
degli hollow men che dicono sempre di sì a pescecani col sigaro
dalla cenere così incredibilmente appesa al filo del morire
-trame di seta, materia di sogni,
una tromba solista attacca a suonare
tre note solamente,
chissà dove.

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POESIE SCELTE di František  Halas (1901-1949),  IL BAROCCO AUTUNNALE DELLA POESIA CECA, Traduzione di Angelo Maria Ripellino e Presentazione critica di Antonio Sagredo

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Presentazione critica di Antonio Sagredo

  Addensatore di tortili metafore, talvolta putrefatte e purulente, che brillano come armille… e se vuoi mettile dove vuoi… e il poeta  le preferisce intorno ai polsi, così che mani e dita siano preservate dalla consunzione, o intorno alle caviglie, così che i malleoli siano pronti a spiccare la danza! Taluni  sul capo, così che il cerebro risulti vivificante per chi lo mira; o sul cuore, così che il battito mai non cessi di brillare e di risonare come un fatuo fuoco!

Le parole che formano poesie di “lagnanze” e di doglianze stanno lì come i quattro angeli attaccaticci (che in Holan sono “quadricefali”) intorno al capezzale rabescato d’ombre e di specchi viola, e sottostanno a questo martirio metaforico e  settecentesco pazienti, poi che credono – nonostante una continua e sconfortante disillusione – alla loro risurrezione che è la colpa degli angeli adulti: “le tue ali nere quando perdi le bianche con l’infanzia” ….e le parole allora fanno da sfondo teatrale così che “la funebrità si apprende anche ai paesaggi” (A. M. Ripellino)*. Questa dilatazione spazial-teatrale oltre la quinta cartonesca, non segna, ma graffia una  geografia anche secentesca, come negli arazzi di nero-oro granito di certo gongorismo, che noi sappiamo tinto da metafisici presagi oscuri.

[* Segnati con asterisco sono i  commenti critici di A. M. Ripellino,  in František  Halas, Imagena, Einaudi 1971].

Non è tutto qui il mondo di cui si nutrono le parole halasiane, poi che se dovessimo pensare a rigogliosi giardini primaverili, non abbiamo scampo alcuno! (vedi i titoli di due poesie più in avanti)… noi saremo allora circuiti da fiori cimiteriali che anelano alla luce, e non sappiamo se invano, poi che ancora una volta ricadiamo nei meravigliosi labirinti acherontei. Il nero, il buio è ossessione halasiana.

È davvero uno strazio per il lettore non respirare aria diversa e salubre pure c’è “il benefico ossigeno del buio” (un palliativo o uno scherzo del poeta?!), ma questi, il lettore, è così attratto dalle immagini di strabiliante barocco, che non gli danno requie, ma gli donano regalie visionarie di rarissima bellezza (“cisterna di gemiti” ; “la tenebra tende le orecchie” o ossimori rivoltati come un guanto  quando si tratta di “ travolgere con una parola la valanga” ; o quando “il buio scartoccia granturco” ; e ancora riflessioni mnemoniche  come lo stupendo “Sono memoria dell’acqua / gelo” e la condanna con cui ogni poeta deve fare i conti: il fardello eterno è che  “Porti il tuo lutto manoscritto non finito” .

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  Soltanto quando dice di bambini il volto del poeta si irradia come quello di Hölderlin… “ Solo sulla testa dei bambini cade il rispetto delle luci/nella gorgiera della propria innocenza dormono quieti…””,  “Sono andato dai bimbi ad imparare/molte cose del cielo ancora sanno…”.

Non gli è secondo Holan quando scrive “ Ci sono i bambini… in verità solo loro…/Purezza di cuore, evidenza del miracolo/negato a noi adulti…

La gioia quindi non  è del tutto esclusa dal mondo annerito di Halas: ha lampi di luce che sono rari, ma brillano per questo ancora di più: tu li vedi da lontano, proprio tu che sei immerso in questa catacomba terrestre dove regna il tenebrore!, ma  l’orrore o il terrifico non regnano fine a se stessi, soltanto le parole-immagini rimandano ad essi, sono le fonti che poi si fanno reali consistenze; infatti a scorrere i titoli delle raccolte o quelli delle poesie già t’accorgi che genere di passaporto possiedi per entrare in quel mondo malubre che dell’Acheronte ha tutti gli splendori e i cantucci più sinistri.

P.e. nella raccolta Sepie (Seppia, 1927) i titoli delle poesie sono chiari: Non voglio la primavera, Quiete, Presso una tomba, Il silenzio, L’ombra, e così via; e nella raccolta: Kohout plaší smrt (Il gallo spaventa la morte, 1930) la musica non cambia: De profundis, Paesaggio velenoso, Autunno in primavera; nelle raccolte Tvař  (Il volto, 1931); Hořec (Genziana, 1933); Dokořán (Spalancato, 1936), lo studioso annota “una tenerezza ferita, una sensitiva mestizia l’angoscia per la fuggevolezza del tempo e per lo sfiorire”*;  Certo è che non di dileguano i termini che hanno a che fare con le atmosfere cimiteriali, che sono appannaggio di un neo-barocco egemone e recidivo che vede coinvolti i maggiori poeti cechi, come Vladimir Holan e Vitězslav Nezval (specie col suo poema surrealistico Il becchino assoluto, da me tradotto tantissimi anni fa e lo stesso cantore di Praga Jaroslav Seifert, e tant’altri).

Halas “è il più barocco tra i lirici boemi”* di quel periodo… è poeta autunnale… e comprendete allora perché alla fine della sua vita Ripellino intitolò la sua raccolta Autunnale barocco; questi conobbe e frequentò il poeta, e così ce lo descrive:”  Lo ricordo negli ultimi mesi, quando ormai andava da stregoni e da semplicisti in cerca di guarigione: ricordo i suoi trasognati occhi cerulei. L’alta fronte con un organetto di rughe. Dopo il colpo di stato del febbraio del 1948, mentre lo stalinismo già volpeggiava negli arcani casamenti di Kafka, Halas deluso e spaurito del baratro in cui il comunismo veniva precipitando, ripeteva agli amici < Ho ingannato la gente >. Si spense il 27 ottobre 1949 a Praga ”.*

Quell’ “alta fronte con un organetto di rughe” veniva sempre messa in risalto dal disegnatore caricaturista Adolf Hoffmeister, quando ritraeva il poeta. Il poeta era nato a Brno nel 1901, da una famiglia operaia molto indigente. Lavorò come commesso in una libreria di Brno. Questo lavorò gli permise di conoscere alcuni poeti importanti, come Jiří Mahen, caposcuola dei poeti di Brno.

Halas occupa nella poesia ceca del secolo scorso un posto di primaria importanza, e per “il culto della parola” tra i primissimi in Europa. Per questo lo accosto a Mallarmè, Hugo Hofmansthal, Paul Valéry.

Quasi sicuramente la prima notizia in Italia che abbiamo di Halas si deve a Wolf Giusti che sulla Rivista di letterature slave pubblicò in italiano due poesie del poeta; la prima dal titolo Seppia (che da il titolo alla raccolta Sepie, 1927); e la seconda dal titolo Le paludi masuriane. – Nel 1942 invece Luigi Salvini traduce una poesia dal titolo Il Riconoscimento nell’antologia Il “Corallo” di San Venceslao.  Poi nel 1949 A. M. Ripellino sulla rivista Europa Nuova pubblica in italiano due poesie tratte dalla raccolta Il gallo spaventa la morte (1930), (per queste tre informazioni, di cui avevo perso memoria, ringrazio l’amico boemista Giuseppe Dierna)…..

František Halas con Vladimir Holan

František Halas con Vladimir Holan

…e finalmente nel 1950 viene da A. M. R. pubblicata a Roma una Storia della poesia ceca contemporanea, Le edizioni D’Argo, in 400 esemplari; possiedo gli esemplari nn. 310 e 311; all’interno di questo testo si trova “Halas e il culto della parola” che è il titolo del paragrafo alle pp. 58-65. Dedica questa sua opera  A Ela [sua consorte]  e agli amici del Gruppo 42, poi ringrazia critici, pittori, poeti… in tutto quindici autori (fra cui lo stesso Halas) e studiosi tra i più notevoli del panorama internazionale di allora; cito soltanto alcuni di rinomanza mondiale: Roman Jakobson, Vladimír Holan, František Hrubin, Jiří Kolař, Ludvík Kundera, Jaroslav Seifert, Karel Teige.

 Halas non disdegnò di far parte di movimenti artistici e correnti poetiche che animarono i primi anni del ‘900, a cominciare col Devětisil (è il nome di un fiore: il farfaraccio; che Majakovskij riferisce come “nove forze”, ma poi gli fu spiegato) e il Poetismo frequentato dai poeti, scrittori e artisti più importanti; alcuni di essi assursero a fama europea perché operarono con saggi e  traduzioni in lingua ceca dei maggiori poeti e artisti europei come Apollinaire e Cocteau, Breton, Max Ernst, ecc.; Karel Teige, p.e., il teorico del surrealismo ceco, fu uno dei primi a parlare di Majakovskij in  Europa!

Il Poetismo che inneggiava alla gioia della creazione e del progresso, “in realtà era d’una cupezza che sprofonda nella più nera disperazione”.*. Ne è testimonianza il poema Edison di V. Nezval.

Per chi voglia approfondire i rapporti tra i poeti-artisti-scrittori cechi e quelli del resto d’Europa rimando agli studi più recenti, esaurienti e puntigliosi, del boemista Giuseppe Dierna, oltre alla già citata Storia della poesia ceca contemporanea.

Halas, poi, a differenza di tanti altri poeti e artisti cechi non obbedì ai dettami dei poeti, p.e. in specie dei surrealisti francesi e da questi si distanziò, perché nello spirito ceco è nello stesso presente altamente la proprietà della ricezione per eventi culturali stranieri, come quella di una spiccatissima autonomia. Perciò tenne presente più l’eredità di un “antesignano dei poeti surrealisti cechi”  il maggior  poeta ceco, il romantico Karel Hynek Macha. E anche per questo fu anche un surrealista a modo suo “con una tecnica opposta a quella di Nezval ” * , (che non sto qui a spiegare); e pure fu un espressionista che si dedicò ai trionfi di figurazioni mortali in disfacimento, come con più competenza clinica operò il dottor  Gottfried Benn; ma è da George Trakl che trae linfa per quel lasciarsi andare, quasi alla deriva, intristito e illanguidito nello sfiorire dell’autunno.

Ma senza andare troppo fuori dalla Boemia (da questo fuori noi ricaviamo che ebbe rapporti simpatici con autori di un passato boemo – oltre che dai suoi contemporanei – che cantarono gli sfinimenti e gli sfasci mortali della vita… che se ne va sconfortata nei regni dell’ombra… questa anch’essa toccata dallo squallore di un corpo in disfacimento)… nel territorio boemo noi troviamo dunque l’humus ideale (in comune con altre figure boeme) per i suoi sollazzi ombrosi, tenebrosi, spazio dove il regna il silenziario indisturbato, dove la parola stessa sua incrina il culto che ha per essa… e il poeta è davvero negato allora al verticale, al sollevamento, a quell’elevarsi in alto, e mostra a tutto spiano la sua tendenza ad essere una creatura “orizzontale” *, come proprio dei defunti, e la poesia dal titolo Il cimitero ne è una conferma senza rimedio alcuno! “Solo in Naše Paní Božena Némcová [Nostra Signora Božena Némcová – celeberrima scrittrice dell’800] e in Ladění [Accordo] le parole… hanno un alone di luce non sfrangiata dal lutto, un lievito di fede” *.

František Halas

František Halas

Ma non pensate che il poeta si crogioli in questo nichilismo, in visioni funeree, in varie malubrità… egli sa bene che per vivificare la sua poesia deve in essa cambiare qualcosa (forse eliminare – almeno temporaneamente dal suo stile solito quegli inceppamenti, sconnessioni, antiche parole che fratturano il verso scomponendolo – retaggio cubistico -, per promuovere l’approccio a diverse tematiche) e difatti con la raccolta Staré ženy (Vecchie donne, 1935) si apre al mondo, come dire al prossimo sofferente e quindi canterà quelle donne: spose e madri che vivono il pesantissimo quotidiano e usa la tecnica della letania, che tra l’altro si avvale dell’anafora, così cara a Otokar Březina, poi a Nezval e altri; e mentre scrivo questa raccolta è qui davanti a me: è una edizione del 1947, che comprai a Praga nel 1973; è illustrata e fu pubblicata in 15 mila esemplari. Halas dedicò questa raccolta a un poeta e artista, Antonin Procházka e consorte; ed è una grande emozione toccare queste pagine. Ma non si può dire tutto, qui. Ma dirò della sua alta denuncia civile, del 1938, per alto tradimento dell’Europa occidentale, in specie della Francia (con cui in un passato prossimo c’era stata una specialissima intesa culturale!), nei confronti della sua terra nei versi de il Canto dell’angoscia… denuncia fu la svendita della sua patria al potere nazistico.

Halas compose altre raccolte di cui cito soltanto i titoli: Torso naděje (Torso di speranza, 1938), la prosa Já se tam vrátím (Io vi tornerò, 1939), Naše Paní Božena Némcová (Nostra Signora Božena Némcová, 1940), Ladění (Accordo, 1942), Znameni potopy (Il segnale dell’inizio, 1945),V řadě (In fila, 1948), la raccolta postuma A co? (Ebbene?, 1957).

(Antonio Sagredo)

Termino con alcuni suoi versi tratti da Znamení potopy (Il segnale del diluvio, 1945) :

È vero Voi vorreste
un granaio di grandi parole
e innanzi ad esso mucchi di corone

Vi piacerebbe meglio non vedere
il ripieno di morti che trabocca dalla trincea
e i gravitelli degli annegati

È vero Tutto si riduce a un giuoco
Col grembo Con le banconote
Buffoni Buffoni

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Poesie di František Halas
(le traduzioni dei versi di F. Halas sono di Angelo Maria Ripellino – in František Halas, Imagena, Einaudi 1971)
(dalla raccolta Sepie – Seppia, 1927)

Non voglio la primavera

Primavera agghindata stagione smeralda
spocchiosa primavera lunatica
tutti si affannano invano a cercare viole màmmole
non inghiottirò questa lusinga

Non voglio nemmeno sentire il chiacchierìo delle foglie
e non voglio bere ciò di cui nutri le gemme
solo questo mio autunno solo esso può cogliere
come sia rattrappito il lucignolo dello struggimento

.
La poesia

Migliaia di raggiri e imposture
trappola tesa nel buio
arte dello spionaggio
a cui ti abbandono da solo

seguendo le tue tracce e condannandoti
per i segreti svelati
punito soprattutto da te stesso
le tue liriche libro di lagnanze

Hai visto agonizzare la poesia per una parola andata a traverso
non morirà mai tuttavia
un giorno troverai le tue parole come il terno di una lotteria
e l’avrai vinta

Stretta è la rosa centifoglia dei poeti
ami soltanto quelli con lingua serpentina
di cui metà è querimonia di angeli
e metà assalto

Ultima Tule dove ti allontani
con dolcezza infinita per le cose che hai conosciuto
con voce tutta falsa congedandoti
dalla soave malsanía che ti ha perduto
(dalla raccolta Kohout plaší smrt – Il gallo spaventa la morte, 1930)

Il paesaggio da noi

Berlina è il cielo di questo paese
nel sonno irrompe un lémure impaziente
sui calvari senza croci il corallo dei sorbi si posa

Solo sulla testa dei bambini cade il rispetto delle luci
nella gorgiera della propria innocenza dormono quieti
vaga un viandante stringendo al cuore un àspide

Superbo un nero cavallo cammina per il firmamento
dalla criniera gli pendono colori morti
nere rose fatte di fulíggine

Una piccina rannicchiata tra le viole
le ali spiumate delle brutte spallucce si vergogna
spaventata dall’ombra del fumo

Principesse mutate in raganelle mangiano qui miosòtidi
Ombra di tigri le agghermiglia tra le canne
I bambini al tenue collo appendono velenosa ergotina di frumento

.
Versi

Malgrado la fortuna della vista
così cieco
malgrado il dono dell’udito
così sordo

Nel vento foglia nell’amore solo
nelle ragne uccello nella pioggia canto
nella rosa verme nella speranza dolo
nelle parole sangue nell’ugola pianto

Malgrado la fortuna della vista
così cieco
malgrado il dono dell’udito
così sordo

(dalla raccolta Tvař – Il volto, 1931)

.
Autunno

Cielo d’autunno da mille ali di uccelli vezzeggiato
con guazza di speranza inumidisci le nostre gole tese
gli occhi rivolti all’alto allarga con l’afflato
per nuove ahimè quanto apprensive attese

Osserva le oche spezzano contro la siepe le ali
quando grigie volano a mezzogiorno
immagine dell’anima che ha scorto per un attimo
la nota solo ai morti bellezza del ritorno

Scoppiate membrane di nebbie per albe immature
per la beltà che si aggira in sempre nuovi stupori
per gli alberi selvatici che non conobbero cure
e ancora acerbi serrarono le tenerezza dei fiori

(dalla raccolta Staré ženy –Vecchie donne, 1935)

*

Vecchie signore piene di buio e di trapasso
mani cadute nel grembo due morte cose incrociate
nel grembo nell’annoso palazzo della vita
o casa natía della vita casa natía fatiscente
il soppalco delle ginocchia è crollato soltanto lo squallore vi si annida
mie vecchie donne sonnecchianti sotto il mondo
grembi di vecchie donne
cisterna di gemiti e di lacrime infantili
sordine di singhiozzi maschili
voi grembi di vecchie donne
culle vuote
giacigli raggelati
sepolcri di attimi d’amore
incantesimi disincantati
custodie di misere ossa
nascondigli di gesti dimenticati
padiglioni schiantati
luoghi di roghi spulati
ospizi del rosario
acconti abbandonati dei futuri

voi grembi di vecchie donne
nessuna testa li allevia
strati di afflizioni vi si ammucchiano
delizia mutata in niente dagli anni
solo il palmo degli sfaceli vi sémina
voi grembi di vecchie donne
non reggerebbero più il peso dell’amore
un morente non vi esalerebbe l’ultimo fiato
e un lattante scoppierebbe in pianto
perché l’ossuta li assídera
voi grembi di vecchie donne
gèmina felicità delle gambe a malapena saldata
e la gloriosa incubatrice della vita è raggelata
voi grembi di vecchie donne

(dalla raccolta Dokoran – Spalancato, 1936)

František Halas

František Halas

Nella pioggia

La tibia di un ramo dalla tomba della notte sporge
la pioggia risuona quest’arpa di Mácha
mia amara lunare misericorde
mia corda di sangue purpurea
Ora in pesanti pezzi cade il buio
l’albero trema deserto di foglie
caduta è la rocca dei sogni e si erge un nudo muro
schiccherato dalla compassione

(dalla raccolta Naše Paní Božena Némcová – Nostra Signora Božena Némcová 1940)

.
Morte di nostra Signora

Sono spalancate le finestre e si sente la morte sbadigliare
L’anima è fuggita più leggera della luce su un foglietto
La guardia dei ceri raddrizza le lance vibratili

La favella nel cuore languisce. Silenti piangenti
Se ne vanno le lavatrici dei morti

Dorme defunta è gialla crivellata
E la stella Diana sul suo capo
Seminare vorrebbe un ovario di collera

(dalla raccolta postuma A co? – Ebbene, 1957)

.
Quando la bomba esploderà

Striscerà più lontano
solcando la melma
Si aprirà
Una conchiglia
Pallido sesso delle acque
Tutto comincerà di nuovo
tra l’apatía dei primi pesci
e le stelle
plàncton dei poeti antichi
si scrolleranno dal tedio
nel tempio delle galassie

(dalla raccolta Znameni potopy – Il segnale del diluvio, 1945)

*

Umide macchie crescono sui muri
nei buchi della fame nei rifugi della fame
si approssima il Diluvio

Con muffa di broccato
con ghiacciato lezzo dei cadaveri
con purulenza vaiolosa

la mia ingordigia disegno sui muri
sul volto dei poveri pongo una granfia

Ormai si approssima il Diluvio

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Antonio Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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SEI POESIE di Ugo Magnanti da “L’edificio fermo” (2015) “Entrata”, “Quinta stanza” “Decima stanza”, Venticinquesima stanza”, “Quarantesima stanza”, “Uscita”, con due Appunti critici di Giorgio Linguaglossa e Cristina Annino

Labirinto

Labirinto

 Ugo Magnanti e nato e vive nelle città di Anzio e Nettuno, dove lavora come insegnante di materie letterarie in un istituto superiore. Poeta e promotore culturale, ha ideato e diretto numerosi eventi letterari in diverse città italiane, fra cui la rassegna “Nettuno Fiera di Poesia 2010”. Pur privilegiando l’oralità e l’azione della poesia, ha pubblicato, fra l’altro, la raccolta Rapido blé, Ume, 2003, la poesia d’arte “Pronostico”, con 2 acquerelli originali di Eugenia Serafini, Artecom-onlus, 2011, e le plaquette 20 risacche, Acume, 2007, Poesie del santo che non sei, Akkuaria, 2009, Il battito argentino, Alla pasticceria del pesce, 2011. Ha partecipato con sue poesie-oggetto a varie mostre e ha curato azioni, fra cui Otto poeti nell’immondizia, Poesie vomitate contro la Turbogas, il body poem Notte di Valpurga, Sicilia Poetry Bike (con Enrico Pietrangeli), Icaro e Dedalo Ditirambi No Turbogas, BiciNuragica-Poesia. Nel 2012 ha rappresentato, insieme ad altri poeti, la poesia italiana al 49° Festival Internazionale degli Scrittori di Belgrado.

Ugo Magnanti Copertina L'edificio fermo«Il poemetto è strutturato secondo un disegno razionale. È una voce monologante che prende la parola. Un labirinto di quaranta stanze per quaranta composizioni più una Entrata e una Uscita. Dunque, un numero pari per una versificazione che privilegia il novenario e il settenario (numeri dispari). Si dirà che i conti non tornano, e invece tornano e ritornano come un martello percussivo seguendo la via indiretta della mano sinistra. Quello di Magnanti è un discorso poetico incentrato sulla disseminazione dell’io. Le poesie cominciano ad ogni stanza daccapo come un pensiero rimosso che non può essere pronunciato. Per 42 volte Magnanti si prova a ricominciare daccapo, alla ricerca del «nome» che sfugge. La versificazione procede per contiguità e per affinità, in modo razionale come può essere razionale un incubo o un sogno sospeso tra i realia del sogno e il nulla, un viaggio all’interno del nichilismo interrotto, qua e là, da presenze umane irriconoscibili («Un estraneo che mi /viene incontro sulla /strada…») dove l’«io» è una «figura» altra, sospesa nella sua dimensione di inessenza e di alterità».

(Giorgio Linguaglossa)

«Verticalmente dunque, per la fisicità che ogni poemetto ci lascia intravedere, immagino l’autore più che aprire porte ideali, salire invece le scale di un approfondimento interiore, con addosso “un’allegria operaia […]” come scrive nella Quarta stanza, componimento dove mi sembra che raggiunga quasi la perfezione, per compostezza e fluidità di linguaggio. Molte sarebbero comunque le poesie da segnalare, in questo libro dove l’esame del poeta, su di sé e sul mondo, ci viene offerto con una freschezza linguistica invidiabile, nonostante l’evidente complessità che l’origina».

(Cristina Annino)

da L’edificio fermo Fusibilialibri 2015 pp. 68 € 13

Ugo Magnanti

Ugo Magnanti

ENTRATA

È solo un palazzo fra tanti,
un prodigio sollevato dal
deserto, è tutto ciò che
spazia al crepuscolo davanti
alla sua ombra isolana.
Per giorni lenti il cancello
si è infuocato, e la statale
che gli sfolgora accanto si è
fatta ipnotica, riflessa su vetri
di assenzio, in un riverbero
che risveglia le vertigini.
È affiorato col vento, come
un nervo smisurato, sotto
nuvole che non hanno forma,
fra la luce e gli abbandoni
che respirano dai muri, così
riconosco l’avido bisogno
di essere covato, di essere
unito a una lontana striscia
di sole, sprofondato in un
abbraccio senza piombo,
come se svanisse la memoria,
e se per fare tanta leggerezza
si dovesse attraversare l’atrio
dove qualche mosca gravita,
e sgorgare offuscati nel cortile,
nel torrido sfacelo di un paese.
È questo il mito che mi viene
dietro, e mi commuove come
un tesoro di versi inceneriti,
povera curva di polvere!, oggi
tremano le crepe del muretto
e le erbacce saziano l’aria,
perciò nessuno smentirà
le mille cose perse o sfiorate,
e quelle ancora mormorate
ai miei miraggi vacanzieri.
Un germoglio ha spaccato
il mattone sul terrazzo, e
non è servito a riscaldarmi
il sangue, ma solo a scoprire
un sogno così uguale al mondo.
Ho molti battiti nuovi,
e molti volti alzati al cielo
per formare la scia bianca
e la sagoma dell’aeroplano,
tanto l’estate vista da qui, sarà
sempre il difficile teatro a cui
non appartengo, e non avrò
tempo per essere un altro.

QUINTA STANZA

Ciò che il giorno
ha seminato, con una
lama fatta per squarciare
l’occasione di guardarmi
in faccia, è il raccolto
aspro delle notti senza
sonno, dove un deserto
mi trascina, e cambia
le parole dette o non
dette, soprattutto
quelle vili, come oscure
bestiole da interrare,
col ventre gonfio e riverso.
Se qualcosa mi plasma
appartiene a queste
scene, che fanno di me
una pianta agghiacciata
in qualche crepa.
Eppure ogni ora viene
e smette di essere
immensa, e mi riporta
al sole, a una speranza
stupida che traffica
con le reliquie, ma è
pur sempre una speranza.

DECIMA STANZA

Io non sono, nessuno è, uno
zodiaco di vetro da rompere
con il martello, tanto per
vederlo in pezzi, e non
fargli prevedere quello
che accadrà quando il giorno
avrà smesso di risvegliarsi
nelle mani di un altro.
Se la mia guancia stordita
splende a casa con me
per l’ennesima volta,
non ho più gambe
che sguscino su un
prato, né voci spezzate
che rivelino l’erba,
e non so più cambiare
col pensiero il tragitto
di una blatta sulla sabbia,
facendo finta che siano
miei, i suoi ripensamenti.
Così non ho più abbracci
e non sono più l’uomo di
prima: se il desiderio da
scegliere è uno solo, sono
via per un’odissea bugiarda.

Ugo Magnanti

Ugo Magnanti

VENTICINQUESIMA STANZA

Se ho sbagliato qualche
verso, per caso o per abuso,
o per imperizia, non ne ho
fatto certo un dramma,
perché tutto si muoveva
dentro l’edificio fermo, e
spesso la parola mi mancava.
Ma questi che ora leggi
li ho scritti per quando finirà,
e se sono sbagliati li ho
sbagliati volentieri: forse
la mano sorpresa a navigare,
stavolta voleva solo vivere.
Non è più importante
che siano fatti bene,
già è tanto che festeggino
la pace con chi è stato
misero e radioso, e solo per
questo merita di sciogliersi.
E soprattutto invocano
il coraggio, e vogliono il fuoco:
sono stati sepolti con me
nel grembo dell’estate,
mai sopporterebbero
il buio di una bara.

QUARANTESIMA STANZA

Non spero che il rivolo
ostruito, di colpo mi
riveli chissà cosa, solo
perché si torce e scende
verso il suo tombino
come se mormorasse
da un’infanzia sfatta,
o nelle faccende da sbrigare
prima che sia mezzogiorno
e una sirena di metallo
suoni, mettendo
addosso a chi è eremita
un po’ di appartenenza.
Sebbene lo sguardo
recitante si approssimi
alla pioggia, e il monotono
mattino che si spande
accarezzi un’intuizione,
la lotta di vento e rami
avviene dove non c’è
mondo dietro il mondo
che trabocca, nella banalità
del temporale che non sa
fare a meno della gioia,
sotto uno squarcio di sole.

USCITA

Non ci sono che ore
viziose in una vita,
allora non puoi fingere
che il respiro sia cessato
per crederti migliore.
Spudorato e già pronto
a ritornare vivo, senti
come è imperdonabile
il tuo desiderio, e come
non è fatto per finire.

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QUINDICI POESIE di Michaìl Jùr’evič LÈRMONTOV (1814-1841) tradotte da Paolo Statuti con Presentazione di Antonio Sagredo

bello ritratto di donnaLe 15 poesie che qui presentiamo tradotte da Paolo Statuti hanno il pregio (lo stesso che ha contraddistinto le 32 poesie di Puškin tradotte dallo stesso) della chiarezza e semplicità che sfiora l’ostentazione tale è la bravura del traduttore, che unisce l’uso e il rispetto della rima (nella lingua russa dell’epoca era quasi un obbligo per rispettare e distinguere i vari generi di poesia, p.e. la lirica dall’epica) là dove è possibile, ed è possibile quasi sempre per il traduttore. Per alcuni traduttori di Lermontov, e cito il più recente Roberto Michilli (la cui qualità della traduzione è notevole), fare a meno della rima è come trovare una sorta di scorciatoia, come dire che usare la rima è troppo faticoso (trovare le parole intendo che hanno un’assonanza) e forse va a discapito della musicalità del verso. Paolo Statuti invece della rima ne fa un obbligo e la attua, e non stona affatto poi che  egli stesso è musicista; la musicalità del verso è garantita, ed è piacevole leggere questi versi poi che anche la filologia è rispettata: senso e contenuto vanno di pari passo, la precisione garantita. Le poesie scelte dal traduttore sono tra le più importanti e conosciute del poeta; per quanto mi riguarda plaudo a questa sua non ultima fatica, che è pure un suo piacere, e nostro poi che ci prepariamo a leggere. Spero di aver scritto una introduzione (segue qui sotto) che sia chiara anche per un lettore che di cose slave sa poco o niente

 (Antonio Sagredo)

Michail Jur'evič Lermontov ritratto, 1830

Michail Jur’evič Lermontov ritratto, 1830

Con magistrale sintesi Ettore Lo Gatto, fondatore della slavistica italiana, distingue la grandezza di Lèrmontov  da quella di  Puškin. Scrive il celeberrimo  slavista:”  Come  Puškin, Lèrmontov  fu prima di tutto poeta lirico e come Puškin diede il colorito, o il tono che dir si voglia, della liricità o del lirismo, anche a tutte le altre forme di creazione letteraria che affrontò, con una intensità così eccezionale da essere in contrasto con l’insistenza con cui egli lavorò intorno ad alcune opere, come i due poemi Demon (Il demone, 1841) e Mcyri (il novizio, 1839), la cui elaborazione, e specialmente quella del primo, durò parecchi anni. Sia l’ansia di fare, sia la preoccupazione di raggiungere la perfezione, furono conseguenza di uno stesso stato d’animo, in contrasto con la concezione espressa da Puškin nella poesia. Il poeta,  fino a quando Apollo non chiama al sacrificio, il poeta è «tra le insignificanti creature del mondo forse la più insignificante». Lèrmontov sentiva di essere chiamato sempre al «sacrificio». 1)

Da Puškin è ovvio che si sentisse  attratto – e mi spieghi qualcuno perché non avrebbe dovuto sentirsi attratto! – ma non apparteneva alla Pleiade di Puškin: sfuggiva all’epigonismo con tutto il suo talento! Il suo terrore era che qualche poco avveduto critico lo definisse epigono di Puškin! Noi sappiamo ora che non lo è stato mai. Lermontov pagò carissimo e a prezzo della sua vita la sua ammirazione sconfinata per Puškin, e a causa di una sua poesia dedicata a lui, La morte del poeta, fu mandato in esilio nel Caucaso, e qui cominciò a rovinarsi la sua vita, ma non la sua arte.

Fu più un emulo che un epigono di Puškin questo è certo, ma un emulo singolarissimo poi che esserlo stato  “ non esclude ma non afferma che egli potesse esserne considerato il continuatore… fu la sua una eredità personale più apparente che effettiva”, 2); e il fatto che ambedue i poeti sentissero sacra la missione del poeta non significa ancor più legarli, poi che tale missione era  il fulcro su cui girava ogni grande poeta romantico europeo.

Lo zar Nicola I, questo macellaio dei poeti russi, espulse Lermontov  dal corpo militare di appartenenza,   dove  aveva il  grado di ufficiale degli Ussari della Guardia e lo inviò in un reggimento in linea sul Caucaso, ma del Caucaso ne fu così impregnato che ne divenne  il maggiore cantore.

Il punto è che il potere non poteva permettere, sopportare, che un altro poeta di singolare potenza subentrasse a Puškin nel ruolo di fustigatore a tutto spiano dei costumi russi e costruì anche per Lermontov  un micidiale intrigo zarista talmente subdolo che in circostanze poco chiare portò all’uccisione  in duello del poeta: aveva 27 anni!. Dieci di meno di Puškin! Si può immaginare benissimo cosa avrebbe potuto e voluto scrivere ancora per ulteriori dieci anni. Ucciderlo alla stessa età di Puškin avrebbe significato per il potere un tale svelamento che l’avrebbe condotto, non a confessare il delitto, ma ad escogitare chi sa quali alibi aberranti; e di tali alibi la storia del potere russo e poi sovietico ci ha ben abituati, ma non certo convinti!

Se Puškin cercò sempre una serenità  intellettuale che gli permetteva di comporre con più equilibrio le sue opere per poi distanziarsene, a Lermontov  tale serenità era negata, egli fu ancor più byroniano dello stesso Byron! Non gli bastò averlo introiettato, per cercare una perfezione compositiva come in Puškin, doveva assolutamente andare oltre, anche mentalmente, per raggiungerla, e ci riuscì superando in se stesso il suo stesso modello: Byron! In questo egli distanzia tutti i poeti europei romantici di cui si nutrì  a piene mani. Mise da parte il poeta d’Albione anche con l’aiuto dell’ironia corrosiva di un poeta germanico, Heinrich Heine (questo poeta così amato un secolo dopo da Majakovskij); è forse dalle letture di alcune opere di Heine che il suo romanticismo divenne realistico, ma l’apporto di Puškin non è da trascurare… insomma il romanticismo sta per finire e tocca al realismo gogoliano tratteggiare con ferocia e sarcasmo la società post-romantica russa… il realismo in Europa, all’indomani della morte di Lermontov,  aveva decretato già la morte del romanticismo e dato già straordinari esempi, specie in Francia.

Egocentrismo, ribellione, frenesia spinta senza requie oltre limiti inimmaginabili, passioni divoranti, ecc. concorsero alla composizione della sua opera più amata in Russia Il demone (trionfo della assoluta solitudine: l’IO, la Natura e il sentimento in lotta perenne): specchio dello spirito russo disvelato!   Tale stato eruttivo-intellettivo suo proprio ha fatto pensare che la elaborazione delle sue composizioni raramente fosse definitiva – gli mancò il tempo forse perché si rafforzasse in lui questo aspetto tecnico? Non lo sapremo mai. – Certo è che nelle sue poesie è soltanto apparente questa non definita strutturazione formale.

Michail Jur'evič Lermontov copTre sue poesie, in un cero senso liriche, segnano tali passaggi discontinui, formali e contenutistici, tutti assoggettati al suo IO fuori da qualsiasi regola esistenziale: Meditazione (critica feroce alla società russa), Non credere a te stesso e Il poeta… queste tre composizioni hanno come obiettivo comune il segnare l’alto significato della parola libertà: libertà del poeta e libertà del popolo; destinate queste due libertà a distanziarsi sempre di più, e la poesia dedicata alla morte di Puškin forse è la più rappresentativa di tale distacco… per i poeti russi così legati alle sorti libertarie del popolo (ancora una volta pensate alla fine del tribuno Majakovskij) questo significa rabbia, sconforto e tant’altro. I passaggi dall’Io al Noi e poi di nuovo all’Io  sono traumatici, da schiantare anche il poeta più solido.

Le poesie epiche, quelle che interessano la natura del paesaggio del Caucaso sono le meno complicate psicologicamente, poi che nel poeta la natura caucasica stempera in parte le sue passioni divoranti, che se mai sono tenute a bada come in Tamara, in Disputa, in DaryTereka (I doni del Terek), in Kinžal(Il pugnale) e in Le tre palme. Ebbe in gran considerazione le sorti delle popolazioni caucasiche e nello stesso tempo il ruolo del destino della Russia in confronto ad esse.

Tenendo sempre presenti puntigliosamente  le fonti storiche e folcloristiche, Lermontov scrisse: saggi (come il saggio prosastico Vadim), poesie liriche ed epiche, drammi, racconti brevi e lunghi,  (come il racconto in versi, ma non epico Saška) poemi morali e forse scherzosi, poemetti in forma di ballata (come il Canto del mercante Kalašnikov, in cui finalmente Lermontov si libera di Byron segnando una comunione tra ballata romantica e canto popolare rendendo indistinguibili i due generi); anche il teatro interessò Lermontov… compose cinque drammi, sia in prosa che in versi. Ma il gruppo dei cinque racconti che pubblicò sotto il titolo di Un eroe del nostro tempo (il personaggio, comune ai racconti, Pečòrin è universalmente noto) meritano una attenzione particolare poi che si presenta come la sola opera finalmente realizzata compiutamente; lo stesso poeta scrive di questo suo lavoro:  “E un ritratto, ma non di un solo uomo, è un ritratto composto con in vizi di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo”.

La comparazione tra l’Onegin di Puškin e il Pečorin di Lemontov fu rilevata dalla critica militante, in specie dal maggior critico radicale Vissarion G. Belinskij, ma a ben vedere le distinzioni servono a poco poi che i due personaggi erano le due facce della stessa moneta.

Ricordiamo qui, senza nominarli, gli essenziali e vari e numerosi apporti critici di Ettore Lo Gatto; la traduzione della poesia Meditazione di G. Maver, 1929; di L. Gančikov, “La religiosità di Lermontov” in Europa orientale, 1936; di A.M. Ripellino: “lntroduzione alle traduzioni di T. Landolfi di liriche e poemi”, Einaudi, 1963; di W. Giusti: “Il demone e l’angelo. Lermontov e la Russia del suo tempo”, Messina-Firenze 1968;; il saggio  di A. M. Ripellino “Materiali per uno studio sulla poesia di Lermontov”, (dove tratteggia un tema a lui caro: il demonismo); ed infine di  Henry Troyat “L’Étrange Destin de Lermontov” del 1952. Inoltre gli studi dei maggiori formalisti russi, in primis di Jurij N.Tynjanov, Viktor Šklovskij, ecc.

  • Lo Gatto, La letteratura russa moderna, Sansoni 1968, p. 163
  • p. 162
Michail Jur'evič Lermontov

Michail Jur’evič Lermontov

Poesie di Michail Lermontov tradotte da Paolo Statuti

Preghiera

Non incolparmi, Onnipotente,
E non punirmi, t’imploro,
Se il buio funebre della terra
Con le sue passioni io adoro;
Se di rado nell’anima entra
Il torrente della tua parola viva;
Se nell’errore la mia mente
Vaga lontano dalla tua riva;
Se trabocca dal mio petto
La lava dell’ispirazione;
Se i selvaggi fermenti
Offuscano la mia visione;
Se questa terra mi è angusta,
Di penetrare in te ho paura, ed io
Spesso i canti del peccato
Prego, non te, mio Dio.

Ma estingui questa magica fiamma,
Il fuoco che tutto distrugge,
Trasforma il mio cuore in pietra,
Ferma lo sguardo che si strugge,
Dalla tremenda sete di versi
Fa’ ch’io sia libero, o creatore,
E allora sulla via della salvezza
A te di nuovo mi volgerò, o Signore.

(1829)

La mia casa

La mia casa è sotto la volta celeste,
Dove risuonano i canti soltanto,
Dove ogni scintilla di vita risplende,
Ma per il poeta lo spazio è tanto.

Dal tetto egli arriva alle stelle,
E il lungo sentiero tra le mura,
Chi ci abita, non con lo sguardo,
Ma con la sua anima misura.

La verità è nel cuore dell’uomo,
Il sacro seme dell’eternità:
Spazio senza fine, secoli interi,
In un baleno esso abbraccerà.

E la mia bella casa onnipotente
Per questo sentimento è costruita,
Dovrò soffrire a lungo in essa,
E solo in essa avrà quiete la mia vita.

(1830)

Il mendicante

Sulla porta di un santo convento
Un poveretto chiedeva la carità,
Magro, sofferente ed oppresso
Dalla fame, dalla sete, dalla povertà.

Chiedeva solo un pezzo di pane,
E lo sguardo mostrava la sua pena,
E qualcuno un sasso posò
Sulla sua mano distesa.

Così io imploravo il tuo amore
Con pianto amaro e ardente;
Così i miei sentimenti migliori
Eran delusi da te per sempre!

(1830)

Michail Jur'evič Lermontov bambino

Michail Jur’evič Lermontov bambino

Sole d’autunno

Io amo il sole d’autunno, quando
Tra nuvole e nebbie si fa largo,
E getta un pallido morto raggio
Sull’albero cullato dal vento,
E sull’umida steppa. Io amo il sole,
C’è qualcosa nello sguardo d’addio
Del grande astro simile all’occulta pena
Dell’amore tradito; non più freddo
Esso è in sé, ma la natura
E tutto ciò che può sentire e vedere,
Non provano il suo calore; così è
Il cuore: in esso è ancora vivo il fuoco,
Ma la gente un giorno non lo capì,
E da allora negli occhi brillare non deve,
E le guance non sfiorerà in eterno.
Perché di nuovo il cuore sottoporre
A parole di dubbio e allo scherno?

(1830 o 1831)

Il mio demone

1

La somma dei mali è il suo elemento;
Volando tra nembi scuri e foschi,
Egli ama le fatali tempeste,
La spuma dei fiumi e il fruscio dei boschi;
Egli ama le notti cupe,
Le nebbie, la pallida luna,
I sorrisi amari e gli occhi
Che non sanno il sonno né lacrima alcuna.

2

Le ciarle futili del mondo
Egli è avvezzo ad ascoltare,
Egli deride le parole di saluto
E ogni credente ama beffeggiare;
Estraneo all’amore e alla pietà,
Dal cibo terreno è sfamato,
Ingoia ingordo il fumo dello scontro
E il vapore del sangue versato.

3

Se nasce un nuovo sofferente,
Lo spirito del padre egli affligge,
Egli è qui col severo sarcasmo
E la rozza gravità dell’effige;
E quando qualcuno già discende
Con l’animo tremante nel sepolcro,
Trascorre con lui l’ultima ora,
Senza dare al malato alcun conforto.

4

L’altero demone non mi lascerà,
Finché in vita io sarò,
E la mia mente prenderà a illuminare
Come un magnifico falò;
Mostrerà un’immagine di perfezione
E poi per sempre la toglierà
E, datomi un presagio di letizia,
Da lui non avrò mai felicità.

(1831)

Michail Jur'evič Lermontov

Michail Jur’evič Lermontov

No, non sono Byron…

No, non sono Byron, sono un altro
Eletto ancora sconosciuto,
Come lui, dal mondo vessato,
Ma con l’anima russa io sono nato.
Cominciai presto, finirò prima,
Non molto compierà la mia mente;
Nella mia anima, come nell’oceano,
Giacciono le mie speranze infrante.
Chi può, o tenebroso oceano,
Conoscere i tuoi segreti? Qualcuno
Narrerà alle folle i miei pensieri?
Io sono Dio – o non sono nessuno!

(1832)

La vela

Biancheggia una vela solitaria
Nella nebbia azzurra del mare!..
Cosa cerca nel paese lontano?
Cos’ha lasciato nel paese natale?..

Giocano le onde – il vento sibila,
E l’albero si piega e geme…
Ahimé, – la fortuna non cerca
E dalla fortuna non viene!

Sotto ha la corrente azzurra,
Sopra – del sole l’effige dorata…
Ma essa, inquieta, cerca la tempesta,
Come se in questa la quiete fosse data!

(1832)

Preghiera

O Madre di Dio, sono qui in preghiera
Davanti al tuo volto come intensa luce,
Non la salvezza, non la gratitudine,
Né il pentimento a te mi conduce,

Non per la mia anima deserta, l’anima mia
Di ramingo senza patria ti prego nel profondo,
Ma voglio affidare a te una vergine innocente,
A te che proteggi dal gelido mondo.

Circonda di felicità chi è degno d’averla,
Dagli compagni benigni in abbondanza,
Una bella giovinezza, una serena vecchiaia,
Al cuore mite dai la pace della speranza.

E quando si avvicinerà l’ora dell’addio,
Tu manda per vegliare al letto del dolore,
Sia in chiassoso mattino o in notte silente,
L’anima leggiadra dell’angelo migliore.

(1837)

Il pugnale

Ti amo, mio pugnale d’acciaio intarsiato,
Compagno gelido che abbaglia.
Un georgiano per la vendetta ti forgiò,
Un circasso ti affilò per la battaglia.
Una bianca mano a me ti ha donato
In segno di ricordo nella separazione,
E la prima volta non sangue da te colò,
Ma una tersa lacrima-perla di afflizione.

E fissando i neri occhi su di me,
Ricolmi di segreto dolore,
Come il tuo acciaio sul tremulo fuoco,
Erano a volte buio, a volte splendore.

Datomi per compagno, pegno muto d’amore,
Su di te il viandante può contare:
Come te, come te, amico mio d’acciaio,
La mia anima è salda e non potrà cambiare.

(1838)

Michail Jur'evič Lermontov 3

Preghiera

In un momento arduo della vita,
Quando la tristezza stringe il cuore:
Una prodigiosa preghiera
Io recito a memoria.

C’è un’intensità beata
Nell’armonia della parola viva,
E in essa inesplicabile
Un sacro incanto spira.

Dall’anima come un grave peso
La coscienza rotola via distante –
E si vuol credere, e si vuol piangere
Ed è un lieve, così lieve istante…

(1839)

Le nuvole

Nuvole celesti eternamente erranti!
Sulla steppa azzurra come perle infilate,
Dal caro nord verso il meridione
Scorrete, come me, esiliate.
Cosa vi spinge: Il volere del destino?
Una segreta invidia? Un’ira manifesta?
O vi opprime il peso di un delitto?
O degli amici la venefica maldicenza?

No, vi hanno annoiato gli aridi campi…
A voi sono estranee passioni e pene;
In eterno fredde e in eterno libere,
Voi una patria e un esilio non avete.

(1840)

Il profeta

Dal giorno in cui il giudice eterno
Mi ha dato del profeta l’onniscienza,
Negli occhi degli uomini io leggo
Pagine di rabbia e di violenza.

A predicare presi allora i precetti
Della verità e dell’amore alla gente:
Cominciarono a coprirmi d’insulti
E a tirarmi pietre follemente.

Mi cosparsi il capo di cenere,
Come un mendico fuggendo la città,
Ed ora come uccello nel deserto vivo,
Mangiando solo ciò che Dio mi dà;

La creatura terrestre m’è sottomessa,
Le leggi del Signore rispettando,
E le stelle mi ascoltano di notte,
Coi raggi lietamente giocando.

E quando nella città chiassosa
Entro a volte con passo affrettato,
I vecchi dicono ai bambini
Con un sorrisetto malcelato:

«Guardate: ecco un esempio per voi!
Egli superbo da noi è fuggito;
Lo sciocco pensava: ciò che dice Dio
Dalla mia bocca è uscito!

Guardatelo, bambini miei:
Che figura pallida e trista!
Guardate com’è magro e nudo,
E come ridono alla sua vista!»

(1841)

Il sogno

Nella valle del Daghestan infocata
Col piombo nel petto immobile stavo;
Dalla ferita ancora fumante,
A goccia a goccia il mio sangue versavo.

Giacevo solo sulla sabbia della valle;
Sporgenze di rocce premevano intorno,
E il sole bruciava le gialle sommità
E pur me – ma io dormivo, come morto.

Rischiarato dai fuochi nel paese natale
Un banchetto sognavo in quel mentre.
Giovani donne inghirlandate
Parlavano di me allegramente.

Ma, ignorando la lieta conversazione,
Una di loro sedeva sola e pensosa,
La sua giovane anima era triste
E immersa Dio solo sa in che cosa;

E sognava il Daghestan, dove giaceva
Un cadavere a lei noto, nel cui petto
Fumando, anneriva la ferita,
Da cui il sangue colava ormai freddo.

(1841)

Michail Jur'evič Lermontov

Michail Jur’evič Lermontov

La rupe

Passò la notte una nube dorata
Sul petto di una rupe immensa;
La mattina si rimise in cammino,
Giocando nell’azzurro immersa;

Ma una traccia umida in una ruga
Della millenaria rupe ha lasciata.
E la rupe è lì sola e pensosa,
E nel deserto piange sconsolata.

(1841)

Tamara

Nella profonda gola di Dar’jal,
Dove il Terek fruga nelle nebbie cupe,
Un antico bastione si ergeva,
Nereggiando su una nera nube.

In questa torre alta e angusta
La zarina Tamara viveva:
Assai bella, come angelo celeste,
Come demone, perfida e altera.

E là nella nebbia di mezzanotte
Brillava un lumino dorato,
Attirava l’attenzione dei viandanti,
Chiamava a un riposo incantato.

E si udiva la voce di Tamara:
C’era in essa desiderio e passione,
Una magia onnipotente,
Una inesplicabile persuasione.

Verso la voce dell’invisibile peri
Un mercante o un pastore andava:
Davanti a lui si apriva la porta,
Un tetro eunuco lo invitava.

In un soffice letto di piume,
Vestita di broccato porporino,
Ella aspettava l’ospite…Frizzanti
Eran pronte due coppe di vino.

S’intrecciavano le dita degli amanti,
Le labbra si toccavano ardenti,
La notte intera risonavano là
Assai strani e selvaggi accenti.

Come se in quel vuoto bastione
Cento giovani e cento fanciulle,
Fossero insieme a un banchetto funebre,
O per celebrare nozze notturne.

Ma appena la luce del mattino
Si posava sui picchi montani,
Nella torre buio e silenzio
Di nuovo regnavan sovrani.

Solo il Terek nella gola Dar’jal,
Il silenzio rombando rompeva;
L’onda urtava contro l’onda,
L’onda dietro l’onda correva;

E con pianto il corpo muto
Si affrettavano a portar via;
Alla finestra qualcosa biancheggiava,
E risonava una parola: addio.

Ed era un sì tenero lasciarsi,
La voce era dolce e fremente,
Come se estasi d’incontro e carezze
D’amore promettesse per sempre.

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Archiviato in poesia russa, quindici poesie di Michail Lermontov

Roberto Bertoldo AUTOANTOLOGIA – POESIE – con un Saggio di Giorgio Linguaglossa “la poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo”

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

  Roberto Bertoldo è nato nel 1957 e risiede a Burolo (TO). Nella seconda metà degli anni ’70 ha partecipato a numerose manifestazioni letterarie in veste di poeta e redattore di rivista. Dopo la laurea (tesi: Ermetismo come petrarchismo) ha preferito fare vita ritirata per proseguire la sua personale ricerca di scrittore. Di questi anni sono i libri di narrativa L’abitudine, Il cammello oltre la cruna, Le favole del fiume d’ebano, Satio, I nichilisti e le raccolte poetiche Nuvole in agonia, Il pan-demonio, Il rododendro, tutti libri inediti. Nel 1996 è uscito dall’isolamento fondando la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, di cui è direttore, e cominciando a professare la sua filosofia del “nullismo”. Nel 1998 ha pubblicato i romanzi brevi Il Lucifero di Wittenberg e Anschluss, Asefi Terziaria, Milano, e il saggio Nullismo e letteratura. Per una filosofia fenomenica e una epistemologia della letteratura postcontemporanea, Interlinea, Novara (Nuova edizione riveduta e ampliata: Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria, Mimesis, Milano 2011), libro nel quale, attraverso una reinterpretazione del pensiero leopardiano posto come fondamento dell’esistenzialismo nullistico di Camus e attraverso analisi epistemologiche, delinea le possibili direttrici di una letteratura postnichilistica. A dicembre 2000 è uscito il suo libro di poesie, Il calvario delle gru, presso l’editore La Vita Felice di Milano e successivamente in forma bilingue presso l’editore Bordighera Press di New York. Nel 2002 viene edito il suo libro di narrativa Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia e nel 2003 il saggio filosofico Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura, Guerini & Associati, Milano. Nel frattempo ha scritto ancora i libri di poesie Il codice delle stagioni (inedito) e L’archivio delle bestemmie (Mimesis, Milano 2006) e, negli anni 2003-2004, i romanzi Amori postumi (inedito), L’infame (La vita felice, Milano 2010) e Ladyboy (Mimesis, Milano 2009). Dal 2004 ad oggi si è dedicato prevalentemente a sviluppare la sua filosofia, arricchitasi di una nuova forma di indagine detta “fenomenognomica”, che vede per ora l’uscita di Sui fondamenti dell’amore (Guerini & Associati, Milano 2006), Anarchismo senza anarchia (Mimesis, Milano 2009), l’opuscolo Chimica dell’insurrezione (Mimesi, Milano 2011) e il saggio Istinto e logica della mente (Mimesis, Milano 2013). Svolge l’attività di insegnante e cura collane di saggistica e di poesia straniera.

da Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000

hopkins Autoritratto

hopkins Autoritratto

Sera a Sarajevo

E a volte le sere hanno questo spettro di silenzi,
a festone di beccafichi, sulle canape, a nastro.
E qualche farfalla, rara, e le rondini, a macchie,
sui fili. Ad ascoltare tenui affetti,
come un funerale che ascolta i morti,
a grappolo, il loro canto ebbro tra le cicale
e i caprimulgi. A volte le sere stanano
ingiurie, non altro che ingiurie, di morti,
la gruma del vino, l’ultima melodia. Di questo
è il vento che tace.

.
da L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006

.
Forse non è il lago (11 settembre 2001)

Forse non è il lago che fuma.
È la sera che, scendendo, spezza i rami
dell’acqua morta. Poi volano anche le anatre,
allungate come serve. Anche i pesci evadono
e hanno un occhio sconfitto, sanno
il nostro odore di uomini, quella puzza
di cadaveri trascendentali.
Oggi non è più il lago che fuma,
è l’eccetera della coscienza.

.
L’ultima

Signori, io ho appesantito la pioggia
con le lacrime delle bestie
che avete gettato nella fangaia
insieme a questi versi che ho lucidato
per accogliere il grido che risale
dalle orde, al clivo dei mattatoi.
Ma io sono di questa carne il peccato
che piange, l’onere promiscuo
che raffina la mattanza.

.
Amore inibito

Denoti assoluta morte nell’eremo
che in petto ti rovisto per amarmi.
Più che mai indago l’infezione che è in te
e scendo nell’alveo rosso del tuo crepaccio.
Indulgo al gelido che costringi con labbra infami,
rovino tra i tuoi denti,
scivolo sulla tua lingua muta,
mi apro un varco.
Bacio dunque la filigrana della mia colpa
sul tuo viso di banconota che compra
la sua pace, senza sorrisi né delicatezze.
Avrei dovuto concederti l’intera fragilità
della mia rabbia, ma sono tenue
e insacco il male nella tela dei versi.
Non avrei potuto neppure regalartela
la mia testa, a cento ghigliottine offerta,
invano. L’amore resiste alle lame,
alla gotta del tuo cuore irrisorio,
al tuo rancore incivile che lo rassetta
nel contocorrente della mia tenerezza.

.
La comunione

Rendimi le tue labbra che il mio bacio
ha voluto districare dalle nubi,
inventa un altro proposito per le tue campagne,
l’amore è quel cirro che la vetta del pino
ingoia come un’ostia.
Sorprendi la tua rendita
con la veste di donna che neghi
e rincuora questo mio cervello affranto
che dileggia l’anima.
Noi viviamo d’ansia e di giustizia affascinata
in queste camicie di forza
che spezzerò come il corpo di cristo,
io ribelle che ho la ventura
con la mia bocca pazza e bastarda
di consegnarti l’eucarestia.

da Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011

.
Hanno violentato…

Hanno violentato il petto degli uomini
e questa schifosa poesia non ha ritmo
di rabbia e disgusto
ma cianfrusaglie
e ridicolo maquillage
un albore che si barcamena
tra le strane mimose del suo proscenio
e la lezione dei rampichini
sulla lavagna del vento
noi con le stesse braccia sul paretaio
eravamo uccelli che volavano
hanno violentato il nostro sorriso
che la morte trascina lentamente
nel suo sfregio
noi che tenevamo la morte in pugno
e potevamo salvarvi dai ghiacciai
ci avete ammessi alla vostra violenza
e all’infamia delle vostre donne
abbiamo dita caparbie che strapazzano la gloria
ma che non sanno con la penna
richiamare alle lacrime
gli occhi esili dei lettori.
Amici, la fronda dell’amore
ha foglie almeno per voi
che avete cuore sufficiente.

Avete appreso…

Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.

Vogliamo una poesia…

Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.

Affinché l’estuario…

Affinché l’estuario evada il nostro sangue
abbiamo amato l’affanno dei poeti –
ecco le loro lingue stupide e contrite
sui banconi dei macellai,
i numeri hanno sconfitto le parole,
sono carne di bue le poesie
sono occhi imbolsiti e orecchie pendenti.
È importante discutere dell’anima delle puttane,
noi tutti ne abbiamo una quando s’apparecchia la tavola,
è la sembianza del mercato,
il frutto che nel peccato è nudo
come il re che paga i poeti.
Ma i banconi sono spietati,
ogni acquirente ci mette le mani
e prova i versi sul suo corpo,
indossa anche le cimici.
Così è la moltitudine che misura il valore
senza conoscere la teoria dei quanti
ma con il peso della luce e della vanità.

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la poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo di Roberto Bertoldo*

 «Come tutti i secoli che ereditano una rivoluzione paradigmatica della cultura, il Novecento ha vissuto il fascino di un’indolente, vile e superficiale controcultura. La neocultura del relativismo scettico, dell’informità, dell’indeterminismo, dell’antinomismo, ecc., ha faticato non dico a farsi strada ma anche solo a respirare sotto lo sbordante grasso della pseudocultura decadente. Sì, il decadentismo, che è una mentalità e non l’organigramma di una cultura, ha avuto vita facile con la sua fuga dalla realtà e dalle conoscenze scientifiche contemporanee, con la sua nostalgia dei valori assoluti, con la sua deformità meramente tecnica e sostanzialmente ludica, col suo storicismo finalistico e con l’influsso delle teorie estetiche metafisiche non differenziali, l’ero-teismo (… ho scelto di distinguere il postmoderno forte (o postcontemporaneo) dal postmoderno debole o decadentismo (…)

Il nichilismo non è l’uscita dalla modernità, ma l’approdo della modernità: un approdo epistemologico… La vera uscita dalla modernità consiste nell’uscita dal nichilismo, debole o forte che sia. Un’uscita che si compie solo nella ricostituzione dei valori mondani, ossia nell’emendarli da ogni incrostazione metafisica. Non è affatto vero che “un superamento critico” della modernità “sarebbe un passo ancora tutto interno alla modernità stessa” in quanto “fondato”… Il nichilismo che Vattimo pretende “debole” è semplicemente un nichilismo epistemologico (assenza di fondamenti)… Il nullismo, che abbraccia il post-moderno forte, non sostiene un nichilismo epistemologico, ma lo combatte con la sua epistemologia scettica… È questo scetticismo che riscatta il postmoderno. Il pensiero “debole” di cui parla Vattimo è un indebolimento del pensiero forte, in quanto metafisico, della modernità».[1]
È il pensiero di Roberto Bertoldo, un caso atipico di poeta-filosofo. Basti dire che in tutto il Novecento italiano non è dato riscontrare un altro poeta che abbia speculato da filosofo sulla questione che si chiama «decadentismo» e sulla elaborazione di una solida filosofia dell’arte. «Ogni stile è acquisibile in una cultura fondamentalmente ermeneutica. Il postmoderno è oltre lo stile, è nel metodo… nel suo adattamento al reale, negli stili che esso abbraccia. Esso è interpretazione, dunque libertà stilistica e… induttività ermeneutica». Bertoldo si chiede: che cos’è il  nullismo? Stabilisce una equivalenza tra il suo concetto di postmoderno e il nullismo, e di qui procede alla costruzione di una filosofia dell’arte rigorosamente materiata di «materia»; riparte da Leopardi per attraversare scrittori come Calvino, Borges e Queneau, i quali si sono limitati ad una rivoluzione solo «formale», per giungere a quello che l’autore chiama il nullismo, cioè «il rifiuto del decadentismo e delle sue viltà», a scrittori e poeti come Camus e Leopardi.[2]

L’intento di Bertoldo è fare un vero e proprio processo alla cultura (il «postmoderno debole») del Novecento. Ribaltare dal fondo la vecchia cultura del Novecento, demolirne le fondamenta per tentare di farla rinascere in chiave nullista (il «postmoderno forte o postcontemporaneo»), superando il nichilismo, per approdare ad una filosofia dell’arte e dell’azione che riparta dalla «sensazione» e giunga alla «materia», in opposizione al «nulla» quale è diventata la ricerca ossessiva del «nuovo» delle società tardo moderne. Il «nulla» del nullismo bertoldiano è la struttura stabile della «materia»: «il nullista lotta disperatamente contro il nulla e in questa lotta disperata c’è la difesa disperata di sé».

Bertoldo traccia una via di uscita: andare al di là del nichilismo e del postmoderno debole: il post-contemporaneo è esattamente questo accettare l’idea di un concetto di letteratura come azione, lotta disperata contro il nulla del nichilismo e contro tutte le tendenze dissolvitrici del tardo decadentismo. Per illustrare questo tragitto il poeta piemontese traccia le coordinate di una filosofia dell’arte: il tonosimbolismo.
Riguardo il tono, riporto questa perfetta definizione di Blanchot: “il tono non è la voce dello scrittore, ma l’intimità del silenzio che egli impone alla parola, ciò che fa che questo silenzio sia ancora il suo, ciò che resta di lui nella discrezione del suo porsi in disparte. Il tono fa i grandi scrittori”…

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Con “tono” intendo il valore (altezza, timbro e intensità) di un suono. Il tono è nel rapporto tra fonosimbolismo e simbolismo … tra figure retoriche sintagmatiche e figure retoriche paradigmatiche. Se nel simbolismo tradizionale la relazione è paradigmatica, così come nel fonosimbolismo, dove la relazione sintagmatica è solo sonora (e riguarda figure di ripetizione fonica), nel tonosimbolismo essa, quantitativa o qualitativa, è anche sintagmatica (es. concreto/astratto: “nubi silenti”, contenente/contenuto: “Parole di inverni”, e così via, sino a forme molto più complesse).[3]
Parallelamente alla maturazione della sua poesia, il poeta piemontese è costretto ad avviare una riflessione filosofica sui fondamentali filosofici. Per Bertoldo è una necessità speculare sul nichilismo contemporaneo e sulla «fenomenognomica» (una scienza che cerca di intuire la natura dei singoli fenomeni), per poter fare poi il passo successivo verso la costruzione di una poesia che sia il precipitato, la sintesi e il traslato di quella speculazione. In realtà, in Bertoldo riflessione filosofica e quella poetica procedono parallele. I suoi libri di riflessione filosofica, Nullismo e letteratura  e Principi di fenomenognomica (2003), costituiscono la sostanza e la cornice del suo pensiero poetico, formano una linea di resistenza nei confronti del pensiero debole, sostanzialmente ancorato al concetto gadameriano di interpretazione a fronte del quale Bertoldo elabora la sua teoria estetica fondata sul tonosimbolismo, un superamento del fonosimbolismo (che ha i suoi maestri in D’Annunzio e Pascoli ma anche in Poe). È necessario quindi fare una virata di 180 gradi nei confronti della tradizione del Novecento. Il risultato di questa impostazione è una poesia che dice ciò che è difficile dire: il discorso poetico come spazio della riflessione astratta e che fa del tonosimbolismo il centro di gravità della nuova forma-poesia. In questa accezione, L’archivio delle bestemmie raccoglie i frutti del lavoro iniziato con Nuvole in agonia (1981) e proseguito con Il pan demonio (1994), Il rododendro (1999) e Il calvario delle gru (2000).

Tutta incentrata sulla rigida clausura dell’io lirico, la poesia di Roberto Bertoldo è in realtà una poesia emancipata, che ha preso congedo dal simbolismo ereditandone il legato testamentario; che ha saputo pensare la criticità della propria problematicità per aver fatto i conti con quella cultura critica che praticava il superamento dell’io lirico traendone tutte le conseguenze. La restaurazione della centralità del soggetto è l’aspetto più vistoso del discorso poetico bertoldiano. Bertoldo intuisce e comprende, con indubbia genialità, la necessità di riformulare una nuova poetica di tipo post-simbolistico nel quadro concettuale del postmoderno, comprende che soltanto attraversando criticamente il post-simbolismo si può attingere una poesia emancipata e culturalmente attrezzata sul piano metaforico, comprende che soltanto arretrando sulle posizioni di un consapevole modernismo si può uscire dalla palude dei cliché del minimalismo.

L’archivio delle bestemmie, già con il titolo ci introduce all’interno di quella problematica europea circa la non pronunciabilità della parola poetica che dal simbolismo e fino al post-simbolismo arriva intatta ai giorni nostri; la dichiarazione dell’autore posta ad inizio libro è quanto mai esplicita: «Per me la poesia è una forma di bestemmia, la più candida».  Si può parlare di «letteratura impura», fondata sul minor numero di stimoli diretti dell’«io» e sul più ampio ricorso alle proprietà intrinseche del linguaggio metaforico. La poesia intitolata «Ai sedicenti poeti» rappresenta una pietra miliare della presa di distanza nei confronti delle «parole da rotocalco» dei linguaggi poetici maggioritari:

.
Le vostre divine parole sono da rotocalco,
le mie, così blasfeme e plebee,
le affiggo sulle porte delle cattedrali.
 

bello le maniLa metafora nella poesia di Roberto Bertoldo si configura come parola impronunciabile, «bestemmia», pur se «la più candida», quale forma di eruzione sul piano del linguaggio poetico, effrazione dell’ordine linguistico accreditato, divenire manifesto della stazione temporale-esistenziale dell’«io» nel suo viaggio anacronistico attraverso i linguaggi poetici normativizzati. Il tragitto temporale si manifesta e si traduce in tragitto anacronistico dell’«io». L’«io» pronuncia un discorso poetico desueto e arcano, impenetrabile, itinerario di risoluzioni linguistiche eleganti e proterve, sistema combinatorio che ha il suo codice di espressione nel pentagramma armonico analogo a quello della musica. Una dis-armonia prestabilita, come forma di resistenza alla barbarie, è il compito che spetta al poeta. Secondo Valéry: le opere letterarie esigono molti prolegomeni: «esposizioni, descrizioni, preparazioni, che hanno come funzione: le une, di definire le componenti e le regole del gioco; le altre, di familiarizzare il lettore sconosciuto con la sensibilità dell’autore».[4]

Nella poesia di Bertoldo la temporalità linguistica è un tutt’uno con la temporalità esistenziale, è la manifestazione delle resistenze poste dal poeta alle condizioni di esistenza del discorso poetico; in altri termini, l’insieme delle possibilità di trasformazione del linguaggio poetico espressivo. Ovvero, la metafora bertoldiana si configura come soluzione linguistica di un tragitto anacronistico e irriconoscibile. L’evento linguistico è il capovolgimento del divenire, cioè appunto, l’inversione, l’aprirsi di qualcosa di chiuso mediante un capovolgimento. La metafora bertoldiana si configura così come un cobordismo, una realtà chiuso-aperta che i fisici-matematici individuano quale modalità di esistenza dell’universo. Ma che cosa è «chiuso» nella lingua? La chiusura della lingua è l’essere muti: l’indicibilità della parola ad aprirsi. La metafora bertoldiana è nient’altro che quell’apertura in cui la parola anacronistica si rivela nella estraniazione dell’immagine. Nel lampeggiare la metafora bertoldiana trova il suo dispiegamento come univocità assoluta: il Passato precipita nel Presente e la metafora si configura come cicatrice dell’essenza.

La lingua poetica è un reale dispiegato, prodotto d’astrazione dell’intenzione significante. La metafora bertoldiana è una cicatrice linguistica che prende le distanze dal reale reificato e feticizzato dei linguaggi non dispiegati alla cui latenza contemplativa corrisponde l’essere legati da un rapporto parassitario con la lingua relazionale. Là dove la lingua è ridotta a strumento di un rapporto contemplativo, c’è soltanto emulazione e apologia, tautologia e servitù. Attraverso la metafora il linguaggio poetico bertoldiano diventa comunicazione simbolica, ci rivela la sua essenza, diviene vivo e reale, libero da ogni rapporto pragmatico-didattico e utilitaristico dei discorsi del suasorio come avviene nell’epigonismo corrente degli orientamenti poetici che non hanno meditato su queste problematiche. Soltanto là dove non è dato rinvenire astuzia o scaltrezza la lingua ci manifesta tutta la sua bellezza e si dispiega. La poesia che segue, intitolata «Il cavallo di legno», è un esempio impareggiabile della procedura cinetica e metaforica, a scatole cinesi, dove una metafora è contenuta dentro l’altra, dove l’interno è contenuto nell’esterno, e viceversa, come negli esiti dei cobordismi della fisica contemporanea:

Striglio invano il cavallo a dondolo,
la schiena di legno s’impone,
così getto le redini e il ballo
che era la tua infamia.
Che dici quando ostenti la carola
dove si compie la polvere?
questa brace di tarli sotto la sella
nell’arcione della memoria
che vacilla e respira e sfoca?
Forse avrai il perdono della corte
perché sei l’esatta putredine
pulcritudine delle mie ossa.

Dove il brillante chiasmo finale intende sottolineare e sottintendere quell’interscambiabilità interno-esterno, quel particolare reale dispiegato che contraddistingue la metafora bertoldiana.

Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Ma a questo punto dobbiamo chiederci: la metafora è una cicatrice linguistica? E che cos’è la cicatrice linguistica? È ciò che resta dopo la combustione? È ciò che resta dopo l’infezione del tessuto linguistico? Sono le scorie e i reperti dell’eruzione linguistica, il magma eruttato e solidificatosi durante il processo del raffreddamento? Tutta la fenomenologia dei tonosimbolismi bertoldiani è legata alla problematica del simbolico nel tardo moderno, all’impossibilità della pronuncia della parola poetica, al carattere profondamente luttuoso che la pronuncia della parola poetica ritiene quale contrassegno del paradiso perduto della Parola (“Così, attraverso le cicatrici delle mie labbra/ sputi i tuoi baci dentro il foglio immune/ del mio palato. Non parlo.”). Quel paradiso perduto dell’essenza linguistica dove la lingua degli uomini è simile a quella lingua dei nati di domenica che intendono la lingua degli uccelli. Poesia dell’impossibilità del dispiegamento del Passato attraverso la cruna del Presente. Qui, l’istante della metafora è il lampeggiamento in cui passato e presente miracolosamente coincidono. E sprofondano. Ma dove? Qual è il luogo di quello sprofondare? – Ma è appunto in quel «miracolo» che si consuma l’impossibilità del discorso poetico di trovare dimora nel Presente del continuum storico. Quel continuum che si dà soltanto nella discontinuità, nella frattura. E il continuum della storia è, per la cronaca, la catastrofe annunciata, il lutto che attecchisce la parola poetica.  Il «lutto» della poesia bertoldiana  deriva dall’assunto per una poesia espressionista in derisoria frequentazione delle «parole da rotocalco». Stigma della poesia di Bertoldo, e suo inestimabile merito, è la consapevolezza del lutto che colpisce il discorso poetico dopo la fine del Novecento, consapevolezza che innalza la poesia di Roberto Bertoldo ai piani più alti della civiltà della fine del secolo. Più che consapevolezza della crisi, è presentimento dell’estinzione di una civiltà.

E la poesia si dà soltanto quale annuncio del Tramonto incipiente. Se non v’è più una vie antérieure o un Hinterwelt, non c’è più una lontananza celata nell’oblio, e la metafora non può    più essere una metafora del rammemorare, un’elegia del tempo perduto come accade in poeti di minore consapevolezza poetica. Più che poesia dell’oblio, quella di Roberto Bertoldo è dunque una poesia del presentimento e dell’espressione. Come un sensibilissimo sismografo essa annuncia e anticipa i sussulti e le eruzioni di futuri terremoti, intrisa com’è di attese tenute sui fili dell’alta tensione della purissima intenzionalità poetica. Ma essa è anche ancipite e claudicante, forclusa e dissonante, peristaltica e perimetrata come all’interno di un campo minato, ove le parole trascorrono come sentinelle armate di tutto punto sugli spalti degli endecasillabi:

Ti pongo sull’anulare la serpe d’oro

e sui capelli quella corona d’alghe
che improvvisò la regalità azzurra
e sulle labbra ti bacio con dieci schiocchi
mentre scendi le scale della sinfonia
che ti ha accolta.
E prendo la tua mano fredda, la respiro
e sento pure che ci sono giornate come questa
in cui la pelle non è pacifica.

roberto bertoldo

roberto bertoldo

La poiesis richiede un approccio ontologico-ermeneutico, una strategia di trasformazione degli elementi sensibili, affettivi, emotivi, di attanti astratti e concreti che suggeriscono  una molteplicità del detto e non-detto, un infittirsi dei richiami all’interno dei testi. Alle infinite interpretazioni possibili viene a sostituirsi un continuum infinito che tende alla finitudine dell’opera «contropelo al mondo» che continuerà, se il futuro verrà, in un tempo oltre il tempo.

I testi bertoldiani si pongono come un fraseggio, un rumore di foglie significanti di un bosco deciduo che continuamente trapassa nell’abisso sonoro della lingua, e qui sprofonda nel pozzo senza fondo della mediazione metaforica; dove la comunicazione è, al suo grado massimo, il trapasso, costantemente fluido, del comprendere e del comunicare. La poesia bertoldiana, con la sua fame d’essere, vuole comunicare qualcosa di non-comunicabile, di non irreggimentato nel circuito significazionista del salario corrente; non intende comunicare con le «parole da rotocalco», non ne sarebbe capace, arretrerebbe inorridita. Ciò che la poesia bertoldiana vorrebbe comunicare è il medium, è altro, l’immediatezza della Lingua, l’immediatezza di ciò che è immediatamente mediato.

Io sono stato un uccello nero
con le ali inchiodate e il becco
che tracciava mappe sulle cortecce.
La vita è un foglio a quadretti,
noi sappiamo che i corvi affamati,
dalle stoppie, ci recitano poesie.

*

Non ditemi che l’amore soffia sulle carte,
non c’è altro che possa imputarmi la vita.
Anche il popolo dorme, sulle sue ossa di frumento.
Il mio solo castello è questo,
ha pareti di sogno,
ma la sua mobilia si distingue
con la potenza del rovere.
Come dentro di me, dove ha posto
l’utensile della giustizia
che si nutre dell’amore assassino,
dei suoi soldati bastardi che lanciano sorrisi
con la loro luce indisposta.
Non ditemi questo! Io voglio risvegliare
l’orrore, voglio la carezza che mi dilegui
dalle labbra la morte, voglio sulle carte
il segno del rossetto e le spade.
Voglio le finestre nel mio castello
e il ponte levatoio e i cavalieri
con le lance in resta. Se l’amore soffia
c’è una bestemmia che lo denuncia
e spendo una notte per questa deriva.
  

                                            da L’archivio delle bestemmie

 

Scalzati dalla brina come poesie che si fanno
di gladioli e carta pesta, i bianchi peli sulla testa di ratto vecchio
a luccicare con la maiuscola dei germi di morte,
noi che combattiamo lucidati come stivali, testa di moro dico
e bavagli che ci fregano – perché abbiamo ormai le pupille
con coda di paglia, le orecchie ad acciuffare il filaccio
delle parole, e le labbra, le labbra hanno giuda come rossetto,
e i baci si posano sulla ceramica della condizione.
Vi abituereste al perdono di chi non ha regno, né altre budella
per vomitare la storia, né fili per collane e bracciali
da fare incetta di vermi – vi prostrereste alla vendetta?
 

                                            da Pergamena dei ribelli

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Chiaro esempio di poesia autorevole, che adotta uno stile accusatorio ben distante dalle le istanze di poesia che proclamano col megafono una presunta unità di soggetto e oggetto. Il discorso poetico bertoldiano tenta con tutte le forze, mediante l’impiego di tutti gli artifici tonosimbolici, di aderire alla significazione. L’inteso e il referente colti in un viluppo storico-concreto dato dalla metafora tonosimbolica. Al tempo stesso, quanto più la parola poetica si approssima all’inteso, tanto più essa si allontana dall’«io», vorrebbe dire altro da ciò che dice; in essa l’intenzione significante non si sposa con l’inteso. È una scrittura del sortilegio, dell’énchantement  che si nutre di una alchemica e personalissima simpatia tra i vocaboli, desueti ed ultronei, massimalisti e infingardi, anche sordidi, d’un lerciume morale, d’un lazzaretto della coscienza, una sorta di patto di mutua belligeranza tra la «cloaca» e l’empireo dei linguaggi normativizzati («Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati / come le note d’un pianoforte bizzarro / vogliamo che gli uomini amino la bestemmia…»). Ciò che resta in tutta la poesia bertoldiana è appunto il non-detto, l’indicibile, la «bestemmia» dei «ribelli», perché ciò che essa intende e sottintende e vuole dire è la lingua spuria dei «rotocalchi», la parola espressiva che designa la codardia e l’«infame» delle parole coreutiche («Voi la sentite respirare, sentite l’aria / di questa poesia di cloaca. Lo sappiamo. / Siete infami. Sappiamo la rendita delle vostre scarpe»). Colpita dal lutto della perdita del linguaggio edenico della parola diretta, la poesia di Bertoldo sa che non è più possibile scrivere una parola innocente. Ciò che indirizza il discorso poetico bertoldiano al tramandamento estetico è il suo espressionismo fonosimbolico.

Come il cane  nell’esempio citato da Gadamer che addenta la mano che indica in avanti lo scorrere del tempo, la poesia di Roberto Bertoldo ostinatamente addenta la mano dell’attimo storico, perché cessi di indicare al di là di se stesso in un rimando infinito. La metafora bertoldiana addenta il senso come il cane di Gadamer, ma quanto più lo lacera e lo afferra, tanto più esso le sfugge lasciandola famelica e sanguinante. La metafora bertoldiana tende alla metafora allusiva, alla metafora incompiuta, al superamento della metafora verso un’altra Lingua, una lingua  protoedenica  priva di metafore, fatta di soli nomi, di nomi numinosi. Ritengo siano sufficienti queste brevi considerazioni per comprendere l’importanza e la centralità della poesia di Roberto Bertoldo nel panorama contemporaneo, l’originalità di percorso che la contraddistingue, il suo essere profondamente militante, avversaria implacabile di ogni forma di adeguamento dell’arte alla società della circolazione delle merci linguistiche dell’evo mediatico.

Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura 1998 2° ed. Mimesis, Milano, 2011
Roberto Bertoldo Anarchismo senza anarchia Mimesis, Milano, 2009
Roberto Bertoldo Principi di fenomenognomica  Guerini e associati, Milano, 2003
Roberto Bertoldo Sui fondamenti dell’amore Guerini, Milano, 2006.
Roberto Bertoldo Il calvario delle gru Bordighera press, New York, 2000
Roberto Bertoldo L’archivio delle bestemmie Mimesis, Milano, 2006
Roberto Bertoldo Pergamena dei ribelli Joker, Novi Ligure, 2011

[1] R. Bertoldo Nullismo e letteratura Interlinea, Novara, 1998 2° ed. Mimesis, Milano, 2011 p. 147
[2] Ibidem, p.183
[3] R. Bertoldo op. cit. p. 85
[4] La cit. è da La creazione artistica (La création artistique), conferenza tenuta il 28 febbraio alla Société française de philosophie in Bulletin de la Société française de philosophie, gennaio 1928, raccolta in Vues, Paris, 1948. Si tratta di un testo non incluso nelle Ouvres. È stato tradotto in italiano e raccolto nel vol. antologico Paul Valéry, La caccia magica, a cura di M.T. Giaveri, Napoli, 1985 – cit. p. 35

 *Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea (2000-2013)Società Editrice Fiorentina, Firenze, pp. 148 € 14

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Roma,16 aprile ore 18 p.za Augusto Imperatore, 4 (sede della FUIS) Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa presentano la ANTOLOGIA DI POESIA “Il rumore delle parole. Poeti del Sud” Estratto (IV)  POESIE di Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro a cura di Giorgio Linguaglossa Roma, EdiLet, 2015 pp. 280 € 18

Antologia Il rumore delle parole (2)Roma,16 aprile ore 18 p.za Augusto Imperatore, 4 (sede della FUIS) Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa presentano la ANTOLOGIA DI POESIA “Il rumore delle parole. Poeti del Sud” EdiLet, pagg. 280 € 18

Brodskij una volta scrisse che la longitudine e la latitudine cambiano la lingua. Di più, la longitudine e la latitudine cambiano anche il linguaggio poetico; in esso si verificano delle interferenze, dei disturbi, delle influenze; i sostrati storici delle varie civiltà che si sono depositate in un territorio sedimentano, fermentano, e affiorano, prima o poi, nella lingua di relazione e nel linguaggio poetico. Ciò che si credeva «periferia» diventa «centro», e viceversa. La storia si diverte spesso a riposizionare le tessere del puzzle secondo un ordine imprevedibile e inimmaginabile agli inizi. E ciò è avvertibile anche in questa antologia intergenerazionale nella quale c’è una vasta gamma di ricerche stilistiche nella sostanza molto diverse da quelle che si perseguono a nord del Rubicone o al centro del Lazio. Un elemento questo da non sotto valutare che ha una sola spiegazione: la definitiva emancipazione della poesia del Sud da quella che si fabbrica nelle fucine di Roma e di Milano. La poesia del Sud non va a prendere il tè in alcuna contrada esotica, e questo è un buon risultato, non va più a rimorchio della poesia del Nord, anzi, possiamo affermare che la poesia del Sud si è completamente emancipata, ha un passo sicuro, procede in varie direzioni contemporaneamente, ricerca una propria identità. È questa la ragione fondante che può giustificare una antologia della poesia del Sud: la sua centripeta vitalità, il suo andare dentro il linguaggio poetico a far luogo dalla periferia. La diacronia del linguaggio poetico è racchiusa nel moto del pendolo, ad un periodo di espansione e di egemonia del Nord e del Centro subentra un periodo di riflusso e di rilancio della poesia del Sud.

    Gran parte anche della migliore produzione poetica delle ultime generazioni sembra scrivere poesia come se fosse  dentro una «vacanza» della ragione, della Lingua, ma la lingua ha una sua ferrea legislazione fatta di regole sintattiche e semantiche che nessuno può infrangere. Spesso trovo  incomprensibili certi libri di poesia (sicuramente per miei limiti) ma anche perché ormai oggi ciascuno scrive per se stesso, ciascuno si fabbrica in privato un proprio idioletto senza curarsi di quel dialetto della comunità nazionale qual è diventato l’italiano letterario (per non parlare del fenomeno dei dialettismi poetici che sorgono un po’ come funghi in ogni parte della penisola quale epifenomeno del novecentismo tardo novecentesco). La grandissima parte dei più giovani pensa alla poesia come a un affare privato che più privato non si può, che anzi debba essere un privato privatissimo, la privatizzazione del privato, talché la lingua in cui quel privato si esprime ne è il corrispondente linguistico: di qui la «privatizzazione» della lingua in idioletto. È chiaro che in queste situazioni viene meno la necessità di un ermeneuta, il quale non ha più alcuna ragion d’essere. Per fortuna, in questa Antologia mi sembra di notare una inversione di tendenza, ci sono chiari esempi di una poesia che va verso la pubblicizzazione del privato, in cui il privato si allontana dal quotidiano e il quotidiano dal quotidiano presuntivamente posto. E questo è un segnale molto positivo.

italia tripartita Per via del fatto che la poesia si è prosasticizzata è invalso un equivoco: che il limen divisorio tra la poesia e la prosa sia effimero, equivoco; ma gli autori di questa Antologia dimostrano quantomeno di volerlo sciogliere. C’è un nodo, se non si scioglie questo nodo non sarà possibile scrivere una poesia adulta, emancipata. Così, la poesia contemporanea rischia di stare in mezzo al guado, di nuotare in una forma ibrida, nuotare con i salvagente. Basterebbe eliminare gli a-capo e riscrivere tutto in prosa per accorgersi che spesso il testo ne guadagnerebbe in linearità sintattica e alla lettura. E allora, chiedo: perché scrivere in forma-poesia cose che potrebbero suonare meglio nella forma della prosa?; è questo il nodo che la poesia italiana contemporanea si trova a dover sciogliere. Il verso è una «entità» che bisogna provare e riprovare; innanzitutto, come prescriveva Fortini, occorre provare «la resistenza dei materiali», intendendo dire che il verso poetico è un qualcosa che offre una «resistenza» alla lettura (e alla scrittura), come la resistenza che comporta un materiale qualsiasi quando viene attraversato dalla corrente elettrica: in mancanza di questa resistenza il verso non è più un verso ma semplicemente (e rispettabilmente) prosa.

   Direi che per la poesia degli autori antologizzati sia prioritario l’atto della narratività. La poesia si costruisce come una riflessione su un oggetto dove il momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della sintesi. Riflessione e meta riflessione, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme. Una procedura che predilige lo scorrimento (a secondo della necessità della composizione) della narratività è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra gli oggetti, tra le loro qualità e le loro alterità, ovvero, tra le parole. Una strada duale, sostantivale e relazionale, tra le parole e, quindi, tra i significati delle parole e gli oggetti referenziati dalle parole. Questo tipo di procedura non si differenzia da quella perseguita dalle scritture iperrealiste in auge in Occidente, ricade pur sempre nel demanio della narratività.

Giorgio Linguaglossa foto da tessera ministeriale

Narratività ed iperrealismo sembrano andare a braccetto: molti autori di questa antologia prediligono l’ingrandimento progressivo delle unità verbali prese ciascuna per sé collegate insieme mediante nessi sintattici, congiunzioni e/o particelle avversative, ricostituendo un periodare intuitivo (nel senso dell’immediatezza del linguaggio del quotidiano) al fine di rafforzare gli elementi significanti del linguaggio; oppure operano attraverso l’isolamento e l’ingrandimento di singole parole-immagini. Procedura già anticipata da un quarantennio da un film come Blow up di Antonioni, dove un fotografo, che ha scattato numerose fotografie in un parco, rientra nel proprio studio, e qui viviseziona le immagini attraverso ingrandimenti successivi e arriva ad identificare, stesa dietro un albero, una forma supina: un uomo ucciso da una mano armata di rivoltella che, in altra parte dell’ingrandimento, appare tra il fogliame di una siepe. Ci sono autori che tentano di ripristinare il giro frastico su un’orma endecasillabica, altri fingono un endecasillabo che non c’è, altri ancora derubricano la questione. È chiaro che qualcosa è cambiato, c’è un cambio di passo: il passato sembra essersi allontanato, molto di ciò che, nel bene e nel male, doveva cadere è caduto. È crollato non solo il paradigma ma l’idea stessa del paradigma: il canone si è dissolto in mini-canoni, è stato falsificato e clonato e moltiplicato in un brodo di coltura che, paradossalmente, non è escluso che possa dare i suoi frutti nell’imminente presente che si chiama futuro. È anche questa una delle ragioni di una antologia della poesia del Sud.

(dalla Prefazione di Giorgio Linguaglossa)

Silvana Palazzo

Silvana Palazzo

Silvana Palazzo

Appena entro in quella piccola e oscura stanza
ne esco subito per cercare il sole.
Sulla porta vedo l’ombra di mia madre
che mi prende per mano per ricondurmi là;
l’altra di me resta chiusa dentro la stanza:
non avverte alcun richiamo, che invece io
mi porto dietro per andare lontano.
Fu così che lasciai quella fredda mano
e mi allontanai piano dalla stanza
e da quella presenza

*

Ricordo il colore dei suoi vestiti
stesi al sole. Erano grandi le coppe
dei seni a cui da bambina m’abbeveravo.
Il bianco del latte, l’odore di pelle,
il rifugio più puro in un mondo sicuro.

*

Vorrei uscire da me stessa
per vedere come sono.

*

Nessuno può togliermi i ricordi,
tranne la memoria.

*

È il dolore che mi chiama
e non io lui. Mi scivola addosso
senza ch’io me ne accorga e
quasi come una tempesta
entra dritto nella mia testa.
*

Ti ho riposto in un cassetto
come un oggetto rotto
anche se sembrava indistruttibile.
Spero solo che tu lì stia abbastanza stretto
sì da soffocare dentro quel cassetto
maledetto.
*

La rosa pervinca è rinata.
Eppure fu l’anno scorso che la piantai,
sopravvissuta sei all’invernata
ed oggi come per incanto sei sbocciata.

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

Marisa Papa Ruggiero

UN INTENSO VENIRE
Dentro ogni morte, viva

Il papiro conserva la mente del fiume
e il fiume conosce la lingua dei voli,
dei fibrosi pilastri regnanti
sul fiume
la turgida lingua narrata al germoglio
che s’alza nell’aria
e lecca i lobi del sole
che spinge da dentro il suo verde
la sua anima sposa del fiume

ed è qui sulla pietra a seccare
srotolando una mappa non sua
l’urlo imploso nel fango, il coltello
la pesatura sulfurea della fame e la sete
intesa dal giunco
dall’airone che danza sull’acqua
e rammenta
il monsone e i vascelli di fibra
la calce arsa piegare la luce
il presagio
affidato alla mano dov’è scritta
la storia
Dalle lettere sguscia
lo scriba recando una torcia
e scruta nel fondo
e scruta nel fondo del fiume

L’occhio è rizoma ligneo

Nella sabbia una sillaba aurea
resiste alla sete
A spinte esatte toccarti dentro
al centro di parola pompare ossigeno
sulle corde vocali
leccarti il respiro e poi aspirarlo

La corrente risale al delirio del delta
che continua a spostarsi
Il già avvenuto è materia-voce che ritorna
dentro un altro battito, tu
Migrante, esisti nel disegno
che ti ritrae in sovrimpressione
a pelo d’acqua
qui sei il canto al sole dell’Arpista
e la forma del suono tra le dita
sei Anubis, l’imbalsamatore sacro
che sa come far combaciare
il vuoto alla sua carne

sa come annodare l’occhio a tutti
i cloni di me vissuti
a tutte le assenze abitate
nella mia carne, intatte

.
Una ferita interna, ma visibile

Il papiro è la mappa inchiostrata viva
e l’occhio che la guarda
Osserva se stesso, il Sosia,
nella forma di un volto arboreo
disceso nel fiume
Nella ferita osserva
il cifrato del seme, il punto
della forma più centrale
Nella gola dell’Assetato scioglie
isotopi del quarzo,
nel Superstite muto che strofina
pietre e sale per farne parole
percorrendo l’intera lingua
del fiume
più giù dei cento gradini, e ancora cento
quanti i foglietti cementificati
del calendario in tasca
aprendo tutti gli strati
come un passaggio di foresta
più giù del nervo stellare
alle aeree radici fossili sospese sul nulla
alle infinite dinastie alfabetiche
già accadute
– che nuovamente accadono –
alle millenarie catene arboree
delle nostre arterie

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Giulia Perroni

[…]

Vieni alla notte regina i miei sforzi disperdono i cancelli
il focolare semina al mare lucciole di sguardi, Semiramidi nude
orchestre esangui di un più felice ascolto, pungiglione dell’aria si discinge
la favola degli occhi di chimera abbrutita per forti desideri che si intoppano al grido.
Tu sei bianco veliero il resto notte come dal fango di una notte chiara il duello maestoso
ci ripara e fa dei sogni ortografie pungenti, seminari nascosti, derisorie celebrità degli angeli divisi
dalle piccole lune che sui fiori lanciano tare, gemme di mestieri, turlupinanti semi sconosciuti:
li aspetta nel riflesso un cavaliere, rematore di dubbi e di latrine, splendido quanto basta
un falconiere che ha rami di viaggio

La mia follìa protesta e gioca a dadi tutte le mura uguali alla mia barca, nel firmamento quando il cielo esangue muta in pesce la luna

Amici, sui selciati c’è il silenzio che suscitò le brame di una vita ora che il vento in punta di coltello armeggia con il buio

I poveretti ora che il freddo chiama hanno un Natale infisso nelle ossa il male è tutto calvo e una campana fiuta il vento nel fosso

Il gemito dei fiori è rivolto laggiù nella cappella? Se un uomo muore solo per le strade che dice il cielo blu delle formelle? Avrà rimorsi il tenue scalpellino che frantumò le dalie e gli occhi rossi di un tremendo messaggio pellegrino a ridosso dei lupi?

I fratelli all’addiaccio hanno speranza che il Natale risusciti preghiera o una coperta gialla nella stanza o un fuoco in un cerino battagliero?

La volta è conquistata da smeraldi e il cielo ha un dito blu nelle formelle, il tempio solitudini di smalto nei forzieri improvvisi

Gesù, apri le braccia!

Gino Rago

Gino Rago

Gino Rago

da L’arte del commiato (2005)
Le mani (I)

Le mani… Serve ai remi
ali hanno messo a navi
dalle rosse prore; a terra
alla bipenne davano la spinta decisiva
come al dardo
nel cuore smanioso d’una cerva.
Titillano da sempre
l’essenza della creta, s’infilano
nel sangue per la vita, carezzano
criniere, incidono sui tronchi
i segni senza tempo
dell’amore. Nell’orto degli umani
spasimi – vergogna dell’uomo
che piega l’altro uomo – invocavano
unguenti ai fili spinati, si aggrappavano
a ferri di galera per un acino d’aria
o un grappolo di luce, attendevano
il samaritano, reggevano corpi fenduti,
svenati da pallottole o da lame. Le mani…
La vita a me le ha chiuse spesso a pugni
per un’idea casta di libertà completa,
poi le ho intrecciate a preghiera
verso i troni d ’oro delle aurore
prima d’affondarle
nel pozzo senza fondo dei misteri.

da L’arte del commiato (2005)

Le mani (II)

Oggi, nell’aria ionizzata
sul mare di memorie del color
dell’ambra, disegno parabole fiacche,
a malapena qualche curva breve.
Vertigini di escluso… Amai –
amo – pastore delle balze d’oleandri
su alvei di sputi, le tue mani a conca
nella grazia verde d’una ciba.
Nessuna mano mai eguaglierà la tua
quando fa figliare
la capra nella sete
in un letto di polveri e letame.
Ricordi miei bassi, pezzi
d’eternità, epifanie di fiabe sconosciute,
molecole solari, schegge
d’un angelo terragno senza voce.
Le mani… Le vostre, mie creature
a questo mondo offerte senza veli,
costi quel che costi non sporcatele mai:
siano sempre bianche
come spaccature d’aprile nella neve.

Nuvole stanche di cielo


Lascia che i tigli giochino
con l’acqua della grazia
o con la sabbia – ferma –
nella tua clessidra:
hai conosciuto le guglie
di Chartres, le cicogne
a Colonia, i gabbiani
di Ostenda, le nuvole
stanche di cielo
nel viaggio a caderti nell’anima.
Non contare i cerchi
Concentrici del tronco:
le nebbie normanne delle falaises
t’hanno riavvolta
nell’eternità. In te respira
la luna – scudo, bussola, moneta
sul traghetto estremo del poeta –
e sei nel mito
giacché tu sola sai la legge del mare,
del caso, della necessità.

Lina Salvi

Lina Salvi

Lina Salvi

Non ho voglia del deserto
della sua violenza calma
cavalcate ai margini del cielo,
nel deserto già ci sono
ahlan wa salan (*),
nel deserto popolato di uomini
buie città, annuvolate,
assediate di ogni specie animale,
alberi con rami tondi,
bocche infuocate.
Del viaggio nella tundra, nel polare,
che dico? Se non quel volteggiare
in aria-terra,affondare
il piede in una zolla
del viaggiatore la sua ombra
così lunga, così distante.

(*) saluto di benvenuto

*
Del deserto non ha voglia
la signorina dolce-morte,
così distante, così vicina,
dissimula un pungolo del sangue,
quel sabato mattina sul monte,
all’alba-tramonto a precipizio,
sul sentiero gelato, sul Jebel Ram.
Si raccolgono del bosco
alcune spore, rami secchi,
scavati gusci, vermi, misere
forme di sopravvivenza, esistenza
del nero adamantino.

*

Quel sonno del deserto rallegra,
dove l’Asia incontra l’Africa
labirinto di montagne e canyon
non la crepa nel muro,
fuga del Dio salvato, sabbie
rosa e sorgenti d’acqua,
qualunque cosa non ha verso,
qualunque autunno non più
albero, ombra, terra
iniziali di argilla, – pietra
sgretolate le gambe molli
qualunque intreccio possibile,
salviamoci dalla distanza, rifugio
dal sorriso giudice o sbirro,
dall’ incudine del sole.

*

Incudine del sole pennellate
di giallo nel deserto dell’antichità,
dissuaso i popoli del Wadi Ram,
a vuoto giro sulle dune, valli
incrociate, fauna selvatica,
coniglio semplicemente acquattato –
uomini – chiusi senza rifugio,
schiavi sulla punta dell’altipiano,
del corpo che non mente distanze
dal tre, dal bacio incrociato,
distanziato, del paesaggio,
passaggio a gesti più laterali,
impronta di un Dio selvatico.

daniele santoro

daniele santoro

Daniele Santoro
Dalla silloge inedita Triumphus feritatis

Clinia il pitagorico ha un metodo infallibile per vincere l’ira (Ateneo, XIV, 624A)

Perde le staffe raramente Clinia
ma se lo smuove l’ira (può accadere)
come la vince lui non c’è nessuno.
È un saggio dopotutto
sa come si controllano gli istinti.

Afferra la sua lira e suona,
suona finché non gli si calmi l’ira
finisce addirittura a volte si commuova
per come è strappalacrime la melodia.

.
Il “trionfo” di Giugurta

Per mezza Roma, portato in pompa magna,
il Re-Spauracchio lo hanno vestito a festa
peggio di un baldraccone per come l’han conciato
e il popolo non si è risparmiato negli applausi
alla sua apparizione, anzi l’ha accompagnato
in processione
e con che par-te-ci-pa-zio-ne!

Poi che fu giunto a sera nel carcere Tulliano, gli aguzzini
gli hanno mozzato i lobi delle orecchie
a furia di scippargli gli orecchini
gli hanno strappato gli abiti di dosso
e pezze per i piedi ne hanno fatto,
un calcio nel sedere e lo hanno chiuso
nudo Giugurta
in gabbia a scatenar la rabbia a dar di matto.

La durò poco in fondo, presto uscì da morto
Giugurta lo scannammo come si scanna il porco.

.
Catone il Censore, ostile all’introduzione a Roma della cultura greca, rimbrotta il figlio Marco che ha osato menzionargli un trattato di prescrizioni mediche del greco Ippocrate (Plut., Cat. 23, 5)

Quale cultura greca, figlio mio, quale trattato
medico di Ippocrate, fammilpiacere!
L’ho scritto io un trattato bello e pronto a toglierti
ogni giorno il medico d’intorno se lo avessi letto!

Che? forse quando la malattia ti ci ha costretto a letto
non t’abbia io curato a te, alla mamma e a tutti i familiari?
e bada non vi ho messo mai a digiuno
e sì che avrei dovuto Marcolino, che mi fai il sapientino,
per questo è che mi arrabbio!

Vedi, bambino mio, Ippocrate al tuo babbo gli fa un baffo.
Anch’io per ogni acciacco ho le mie cure
e sono assai migliori delle sue:
una fettina d’anatra non manca o di piccione
non senza un beverone di verdure è la mia guarigione!

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Bertolt Brecht e Thomas Stearns Eliot DUE POETI A CONFRONTO Commento di Alfonso Berardinelli con alcune poesie degli Autori

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

.da il Foglio mercoledì, 19 settembre 2014

Nello stesso giorno, il 2 gennaio scorso, sono apparsi su “Avvenire” un articolo di Fofi in memoria e lode di Eliot (morto nel 1965) e su “Repubblica” una pagina di Asor Rosa in lode e memoria di Brecht. Due anziani e inconciliabili guru della sinistra culturale ripensano al loro passato di lettori ventenni che scoprono per caso due dei più importanti, influenti e discussi poeti del Novecento. Due maestri anche loro inconciliabili della letteratura del secolo scorso: un metafisico cristiano sulle orme di Dante e un cinico dialettico marxista attratto dalla saggezza taoista. Anche a me, per puro caso, nelle settimane precedenti era accaduto di trafficare con Eliot e Brecht, rinnovando la mia simpatia e curiosità per il primo e la mia indifferenza o antipatia (tardive: arrivate a quasi quarant’anni) per il secondo.

Quando è ormai chiaro che la cultura letteraria di oggi ha ben poco in comune con quella novecentesca, viene in mente il Novecento. Parlo di letteratura e non di poesia perché la poesia è, nel suo insieme (critica compresa), precipitata così in basso nella banalità e nell’inconsapevolezza culturale da impedire qualunque confronto con i due autori ricordati. Il 90 per cento della poesia attuale (non solo quella italiana) è soprattutto stupida: e lo è nel modo più evidente quando si sforza di esibire un pensiero, dato che un pensiero stupido è più ridicolmente tale di qualunque non-pensiero.

Bertolt Breht  LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

Eliot e Brecht sono stati due eccezionali esemplari di poeta intelligente. Pienamente consapevoli, fin troppo, della situazione in cui scrivevano, avevano entrambi una visione del passato storico e del presente sociale così lucida da rischiare l’inaridimento inventivo. Oltre alla spiccata attitudine sia filosofica che realistica, avevano un forte senso dell’umorismo, della parodia e del paradosso, sentivano molto il pubblico e anche per questo hanno scritto opere teatrali. Come poeti intellettualistici e teatrali non sono stati i soli nel Novecento. Filosofici erano anche Antonio Machado e Paul Valéry, teatrali anche Majakovskij e soprattutto García Lorca. La cosiddetta “poesia monologica”, tendente alla pura musicalità e alle fascinazioni associative, usciva così da se stessa acquistando un’energia costruttiva precedentemente quasi impensabile, diventando dialettica e dialogica. Il solo grande erede sia di Eliot che di Brecht sarà Wystan H. Auden, il cui acume analitico è spinto a estremi di sottigliezza e la cui potenza oratoria, allegorica, satirica potrebbe superare perfino quella dei suoi maestri, se non fosse minacciata da una labirintica inafferrabilità di allusioni.

L’eliotiana “The Waste Land” resta l’opera poetica più classica del Novecento. Il chiacchiericcio così domestico e un po’ metafisico di Beckett è già previsto e praticato da Eliot in alcuni inserti dialogati del suo poemetto. Anche in Eliot “En attendant Godot” si gioca a scacchi, si prende il tè, noiosamente ci si lamenta e ci si ubriaca fino a notte fonda. La storia umana non è una marcia trionfale ma, dopo la guerra 1914-’18, è un cumulo di rovine. Il mondo è in frantumi, non si riesce più a connettere niente, l’edificio della civiltà è sconnesso. Nella sua logica di costruzione, The Waste Land è una confutazione in atto della forma-romanzo, della sua tecnica e fiducia nella possibilità di connettere l’eterogeneo (l’“only connect” di E. M. Forster). Se la vita sociale nasce, sopravvive e si perpetua grazie alle sue connessioni istituzionali, comunicative, comunitarie e abitudinarie, quando le connessioni saltano prevale il caos e la conseguente impossibilità di capire.

Il mondo di Eliot è diviso fra mistica e ottusità, comico e sublime, desolazione e redenzione. In questo che è stato il maggiore pedagogo letterario-morale della cultura anglosassone nell’ultimo secolo, la società borghese appare senza speranza: sola salvezza sarebbe il ritorno a una società cristiana, poiché il tempo storico e biografico acquista senso soltanto grazie a ciò che lo trascende. Anche i re Magi, il cui viaggio Eliot racconta in una delle sue poesie più note, vanno incontro a una nascita che per loro, per ciò che erano prima, è una forma di morte: “Fu un freddo inverno per noi, / Proprio il tempo peggiore dell’anno / Per un viaggio, per un lungo viaggio come questo: / Le strade erano fangose e la stagione rigida, / Nel cuore dell’inverno. (…) Questo considerate / Questo: ci trascinammo per tutta quella strada / Per una Nascita o per una Morte?”.

Bertolt Brecht

Bertolt Brecht

Brecht lo lessi e lo rilessi (il suo teatro però mi ha sempre annoiato), poesie, aforismi, raccontini e teorie estetico-politiche, perché prima avevo letto Fortini, che di Brecht marxista aveva fatto una guida. Le poesie che preferivo però erano le prime, quelle degli anni Venti, o le ultimissime, del tutto disincantate. Ma qualcuna delle “Storielle del signor Keuner”, suo alter ego, le ricordo e le apprezzo ancora. Soprattutto due, quella sul rapporto tra forma e contenuto in arte e quella sul rapporto tra filosofia e comportamento quotidiano. La prima racconta di un giardiniere incaricato di arrotondare una pianta di alloro. Taglia di qua e taglia di là, la forma sferica non sembra mai perfetta e l’alloro diventa insignificante: “Bene, questa è la sfera, ma dov’è l’alloro?”. E’ una storiella che usai contro gli esteti. La seconda contro i marxisti anni Sessanta-Settanta e anche in polemica con Fortini: “Un professore di Filosofia andò dal signor K. a raccontargli della sua saggezza. Dopo una pausa il signor K. gli disse: – Tu siedi scomodamente, tu parli scomodamente, tu pensi scomodamente – . Il professore di filosofia andando in collera disse: – Non è su di me che volevo sapere qualcosa ma sul contenuto di quanto ho detto. – Non ha contenuto, – disse il signor K. – Ti vedo procedere goffamente e procedendo non raggiungi una meta. Tu parli in modo oscuro e dalle tue parole non proviene alcuna luce. Osservando il tuo comportamento, la tua meta non mi interessa”.

T.S. Eliot

T.S. Eliot

Thomas Stearns Eliot

I
Il seppellimento dei morti

Aprile è il piú crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
L’inverno ci tenne caldi, coprendo
La terra di neve obliosa, nutrendo
Grama vita con tuberi secchi.
L’estate ci sorprese, piombando sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia; ci fermammo nel colonnato,
E avanzammo nel sole, nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo per un’ora.
Bin gar keine Russin, stamm’aus Litauen, echt deutsch.
E da bimbi, quando si stava dall’arciduca
Mio cugino, lui mi condusse in slitta
E io presi uno spavento. Mi disse: Marie,
Marie, tienti forte. E giú scivolammo.
Sulle montagne ci si sente liberi.
Io leggo quasi tutta la notte, e d’inverno me ne vo nel Sud.
(…)

(da La terra desolata, 1926 trad. di Mario Praz)

I
The Burial of the Dead

April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keineRussin, stamm’aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the arch-duke’s,
My cousin’s, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.
(…)

T.S. Eliot

Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock
« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse.

Ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo»
(Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVII, 61-66)
.
Andiamo dunque, tu ed io,
Mentre la sera è distesa sul cielo
Come paziente eterizzato sul tavolo;
Andiamo, per certe semideserte strade,
Tra mormoranti recessi
Di notti agitate in modesti piccoli alberghi
E ristoranti cosparsi di segatura e gusci d’ostriche:
Strade che si allungano come tedioso argomento
D’insidiosa intenzione
Per condurti a una domanda che opprime…
Oh no, non chiedere “Cos’è?”
Andiamo a fare la nostra visita.

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

La gialla nebbia che sfrega la schiena sui vetri della finestra,
Il fumo giallo che sfrega il muso sui vetri della finestra
La sua lingua ha leccato negli angoli della sera,
Ha indugiato sulle pozze formate negli scarichi,
S’è lasciato cadere sul dorso la fuliggine dei camini,
E’ scivolato sul terrazzo, ha fatto un balzo improvviso,
E vedendo che era una dolce sera di ottobre,
S’è arrotolato attorno alla casa e si è assopito.
E per la verità avrà tempo
Il giallo fumo che scorre lungo la strada
Per sfregare il dorso sui vetri della finestra;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per preparare un volto a incontrare i volti che tu incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutti i lavori e giorni di mani
Che sollevano e versano una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un toast e un tè.

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

E per la verità ci sarà tempo
Per chiedersi “Oso io?” e, “Oso io?”
Il tempo per voltarsi e scendere le scale,
Con una macchia di calvizie in mezzo ai miei capelli –
(Essi diranno: “I suoi capelli diventano più radi!”)
La mia giacca, il mio rigido colletto sotto il mento,
La mia cravatta ricca e modesta, ma fissata con un semplice spillo –
(Essi diranno: “Ha le braccia e le gambe così sottili!”)
Oso io
Disturbare l’universo?
In un minuto c’è il tempo
Per decisioni e revisioni che un minuto cambierà.

Perché le ho già conosciute tutte, proprio tutte –
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho versato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci morenti con un morente tono
A di sotto della musica da una stanza più lontana.
Perciò come dovrei presumere?

E io ho già conosciuto gli occhi, proprio tutti –
Gli occhi che ti guardano in una frase formulata,
E quando io sono formulato, confitto con lo spillo,
Quando sono inchiodato e mi dimeno sul muro,
Allora come dovrei cominciare
A sputar fuori le cicche dei miei giorni e modi?
E io ho già conosciuto le braccia, proprio tutte –
Le braccia ingioiellate e bianche
(Ma alla luce della lampada si vede una peluria bruna!)
E’ il profumo di un vestito
Che mi rende così digressivo?
Le braccia posate sul tavolo, o avvolte in uno scialle.
Dunque dovrei presumere?
E come dovrei cominciare?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dirò che ho percorso all’imbrunire strette strade
E ho guardato il fumo che usciva dalle pipe
Di uomini soli in camicia, alle finestre affacciati?…

Dovrei essere un paio di artigli rapaci
Che fuggono sul fondo di mari silenziosi.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E il pomeriggio, la sera, dorme così sereno!
Lisciato da lunghe dita,
Addormentato…stanco…oppure esso finge,
Steso sul pavimento accanto a te e a me.
Dovrei io, dopo il tè, il dolce e il gelato,
Avere la forza di superare il momento della sua crisi?
Ma benché io abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
Benché io abbia visto la mia testa (un po’ calva) posata su un piatto,
Io non sono un profeta – e non c’è niente di grande;
Io ho visto per un attimo il lampo della mia grandezza,
E ho visto l’eterno Valletto porgermi il soprabito, e lo sbuffo
E a farla breve, ho avuto paura.

E varrebbe la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata, il tè,
Tra la porcellana, tra il parlare un po’ di te e di me,
Varrebbe la pena,
Ignorare la questione con un sorriso,
Comprimere l’universo in una palla
E rotolarla verso una domanda opprimente,
Dire: “Io sono Lazzaro, vengo dai morti,
Ritorno per dirvi tutto, io vi dirò tutto” –
Se qualcuno, sistemandole il cuscino sotto la testa,
Dicesse: “Non è affatto ciò che intendevo.
Non è affatto questo.”

E varrebbe la pena, dopo tutto,
Varrebbe la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade irrorate,
Dopo i romanzi, la tazze di tè, dopo le gonne strascicate –
E ciò, e assai di più? –
E’ impossibile dire proprio cosa intendo!
Ma se una lanterna magica proiettasse i nervi sullo schermo:
Varrebbe la pena
Se qualcuno, sistemando un cuscino o gettando via uno scialle,
E girandosi verso la finestra dicesse:
“Non è affatto questo,
Non è affatto ciò che intendevo.”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

No! Io non sono il Principe Amleto, né voglio esserlo;
Io sono uno del seguito, uno che
Ingrosserà il corteo, farà una scena o due,
Consiglierà il principe; senza dubbio, un facile strumento,
Rispettoso, felice di essere d’aiuto,
Politico, cauto e meticoloso;
Pieno di massime elevate, ma un po’ ottuso;
A volte, per la verità, quasi ridicolo –
A volte, quasi Giullare.

Sto invecchiando…Sto invecchiando…
Rimboccherò i risvolti dei pantaloni.

Dividerò in due i capelli? Oserò mangiare una pesca?
Indosserò pantaloni di flanella bianca, e me ne andrò sulla spiaggia.
Ho sentito le sirene cantare, una ad una.

Non credo che canteranno per me.

Le ho viste cavalcare le onde marine
Pettinando i bianchi capelli delle onde risoffiate
Quando il vento soffia l’acqua bianca e nera.

Abbiamo girellato nella sale del mare
Inghirlandati dalle sirene con alghe rosse e brune
Finché voci umane ci sveglieranno, e noi annegheremo.

(Versione di Paolo Statuti)

Bertolt Brecht Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. e fui contento perchè rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. e stetti zitto perchè mi stavano ...

Bertolt Brecht Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. e fui contento perchè rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. e stetti zitto perchè mi stavano …

Bertolt Brecht

«chi parla è il rifugiato, lo scrittore politico in fuga; il giovane ladro si disegna allora sullo sfondo di una catastrofe universale con la eleganza e l’allegria di un angelo, con una morale non dissimile da quella di Laotse, fondata sulla invincibilità del povero, sulla sua irresistibile libertà segreta. Così il messaggio di morte che il ladro apporta è anche il segno di speranza positiva; perché «vince l’acqua docile / a lungo andare, la pietra tenace». (F.F.)

(Franco Fortini da Introduzione a Poesie di Svendborg Einaudi, 1976)

.
Il ladro di ciliege

Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,
mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.
Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino –
c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,
e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi
mi fece cenno col capo, a due mani
passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che già ero tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.

.
Mio fratello aviatore

Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.

Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.

E lo spazio che si è conquistato
sta sulla Sierra di Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.

.
Generale, il tuo carro armato è una macchina potente

.

Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.

Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido di una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.

Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.

.
Leggo della battaglia di carri armati

Tu figlio del tintore di Lech che al gioco delle biglie
con me ti misurasti in anni ormai passati
dove sei nella polvere dei cingoli
che per le belle Fiandre ora discendono?

La grassa bomba su Calais caduta,
figlio del tessitore della filanda, eri tu?
O figlio del fornaio del mio mondo d’infanzia
è per te che urla in sangue la Champagne?

.
Quelli che stanno in alto

Si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.

I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.

.
Non ti ho mai amata tanto

Non ti ho mai amata tanto, ma soeur,
come quando ti ho lasciata in quel tramonto.
Il bosco m’inghiottì, il bosco azzurro, ma soeur,
sopra stavano sempre le pallide costellazioni dell’Occidente.

Non risi neppure un poco, per niente, ma soeur,
io che per gioco andavo incontro a oscuro destino –
mentre i volti dietro di me lentamente
sbiadivano nella sera del bosco azzurro.

Tutto era bello in questa sera unica, ma soeur,
non fu mai così dopo nè prima –
certo: ora mi restavano solo i grandi uccelli
che a sera, nel cielo oscuro, hanno fame.

.
Il fumo

La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!
Anno per anno

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CINQUE POESIE INEDITE di Francesco De Girolamo SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

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L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Herbert List

Herbert List

Francesco De Girolamo è nato a Taranto nel 1957 ma vive da molti anni a Roma, dove, oltre che di poesia, si è occupato di teatro, avendo curato la regia di diversi spettacoli, tra cui: “Le sette maschere” ispirato a Kahlil Gibran (1992) ed “Il piacere di dirsi addio” da Jules Renard (1996).
Ha pubblicato le raccolte poetiche: Piccolo libro da guanciale (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; La lingua degli angeli (Edizioni del Leone, 1997); Nel nome dell’ombra (Ibiskos Editrice, 1998), con una nota critica di Gino Scartaghiande; La radice e l’ala (Edizioni del Leone, 2000), con prefazione di Elio Pecora; Fruscio d’assenza – Haiku della quinta stagione – (Gazebo Libri, 2009); e Paradigma (LietoColle, 2010), con introduzione di Giorgio Linguaglossa.
E’ presente nelle antologie: Poesia dell’esilio (Arlem Edizioni, 1998), Poesia degli anni ’90 (Edizioni Scettro del Re, 2000), Haiku negli anni (Empiria, 2005), Calpestare l’oblio (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana, Argo, 2010) e Quanti di poesia – Nelle forme la cifra nascosta di una scrittura straordinaria – a cura di Roberto Maggiani (Edizioni L’Arca Felice, 2011). Suoi articoli letterari e recensioni sono stati pubblicati su: “Tempi Moderni”, “Le reti di Dedalus”, “La Mosca di Milano”, “Polimnia” e su diversi blog e siti specializzati di Poesia e Critica.
Nel 1999 è stato scelto tra i rappresentanti della Poesia italiana alla “Fiera del libro” di Gerusalemme.
Ha collaborato dal 1994 al 2000 con l’organizzazione di “Invito alla lettura” a Castel Sant’Angelo e nel 2006 con il “RomaPoesia – Festival della Parola”. Nel 2007 è stato Responsabile Territoriale per il Lazio del Sindacato Nazionale Scrittori. Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: “Poesia”, “Folium”, “Poiesis”, “La Recherche” e “Atelier”.

 Not Vidal Moon 1995

Not Vidal Moon 1995

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

«Non c’è modello né secondarietà che sottendano l’interrogazione del discorso poetico del romano Francesco De Girolamo (nato nel 1957) e del campano Gianni Iasimone (nato a Pietravairano nel 1958). Essa è sola di fronte a se stessa, gira attorno al fantasma di un «io» scomparso del quale restano soltanto ambigue e sibilline tracce sulla carta assorbente del «nulla», una danza apotropaica attorno al feticcio dell’«io». Perché non c’è più un principio di qualcosa, né a posteriori, né a priori. Crollato, sgretolatosi il fondamento, è caduta anche l’illusione di poter operare un discorso poetico su una parola radicalmente nuova o radicalmente antica. Se l’avanguardia era pur avanguardia di qualcosa che stava dietro di essa, oggi, dopo l’ingresso nel Dopo il Moderno, è caduta anche l’ipotesi, peraltro suggestiva, che esista la possibilità di operare per il discorso poetico in una sorta di retroguardia di un qualcosa. È qui che il discorso poetico come era stato condiviso (dalla Tradizione e dall’Antitradizione) nel Novecento si è venuto a sgretolare come un macigno di roccia tramutatasi in sabbia e, progressivamente, in sabbie mobili… De Girolamo parte da lì, dal punto in cui pratica come un foro nel terreno alla ricerca di un misterioso combustibile: l’interrogazione  del fondamento che non c’è più. Iasimone invece ritorna lì. Non c’è più un «soggetto» e non c’è più un «oggetto», per questo l’interrogazione poetica del poeta romano ruota attorno ad una «assenza» (mentre l’«io» di Iasimone ruota attorno ad una «presenza»), dove non c’è più un parapetto o un corrimano cui appoggiarsi nel procedere; ma se è il fondamento che occorre interrogare (pur se fondamento non c’è), è questa interrogazione l’unica condizione necessaria, pur se insufficiente, a crearne il senso. Ma può esistere un «senso» privo di un «fondamento»? Può esistere un discorso poetico che faccia a meno di ogni oggettualità che non sia una interrogazione di un «io» assente? Può esistere un discorso poetico che elegga un mondo di oggetti là dove gli oggetti sono scomparsi, inghiottiti dal «nulla» del capitale finanziario globale, e dai suoi templi invisibili, che attraversa come un fluido invisibile i tubi catodici e i vasi comunicanti dei terminals della nostra vita quotidiana? Inghiottiti dal nulla dei simulacra dietro i quali ci sono le immagini (vuote e fittizie) degli oggetti? – Di fatto, nella terra di nessuno del Dopo il Moderno, lo spazio dei linguaggi poetici si è ulteriormente ristretto, si è come evaporato dopo una giornale di sole. In questa vetrina universale qual è l’emporio globale delle merci, ciò che luccica è il simulacro di un «oggetto» assente. In verità, se verità c’è, non v’è più uno «spazio» nel senso novecentesco deputato ai linguaggi poetici dove sia possibile operare degli excursus, non v’è più una legittimazione territoriale di ciò che è «poetico» e di ciò che non lo è, e quindi al linguaggio poetico non rimane altro che interrogarsi sulla propria legittimità e autosufficienza. È caduto dentro un baratro il vecchio concetto dell’autosufficienza dell’arte, sembra passato un millennio dal tempo in cui si narrava dei discorsi sull’autonomia e sull’eteronomia dell’arte. È ancora possibile ipotizzare l’esistenza di un discorso poetico? E su quale fondamento? E su quale gamma di retorizzazioni? Non è più un problema di poetiche normative, sembra suggerirci De Girolamo, né più di linguaggi, quel che resta al fondo della questione è soltanto la funesta eleganza dell’interrogazione portata all’estrema possibilità o l’intimo rigore dello scandaglio «metafisico», questo sì, per l’intervenuto assottigliamento del mondo «fisico»: poiché v’è metafisica soltanto là dove quello che resta è soltanto una assenza che non rimanda ad alcuna presenza. Il che rimanda, di ritorno, alla necessità di instaurare un logos fondato sulla interrogazione, sulla differenza problematologica domanda-risposta e non sull’indifferenziazione proposizionalista delle ultimissime poetiche epigoniche e acritiche che oscillano tra un agriturismo consolatorio alla Umberto Piersanti e il lodo dell’elegia melanconica nella quale eccelle la poesia femminile di Mariangela Gualtieri e dell’innumerevole schiera di azzimate sacerdotesse del poiein.

Quel «declino dell’ontologia», quel declino, per dirla in termini più comprensibili, delle oggettualità, di cui ci ha parlato Vattimo sembrerebbe condurci alla soglia del declinare e del deragliare di tutte le arti «deboli» e «povere»: in primo luogo la «poesia», non avremmo più nulla di cui narrare. La poesia di Francesco De Girolamo prende forza proprio da questa intima debolezza del discorso poetico del Dopo il Moderno che non può fondarsi su alcun «fondamento», dalla «leggerezza» della rima che investe sia il «soggetto» che l’«oggetto». Se c’è una poesia particolarmente sensibile a questa problematica è quella di Francesco De Girolamo il quale riutilizza i rottami e i lacerti «eleganti» del crepuscolarismo più astuto  per recapitare alcune felicissime sortite nei retaggi della rima invisibile che serpeggia come un marchio di luttuosa «eleganza» nella sua poesia.

 Quello che vedo non è quello che penso;
quello che dico non è quello che sento;
i miei amici sono i miei nemici;
l’io che non sono ha ucciso l’io che ero.
»

(da Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea  Società Editrice Fiorentina, 2013, pp. 148 € 14)

Francesco De Girolamo

Francesco De Girolamo

Alba sull’erba

Quel risveglio sull’erba, fra gli sterpi
già inondati di bianco, il vento nuovo
che faceva bandiere dispiegate
dei nostri variopinti cenci appesi.
Io che ti dissi: “Scattami una foto,
fa’ presto!” E prima che potesse
svanire dal mio volto qualche traccia
di quell’istante, catturasti il mio sguardo.
Io non ero mai stata così tanto
fieramente felice, e mi chiedevo:
“Per quanto ancora lo vedrò, il miracolo?
Sarà davvero irrimediabilmente unica,
come dicono i saggi ed i poeti,
questa quieta vittoria, questo canto
di cui non sentirò mai più le note,
questa vetta di cui non scorgerò
mai più la via? No, io non voglio
che sia così; fermalo tu, ti prego,
questo istante, che io non possa negare
mai d’averlo vissuto, o rinnegarlo
senza pudore, alle strida del gallo,
dicendo ancora: era soltanto un sogno.”
Ma tu eri là, e lo sai che era vero;
e quella foto in cui quel viso sembra
non chiedere più nulla – oh, sì – è la mia.
Ed era vera quella stella viola,
scomparsa d’improvviso, e quelle luci
sfolgoranti nell’ombra come occhi
di mille amanti, insonni, alle finestre.
Tu lo sai che era vero, ed eravamo
noi, lì, unici e irripetibili,
contro il mondo, o con esso,
disposti a tutto al cenno di uno sguardo,
di quello sguardo ormai così lontano,
quasi impietrito nella luce azzurra
di quel mattino; e che ora sembra venga
da un altro mondo, da qualche altra vita.

Margini

Altrove, chissà dove,
dovunque io sia,
vorrei sempre essere.
E dovunque io arrivi
un richiamo muto
sembra attirarmi lontano da lì.
Ma in ogni posto è sempre
troppo presto o già tardi;
fa sempre troppo freddo
o troppo caldo.
E tutta quella gente per la strada
sembra sempre che parli e che sorrida
secondo un’unica filosofia,
la più vile.
Spesso c’è un’ombra grigia tra di loro
che si aggira furtiva
dicendo di essere Me.
Tu non starlo a sentire,
“quello” non sono io, credimi:
di certo io sono altrove.
Scaccialo finché puoi, quell’impostore,
dalla tua casa e dal tuo cuore.
E poi vieni a cercarmi,
ovunque io sia,
e stanami da questi odiosi margini;
e costringimi ad essere,
non ciò che io vorrei essere,
ma ciò che la mia Vita vuole io sia.
Io certo avrò paura
e dirò: “Lasciami!”
E tu allora conducimi, trascinami,
sulla via più tortuosa;
ricordamelo sempre, se puoi,
gridamelo,
che la mia casa è lontana.

Inverso

Io abito un abisso umido e vivo
e buio e caldo ed alto e senza fine
e cado ovunque vada la sua ombra che vaga
e salgo verso il nulla come un’onda sempre in moto
nel vuoto chiaro di vento e fuoco
e sento dentro me come un inverso
aspro universo inerme in me sospeso
che un altro me contende a un altro senso.

Passaggio

E’ da qui che devo passare
se voglio andare oltre, non so dove;
che possa dire infine: “Ci sono!”
Per strade senza strada devo portare
questo gorgo che in gola mi brucia
ed aprire le braccia verso un vuoto
in cui fiorisca la luce
che non ferisce.

Sette volte

Dunque mi hai trovato,
mi hai snidato, alla fine,
pur nascosto com’ero in una luce non mia,
e non mi hai perdonato di esserci,
di conoscere il tuo nome segreto,
di entrare nel tuo cuore ad occhi chiusi
senza avere paura
del tuo bugiardo silenzio indifeso.
Dunque ti allontanerai da me
sette volte prima di trafiggermi
con la tua indifferenza;
mi chiamerai dove il mio passo
non può arrivare senza condurre con sé
la mano ed il respiro della morte.
Potrai dimenticare le mie parole
quando cancellerai l’eco dei miei occhi
dal gelo riarso della tua anima?

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DODICI POESIE di Ewa Lipska (1945) traduzione e Commento di Paolo Statuti, con un Commento improprio di Giorgio Linguaglossa

Ewa Lipska

Ewa Lipska

 Ewa Lipska poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia l’8 ottobre 1945. Comincia a scrivere versi già negli anni del liceo. Debutta come poetessa nel 1961, pubblicando sul quotidiano Gazeta Krakowska la poesie Krakowska noc (Notte cracoviana), Smutek (Tristezza) e Van Gogh. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Cracovia. La poetessa ricorda così questo periodo di studi: “All’Accademia ho seguito i corsi dei professori Adam Marczyński e Jonasz Stern, artisti eccellenti e affascinanti interlocutori, ma non sopportavo l’odore dei colori a olio e della trementina. Mi interessava di più la storia dell’arte. Inoltre sapevo che con l’aiuto delle parole potevo dire qualcosa di più che dipingendo i quadri. Ma gli anni dell’Accademia mi hanno insegnato come si “legge” un quadro, e spesso mi piace utilizzare queste letture pittoriche. Dal 1970 al 1980 lavora presso la prestigiosa casa editrice  Wydawnictwo Literackie, dove cura le collane di poesia, continuando la sua attività creativa. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto molti prestigiosi premi nazionali e internazionali per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in quasi 40 lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: “Ja” (Io, 2004), “Pogłos” (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e “Droga pani Schubert…” (Cara signora Schubert…, 2012). Ha scritto inoltre diversi testi poetici di canzoni di successo.

Per il suo anno di nascita e per quello in cui uscì il suo primo volume  “Wiersze” (Poesie, 1967), Ewa Lipska, che è indubbiamente una delle più importanti poetesse polacche contemporanee,  appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937).

Ewa Lipska

Ewa Lipska

La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo  e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante.

La sua poesia bella, ironica, inquietante è il frutto di una sofisticata intelligenza, talvolta rovente, malinconica, ma sempre umana. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive: “La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska)”.

Ed ecco cosa scrive il prof. Włodzimierz Wójcik,  storico della letteratura, critico letterario e saggista: “Il mondo dell’immaginazione poetica di Ewa Lipska è straordinariamente ricco – esso attira e affascina. Sembra essere compreso tra la vita reale e la sfera del sublime. Con un’ala tocca la terra, le città, i villaggi, la vita di tutti i giorni con le sue difficoltà, le sofferenze del corpo e dell’anima e con il suo grigiore; con l’altra è unito a ciò che è angelico, sognato, desiderato… Il mondo reale e il mondo dell’immaginazione poetica  creano una autentica armonia”.

Per concludere vorrei riportare alcune domande e risposte tratte da una interessante intervista con la poetessa, realizzata tempo fa dal poeta, prosatore e traduttore letterario dalla lingua italiana Jarosław Mikołajewski.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Scrivere è una gioia?

   Ripeto spesso che scrivere è il più importante aneddoto della mia vita. Ma non parlerei di “gioia”, perché il processo creativo è difficile e a volte anche ingrato. Una piacevole occupazione è quella di prendere delle note, di scrivere degli schizzi. E’ un po’ come toccare le corde di un violino. Ma poi bisogna comporre la melodia o l’intero concerto.

Qual è la più grande gioia del poeta?

   Le poesie che diventano care al lettore, gli incontri con la gioventù. Mi rallegrano anche le lettere che ricevo dai giovani amanti della mia “gioiosa creazione”.

Come agisce la poesia?

   È una questione individuale. Dipende dal lettore stesso e dalla sua preparazione intellettuale, dalla cultura letteraria, dalla sua immaginazione. A volte apprezziamo un autore, ma non lo amiamo. Ci saranno sempre quelli che preferiscono il pesce e quelli che invece sono vegetariani. A volte riusciamo a gustare la letteratura, la pittura, la musica. “Non riesco a trovare alcuna differenza tra la musica e le lacrime” scrisse Fredrich Nietzsche, e in ciò risiede di sicuro questo segreto. Il segreto del gustare. Ritrovo questa disposizione spirituale nelle sale da concerto. Similmente è con l’amore. Sappiamo che c’è, ma non riusciamo a definirlo. Per fortuna ciò non è necessario. Sappiamo soltanto che ci crescono le ali e che ci solleviamo nell’aria. Il poeta cerca due, tre, qualche parola per descrivere le emozioni, il caos e l’armonia.

E qual è la cosa più importante?

   La cosa più importante è il senso della vita. È la consapevolezza di riuscire a realizzare qualcosa dei nostri sogni. Ciascuno di noi può inventare una lampadina ed essere un Edison. E forse l’amore, che è al di sopra di tutto.

Ewa Lipska cop

Commento improprio di Giorgio Linguaglossa

Quando ci accingiamo ad entrare dentro la poesia di Ewa Lipska ci accorgiamo che non abbiamo in tasca la chiave da far girare in quella serratura. Sono versi che sembrano minimalisti ma che in realtà sono ultronei, sfiorano il truismo per slanciarsi subito dopo nell’iperuranio dell’assoluto e dell’assolutorio; versi che fanno del contraddittorio e del principio di non contraddizione i perni attorno cui ruotano tutte le metafore e le fraseologie, dove il contraddittorio viene adottato per dimostrare la falsità del principio di non contraddizione e del principio di ragione sufficiente, poiché la terra e la storia degli uomini vengono rivisitate con l’ausilio dell’ossimoro e della tautologia, mediante frasi sentenziose e assertorie appunto per rimarcare e sottolineare la profondissima non assertoricità del reale, ove il tutto assertorio si capovolge e diventa il tutto interlocutorio derisorio. Per la Lipska, l’assurdo e il derisorio sono il reddito di cittadinanza del reale, della storia e degli uomini che la abitano. Gli uomini sono i titolari di questo reddito di cittadinanza a scadenza fissa, un po’ come i titoli di stato, con delle differenze che vanno dai titoli trimestrali e quelli decennali e ventennali che beneficiano di un tasso più alto e che valgono, fin che valgono, fin quando lo stato non dichiara default. La storia ha senso proprio perché non ha un significato e perché rischia sempre di finire nel default. Qui sta l’elemento del comico e del derisorio di questa poesia, che essa si presenta nelle vesti del sardonico e del comico mentre che ci intrattiene con l’insulso e l’assoluto, con il falso e il similoro.
A mio avviso la chiave per entrare dentro la poesia di Ewa Lipska sta in questi versi:

cerchiamo nervosamente
il certificato di garanzia
che mantiene la parola.

Il problema è, appunto, che non c’è alcun certificato di garanzia per la parola se non la parola stessa, cioè, quanto di più effimero e transeunte ci possa essere nel creato. Appena pronunciata la parola passa, invecchia e scompare. E allora, quali parole pronunciare? La risposta credo sia semplice: Non pronunciare nessuna parola, oppure, pronunciare la tautologia o la filiazione delle fraseologie l’una dall’altra:

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.
E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.
E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.
Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

Ma forse il problema non è soltanto nelle Parole. Da questo angolo visuale il problema rimarrebbe insoluto e insolubile; il problema potrebbe essere visto anche da un altro angolo visuale… da un altro universo…

da Ewa, Lipska 20 poesie, Edizioni CFR, luglio 2014

L’esame

L’esame per il posto di re
andò a meraviglia.
Si presentarono alcuni re
e un apprendista re.
Fu scelto re un certo re
che doveva essere re.
Ottenne punti extra per le origini
l’educazione spartana
e per il sorriso
che prese tutti alla gola.
In storia rivelò
notevoli capacità di sorvolare.
La lingua obbligatoria
risultò la sua madrelingua.
Quando toccò il tema dell’arte
avvinse il cuore della commissione.
Uno dei membri della commissione
avvinse un po’ troppo forte.

quello era davvero un re.
Il presidente della commissione
corse a chiamare il popolo
per consegnarlo solennemente
al re.
Il popolo
era rilegato
in pelle.

.
A due voci

– Non sarò più tua moglie.
– Non sarò più tuo marito.
– I bambini non capiranno cos’è accaduto.
– Bisogna mandarli al cinema.
– I segugi dei miei pensieri hanno fiutato
la separazione.
– Una grossa cicatrice dopo questo amore
resterà.
– Lo seppelliremo visto che è giunto
così insensato.
– Le sentinelle dei ricordi metteremo
presso la bara.
– Quanto si può tenere un cadavere
in casa?
– Quanto si può tenere un cadavere
nel cuore?
– Faremo brevi discorsi.
– Gli augureremo ogni bene.
– Affinché non ritorni.
– Forse ancora una volta…
– Non ci troverà in casa. Andiamo in tintoria.
– Troppo incauti siamo stati con noi stessi.
Prima dell’alluvione fuggivamo verso il fiume.
– Prima della siccità fuggivamo verso il sole.
Eternamente stanchi abusavamo della farmacia.
– Coprivamo le orecchie quando l’orologio ci minacciava
sonando l’allarme sonando l’allarme.
– Ci separavamo per ulteriori incontri
su una funivia. Fissando il baratro
sceglievamo l’amore che ci occorreva.
– Eravamo atterriti dalla profondità del destino.
– Soli come il deserto che non spera più nel cielo.
– E soltanto del nostro amore ancora
la camicetta di seta. Del nostro amore
il pettine.
– E le labbra
che impediscono l’accesso alla parola.
– La sera fa già fresco.
Prendiamo i cappotti dei bambini.
– E andiamogli incontro.
Il cinema è lontano.

Il giorno dei Vivi

Nel giorno dei Vivi
i morti giungono alle loro tombe
– accendono le luci al neon
e piantano i crisantemi delle antenne
sui tetti dei multipiani sepolcri
a riscaldamento centralizzato.
Poi
scendono con gli ascensori
verso il quotidiano lavoro:
la morte.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Mia sorella

Mia sorella ancora non sa
che il mondo è condannato all’atlante.
E l’atlante è un enorme piatto eternamente affamato.
E’ un giornale di paesi-modelli ritagliati. A volte fuori moda.
Che all’improvviso tutto è chiaro quando si esce dal cinema.
Che le idee aderiscono perfettamente ai manichini.
Che non c’è morte che serva di esempio.
Che la morte è soltanto di natura.
Che volendo guardare il cielo bisogna
portarlo prima alla censura.
Che il più alto sapere è nella biblioteca dello spazio.
Che l’amore è amore. E l’amore è un giardino.
Che in questo giardino bisogna sfuggire l’autunno.
Che in un giardino non si può sfuggire l’autunno.
Che nessuno impedirà più la divisione delle cellule.
Che la vita è finita quando comincia.
Che Isolda è vecchia. Soffre di reumatismi.
Che la storia è una grande pattumiera.
Serve a far sparire le date e a spaventare i bambini.
Che quando la notte per un attimo gli occhi ci adombra
si risvegliano in noi gli uccelli gridando: Terra! Terra!
E allora scopriamo un nuovo continente: l’Uomo
che sulle palpebre la calda mano ci posa…
Ma mia sorella sa già
Che A come Ada.

*

Non mi ha salvata l’alluvione
benché giacessi già sul fondo.
Non mi ha salvata l‘incendio
benché bruciassi per molti anni.
Non mi hanno salvata le disgrazie
benché mi investissero treni e automobili.
Non mi hanno salvata gli aerei
che sono esplosi con me nell’aria.
Si sono abbattute su di me
le mura di grandi città.
Non mi hanno salvata i funghi velenosi
né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione.
Non mi ha salvata la fine del mondo
perché non ne ha avuto il tempo.
Nulla mi ha salvata.
VIVO.

Certificato di garanzia

La nostra macchina da matrimonio
si è inceppata all’improvviso.
E benché continuiamo
a pelare i pomodori
a tagliare sottilmente l’aglio
a infarcire la serata
di parole sul sesso
e a mangiare ricordo
dopo ricordo
cerchiamo nervosamente
il certificato di garanzia
che mantiene la parola.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Nessuno

Sono d’accordo su questo paesaggio
che non esiste.
Mio padre regge nella mano il violino.
I bambini leccano il suono.
La corrente d’aria
investe i petali delle rose.
Poi la guerra. Ci perdiamo di vista.
A frasi intere si celano le parole.
La stanza vuota
parcheggiata nell’oscurità
dell’edificio.
Prego lasciare un biglietto
dice nessuno.

Natura morta

La natura morta comincia a guastarsi.
Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta
di Chardin Courbet Cézanne
si leva un odore nauseante.
La tela perde la vista.
Nel bicchiere una pietra di vino.
Insopportabile il nero.
Profetiche visioni
dei dittatori della moda:
si approssima l’epoca dei lampi.
Piante terrestri anfibi e mammiferi
soffierà via il corno.
Il tempo accadrà sempre più raramente.
Sarà sempre più breve. Sempre di meno.
Dunque togli dalla borsetta il nostro amore.
E affrettati. Un brandello di oltremare
annuncia che faremo in tempo a ridere.

Amore

L’amore è un indovino.
Prevede se stesso te e me.
E’ del popolo eletto
e usa una lingua
ad alta tensione.
Nella Biblioteca Nazionale
macchia perfino
i libri poco letti.
In una valanga di cori
scopre un’eco
di euforia e di morte.
E quando ti raggiungerà
cerca di essere in casa.
O qualcosa del genere.
Pur di incontrarvi.

Sogno

Il sogno mi dava quindici possibilità.
Tre vie d’uscita da una situazione alquanto difficile.
In una di esse bisognava usare la chiave
che tenevo in mano.
Nel sogno proiettavano un film sulla fine del mondo.
Nessuno dei presenti in sala ha chiesto: e dopo?
Le poesie scritte nel sogno erano molto buone.
Quelle non scritte affatto – non erano peggiori.
Il tempo era come doveva essere.
Bisognava con tutto questo andare verso la veglia.
Mi ha sorpassata un gruppo di atleti
che correvano oltre il tempo.
Una vecchietta ha preso un sonnifero
ed è tornata indietro.
La veglia è sopraggiunta inattesa.
Le ho comunicato soltanto il dolore alla testa
posata male sul bianco cuscino.

Ewa Lipska

Ewa Lipska

Forse

Forse ancora mi resterà
sbiadita come inutile verso
una fotografia. L’ultima separazione
il cielo con la pioggia svolgerà su tamburi.
E il giorno verrà il giorno verrà il giorno verrà
nel tuo grigio stinto vestito
nella fotografia così piccola così concisa
che è possibile stringere in una mano.
E più non so più non so più non so
se tu eri o sei o sarai
forse guardi e di rimpianto è il grigiore
forse soltanto con noncuranza gioisci
forse pensi che la vecchiaia già vecchiaia
adesso da me con impeto si affretti.
Tu ti sei fermata e aspetti. Io sono in cammino.
Tu negli occhi aperti ti sei fermata.
Ed io guardare non posso non posso.
Perciò guardo mortalmente ostinata.


Vetri

Che pena guardare quei vetri oblunghi.
Donne assonnate si tolgono il trucco dal volto.
E accanto cupi passano i viaggiatori.
Dietro di loro c‘è il paesaggio. La truppa marcia.
Nel paesaggio ci sono i tavoli. Sui tavoli c’è il vino.
A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il sorriso.
E nel sorriso c’è la tristezza. E tutto è come al cinema
in quei vetri oblunghi. Nella ragazza c’è il sorriso.

Fa pena guardare. Donne assonnate.
Nelle donne c’è l’amore. Nell’amore c’è la fine.
E poi ci sono solo vetri oblunghi
e la tristezza. Viaggiatori. Nell’amore c’è la fine.

Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote.
E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura.
E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso.
Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.

Che pena guardare. La truppa marcia.
Nel soldato c’è la pallottola. E nella pallottola c’è la morte.
E nella morte c’è tutto e nulla c’è nella morte.
E nel sorriso c’è la tristezza. Nell’amore c’è la fine.

A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il cuore.
E nel cuore c’è un soldato. Nel soldato c’è la pallottola.
E piange la ragazza. Passano i viaggiatori.
La fresca notte si specchia nei vetri oblunghi. Continua a leggere

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Martedì 14 aprile 2015 ore 18 Biblioteca Rispoli p.za Grazioli, 4 Roma, Gezim Hajdari invita alla presentazione del libro di poesia “Delta del tuo fiume” (Ensemble 2015) Interventi di Giorgio Linguaglossa, Marco Onofrio e dell’On.e Romano Misserville

Martedì 14 aprile 2015 ore 18.00 – Biblioteca Rispoli p.za Grazioli, 4 Roma, Gezim Hajdari invita alla presentazione del libro di poesia “Delta del tuo fiume” (Ensemble 2015) Interventi di Giorgio Linguaglossa, Marco Onofrio e dell’On.e Romano Misserville

dalla  Prefazione di Giorgio Linguaglossa al libro nelle edizioni Ensemble di Roma

gezim hajdari presentazione

Il logos poetico di Gëzim Hajdari è governato dalla legge dell’identità nella molteplicità poiché parte dalla presa d’atto dell’esilio fisico e spirituale del parlante il quale non abita più la patria, la Heimat del linguaggio e del paesaggio, perché ne è stato escluso mediante un ingiusto esilio; privato della propria patria, il parlante è  costretto a peregrinare di terra in terra, a mescolare il proprio idioma con quello di altri paesi e di altre Lingue, il suo sarà un canto dell’erranza e della trasfusione di Lingue nella Lingua universale-primordiale che sola può ospitare il canto dell’erranza. Disillusione dell’erranza sarà il destino del parlante colui che osa quindi tradire e tradurre il propio canto in un’altra lingua. E il tono epico della singolarità del parlante sarà il tono dominante della lingua, ad un tempo primordiale e originaria, nella quale egli esprime il canto della dimenticanza e del ricordo, dell’esilio e del ritorno impossibile, del tradimento e della fedeltà all’origine. Gëzim Hajdari è costretto così ad inseguire il proprio destino come un Fato pagano: il canto della fedeltà e dell’infedeltà alla propria Lingua e al proprio popolo, di qui il Tragico che incombe su ogni parola pronunciata, il giganteggiamento dell’io, il canto dell’addio («Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»); infatti la forma di questa poesia  è calcata, alla maniera antica, su quella dell’epicedio e dell’inno. È la voce dell’oracolo antico che parla («Io venivo dai luoghi dell’oracolo di Delfi»), che si rivolge alla antica deità-femminile della «savana», del mondo femminile da lungo tempo scomparso che è compito dell’aedo riportare in vita:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
sorta dall’oblio dell’arco del tempo.
Attraversi silenziosa la mia carne che brucia,
come la luna piena il bosco oscuro del Congo
nelle notti corti estive.
Porti aria di savana
nelle mani e sul collo di ebano,
stella del Sahara.
I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango,
il tuo corpo di nairone – frutta della passione
sorta dalle viscere della terra rossa,
come la notte del destino.

Il primordiale e il presente combaciano e si sovrappongono, si elidono per creare un altro tempo e un altro spazio entro i quali la voce dell’aedo può riprendere alito e vita. Il testo che riportiamo è rivolto avverso la evangelizzazione forzata della Chiesa Cattolica nei confronti dei popoli dell’Africa; non è l’io del poeta che parla ma la «Volontà di Potenza» della Chiesa Cattolica:

Annuncio il Verbo del buon dio.
Tribù del dio fertile Ashanti[1], non mi conoscete?
Non sono forestiero, ma sangue del vostro sangue,
custode della Verità,
la mia voce germoglierà da ombra ad ombra
e da verde a verde. Il mio seme prospererà di capanna in capanna.

Il canto dell’identità ha come corollario il poeta quale «custode della Verità», la non-contraddizione, il suo voler essere simile al canto degli dèi i quali soli possono conoscere la rivalità ma non la contraddizione, la innumerevole ripetizione delle loro gesta nelle loro infinite varianti ma non la loro falsificazione, e i Miti, le gesta favolose, sono il giusto vestito linguistico di questo canto. L’aedo si fa simile ai Morrani (cacciatori di teste di leoni, coloro che uccidono corpo a corpo un leone, che portano sul collo la sua criniera dell’animale come segno di distinzione), si confonde con essi, diventa uno di loro, un essere senza tempo e senza spazio che parla la sua lingua primordiale-universale. L’aedo sposa la Lingua della «savana», la Lingua dell’«Africa»; è la lingua dell’«Africa» a denegare la lingua dell’aedo e a prestargli la propria lussureggiante Lingua ancestrale di miti e di metafore

[1]             Gli Ashanti: sono uno fra i più importanti gruppi etnici del Ghana.

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

All’aeroporto di Casablanca ho conosciuto Dunia,
fanciulla mulata dagli occhi celesti e collo di puledra,
figlia di berberi. In arabo il suo nome vuol dire mondo.
Dunia viaggiava quella notte per Dakar e da Dakar
a Burkina Faso. Vive e lavora tra il nord e il sud dell’Africa.
Dunia ha studiato a Parigi e ha amato in Italia, ora ha un fidanzato
olandese. Io mi sono fermato a Bamakò, la capitale polverosa
del Mali, lei ha proseguito verso la costa atlantica,
salutandomi in francese. Su Tahar Ben Jellou
e i prigionieri del suo popolo
abbiamo parlato quella notte sui cieli sabbiosi del Sahara.

*

Sono entrato a Casablanca dalla porta dell’Est.
Il volto del re Muhammed V
affisso per la città come una minaccia grigia.

Nei quartieri coranici ti cerco,
dove sei? Alla tua porta aperta busso,
una colomba bianca spaventata vola via,
per le scale scende il silenzio color sabbia.

Nessuno mi risponde. Nelle mani porto le Mu’allaqāt
in arabo antico.

Ovunque ti ho cercato,
Casablanca aveva i tuoi occhi.

«Sarà andata al mare, al bazar
dell’halwa ”, mi hanno detto. Sono andato al mare,
il mare richiamava la tua voce.

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Le donne di Ségou lavano i panni nel fiume Niger,
li sbattono sulle pietre e cantano in bambaro nenie d’amore
per gli uomini tuareg. Non perdono d’occhio i coccodrilli
che si avvicinano ai bambini sulla riva. Le acque del Niger,
buie e torbide, scorrono insanguinate verso sud
portando sguardi tristi di volti che urlano verso il cielo. Il vento
dell’Harmattan le toglie le vesti, le fa apparire nude. Le donne di Ségou
lavano i panni nel fiume Niger e li stendono sulle pietre;
cantano in bambaro nenie d’amore per gli uomini tuareg,
con i seni neri al vento.

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POESIE SCELTE di Gertrud Kolmar (1894-1943)  “La straniera”, “L’ebrea”, “Il rospo”, “Nel lager”, “Solo la notte ti ascolto”. Commenti di Marina Zancan e Antonella Gargano con Lettere alla sorella Hilde traduzione di Giuliano Pistoso

La straniera di Marina Zancan

Auschwitz-

Auschwitz-

La figura di Gertrud Kolmar – proiettata da uno straordinario immaginario poetico e conservata per frammenti dalla scrittura, da quella poetica, forma di una lingua per lei originaria, a quella privata delle Lettere a Hilde – appare a chi legge, e si stempera, per ricomporsi, in immagini di colore, come filtrata da lenti di caleidoscopio. Sepolta a lungo nel silenzio della storia – Kolmar, tedesca ebrea, scrive nella notte della Germania hitleriana e le sue carte, in parte perdute, rimangono a lungo disperse – la figura di questa donna, riflessa nella sua pagina in una pluralità di immagini autoreferenziali, conserva la seducente ambiguità di una bellezza inconsueta, ancora in parte lontana da quella conoscenza che un’indagine sistematica contribuisce a formare. Certamente Kolmar è una voce importante del Novecento europeo: ma, come per lei in vita la parola poetica è stata soprattutto il suo modo di essere, una straordinaria affermazione di sé intessuta da una struggente richiesta di ascolto (“Mi tieni completamente nelle tue mani.” – scrive la poetessa rivolta al lettore – “Come quello di un piccolo uccello, batte il mio cuore / nel tuo pugno.”) totalmente lontana da ogni forma di ambizione mondana, così le sue carte sembrano segnate da un destino parallelo di incontri quasi privati. Stampate, la prima volta, per la cura affettuosa del padre, apprezzate da Walter Benjamin, il cugino con cui Gertrud discute in carte private di cultura e di poesia, le sue poesie raggiungono la scena del pubblico nel ’38, subito cancellate dalle leggi razziali; consegnate da quella data in poi a familiari emigrati, perché le conservassero, le sue scritture, sommessamente riproposte in Germania dopo la guerra, solo negli ultimi anni hanno iniziato ad acquisire visibilità e valore. Lo conferma la loro storia italiana: dobbiamo infatti ad una raffinata ma piccola casa editrice, la Essedue Edizioni, ovvero a Giuliana Pistoso – che ha incon- trato Kolmar quasi per caso – la prima ed unica traduzione italiana di una parte di quelle carte: // canto del Gallo Nero (1990: una scelta tra testi poetici e le lettere a Hilde); Susanna (1992); Notte (1994: pièce teatrale inedita). Un piccolo, prezioso campionario di un corpus vasto e variato nelle tipologie della scrittura, accolto, in occasione degli appuntamenti editoriali, da letture attente e spesso appassionate, ma rimasto ancora quasi necessariamente in un circuito ristretto di lettura. Attraverso questa mostra fotografica presentata sotto il titolo La straniera, si intende offrire gli strumenti di base per conoscere Kolmar.

La scelta dell’immagine poetica da accostare al nome e a quel ritratto – unico, e così caro a lei – dominato dagli occhi (“ora è morta” dice Susanna di Zoe, la principessa-cagna… “e sotto quel pelo vive solo negli occhi”) non è stata semplice, avendo a monte, da parte mia, letture asistematiche, di pura passione: La straniera (in Ritratto di donna, 1938) è una delle tante immagini di sé attraverso cui Kolmar vive nel suo immaginario poetico. Ma è, io credo, una figura essenziale, un’immagine del profondo che conserva e ci svela il nesso che in lei vincola l’esperienza nel mondo alla scelta della parola poetica. Straniera in casa, straniera nell’amore, straniera nella storia: l’esperienza di Kolmar è esperienza di estraneità. Ma, reietta perché diversa, in Susanna (l’ultimo suo testo a noi pervenuto, se si escludono le Lettere a Hilde) Gertrud è la giovane folle, di straordinaria bellezza, sola tra gli esseri umani, ma fusa e confusa tra gli elementi dell’universo: “vivo” – scrive a Hilde il 10 ottobre 1939 – “rifugiandomi sempre più […] in ciò che è essenziale, negli ‘eventi dell’eternità’”. È un ritrarsi privo di rinuncia, un ritorno alle origini della vita dove l’estraneità, fatta propria, assume il valore del gioiello (“io sono il rospo / e porto il gioiello”, // rospo), dove le parole, rinominando le cose, restituiscono alla vita i colori. In questo universo rigenerato in un silenzio che si oppone alla violenza della storia, Gertrud può dire di sé a Hilde: “Oggi, per fortuna, so […] che quello che ho ottenuto valeva quello che ho dovuto pagare (13 settembre 1939).

Auschwitz Ingresso

Auschwitz Ingresso

Gertrud Kolmar e i poeti di Antonella Gargano

Contro l’oblio si intitolava programmaticamente una mostra organizzata nel 1985 dalla “Deutsche Akademie tur Sprache und Dichtung” di Darmstadt e dalla “Universitàtsbibliothek” di Francoforte, il cui ‘quaderno’ riproduceva in copertina Gertrud Kolmar nella famosa fotografia del 1928. Quella stessa fotografia si ritrova su un lessico uscito un anno dopo: un volto – dei suoi occhi “ciascuno è scuro, ed è una stella”, come è detto nella poesia L’ abbandonata – scelto, di nuovo come un programma, ad aprire un repertorio delle scrittrici di lingua tedesca.

Le manifestazioni in occasione del cinquantenario della nascita di Gertrud Kol- mar (una mostra, curata nel 1993 presso lo “Schiller-Nationalmuseum” di Marbach da Johanna Woltmann) e nel centenario della morte (la mostra del 1994, su progetto di Marion Brandt, presso lo “Heimatmuseum” di Falkensee, che venne presentata a Roma nel marzo 1997 in una versione rinnovata ed ampliata) sono il primo, concreto segnale di una attenzione critica a lei rivolta. Ma è anche vero che la silenziosa presenza di Gertrud Kolmar nel panorama letterario di lingua tedesca aveva avuto una sua significativa eco proprio tra i poeti. Nelly Sachs aveva colto la qualità visionaria e la sostanza iconica della sua poesia in un testo dedicato alla Veggente (1942/1943), Johannes Bobrowski aveva costruito attorno ad un verso dell’ Ebrea di Gertrud Kolmar la sua memo- ria della poetessa berlinese (Gertrud Kolmar, 1961) e Christoph Meckel nel 1964, in un volumetto di disegni per Bobrowski, riprenderà come motto quei versi che, in una sorta di curioso domino letterario, ritornano indietro a Gertrud Kolmar.

E d’altra parte, per quanto possa apparire come ‘voce isolata’, tagliata fuori da una circolazione e da un dialogo poetico, l’opera della Kolmar lascia affiorare i segni di precise contiguità: con la poesia di Annette von Croste, come già nel 1928 aveva indicato il ben altrimenti famoso cugino Walter Benjamin pubblicando due sue poesie, a cui l’accomuna una esplorazione della natura fin dentro la sua dimensione biologica e microrganicistica, lungo una linea ideale che passa attraverso Oskar Loerke e arriva fino a Bobrowski, o, ancora, con la più vicina eredità espressionista. Straniera, détaché e sempre ‘altra’, Gertrud Kolmar insiste sulla sua alterità. “lo sono straniera”, così si apre L’ ebrea, e nell’opposizione poetessa/scrittrice sceglie la via più isolata della poesia: “Sono una poetessa, questo lo so; ma non vorrei mai essere una scrittrice”. Eppure la sua poesia va oltre ogni senso di estraneità, di perdita e di morte, indicando un’immagine di sé, nonostante tutto, come “luce di cera per la veglia del secondo mondo”. Proprio questo sembra aver avvertito Bobrowski che chiudeva la sua poesia ‘dilatando’ un verso della Kolmar e aprendolo ad un luogo senza tempo:“non moriremo, noi, / ci circonderanno le torri?”.

 il binario che porta ad Auschwitz

il binario che porta ad Auschwitz

La poetessa

Mi tieni completamente nelle tue mani.

Come quello di un minuscolo uccello, batte il mio cuore nel tuo pugno. Tu che leggi, sta attento
perché vedi, stai sfogliando una creatura. Ma se per tè è fatta solo di cartone,
fogli stampati e colla, allora resta muta, non ti colpisce col suo grande sguardo che dai neri segni guarda cercando;
allora è solo una cosa con il destino di una cosa.

Pure s’era cinta di veli come una sposa, s’era adornata perché tu la potessi amare ed, esitante, prega che, per una volta,
tu cacci via la pigra indifferenza
e trema e sussurra a se stessa:
«Non succederà.» Ti fa un cenno e un sorriso. Chi dovrebbe sperare se non una donna?
Il suo intero mondo è quel solo: «tu…»
Con fiori neri e sopracciglia dipinte,
con catene d’argento, con sete, stellata d’azzurro. Da bambina sapeva cose più belle,
ma le parole più belle le ha dimenticate.

L’uomo è molto più saggio di noi. Nei suoi discorsi parla della morte,
della primavera, delle industrie, del tempo. Io dico: «tu…», solo e sempre: «tu ed io.»
Questo libro è un vestito di ragazza,
può essere bello e rosso o poveramente sbiadito e sempre soltanto da dita amate
si lascerà gualcire, qualche volta macchiare.
Perciò sono qui a mostrare quello che mi è accaduto;
quello che un forte candeggio ha sbiadito senza poter del tutto cancellare.
Perciò ti chiamo. Il mio richiamo è leggero, sottile.
Tu senti quello che dice, ma comprendi quello che sente?

L’ebrea

Io sono straniera.

Perché gli uomini con me non s’azzardino, voglio essere circondata da torri
che portano aguzzi berretti di pietra grigia in alto verso le nuvole.

Voi non potete trovare la chiave di bronzo della tetra scala. Essa gira su di sé verso l’alto come la piatta, squamosa testa sollevata
una vipera nella luce.

Ah, questo muro si sgretola come roccia bagnata per millenni dalle tempeste;
gli uccelli dai rudi colli rugosi
si rintanano nelle profonde caverne.

Sotto la volta di sabbia friabile groviglio di rettili con i petti maculati… Vorrei armare una spedizione esplorativa nella mia originaria, antichissima terra.

Posso la sepolta Ur dei Caldei forse da qualche parte scoprire, l’idolo Dagone, la tenda degli ebrei, la tromba di Gerico.

La tromba che abbattè le arroganti mura, brunisce sepolta, piegata, distrutta,
ma un tempo ho respirato il soffio che produsse il suo suono.

Nelle cassapanche coperte di polvere giacciono senza vita le nobili vesti, morente splendore dall’ala della colomba, l’ottusità di Behemot.

Io le indosso stupita. Sono ben piccola,
lontana dai tempi della loro ricchezza e del loro potere,
ma intorno a me si aprono scintillanti spazi come a difesa ed io in essi mi espando.

Ora mi sento strana e non mi riconosco perché ero già prima di Roma, di Cartagine, perché subito ardono per me gli altari
di Debora e della sua schiera.

Dal vaso d’oro nascosto
corre attraverso il mio sangue un doloroso splendore e un canto vuole chiamarmi con nomi
che siano di nuovo fatti per me.

I cieli gridano colorati segnali. Impenetrabile è il vostro volto:
quelli che, timidi, con la volpe del deserto mi circondano, non lo vedono.

Soffiano gigantesche, devastanti colonne d’aria, verdi come giada, rosse come coralli,
sopra le torri. Dio permette che crollino e tuttavia i millenni ancora stanno.

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Gertrud Kolmar

Gertrud Kolmar

La straniera

A mia sorella Hilde

.
La città è per me un vino colorato in un levigato calice di pietra
che sta e brilla davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.

Esso riflette il suo cerchio più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi, ci colpiscono tutte le cose a noi quotidiane e usuali.

Davanti a me la rigida parete delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro della piccola bottega
si chiude riservato: «Io non t’ho chiamata.»

II selciato ascolta e cerca a tentoni il mio passo pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno si unisce con la colla, là si parla una lingua che non è mia.

La luna palpita rossastra come un assassinio sopra il corpo lontano, sopra la parola smarrita, quando, la notte, contro il mio petto s’infrange il respiro d’un mondo straniero.

Noi ebrei 15.9.1933

gertrud kolmar 2

Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio, voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa, la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.

E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato, e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità, la mano che si tende a toccare Dio in cielo.

Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei, e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono, gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.

E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante, sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare, e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma, e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.

L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli, l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele; Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!

Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero. Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre, tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!

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Il rospo

12 ottobre 1933

Il crepuscolo azzurro scende denso d’umidità con il mantello dal largo orlo rosa dorato.
Un pioppo nero si staglia nella morbida luce,
e dolci betulle tremano contro la pallida schiuma.
Come una testa di morto, una mela rotola sorda nel solco, s’accartoccia leggera e perisce la bruna foglia autunnale. Con piccole luci spettrali la città, lontano, s’abbuia.
La bianca nebbia dei prati avvolge i ranocchi.

Io sono il rospo
e amo gli astri della notte. La sera, alto, il Rosso
si gonfia purpureo nello stagno d’improvviso incendiato. Sotto le assi marce della botte per l’acqua piovana
mi rintano accovacciato e grasso;
il tramonto del sole
spia, sofferente, il mio sguardo lunare.

Io sono il rospo
e amo il sussurro della notte. Un delicato flauto
nell’oscillante canneto, nel càrice s’è svegliato, un tenero violino
vibra e scintilla sul ciglio del campo. Tacito ascolto,
mi trascino sulle zampe palmate

sotto una panca fradicia
membro dopo membro fuori dal pantano come un sommerso pensiero
si trae fuori dal groviglio e dal fango. Oltre i cespugli, fra i ciotoli
modesta, buia creatura, saltello;
il rugiadoso gocciolare del fogliame, l’edera verde-nera mi sciacquano via.

Respiro, nuoto
dentro un profondo, tranquillo splendore, umile voce
sotto l’alato piumaggio della notte.
Vieni dunque e uccidi!
Per tè posso essere solo un disgustoso animale:
io sono il rospo
e porto il gioiello.

Nel lager

Quelli che s’aggirano qui sono corpi soltanto, non hanno più anima,
soltanto nomi nel registro dello scrivano, carcerati: uomini, ragazzi, donne,
e i loro occhi fissano vuoti

con lo sguardo sbriciolato, distrutto per ore in una fossa buia,
soffocati, calpestati, picchiati alla cieca.
Il loro gemito tormentoso, il loro pazzo terrore, una bestia, sulle mani e sui piedi, carponi…

Hanno ancora le orecchie
e neppure odon più il loro grido. La prigione distrugge, schiaccia:
nessun coraggio, nessun coraggio più per ribellarsi! Stride leggera la sveglia spaccata.

Si affaticano come dementi, grigi, devastati, separati dall’umanità variopinta,
irrigiditi, timbrati e marcati,
come bestiame da macello che aspetta il beccaio e non conosce che il fetido truogolo e il recinto.

Solo paura, solo orrore nei volti
quando, di notte, uno sparo afferra la vittima… e nessuno ha veduto l’uomo
che silenzioso in mezzo a loro
trascina la croce nuda verso il supplizio.

gertrud kolmar 1

Lettera alla sorella

 Hilde, sorella carissima il 15 12 1942

Un mio conoscente, il dottor H. era uno studioso di Spinoza e un giorno mi ha parlato della sua teoria sulla libertà della volontà umana all’interno della non-libertà. Penso di capire tutto questo attraverso le mie esperienze personali. Non è dipeso da me accettare o rifiutare il lavoro in fabbrica, mi è stato imposto, però ero libera di accettarlo o di rifiutarlo intcriormente; posso eseguirlo con ritrosia o con buona volontà. Dal momento che io l’ho accettato nel mio cuore non me ne sono più sentita soffocata. Ho deciso di considerare questo lavoro un insegnamento e di imparare il più possibile. In questo modo, dentro alla non-libertà, ho scelto la libertà. E così vorrei anche sopportare il mio destino, sia esso alto come una torre o nero e soffocante come una nuvola…

Berlino 23.10.41 ore 4 del mattino

 Lettera alla s