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Nicola Romano  POESIE SCELTE da Voragini ed Appigli  Prefazione di Giorgio Linguaglossa

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Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti sul set

Nicola Romano risiede a Palermo, dove è nato nel 1946. Giornalista pubblicista, dal 1987 al 1996 è stato condirettore del periodico “insiemenell’arte” e attualmente collabora a quotidiani e periodici con articoli d’interesse sociale e culturale. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione su riviste spagnole, irlandesi e romene. Nel 1997 ha partecipato, su invito, ad incontri di poesia in Irlanda insieme all’attrice Mariella Lo Giudice ed ai poeti Maria Attanasio e Carmelo Zaffora, con lettura di testi a Dublino, Belfast, Letterkenny e Londonderry. Nel 1984 l’Unicef ha adottato un suo testo come poesia ufficiale per una manifestazione sull’infanzia nel mondo svoltasi a Limone Piemonte. Con il circuito itinerante de “La Bellezza e la Rovina” ha recentemente partecipato a letture insieme a noti poeti italiani.
Tra le sue ricerche, particolare attenzione ha prestato ai poeti Vittorio Bodini, Raffaele Carrieri, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Alfonso Gatto ed allo scrittore Antonio Russello.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia:
  • I faraglioni della mente (Ed. Vittorietti, 1983);
  • Amori con la luna (Ed. La bottega di Hefesto, 1985) con prefazione di Bent Parodi;
  • Tonfi (Ed. Il Vertice, 1986);
  • Visibilità discreta (Ed. del Leone, 1989) con prefazione di Lucio Zinna;
  • Estremo niente (Ed. Il Messaggio, 1992) con una nota di Melo Freni;
  • Fescennino per Palermo (Ed. Ila Palma, 1993);
  • Questioni d’anima (Ed. Bastogi, 1995) con prefazione di Aldo Gerbino;
  • Elogio de los labios (Ed. C.Vitale, Barcellona, 1995);
  • Malva e linosa, haiku, (Ed. La Centona, 1996) con prefazione di Dante Maffìa;
  • Bagagli smarriti (Ed. Scettro del Re, 2000) con prefazione di Fabio Scotto;
  • Tocchi e rintocchi (Ed. Quaderni di Arenaria, 2003) con prefazione di Sebastiano Saglimbeni;
  • Gobba a levante (Ed. Pungitopo, 2011) con prefazione di Paolo Ruffilli.
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foto fumetto

Fumetto design Diabolik ed Eva Kant

dalla Prefazione di Giorgio Linguaglossa
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Con il suo caratteristico tono sobriamente dissonante, a metà tra il calligrafismo e la didascalia stilizzata, questa raccolta di Nicola Romano si rifugia nell’elegante fattura del settenario come per prendere le distanze da tutto ciò che non può entrare in quel metro breve.
Sicuramente, la ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia, o meglio, della poesia di Nicola Romano. Il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è una operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che sta in alto. Ma Nicola Romano non si limita ad una mera «discesa culturale», opera anche una «risalita», mediante la adozione di un metro breve, il classico settenario, posizionato come metro esclusivo di questo poemetto. Metro della tradizione burlesca che l’autore  ripropone nella sua traslazione dal burlesco all’ironico. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale» che non venga accompagnata anche da un riposizionamento verso l’alto di quella discesa, siamo già scesi così in basso che ogni forma di ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Così, il poeta di impianto ironico dei nostri giorni deve saper modulare entrambe le opzioni metriche e stilistiche, deve oscillare sapientemente tra la «discesa» e la «risalita»; ed è quello che fa Nicola Romano, il quale lascia oscillare il dettato poetico tra i due poli mediante la adozione di un punto di vista serioso e supercilioso sulla realtà. Cioè, per l’autore siciliano è serioso ciò che non appare esserlo, è serioso lo stile dilemmatico che oscilla tra un più e un meno, tra i due poli inconciliabili sopra detti. Semmai, il problema per il poeta di Palermo è il «vuoto» della società italiana. Ed è con questo problema che si misura il «finto vuoto» dei versi del poeta palermitano, fatti apposta per attirare e fagocitare il «vuoto». È la sua risorsa strategica, l’ultima, direi, quella di riformulare il «vuoto» ricorrendo ad una testuggine di parole indurite nei settenari, brevi, rapidi, superciliosi, ultra minimalisti.
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 Personalmente, ho dei dubbi sulla utilità e sull’efficacia estetica di ogni pratica di ironizzazione e di carnevalizzazione del «vuoto» sociale e storico come è stato attuato da certo sperimentalismo del tardo Novecento. Per Bachtin il «carnevale è una forma di spettacolo sincretistica di carattere rituale… e che la vita carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario».1 Per Bachtin «il sentimento carnevalesco del mondo» e la «letteratura carnevalizzata» si fondano su una sospensione temporanea e rituale della «normalità» che consente di istituire «un mondo alla rovescia», nel quale per il critico russo si risolve la parodia. E, aggiunge il critico che, come il riso carnevalesco, così la parodia è «ambivalente», nel senso che non è «mera negazione del parodiato» ma tende ad obbligarlo «a rinnovarsi e a rigenerarsi».
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 La poesia di Nicola Romano rientra in questo schema categoriale, la sua poesia sospende la «normalità», la «rovescia» ma, rovesciandola, la lascia intatta, anzi, la rende maggiormente visibile, la invita a sopravvivere, non a «rigenerarsi», perché Romano è un poeta dei nostri tempi, un poeta disilluso che ha smesso da tempo di credere nelle meravigliose sorti e progressive, sa bene che qui si tratta del capitale finanziario il quale ama i minimalisti perché lo lasciano stare lì dove lui può proliferare, a lui vanno bene i patemi d’animo e le rimembranze del cuore come anche la cronaca nera e la cronaca rosa, entrambe de-sostanzializzate e de-realizzate, nonché tutto ciò che sa di sentimento del tempo olistico e solitario.
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 È questo che mi sento di dire alla poesia del poeta palermitano, che la sua ironizzazione, effervescente e minimale, lascia la poesia al suo posto e la società nel suo, ciascuna nel proprio ruolo poiché entrambe estranee l’una all’altra. Tra la poesia di Romano e la società si è operato un divorzio storico.
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Possiamo dire che questa poesia è un carnevale senza maschere, addirittura un carnevale senza parodiato, perché la realtà da parodiare è scomparsa, se ne è persa traccia. Al poeta del nostro tempo restano soltanto «voragini ed appigli».«In fin dei conti / so radunare al meglio le parole», scrive all’inizio della raccolta il poeta, come per mettere le mani in avanti e avvisare il lettore delle sue intenzioni; la sua ironia non vuole operare alcuna critica della società, è una ironia post-moderna, un vezzo, un wit, un impulso di disagio, una strategia di sopravvivenza, una maliziosa e accorta strategia per venire a patti con il «reale», come per dirgli: tu di qui e io di là, come separati in casa o divorziati, quella che un tempo era la casa comune del linguaggio, è percepita adesso come una costrizione che il poeta avverte sulla propria pelle linguistica. Dalle parole «traggo quelle che affiorano / dal caglio dei silenzi / ed ascolto fonèmi / rime dal mezzo e afèresi»; come suol dirsi, prendo quello che mi va».
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 È il canzoniere del poeta disilluso e disinvolto, che non mette in mostra ambasce o stilemi del cuore, né drammi esistenziali ma una quieta discorsività di monemi e di morfemi vestiti di fonemi in perfetta regola timbrica e metrica. Cosa si vuole chiedere di più ad un poeta del nostro tempo? Nulla, appunto.
In fondo, il segreto augurio che Barthes rivolgeva alla cultura “alta”, di ibridarsi con quella “bassa”, minore, sciocca e surrogata dell’ ”industria culturale”, mantiene la sua promessa di adempimento anche oggi anche grazie a quelle figurine autoadesive costituite dalle tematiche-icone e dai temi del sentimentalismo e dell’ipercinismo di tanta quasi-poesia odierna, così superciliosa o ingenua da essere sciocca e presuntuosa. Tutto ciò che Adorno chiamava nel millenovecentoquarantasette «Bildchen, sono tutte le immagini “minori”, sottoforma di nanetti da giardino e di “chincaglieria d’ogni specie”», in cui si celebra «il trionfo implicito nel fatto che gli uomini siano riusciti a produrre da sé, ancora una volta, un pezzo di ciò in cui, altrimenti, si sentono prigionieri». Un certo movente autobiografico, dunque, è all’origine di quel carattere di feticcio che attiene e sostiene fin dall’inizio la creazione del kitsch, della miniatura, della cineseria, della chincaglieria, del ninnolo, del gadget, insomma, di tutto un vocabolario e un lessico ben riconoscibili
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1 M. Bachtin Dostoevskij. Poetica e stilistica 1968

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Nicola Romano VORAGINI ED APPIGLI

Poesie di Nicola Romano da Voragini ed Appigli, Pungitopo, 2016

… in fin dei conti
so radunare al meglio le parole
traggo quelle che affiorano
dal caglio dei silenzi
ed ascolto fonèmi
rime dal mezzo e afèresi
solfeggio accenti e sillabe
d’un verso martelliano
ma…
quando incombe l’ora
di quel prossimo mio
come me stesso
che con mani feroci
cava il bene dagli occhi
e tracotante spazza
l’integrità e la pace

si spappola il precordio
tracollo in un deliquio
e non ho più par…

***

Sapessi dove sono, stella mia,
davanti ad un cielo nero
Dario Bellezza

Senza ardimento
bascula la sera
ed è tormento d’occhi
di scapole ed aorte
se tutto non esiste
nell’aporia snellente
che rimanda i pensieri
all’umido ristagno
di iris e ninfee

***

Sei tra erbe soleggiate e pietre
Franco Fortini

Ti vorrei dolce acqua
nei tremori d’arsura
vita che spezzi l’anima
a punta di scalpello
e t’irridi dei cocci
dispersi dentro casa
come la luna irride
chi al suo chiaror non s’ama

***

Eccomi al tuo fruscìo
balbetto il più che mi chiedi
Giovanni Giudici

Dono i miei gesti pigri
ai bollori d’agosto
col cuore analfabeta
e un miraggio di vele
che strusciano sul prato
delle marine stanche
e vedove di vento
come sperso gabbiano
plana all’aguzzo scoglio
e ritto si compone

***

Realtà amara bassa isolata
lava grembiuli negli imbuti oscuri
Giacomo Giardina

Parole fuori sacco
appunti messi a margine
passaggi fuori pista
istanti alla deriva
discorsi fuori onda
righe poste in esergo
e attese sul loggione
Ma quando torneremo
al centro delle cose
dentro quel cuore antico
che luce diede al mondo?

***

Ciascuno la propria tristezza
se la compra dove vuole
Antonia Pozzi

Vorrei porgermi ramo
che svirgola nell’aria
torce s’annoda e impatta
col fusto decrescente
ed i suoi bracci in fiore
e non la dritta strada
che volge e si difila
senza varchi d’uscita
Monotono fluire
è il cordame dei passi
puntati a barra dritta
verso la mèta esclusa

***

NICOLA ROMANO

Nicola Romano

Già declina l’estate e il plenilunio
porta vigore nuovo. Ed io son solo
Sandro Penna

Non sarai di nessuno
non dell’antico padre
e nemmeno dei figli
verdi ma già remoti
Non sarai delle stelle
troppo lontano il cuore
e neanche del mare
che t’assesta sul molo
fingendo panorami
Non sarai della gente
non sa scrutare dentro
distratta si compiace
del nulla che l’assorbe

***

Ma poi che primavera ogni corolla
dischiuse con le mani di velluto
Guido Gozzano

Ho del sale negli occhi
e raspe fra i capelli
come similitudine
di questo tempo frusto
che buttera speranze
e scava fino all’osso
Ma torneranno giubili
e danze nei cortili
per i giovani affranti
se si reincarna il tempo
(ma noi non ci saremo)

***

Una malinconia quasi amorosa
mi distilla nel cuore
Umberto Saba

Scendere a patti
con tutto ciò che smuove
la corte quotidiana
la nudità dei sensi
e le inattese voci
balzane e tempestose
Sciogliere i nodi
aggruppati alle porte
degli obliqui mattini
e nel transito stare
non tolda remigante
ma morto a galla

***

Per i vichi marini nell’ambigua
sera cacciava il vento tra i fanali
Dino Campana

Percuotendo la pula
forse affiorano chicchi
di letizie perdute
o di lampi di gioia
convertiti sul viso
Ricerca senza limiti
è il destino dell’uomo
tra arbusti ed acquitrini
ma di solito il vento
che sospinge la pula
lascia polvere ed aghi
sulla fronte rappresa

***

Ma tutto la solita mano
mi porge dov’io rimango
Clemente Rebora

Luce di fari spenti
lo stoppino affogato
sconnessi i filamenti
led ciechi e allo scuro
spie coese col buio
roghi bagnati e sterili
torce senza alimento
fiaccole a cono mute
languore di formelle:
la Luce infoca dentro

***

Un bambino perduto fosti e un nome
prima che il vento t’allietasse l’erba
Alfonso Gatto

Con quel primo vagito
s’accetta la paralisi
l’obbrobrio ed il pericolo
delle tormente a prua
lo scasso delle notti
senza una guarigione
e il sale che corrode
le indicibili attese
L’assenso all’inquietudine
e al giogo dei pensieri
che dubbiosi scollinano
tra guaste primavere
è quel primo vagito

***

Tornerò qui d’intorno ad alitare
dolce forse così come la neve
Alessandro Parronchi

Il più grande coraggio
è rimanere uguali
lungo alterne stagioni
e non farsi rapire
dalle scene beghine
dalle loffie abitudini
che danno pure offese
È pienezza dell’anima
dubitare l’offerta
di lusinghe baggiane
e amenità deformi
se stupirsi del muschio
saldato fra le crepe
è già un semplice ardire

***

Lascia tremar sul cero
la fiamma come un bacio
Cristina Campo

Ti scelgo e t’assaporo
nella notte ialina
come spicchio succoso
e ti carezzo l’orlo
opaco e venerino
Hai nel pube un diamante
che coglierò ansimante
con le mani furtive
e un impeto discreto
e mi dirai che è dolce
giocare a darsi amore
tra sussurri sgualciti
tu nonostante Luna

***

Chi, chi attento al quasi nulla
sente quasi tutto stringersi a sé
Piero Bigongiari

Gira la ruota e impazza
nel vortice che sfrigola
tra quei pochi colori
confusi in uno spettro
e la biglia che sbalza
s’attesterà alla fine
nell’incavo sognato
e di sé farà mostra
Ci è simile la voglia
d’un ben sicuro approdo
e non quel ramingare
in cerca d’una tacca
che sia spazio proteso
a un placido riposo

***

Rimane così irrisolto
l’accordo della mia vita?
Giorgio Caproni

La cronaca la cronaca
petulante e tagliente
scende fino al midollo
grondante e minuziosa
sa contare le pieghe
vezzi e minuterie
ruffiana ed ammiccante
s’addentra oltre i confini
d’un garbuglio di tele
la cronaca la cronaca
e mai la verità
sul nostro tempo

***

É piovuto e invisibile ne odora
dietro il muro l’arancio
Vittorio Bodini

In picchiata la pioggia
scarnifica le pietre
le scuote a vivo come
di zoccolo impazzito
rimbalza e si frantuma
si fonde a gocce uguali
e con l’umida sferza
inzacchera i cortili
ed illacrima i vetri
nell’agile illusione
d’un pronto cambiamento
Sarà condensa e nuvole
ma dal cielo bucato
pure un mistero sgronda

***

 

E i poeti non hanno più canti
non un messaggio di gioia
David Maria Turoldo

Il sogno del poeta
è leggere a una folla
rapita e assai gaudente
allegorie e concioni
paturnie e spaesamenti
come uccello che insegue
l’abbraccio del suo stormo
e poi lanciare pagine
verso mani protese
come i tifosi abbrancano
le maglie nei parterre
Sovvenne tale scena
quando Suor Caterina
m’indirizzò all’ambone
per leggere la lettera
di San Paolo agli Efesìni

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Giorgio Mannacio DIECI POESIE SCELTE da “Gli anni, i luoghi, i pensieri” (Libri di Resine, 2015) con uno stralcio della prefazione di Silvio Riolfo Marengo, una Riflessione dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

città vecchio tram

tram anni Quaranta

Giorgio Mannacio
Sono nato nel 1932 in Calabria ma – salvo una parentesi, peraltro significativa, durante la guerra trascorsa nel paese natale – ho vissuto sempre a Milano. Sono stato per oltre 40 anni magistrato. La mia seconda vita- se così si può definire – è quella trasfusa nelle mie poesie e in qualche meditazione semifilosofica. Tale è dunque la mia bibliografia. Recensioni? Quasi nulla e non mette conto parlarne. Ho pubblicato su qualche rivista, molto saltuariamente (Almanacco dello Specchio, Lunarionuovo, Marka, Alfabeta, Il Caffè….). Ho incontrato nomi famosi della poesia, ma non ci siamo fermati a parlare neppure un attimo. Qualche contributo teorico sulla poesia è uscito su Molloy , Monte Analogo e sul blog Poliscritture. In poesia ha pubblicato: Comete e altri animali – Resine – Quaderni liguri di cultura – Sabatelli editore – Savona 1987;  Preparativi contro tempi migliori – Aleph Editore srl – Torino-Enna 1993; Storia di William Pera – Campanotto editore – Pasian di Prato ( Udine ) 1995;  Fragmenta mundi– Edizioni del leone – Spinea -Venezia 1998; Visita agli antenati – philobiblon edizioni – Ventimiglia 2006; Dalla periferia dell’impero – Edizioni del leone – Spinea – Venezia 2010.
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città la Seicento taxi anni Sessanta

la Seicento taxi anni Sessanta

Note di Giorgio Mannacio
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Il punto di partenza ( il fiat lux ) è costituito da una emozione che precede il pensiero ed è altro da quest’ultimo. Ma già in tale avvio è contenuta una approssimazione , comunque inevitabile. Non si discuterà mai abbastanza se esista un nudo fatto  scindibile da una elaborazione emozionale. Ci sentiamo più rassicurati dall’idea che esista una divisione soggetto-oggetto e che vi sia , in un dato momento e a date condizioni, un incontro  tra i due termini. Alla nostra esperienza la fusione appare già avvenuta e che il piccolo fatto quotidiano ( così diceva Sanguineti, ma il piccolo fatto può essere anche un grande fatto ) e già dotato, per sé stesso, di una carica emozionale. Anche qui va chiarito un equivoco. Non è dato distinguere , oggettivamente, tra fatti dotati di tale carica e fatti non dotati di essa. Può essere messo in discussione , rigorosamente, lo stesso termine emozione , carico di ambiguità. Volendo distanziarsi da esso, può essere più utile parlare di un nucleo di sensazioni provenienti da campi di esperienza diversi . Con una certa carica provocatoria possiamo dire che essi spaziano dal primordiale riflesso di difesa  all’ultimo amore o libro letto.
Chiamiamolo fatto significativo.
[…]
E’ certo che esso si colloca nel tempo che è una delle condizioni del nostro conoscere. Ma il rapporto tra tale fatto significativo e il tempo successivo assume modalità diverse. A volte esso viene messo da parte ( immagazzinato, per così dire, nella memoria a lungo termine ) o del tutto dimenticato. Altre volte produce subito la catena delle associazioni e dei richiami che verranno a costituire la trama del testo.
Questa distinzione ha un valore meramente descrittivo. Non vi è una differenza teoricamente significativa tra fatto memorizzato e fatto immediatamente suscitatore di catene associative. Nell’uno come nell’altro caso il fatto originario si arricchisce di associazioni e richiami. Queste associazioni non sono necessariamente programmate , cioè sempre e totalmente coscienti. Esse spesso si verificano in virtù di altri fatti significativi che funzionano come catalizzatori nell’esperienza poetica del fare.
Ma anche in questo passaggio bisogna essere cauti. Anche se non programmate, le associazioni non sono incontrollate, come vorrebbe un certo surrealismo di maniera ( il disordine programmato resta un’opzione della ragione ). Esse subiscono interventi di organizzazione .
 Il termine del testo è anche un termine cronologico, ma solo nel senso banalissimo
che una poesia si completa all’ora x del giorno y. La pratica di segnare data e luogo ( il Belli , ad esempio, annotava pignolescamente persino la  stesura in carrozza di alcuni suoi sonetti ) può interessare solo un biografo, ma è insignificante per chi scrive.
Ma la parola fine riferita ad un testo poetico ha un significato diverso  che prescinde dal calendario, dall’orologio e dalla geografia anche se si colloca in tutti e tre questi punti di riferimento.
La fine è individuata dalla parola che conclude  il processo di gestazione e la vittoria del testo perfetto. Rispetto all’assimilabile ( per metafora ) processo fisiologico  il poeta non ha il riscontro della normalità della propria creatura rispetto ad un modello naturale e non ha neppure la perentorietà di un termine cronologico che l’avverta che il processo è compiuto. In tale momento il poeta è giudice di sé stesso  nel senso tutt’affatto particolare  dell’individuazione che la conclusione di fatto ( il testo ) non tollera prosecuzioni. Mutuando dal gioco degli scacchi si può dire che tale momento è quello dello scacco matto , punto in cui ogni mossa ulteriore  è impossibile.
[…]
Se è corretto vedere nella stesura di getto una sorta di inganno dei sensi, il discorso ritorna a quell’altra modalità che richiama l’esperienza ( psicologica e fisiologica ) della memoria a lungo termine. Rilke , ad esempio, nei Quaderni di M.L.Brigge  raccomanda di rimuovere il ricordo  perché neppure i ricordi sono esperienze. Questa testimonianza sottolinea, in modo radicale, la necessità che l’emozione ( che è istantaneamente ricordo e solo come tale diventa oggetto di meditazione ) si sviluppi, nel tempo, in una catena di associazioni e di connessioni di un vissuto ed acquisti così la propria significatività.  Essa chiarisce che non basta sentire qualcosa e ridere e piangere per qualche cosa trascrivendo il nesso causale tra il sentire e il reagire ad esso in qualche modo.
L’emozione che torna, va iscritta nel codice del presente che implica una esperienza matura.
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foto donna di stradaStralcio dalla prefazione di Silvio Riolfo Marengo
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“È un felice ritorno questo di Giorgio Mannacio che, dopo aver esordito con due epigrammi satirici sui numeri 4 e 5 del Verri ( 1959 ), nel 1987 aveva affidato alle edizioni di “ Resine “ la sua prima raccolta di versi, Comete e altri animali. Ad accoglierlo, con attenta e cordiale premessa al volume, era stato Vico Faggi,validissimo autore teatrale e poeta di vaglia, chiamato alla guida della rivista dopo la scomparsa di Adriano Guerrini che l’aveva fondata….
Vico Faggi aveva ravvisato la nota più singolare della poesia di Mannacio nel procedere “ per sintesi fulminee in grado di accostare luoghi e tempi lontani, presenze ed assenze, sensazioni e ricordi di sensazioni “. E’ un modus operandi che governa anche questa sua nuova raccolta…
Ed è il tempo, l’antico Cronos dai pensieri tortuosi a dettare i cambiamenti di tono che in questa raccolta si avvertono rispetto alle prove precedenti di Mannacio, anche se resiste incolume la chiarezza di un impianto meditativo continuamente vivificato da dubbi, interrogativi, passioni e soprassalti gnomici. Un riepilogo dell’esistenza, dunque, stretto ad unità anche dalla misura controllatissima dei versi – endecasillabi e settenari, il naturale respiro della poesia italiana – giocati …sull’uso calcolato di rime, rime interne, assonanze, allitterazioni. E tuttavia, questa sapienza metrica non turba mai il premere della vita che le sta a monte come radicamento familiare, legame affettivo con i luoghi e le persone vive e scomparse. Sentimento, si badi, e mai sentimentalismo perché Mannacio ha dalla sua la… capacità di oggettivare le situazioni più diverse… Poesia forte e discreta per scavi e sottrazioni, potremo dire, aggancio di esperienze individuali  al destino comune ma sempre per accostamenti imprevedibili, lampi ed evocazioni istantanee… È dunque il fluire del tempo, che cambia continuamente la visione delle cose e ci impedisce di raggiungere la loro essenza senza mai smettere di ricercarla, il leitmotiv di questo libro che trova la sua chiave di lettura nel concatenarsi di amore e di pietà, di ragione ed enigmi irrisolti…. Il dio di Mannacio, sempre in minuscolo, si identifica col destino, con l’inesausta speranza di eternità legata all’agire poetico e la consapevolezza dell’inevitabile disperdersi delle foglie ( dei fogli ) nel vento agitato dalla Sibilla cumana. A chiudere il cerchio è ancora una volta il rimando alle fonti classiche della poesia nella loro manifestazione più alta, Omero e Dante citati in exergo.
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foto casa in disordineCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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È noto che il modello della prosa scientifica ha avuto un ruolo determinante per la poesia che è stata scritta a Milano fin dal 1952, data di esordio di quei “Lirici nuovi”, antologia curata da Anceschi, dai quali iniziò l’inversione di tendenza dell’egemonia poetica in Italia, che si spostò dal centro sud al nord. Quella prosa poesia di carattere didascalico e di derivazione scientifica che ha avuto la prima evidenza con il libro di Giampiero Neri L’aspetto occidentale del vestito del 1976. Si impose così all’attenzione generale un tipo di scrittura neutra, volutamente spoglia di effetti stilistici, tendente ad uno stile dichiarativo, quasi scientifico. Si veniva scoprendo che la struttura della poesia permetteva questi esperimenti, anzi, che quei tratti segmentali la poesia non li detiene in proprietà privata ma li condivide con altri generi letterari e, in primo luogo, con la prosa scientifica. Di qui venne quel sospetto con cui si guardava ad ogni tentativo che volesse perseguire un linguaggio «emozionale» o «emotivo» nell’ambito della poesia. Cohen ha chiamato «connotazione» questa caratteristica del linguaggio poetico che, secondo la sua visione, viveva dell’antagonismo con la «denotazione». Due sistemi di significazione in rotta di collisione reciproca. Questa concezione della poesia vedeva nella connotazione un sistema di significazione che si collegava ad un sistema di significazione primario, quello della denotazione. Fatto sta che una linea di ricerca poetica che si è fatta a nord, e precisamente a Milano, ha preferito premere sul tasto di una poesia denotativa, subordinandole la funzione poetica basata sull’espressività dello stile affettivo (o emozionale), quella connotativa.
In questo libro di Giorgio Mannacio si avverte con chiarezza il nodo problematico di un certo pensiero poetico: sostanzialmente una struttura elegiaca basata su un fondamento denotativo. I suoi momenti più alti la scrittura di Mannacio li attinge quando introduce il traslato, un metalinguaggio nel linguaggio, quando parla d’altro per non dire qualcosa che non può essere altrimenti detto. Insomma, quando introduce la funzione invariabile del «tempo» (gli anni) che interagisce sulle funzioni variabili (i luoghi, i pensieri). Degno di nota è il lessico desublimato e prosaico con il quale Mannacio ci consegna la meta poesia di apertura del libro. Non si tratta certo di «arredamento», come spiega ironicamente il titolo, ma, in un senso, sì, si tratta di un vero e proprio «arredamento»: c’è una «Regina» e un «lui»;  è un tema esistenziale, dunque, e il percorso a ostacoli intrapreso dai due soggetti dell’arredamento dell’essere è la felicità. Ma è un tema che non si può affrontare se non per via indiretta e per traslato, quello che fa, appunto Giorgio Mannacio in tutto il libro, mette in scena una procedura euristico-ironica:

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Consigli di arredamento

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Sul tavolo immenso e fermo,
non argenti, soltanto una penna, fogli innocenti
e in un angolo lei, la Regina,
del tempo imperturbata pedina.
È facile disporre
nel limitato spazio altri oggetti usuali
secondo i capricci o le convenienze dell’ora.
Di là, prossimo, un letto accogliente
quello di ormai perduta
vita comune
seme delle speranze a somiglianza.
Lui vuole ancora, nonostante tutto,
segnare col proprio corpo
i luoghi della memoria;
seguire col proprio corpo
altri moti apparenti e ineludibili
compresi nell’assorta geometria
d’un pensiero, d’una finestra.
Stanotte, almeno, non la vedrà sparire.

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Giorgio Mannacio.

Testi da Giorgio Mannacio “Gli anni, i luoghi, i pensieri (Poesie 2010-2013)”, 2015

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Appunti di astronomia
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Diversa, nei propri nomi,
un’identica stella oggi si mostra
in due diversi punti. In questo è il senso
dell’unico, solitario suo splendore.
Si sdoppia nell’annuncio
d’una resurrezione e di un declino
svelando prima del suo breve giro
la luce millenaria del mattino.
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Vita e destino
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Se alambicchi segreti distillando
veleni provvidenziali sono complici
di amorose carezze o di mortali
ferite là dove batte il cuore,
non è soltanto questa la ragione
del pianto e del sorriso.
Altri percorsi impongono
la gioia ed il dolore
contorti, inesplicabili e, alla fine,
arrivano alla meta, una finestra
aperta all’avventura.
Un grido o una canzone l’attraversano
perdendosi nell’aria
dove scheggiata dall’azzurro brilla
la stella del mattino, solitaria.
.
L’ultimo dei giusti.
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1.
L’ultimo trono vuoto in paradiso
è destinato a lui, l’ultimo giusto.
Poi finisce la storia risucchiata
nell’abisso che allora
chiamavano eternità.
Lui completò la strage, nessuno fu risparmiato
e nessuno ricorderà.
2.
Vestivano di lino
i prìncipi innocenti
nei lunghi, quasi infiniti, giorni d’estate.
E le correnti pigre, impaludate
stagnavano colori di malattia,
sfibravano il fiore azzurro
quelle donne cantando quasi con allegria.
3.
Sembrava, ma non era
la luna a galleggiare tra gli alberi del giardino.
Fermarono così la breve attesa
di quella luminosa mongolfiera
nello stupore di una mano tesa.
Ci fu un comando, non una preghiera
e nessuna pietà dopo la resa.
4.
Dove andrete, bambini, quando
si torceranno ardendo
i rami cui appendeste l’altalena ?
Niente deve restare ed anche voi nel fuoco
sarete ridotti a cenere.
Se l’anima è una fiamma
anch’essa si spegnerà tra qualche istante.
5.
E’ legge che sia distrutto
anche il seme e così sepolta
la radice della memoria.
Se nessuno ricorda, niente è la storia
oltre la mongolfiera e sotto la luna piena.
Più in alto ancora nell’indifferenza
l’ultimo dei giusti ostenta la sua innocenza.
.
giorgio mannacio Gli anni,i luoghi, i pensieri.
Tra tombe ed eroi
.
In questo slavato sole trova consolazione
il suo circospetto vagabondare.
Non si cura del resto. Non ha mai letto
I grandi cimiteri sotto la luna,
non ha lasciato impronta alcuna
sulle spiagge di Normandia,
non è interessato ad indagare
identità e differenze
tra corsie bianche di croci e qualche stella di Davide.
Le vuole accostate insieme un giardiniere asettico
che cura alla perfezione
una verde, ordinata, equanime dissoluzione.
Con la luce che sembra eterna e poi muore
si dilata il potere magico
dei suoi occhi di giada: lo spazio si fa destino.
In esso appariranno altre vittime,
nuove consolazioni
al suo orientato cammino
.
Gli incanti della notte
.
Gli piaceva aggirarsi
nelle stanze svuotate dal sonno,
fermarsi
presso l’ago sottile
che promette o minaccia un tempo sereno.
Sono lontani, velati, i dolori del mondo;
anche dio sogna
per sé stesso e per gli altri diversa fortuna.
I concetti si fanno immagini,
figure di un teatro tra domande e risposte
senza pretesa di verità.
Soltanto i libri allineati tentano
l’inganno di mille e una notte.
Nell’aspettare l’ultima
ad occhi aperti non c’è miracolo
come si favoleggia.
Si spera soltanto, invece,
che nell’intricata trama essa sia presa
e benevola sosti ( quanto? )
a donarti la grazia dell’attesa.
.
Il viaggio rinviato
.
Quasi fosse vangelo
mi leggeva “ La Pipa “ accanto al fuoco,
l’amore sfarina in giuoco
tra i sacchi di granturco giù in cantina.
Mi chiedi perché sono
così restio a tornare,
tu che vuoi dare senso all’equazione
tra lo spazio che ci separa e la perduta
nostra stagione.
Io ho smesso di contare
il numero dei giorni e di quei sassi
in bilico sul torrente
al peso dei nostri passi.
.
Altro equinozio di primavera
.
La coda dell’inverno oggi colpisce ancora
tra forsizie già in fiore.
E’ l’astuto serpente che non vuole
alcuna resurrezione
a stendersi sul confine. Sono eguali,
sulla traccia che lascia, buio e luce.
Con un colpo di vento arriva
l’inizio della fine
perché sono ormai dischiusi
sugli alberi i germogli, sciolte in alto
le nevi da cartolina. Cosa resta
alla felicità delle radici?
.
Solstizio d’inverno
.
Il mare è grigio, fermo.
Immobili sulla spiaggia deserta
freddi uccelli di varia specie.
L’armonia delle sfere regala
l’illusione di cosa sia
o possa essere l’eternità.
Non memoria né progetto,
solo estatica confusione
di un punto inesteso in cui si rivela
il suo indefinibile aspetto.

.

La stanza degli dei
.
Stanno
marmorei ed immobili
in perpetua dissoluzione e in perpetua fissità
loro,
i custodi del nostro destino arroccati
in una innocente malvagità.
Non degnano d’uno sguardo
la foglia che, prima, ondeggia e, poi,
trascolora,
il sorriso mutato
nel silenzioso naufragio di un’ora.
Ma in quel dipinto di antica scuola
qualcuno ha socchiuso la porta: uno di loro
si è voltato al debole scricchiolio;
il disegno arresta l’istante che è un cenno.
D’attesa, d’addio?

 

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Salvatore Martino (1940) UNDICI POESIE da “La fondazione di Ninive” (1977), Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25), con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

salvatore martino copertina la fondazione di ninivo
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Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli à stato conferito il Davide di Michelangelo , nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla  e insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
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Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

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Appunto di Salvatore Martino
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Intorno alla città mitica e reale, mai distrutta nella memoria
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Cominciai a scrivere “La fondazione di Ninive” nel 1965, in seguito alla folgorazione, quasi una via di Damasco incontrando T.S.Eliot e il suo maggior fabbro Ezra Pound. The Wast land e i Four Quartets, i Pisan Cantos abitarono la mia casa come in seguito ad uno sconvolgimento tellurico, incrociando il mio specchio, la mia anima, la mia razionalità.
Molte cose avevano preceduto questo evento, la scrittura volgeva allora verso i grandi spagnoli del ‘98 Jimenez e Machado, e a quelli della generazione del ‘27 segnatamente Lorca e Guillen.  Fogli,  lettere,  alfabeti, frammenti, tentativi lunghi e brevi, dispersi e ritrovati, abbandonati sui tavoli, e mai distrutti, ferocemente segnati, custoditi comunque in un codice della memoria. Adesso finalmente costituiscono il corpo iniziale del mio werk, “Cinquantanni di poesia”.
Cominciai a intravedere “Ninive” come ho già detto nel 1965, avendo in qualche modo chiaro il disegno di un poema in tre parti. In realtà codesta divisione era l’unica finestra in un magma materico da evocare dal letto dove dormiva da chissà quanto tempo. Sapevo soltanto che sarebbe stato un viaggio, la ricerca di una identità perduta, forse un lontano gennaio,di un anno che non possiede numeri, la resa dei conti con l’Altro. Del resto attore per vocazione di alchimista, ma anche di viandante, in ultima analisi di randagio, ho sempre viaggiato, maledicendo sempre la partenza, sperando la sosta ad ogni stazione di treni, ad ogni angolo di aeroporti, in un ciclo costante di ritorni, ma non è stata mai una fuga, solo la condizione ineluttabile dell’essere mio e dell’Altro.
E “Ninive” descrive appunto questa lunga parabola nelle tre sezioni, in cui il poema si divide: il viaggio/ la casa/ steep darkness. Un cammino che cerca un approdo, il richiamo definitivo nella speranza che la tua dimora ti  avvolga e ti possieda, ma l’itinerario scivola inesorabilmente nella ripida oscurità. Tutto ho messo di me in gioco in queste pagine, l’eros e l’assassinio, la maschera, il teatro, l’abbandono degli studi di medicina e della normalità, il disprezzo per le cose banali, la condanna politica, il senso ambiguo della storia, l’erotismo del corpo e della mente, il silenzio di Dio, le navi e l’oceano, gli eroi del mito, lo specchio che rimanda la tua immagine che a volte non sai decifrare, lo sguardo tuffato dentro il cosmo, la precarietà degli affetti, gli inganni e l’amicizia, e tante altre cose.

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Ninive mi ha perseguitato con rabbia a volte, spesso con dolcezza, con disperazione nell’arco di undici lunghissimi anni, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente quasi in maniera autonoma, al di là, altra da me. Dal 1976 cammina finalmente la sua strada, con fatica, ma libera, non mi appartiene più.
Mi rendo conto che i testi riprodotti in questa sede non possono minimamente raccontare tutto il poema, tra l’altro sono fra i più brevi, ma certo Linguaglossa avrà avuto le sue ragioni per sceglierli.
Voglio riportare, e mi scuso se approfitto dello spazio rubandolo, almeno la chiusa del saggio introduttivo che il grande Ruggero Jacobbi regalò al mio “La fondazione di Ninive”.
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Martino ha percorso questo iter rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato, in modi di verso e prosa, che non somigliano a niente d’oggi, che sono soltanto suoi e meritano dalla critica, un’attenzione senza pregiudizi, capace di illuminare la vera sostanza di questo dramma di questo romanzo di questa elegia.
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Salvatore martino cinquantanni-di-poesia-1962-2013
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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La fondazione di Ninive riunisce poesie scritte dalla metà degli anni Sessanta fino all’anno precedente l’assassinio di Moro, il 1977, ma del gusto degli anni Sessanta-Settanta questi testi di Salvatore Martino non recano traccia alcuna; è una scrittura che soffre di aperta discronia stilistica e spirituale rispetto alla poesia del suo tempo. Questo è un dato di fatto dal quale io partirei per avvicinarmi alla poesia di Martino. Che la sua poesia non fosse in linea di consonanza con il suo tempo credo che fosse chiaro anche all’autore all’epoca della stesura delle poesie. Ma il problema è che quando un’opera manca l’appuntamento con il lettore, o meglio, con l’uditorio maggioritario, ne deriva che la sua collocazione viene a non essere riconosciuta per mancanza di simultaneità e di scambio reciproco tra l’autore e il lettore, tra cerchie letterarie e l’opera. È quello che è accaduto al secondo libro di Salvatore Martino, che si situava in un suo spazio proprio, anche linguisticamente, isolato e isolazionista, se pensiamo al taglio squisitamente retorico (di alta retorica) del lessico e della sintassi Martiniane, per quel suo desiderio di rendersi non riconoscibile, di ritrarsi in un mondo oscuro e nella penombra di una parola che era e sembrava elusiva ed allusiva, enigmatica, magmatica e che puntava molto su tali quintessenze. Questi aspetti  finivano per accentuare il fatto che il testo sembrava essere il lettore di se stesso. Un testo che rischiava di apparire «squisito», «effabile» e, quindi, «elitario» in un momento in cui la parola d’ordine l’avevano pronunciata Giovanni Giudici con La vita in versi del 1965 e Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), per una poesia di taglio colloquiale, civile, con tematiche industriali e urbane, dove la chiarezza denominativa e l’abbassamento dei registri stilistici erano ritenuti elementi assolutamente prioritari. Insomma, Martino privilegiava la via della oscurità del tragitto esistenziale, l’esperienza erotica e dionisiaca e l’accentuazione di certo orfismo, quando i tempi invece si orientavano verso la chiarezza del nesso referenziale, l’abbassamento del lessico, l’ambientazione e i temi urbani. Martino punta ancora sulla analogia e sulla simbolizzazione, in una parola, sulla connotazione, in un periodo nel quale invece l’uditorio letterario preferiva la denotazione e la letteralizzazione. A rileggerlo oggi quel libro ci appare fuori delle aspettative dell’epoca, fuori del suo orizzonte degli eventi, e, direi, più inaspettato rispetto a quello di Giovanni Giudici. Oggi, paradossalmente, La fondazione di Ninive, ci appare più in sintonia con le esigenze della ricerca poetica odierna, e pensare che sono trascorsi cinquanta anni dalla stesura di quei testi, ma il fatto è spiegabile perché, in poesia, ciò che si pone come contemporaneo invecchia presto, mentre spesso ciò che si sottrae al contemporaneo, alla lunga, si rivela essere più moderno delle opere un tempo considerate di punta. Con il suo secondo libro il giovane Martino coglieva nel segno di un’opera nata sotto l’egida di uno smaccato anacronismo e di uno scandaloso elitarismo della soggettività. E venne subito archiviato. Forse, oggi si può cogliere con maggiore distacco e serenità la sensuosità di certi passaggi-paesaggi della poesia martiniana, forse di gusto un po’ floreale e appassionato, ma proprio per questo oggi vicini alla sensibilità del lettore moderno. Scrive Donato Di Stasi nella Introduzione al volume Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25): «Opera viscerale e cerebrale, La Fondazione di Ninive espone il grumo a cui la coscienza è stata ridotta nella postmodernità… concentra nei suoi risvolti stilistici una formidabile lotta fra il linguaggio e mondo, una partita luttuosa fra l’eros sempre in fuga dalle catene della stabilità e il nostos, sinonimo di necessità e di ritorno a un porto sicuro di significati». (Ibidem p. 135)
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Salvatore Martino in tralice

Salvatore Martino

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da Cinquantanni di Poesia 1962-2013 (Roma, Progetto Cultura, 2015 pp.  1000 € 25)

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A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?

A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo

Tradito dai sicari

Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte

Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro

Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto

Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto

Una centuria volatile

***

Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica

E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera

Mercoledì 8 gennaio in una valle

E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere

E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo

Se ancora i passi si cancellano
***

A sera la camicia sporca O luna O luna come non sei!
Che il nodo sale e l’anima si spezza Che faremo a gennaio?
Darker and on other time siamo invasi di calma ora
che il tempo è entrato a far parte di noi e l’attimo
blocca le scale O luna O luna per coprirci la mano

***

Esistono giorni che vorresti partire ma per restare e
partire domani o non partire più che hai perso la
logica del partire e ogni logica di transito ch’è poi la
logica di tutto che passi la meditazione della giornata
sopra una mosca e il vento ostinato di grecale contro
l’azzurro del sole Esistono giorni che potrebbero finire
giorni come esistiamo noi senza numeri e segni

E vorresti partire non più domani nel transito di una
mosca uccisa non far niente e sparire non essere stato
non essere mai cancellare ogni presenza del tuo niente
Che niente?

***

Se poi ti addormenti il sonno ti avrà posseduto
come appartenne a te il sonno prima di essere
sonno e ancora alla fine Il miracolo cresce ha
lunghi capelli che non risentono d’influssi ormonali
il letto e il tavolo sono le due dimensioni basta con
gli inganni! Perché il letto è ancora vuoto e io che
aspetto di dormire sono un numero senza matrice il
mistero di un punto fino al finito sirena e luce Il letto
non dovrà aspettare! Ma incidere i grovigli? Gli occhi
rifiutano di vedere perché seguitare? 9/8/6/3 Si sente
un fiato che cresce fino a gonfiare l’aria E poi niente

 

salvatore martino col sigaro

salvatore martino

***

Eros il saggio si sedette sull’orlo della cisterna

A volte mi domando ed è una lunga sera di quelle che non
puoi uscire attraccato alla porta con le scarpe in mano
e una sedia per passi e la stanza prende vigore dal caldo
una cortina separata dalla strada irreale Una di queste
sere mi domando quando il canto degli alberi è rotto dal
silenzio e significa speranza il modulato avvertimento
dei pesci nell’ora della rete per tante miglia tirata da
comode barche e speranza l’assetto del cielo e le
innumeri galassie e il freddo arriva dal mare e non ha
forza e i marosi distaccano i denti incagliati nella sabbia
A volte mi domando

Il dolore è mancanza

***

Giungono d’ogni parte assassini dagli occhi di smeraldo
e la pelle assetata la barba corrosa dal libeccio

– Ma il sangue s’è appiccicato al pavimento non viene
via Non viene ! Via! Più gratto e più lo si vede –
Un garofano macchia la platea Le sventure rimangono
appiccicate a un piedistallo geometrico emergono dalle
latrine come il cotone introdotto per forza nell’esofago

Dannato colui che si perde nei cunicoli impensati
della memoria e l’altro che decifra il limbo del futuro

***

Se un giorno ci siamo amati che sia possibile intrecciare
memorie di viaggi con la candela in mano e trafiggere
le stimmate di una qualche avventura prossima ormai
alla fine e dormire con la bocca interrata in un campo
di vermi trascinando l’aratro del tuo sesso per anfratti
sovrani seminare sventure nella terra di Sisifo che sia
possibile se un giorno ci siamo amati non importa in
quale angolo di strada o piazza o camera d’albergo al
terzo piano attraverso giorni dominati dal vento che
sia possibile se molto ci siamo amati confondere
il seme e la testa l’unica memoria del viaggio

L’amore sulla pietra arenaria Perché ci legarono i sassi
Arpionati Dalla bocca a taglio dello squalo But if you
like it Se ti domando l’universo in parti disuguali
o mi trascende un segno dei tuoi capelli In tutta questa
storia ci legarono i sassi alla scoperta di sabbie
lacustri nei lunghi pomeriggi Arpionati La testa in
parti uguali I piedi che si sfaldano

***

Nell’universo quando due storie
si equivalgono restano inespresse

Attraverso chilometriche fiale
Darker the sky on the back of the mountain
Segni di un antico dominio
Sempre gli stessi libri Sbiadiscono i capelli

Quando mi dissero di lasciare la casa
lo feci senza rumore
Perché negare l’assoluto?
Presi le cose che più mi appartenevano
lasciando ad altri l’inventario e la strage
Il mondo può avere rispondenze precise
in cambio del piacere il piacere

Le storie si equivalgono
su bassa frequenza di contatti

Lo feci senza rumore come
sradicando l’albero della prima infanzia
e il petto struggente della madre

Nuvole imbiancate a calce lungo siepi giganti
calpestano fiori di loto e l’acqua solitaria dello stagno
dove il giovane bello coglie il bacio mortale

Non c’è silenzio così grande che non possa

***

Colmato è il piano Si procede a distanza dagli ultimi
vigneti per un’estate obliqua nella magia degli occhi
Si scendono pendii e bianco alla vista dei corvi
l’arsura ci unisce fino alla decima carta S’abbassano
a cerchi e intorno la sterpaglia assetata Qui riluce
il falco e si chiamano ovunque giostre di uccelli Quando
verranno a prenderti Un sibilo di piume Il gioco delle
sfere La pelle si attorciglia alla carotide Quando verranno
a prendermi Il gioco degli specchi oltre la decima carta
e il rammarico di non aver parlato e come potesse
finire un’altra sto
ria o soltanto impietrirsi nel ricordo
Quando verranno a prenderci legati a doppio anello
di menzogne quando muti verranno col freddo piede
di uccello l’unghia ritorta nella gola

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DIALOGO SU SCOMPOSIZIONE E RICOMPOSIZIONE DI UNA POESIA: Salvatore Martino, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Steven Grieco-Rathgeb con poesie degli autori intervenuti nel dibattito, Luigi Manzi, Mario M. Gariele, Roberto Bertoldo, Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Ubaldo De Robertis e un Innominato

  1. Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

    Evgenia Arbugaeva Weather_man

    Salvatore Martino
22 aprile 2016 alle 16:12 Modifica
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Cosa dire dopo le straordinarie precisazioni di Laura Canciani. A proposito carissima dopo tanti anni di straordinaria amicizia mi hai dimenticato e forse persino cancellato…e il fatto mi addolora profondamente.
Quanto allo stravolgimento del testo di Linguaglossa non riesco ancora a comprenderne l’utilità. Spiegatemi dove puntate la vostra barra di timone, In quale porto pensate di ancorare codesto preteso vascello rivoluzionario. Nella mia modesta comprensione della poesia continua ad essere un cammino incomprensibile, o meglio una mèta incomprensibile.
Quanto poi alla scoperta del frammento come luce divina per la costruzione di una nuova poesia,Qualcuno di voi ricorda un certo personaggio, chiamato l’Oscuro di Efeso, Eraclito per gli amici,che tanti secoli prima di Cristo si dilettava a scrivere meravigliosi frammenti, che hanno sconvolto l’anima e il pensiero di infinite generazioni. Usiamo pure la frammentazione nella certezza che prima di noi molti lo hanno fatto e bene, senza la pretesa quindi di una scoperta innovativa, e di dare le direttive per una renovatio discutibile.
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  1. giorgio linguaglossa sul mare Ionio 2013

    giorgio linguaglossa sul mare Ionio 2013

    giorgio linguaglossa
22 aprile 2016 alle 17:38 Modifica
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caro Salvatore Martino,
s’intende che la stesura definitiva di questa mia poesia sia quella che io le ho dato, essa è fissata così, e per sempre (un sempre umano ovviamente). L’esperimento di decostruzione compositiva e di riassemblaggio di De Robertis è, appunto, un esperimento che è utile per liquidare, una volta per tutte, il pensiero teologico della Santità della poesia, e quindi della sua immodificabilità. E, invece, la poesia è modificabile, scomponibile, ricomponibile come ogni altra cosa nel mondo dell’iper-moderno. La Poesia ha perso il Centro. Bene, e allora facciamo di questo punto di «debolezza» il nostro punto di «forza»; la Poesia è andata verso la «periferia» delle scritture dell’io e delle scritture tele mediatiche. Bene, accettiamo la sfida per dire che è possibile fare una poesia della «perdita del Centro» per riposizionarla al Centro di un universo eccentrico.
In tal senso, anche la scrittura più destrutturata e decostruita del Novecento, Laborintus (1956) di Sanguineti, è ancora una scrittura che si poneva nel solco di un pensiero teologico, si poneva come “opera aperta” ma pur sempre come posta al «centro», magari di un «nuovo centro» di una nuova istituzione letteraria. Era, in definitiva, una destrutturazione che operava all’interno della letteratura. Noi invece pensiamo che la letteratura debba uscire fuori dalla Letteratura, che i generi debbano essere dis-locati al di fuori dei loro confini; insomma, pensiamo di dare uno scossone a tutti i residui di pensiero teologico e logocentrico, e di porre la poesia stabilmente in un «luogo» che è dato dalla mancanza di un «centro» ove tutto è instabile e probabilistico, e di fare di questa mancanza di un «centro» la nostra forza. Certo, non pensiamo di aver inventato alcunché, già Eraclito, forse il pensatore più possente dell’Occidente insieme a Parmenide, aveva pensato il «frammento». Quello che l’Ombra sta vivendo è qualcosa che attiene all’essenza profonda della nostra epoca che vive di rivoluzioni (scientifiche) continue della percezione del mondo. Viviamo in un momento di grandi rivoluzioni scientifiche. Il CERN di Ginevra ha detto che entro due anni sapremo con certezza che cosa c’era prima del Big Bang. Ebbene, questa per me è una novità sconvolgente, una novità che ci coinvolge tutti. Un’altra teoria scientifica recentissima recita che non c’è mai stato un Big Bang, ma un continuo divenire degli universi da altri universi. Insomma, un riversarsi di universi in altri universi.
In fin dei conti, anche la poesia recentissima sembra rispondere a queste nuovissime cognizioni del Multiverso: un continuo riversarsi di frammenti in altri frammenti…
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  1. Steven Grieco a Paestum

    Steven Grieco a Paestum, 2013

    Steven Grieco-Rathgeb
  2. 23 aprile 2016 alle 18:00 Modifica.
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Rileggendo e ripensando il post di Manzi sull’Ombra delle Parole, confermo quello che ho detto nel commento da me postato tre giorni fa. Ma a questo si è aggiunto un altro pensiero a cui da tempo cercavo di dare forma. Manzi me ne ha dato l’occasione. E l’occasione mi viene data anche dal post attuale, con la poesia di Linguaglossa.
Basandomi, ovviamente, sulle poche poesie di Manzi che ho visto, osservo in queste un linguaggio cifrato, obliquo: una volontà di piegare l’immagine-concetto perché questo possa passare vicinissimo al suo effettivo dire, letteralmente a un millimetro, senza mai toccarlo realmente, al massimo sfiorarlo. E’ una “timidezza” che nasce dalla consapevolezza del poeta che “tutto è stato detto” – o meglio che “i possibili modi di dire le cose sono stati tutti detti, esauriti”, e il pericolo più grande è ripetere il già conosciuto. Non per una questione pretestuosa di “originalità” o meno, ma perché ormai il compito più duro del poeta è di divincolarsi dall’abbraccio massacrante della civiltà delle immagini visive, che macina tutto, consuma e dimentica.
In Manzi questo avviene secondo me, e così torno a un mio pensiero che ho più volte esposto qui, perché la civiltà delle immagini, con la sua irruenza e prepotenza, dà al fruitore (noi tutti, compresi i poeti, che non possono da questo punto di vista rivendicare la benché minima posizione di prestigio o di inattaccabilità), dà al fruitore, dico, esattamente il senso di troppo pieno, di offerta, mille volte più offerta rispetto alla domanda, per cui siamo totalmente sazi. Il senso di sazietà culturale più di ogni altra cosa nuoce alla poesia, che è massimamente l’arte del silenzio, del gesto appena visibile. La poesia è questo. Nessun Majakovskij, con tutti i suoi squarci e urli e trionfalismi, è mai riuscito a rompere questa blindatezza della poesia. (E lui lo sapeva benissimo, ahimè.)
Dal canto suo, il poeta oggi che non ha analizzato bene la situazione attuale, che non ha fatto i conti con essa, si chiude in un suo isolamento e così pensa di essere salvo da questo vociare aggressivo di immagini. Di poter fare poesia nel suo angolino. In Manzi, come anche in Roberto Bertoldo, assistiamo invece ad un serissimo, lacerante tentativo di affrontare la più difficile questione che si pone oggi al poeta: come scrivere poesia pur sfuggendo alla macchina banalizzante e macinatutto. Dove trovare questo linguaggio, in quali, quali risvolti nascosti della realtà. Ogni strada sembra sbarrata, o finisce per rivelarsi un sorridente inganno.
Affrontare la questione richiede moltissimo coraggio, e questo sia Manzi che Bertoldo lo hanno fatto in modo mirabile.
Ciascuno a modo suo. Manzi come ho detto crea una poesia che ogni volta, o quasi ogni volta, sfugge di un millimetro al bersaglio, a quella volontà di comunicare il senso di ciò che pure vorremmo dire. Con questo stile “obliquo”, questa lotta di ombre che pure si percepisce fisicamente, questo cozzare di pensieri impalpabili che pure si sentono urlare, Manzi crea una poesia di grande forza e suggestione. Non avendo egli voluto scendere ad alcun compromesso con ciò che lo avrebbe macinato nel tritacarne, la sua poesia è volata via in una dimensione dove le ombre fanno rumore, creano in noi non-rumori, che a loro volta scendono echeggiando nei corridoi angusti di una lucidissima e grandissima disperazione.
Ad una simile disperazione si assiste in Roberto Bertoldo, ma qui viene risolta in modo del tutto diverso. Il suo metodo viene benissimo definito da quello che Peter Brooke dice di Samuel Beckett, in “Lo spazio vuoto” (tradotto in italiano, edito da Bulzoni Editori, lettura di grande insegnamento al poeta): “E’ così che i drammi scuri di Beckett sono drammi di luce, laddove l‘oggetto disperato che viene creato è testimone della ferocia del desiderio di testimoniare la verità. Beckett non dice un ‘no’ soddisfatto: egli plasma uno spietato ‘no’ spinto dall’anelito al ‘sì’, e così la sua disperazione è il negativo da cui è possibile delineare il profilo del suo contrario.” (Pag. 65 dell’originale inglese di questo libro).
Una poesia di Bertoldo, fra le tante, mi sembra possa ben rappresentare questo anelito:

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Lei mi parla di un silenzio
che io ho dovuto ingoiare
tra i frantumi delle parole
come un buco e le sue cornici.
Lei parlando si condanna
a ferire il nulla che attesta
perché non può cancellare il tono
che sussurra con le foglie  
quando cadono. Noi vinciamo
attraverso l’atmosfera che inneggia alle ombre.

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(Dalla raccolta Calvario delle Gru, 1998-200, nella sotto-sezione “Lettere alla Gazza, alla Cicala, al Giaciglio”).
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Vi rendete conto della estrema inafferrabile bellezza di questa poesia? In Bertoldo ogni tentazione a ricadere nel liricismo viene rifiutata aspramente, con dissonanze e stridori tanto fonici quanto di concetto. Mentre Manzi cerca, e perché no, un’armonia, per quanto cupa.
In Bertoldo assistiamo inoltre al poeta che duramente ed esplicitamente contesta il poeta. Il poeta è un essere inferiore: è ipocrita, è un debole, è un traditore, sdolcinato e sentimentale, opportunista.
In Bertoldo questa ira del poeta si abbatte sul poeta e sulla poesia volta dopo volta dopo volta. Ma ciò malgrado il poeta continua a stare dentro la trappola della sua poesia. Insomma, è poeta o non lo è? Se ha il coraggio di dire, “sì, sono poeta”, eccolo allora servito con la trappola della poesia come sua abitazione. Tutti i suoi sforzi per uscire sono vani, la poesia stessa (e il mondo che traluce attraverso di essa, perché cosa è la poesia se non mondo?) non gliene dà la possibilità. Non appena il poeta ha finito di distruggere la sua stessa poesia, scrivendola con ira e senso di sconforto e disperazione, eccola ricostruita, ricomposta. In Bertoldo sentiamo sempre il bisogno doloroso, ineludibile, della poesia. (Ma questo anche in Manzi.)
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Ecco perché la decostruzione bertoldiana dei linguaggi poetici precedenti risulta pressoché totale.
Vado avanti e parlo della poesia di Giorgio Linguaglossa, che aggiunge una bellissima novità a questi due importanti poeti: l’irruzione nella poesia della “vera”, “reale”, realtà. Nell’assemblare situazioni, frammenti, frasi forse reali forse non reali, egli dà a questi il senso che essi non siano rappresentazione della realtà, bensì realtà vera e propria.
Sì, l’ha fatto anche Eliot. Ma Eliot lo ha fatto per i poeti degli anni 1910 e 1920. Giorgio lo fa oggi, nel primo decennio del 21° secolo. Niente è gratuito, tutto va rifondato, di generazione in generazione.
L’avere preso il nome “Grieco-Rathgeb” e averlo scaraventato all’interno di una poesia è stata una cosa davvero felice: la poesia è andata a gambe all’aria (per il momento…) ma quel frammento di realtà – perché questa persona esiste davvero, là fuori nel mondo dell’ognigiorno – rimane come una pietra scolpita, una cosa materica. E’ stato un sovvertimento di 60 anni di poesia intimista. Ecco perché ci insegna qualcosa di nuovo, oggi, nell’aprile del 2016.
E non è l’irreale, il fantasmatico di Borges. In Borges anche l’intromissione del reale è fantasmatico. Qui invece le parole “Grieco-Rathgeb” hanno buttato la poesia per strada, l’hanno costretto a misurarsi con i rumori della strada.
Anche i poeti medievali sentivano qualcosa di nuovo nell’aria, che ancora percepiamo noi lettori, 700 anni più tardi. Ho già menzionato i versi di Dante, ““Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento…”
Ecco invece Cecco Angiolieri:

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– Accorri, accorri accorri, uom, a la strada!
– Che ha’, fi’ de la putta? – I’ son rubato.
– Chi t’ha rubato? – Una, che par che rada
come rasoi’, sì m’ha netto lasciato.
– Or come non le davi de la spada?
– I’ dare’ anzi a me. – Or se’ impazzato?
– Non so; che ‘l dà? – Così mi par che vada:
or t’avess’ella cieco, sciagurato! –
E vedi che ne pare a que’ che ‘l sanno?
Di’ quel che tu mi rubi. – Or va con Dio,
ma anda pian, ch’i’ vo’ pianger lo danno,
ché ti diparti. – Con animo rio!
Tu abbi ‘l danno con tutto ‘l malanno!
Or chi m’ha morto? – E che diavol sacc’io?

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Sono orgoglioso di leggere questa poesia come straniero, come non-italiano, e avvertirne tutta la bellezza e freschezza.

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  1. Gino Rago 3

    Gino Rago

    Gino Rago

23 aprile 2016 alle 18:23 Modifica

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Scrivere per “frammenti” – è già stato ampiamente e limpidamente affermato qui, come in altro blog (patria letteratura), non soltanto da Giorgio Linguaglossa – non è una semplice tecnica ma è semmai un punto cui tende
la Weltanshauung del poeta. Quindi è un abito mentale, una concezione filosofica, una visione del mondo, un’idea dell’uomo dibattuto fra l’io, il cosmo e l’eros. Dunque, con questo tipo di “frammento” niente hanno a che spartire né quello eracliteo né quello di Saffo né quello della scuola alessandrina.
Difatti, se proprio si deve indicare un “modello” io lo troverei sommessamente in quello che resta della “Anfora” rotta di Ubaldo de Robertis, ospitata da Mario Gabriele su L’Isola dei poeti. Anche se, per me, secondo la mia lettura, la più perfetta poesia scritta per “frantumi” è e rimane “Chiatta sullo Stige” di Giorgio Linguaglossa, proposta da “PatriaLetteratura.it”. Componimento esemplare nel quale ogni strofa-frammento-fotogramma ha una ben precisa completezza, un’autonomia sigillata dal punto fermo.
I “frammenti” dunque si collegano direttamente alla forma-poesia.
Del resto, se un poeta persiste nell’attraversamento dell’ordinato, ben tenuto, mesto giardino “popolato soltanto da piante gentili”, giardino nel quale non irrompono né il pensiero filosofico né il plurilinguismo, egli farà innegabilmente una “certa” poesia.
Viceversa, se un altro poeta sostenuto e mosso da un’altra Weltanshauung
è incline ad attraversare “la selva” in cui visionarietà, energia onirica, pensiero filosofico, polistilismo e plurilinguismo fanno irruzione senza sosta, non potrà non approdare a un’altra “forma-poesia”.
Condivido in pieno perciò le meditazioni di Mario Gabriele, offerte in questa pagina del blog, e quelle di Steven Grieco Rathgeb,in altre recenti circostanze, sull’idea di “frammento”
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Steven Grieco Sakurabana 2

Sakurabana

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Poesie di Luigi Manzi
Da Fuorivia, Edizioni Ensemble, 2013

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Presagio

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Il geco, la vipera, il falco sul combusto
altopiano. Il tabacco giace arricciato
sopra i teli di canapa. Ti parlo, anche se tu non ascolti
mentre ti muovi in silenzio sui colli
abrasi, senz’uve.

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– L’afa occlude la bocca,
come un sasso. Nella radura il traliccio girevole
dell’acquedotto
pende sulla vasca in frantumi – Ma già il ramo fulvo
che sporge dal petto dell’acero è il presagio
del tempo futuro. Così io mi rivedo nell’arbusto costretto
nell’interstizio del muro: ultimo rifugio
dove l’arida radica
si nutre di tufo.

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Un giorno

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Un giorno un vecchio dal cuor di leone
teneva per mano un bimbo lungo la strada,
come fosse un diamante. Rullava
nel fondo il torrente; il pino
ruotava la chioma nel vento:
Ho conosciuto l’estate e l’inverno,
la caverna, il bastimento, il recinto.
Sono stato mandriano. Nella foresta
ero padrone dell’aria e dell’acqua,
mai schiavo. Fischiavo ai puledri selvaggi,
li radunavo col solo sguardo.
Ho bevuto alla sorgente che disseta il rettile.
Ho attraversato due volte
l’oceano. Al ritorno,
io resto l’uomo inadatto che fui. Io sono colui
che ovunque è fermo.

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alfredo de palchi roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

Roberto Bertoldo
da Il popolo che sono Mimesis, Milano, 2015
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I distici della notte
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Vi abbiamo addossato le nostre tomaie
per affrancarvi dalla parola venduta,
la poesia ha decretato l’offesa:
non morirete con il canto alla gola,
le nostre mani che hanno terra
tra le fessure delle falangi
gridano con gli ultimi tendini,
fino a troncare il colore pingue
dei vostri aggettivi.
La notte opprime i distici,
vuole un’ampia dichiarazione,
impoetica per di più.
Sulla grata del confessionale
i versi si frantumano,
la tonaca si macchia di rime
e accessori annessi,
il rosario che sproloquia
sulle gambe del messia
sputa i semi delle metafore.
Qualcuno ha gridato la verità
più fortemente delle vostre lamentele,
nababbi di apollo,
gentilizi dell’anima.
Oh poeti, poeti, quale emblema
il mio osso di popolo vi estorce
quando la bocca avete sulla platea
per la tenia degli applausi?
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Poema delle folate (il popolo tradisce)
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Si sono riaperte, dentro, le note della malinconia
per il perdersi dei giorni
forse qualcuno capirà questa spesa di emozioni
e avrà carezze per i marmi
ma le notti di solitudine nascondono la pelle
come fosse mille volte dietro i ceri
e file di pellegrini dalle mani bacate
non riempiranno d’amore la cesta dove crolla il mio capo.
Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
li porta sul sorriso della sua lama
e chi ha assistito alle folate dei secoli
tra i miei capelli sepolti
sa che gli inverni portano ancora
i fiocchi freddi dei deserti.

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Iraq
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Fatemi delirare l’amore
prima di sorprendere i mercati
coi vostri deliri di glicerina nitrata,
io li conosco gli avventori,
i loro occhi, la bocca e lo scarnito,
la fame che farfugliano,
rinvengo le verità e le altre carabattole
nel campo delle mie aritmie.
Oh, questi versi che marciscono
per troppa passione, tra le mie scapole
incontrano la notte che ghermisce.
.
Amare?
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Come si può amare con la bocca allentata,
la verruca sulla palpebra, come possiamo
ancora aprirci alla donna che respira
al nostro capezzale, noi inguaribili romantici
col destino tracciato a bruciatura
e i rami del nostro subdolo corpo
come intricate croci sul bordo del petto.
Brancoleremo nell’incunabolo dei ricordi
con gli occhi aperti, senza retribuzione,
i fogli li scorreremo come ossessi
lasceremo l’impronta sudicia della falsità
per l’architrave del nostro sepolcro.

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gino rago Cratere a figure rosse, Londra, British Museum

Cratere a figure rosse, Londra, British Museum

Gino Rago
Alla bellezza tutto si perdona

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Chi saprà dire alla Regina d’Ilio
la nuda verità su Elena di Sparta.
Menzogne. Calunnie. Soltanto maldicenze
la fuga, il rapimento, gli amplessi
della spartana sul mare verso Troia?
Prima fra le prime accanto a Menelao.
Venerata da Paride al pari di una dea.
Perdonata in patria da servi e da padroni.
La colpa cancellata.
Il rispetto e l’onore riaffermati.
Festa per Elena presso gli spartani.
Le donne vinte invece vegliano i cadaveri.

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Noi siamo qui per Ecuba.
La donna che tutto perde nelle fiamme.
La madre che mai accetterà gli scorni
di quelle dee beffarde, gelose
delle fattezze carnali di fanciulle
contese dai guerrieri a suon di lame.
Lutti. Lamenti. Pugni battuti sulla terra.
Le bende strappate.
I ramoscelli sacri nelle fiamme.

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La freccia lancinante, il dardo vero
a insanguinare il cuor della Regina?
Un’idea soltanto. La stessa
da quando a corte Elena le contese il trono:
vinca la cenere, periscano gli eroi,
alla bellezza tutto si perdona.
(inedito)

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Fatelo sapere alla Regina…

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Fatelo sapere alla Regina, ditelo
anche al Re: non abbiamo
bisogno di niente, né per la carne
viva né per lo spirito del tempo.
Siamo ricchi di noi,
dei profumi del sole nelle primavere.
E’ questo mare aperto
il poema di parole
sull’acqua, ci basta lo sciabecco
a sollevare spume.
Olio e ferite, vino e fatica,
festa e camicia pulita,
vento fanciullo a danzare
nell’erba, amore nelle mani
quando cercano
altre mani, oblio d’anemoni
sui nervi delle pietre,
mulinelli di zagare all’alba.

.

Ditelo alla Regina, fatelo
sapere anche al Re:
non ci servono rubini
alle corone
né domandiamo le monete
d’oro: siamo ricchi di noi
per i canti nel cuore, la saggezza
del pane, la quieta
sapienza del sale:
per le sciabole
rosse dei papaveri nel grano
.
Ubaldo De Robertis CECI N'EST PAS UNE PIPE.-1_resized

Ubaldo De Robertis CECI N’EST PAS UNE PIPE.-

Ubaldo De Robertis
L’Anfora

.

Neve in alto
pura
la terra natia
la gola scura
del fiume in basso
la foschia
continua a salire
il sentiero non è più tanto ripido
come prima
l’eco di cose lontane si separa sparge
dissolvenze incrociate
immagini destinate a scomparire
Lui… non le stacca gli occhi di dosso
– Com’è cupo il tuo silenzio- le dice chiamandola con molti nomi
“È rotta, – ripete Lei- ahimé! È rotta! L’anfora più bella!
Ne sono sparsi i frammenti qua intorno!”
Giorno
inoltrato
il limite dell’orrido
di lato
più in su … l’altura da oltrepassare
più agevole scavare un pertugio
nel ghiaccio
scortati dal richiamo di una cosa calda
desiderio che pervade l’ambito dei sensi
e quello della ragione
senza aderire
a nessuno dei due
calore che non si può attingere neppure in prestito
dall’ambiente
dal niente che li circonda
Lui vuole scavare
andare all’indietro
Lei… andare oltre…
Impossibile sanare la frattura
a partire da quel fondo diviso
dal corso d’acqua
e da quella cima dove più cruda è la realtà
nemmeno scalfita dalle parole dell’uomo
di per sé vaghe e vuote
alla donna continuano a cadere di mano
i frammenti raggelati
“È rotta, ahimé! È rotta!
L’anfora più bella!

.

(Inedito)

.

*
(A Max Frisch)
.
Mare e cielo adunati in un unico sguardo,
visione maestosa, sublime. Ritta sullo scoglio
una minuscola figura, si toglie il cappello
alzandolo il più possibile per sventolarlo.
E non ci sono vele all’orizzonte, angoli ristretti, relitti,
solo stupore, a Palavas, con cui riempirsi gli occhi,
ebbrezza che in un uomo ordinario sparisce.
Non in Courbet. Fierezza, monumentalità,
unisce a quella solitudine, della sua luce
penetra il mondo che si schiude al modo di uno scrigno
e ha bisogno della luce del mondo per esistere.
Nel retroterra un uomo è diventato pietra.
Medusa non l’ha guardato, chissà perché è impietrito
e a che fine le ombre s’intrecciano sul capo anguicrinito,
quale identità lui che, forse, ha conosciuto
molti luoghi in cui fermarsi per rendersi invisibile.
Chi è? Ha forse consumato per intero il respiro?
Lo spazio intorno trasfigura per la rapidità
con cui sfilano tram, un continuo va e vieni.
Uomini che si muovono come nuvole incombenti,
senza avvertire d’essere anelli di una catena casuale,
e persistono ancora… a passare. Forme dissolventi.
Pura casualità l’incontro. L’altro non deve tornare,
prendere una via, ripartire all’istante:
“Non stavi per caso fuggendo dalla sventura?
Per quasi tutto il tempo della vita io l’ho sfuggita
riducendomi in solitudine.”
Amnesia di esseri e luoghi.
Agli uomini comuni poco è concesso di chiedere, o sapere,
arduo trarre inferenze, deduzioni.
Immagini indurite, alterate, confuse con quelle di altri.
Quei peli di un rosso chimico slavati, gli occhi azzurri
iniettati di ruggine, l’arcata inferiore sporgente,
sulla fronte appena percettibile il segno di una cicatrice.
Il tempo estatico dell’insurrezione delirante
ti può esplodere in faccia, auto-annientare, come l’esaltazione
di Corbet per la Comune, pagata a caro prezzo.
Nessuna espressione, ansia di abbandonare le tenebre,
persiste la storica immobilità.
E quel suono alto nell’aria? Un nuovo espediente?
Solleva il Quartetto per Archi l’alto sentire, l’Opera 132,
quanto di più solenne e impenetrabile ci sia nel Genio,
afflitto da ipoacusia. Musica, tempo di redenzione, dell’utopia.
Nessuno che sia disposto ad accoglierla.
Nessuno che sappia congiungersi con Beethoven.
Suoni, segni, e note, alte in numero sempre minore,
condurranno a un raggiro.
L’ assurdità è che uno ha coscienza della propria vuotezza
e l’altro, annichilito, non ha un’identità.
Ma se nella tasca interna della sua giacca scovate un biglietto,
solo andata, per Amsterdam,
Signori, non dubitate quell’uomo sono io.

.

Mario Gabriele volto 1
.
Mario M. Gabriele
Due poesie

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E andammo per vicoli e stradine.
In silenzio appassirono il vischio e il camedrio.

.

Più volte tornò il falco senza messaggi nel beccuccio.
Restarono i giorni guardati a vista, arresi,
un gran vuoto dentro il link e la scritta sopra i muri:
– Non cercate Laura Palmer -.Correva l’anno…

.

L’erba alta nel giardino preparava un’estate
di vespe e calabroni. La nostra già era andata via.
Giusy trattenne il fiato seguendo il triangolo delle rondini.
– Se vai pure tu – disse, io non so dove andare!
Con i ricordi ci addormentammo e non fu più mattino.
L’alba non volle metterci lo sguardo.
Il boia a destra, il giudice a sinistra.
Caddero rami e foglie.
Fuggirono l’upupa e il pipistrello.
Nel pomeriggio confessammo i nostri peccati.

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La condanna era appesa a un fil di lana.
I capi del quartiere si offrirono per la pace.
Li conosciamo – dissero. – Hanno dato tutto a Izabel
e Ramacandra. – Aronne è morto.
– A chi daremo allora ogni cosa di questo mondo? –
– La darete a Lazzaro, e a chi risorge
su questa terra o in un altro luogo e firmamento,
prima del battesimo dell’acqua,
non qui dove una quercia in diagonale,
come in una tavola di Poussin,
fermerà il tempo, e sarà l’ultima a fiorire –
(Inedito)
.
Quando vennero i Signori Herbert e Mrs. Lory
a salutare i fantasmi della sera, non c’erano
damigelle e masterchef, ma macchie bianche
sul tavolo dell’ 800, con qualche tarlo ancora in vita.
Si poteva dire di tutto, ma la casa era una favela,
tenuta in disordine per anni.
Un esperto di vecchie aste ne aveva proposto
l’acquisto. Poi Herbert disse a Lory,
allontanandosi dalla buvette, – le persone
che non vogliono essere uccelli di tundra
hanno in casa sempre le finestre chiuse-.-
Ne era sicura Lory che leggeva Wang Wei,
ma si divertiva quando si parlava dell’agronomo Winston
che voleva un nuovo giardino, là dove crescevano solo sterpi.
Le due persone, morte a Willowbrook, passarono un tributo
a Berengario, prima di separare corpo e anima.
Nulla di più che un piccolo lascito
per il custode del cielo e della terra.
Non c’era una stanza per gli ospiti, ma a casa di Lory
il soppalco aveva una vista sui quartieri alti della città
e tante copie del Washington Post
che cercavano per la chiesa di St. Mark’s nel Bowery,
preti e benedettini ringraziando alla fine
con il Domine labia mea aperies
et os meum annuntiabit laudem tua.
Non credo che ci sia un passepartout per il Paradiso,
ma Annalisa dona sempre qualcosa
a padre Gesualdo, come money e travellers cheques
pur di dire che è un’offerta della Signora Juanin.

.

(da L’erba di Stonehenge in corso di stampa)

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Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Salvatore Martino
Due poesie

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A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

.

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

.

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?

.

A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
.
*******
.
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo

.

Tradito dai sicari

.

Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte

.

Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maeltröm attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro

.

Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto

.

.

Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
.
Una centuria volatile

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(da La fondazione di Ninive”, 1965)

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Antonio sagredo teatro politecnico-1974

Antonio Sagredo teatro politecnico-1974

Antonio Sagredo
Una poesia
alla casta Amelia e al puttaniere Wolfang Goethe

.

Non essere cattivo coi morti…
e se mai svolsi una danza
mortuaria…
braccata da una lingua pubblica
devi sapere che
le pesanti foglie dei castani predicono misfatti.

.

Dovrò allora far amicizia con la mezzanotte
tutto da solo…
non mi è servito a niente trattenerti
con biscotti di Jena.

.

E ripresi a camminare smarrendo i passi,
pensando al continuo mutamento della natura,
che dietro di esso riposa un essere eterno.

.

Solo dopo posso dirti ciò che non ho mai pensato,
come se a uno specchio si decapita il riflesso
perché l’immagine non sia soltanto un’ombra,
ma quel sangue di me che non ragiona!

.

Hocusposus… Urphänomen… ripeteva,
come una litania rassegnata all’inspiegabile.
Scossi il mio capo taurino,
mirai i castani e dissi:
“non bisogna pretendere
maggiori spiegazioni,
Iddio stesso non ne sa più di me”.

.

Dalla Legge non puoi conoscere se non miserie
umane…
io sono già quasi vecchio e mi piace
palpeggiare ancora le fanciulle!
Ulrike, mia ultima passione,
io ho 76 anni e tu 18 !

.

Io sono un vero pagano,
farò volare la tua farfallina!

.

Ma il decollo fu un tracollo annunciato:
una commedia charmante tra zio e sua nipote.

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a. s.
Vermicino, 3 ottobre 2007, inedito

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roma Fayyum portrait d'homme

Fayyum portrait d’homme (120-140 d.C.)

Un Innominato
Poesia
.
Al termine d’un corridoio, un muro imprevisto
mi sbarrò il passo, una remota luce cadde su di me.
Alzai gli occhi offuscati: in alto,
vertiginoso, vidi un cerchio di cielo
così azzurro da parermi di porpora.
Gradoni di metallo scalavano il muro.
La stanchezza mi abbatteva, ma salii…
Scorgevo capitelli e astragali, frontoni
triangolari e volte, confuse pompe del granito
e del marmo. Così mi fu dato ascendere
dalla cieca regione di neri labirinti intrecciantisi
alla risplendente Città degli Immortali.
[…]
Questo palazzo è opera degli dèi, pensai
in un primo momento.
Esplorai gli inabitati recinti e corressi:
Gli dèi che lo edificarono sono morti.
Notai le sue stranezze e dissi:
Gli dèi che lo edificarono erano pazzi.
[…]
Io, Marco Flaminio Rufo,
tribuno militare di una delle legioni di Roma.
L’ansia di vedere gli Immortali,
di toccare la sovrumana città,
m’impediva quasi di dormire.
La luna aveva lo stesso colore dell’infinita arena.
[…]
Le mie prove cominciarono in un giardino di Tebe
Hekatompylos, quand’era imperatore Diocleziano.
Avevo militato (senza gloria)
nelle recenti guerre egiziane;
ero tribuno d’una legione ch’era stata acquartierata
a Berenice, di fronte al mar Rosso.
I mauritani furono vinti… Alessandria, espugnata,
implorò invano la misericordia di Cesare;
in meno d’un anno le legioni riportarono il trionfo,
ma io scorsi appena il volto di Marte…

 

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Esercizio di Composizione e Scomposizione di una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa ad opera di Ubaldo De Robertis “Anahit” (da “Il tedio di Dio. viaggio nel paese delle ombre”) con un Appunto descrittivo di Laura Canciani

Anahit foto di DON-RICCHILINO

Anahit foto di DON-RICCHILINO

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la Rivista Letteraria Internazionale lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com e-mail: glinguaglossa@gmail.com
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Anahit marty-feldman

Anahit marty-feldman

Appunto descrittivo di Laura Canciani
.https://www.youtube.com/watch?v=gaPblR7SE_0
“Anahit” è una classica poesia di Giorgio Linguaglossa. Parla Mnemosyne per il tramite di un poeta che narra la storia di un altro poeta, che è il suo Doppio. Ecco la figura del Doppelganger che si manifesta in tutta l’opera linguaglossiana. Una poesia di frantumi di specchi deformati. Inizia con un «ricordo più antico»: un’ombra entra nella stanza n° 27 dell’Hotel Astoria dove un personaggio non precisato porge un «foglio» al narratore della poesia in cui c’è scritta una sola parola: «È irrevocabile». Questo è l’incipit. Tutta la poesia che segue è il tentativo del poeta che narra di scoprire che cosa volesse significare quella parola. Ma, per scoprire quel significato il protagonista ci impiega una vita. Una vita in cui appaiono vari personaggi: «un violinista» che, per paradosso non sa suonare; un «angelo gobbo» che impone al musicista di suonare il primo capriccio di Paganini; subito dopo compare il «padre» che «ha lottato con le ombre», che sta «dietro il muro», «che lotta con le belve»; un «nano gobbo» «che lo insulta», dei «gendarmi» «che aizzano dei dobermann contro di lui». Il poeta, il personaggio che racconta, è fuori quadro, ogni tanto, il poeta oggetto della poesia viene colto di sorpresa dal narratore a cercare la «foto di «Enceladon» [Chi è questa misteriosa Enceladon? Chi rappresenta?]  «nella tasca interna della giacca»; compare una «modella» del secolo XXI [Ancora un doppio. Ma di chi?], un «fotografo che scatta delle fotografie». E, infine, una misteriosa «dama veneziana» [Di nuovo un Doppio]. E poi di nuovo l’Hotel Astoria. «Quindici stanze». «Mio padre imbraccia il violino». «Quindici porte chiuse, ma io ho una sola chiave» [il Labirinto, metafora della memoria e della vita]. Il poeta dice di affacciarsi «ad una finestra» e vede «un centauro [che] galoppa» e che atterra su un prato verde di cartolina; poi c’è «un pittore» che «dipinge sulla tela un sole spento» [Perché «spento»?]. E, di nuovo, ricompare la «dama veneziana [che] passeggia sul Ponte di Rialto. È mia madre» [Di nuovo, ritorna Venezia, in filigrana, in trasparenza]. È straordinario come tutti questi eventi e personaggi si intreccino nella memoria del poeta, una memoria profonda, insondabile. Dunque, la risposta a quella «domanda» non può essere che una discesa agli inferi, la gerontocrazia del Male, all’interno della memoria. E allora? Allora, il poeta scopre che «Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore». Ma chi è il pittore? Si chiede il lettore. La risposta è semplice, siamo tu ed io, siamo tutti noi lettori abitanti del pianeta Terra. E che fa di così speciale il «pittore»? – Nulla, niente di speciale, ama «una prostituta di Trastevere… E scivola anche lui nel sonno».
Finita la poesia, il mistero si infittisce. Che cosa ha scoperto il poeta che non può dirci? Appunto questo, il poeta che narra ha scoperto qualcosa che non può comunicare al poeta che vive. Essi sono due entità distinte. Come il figlio è distinto dal padre chiuso in una delle «quindici stanze». Entrambi sono nel «sonno». L’ultima parola della poesia è, appunto, «sonno».
In fin dei conti, la poesia si presenta come un geroglifico. È questa la sua bellezza, che è costretta a dire qualcosa di indicibile, di inspiegabile [Dimenticavo di dire che il titolo della composizione prima di Anahit era: Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore, da cui si evince che tema della poesia è la Felicità]
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Anahit 2

Anahit

Poesia «originale» di Giorgio Linguaglossa

Anahit

[…]
Era forse il mese di aprile.
La casa dei nonni tra gli aranci in fiore.
– È il mio ricordo più antico –
Un’ombra entrò nella stanza n° 27 dell’Hotel Astoria.
Mi porse un foglio.
C’era scritto: «È irrevocabile».
«Cosa – chiesi – è irrevocabile?»,
ma l’ombra
così come era giunta, scomparve nell’oscurità.
[…]
Un interno al 77mo piano di un grattacielo di New York.
Il violinista apre esitante la custodia di mogano,
imbraccia il violino.
«Cosa devo suonare?», chiede all’angelo gobbo.
Un capriccio di Paganini, il primo, allegro con brio».
Di colpo, il violino sopprime la cornice dell’ombra
lo spartito del sonno scompare, il violinista vola nell’aria,
ritorna nella sua casa bianca che dorme nel bosco.
Frugo nella tasca interna della giacca.
Non ho più con me la foto di Enceladon…
[..]
Mio padre ha lottato con le ombre.
Dietro il muro bianco, c’è lui che lotta con le belve.
C’è un leopardo che gli ringhia contro.
Nascosto dietro la finestra, dietro la porta,
c’è un nano gobbo che lo insulta.
Dei gendarmi aizzano dobermann contro di lui.
Io gli grido di stare attento.
Grido da dietro la parete del muro bianco.
Ma lui non può udirmi.
Perché è dall’altra parte della parete.
[…]
«E adesso si può chiudere il sipario», mi dice
un’ombra di qua dall’oscurità.
[Ci sono delle ombre prigioniere nelle gabbie di ferro].
Ma io non ascolto, continuo a frugare
nelle tasche della giacca.
Faccio un passo oltre la soglia.
Siamo nel secolo XXI.
Uno studio fotografico. Una donna nuda
[In bianco e nero. Una modella di Vogue?]
cammina con i tacchi a spillo su un pavimento
di linoleum bianco su sfondo grigio chiaro. Un fotografo
scatta delle fotografie, in tutte le posizioni.
“Non ho mai visto una donna così bella”,
pensai “se non a Venezia nell’acqua alta:
Una dama in maschera solleva il vestito sopra il ginocchio…”,
ma dimenticai quel pensiero.
Poi qualcuno cambiò fotogramma
e pensai ad altro.
Prese un altro film dalla cineteca.
E riavvolse il nastro.
[…]
La dama veneziana si cambia d’abito.
Noi, al di qua dello spazio e al di là del tempo,
ammiriamo i suoi merletti di trine
i capelli color rame a torre sul suo volto in maschera.
Intanto, dietro il muro bianco c’è mio padre
che gioca con i serpenti.
 […]
Hotel Astoria.
Nel sogno ci sono quindici possibilità. Quindici stanze.
Mio padre imbraccia il violino.
Un corridoio. Ci sono quindici porte chiuse,
ma io ho una sola chiave.
[…]
Mi affaccio ad una finestra.
Un centauro galoppa su un prato verde di cartolina.
Un pittore dipinge sulla tela un sole spento.
Una dama veneziana passeggia sul Ponte di Rialto.
È mia madre.
Tocco nella tasca interna della giacca
la foto di Enceladon.
È sempre lì, dove l’avevo dimenticata.
[…]
Un altro passo all’indietro.
Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore.
Un cavalletto e una tela bianca.
Dalla parete di destra una debole luce filtra dalla finestra.
Il pittore dipinge il volto della sua amante.
Una prostituta di Trastevere. Le chiede di stare in posa.
E scivola anche lui nel sonno.
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Anahit Charles Laughton - The Hunchback of Notre Dame (1939)

Anahit Charles Laughton  The Hunchback of Notre Dame (1939)

SCOMPOSIZIONE DELLA POESIA IN FRAMMENTI
ad opera di Ubaldo De Robertis
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Anahit
.
[…]
Era forse il mese di aprile.
La casa dei nonni tra gli aranci in fiore.
– È il mio ricordo più antico –
Un’ombra entrò nella stanza n° 27 dell’Hotel Astoria.
Mi porse un foglio.
C’era scritto: «È irrevocabile».
«Cosa – chiesi – è irrevocabile?»,
ma l’ombra
così come era giunta, scomparve nell’oscurità.
[…]
Mio padre ha lottato con le ombre.
Dietro il muro bianco, c’è lui che lotta con le belve.
C’è un leopardo che gli ringhia contro.
Nascosto dietro la finestra, dietro la porta,
c’è un nano gobbo che lo insulta.
Dei gendarmi aizzano dobermann contro di lui.
Io gli grido di stare attento.
Grido da dietro la parete del muro bianco.
Ma lui non può udirmi.
Perché è dall’altra parte della parete.
[…]
Mi affaccio ad una finestra.
Un centauro galoppa su un prato verde di cartolina.
Un pittore dipinge sulla tela un sole spento.
Una dama veneziana passeggia sul Ponte di Rialto.
È mia madre.
Tocco nella tasca interna della giacca
la foto di Enceladon.
È sempre lì, dove l’avevo dimenticata.
[…]
«E adesso si può chiudere il sipario», mi dice
un’ombra di qua dall’oscurità.
[Ci sono delle ombre prigioniere nelle gabbie di ferro].
Ma io non ascolto, continuo a frugare
nelle tasche della giacca.
Faccio un passo oltre la soglia.
Siamo nel secolo XXI.
Uno studio fotografico. Una donna nuda
[In bianco e nero. Una modella di Vogue?]
cammina con i tacchi a spillo su un pavimento
di linoleum bianco su sfondo grigio chiaro. Un fotografo
scatta delle fotografie, in tutte le posizioni.
“Non ho mai visto una donna così bella”,
pensai “se non a Venezia nell’acqua alta:
Una dama in maschera solleva il vestito sopra il ginocchio…”,
ma dimenticai quel pensiero.
Poi qualcuno cambiò fotogramma
e pensai ad altro.
[…]
La dama veneziana si cambia d’abito.
Noi, al di qua dello spazio e al di là del tempo,
ammiriamo i suoi merletti di trine
i capelli color rame a torre sul suo volto in maschera.
Intanto, dietro il muro bianco c’è mio padre
che gioca con i serpenti.
[…]
Un altro passo all’indietro.
Il libro della felicità lo sta scrivendo il pittore.
Un cavalletto e una tela bianca.
Dalla parete di destra una debole luce filtra dalla finestra.
Il pittore dipinge il volto della sua amante.
Una prostituta di Trastevere. Le chiede di stare in posa.
E scivola anche lui nel sonno
[…]
Hotel Astoria.
Nel sogno ci sono quindici possibilità. Quindici stanze.
Mio padre imbraccia il violino.
Un corridoio. Ci sono quindici porte chiuse,
ma io ho una sola chiave..
[…]
Un interno al 77mo piano di un grattacielo di New York.
Il violinista apre esitante la custodia di mogano,
imbraccia il violino.
«Cosa devo suonare?», chiede all’angelo gobbo.
«Un capriccio di Paganini, il primo, allegro con brio».
Di colpo, il violino sopprime la cornice dell’ombra
lo spartito del sonno scompare, il violinista vola nell’aria,
ritorna nella sua casa bianca che dorme nel bosco.
Frugo nella tasca interna della giacca.
Non ho più con me la foto di Enceladon…
[..]
Qualcuno prese un altro film dalla cineteca.
E riavvolse il nastro.
[…]

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Ubaldo de Robertis

Ubaldo de Robertis

Ubaldo De Robertis è nato nelle Marche nel 1942, risiede a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Premio “Marcello Seta” 2014 per la cultura scientifica e umanistica. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. Convivio in versi, mappatura democratica poesia marchigiana. È presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole, Il ramo di corallo, Poliscritture. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: S. Angelucci, Pasquale Balestriere, G. Linguaglossa, Michele Battaglino, F. Romboli, G.. Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi, Ennio Abate. È autore di romanzi: Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano,(Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie.

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Luigi Manzi Fuorivia Ensemble, Roma, 2013 pp. 90 € 15 con poesie dell’autore. Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Esperimento di Composizione e Ricomposizione di una poesia di Luigi Manzi in 4 brani o momenti

roma Fayyum-Portrait-II

Fayyum-Portrait- 120-140 d.C.

Luigi Manzi Fuorivia Ensemble, Roma, 2013 pp. 90 € 15

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Riprendo, con piccole integrazioni, un articolo già pubblicato in altro blog.
In una discussione svoltasi sul blog moltinpoesia.wordpress.com Laura Canciani mi ha rivolto la solita domanda: «“Che cos’è la poesia?”»; ed io ho risposto: «Una nuova immagine del reale che si aggiunge al reale che già sapevamo, una costruzione di immagini in parole che non avevamo previsto e che non sapevamo». Nel prosieguo della riflessione collettiva, Ennio Abate si chiede che cos’è che fa della «immagine» in poesia una «bella» immagine?. Domanda legittima, che presupporrebbe una estetica e una critica dell’economia estetica, oltre che una critica dell’economia politica, per il semplice fatto che il «bello» non può essere disconnesso, nella mia visione, dalla critica del «bello». Non voglio però sottrarmi alla responsabilità di dare una risposta.
Se leggiamo una poesia di Luigi Manzi tratta dal suo ultimo libro: Fuorivia, ci accorgiamo di quanto la sua poesia sia lontana dai concetti correnti di ciò che si intende per «poesia» ( immediatezza, soggettività, reale, poetico, etc), di quanto sia estranea alla amministrazione da elettrodomestico qual è diventato oggi lo «stile» cosmopolitico della koiné maggioritaria che mescola il privato alla cronaca, la cronaca nera alla cronaca rosa, magari con un quantum di eventi privati, con il colluttorio della chat da telemarket, etc. – Il «soggetto» è scomparso, sostituito dal surrogato alla moda: il «privato». C’è nella poesia di Manzi una trasfigurazione dello Spirito del tempo in qualcosa che sta di al di là del «soggetto», qualcosa di irriconoscibile, quasi che a bordo della macchina del tempo gli abitanti del pianeta terra fossero stati precipitati in pieno Medio Evo:

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Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
.
Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.
foto Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection

Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection

L’ultima parola è quella che dà la chiave del componimento: «fotogramma», ovvero, «immagine», riproduzione fotologica del “reale”. Dunque, la poesia è un discorso su un «fotogramma». Guardando dentro il «fotogramma» noi possiamo spiare quello che accade lì dentro e lì dietro: c’è un personaggio, l’io che cammina senza voltarsi indietro (ecco l’eterno mito di Orfeo che cammina ma non deve voltarsi altrimenti perderebbe per sempre Euridice!). Tutto il componimento è fatto da un susseguirsi di «immagini» collegate, immagini indirette che alludono a una natura sconvolta fin nelle fondamenta.
Ora proverò a scomporre la poesia in 4 momenti o brani o fotogrammi in movimento (come se fosse in azione una macchina da presa in lento movimento: 4 lunghe inquadrature) e a ricomporla secondo un diverso ordine di fotogrammi. Manzi è un poeta «musicale», le sue strofe sono orientate verso movimenti musicali: inizia di solito con un «andante», poi prosegue con un «largo», sovente seguito da uno «stretto» e, a volte, da un «allegro». Le sue strofe fotogrammatiche sono quindi movimenti musicali che possono essere smontate e rimontate secondo una diversa successione:

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1) M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
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2) Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
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3) Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.
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4) Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie
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roma Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

La «natura» è passato mentre il presente è quello dove si muove il «soggetto», il personaggio che guida la poesia verso la sua conclusione. Il protagonista può essere Orfeo nelle vesti redivive dell’uomo contemporaneo che si muove in una città immaginaria abitata da un diverso spazio-tempo: l’Evo della Grande Recessione. Ebbene, il poeta romano si muove nell’orbita concettuale e imaginale della Grande Recessione spirituale; è come se nei quaranta anni precedenti di attività poetica si fosse addestrato per scrivere questo libro testamento rivolto ai contemporanei. E certo è che se leggiamo questo libro con gli occhiali del minimalismo saremmo costretti ad archiviarlo come un’operazione bizzarra e fuorivia, se lo leggessimo con quelli dell’esistenzialismo posticcio del «corpo» di moda oggi, non capiremmo niente di questo libro, lo riporremmo nel cassetto dei numismatici. Allora, occorrono altre coordinate concettuali e di pensiero poetico: saper entrare in questa poesia con la circospezione con la quale si entra in un negozio di cristalli di Murano, in punta di piedi, facendo attenzione alle «chiavi» che il poeta dissemina nel libro qua e là, come segnali indicatori del faticoso cammino che il lettore deve intraprendere.
Noi non possiamo (e forse non ne abbiamo neanche il diritto) di chiedere al poeta maggiori lumi su quello che succede in città, «lungo le strade» di chi «cerca un rifugio disperato», più di questo il poeta non può dire, non ne ha il diritto, forse, o, molto più probabilmente, non reggerebbe la nominazione, pena la caduta nel retorico e nel banale. Qui si arresta il poeta, il quale chiede all’oscuro interlocutore: «Dimmi chi è rimasto» fra i vivi. Adesso è chiaro, è un dialogo che si svolge nell’oltretomba, sia il poeta che il suo interlocutore sono già morti. Siamo noi lettori che siamo morti insieme a loro. Ciò che resta di tutto il componimento, dei vivi e dei morti, è nient’altro che un «fotogramma». È tutto lì dentro.
In un altro componimento intitolato «L’ospite» c’è scritto:

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Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.

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roma Fayyum portrait d'homme

Fayum ritratto di uomo

È chiaro che qui il poeta è consapevole di parlare in un’altra «lingua», che la «lingua» che lui parla la «mozzeranno» «con un colpo»: che non è ammessa, non è consentita; è una lingua straniera parlata da «coloro che in silenzio procedono sul bordo». Ma «bordo» di che cosa? Perché proprio il «bordo»? E in quale direzione procedere? Ma sul «bordo» ci sono solo due direzioni: avanti e indietro, il futuro e il passato, mentre la poesia di Manzi è tutta inchiodata nel presente, in un presente astorico che vive sul «bordo» sottilissimo di ciò che appare. Ma ciò che appare è inconoscibile e irriconoscibile:

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Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
.
C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette
un gomitolo.
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C’è un «giocoliere (che) pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci», una «baldracca che mostra la pancia al lenone», etc. Sembra di guardare un quadro di Chagall dove al posto del violinista che vola per aria c’è un «giovane indù (che) versa albicocche nel cesto». La visionarietà di Manzi oscilla tra Chagall e Bosch, tra la deformazione cannibalica di volti e l’illibata freschezza della natura. Tra natura e cultura si è ormai scavato un solco non più redimibile, per Manzi siamo entrati nell’Evo della Recessione, dove la parola manca e la cosa si sottrae; e allora si tratta di andarla a snidare la parola con gli strumenti di un tempo: con la vanga e il piccone. Occorre ritornare infanti, perché solo così «il bimbetto… ingoia il filo e riemette un gomitolo»; e il gomitolo ci porterà fuori del Labirinto. Non è ancora venuto il momento del ritorno alla infanzia beata, l’uomo deve ancora percorrere la strada sterrata in salita. Il Moderno è un miraggio che si è dissolto come neve al sole.

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Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.
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C’è sempre, nell’aria di «crepuscolo», una vista dall’alto (ma senza prospettiva) e una vista di fronte; c’è il panorama e il minuscolo dettaglio in rilievo, c’è l’arco temporale e l’attimo, c’è il truculento di visioni sanguigne e sanguinose e il candido di immagini attiche, delfiche; una terra chiamata «esarcato» disseminata di «colchici», «giusquiamo», «lemuri», «palissandri», «starne», il «falcocervo», il «fliocorno», «il fischio matematico del merlo», «fiori carnivori»: animali fantastici e uccelli dell’Evo Mediatico si scambiano segnali come i poeti si scambiano segnali su Marte. Ma il gomitolo è piuttosto il batacchio di un «giocoliere» che fa volare le cose su un fondale di cartolina o di cartapesta. E il tutto «ritorna nello specchio» dal quale, forse, un tempo lontano è venuto. È come se fossimo nel bel mezzo di una regressione totale dall’Aufklärung e ci ritrovassimo in una fiaba de-poetizzata che ci narra di quel che un tempo fu: «brividi di perle, barbagli di diamanti».

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roma Fayyum-Mummy

Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.

Filamenti

Quarto di luna, occhio di pernice, coda di pavone.
Il baio s’impenna – salta
nella tenebra del bosco. Il cavaliere curvo
lo sferza ai fianchi, lo sprona al galoppo:
sul suo viso notturno
brividi di perle, barbagli di diamanti.
Ha le vene gonfie di bile verde, e furente
ogni mucosa del corpo.

Lei porta tra i capelli un nido d’usignolo,
ondula il seno fra filamenti d’astri
e scie di sete.
Il cavaliere, ebbro di sangue, prima di dissolversi
solleva il capo grondante di meteore;
si comprime il petto.

Ritorna nello specchio.

*

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Hybris

Questa è terra d’esarcato,
dominio altero dell’occidente.

Il residuo dei monili rende più fulgido il petto dell’eunuco,
illumina i lembi estremi del volto.

(I colombi ascendono al culmine,
depositano il messaggio)

La lussuria raffigurata nell’encausto
giace reclina sul fianco: col viso che riposa sul palmo,
fissa l’eternità. Il panno immenso
che le avvolge il petto è intriso di vortici,
di azzurre galassie.
Negli interstizi supremi degli astri
lei poggia le braccia sul vuoto cosmico;
le pudende erompono
dai suoi fianchi celesti.

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Memoria

Svelto, più svelto d’un lampo,
nella pianura un destriero scavalca recinti e torrenti.
La donna si volta e l’osserva. Le torna in mente
quando un tempo fu giovane e altera:
ebbe pudore del petto, dell’anca; lasciava nascosta la pelle
come una ghirlanda preziosa.

Il bianco si vela d’opaco.
L’uomo col chiuso mantello cavalca furioso;
oltrepassa la selva, salta nel chiostro. Fu lui un giorno
che la sospinse nel portico
e nel buio le sciolse il nero corsetto.
Il presagio è un tumulto. La memoria
spariglia le carte.

L’uomo notturno cavalca sul cupo destriero;
la donna
è scomparsa.

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L’araldo

Bussa l’araldo. Il messaggio è stato consegnato.
Nel turbine il corsiero si dilegua.

Gli uomini al villaggio leggono nell’apocalissi:
dunque, nella fuga troveranno riparo.
Risalgono i crinali, s’affacciano sui botri.
Li flagella il vento inesorabile.
In cima ci sarà soltanto il buio. In cerchio –
di fronte ai fuochi – patteggeranno con le belve;
gli consegneranno in pasto
alcuni di loro.
Il resto – seppure lo invocano –
è racchiuso
nel rimbalzo dei dadi sul muro,
nel suono metallico
del tempo futuro.

 
roma Fayum portrait compared with Picasso's self-portrait

Fayum portrait compared with Picasso’s self-portrait

caro Lucio Mayoor Tosi,
io sono da sempre un ammiratore della poesia di Luigi Manzi… ho faticato non poco agli inizi, circa venti anni fa, quando iniziai a leggere la sua poesia, a recepirla in un mio quadro mentale storico-critico. In seguito, con gli anni, e le ripetute letture della sua poesia anch’io mi sono convinto della assoluta riconoscibilità della sua poesia. Mi piacerebbe fare un gioco: che qualcuno metta in un bussolotto dei cartigli recanti alcune poesie di autori vari, dai più grandi ai meno, e tra di essi inserire una poesia di Manzi; ecco, io credo che non avrei difficoltà a riconoscere la poesia di Manzi per l’unicità del suo lessico, del suo stile, per il combinato disposto di paratassi e immagini immobili, direi per la dialettica di immagini immobili di cui è ricca la sua poesia. Questa immobilità, sottolineata da un lessico desueto e raro (da non confondere con il prezioso!), è accentuata dalla folgorazione dei gesti (degli umani e delle bestie)… i gesti sono come sospesi in attesa di qualcosa che non avviene… non c’è prospettiva escatologica né salvifica in quei gesti, non c’è, oserei dire, neanche una specificità semantica: intendo che non vogliono dire nulla, neanche il significato del proprio esserci semantico: tra semantica e mantica si è così aperto un divorzio assoluto (e non solo nella poesia di Manzi). Un certo chagallismo unito ad una religiosità tutta laica per la gestualità della civiltà contadina, contribuiscono a conferire a questa poesia un’aura di inattualità e di anacronismo. Tutto ciò dà alla poesia di Manzi quel caratteristico colore di immagini pittoriche dove non c’è nulla di pittoresco o di arcadico: le immagini si materializzano appunto già de-materializzate, e in virtù di questa de-materializzazione escono davanti agli occhi del lettore con tutta la loro carica di enigmaticità. E certo questo è un libro di elevata caratura e di intensità straordinaria. Manzi è uno di quei poeti che se potessi decidere io lo chiamerei subito nella collana bianca di Einaudi.
Giorgio Linguaglossa

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Luigi Manzi sorrideLuigi Manzi è nato nel 1945. Vive a Roma. Ha esordito in Nuovi Argomenti nel 1969. Ha pubblicato le raccolte di poesia La luna suburbana (1986), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), Mele rosse (2004), Fuorivia (2013), con note introduttive di Dario Bellezza, Dante Maffia, Giò Ferri, Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Gian Piero Bona, Gezim Hajdari. E’ stato tradotto in varie lingue. E’ stato antologizzato in Rosa corrosa (2003) traduzione macedone di Maria Grazia Cvetkovska (pref. A. Giurcinova), Il muschio e la pietra (2004) traduzione albanese di Gezim Hajdari (pref. P. Matvejevich). Ha vinto vari premi letterari fra i quali il Premio Internazionale Eugenio Montale per l’edito, il premio Alfonso Gatto, il premio Franco Matacotta, il premio Guido Gozzano. Per l’haiku ha vinto il Chairman’s Prize Of the Organizing Committee nel The World Haiku Contest in occasione del Trecentesimo Anniversario di Okuno Hosomici e, appena recentemente, il Gran Prix Tsunenaga Hasekura riservato alle lingue europee e giapponese, in occasione del Quattrocentesimo Anniversario del viaggio per mare del samurai Tsunenaga Hasekura. Ha partecipato a festival internazionali e italiani, fra i quali il Festival Serate Poetiche di Struga 2001, in Macedonia, e il Festivaletteratura di Mantova. E’ presente in varie antologie, fra le quali Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970 – 2000, Garzanti 2001

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Scomposizione e Ricomposizione dei «frammenti» di due poesie di Steven Grieco Rathgeb e Mario M. Gabriele ad opera di Ubaldo de Robertis e Giorgio Linguaglossa con un Commento di quest’ultimo – Siamo davanti ad una mutazione genetica della poesia contemporanea, ad un mutamento ontologico della Forma poetica. La scrittura per «frammenti». Che cosa significa?

Bello Madonna_ft__Andy_Warhol_by_Coralulu

Madonna_ft__Andy_Warhol_by_Coralulu

Giorgio Linguaglossa

Vorrei scagliare una freccia in favore della scrittura per «frammenti». Che cosa significa? E perché?

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Innanzitutto, un presente assolutamente presente non esiste se non nella immaginazione dei filosofi assolutistici. Nel presente c’è sempre il non-presente. Ci sono dei varchi, dei vuoti, delle zone d’ombra che noi nella vita quotidiana non percepiamo, ma ci sono, sono identificabili. Così, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
La scrittura per «frammenti» implica l’impiego di una decostruzione riflessiva, la quale nella sua propria essenza, segue il tempo del «Presente» che sfugge di continuo, che si dis-loca. Il dislocante è dunque il «Presente» che si presenta sotto forma del «soggetto» significante (ricordiamoci che per Lacan il soggetto si instaura come rapporto con un significante e l’altro). Ma, appunto, proprio per l’essere una macchinazione significante, il «soggetto» non può mai raggiungere il pieno possesso del «significato».
In base a queste premesse, una scrittura logologica o logocentrica, non è niente altro che un miraggio, il miraggio dell’Oasi del Presente come cosa identificabile e circoscritta, con il versus che segue il precedente credendo ingenuamente che qui si instauri una «continuità» nel tempo. Questa è una nobile utopia che però non corrisponde al vero.
Io dico una cosa molto semplice: che l’utilizzazione intensiva ad esempio della punteggiatura e degli spazi tra le strofe produce l’effetto non secondario di interrompere il «flusso continuo» che dà l’illusione del Presente; produce lo spezzettamento del presente, la sua dis-locazione, la sua locomozione nel tempo. Introduce la differenza nel «presente».
Il non dicibile abita dunque la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito.
Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica della poesia di Mario Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi:

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Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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bello diabolik-eva-kant-coppia

diabolik-eva-kant Roy Lichtenstein

Nella «Nuova poesia», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante e unidirezionale. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tradizione filosofica occidentale. In questa accezione, la decostruzione è una conseguenza della riflessione filosofica di Martin Heidegger. Infatti il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit (1927) – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – risuonava come una “distruzione della storia dell’ontologia”, in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.
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Un esperimento con la poesia
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Mi sono permesso di fare un esperimento con la poesia di Mario Gabriele come ha fatto Ubaldo De Robertis con la poesia di Steven Grieco Rathgeb.
Ho diviso la poesia in 8 strofe o frammenti e poi ho ricomposto i frammenti (o strofe) con un’altra disposizione e conseguenzialità logico estetica, questo per dimostrare che la poesia dei nostri giorni è molto diversa da quella dell’Alcyone (1903) di D’Annunzio postata stamane, lì non è possibile alcuna divisione e ricomposizione dei versi per la semplice ragione che la poesia è un flusso continuo dove il precedente ha una sua ragion d’essere ontologica che non può essere sostituita da altro brano o strofe senza compromettere il tutto e rischiare di far crollare la costruzione estetica del poema.
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Le due poesie di Mario Gabriele e di Steven Grieco Rathgeb, ricomposte da me e da Ubaldo De Robertis, possono vivere mediante varie ricomposizioni. Come nel giovo del puzzle, le singole tessere possono trovare diversi alloggiamenti tanti quanti sono i contesti diversi. La suddivisione in frammenti e la successiva ricomposizione dei medesimi costituisce la VERIFICAZIONE DELL’ESPERIMENTO. Esso dimostra che la poesia di oggi è ontologicamente mutata rispetto a quella di inizio secolo. La poesia moderna è già frammento al suo nascere.  Le composizioni possono essere smontate e rimontate secondo il gusto e le preferenze dei singoli lettori. È incredibile, il lettore può intervenire cambiando l’ordine polifrastico degli addendi.
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Per chi non l’abbia ancora capito, qui siamo  dinanzi ad una vera e profonda novità della poesia contemporanea: essa è «frammento» e la sua procedura ontologica è la ricomposizione di «frammenti». Ciò non vuol dire che la poesia dei nostri giorni abbia perso qualcosa rispetto alla poesia della tradizione o che sia migliore o peggiore. Direi molto semplicemente che essa ha mutato il suo codice genetico, è diventata una cosa molto diversa, che offre delle possibilità espressive incredibilmente ampie e imprevedibili. Qui non siamo più nella forma aperta teorizzata da Umberto Eco nel 1962, abbiamo fatto un passo ulteriore, qui siamo nella forma composta di polinomi frastici che si dividono e si possono ricomporre seguendo diversi criteri compositivi.
Siamo davanti ad una mutazione genetica della poesia contemporanea.

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bello Andy-Warhol-painting

Andy-Warhol-painting

Poesia originale di Mario M. Gabriele

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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bello

Ricomposizione in frammenti della stessa poesia ad opera di Giorgio Linguaglossa

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1) Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

2) Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

3) Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.

4) Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.

5) Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-

6) Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-

7) Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.

8) -Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.

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Bello warhol_marilyn

warhol_marilyn

Ricomposizione di una poesia di Steven Grieco Rathgeb ad opera di Ubaldo de Robertis

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A proposito della continuità nel tempo riferita allo scorrere dei versi, ho provato a leggere la straordinaria composizione di Steven Grieco Rathgeb rispettando in modo assoluto le spaziature poste dall’autore, ma nell’ordine indicato dai numeri che mi sono permesso di riportare nel testo.
Il mistero è dunque che la poesia: IL BUON AUGURIO, pur rovesciata come un calzino (l’ultimo verso coincide con il primo- diceva Borges), mantiene INTATTO tutto il suo fascino comunicativo, anzi, la lettura nei due sensi, in sequenza, accresce il suo valore e la “spiega” come un lenzuolo esposto al sole.
Aggiungo poi che Steven Grieco Rathgeb, poeta dai molti idiomi, sa collocare nei propri versi i termini, le parole più consone! Eh, sì, cara Stefanie Golisch, quelle che lei definisce “belle paroline” io le chiamerei: “qualcosa di più conforme” (Leopardi insegna) che al poeta vero viene naturale, lasciando da parte retorica e superlativi, assecondando lo spirito di finezza. Quello di geometria, quello sì, lo lasciamo ai letterati della domenica.

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Steven Grieco Rathgeb
IL BUON AUGURIO (Poesia ricomposta ad opera di Ubaldo de Robertis)

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13 -La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

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12-“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

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11-Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

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10 -Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

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9-Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

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8-Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

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7-«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

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6-Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.

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5-Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

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4-Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

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3- In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

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2-Come se non fossimo altro che noi stessi.

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1- Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.
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bello 1.

Poesia originale di Steven Grieco Rathgeb
IL BUON AUGURIO

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La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.
Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

Come se non fossimo altro che noi stessi.

Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.

(1987-2012)

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.
è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.
protokavi@gmail.com

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Mario Gabriele volto 1Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Alfredo de Palchi (Verona, 1926) TESTI SCELTI da NIHIL (Stampa2009 Azzate, Varese, 2016 pp. 108 € 14) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – “vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso…”

alfredo de palchi Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Minturno, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
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Giorgio Linguaglossa Alfredo De_Palchi serata 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. “vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso…”
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Poco tempo fa, una rivista milanese mi ha chiesto di scrivere un saggio di critica psicoanalitica sul primo libro di Alfredo de Palchi, La buia danza di scorpione scritto dal poeta ventenne nei penitenziari di Procida e Civitavecchia dal 1947 al 1951 e pubblicata in italiano soltanto nel 1993. Mi sono accinto a questo compito con curiosità e timore ed ho scoperto tra le parole del libro, un modo di vocaboli, di immagini, di totem, di frantumi, relitti del suo inconscio di giovanissimo recluso che lottava disperatamente per sopravvivere, frammenti dell’inconscio e di conflitti irrisolti, che nessuna cura psicoanalitica potrà mai risolvere (per fortuna!), frammenti testamentari del rapporto con la madre del poeta e con il padre (che io non sapevo assente). Vasi incomunicanti di frammenti che tra di loro parlano, comunicano, anche se parlano lingue diverse e incomunicabili. Questo è l’inconscio di un poeta che si riversa in un libro di poesia(!?) E tutto mi si è fatto chiaro all’improvviso. Devo dire un grazie alla rivista milanese (nella persona di Donatella Bisutti) che mi ha commissionato il lavoro. Ho mandato il saggio a de Palchi il quale, appena letto, ha commentato: «ma tu mi hai messo a nudo! Nessuno ha mai scavato così in profondità nel mio inconscio!».
Ecco, io penso che il critico di poesia debba andare con la lanterna di Diogene alla ricerca dei frammenti sparsi e dispersi che neanche il poeta sapeva di avere messo dentro le proprie poesie. Fare una indagine quasi poliziesca, alla ricerca delle parole e dei simboli nascosti o appena dissimulati.
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Sono ormai più di cinquanta anni che la poesia di Alfredo de Palchi vive di un conflitto tra suono e senso, suono e significato che si configura come slittamento fonologico tra attante ed epiteto in guisa che l’epiteto entra in rotta di collisione semantica con l’attante; di qui il prevalere di fonemi acuti dal suono scabro e vetroso di contro a modulazioni lievi di altri, pochi, attanti dalla sonorità acuta. Più che alla sinestesia tra suono e senso, de Palchi ricorre all’opposizione fonematica e semasiologica tra le parole per restituirle alla loro compiuta visibilità linguistica. L’utilizzo degli avverbi è sempre postato in modo diagonale alla significazione, indica sempre una modalità impropria del modus, e sono serventi alla de-automatizzazione del linguaggio. Nella poesia depalchiana non c’è solo un disaccordo tra il suono e il senso, l’autore preferisce sempre la soluzione di un intervento effrattivo, frontale, quasi una effrazione della lingua di appartenenza come indizio di una estraneità ad essa e di un esilio patito fin dagli anni della sua adolescenza. È una procedura di effrazione che de Palchi pone in essere. È il contesto dunque che modifica il suono, graffiato e sgraziato «diesizzandolo» e «bemollizzandolo», come insegna Jakobson, per contagio lessicale e contiguità semantica. De Palchi adotta l’azione inversa che consiste nel flettere il senso per adattarlo all’espressione, dato che la parola è per sua essenza malleabile poi che è composta da un insieme di semi. È in questo impiego del verso, del sintagma poetico, che la poesia depalchiana trova la sua ragione di esistenza come un incantesimo all’incontrario, non più di tipo simbolistico (ormai impossibile e irraggiungibile) ma di tipo post-simbolistico post-modernistico. Un «incantesimo» effrattivo attento alla chimica delle parole, alle faglie, alle gibbosità delle parole. De Palchi interviene sul contesto fonematico e di senso facendo cozzare l’uno contro l’altro i semi del linguaggio, facendo scaturire scintille non già tra i significanti ma tra i significati, distorti e agglutinati fino all’inverosimile. Siamo lontanissimi da ogni suggestione mallarmeana e vicinissimi alla metolologia tipicamente modernistica volta alla espressività fonica e fonematica attraverso il senso dei semi violentato e infirmato.
alfredo de palchi Nihil cop
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È lo stesso de Palchi che ci informa all’inizio con questa didascalia: «L’invito a ritornare ai territori acquatici della mia nascita e della mia crescita fino al diciassettesimo anno arriva più di mezzo secolo dopo; l’accetto per curiosità, per scommessa con me stesso e arroganza… le seguenti intime variazioni nostalgiche scritte al momento … illustrate da poesia che informano sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza».

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Quanto basta per capire che qui si tratta di un ritorno alle Origini, quel trauma personale e storico che infirmò e firmò per sempre, quasi un imprinting della sua forma-poesia, il suo essere-nel-mondo, una sorta di caustica informazione aggregata al segmento di DNA della sua poesia che ritorna, compulsivamente, anche dopo cinquanta anni, a operare nel sottosuolo della superficie linguistica.
Ci sono strati tettonici che cozzano ed entrano in attrito con altri sottostanti e soprastanti strati tettonici, eruzioni linguistiche di origine vulcanica; smottamenti, fratture, fissioni, frizioni, stridori lessicali.
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Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Ecco qui un suo autoritratto:
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vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso; dignitosità che mi veste sartorialmente. Si guardi il suo viso regale, superbo, nobile, che non progetta indizii di pusillanimità; non il volgare muso di chi si presume superiore al “leone” e alle nobiltà della natura per eliminarle; così si vorrebbe eliminare il vecchio leone che sono
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È incredibile come un autore quasi novantenne riesca ad essere così fresco e sorgivo, scrive Maurizio Cucchi nella prefazione. E in effetti, è incredibile, ma solo per chi non abbia seguito la poesia di De Palchi in questi cinquanta anni. De Palchi affattura le parole come un musicista le note che componga al di fuori dello spettro del pentagramma, con parole-rumori, lessemi distorti, frasari implausibili. Si va dal giganteggiamento dell’io all’io-universo, dalla osservazione panoramica a quella attenta e ossessiva dell’interlocutore chiuso nella sua neutra alterità.
Con il conseguente, di nuovo, giganteggiamento dell’io:
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non ho dio e religione e giustamente prevedo con odio verbale che il pianeta si sgancerà dalla sua centrifuga forza; benché io abbia forza interiore nego di sostenerlo sulla schiena; il suo involucro non mi aggancerà al girotondo mentre scoppia a brandelli per l’abisso; il  mio soffio all’ involucro di spilli è  il soffio al “dente di leone” da cui svolazzano i fili bianchi che mai più potranno ripollinarsi
alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

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ci sei da sempre eppure a te non importa la materia oscura, quella misteriosa invisibile sostanza pesante più del visibile universo; che effetto hanno l’esplosioni delle supernova e stelle neutrone; che proponi quando una stella massiccia esaurito il proprio fornimento di combustile nucleare inizia il suo permanente libero cadere; una stella massiccia che cade permanentemente dentro un buco nero senza mai raggiungere il fondo, l’infinito infinito; con il tuo potere di disfare presumo tu non abbia nessun attimo d’intuizione matematica; sei soltanto la spoglia
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nessuna intenzione di denigrarti; l’osservazione è che stai lì curiosa di me quanto io di te appolliata ad avvoltoio  sullo schienale della sedia che i miei gatti usano per starmi vicini; d’istinto sanno chi sei, cosa attendi, che fai, chi rappresenti; ci pensano esprimendo dal loro triste muso il tuo linguaggio, e seppure tu stessa sei l’iniziale vittima della vita, irrispettosi non temono il tuo aspetto di avvoltoio, dio-morte; l’antenato gene che si spaccò dividendosi dallo scimmiesco, evoluzione evolve la meninge che inventa l’orrifico dio  a propria immagine per abolire i proprii terrori e per terrorizzare i viventi delle specie; morte è dio, il dio-morte, l’umano evoluto a perfetto predatore
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la vicina m’invita in un campo  arato durante un furioso temporale di tuoni lampi e saette; al momento che rotoliamo nel fango e la pioggia torrenziale ci lava tette e pube, mi sorprendi, ripudi l’infedele che nella melma del  campo ti affronta con . . . l’Estate di tuoni lampi saette e acquate delle “Quattro stagioni”  vivaldiane; ma tu  già progetti come meglio controllarmi il prossimo Autunno
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non ho la furbizia di competere con la tua, in tale maniera mi annullerei, competo con tenacia contro il tuo disorientare persino il malvivente; quindi rispettami quel tanto per empatia che abbandoni un’ultima volta se confronto il tuo intento finale
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incinta? possibile tu lo sia, il tuo assiduo pancione è il mappamondo con    carcasse d’ogni specie e carogne di umani ingoiate con ingordigia per vomitarle da madre spudorata, denigrata e rigeneratrice
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la mente non mi lascia un attimo. . . mandrispinte con terrore nei macelli; giornalmente compi l’obbrorio, la profonda fatica di squartare, sangue a torrenti che cela il felice supplizio; potessi abbracciare ciascuna vittima, gorgogliare con il mio sangue la definizione del loro iniquo olocausto
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starò con la testa schiacciata tra le mani per non essere stordito e ferito dai chiassi di destinati al solo vero impotente olocausto quotidiano; non c’è dio che regga il disagio e la caparbietà malefica della spoglia umana
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sei l’invincibile dei miei desideri ridotti a scaglie e ghiaia lungo passaggi stretti di muraglie strepitosamente intasate di sangue coagulato, ruggine dei viventi bacati prima di sorgere dal ventre; per questo imbroglio sei l’invicibile paziente, farfalla, verme, grumo oleoso, fossile
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nei miei confronti assumi un tragico aspetto e ti mostri tale perché hai la rettitudine dell’antica tragicità punitiva; è imbarazzante che tu entri il palcoscenico sempre all’ultimo istante con la bravura dell’attore che si approppria del significato completo dal primo all’ultimo vagito; non ci siamo ancora scontrati io e te per quella scena antipatica
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sedicimila pianeti simili alla terra ciascuno con il sole e satelliti abitano la nostra parte di universo; chi sono e come reagiscono gli abitanti; tu non ci sveli niente, conduci l’immanenza da esatta professionista senza orario; io che ce l’ho non sono mai d’accordo se prenderti sul serio o riderti in faccia, universale affronto
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. . . lungo il Terrazzo un’abitazione sull’argine annuncia “vendesi barca”; con le poche palanche risparmiate l’acquisto a prezzo di svendita; non intuendo il peggio salpo con la barca per colmare un capriccio di adolescente salgariano incosciente locale che affronta il freddo di novembre; alle prime remate la barca traballa e si capovolge; mentre mi arrampico su per la scarpata dell’argine sento sganasciarsi dal  ridere la famiglia completa; anticipava la scena? Sicuramente, rido anch’io per non  piangere e sentirmi derubato; inzuppato e infreddolito a casa mia madre sgrida “incosciente!”––
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dai pali del telegrafo e della elettricità sulle  strade deserte dietro mura tiro sassate mirando chicchere di vetro e di porcellana; il mistero dell’universo è raccolto in quelle chicchere e nel ronzìo come il mistero della  vita è rinchiuso nelle acque; l’abissale concetto. . .
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Al palo del telegrafo orecchio il ronzìo / il sortire incandescente da quando / le origini estreme / provocano la terra //  ––percepisco / accensioni e dovunque mi sparga / chiasso d’inizio odo
 
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Zagaroli Alfredo de Palchi Venezia 2011

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

da OMBRE 1998
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L’invito di ritornare ai territori acquatici della mia nascita e crescita fino al diciasettesimo anno arriva più di mezzo secolo dopo;  l’accetto per curiosità, per scommessa con me stesso e arroganza; e con pudore leggo a voi centocinquanta firmatari assiepati nel salone di questo piccolo locale Museo Fioroni, le seguenti  intime variazioni nostalgiche al momento le ho scritte per questa occasione, illustrate da poesie che informano  sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adole- scenza;  nient’altro, oppure––perché sono ancora quale mi descrivo ma senza più timidezza––un accenno  sparso dove capita per curvarvi sulla insincerità dei compagni che tradirono la mia e la loro fanciullezza e adolescenza; il conto finale è che da oltre mezzo secolo non mi abbisognano  questi territori nemmeno alle spalle, piuttosto è il paese che ha bisogno di me, e non ci sono. . . soltanto l’Adige è dentro di  me. . .
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Potessi eliminare l’enorme dubbio / che mi assilla la mente francescana , / ma tu, Adige, / raccogli la ghiaia lungo il profilo delle rive / e nel liquido delle reti / acchiappa il luccio che guizza luccicante / nella corrente insabbiata dal pomeriggio / assolato, enormemente / quanto è buio il mio dubbio; / poi, sereno ancora, arriva alle curve / alte di erbe e di arbusti, e qui vortica, / buttandoti addosso ai piloni dei ponti che sbalzano arrugginiti, / fino a espanderti calmo verso lo spazio, / proprio là dove non esiste––
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è il mio mitico fiume ed è mia intenzione di scendere con aneddoti e versi nella giovinezza degli anni prima che accadesse la caccia alla vita e spinto a un esilio di vituperi d’invettive sevizie accuse prigionia cronache malvage di anonimi vili reporters, creazioni abolite poi dalla legge; rimangono le ferite e sei anni spenti; ma qui, invece gli aguzzini usurpano ancora persino il loro funebre fosso

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EVENTI MITOMODERNISTI: CONTRO LA BARBARIE DEL BRUTTO – Il giorno 20 aprile al Teatro Filodrammatici a Milano, dalle ore 17.30 fino alle 24.00, Tomaso Kemeny e Giuseppe Conte propongono un incontro mitomodernista dal tema “Contro la pulsione di morte – Bellezza & Mito, Poetiche e Politiche del Desiderio” Con uno scritto di Tomaso Kemeny e sue poesie dimostrative con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Mitomodernismo Tomaso Kemeny in recita a Milano

Mitomodernismo Tomaso Kemeny in recita a Milano

Appunto di Tomaso Kemeny

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Il giorno 20 aprile al Teatro Filodrammatici a Milano, dalle ore 17.30 fino alle 24.00, Tomaso Kemeny e Giuseppe Conte propongono un incontro mitomodernista dal tema “Contro la pulsione di morte – Bellezza & Mito, Poetiche e Politiche del Desiderio”, in cui interverranno personalità della poesia e della cultura italiana. La finalità di questo incontro si pone sulla scia dell’evento già avvenuto un anno fa nella medesima sede, il 9 gennaio 2015, promosso da Tomaso Kemeny, a conclusione dell’azione mitomodernista “Freccia della Poesia”, in cui i relatori (Schwarz, Pontiggia, Majorino, Kemeny, Cruciani) furono invitati a un dibattito intorno a “il valore, storico, metafisico-teorico della scrittura poetica e delle arti oggi, dal punto di vista della propria poetica ed esperienza, tenendo conto del trionfo del vuoto intellettuale che caratterizza il mondo globalizzato e del genocidio delle varie forme di bellezza naturali e architettoniche in atto e per valutare il significato di azioni poetiche”.
Il 6 dicembre 2014 la “Freccia della Poesia” aveva attraversato l’Italia da Napoli a Milano, al grido “Fight for Beauty”, per finire con un maxi reading (200 partecipanti), colorato e pacifico, in Galleria Vittorio Emanuele, laddove nel 1909 un happening futurista era al contrario finito “a botte”, con la famosa “Rissa in galleria” dipinta da Umberto Boccioni. Quest’azione sancì la felice fusione  del Grand tour poetico, fondato alla fine del 2014 da tre poeti nati negli anni Settanta (il comasco Pietro Berra, la romana Flaminia Cruciani e il barese Gianpaolo Mastropasqua), e il ventennale movimento mitomodernista animato da Tomaso Kemeny che venne nominato Capitano. La fusione del movimento e del Grand tour, ispirata dalla spinta verso orizzonti di bellezza comuni da costruire e inventare, portò all’attuazione di un programma serrato di eventi, articolato in tappe sull’intera penisola e aperto al confronto poetico sul territorio e alla promozione di incontri alla Casa della Poesia di Milano, fra cui ricordiamo “Scintille mitomoderniste” il 6 febbraio 2015. La prima tappa comasca del Tour fu il 21 marzo 2015, dal titolo “poesia e psiche”, nell’ex ospedale psichiatrico San Martino, all’ombra del monte di Brunate, di cui è originaria la famiglia di Alda Merini e dove ogni anno viene celebrata la poetessa che scrivendo sopravvisse all’inferno del manicomio. Il 29 aprile, in Campidoglio, la terza epifania del Grand tour aveva voluto ricordare la fondazione di Roma con una rinascita poetica. Mentre il 6 giugno, la carovana poetica aveva attraversato un pezzo di Sardegna, da Cagliari a Serri, seguendo il percorso raccontato dallo scrittore inglese D.H. Lawrence nel suo libro “Mare e Sardegna” del 1921, nell’ambito del festival Leggendo Metropolitano.
Non si possono dimenticare gli eventi, “Nelle terre del Cigno, storie di poeti e viaggiatori, a cura di Paola Pennecchi, Angelo Tonelli e Massimo Maggiari a San Rocco nel giugno del 2015, come anche il 13 dicembre “Mito, luci e ombre mitomoderniste” organizzato da Chicca Morone. O lo storico rituale e festoso sbarco degli Argonauti nel Golfo degli Dei a Lerici, che si rinnova ogni anno, diretto da Angelo Tonelli ed esportato da Massimo Maggiari a Charleston in South Carolina. A Torriglia, dal 2010, si tiene, inoltre, un Festival “Torriglia in arte” dal sapore mitomodernista, organizzato da Francesco Macciò, che si apre simbolicamente con un Komos (corteo di poesia musica e danza) guidato da Angelo Tonelli.
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L’ultima azione, “2016 Eroici Furori”, simbolica e pacifica, ha avuto la finalità di “rovesciare ‘Roma’ in ‘Amor’ per sollecitare lo spegnimento dei roghi che devastano la natura e le menti, per, invece, esaltare quella bellezza insurrezionale che apra alla gioia di vivere, di lottare, a quella giustizia profonda e cosmica che sola può rappresentare un’alternativa radicale all’Impero del Brutto”. La più recente azione, in ordine di tempo, con cui il Grand tour poetico e il Movimento mitomodernista hanno aperto la terza stagione di performance, lo scorso 13 febbraio in Campo De’ Fiori a Roma, dove Giordano Bruno fu arso vivo e dove è stato celebrato con il sacro fuoco della poesia quale eroe della libertà di pensiero. In questa occasione è stato acceso un rogo simbolico “per purificare simbolicamente il mondo degradato dalla ragione economica imposta dal Mercato”, dove è stata bruciata “l’immondizia insanguinata chiamata Denaro”.
Quest’anno Grand tour poetico e Movimento mitomodernista, come detto, sono ripartiti da Roma, come non mai al centro dell’attenzione internazionale, tra Giubileo della Misericordia, statue oscurate nei Musei Capitolini e minacce di attentati. Dal 6 all’8 marzo in occasione del Festival Internacional de Poesía “Benidorm & Costa Blanca”, in Spagna, il Grand tour poetico ha presentato il mitomodernismo attraverso la lettura di un testo di Tomaso Kemeny, implementando l’organico del Grand tour (già composto da Ottavio Rossani, Maurizio Soldini, Adriana Gloria Marigo, Gianpiero Neri, Gabriella Sica, Isabella Vincentini, Jacopo Ricciardi, Massimo Bubola, Laura Garavaglia, Vittorino Curci e altri) con delegati di tre continenti, aprendo a un percorso europeo che punta a raggiungere Parigi il prossimo novembre, per portare la voce pacificatrice della poesia a un anno dall’attentato al Bataclan in una grande azione mitomodernista coordinata al livello europeo.
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Direttivo del Grand Tour Poetico
Pietro Berra, Flaminia Cruciani, Gianpaolo Mastropasqua
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Tomaso Kemeny

Tomaso Kemeny

Discorso del Capitano Tomaso Kemeny

Per il Festival Internacional de Poesía Benidorm & Costa Blanca

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Mitomodernismo e Grand Tour Poetico: combattere per la bellezza.
In un’epoca, la nostra, in cui l’incertezza delle masse, derivante dalla percezione di non essere all’altezza di costruire un avvenire, in un’epoca sottratta alla speranza ma non alla paura, il singolo si concede al cinico desiderio di fruire dei doni irripetibili della vita, ripudiando ogni programma di emancipazione nella dimensione della libertà creativa.
Il mitomodernismo nutre le forze che non accettano il mondo così com’è, soggiogato all’Impero del Brutto globalizzato. Il mitomodernismo incoraggia, da una parte, la privata insurrezione contro noi stessi se cediamo al compromesso, alla massificazione, all’appiattimento all’utile immediato, e ,dall’altra, assume la “bellezza” come mito guida alla ribellione permanente ai poteri illegittimi del “brutto”, offensivi alla dignità dell’uomo.
La base teorica del mitomodernismo fu elaborata in anni quando la “bellezza” veniva ritenuta un disvalore reazionario, il mito giudicato come frutto di deliri primordiali e il “sublime” ridotto un cascame idealista. Il filosofo Stefano Zecchi, i poeti Giuseppe Conte e Tomaso Kemeny elaborarono la visione molteplice che porta alla rivolta permanente a un’epoca tendente al post-umano, dedita al culto dell’effimero in grado di oscurare le necessità di una bellezza insurrezionale nuova (dopo quella classica, rinascimentale, barocca, romantica, futurista, surrealista) in grado di dare forma al nostro tempo desimbolizzato, esiliato nei labirinti dell’insignificanza.
L’uomo, dopo avere prometeicamente soggiogato, in parte, la natura, oggi si trova servo di un’economia e di una tecnologia distruttive, che minacciano di morte la natura della nostra terra madre. In questa situazione drammatica, le forze del mitomodernismo nascono dalla necessità di una ribellione internazionale salvifica. Basta con le esibizioni intellettuali di ironia miranti a ridicolizzare ogni forma di superamento dell’utile immediato. Oltre a opere di filosofia, poesia ed estetica, il mitomodernismo vive per azioni tendenti a risvegliare dal sonno suicida le masse assopite in sogni di impossibile consumismo permanente. Basti ricordare come il primo ottobre del 1994, un commando poetico ligure, capitanato da Giuseppe Conte, un commando lombardo capitanato da Tomaso Kemeny occuparono pacificamente la Basilica di Santa Croce in Firenze per la rinascita morale ed estetica dell’Italia. Si riportano qui le parole d’ordine per il commando lombardo composte da Kemeny:
1. Affidarsi, senza riserve, alla potenza dell’immaginazione creatrice.
  1. Eleggere Santa Croce a centro cosmico della rinascita della bellezza, dell’etica e dell’arte.
  2. Affermare la verità della poesia e dell’arte con un gesto inconfutabile.
  3. Azzerare la corrotta vecchiaia del mondo.
  4. Sfidare l’arroganza delle spettacolarizzazioni plebee e televisive.
  5. Aprire il cuore del tempo dissacrato a un raggio di bellezza.
  6. Opporsi alla cecità delle forze che avvelenano l’aria, l’acqua, la terra, e l’anima.
  7. Dire addio ai vezzi dell’apparenza per affrontare gli abissi dell’essere.
  8. Ritornare al caos sublime per fare rigermogliare le figure del tempo.
Giorgio Linguaglossa con i mitomodernisti Roma Campo de' Fiori 13 febbraio 2016

Giorgio Linguaglossa con i mitomodernisti Roma Campo de’ Fiori 13 febbraio 2016

Tra le tante manifestazioni-azioni si ricorda l’occupazione della collina dell’infinito di Recanati, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. L’azione dei “mille” mitomodernisti, fra i quali si distinsero gli “sciamani” Angelo Tonelli e Massimo Maggiari e il poeta rivoluzionario transilvano Gèza Szocs (oggi Presidente del PEN maggiaro), fu consacrata alla “Unità dell’Italia nella Bellezza”.
Recentemente il movimento mitomodernista si è alleato al “Gran Tour Poetico” capitanato da Flaminia Cruciani, Gianpaolo Mastropasqua e Pietro Berra; la fusione fu concretizzata il 6 dicembre del 2014 nell’azione “La freccia della poesia”, che ha percorso in treno l’Italia portando la poesia e la musica nelle stazioni di Napoli, Roma, Firenze, Bologna e Milano dove l’azione si è conclusa nella Galleria Vittorio Emanule.
 Le forze del mitomodernismo erompono dal pensiero mitico in grado di trasfigurare e rigenerare la vita del singolo e la civiltà e nella ricerca di una bellezza nuova, dai molti volti, in opposizione al decostruzionismo nihilista dominante una civiltà soggiogata dall’Impero del Brutto.

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Mitomodernismo Roberta Montisci

Mitomodernismo Roberta Montisci alla stazione Termini di Roma

Tomaso Kemeny L’abcd della bellezza. A: Sulla futura bellezza del mondo

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   La sua “verità” il poeta lo può esprimere solo attraverso il mito;  infatti attraverso le figure del mito si riesce a tenere insieme come in una costellazione, luce e ombra, bello e brutto, ricordo e oblio, voce e silenzio.
   Monti, mari, fiumi, boschi, ruscelli, cascate, fiori (nonostante il diffuso inquinamento), nonché astri e costellazioni, corpi e volti umani ci permettono di distinguere diverse e specifiche manifestazioni della bellezza, manifestazioni la cui osservazione può permetterci di sciogliere indefiniti nodi problematici concernenti il senso della vita dell’universo.
   Si tratta di forme di bellezza in mutamento e formazione nel tempo secondo meravigliose metamorfosi che caratterizzano non solo la morfologia della bellezza naturale, ma anche dello sviluppo dell’arte letteraria, figurativa, musicale e di tutte le attività creative di cui l’uomo si dimostra capace.
   Il processo metamorfico, ma circolare, che caratterizza il nostro universo, fa presagire una evoluzione in grado di integrare nel presente il passato salvando il futuro dagli abissi dell’insignificanza. Si intende, come auspicabili, le trasformazioni della bellezza in grado di diffondere, nel tempo terrestre e storico, il prevalere delle etica del dono sull’etica del possesso.

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Mitomodernismo Giordano Bruno arso vivo il 17 febbraio 1600

Mitomodernismo Giordano Bruno arso vivo il 17 febbraio 1600

B: La bellezza trionfa nel Rinascimento

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   William Shakespeare in “As you like it” (1599) pone la bellezza, nella sua manifestazione fisica umana femminile, come prima nella gerarchia delle tentazioni-desideri “Beauty provoketh thieves sooner than gold”, “la bellezza tenta i ladri più dell’oro”, dialogo tra donne Atto 1, Scena III.
   Diciamocelo, la bellezza , un universale relativo, è di fondamento a tutte le civiltà. Lo riconosce Sigmund Freud quando osserva che il godimento della bellezza e in diversa misura inebriante, tanto che la civiltà non potrebbe farne a meno (S.Freud, Drei Abhanlungen zur Sexualtheorie, Vienna 1905). Essa, bellezza, come valore, varia in tempi e luoghi, si tratta  di un valore eterno, ma mutevole, un universale relativo.
   Sulle caratteristiche della bellezza femminile sono state versate cascate d’inchiostro nel rinascimento, in particolare a Firenze e a Venezia, basti ricordare, tra gli altri, Agnolo Firenzuola con il suo Dialogo sulla bellezza delle donne (firenze 1548) e Nicolò Campani Bellezze della donna (Venezia, 1566). E se il dominio del “brutto” nel ventesimo secolo ha fatto scrivere a George Bataille che “l’essenza dell’istinto sessuale è l’insozzamento della bellezza “ in La mort et la sensualité(Parigi,1957), l’estetica del sembiante femminile sta a cuore persino a una intellettuale come Simone de Beauvoir, quando in Le deuxième sexe”   (Parigi, 1947) scrive “occuparsi della propria bellezza, vestirsi con eleganza, è come un lavoro che consente alla donna di prendere possesso della propria persona”. Se è curioso ricordare come l’originale saggista Remy de Gourmont Physique de l’amour: essai sur l’istinct sexuel (1903, Parigi) affermi che “a rendere la donna più bella è il fatto degli organi sessuali invisibili”, Vernon e Margaret Coleman, inFace Values: How the Beauty Industry Affects You (San Francisco, 1981) ritengano necessario salvaguardare la “fragilità” della bellezza femminile con “il trucco: aiuta la donna a sentirsi meno vulnerabile”.
   Ma è Giordano Bruno nei suoi De gli eroici furori”, stampati a Londra nell’officina di John Charlewood (1585) e dedicati al poeta “cavalliero” Filippo Sidneo ovvero Philip Sidney, che motteggiando i sospiri senza fine, i tremori, le malinconie, gli infruttuosi corteggiamenti in versi dei poeti tardo petrarcheschi, esalta l’originario splendore divino impresso nei volti e corpi femminili celebrando quell’impeto carnale amoroso che, attraverso la bellezza dei corpi, porta all’unione con l’infinito, ottenendo “quel beneficio d’amore” che riscatta il destino umano dalla finitezza. L’eroismo erotico include la morte nella vita, come si legge nelle parole di un personaggio nel primo dialogo degli “eroici furori”:

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Mirami, o bella, se vuoi darmi la morte
del tuo grazioso sguardo apri le porte

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in analogia con l’invocazione del poeta-drammaturgo Ch. Marlowe, il cui Faust(in The Tragical History of Doctor Faustus,1589) implora Elena di farlo eterno con un bacio , “make me eternal with a kiss…” e precorre, intendo Bruno, il sintagma “profetico” di Cesare Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
   Per Bruno peccaminoso non è il godimento carnale dei corpi, ma l’inappetenza trascendentale di chi non riesce a superare i limiti umani attraverso l’eros. Attraverso il furore eroico si esalta l’impulso a oltrepassare il piano dei corpi per vivere l’unità originaria con il divino.

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Mitomodernismo lettura ai filodrammatici

Mitomodernismo lettura ai filodrammatici

C: Quale grande follia ? Quis tantus furor? (Virgilio, Georgica, 39-29 a.C, Libro IV, .494.495)

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   Euridice grida “Chi ha perduto me sventurata e te, Orfeo? Quale follia?” (“Quis et me miseram et te perdixit, Orpheus, quis tantus furor?”). Il sembiante bello è solo promessa di felicità, come osserva Stendhal(“La beautè n’est que le promesse de bonheur” in De l’amour,1822) si deteriora col tempo e si perde se non intessuta in altri valori epocali, promessa di felicità potrà venire mantenuta forse nella realizzazione di una concezione rivoluzionaria della bellezza. Come pensai alla morte di Andrè Breton (1966, 28 settembre), occasione in cui scrissi un poema(quando, 1968) dove ero sicuro che le lettere e e le arti ,nella prospettiva della Teoria Estetica (Torino, 1975) di Theodor Adorno, fossero castrate, dato che per il filosofo la bellezza nel contesto sociale dato non fosse che un falso valore d’uso teso a immettere il lavoro estetico nell’orizzonte delle merci contribuendo, in questo modo, a rafforzare l’ideologia dominante, riducendo le opere d’arte a livello delle pratiche gastronomiche e pornografiche. Dal mio poemetto 28 settembre 1966 (Milano, 1968) mi pare pertinente riportare un passo:

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quando avrà un nome l’arresto del vortice
prodigioso
quando avrà sangue il mare d’argento
quando la morte saprà chi ha portato via nelle
sue ceste incestuose
allora nudo correrò nel vento
per sapere dove porta la via inesistente
per rispondere alla sfinge il nonsenso dell’esistenza
per tacere ai piccoli confessori di miserie
il mio contegno di erede di fallimenti
(ho scagliato nella forra la mia corona di ferro
e prigioniero di un orizzonte infernale
so che la mia vita è la più breve)
quando il colore dei tuoi occhi sarà il nulla
quando le grandi speranze saranno imbalsamate come cammelli
quando il rumore dei tuoi passi
romperà l’esilio dell’uccello di fuoco
quando l’aldiqua sarà una rosa disserrata a festa
e non ci sarà bisogno di ricordi per sentirci eterni
quando le parole avranno un eco nei cuori
quando la neve sarà un bosco in fiore
quando
quando gli occhi delle ragazze
porteranno in vasi di porcellana i loro fragili
fianchi
quando i bambini mentiranno per uccidere dio
quando la proprietà privata sarà un’orrida leggenda
quando coloro che fanno professione rivoluzionaria
sapranno salutare la bellezza

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Mitomodernismo Silvio Raffo in azione

Silvio Raffo in azione

Al crollo dei regimi totalitari del ‘900 e al fallimento delle ideologie fondanti le speranze in un riscatto politico, tocca alle varie forme d’arte a rinnovare la percezione delle cose e delle azioni quotidiane guastate-corrotte dall’abitudine. E’ in gioco la vita reale, l’unica che abbiamo. In coloro che non sono insensibili all’energia eversiva diffusa sulla Terra dalla Bellezza, ogni giorno torna la smania di misurarsi con l’infinita circolarità del cosmo, nella prospettiva che tutto è ancora possibile, poiché tutto tende al ciclico. Ne consegue che quali che siano le condizioni imposte dal tempo storico, tutto ciò che finisce ricomincia secondo la meravigliosa trasfigurazione metamorfica dell’identico. E così anche la bellezza umiliata nell’effimero e nel decorativo tornerà un giorno a sfidare la volgarità dilagante e gli speculatori senza dignità, rinnovando lo splendore della ciclicità del mito. Così i poeti, artisti, filosofi devono uscire dalla scrittura per azioni simboliche, correndo il rischio del ridicolo, per svegliare i consumatori consumati quotidianamente.
   Ricorderò tre azioni simboliche tese alla rinascita morale ed estetica dell’Italia : la prima accadde il 29-30 aprile del 1988 a Riccione; fu un evento dal titolo “La nascita delle Grazie”; fummo in 6, Mario Baudino, Giuseppe Conte, Rosita Coppioli, Roberto Mussapi, Stefano Zecchi ed io a sostenere 19 tesi per la vita della Bellezza (Cf. Le avventure della bellezza,1988-2008, a cura di T.K., Arcipelago edizioni, Milano,2008). La seconda il 1° ottobre del 1994. Un commando di poeti ligure guidato da Giuseppe Conte e uno lombardo  da me capitanato occupò la Basilica di Santa Croce a Firenze per un’azione dimostrativa (Cf. L’occupazione simbolica di Santa Croce, produzione & cultura, rivista bimestrale del sindacato nazionale degli scrittori, Anno VIII, n.3-4, maggio-agosto 1994). La terza azione vede l’occupazione della colle dell’infinito a Recanati, con mille poeti, artisti e cittadini mitomodernisti al grido “Fight for beauty!” il 17 marzo del 2011, in occasione dell’anniversario dell’Unità d’Italia(Cf. Recanati, l’Italia unita nella Bellezza,17marzo 1861 – 17 marzo 2011, a cura di T.K., Arcipelago Edizioni, dicembre 2011).
   Nel 1994 nacque il movimento internazionale mitomodernista anche per reazione alla progressiva sdrammatizzazione e tolleranza del “brutto”, contro tutto ciò che impedisce la realizzazione di quella giustizia suprema, miticamente promessa dal “nostos” e dalla “parusia,consistente del ritorno della Bellezza nel mondo. Se gli eventi più significativi e più grandi sono le idee, l’idea più grande è la bellezza che richiede-esige di portare a compimento lo splendore immanente nelle persone e nelle cose.

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   Per evocare il mito platonico di Er e gli eroici furori di Giordano Bruno azioni future potrebbero fondarsi su tre ER : sulla lotta Eroica contro i commissari dell’utile personale immediato e contro tutto ciò che avversa il numinoso,  sulla lotta contro l’immoralità radicale assicurata dalle Bische delle Borse Valori. Sull’Erotico:se non c’è morale che valga per tutti i tempi e tutti i luoghi, l’amore vero vede l’uomo e la donna avvertiti come fine e non come mezzo. L’amore è da considerarsi non come letale incantesimo che pietrifica il corpo desiderato, trasfigurato baudelairemente in “un sogno di pietra”, ma come scintilla in grado di trasfigurare l’indifferenza all’assurdo quotidiano nello splendore meraviglioso  che aspira al bene collettivo. L’azione contro la demoralizzazione globale operata dall’Impero del Brutto, esige anche quella tensione ERetica che apra, al di là delle fedi istituzionalizzate, all’ascolto del sacro battito cardiaco della Terra Madre e del Cosmo.
grecia zeus artemisium

zeus artemisium

Ci sono almeno tre modi di raffigurare il rapporto della Bellezza col tempo: la bellezza come origine di un processo che dura “…finchè il Sole/ risplenderà sulle sciagure umane”(voce di Ugo Foscolo); come “una gioia per sempre la cui grazia aumenta, non finirà mai nel nulla”(voce di Keats). Come la prima parola composta di Finnegans Wake (vode di James Joyce), “riverrun”, che evoca un’idea di bellezza modernista che si manifesta nel “rhythmos”, termine che deriva da “rhein”, lo scorrere del fiume. Si tratta di una Bellezza che porta le stigmate del tempo, una Bellezza metamorfica che promette l’eterno ricominciamento lo “immer wieder” di marca poundiana.
   Amo una Bellezza sconvolgente, che mette in questione il nostro rapporto con la vita e il mondo; il suo appello è l’origine di quella energia desiderante che ci spinge ad esprimerci al meglio di noi stessi. Essa apre nel tempo metamorficamente secondo un ritmo in grado di unire presente e passato, salvando il futuro dagli abissi dell’insignificanza.
   Piacendo senza interesse, la Bellezza è in grado di fare rifiorire etica del dono, quella che nega l’amore come possesso, etica senza la quale muore la libertà del desiderio e che si oppone all’imbarbarimento nell’insignificanza ripetitiva.

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   Oggi la distanza necessaria alla contemplazione-creazione è resa domestica-anestetica dai monitor dei computer, dai display dei cellulari. Il pulsare dell’immenso cosmico in ogni granello di sabbia (vedi William Blake) viene perduto in immagini a due dimensioni che usurpano il “vuoto” necessario all’immaginazione. La stessa contemplazione notturna dei cieli, l’interrogare l’indicibilità dell’infinito tende a venire meno così come la cosmografia interiore che permise a qualcuno di pensare “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Potrei evocare innumerevoli tipi di “brutto”, ma preferisco, telegraficamente, dire che la bellezza è ciò che al mondo più manca.

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Roy Lichtenstein Masterpiece

Roy Lichtenstein Masterpiece

C: (last but not least) Della libertà

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   La morfologia specifica del discorso poetico esige l’assoluta manifestazione del pensiero creativo ispirato. Al di là delle categorie di “conformismo” e di “anticonformismo”, di “consenso” e di “dissenso”, di “destra” e di “sinistra”, di “credente” e di “ateo” il poeta ,come tale, è sempre vigile nell’ascolto delle Muse. Il poeta ha come materiale a disposizione parole stuprate dall’uso e dalla comunicazione sociale; quindi deve trovare il coraggio di affrontare l’esilio imposto alle Muse e di attraversare il deserto in cui sono confinate. I lampi dell’immaginazione potranno essergli da guida per il ritrovamento delle Muse. E quando il suo canto si libera dall’evidenza del lavoro poetico, in quei rari momenti è festa grande e si assiste alla fusione del cielo e della terra, alla fusione del presente desertificato con l’oasi di un possibile futuro.
   Se il poeta riesce a transumanare la propria voce, allora può guidare il lettore attraverso il proprio deserto epocale interiore. Al ritorno dal deserto gli uomini sapranno superare l’amore di sé impregnato di condizionamenti storico-culturali e con speranza e timore sapranno accostare il destino etico-sociale e cosmico di uomini liberati.
   E essenziale che tutti i paesi, epoca e lingua abbia almeno un poeta perché la collettività non perda la percezione di un’identità di assoluta dignità e perché la lingua madre, massacrata quotidianamente, rinasca in quella bellezza formante che fonda lo splendore civile.
   Oggi, la vita dominata da necessità tecnologico-burocratico-finanziarie assegna un ruolo titanico al poeta come a colui colui che con la sua energia immaginativa permetta ai cittadini di sentire a quale distanza si trovino dalla felicità e che li orienti a cogliere la bellezza nuova che li renda consapevoli di chi siamo e chi vorremmo essere, in che mondo viviamo e in che mondo vorremmo vivere.

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Mitomodernismo, Ottavio Rossani in azione

Ottavio Rossani in azione

Parole della Musa

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La marea delle ore in gabbia sfida
in vortici
sempre più intensi
i disegni della natura
e il futuro si smarrisce in incubi virtuali.
Tu hai un unico dovere,
quello di sempre, non lo scordare:
porta le parole a sprigionare
il canto della terra che ruota
in un sogno di bellezza immortale.

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Celebro la poesia

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Celebro la poesia
che alle altre non somiglia:
scorre nelle vene azzurre dell’aria
per tingere di desiderio i cieli
e di gemme e di fiori incorona
la mai sazia d’amore.
Lei sola sfida il terrore senile
dell’avventura e accende il tramonto
a sospendere la lacrima stellata
della notte sovrana. Celebro lei,
la poesia che nel sangue germoglia
e ogni cosa decrepita muta
nella rosa di luce
che il mondo risveglia.

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Preghiera

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Vieni tu che sei incorporeo e sei tutti i corpi
Vieni gloria inespressa di tutte le cose
Non abbandonare la terra alla desolazione
sii la porta di tutte le nostre aurore
Sulla montagna calva dell’orgoglio ti disprezzo
Sono la chiave universale delle rivolte
Ma nella tela di ragno della sfrontatezza il mio cuore
Martella un salmo al tuo splendore
Per noi che dissipiamo la bellezza della natura
Per noi torrenziali nelle oscenità periferiche delle notti
Fai sbocciare i petali neri della musica oltraggiosa
Della santità incessante.

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foto Ghada Abdel Razek arab actress

Ghada Abdel Razek arab actress

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Sulla Bellezza

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«l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza» (303).
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 La produzione dell’arte produce un «oggetto» soltanto quando questo «oggetto» può essere recepito dall’uomo in quanto «oggetto».
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Scrive a tal proposito Marx: «la musica stimola soltanto il senso musicale dell’uomo, e per l’orecchio non musicale, la più bella musica non ha alcun senso (non) è un oggetto, in quanto il mio oggetto può essere soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale quale facoltà soggettiva per sé, andando il significato di un oggetto per me… tanto lontano quanto va il mio senso». (328-329)
Già Marx aveva anticipato l’impostazione della teoria della ricezione quando nella Introduzione ai «lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica», scrive che la produzione crea non solo un determinato oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per quell’oggetto: «L’oggetto artistico – e allo stesso modo ogni altro prodotto – crea un pubblico sensibile all’arte e in grado di godere della bellezza».
Questa conclusione di Marx suggerisce che – fermo restando lo specifico del «consumo» della letteratura – la produzione resta il momento fondamentale che contribuisce in modo essenziale a determinare il genere, il contenuto e il risultato del consumo. Marx sottolinea però che anche la produzione viene determinata, per converso, dal consumo: «Il prodotto si afferma e diviene prodotto solo nel consumo […]».
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 Il Bello non può essere disconnesso dal nesso fondamentale dell’alienazione di ogni attività umana. Ritorniamo quindi al pensiero marxiano contenuto in proposito nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Per Marx il nesso ontologico fondamentale è costituito dalla alienazione. Il rapporto che lega l’uomo all’«industria» non può essere esaminato oggettivamente se non facciamo riferimento al concetto di alienazione che investe ogni prodotto dell’attività umana produttiva, e quindi anche del prodotto cosiddetto artistico in quanto rientrante anch’esso nell’attività umana produttiva
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«L’alienazione, nella sua essenza, implica che ogni sfera mi imponga una norma diversa e antitetica, una la morale, un’altra l’economia politica, perché ciascuna è una determinata alienazione dell’uomo e fissa una particolare cerchia dell’attività sostanziale estraniata e si comporta come estranea rispetto all’altra estraneazione». (338)
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Il processo di disumanizzazione e alienazione dell’arte
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Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino Gezim Hajdari 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” aprile 2015 Bibl Rispoli

«Tanto più praticamente la scienza della natura è penetrata, mediante l’industria, nella vita umana e l’ha riformata e ha preparato l’emancipazione umana dell’uomo, quanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione. La industria è il reale rapporto storico della natura, e quindi della scienza naturale, con l’uomo. Se, quindi, essa è intesa come rivelazione essoterica delle forze essenziali dell’uomo, anche la umanità della natura o la naturalità dell’uomo è intesa. E dunque le scienze naturali perderanno il loro indirizzo astrattamente materiale, o piuttosto idealistico, e diventeranno la base della scienza umana, così come sono già divenute – sebbene in figura di alienazione – la base della vita umana effettiva; e dire che v’è una base per la vita e un’altra per la scienza, questo è fin da principio una menzogna. La natura che nasce nella storia umana – nell’atto del nascere della società umana – è la natura reale dell’uomo, dunque la natura come diventa attraverso l’industria – anche se in forma alienata – è la vera natura antropologica». (Manoscritti economico-filosofici. 330-331)
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Nel pensiero marxiano critico (e quindi anche l’arte in quanto produzione rientrante nel concetto di produzione alienata) sia la filosofia che le scienze naturali sono considerate dal punto di vista dell’alienazione quale nesso fondamentale di ogni attività produttiva; sia l’umanizzazione della natura sia la disumanizzazione operate tramite l’industria attecchiscono (in quanto alienate) anche alla sfera (separata) dell’arte.
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foto Riparte il Chiambretti Night con Eto'o... e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto'o

Riparte il Chiambretti Night con Eto’o… e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto’o

Il pensiero marxiano sull’arte posteriore a Marx
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Il pensiero marxiano posteriore a Marx non è mai stato capace di indagare la problematica dell’arte dal punto di vista dell’alienazione e dell’estraneazione che attecchisce il piano dell’arte in quanto attività produttiva. E questa macroscopica lacuna favorisce ancora oggi gli indirizzi positivistici che pensano l’arte in sé, come un assoluto astrattamente slegato dal nesso concreto che lo lega all’industria.
L’«industria» è la causa della crescente complessità della società umana (in quanto crea nuovi bisogni mentre soddisfa i vecchi). «La produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica» scrive Marx. In tal senso, anche il bisogno di arte è una «azione storica» e come tale storicamente condizionata e determinata. Come ha scritto Adorno (Teoria estetica), nelle società di massa anche il bisogno di arte non è poi così certo come può apparire, anzi, per il filosofo tedesco il bisogno di arte sembra essere stato abolito, o comunque sostituito con l’arte di massa, ovvero, con il kitsch.
In questo orizzonte problematico anche il «bisogno» del «Bello» non è un fatto così scontato come potrebbe apparire a prima vista, anch’esso soggiace alla alienazione fondamentale che attecchisce la produzione del «Bello». Secondo Adorno, nelle condizioni attuali delle società di massa, il «Bello» si muta in Kitsch. Detto in altri termini, l’umanizzazione dell’arte sventolata in buona fede da ardenti apologeti da tanti pulpiti si muterebbe nella disumanizzazione reale dell’attività produttiva alla quale essa soggiace.
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Ritengo che la difficoltà di speculare su di una estetica critica dipenda dalla assenza di un pensiero critico che ponga al centro dell’Estetica i concetti di alienazione (Entfremdung) e di estraneazione (Entäusserung).
E qui si pone il paradosso della posizione estetica: come è possibile che una situazione alienata come quella dell’opera d’arte possa condurre, attraverso l’estraneazione (Entäusserung) propria della attività artistica, ad una messa in risalto di quella alienazione (Entfremdung) che dà piacere al fruitore? Che produce piacere? Il paradosso della sfera dell’arte, in nuce, è tutto qui.
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Per dirla con Valéry, l’arte che non pensa se stessa in rapporto all’industria «è più ottusa e meno libera».
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citazioni tratte da K. Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844 Einaudi 2004

 

2 commenti

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Sabino Caronia “Gabriele D’Annunzio fra tradizione e avanguardia” con uno stralcio de l’Alcyone “Il fanciullo”e una nota redazionale; “I temi e la struttura metrica de L’Alcyone”

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Commento di Sabino Caronia

            Chi non ricorda I miti superstiti di Laus Vitae?
            È il D’Annunzio «lontan dalla madre» che nella sua «dolcezza di figlio» esclama: «Chi mi consolerà, mentre / vivo sotto cieli pur dolci, / chi mi consolerà dei soli / spenti, dei giorni caduti?».
            Sono versi che richiamano quelli di Piero Bigongiari, che non a caso ha dedicato a D’Annunzio un memorabile saggio dei suoi Studi in Pescia-Lucca: «Ho vissuto / nelle città più dolci della terra / come una rondine passeggera…».
            In Il libro segreto D’Annunzio dichiarerà in maniera inequivocabile la sua costante volontà di «far della vetustà nota una modernità ignota».
            Ma vediamo di fare un’analisi e una cronistoria del mito dannunziano richiamando il nostro Gabriele D’Annunzio: «Torna con me nell’Ellade scolpita» contenuto nel volume terzo dell’opera a cura di Pietro Gibellini Il mito della letteratura italiana, Morcelliana, Brescia 2003, pp. 293-332.
            Prima di procedere a un confronto con il riuso del mito nei testi del futurismo,  ricordiamo i giudizi del vate su Marinetti, di cui dirà che è «una nullità tonante, un cretino fosforescente, e forse ancora un cretino con qualche lampo di imbecillità».
            Marinetti a sua volta lo etichetterà come «un Montecarlo di tutte le letterature», un passatista «noioso e anacronistico», opponendogli il Pascoli considerato e dichiarato da lui il più grande poeta italiano.
            Certo ammirerà sempre il seduttore prestigioso e leggendario della folla legato indissolubilmente alla vicenda di Fiume e condividerà, o almeno crederà di condividere, le sue scelte politiche, ma rifiuterà sempre quel sentimentalismo romantico e quella mania del passato e dell’archeologia che sono alla base della sua idea simbolista dell’arte.
            L’artista futurista, a differenza del simbolista, non si protende nostalgicamente verso un mondo di immagini e favole perdute, seppur rivissute solo come illusioni, che è il caso di D’Annunzio, ma guarda alla realtà che lo circonda e trae dalla attualità della propria esperienza la materia del suo poetare.
            Significativo in proposito quanto scrive Marinetti riguardo al suo ripudio dei «padri simbolisti» in Guerra sola igiene del mondo, che si può leggere ora insieme agli altri manifesti futuristi in Filippo Tommaso Marinetti, teoria e invenzione linguistica, a cura di Luciano de Maria, Milano, Mondadori 1983.: «Per quei geni non esisteva poesia senza nostalgia, senza evocazione di tempi defunti, senza bruma di storie e di leggende. Noi li odiamo, i Maestri simbolisti, noi che abbiamo osato uscir nudi dal fiume del tempo e creiamo nostro malgrado, coi nostri corpi scorticati sulle pietre dell’ascesa dirupata, nuove sorgenti di eroismo che cantano, nuovi torrenti che drappeggiano di scarlatto la montagna» (p. 302).
            La presunta fondazione di una nuova mitologia non risulta, a ben vedere, pienamente efficace, anzi presenta vistosi limiti.
            È almeno sorprendente che molti di quei miti vengano trascelti da quel repertorio mitologico classico di cui al contempo si decreta la morte e, in particolare, che tra quelli più celebri si ritrovino le gesta di Ulisse, di Fetonte o di Icaro, fin troppo note grazie alla loro massiccia presenza in D’Annunzio perché il richiamo al vate possa credersi involontario.
            Ricordiamo un giudizio di Borges che risale agli anni trenta: «Filippo Tommaso Marinetti è forse l’esempio più famoso di scrittore che vive delle sue invenzioni e che non inventa quasi niente».
            Si veda ad esempio in Più che l’amore (1906) il discorso finale di Corrado Brando che all’amico Virginio prospetta la metallica tempra, crudamente forgiata, del superuomo, «impeto magnifico scagliato verso una meta più severa della morte» e si confronti la sua figura con quella di Mafarka, il futurista eroe nero creato sullo scenario africano da Marinetti nel suo romanzo francese Mafarke le futuriste, che è del 1909.
            I visitatori che ogni anno affollano il Vittoriale più che la dimora di Pascoli a Barga o la villa del Caos di Pirandello non sono per lo più attratti da ragioni letterarie quanto piuttosto da una curiosità del personaggio in cui è pur presente il noto e fin troppo irriso kitsch del suo apparato scenografico.
            Vien fatto di richiamare il celebre racconto di Henry James intitolato La madonna del futuro, dove è la contrapposizione tra l’artista che vuole competere col capolavoro di Raffaello e la facilità imitativa rivoltante del suo antagonista che riesce a vendere a caro prezzo le sue statuette di gatti e scimmie fatte con un composto plastico.
            Non a caso a chi ha potuto recentemente ammirare sulla piazza della Signoria a Firenze, accanto alle copie dei capolavori immortali del Rinascimento il Pluto and Proserpina di Jeff Koons è tornato alla mente il racconto di James richiamato in proposito anche da grande critico Arthur Danto.
            Quanto detto a ulteriore conferma dell’incisività a lunga portata di quell’«amèricanisme reclamiste» attribuito a D’Annunzio dal Marinetti di Les dieux s’ént vont, D’Annunzio reste.
            Protagonista di tante stagioni non solo letterarie della vita italiana di cui si è fatto operatore ed interprete, dalla crisi del Risorgimento all’espansione coloniale, dalla «vittoria mutilata» all’impresa di Fiume, dall’ascesa del Fascismo alla critica feroce all’asse Mussolini-Hitler da lui fortemente osteggiato al punto che Hernest Hemingway lo poteva indicare come principale rappresentante di un’Italia nuova, liberata dal Fascismo e dal Nazismo, D’Annunzio ha conosciuto una nuova stagione a partire dal mitico 1968, come dimostra tra l’altro il libro di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, che mette in luce il fenomeno rivoluzionario del “fiumanesimo” in rapporto alle avanguardie storiche, quali il futurismo politico, di cui troviamo sulla scena fiumana esponenti qualificati come lo stesso Marinetti o altri come Mario Carli, non esenti da simpatie per il bolscevismo.
            La vita come festa, la liberazione sessuale, la libera circolazione della droga, il nesso tra politica e gioco, la dissacrazione di ogni principio d’autorità fanno di Fiume un vero e proprio laboratorio sociale da cui a tutti, in particolare ai futuristi, era dato attingere per la costruzione di un mondo futuro, con prospettive violentemente anticipatrici per quanto riguarda l’economia, la difesa del lavoro, la creazione di un vasto movimento antiimperialistico.

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gabriele d'annunzio-trai-suoi-bersaglieri-a-Fiume

gabriele d’annunzio-trai-suoi-bersaglieri-a-Fiume

Notizia redazionale

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La sorte che ha segnato il personaggio D’Annunzio, dal punto di vista sociale, pubblico, militare e politico, ha spesso condizionato la lettura delle sue opere. Come è accaduto per quanto riguarda la controversa relazione con Mussolini e il nazionalismo esasperato, talvolta confuso con l’appartenenza almeno ideologica al partito fascista. Laddove invece è ben nota l’espressione del duce, secondo cui con D’Annunzio bisognava comportarsi come con un dente marcio: estirparlo o ricoprirlo d’oro. Mussolini scelse la seconda possibilità, relegando il poeta, a partire dal ’24, nell’esilio dorato del Vittoriale, ben consapevole del fatto che le capacità oratorie di D’Annunzio avrebbero potuto creare qualche problema alla propaganda di regime. Tuttavia, tentando di leggere l’opera dannunziana al di là da ogni legame con la situazione contingente, è impossibile non riconoscere, almeno alla poesia, una valenza fortemente innovativa: con Pascoli, D’Annunzio traghetta la lirica italiana dal XIX al XX secolo. D’Annunzio poeta, dunque, e soprattutto autore delle Laudi, merita una lettura attenta e approfondita, oltre che ampia.
Conoscenza dei principali caratteri della lirica italiana tradizionale (nozioni di verso, rima, strofa…) / conoscenza delle principali figure retoriche di senso, di suono, di posizione / capacità di analisi testuale strutturale e stilistica.

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Le fasi della produzione poetica dannunziana

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Le opere poetiche di D’Annunzio, come il resto della sua produzione, sono spesso pensate e articolate in raccolte dai toni molto variegati. Se la critica è unanime nel considerare Alcyone come il frutto più maturo della produzione dannunziana, sembra comunque opportuno ricordare, se pure per sommi capi, la diverse fasi della sua produzione.
Ancora studente liceale, nel 1879, D’Annunzio pubblica, a spese del padre in 500 copie, la raccolta Primo vere, 26 poesie, più 4 traduzioni da Orazio. Ovviamente, si tratta di liriche acerbe e dai toni roboanti, secondo il gusto dell’epoca e secondo il modello carducciano che il giovanissimo poeta considera allora il più autorevole riferimento. Ancora più evidente il medesimo modello nel successivo Canto novo, raccolta di liriche scritte nel 1882, pubblicate finalmente da un importante editore, il milanese Treves, nel 1886. Siamo ancora nella fase precedente il grande successo del Piacere, che uscirà per lo stesso editore tre anni dopo.
Negli anni immediatamente successivi, proprio sull’onda del successo del romanzo, D’Annunzio si dedica essenzialmente alla prosa, per poi tornare alla poesia: dapprima con il Poema paradisiaco, che rappresenta la definitiva svolta verso una poesia più decisamente ‘novecentesca’, innovativa, che risente di temi e stilemi europei, in particolare decadenti e simbolisti; poi con l’imponente progetto delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: sette libri previsti, intitolati ciascuno a una delle sette stelle della costellazione delle Plèiadi. I primi tre libri, Maia (poema in versi liberi di circa ottomila versi), Elettra (raccolta di liriche essenzialmente celebrative) e Alcyone vedranno la luce nel 1903, quest’ultimo a fine anno e con la data editoriale del 1904. Dopo alcuni anni vedranno finalmente la luce anche Merope (esaltazione della guerra italo-turca, 1912) e Asterope (liriche dedicate all’esaltazione della “guerra giusta”, quella condotta per motivi nazionalistici, 1918). Con le Laudi può considerarsi chiusa la produzione lirica dannunziana.

foto d'epoca 2Alcyone: la storia compositiva

Alcyone è una raccolta di 88 liriche, scritte a partire dal 1899, anche se alcuni elementi di ispirazione sono già evidenti nei taccuini del ’97 e del ’98.
Le prime 7 vedono la luce in rivista, sulla “Nuova Antologia” in quello stesso anno. Successivamente, D’Annunzio continua la scrittura, con impegno irregolare, fino al 1903. Le poesie sono costruite, a formare una sorta di diario della stagione estiva, con un capillare lavoro di risistemazione compiuto dall’autore stesso e testimoniato dai tanto tormentati autografi che ripropongono diverse organizzazioni dell’indice della raccolta.
Nella stesura definitiva la disposizione dei componimenti segue un criterio ben preciso, che tende a riprodurre, condensandole in un’unica estate, le esperienze fortemente legate al mondo della natura che il poeta ha vissuto in compagnia di Eleonora Duse durante le estati trascorse nella loro villa in Versilia. La collocazione dei componimenti è sottolineata dalla presenza (se pure non simmetrica) di 4 ditirambi (intitolati con numeri romani), preceduti da altrettanti cosiddetti preditirambi, ciascuno dei quali presenta un titolo latino e fa riferimento o alla stagione dell’anno o a noti episodi della mitologia classica.

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I temi e la struttura metrica

 
Alcyone, uscita, sembra quasi per simbolica coincidenza, nello stesso anno dell’edizione definitiva di Myricae di Pascoli, rappresenta l’abbandono definitivo, da parte del poeta, ma anche della letteratura lirica italiana, delle strutture metrico-stilistiche tipiche della poesia tradizionale. Anche se in alcune liriche, basti ricordare La sera fiesolana, è ancora presente un sistema di strofe (che nel caso citato si rifà addirittura alla lauda francescana: Laudata sii…), l’autore preferisce l’uso della strofa lunga, talvolta lunghissima, composta di versi liberi, di misura diversa, liberamente alternati e legati tra loro in modo del tutto irregolare da rime, ma più spesso da assonanze e/o consonanze.
Il passare della stagione estiva, quasi scientificamente racchiusa tra gli equinozi d’estate e d’autunno, è lo sfondo di una miriade di eventi naturali, che hanno sempre la funzione di pretesto per le riflessioni dell’autore. La mietitura, un’improvvisa pioggia estiva, il paesaggio toscano marino, sono occasioni attraverso le quali l’io lirico di questa raccolta (che coincide contemporaneamente con il soggetto narrante e con ciascun lettore) percorre la strada del panismo, la progressiva compenetrazione tra uomo e natura, che culmina nella metamorfosi, un evento quasi soprannaturale e divino, capace di collocare l’uomo in una dimensione super-umana di contatto con la natura, di cui diventa parte integrante, quasi dimentico della sua appartenenza alla specie umana.

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foto d'epoca 3

foto d’epoca di nudo

Scelte stilistiche

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Il linguaggio di Alcyone rappresenta senza dubbio il culmine della poesia dannunziana. Con la produzione di D’Annunzio dovrà fare i conti chiunque vorrà, nel corso del Novecento, approdare a un continente nuovo, come avevano ben presto intuito Gozzano prima e Montale poi. Se la poesia è, in generale, il regno della connotazione, quella di Alcyone ne è un esempio altissimo: analogia, sinestesia, onomatopea, assonanza, consonanza, colori (quanti colori nella lirica di D’Annunzio! E quanti sostantivi colorati!); e ancora: metafore, similitudini esplicite e poi sempre più sottintese, fino all’uso (chiarissimo esempio in tal senso è Meriggio) del verbo ‘essere’ che si sostituisce al ‘come’ della similitudine, a rappresentare l’avvenuta metamorfosi dell’uomo in un elemento della natura. Evidente la fortissima presenza delle figure di suono, fino a un insistito fonosimbolismo (basti pensare alla Pioggia nel pineto).

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gabriele d’annunzio il vate simbolo della poesia decadente in italia

Il fanciullo (da Alcyone)

I
Figlio della Cicala e dell’Olivo,
nell’orto di qual Fauno
tu cogliesti la canna pel tuo flauto,
pel tuo sufolo doppio a sette fóri?
In quel che ha il nume agresto entro un’antica
villa di Camerata
deserta per la morte di Pampìnea?
O forse lungo l’Affrico che riga
la pallida contrada
ove i campi il cipresso han per confine?
Più presso, nella Mensola che ride
sotto il ponte selvaggia?
Più lungi, ove l’Ombron segue la traccia
d’Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?
Ma il mio pensier mi finge che tu colta
l’abbia tra quelle mura
che Arno parte, negli Orti Oricellari,
ove dalla barbarie fu sepolta
ahi sì trista, la Musa
Fiorenza che cantò ne’ dì lontani
ai lauri insigni, ai chiari
fonti, all’eco dell’inclite caverne,
quando di Grecia le Sirene eterne
venner con Plato alla Città dei Fiori.
Te certo vide Luca della Robbia,
ti mirò Donatello,
operando le belle cantorìe.
Tutte le frutta della Cornucopia
per forza di scalpello
fecero onuste le ghirlande pie.
E tu danzavi le tue melodìe,
nudo fanciul pagano,
àlacre nel divin marmo apuano
come nell’aria, conducendo i cori.
Figlio della Cicala e dell’Olivo,
or col tuo sufoletto
incanti la lucertola verdognola
a cui sopra la selce il fianco vivo
palpita pel diletto
in misura seguendo il dolce suono.
Non tu conosci il sogno
forse della silente creatura?
Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:
tu moduli secondo i suoi colori.
Tu moduli secondo l’aura e l’ombra
e l’acqua e il ramoscello
e la spica e la man dell’uom che falcia,
secondo il bianco vol della colomba,
la grazia del torello
che di repente pavido s’inarca,
la nuvola che varca
il colle qual pensier che seren vólto
muti, l’amore della vite all’olmo
l’arte dell’ape, il flutto degli odori.
Ogni voce in tuo suono si ritrova
e in ogni voce sei
sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.
Par quasi che tu sol le cose muova
mentre solo ti bei
nell’obbedire ai movimenti eterni.
Tutto ignori, e discerni
tutte le verità che l’ombra asconde.
Se interroghi la terra, il ciel risponde;
se favelli con l’acque, odono i fiori.
O fiore innumerevole di tutta
la vita bella, umano
fiore della divina arte innocente,
preghiamo che la nostra anima nuda
si miri in te, preghiamo
che assempri te maravigliosamente!
L’immensa plenitudine vivente
trema nel lieve suono
creato dal virgineo tuo soffio,
e l’uom co’ suoi fervori e i suoi dolori.
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II
Or la tua melodìa
tutta la valle come un bel pensiere
di pace crea, le due canne leggiere
versando una la luce ed una l’ombra.
La spiga che s’inclina
per offerirsi all’uomo
e il monte che gli dà pietre del grembo,
se ben l’una vicina
e l’altro sia rimoto
e l’una esigua e l’altro ingente, sembra
si giungano per l’aere sereno
come i tuoi labbri e le tue dolci canne,
come su letto d’erbe amato e amante,
come i tuoi diti snelli e i sette fóri,
come il mare e le foci,
come nell’ala chiare e negre penne,
come il fior del leandro e le tue tempie,
come il pampino e l’uva,
come la fonte e l’urna,
come la gronda e il nido della rondine,
come l’argilla e il pollice,
come ne’ fiari tuoi la cera e il miele,
come il fuoco e la stipula stridente,
come il sentiere e l’orma,
come la luce ovunque tocca l’ombra.
.

gabriele d'annunzio 1

gabriele d’annunzio e il volo

III
Sopor mi colse presso la fontana.
Lo sciame era discorde:
avea due re; pendea come due poppe
fulve. E il rame s’udìa come campana.
Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.
Lottato avevi ignudo
contro il torrente folle di rapina.
Raccolto avevi piuma di sparviere
che a sommo del ciel muto
in sue rote ferìa l’aer di strida.
Ahi, lungi dalle tue musiche dita
gittato avevi i calami forati.
Chino con sopraccigli corrugati
eri, fanciul pugnace,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana.

.
IV
Eleggere sapesti il re splendente
nello sciame diviso,
ridere d’un tuo bel selvaggio riso
spegnendo il fuco sterile e sonoro.
Con la man tinta in mele di sosillo
traesti fuor la troppa
signoria. Cauto e fermo le calcavi.
Sporgeva a modo d’uvero di poppa
il buon sire tranquillo
che fu re delle artefici soavi.
Poi franco te n’andavi
sonando per le prata di trifoglio,
incoronato d’ellera e d’orgoglio,
entro la nube delle pecchie d’oro.
.
V
L’acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli
fecesi occhio che vede e che sorride;
fecesi chioma su la tua cervice
il crespo capelvenere.
Fatto sei di segreto e di freschezza.
Fatte son di làtice
fluido e d’umide fibre le tue membra.
Il tuo spirto, dal fonte come il salice
ma senza l’amarezza
nato, le amiche naiadi rimembra;
tutte le polle sembra
trarre per le invisibili sue stirpi.
E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,
ha neri gambi il verde capelvenere.
Converse le tue canne sono in chiari
vetri, onde lenti i suoni
stillano come gocce da clessidre.
S’appressano i colúbri maculosi,
gli aspidi i cencri e gli angui
e le ceraste e le verdissime idre.
Taciti, senza spire,
eretti i serpi bevono l’incanto.
Sol le bìfide lingue a quando a quando
tremano come trema il capelvenere.
Sino ai ginocchi immerso nella cupa
linfa, alla venenata
greggia tu moduli il tuo lento carme.
Par che da’ piedi tuoi torta sia nata
radice e di natura
erbida par ti sien fatte le gambe.
Ma il fior della tua carne
suso come il nenùfaro s’ingiglia.
E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,
neri ha gli steli il verde capelvenere.
.

gabriele-d'annunzio-e-natale-palli a bordo dell'SVA ANsaldo

gabriele-d’annunzio-e-natale-palli a bordo dell’SVA ANsaldo

VI
Se t’è l’acqua visibile negli occhi
e se il làtice nudre le tue carni,
viver puoi anco ne’ perfetti marmi
e la colonna dorica abitare.
Natura ed Arte sono un dio bifronte
che conduce il tuo passo armonioso
per tutti i campi della Terra pura.
Tu non distingui l’un dall’altro volto
ma pulsare odi il cuor che si nasconde
unico nella duplice figura.
O ignuda creatura,
teco salir la rupe veneranda
voglio, teco offerire una ghirlanda
del nostro ulivo a quell’eterno altare.
Torna con me nell’Ellade scolpita
ove la pietra è figlia della luce
e sostanza dell’aere è il pensiere.
Navigando nell’alta notte illune,
noi vedremo rilucere la riva
del diurno fulgor ch’ella ritiene.
Stamperai nelle arene
del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli
presso Colòno udremo gli usignuoli
di Sofocle ad Antigone cantare.
Vedremo nei Propìlei le porte
del Giorno aperte, nell’intercolunnio
tutto il cielo dell’Attica gioire;
nel tempio d’Erettèo, coro notturno
dai negricanti pepli le sopposte
vergini stare come urne votive;
la potenza sublime
della Citta, transfusa in ogni vena
del vital marmo ov’è presente Atena,
regnar col ritmo il ciel la terra il mare.
Alcun arbore mai non t’avrà dato
gioia sì come la colonna intatta
che serba i raggi ne’ suoi solchi eguali.
All’ora quando l’ombra sua trapassa
i gradi, tu t’assiderai sul grado
più alto, co’ tuoi calami toscani.
La Vittoria senz’ali
forse t’udrà, spoglia d’avorio e d’oro;
e quella alata che raffrèna il toro;
e quella che dislaccia il suo calzare.
Taci! La cima della gioia è attinta.
Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!
Guarda l’Imetto roscido di miele!
Flessibile m’appar come l’efebo,
vestito della clamide succinta,
che cavalcò nelle Panatenee.
Sorse dall’acque egee
il bel monte dell’api e fu vivente.
Or tuttavia nella sua forma ei sente
la vita delle belle acque ondeggiare.
Seno d’Egina! Oh isola nutrice
di colombe e d’eroi! Pallida via
d’Eleusi coi vestigi di Demetra!
Splendore della duplice ferita
nel fianco del Pentelico! Armonie
del glauco olivo e della bianca pietra!
Ogni golfo è una cetra.
Tu taci, aulete, e ascolti. Per l’Imetto
l’ombra si spande. Il monte violetto
mormora e odora come un alveare.
.
VII
L’odo fuggir tra gli arcipressi foschi,
e l’ansia il cor mi punge.
Ei mi chiama di lunge
solo negli alti boschi, e s’allontana.
Mutato è il suon delle sue dolci canne.
Trèmane il cor che l’ode,
balza se sotto il piè strida l’arbusto;
pavido è fatto al rombo del suo sangue,
ed altro più non ode
il cor presàgo di remoto lutto.
Prego: «O fanciul venusto,
non esser sì veloce
ch’io non ti giunga!» È vana la mia voce.
Melodiosamente ei s’allontana.
Elci nereggian dopo gli arcipressi,
antiqui arbori cavi.
Pascono suso in ciel nuvole bianche.
A quando a quando tra gli intrichi spessi
le nuvole soavi
son come prede tra selvagge branche.
E sempre odo le canne
gemere d’ombra in ombra
roche quasi richiamo di colomba
che va di ramo in ramo e s’allontana.
«O fanciullo fuggevole, t’arresta!
Tu non sai com’io t’ami,
intimo fiore dell’anima mia.
Una sol volta almen volgi la testa,
se te la inghirlandai,
bel figlio della mia melancolìa!
Con la tua melodìa
fugge quel che divino
era venuto in me, quasi improvviso
ritorno dell’infanzia più lontana.
Fa che l’ultima volta io t’incoroni,
pur di negro cipresso,
e teco io sia nella dolente sera!»
Ei nell’onda volubile dei suoni
con un gentil suo gesto,
simile a un spirto della primavera,
volgesi; alla preghiera
sorride, e non l’esaude.
L’ansia mia vana odo sol tra le pause,
mentre che d’ombra in ombra ei s’allontana.
Ad un fonte m’abbatto che s’accoglie
entro conca profonda
per aver pace, e un elce gli fa notte.
«O figlio, sosta! Imiterai le foglie
e l’acque anche una volta
e i silenzii del dì con le tue note.
Sediamo in su le prode.
Fa ch’io veda l’imagine
puerile di te presso l’imagine
di me nel cupo speglio!» Ei s’allontana.
S’allontana melodiosamente
né più mi volge il viso,
emulo di Favonio ei nel suo volo.
Sol calando, la plaga d’occidente
s’infiamma; e d’improvviso
tutta la selva è fatta un vasto rogo.
Le nuvole di foco
ardono gli elci forti,
aerie vergini al disìo dei mostri.
Giunge clangor di buccina lontana.
E un tempio ecco apparire, alte ruine
cui scindon le radici
errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
Giaccion tronche le statue divine
cadute dai fastigi;
dormono in bruni pepli di corimbi.
Lentischi e terebinti
l’odor dei timiami
fan loro intorno. «O figlio, se tu m’ami,
sosta nel luogo santo!» Ei s’allontana.
«Rialzerò le candide colonne,
rialzerò l’altare
e tu l’abiterai unico dio.
M’odi: te l’ornerò con arti nuove.
E non avrà l’eguale.
Maraviglioso artefice son io.
T’adorerò nel mio
petto e nel tempio. M’odi,
figlio! Che immortalmente io t’incoroni!»
Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana.
Si dilegua ne’ fiammei orizzonti
Forse è fratel degli astri.
O forse nel mio sogno s’è converso?
«Ti cercherò, ti cercherò ne’ monti,
ti cercherò per gli aspri
torrenti dove ti sarai deterso.
E ti vedrò diverso!
Gittato avrai le canne,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana».

sabino caronia

sabino caronia

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995).
Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).
Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal».
Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) .

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Roma, venerdì 15 aprile ore 18 all’Aleph vicolo del Bologna, 72 (Trastevere) presenta Teoria delle Ombre, notturno in 4 movimenti per Lucio Piccolo (1901-1969) nella interpretazione di  Pino Censi, real time processing Paolo de Laurentiis. POESIE SCELTE da Gioco a nascondere (1960) Plumelia (1967), La seta, (1984), Il raggio verde, (1993)

città Catania interno di palazzo-manganelli

Catania interno di palazzo-manganelli

Roma, venerdì 15 aprile ore 18 all’Aleph vicolo del Bologna, 72 (Trastevere) presenta Teoria delle Ombre, notturno in 4 movimenti per Lucio Piccolo (1901-1969) nella interpretazione di  Pino Censi, real time processing Paolo de Laurentiis

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Appunto di Pino Censi

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Teoria delle Ombre, notturno in quattro movimenti per Lucio Piccolo si propone di investigare il senso alto e sublime della parola poetica – eludendone l’enfasi – evidenziando nella pratica vocale le presenze e le apparenze che in essa sono contenute.
Le singole liriche, come suggeriva lo stesso poeta, saranno considerate un inarrestabile e stravagante flusso meditativo ciclico e unitario
affannosa e spettrale recherche…memorie legate a risvegli infantili…ex-voto per le anime in fiamme liberate dalla vibrazione del canto”.
I movimenti di scansione potrebbero costituire ideali cesure legate alla simbologia numerica del quattro. Essi oltre a richiamare la modalità musicale barocca, cioè quella di comporre per temi ordinati in una successione di sezioni e blocchi, possono evocare ancora gli angoli di una ipotetica stanza nella quale le stagioni dell’anno, i quattro elementi, i punti cardinali, le fasi della luna, i quattro momenti in cui si sviluppa l’arco temporale di una giornata, orbitano e si fondono con lo sviluppo archetipico dell’età umane collegate tra loro (attraverso la poesia) dal centro del cosmo.
Contrappunto all’interpretazione musicale del pensiero, una drammaturgia sonora concepita per questo carme.
…« Notturno» è solo un riferimento mentale e giocoso rispetto al significato attribuitogli dai romantici…ad eccezione del fatto che il componimento potrebbe essere idealmente destinato e concepito per le ore della notte, o meglio ispirato ad esse. Forse più semplicemente è un ulteriore tributo diretto a Piccolo, autore egli stesso di uno spettrale e magico notturno…contenuto nella partitura dello spettacolo?
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Sono appassionato lettore di Lucio Piccolo da molti anni e recitare POESIA è stata da sempre una mia OSSESSIONE, pensavo fosse solo quell’esperienza intimissima e profonda 
-quasi sacra-  dell’occhio con il foglio scritto.
Questo è un tentativo affascinato ed estremo di una ulteriore riflessione sul seducente mondo del poeta,una delle figure più significative del 900.
Indagare dentro quei suoi versi densissimi frutto di una costante tensione metafisica in continua fluttuazione tra il protagonista lirico e la realtà circostante, contingente, documentata da una cattura incessante di simboli e immagini… dallo sperimentalismo linguistico (uno stile ermetico reso da una forma e struttura barocche generanti un ossimoro letterario) alle combinazioni prospettiche, al contrappunto tematico, alle variazioni ritmiche fino al richiamo della “armonistica bartokiana”. Tutti questi segni hanno avvicinato l’amato poeta proprio al “moderno compositore politonale” intravisto da Montale… ed è proprio lui, Lucio stesso, che in un inesauribile vortice mi ha condotto e fatto violare quell’inviolabile limite intimo – quasi sacro – tra occhio e pagina, offrendomi con la sua poesia, voce e corpo all’impalpabile e implacabile flusso mentale della parola, una parola “… poeticissima, luminosa, difficile da penetrare, di pasta dura e, come la luna con zone d’ombre, macchie scure”.
lucio piccolo picnic di famiglia

picnic di famiglia

Commento di Silvia Chessa da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 83 (2015)

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Piccolo, Lucio (Lucio Carlo Francesco), barone di Calanovella. – Nacque a Palermo il 27 ottobre 1901 da Giuseppe e Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, e morì a Capo d’Orlando nel 1969.
Lucio Piccolo appartenne a una famiglia aristocratica siciliana che annoverava, per parte materna, l’origine normanna e tre viceré di Sicilia. Il padre Giuseppe (1866-1928), figlio di Casimiro e Agata Moncada Notarbartolo, aveva sposato Teresa il 28 aprile 1890 ed era morto a Sanremo, in una sorta d’esilio imposto dalla moglie, che aveva tollerato la cattiva gestione del patrimonio e le avventure sentimentali, ma non l’abbandono della famiglia. Da Lucio Mastrogiovanni Tasca Lanza d’Almerita, che nel 1867 aveva sposato Giovanna, figlia del soprano Teresa Merli Clerici e unica erede di Alessandro Filangeri di Cutò, nacque invece la madre (1871-1953) di Piccolo, in una famiglia numerosa ma non fortunata: il fratello Lucio morì poco dopo la nascita; Nicoletta fu vittima del terremoto di Messina del 1908; Giulia, la bellissima dama di corte della regina Elena e madrina del principe ereditario Umberto, fu assassinata dal proprio amante; Maria morì per una dose eccessiva di Veronal e Pia colpita da meningite, a soli otto anni. Alessandro, fratello minore di Teresa, si distinse per la sua attività giornalistica e l’impegno politico nel Partito socialista riformista, ma l’alto tenore di vita, l’inclinazione munifica e le conseguenze di una condanna per diffamazione contribuirono al suo declino economico, e il ‘Principe Rosso’ morì in povertà nel 1943. Il suo primogenito, Alessandro jr., produsse e collaborò con registi di fama come Orson Welles e John Huston.
In questo illustre e complesso contesto familiare, la parentela più nota è però quella con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, figlio di Giulio Maria e di Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, sorella maggiore di Teresa. Giuseppe ebbe un legame profondo con i cugini Piccolo, di cui condivise gli interessi culturali, le aspirazioni e una nativa neghittosità mista a timidezza e fierezza. Non privi di analogie furono anche i rapporti con le figure genitoriali e i condizionamenti familiari relativi a matrimoni e discendenze: Tomasi adottò Gioacchino Lanza Mazzarino, e Piccolo, che non si sposò mai, ebbe da Maria Paterniti l’atteso erede, Giuseppe Giovanni Piccolo di Calanovella (Ficarra, 24 giugno 1960 – Palermo, 1° luglio 2012), su cui decise di far confluire il patrimonio materiale e culturale della famiglia. Da Giuseppe e da sua moglie Gaetana Guadalupi nacque a Messina, il 23 marzo 1991, Mariel (all’anagrafe Mariella) Piccolo di Calanovella.
Ultimo di tre fratelli, Piccolo trascorse gran parte della sua esistenza nella villa di contrada Vina, a tre chilometri dal centro di Capo d’Orlando, in cui, in ossequio alla volontà materna, la famiglia si trasferì definitivamente dopo l’allontanamento del padre e le difficoltà economiche che determinarono la perdita della casa palermitana di via Libertà 13. Poliglotti, colti e raffinati conversatori, amanti della musica e dell’arte, della natura e degli animali, specialmente dei cani, cui avevano riservato in villa un degno cimitero con il nome dei defunti sulle lapidi, i Piccolo vennero inevitabilmente considerati una famiglia di eccentrici.
La sorella Agata Giovanna (1891-1974), appassionata di botanica e membro dell’Associazione mondiale di floricultura, trapiantò, nell’orto di villa Vina, la Puya delle Ande, introducendo per la prima volta in Europa la rara pianta tropicale illustrata in un saggio del 1963. Fin troppo noto per la sua inclinazione verso l’occulto, il fratello Casimiro (1894-1970) condivise con Lucio la fascinazione per l’oscurità, spartita fra indagine scientifica ed esoterismo; più recente fu invece l’attenzione agli acquerelli e alle fotografie, testimoni di originali e pionieristici interessi.
Ingegno acutissimo, precoce e poliedrico, Piccolo sovrastò tutti per talento lirico e cultura. Conseguita la maturità classica al liceo Garibaldi di Palermo, non intraprese studi universitari; fu in una corrispondenza con William Butler Yeats e frequentò il salotto palermitano del barone Bebbuzzo Sgàdari di Lo Monaco. All’insegna di un paradossale cosmopolitismo (rari gli spostamenti in Italia e all’estero, in Francia e in Inghilterra con Lampedusa), Piccolo continuò a vivere a Capo d’Orlando dove fu munifico ospite di letterati, artisti e giornalisti, attratti dalla sua personalità non meno che dall’opera. Eclettico lettore di testi classici moderni e contemporanei, italiani e stranieri in lingua originale, esperto di filosofia, teosofia, metapsichica, matematica e astronomia, fu anche pittore e musicista con la passione per Richard Wagner, i polifonici del Cinquecento e Gian Francesco Malipiero.
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montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

A Eugenio Montale inviò, nell’aprile del 1954, un gruppo di sue poesie, 9 liriche, con una lettera di accompagnamento. Un’altra lettera, con poesie accluse, fu contestualmente indirizzata a Giuseppe De Robertis, informato, come Montale, che una copia dattiloscritta delle liriche era in lettura presso Vallecchi. Pochi mesi dopo la morte della madre – per la quale in villa si continuava ad apparecchiare un posto a tavola –, Piccolo si aprì quindi al confronto con almeno tre importanti interlocutori: un editore, un poeta e un critico.
A scrivere la lettera d’accompagnamento, che a Montale era parsa «piuttosto generica e tale da far temere una poesia puramente descrittiva», era stato invece Tomasi. Lo rivelò lo stesso Piccolo a Camilla Cederna: «in una sorta di raptus scrissi i “Canti barocchi”. Li lessi a Lampedusa, che, smesso quell’inesorabile seppure stimolante persiflage nei miei confronti, li approvò incoraggiandomi a mandarli a Montale. Fu lui anzi a scrivere la lettera d’accompagnamento, e in questo modo io restavo come Nereo dietro le ombre, e lui si divertì a mettere Montale in curiosità» (cfr. L’Espresso, 29 aprile 1962, p. 18).
Fu Montale invece a raccontare di una busta gialla, con un bollo da 35 lire il cui ritiro gli costò 180 lire di tassa per l’errore di affrancatura: conteneva un «libriccino» stampato nello Stabilimento Progresso di Sant’Agata di Militello in una veste tipografica che gli ricordava i Canti Orfici di Dino Campana. Nel mese di luglio del 1954, al convegno di San Pellegrino Terme organizzato da Giuseppe Ravegnani sul confronto letterario fra due generazioni, Montale, invitato a fare il nome di un nuovo scrittore, scelse di presentare Piccolo, scoprendo che il poeta «nuovo» era in realtà poco più giovane di lui. L’arrivo del barone e del principe suo cugino, l’ancora sconosciuto autore del Gattopardo, in questo contesto mondano e sottilmente ostile, suscitò molta curiosità, acuita e riorientata dal discorso tenuto da Montale vòlto poi a introdurre Canti barocchi e altre liriche (Milano 1956), edito nella collana mondadoriana Lo Specchio.
Montale vi descriveva le singolarità di «un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo», un poeta senza maestri, in cui la virtù oratoria presente nella linea materna (specialmente in suo zio, l’on. Tasca di Cutò) era riuscita a sublimarsi in poesia: «Mi trovavo, insomma, di fronte a un clerc così dotto e consapevole che veramente l’idea di dovergli essere padrino mi metteva in un insormontabile imbarazzo. Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando; ma non segue nessuna scuola» (cfr. E. Montale, Prefazione, ibid., pp. 16-17). Nello stesso anno, al premio letterario Chianciano, Piccolo ottenne per i Canti barocchi un ex aequo con Le passeggiate di Saverio Vollaro (Roma 1956).
Sempre per Mondadori, Piccolo pubblicò Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche (Milano 1960), dedicato a Montale, e nel 1967, anno della sua ristampa, presso Scheiwiller uscì un’«edizioncina» di nove componimenti, Plumelia (poi 1979), con dedica ad Antonio Pizzuto, da lui ricambiato in Ultime. Nel 1959 erano già apparse in Botteghe Oscure (XXIV, 2, pp. 291-295) le poesie Ombre, Topazio affumicato e Candele, mentre datata 2 giugno 1965 è la lettera-omaggio per i settant’anni di Montale (Per la conoscenza di noi stessi, in Letteratura, n.s., XXX (1966), 79-81, p. 249).
In Nuovi Argomenti furono edite L’esequie della luna – un balletto sulla Palermo barocca cui, almeno nei voti, avrebbe dovuto far seguito, con la musica di Malipiero e i costumi di Fabrizio Clerici, un’esecuzione alla Piccola Scala di Milano diretta da Gianandrea Gavazzeni – e La torre (rispett. n.s., 1967, n. 7-8, pp. 152-169; 1968, n. 9, pp. 112-114). Su Carte segrete uscì invece La seta (1968, 2, 7, p. 191). Con Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, direttori di Nuovi argomenti, e insieme ad altri amici, fu nella giuria del premio letterario Vitaliano Brancati di Zafferana Etnea (1968). Nei due anni precedenti aveva presieduto il premio internazionale di poesia Riviera dei Marmi (Custonaci, Trapani; 1967) e il premio Città di Naso (1966), vinto da Maria Luisa Spaziani.
Il 1° novembre del 1968, fra il serio e il faceto, e con un vaticinio d’addio non solo poetico, Piccolo mandò a Pizzuto una cartolina illustrata: «Io sto non troppo bene con disturbi di circolazione che fanno un tantino di male al cuore. Ma questo sarebbe nulla se non soffrissi di una quasi completa aridità poetica. Non scriverò più nulla ahimè! Per la quale ragione ben tosto mi getterò da questa storica torre – di cui ti mando la foto. Così potrai vedere il luogo nel quale chiuse tragicamente i suoi giorni il tuo sventuratissimo amico».
Per un’embolia cerebrale morì a Capo d’Orlando il 26 maggio 1969.
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Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo-foto-di Scianna-©-Ferdinando-

Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo-foto-di Scianna-©-Ferdinando

La prima raccolta postuma fu edita da Vanni Scheiwiller con il titolo La seta e altre poesie inedite e sparse (a cura di G. Musolino – G. Gaglio, Milano 1984). La stima e amicizia con il poeta aprivano la Nota dell’editore in cui Scheiwiller faceva cenno ai progetti editoriali condivisi e poi sospesi per l’inattesa morte di Piccolo, alla «scoperta» degli inediti, alla vertenza giudiziaria che aveva reso temporaneamente inaccessibili le carte e la biblioteca (cfr. La sorte delle carte del poeta L. P., in Corriere della sera, 21 gennaio 1973, p. 5), e alla personale consegna delle bozze a Giuseppe Piccolo e ai curatori. La silloge, articolata in «Poesie sparse mai raccolte in volume» e una serie di venticinque «Poesie inedite», comprendeva fra queste ultime Resurrescit, già apparsa in L’esperienza poetica (1955, n. 7-8, pp. 6-9), insieme con Anna Perenna, che in altra redazione sarebbe entrata in Gioco a nascondere. Fra gli Autografi di poeti italiani contemporanei “all’insegna del Pesce d’Oro” (Milano 1986) fu inclusa la traduzione da Yeats Ma mentre andava brancicando; sempre per Scheiwiller uscirono Il raggio verde e altre poesie inedite e L’esequie della luna e alcune prose inedite (Milano 1993 e 1996, a cura di G. Musolino); l’Antologia poetica (Milano 1999, con introd. e note a cura di G. Celona); Canti barocchi e Gioco a nascondere (Milano 2001, con uno scritto di V. Consolo, Il barone magico); Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie (Milano 2001, con prefaz. di P. Gibellini); e A. Pizzuto – L. Piccolo, L’oboe e il clarino. Carteggio 1965-1969 (Milano 2002, a cura di A. Fo – A. Pane). Nel 2005, con le litografie di Mimmo Paladino, sono stati editi da Zanella e Upiglio i Canti barocchi (note di B. Manzitti, Una busta per Montale e S. Verdino, Poesia di sangue blu) e nel 2010, a Ficarra, per il Museo Lucio Piccolo, 9 liriche (nota al testo di D. Perrone). Alta, difficile, resistente alle necessità tassonomiche di antologie e storie letterarie, la scrittura di Piccolo, anche nella sua inappartenenza, è quella di un poeta metafisico che si colloca all’interno della più grande tradizione italiana e straniera. Il suo lirismo strumenta l’invenzione di un’epoca e traduce un’autentica febbrile visionarietà, stemperata solo dall’intensità apollinea dei referenti fisici e stilistici, chiusi in quel cerchio della memoria che è per Piccolo vita e poesia. Una lirica pura, che sintetizza sostanza e forma poetica nei termini di una perfezione stilistica non minacciata dal descrittivismo e non contaminata da intellettualismi, e per la quale Pizzuto dichiara la sua stima al massimo poeta italiano del suo tempo. L’opera di Piccolo attende e merita una nuova acquisizione al panorama storiografico nazionale e internazionale, che dovrà passare attraverso il vaglio della biblioteca, il censimento, l’indagine sistematica delle carte, e un’adeguata valorizzazione in sede di edizione critica.
Font e Bibl.: Il Fondo «Lucio Piccolo di Calanovella» è conservato presso le eredi Gaetana Guadalupi e Mariel Piccolo, e comprende carte e libri, alcune collezioni, mobili e una motocicletta di P.; a oggi, tre sono gli inventari, redatti da G. Guadalupi e M. Piccolo, con l’ausilio di G. Celona, relativi a testi letterari (fra cui materiali preparatori, appunti e scritti vari), corrispondenza (che annovera almeno Yeats, Tomasi, Montale e Pizzuto, Guido Piovene, Leonardo Sciascia, Maria Luisa Spaziani, Vincenzo Consolo e, fra gli editori, Mondadori e Scheiwiller) e materiale fotografico. Sono invece in corso di allestimento l’inventario dei manoscritti musicali, in cui si registra il pluricitato Magnificat, e quello dei disegni e acquerelli. È infine conservato nel Fondo un nucleo di documentazione privata, costituito da atti, donazioni e testamenti personali e familiari. Duemila volumi circa compongono la biblioteca; la lingua maggioritaria è l’italiano, ma sono presenti testi in francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco, latino e alcuni in arabo.
Per la Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella (Capo d’Orlando, villa Vina, oggi Casa-museo), si vedano l’Archivio storico famiglia Piccolo di Calanovella, a cura di A.M. Corradini, Capo d’Orlando 2002, e il sito ufficiale http://www.fondazionepiccolo.it.
Per un profilo complessivo della bibliografia di e su Piccolo si rinvia a S. Palumbo, Notizia e Bibliografia critica, in L. Piccolo, Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie, cit., pp. 111-113 e 114-128; Opere di L. P. e Opere su L. P. (www.fondazionepiccolo.it) in cui sono inclusi documentari, programmi radiofonici e tesi di laurea. Ulteriori rimandi in A. Tasca di Cutò, Un principe in America e altrove, Palermo 2004; G. Tomasi di Lampedusa, Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930, a cura di G. Lanza Tomasi – S.S. Nigro, Milano 2006; C. Aliberti, L. P., in Letteratura siciliana contemporanea. Da Capuana a Verga, a Pirandello, a Quasimodo, a Camilleri, Cosenza 2008, pp. 536-550; S. Chessa, Dalla Torre di L. P., in Studi di filologia italiana, LXVI (2008), pp. 293-325; A.M. Corradini, Il principe rosso. Alessandro Tasca Filangeri di Cutò un socialista dimenticato, Acireale-Roma 2010; F. Cevasco, Montale e Lucio il poeta barone nella villa incantata dei Gattopardi, in Corriere della sera, 14 agosto 2013, p. 30; C. Segre, Le fughe e i ritorni di Consolo. Sicilia non è solo Gattopardo, ibid., 19 gennaio 2015, pp. 30 s.

LE LIRICHE
(da: Gioco a nascondere-Canti Barocchi, Mondadori 1960; Plumelia, Scheiwiller 1967; La seta, Scheiwiller 1984; Il raggio verde, Scheiwiller 1993)

.

Non fu come credevi…

Non fu come credevi per lo scatto
del giorno innanzi che aveva turbato
la pianta gracile troppo sensitiva.
Per altro fu il singhiozzo subito:
forse l’eco risorta
d’una storia dolente;
ma certo in me s’apriva
tremenda ed umile
la voce che da sempre dura
e che ci lega, ognuno
di noi, al dolore d’ognuno anche ignorato.
Poi viene calma, e il riposo
al tuo riparo. Su la rena
onda dopo onda la marina lontana
forse suona una notte
in cui riemergono dalle profondità
sull’errante pianura
le luci fuggitive dei tesori
che i navigli salpati alle speranze
dell’Isole Felici
dispersero sull’acque.

.
I giorni

I giorni della luce fragile, i giorni
che restarono presi ad uno scrollo
fresco di rami, a un incontro d’acque,
e la corrente li portò lontano,
di là dagli orizzonti, oltre il ricordo,
– la speranza era suono d’ogni voce,
e la cercammo
in dolci cavità di valli, in fonti –
oh non li richiamare, non li muovere,
anche il soffio più timido è violenza
che li fra storna, lascia
che posino nei limbi, è molto
se qualche falda d’oro ne traluce
o scende a un raggio su la trasparente
essenza che li tiene
ma d’improvviso nell’oblio, sul buio
fondo ove le nostre ore discendono
leggero e immenso un subito risveglio
trascorrerà di palpiti di sole
sui muschi, su zampilli
che il vento frange, e sono
oltre le strade, oltre i ritorni ancora
i giorni della luce fragile, i giorni…

.
La meridiana

Guarda l’acqua inesplicabile:
contrafforte, torre, soglio
di granito, piuma, ramo, ala, pupilla,
tutto spezza, scioglie, immilla;
nell’ansiosa flessione
quello ch’era pietra, massa di bastione,
è gorgo fatuo che passa, trillo d’iride, gorgoglio
e dilegua con la foglia avventurosa;
sogna spazi, e dove giunge lucente e molle
non è che un infinito frangersi di gocce efimere, di bolle.
Guarda l’acqua inesplicabile:
al suo tocco l’Universo è labile.
E quando hai spento la lampada ed ogni
pensiero nell’ombra senza peso affonda,
la senti che scorre leggera e profonda
e canta dietro ai tuoi sogni.
Nell’ora colma, nelle strade meridiane
(ov’è l’ombra, ai mascheroni anneriti
alle gronde scuote l’erbe l’aria marina)
rispondono le fontane,
dalla corte vicina (lasciò la notte ai muri
umidi incrostazioni di sali, costellazioni
che il raggio disperde),
dai giardini pensili ove s’ancora il verde
si librano cristallini archi
s’incontrano nell’aria incantata alle piazze
sui cavalli di spuma gelata,
s’alzano volte di suono radiante
che frange un istante e ricrea
– la tenera piovra, il fiore liquido emerge, elude
il silenzio e un àndito schiude fra il canto e il sopore;
s’aprono zone di solitudini, di trasparenze,
e il bordone poggiato al sedile riposa
e il sogno si leva…
L’ombra del cavalcavia
Batte al selciato che brucia.
Ora piana ora ferma, ti guardi, ti specchi beata
in alta murata di loggia –nitore di vela- in altana
e la loggia, la cupola, la cuspide che vuole
salire più alta, sono immerse nel vento del sole;
permea l’azzurro le travature corrose,
la scala che sale alla cella, delle aperture
dei muri forati, degli archi fa sguardi sereni,
e le cavalcature riposano ai fieni falciati;
rigoglio di lantane, di muse, di calle,
ai terrapieni ove il gelso arpeggia l’ombre
ed alle balaustre scendono diffuse
le molli frane del caprifoglio,
(dietro al cancello fra gli aranci
l’acqua nascosta ha note d’uccello).
E le montagne, le montagne, l’han consumate
al corale dei raggi
le resine, l’erbe odorose, gli aromi selvaggi
…lancia il sole crinale cerchio
nell’idrie ove l’acqua scintilla
e s’uno scende l’atro sale,
• armonica d’oro –
la Bilancia appena oscilla
quasi uguale.
Attendono i vegliardi;
sotto la cupola al segno rotondo
(in gemini) folgora l’ora eco di cosmi,
ed alle siepi del mondo
passa il brivido di fulgore
fende l’immane distesa celeste
vibra, smuore, tace,
vento senza presa e silenzio.
Ma se il fugace è sgomento
l’eterno è terrore.

Lucio Piccolo

Lucio Piccolo

Scirocco

.
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri…
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

.
La notte

La notte si fa dolce talvolta,
se dalla cerchia oscura
dei monti non leva alito di frescura
perché non sòffochi, ai muri vicini apre corimbo di canti,
sale coi rampicanti pei lunghi archi,
alle terrazze alte, ai pergolati, al traforo
dei mobili rami segna garofani d’oro,
segreti fievoli coglie ai fili d’acqua sui greti
o muove i passi stanchi
dove l’onde buje si frangono ai moli bianchi.
Subito allo schermo dei sogni
soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…
muove la girandola d’ombre:
sulla soglia, in alto, ogni dove
vacuo vano, andito grande tende a forme,
sguardo che muove le prende,
sguardo che ferma le annulla.
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,
è bocca d’aria che cerca bacio, ira,
è mano di vento che vuole carezza.
Alle scale di pietra, al gradino di lavagna,
alla porta che si fende per secchezza
è solo lume l’olio quieto;
spento il rigore dei versetti a poco a poco
il buio è più denso – sembra riposo ma è febbre;
l’ombra pende al segreto
battere d’un immenso
Cuore
di
fuoco.

 

*
sebbene tu cerchi che la tua stessa
fugacità sia l’arpa, il flauto, il ruscello,
sai che su la fronte è il segno
di una malinconia senza fine;
e se l’aria della notte che avanza
scioglie la maggiorana, i mirti,
il chiaro calice della datura
in fumo umido di fragranza,
sai che la favola sboccia,
poco dura, s’allontana,
e l’amaro e dell’ultima goccia.
Anche se il disperso ritrova
il confine, il lume notturno, il riposo,
anche se il tumulto gioioso
delle campane irrompe
nell’aria della sera,
e la corona da le gemme invernali
dolce sì curva a la primavera dei bianchi sponsali.
Ora su le colline oscure, su le curve dei monti
le terse cinture, le cacce di scintille
prende il primo scoramento che poi trascolora,
e saranno in fondo a le valli, brusio, brina,
all’eriche sonaglio di stille che vapora,
breve fluire di fonti che l’erba disperde,
che la terra densa ai raggi caldi beve.

.

Notturno

Hai visto come al varcare la soglia
il lume che era nella mano manca
mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo
leggero del vetro se spento.
tardo il passo ne fu colpo di vento,
forse ha soffiato qualcuno, un volto
subito svaporato nell’aria?
Felpata, ovattata
densa di cortine ogni stanza, ogni vano
-solo per la notte che pensa? Imbottiture
a finestre doppie che l’aria non giri
ed anche la porta a la sua veste
di stoffa che spenga ogni stridio (rinchiuso
interno che la malinconia
di nuovo chiama opprime e la figura
annosa e i figli estremi
incandescenti al flusso giallo).
Non ebbe strisce sanguigne il tramonto,
vennero chiare le campane,
ora pende la lanterna al carretto che stenta
e in fondo alla strada sul mare
un bastimento che prende il largo
gira i suoi fuochi lontani.
E ancora due volte hai riacceso
Il lume e due volte se spento
all’entrare: una villetta,
un ventaglio di piume, una mano
che sfilò dal guanto, la falda
d’un portale che non sostenne
Il nastro? Ma non c’è nessuno
e sai che non bisogna tentare
il buio: rimemora, a nostalgie, imprevisti,
l’ombra a le ombre, meglio pregare
a questo ora, quel che gioco
sembra di giorno fa vero
di notte la notte che sogna-
penso che farai: la luna, i pianeti la rosa
Di maestrale o scirocco nei porti
lontani maree: il volume
sibillino di numeri e immagini
che muta in oro innegabile voci
smorzate all’orecchio, significazioni
di sogni, eventi. Ma i morti
non hanno cifre per i nostri tesori,
singulti hanno in noi,
veglie
di fiamme basse, aneliti
d’angoscia verso un nodo di vita
incompreso, e a volte una sera
che scende dall’alto e candori infiniti.
Parlottare fatuo nell’aria
o il buio che si cerca o sfioramenti
di matasse invisibili o altro
certo non saranno che folle,
ma è vero che per tre volte
t’anno soffiato sul lume al passare.

.
Il raggio verde

Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l’ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d’abissi… poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell’ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinio della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favole, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.

.
Voce umile e perenne

Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.

Pino Censi

Pino Censi

Pino Censi, diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, è stato diretto da Gabriele Lavia, Glauco Mauri,Walter Pagliaro, Cherif, Barbara Nativi e Giorgio Treves. Intensa la collaborazione artistica con Sandro Sequi negli spettacoli realizzati per il Centro Teatrale Bresciano. Suoi i progetti “Nijinsky” (frammenti dai “Quaderni” di Vaslav Nijinsky, il madrigale di Claudio Monteverdi “Combatimento di Tancredi et Clorinda”, ”Cerchio di Melodie – Teoria delle Ombre” da dieci liriche di Lucio Piccolo e “Una lunga notte” tratto dal romanzo omonimo di Antonella Cilento sull’opera del ceroplasta secentesco G. Zummo. Alla biennale di Venezia (n°40) è stato Minosse/Cefalo nello spettacolo di Giorgio Marini “Il giavellotto dalla punta d’oro” racconto di Roberto Calasso. Ippolito nella “Fedra” di D’Annunzio al Vittoriale; Edipo nella performance “Edipo, la sfinge e lo spettro” da Cocteau presso la galleria “L’Attico” di Sargentini e Egon Schiele in “vive morendo ogni cosa” dal “diario di Neulengbach” dell’artista viennese.

 

21 commenti

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DIALOGO tra STEVEN GRIECO RATHGEB e GIORGIO LINGUAGLOSSA sullo STATUTO del FRAMMENTO in POESIA con una composizione esemplificativa di Steven Grieco e Mario M. Gabriele La realtà frammentata; La forma aperta; Il frammento interrompe il flusso di ricezione; Velocità-rallentamento; La scrittura per “frammenti” e la Dis-locazione del Presente; Lo pseudo concetto imperiale di identità poetica e Alcune Poesie di René Char

  1. Gif FelliniSteven Grieco-Rathgeb

9 aprile 2016 alle 17:13 Modifica

Caro Giorgio, l’uso di frammenti per narrare una realtà frammentata come la nostra, sincopata nei ritmi, è interessante, è un tuo contributo ad una rinnovata riflessione sulla poesia. Che spero continuerai a sviluppare. Niente si ferma, tutto è in un continuo stato di flusso.
In diversi modi, i tuoi frammenti stanno vicino alla mia urgenza di rallentare il ritmo di arrivo della poesia alla fruizione del lettore.
Del tempo fa, nel contesto di un post di poesia di Edith Dzieduscycka su L’Ombra delle Parole, c’è stato un interessante dialogo con il Signor Pasquale Balestriere, il quale giustamente non capiva, in un primo momento, come la poesia possa avere un moto veloce e lento allo stesso tempo. Io ho cercato di spiegare che questo dipende secondo me tanto dalla mente che recepisce la poesia, quanto dalla poesia stessa.
Il frammento interrompe il flusso di ricezione, lo rende zackig, frastagliato, come dire, ma allo stesso tempo quel rallentamento libera il pensiero retrostante, libera l’ombra significante che segue le parole e le illumina. Ecco perché rallentamento in poesia si traduce spesso in un percepito aumento della velocità.
Ho studiato a lungo la poesia recente e meno recente per capire questa dinamica. Le prime volte era con i poeti moderni quando avevo 16-17 anni: mentre leggevo, d’un tratto si liberava una risonanza da una parola, o da un gruppo di parole, facendomi trasalire, come un uccello spiccava il volo e andava a posarsi in qualche altro punto della poesia, dove non avrei mai pensato: indicandomi con un sorriso segreto che la poesia stavo leggendo non veicolava soltanto pensiero e concetto, ma anche risonanze di pensiero e di concetto: e che dunque sopra la poesia, con il suo generico e pur ricco significato letterale, si estendeva una trama lucente di un altro significato, impossibile da cogliere se non per un attimo. Mi sembrava che questa trama fosse, in qualche modo, riflesso della psiche del poeta, la quale porta in sé il millenario abisso di civiltà, di cui il poeta è solo vagamente conscio – a lui, tuttavia, il merito di aver saputo veicolare quell’indicibile. Allora la poesia che leggevo mi diventava luminosissima, la riconoscevo come “grande”: un miracolo: essa esprimeva anche me: e mi dava licenza di ispirarmi ad essa perché io facessi un ulteriore passo nella ricerca del senso indecifrabile delle cose. Forse questo è il vero significato della parola “tramandare”, “tradizione”.
foto ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

A scuola avevamo letto tantissimo Shakespeare, il nostro professore amava anche i poeti del Sei e del Settecento. Giustamente additava Alexander Pope come un gigante e maestro della forma classica, mai più, io penso, raggiunto. Ma quello strano sistema di risonanze che ho detto sopra lo sentivo più nei poeti dal Romanticismo in poi, e in particolar modo nei moderni, da Eliot in poi. Penso adesso che ciò fosse dovuto alla mia sensibilità di moderno. In questo senso, anche i Romantici inglesi erano moderni, grazie alla Rivoluzione Industriale. (Impossibile idealizzare l’operaio in fabbrica, come si era fatto con il contadino, nel suo idillico contesto campestre.)
Qualche anno più tardi, una volta che fui in grado di leggere l’italiano, sentii questo stesso fuggire di risonanze anche in un poeta come Montale.
Torno al concetto di rallentamento-velocità, che è un fenomeno, mi pare, nato in genere con il modernismo, e sorto forse anche involontariamente per rispecchiare l’ansia, l’incertezza esistenziale, che noi moderni abbiamo iniziato a vivere come quotidianità dopo che sono caduti gli idoli dell’Occidente, dopo che si è in genere stabilita la relatività delle cose di questo mondo.
I poeti scandinavi del secondo ‘900 sono maestri di questo procedimento. Tranströmer è solo uno di loro.
Velocità-rallentamento, in una forma molto simile, è un fenomeno fortemente presente nella modalità “dhrupad” della musica classica indiana. La quale lavora anche sui microtoni per tirare fuori la suggestione che vibra sopra al dettato musicale di base, sopra al succedersi sequenziale, lineare, delle note. Simile, come ho già detto, al poeta che scrive una poesia le cui parole suggeriscono qualcosa oltre il significato letterale. Certo, questo già lo si fa, ma si tratta, io dico, di notevolmente accrescere questa potenzialità che pure la musica, e la lingua hanno. Le parole che noi usiamo, e che siamo quotidianamente costretti ad usare quasi fossero gli spiccioli del nostro pensiero, sono antichissime, arcaiche, radicano in lingue e pensieri precedenti, in gran parte obliati, hanno una ricchezza immisurabile. E’ qui forse che sta il mistero della poesia (e della lingua) che diceva Salvatore Martino: semplicemente vaga percezione della “immensità di culture millennarie”, che appare nelle nostre parole, che però hanno anche una leggerezza assolutamente indispensabile perché gli esseri umani possano comunicare liberi fra di loro.
Poeta forse è anche colui che sa fare questo: intuire in ogni attimo quel vasto orizzonte, ma saperlo rendere leggero, fruibile all’uomo del suo tempo. Reintegrare l’uomo. Ecco perché una significativa comunicazione poetica con l’uomo di oggi non sarebbe possibile, secondo me e genericamente parlando, tramite la forma del sonetto. La comunicazione poetica già sembra impresa ardua con le forme “aperte”! Ciascun poeta dovrà attraverso i suoi tormenti trovare da sé la forma che va bene oggi, se è vero che il suo compito è prima di tutto raggiungere il lettore-ascoltatore esterno, il quale vive nella realtà di oggi, non nel passato. Le scelte a sua disposizione, e proprio grazie a questa caotica libertà che ci ritroviamo, sono molte. (Una, per esempio, è quella di Stefanie Golisch.) Non c’è niente di facile in tutto questo.
Il mistero, dunque, è ben più fitto di un verso di poesia luminoso e ben tornito.
Torno alla musica dhrupad: tutto il senso di quella musica sta nel suo continuo dispiegarsi adesso, nel suo apparente muoversi erratico, non-lineare, ciò che abbatte ogni sequenzalità stretta, aprendo molteplici spazi temporali. Perché essa tiene sempre in bilico il momento presente, affinché noi possiamo meglio afferrarne l’evanescenza. La concentrazione sul momento apre scorci impensati sugli altri tempi che pure noi conosciamo ma troppo velocemente abbiamo normalizzato e pensato di catalogare.
In poche parole: sia musica che scrittura seguono quello che appare come linearità nel tempo obbligata. Come allora suggerire quello che tutti che sappiamo, ossia che il nostro vivere, i nostri pensieri, tutto fanno fuorché seguire una traccia sequenziale obbligata?
Ecco cosa significa fruizione estetica di un’opera! Questo!
La musica classica occidentale fino a Bruckner e Wagner si basava sulla formula 1) presentazione di una problematica, 2) trattazione della stessa, 3) risoluzione della stessa – con tutte le sue complessità, chiaramente. Mahler ha sovraccaricato questa formula, l’ha inturgidita al massimo, fino a distruggerla. E infatti, dopo Mahler, alla musica occidentale liberata da quelle pastoie si è aperto un orizzonte allargato, immenso e spesso sublime. Che ha reso possibili grandissimi musicisti come Scelsi, Stockhausen, Cage, e quanti altri.
Io penso che la scelta oggi da parte di quasi tutti i poeti occidentali di ascoltare prevalentemente rock, jazz o musica classica tradizionale – e non Scelsi, Stockhausen, Ligeti, Jani Christou – spieghi in parte perché ci sono così grandi difficoltà a pervenire ad un linguaggio della poesia più in simbiosi con il presente; perché invece così spesso si finisce per praticare il minimalismo epigonico di forme già viste e variate all’infinito. La musica classica contemporanea è uno dei prodotti artistici più alti della cultura occidentale del ‘900: ha aperto una strada incredibile, ma sembra che il 90% delle persone non sanno nemmeno che esiste. Già nell’Europa orientale la cultura da questo punto di vista è molto avanzata – grazie, paradossalmente, a decenni di censura. Prendete Bela Tarr, per esempio, che nei suoi film usa musiche di Mihaly Vig, molto vicine alla avanguardia musicale del ‘900.
Sono tutte riflessioni, solo riflessioni queste, per aprire un dibattito.
  1. foto Louis Vuitton L'ultima fermata della campagna Chic

    Louis Vuitton L’ultima fermata della campagna Chic

    giorgio linguaglossa

9 aprile 2016 alle 19:39 Modifica

caro Steven Grieco,
PROBABILMENTE OGGI CHE ALLA POESIA NON è RICHIESTO PIU’ NULLA, forse proprio oggi alla poesia è posta la Interrogazione Fondamentale. Finalmente la poesia è libera, libera di non dire nulla o di dire ciò che è essenziale e inevitabile. Questo è molto semplice, è un pensiero intuitivo che tutti possono far proprio. Nel momento della sua chiusura clausura, la poesia si trova sorprendentemente libera, libera di porsi la Domanda Fondamentale, quella Domanda che per lunghi decenni nel corso del Novecento non si aveva l’urgenza e la necessità di porsi. La poesia, dunque, si trova davanti alla inevitabilità di dire ciò che è. E questa io credo che sia la più grande possibilità che il mondo moderno concede alla Poesia.
Esprimere nel modo più determinato e concreto l’inconscio che sta alle spalle del Pensiero pensato e non pensato dell’Occidente, il sottosuolo del sottosuolo che giace ancora più a fondo del sottosuolo costituito dal pensiero ordinario in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà dell’Occidente.
Una poesia che si ponga l’ambizioso obiettivo di pensare l’impensato, le cose del sottosuolo more geometrico di un precedente more geometrico sotterraneo. Pensare la costruzione stilistica disabitata come la più consona ad essere abitata. Trarre dunque la forza dalla propria debolezza, mobilitare tutta la forza della visionarietà geometrica della poesia, questo è il compito che i poeti autentici oggi si trovano di fronte. E non è poco. Dobbiamo, per far questo, giungere a guardare alla poesia da un luogo ad essa esterno. E proprio questa paradossalità ci permette di seguire in ogni suo meandro il lungo percorso di un pensiero poetante che faccia di questo «tramonto» il luogo più abitabile.
foto ipermoderno Luois Vuitton Dress them up or dress them down

ipermoderno Luois Vuitton Dress them up or dress them down

Steven Grieco Rathgeb

IL BUON AUGURIO
La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.
Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

Come se non fossimo altro che noi stessi.

Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.

(1987-2012) 

Gif Fellini Anita Eckberg

Leggiamo una poesia di Mario M. Gabriele

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

*

foto ipermoderno 2

ipermoderno

Giorgio Linguaglossa

Vorrei scagliare una freccia in favore della scrittura per «frammenti». Che cosa significa? E perché?
Innanzitutto, un presente assolutamente presente non esiste se non nella immaginazione dei filosofi assolutistici. Nel presente c’è sempre il non-presente. Ci sono dei varchi, dei vuoti, delle zone d’ombra che noi nella vita quotidiana non percepiamo, ma ci sono, sono identificabili. Così, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
La scrittura per «frammenti» implica l’impiego di una decostruzione riflessiva, la quale nella sua propria essenza, segue il tempo del «Presente» che sfugge di continuo, che si dis-loca. Il dislocante è dunque il «Presente» che si presenta sotto forma del «soggetto» significante (ricordiamoci che per Lacan il soggetto si instaura come rapporto con un significante e l’altro). Ma, appunto, proprio per l’essere una macchinazione significante, il «soggetto» non può mai raggiungere il pieno possesso del «significato».
In base a queste premesse, una scrittura logologica o logocentrica, non è niente altro che un miraggio, il miraggio dell’Oasi del Presente come cosa identificabile e circoscritta, con il versus che segue il precedente credendo ingenuamente che qui si instauri una «continuità» nel tempo. Questa è una nobile utopia che però non corrisponde al vero.
Io dico una cosa molto semplice: che l’utilizzazione intensiva ad esempio della punteggiatura produce l’effetto non secondario di interrompere il «flusso continuo» che dà l’illusione del Presente; produce lo spezzettamento del presente, la sua dis-locazione, la sua locomozione nel tempo. Introduce la differenza nel «presente».
Il non dicibile abita dunque la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito.
Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica della poesia di Mario Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi:

.

Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

.

Nella nuova poesia, come in questa di Mario Gabriele, non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tradizione filosofica occidentale. In questa accezione, la decostruzione è una conseguenza della riflessione filosofica di Martin Heidegger. Infatti il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – risuonava come una “distruzione della storia dell’ontologia”, in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.

da lombradelleparole.wordpress.com

Rita 1- Copertina

Rita 2 - poesie

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente inFebbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

 

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Bruno Galluccio DIECI POESIE SCELTE da “La misura dello zero” (Einaudi, 2015) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – L’Entanglement quantistico con Immagini di esopianeti di Giuseppe Pedota anni Ottanta e Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Bruno Galluccio è nato a Napoli dove tuttora vive. Laureato in fisica ha lavorato in un’azienda tecnologica occupandosi di telecomunicazioni e sistemi spaziali. Il suo primo libro di poesia è Verticali (Einaudi 2009), cui ha fatto seguito La misura dello zero (Einaudi 2015).

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il fisico Dirac ha formulato così l’equazione della bellezza: (¶ + m) Ψ = 0 – dove m è la massa del sistema considerato, ¶ è una variabile di Feynman e Ψ è la funzione d’onda che descrive lo stato fisico del sistema, mentre il quadrato di questa funzione d’onda Ψ² indica la massima probabilità che l’evento si verifichi in un determinato spazio. La risposta alla domanda sul “Bello” è l’equazione di Dirac ed è l’equazione più bella della fisica. Grazie ad essa si descrive il fenomeno dell’Entanglement quantistico. Il principio afferma che: “Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti ma, in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”. Così, due persone che si sono amate o sono state legate da amicizia, se separate, continuano a mantenere contatti pur se separati da migliaia o decine di migliaia di chilometri o anni luce.

Ad esempio, un raggio di luce é composto da un flusso di fotoni. La direzione del campo elettrico della luce é detta la sua direzione di polarizzazione. La direzione di polarizzazione di un fotone può formare qualsiasi angolo, ad esempio “verticale” o “orizzontale“. È possibile generare una coppia di fotoni entangled se, per esempio, un cristallo viene irradiato da un laser. In questo caso un singolo fotone può dividersi per diventarne due. Ciascun fotone prodotto in questa manierà avrà sempre una polarizzazione ortogonale a quella dell’altro: ad esempio, se un fotone ha polarizzazione verticale allora l’altro dovrà avere polarizzazione orizzontale (questo per la conservazione del momento angolare: il momento angolare del sistema prima della divisione deve essere uguale al momento angolare del sistema dopo la divisione).

Quindi, se due persone ricevono ciascuno uno dei due fotoni entangled e ne misurano la polarizzazione, scoprono che quella del fotone ricevuto dall’altra persona sarà ortogonale a quella del proprio. Sembrerebbe esserci un’apparente connessione fra le particelle, che prescinde dalla loro distanza.

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giuseppe pedota acrilico su tela anni Novanta

Giuseppe Pedota Esopianeta acrilico su perplex anni Novanta

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L’Entanglement quantistico definito da Einstein la “fantasmatica azione a distanza” è uno dei fenomeni più incomprensibili della meccanica quantistica. L’entanglement quantistico rappresenta una difficoltà epistemologica per la meccanica quantistica perché risulta incompatibile con il principio della località secondo cui il trasferimento di informazione tra diversi elementi di un sistema avviene tramite interazioni casuali successive che avvengono nello spazio dall’inizio sino alla fine. Ad esempio, si passa da un piano all’altro di un edificio per la vicinanza e per il susseguirsi dei passi.

Con le parole di Bruno Galluccio: «un magma cosmico è portatore di massa». Mi verrebbe da parafrasare: «un magma cosmico è portatore di senso». Il linguaggio poetico di Galluccio è pieno di espressioni di derivazione scientifica: (materia oscura, antimateria, neutrini, DNA, idrogeni, ossigeni, carbonii, big bang, freccia del tempo, vuoto, orocicli, orosfere, bosoni, protoni, fotoni, etc.), è una conversazione riflessione sul tema dell’interazione della fisica con le leggi che regolano la nostra vita psichica ed esistenziale; in fin dei conti, pensa Galluccio, anche l’homo sapiens della nostra civiltà tecnologica è fatto della stessa stoffa dell’universo, la sua legge ontologica fondamentale corrisponde a quella di Dirac, l’uomo corrisponde a una idea di bellezza ed obbedisce alla stessa legge espressa da Dirac. Perché stupirsene? E finanche la metratura poetica: il metro irregolare e prosastico di Galluccio, risponde e corrisponde a questa legge fondamentale del sotto cosmo e del macrocosmo. Perché stupirsene? Siamo governati da forze occulte che occulte non lo sono più, ma misteriose sì. È il medesimo mistero che il poeta napoletano tenta di investigare con queste poesie dall’aspetto linguistico insolitamente paralogico, quasi si trattasse di un trattatello di divulgazione scientifica, e invece austeramente umanistico per l’apertura mentale e culturale che queste poesie rivelano.

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Giuseppe Pedota acrilico, Paesaggio esopianta anni Novanta

Giuseppe Pedota Paesaggio esopianeta anni Novanta

bruno galluccio cop Zero

Poesie di Bruno Galluccio

.

morire non è ricongiungersi all’infinito
è abbandonarlo dopo aver saggiato
questa idea potente
quando la specie umana sarà estinta
quell’insieme di sapere accumulato
in voli e smarrimenti
sarà disperso
e l’universo non potrà sapere
di essersi riassunto per un periodo limitato
in una sua minima frazione
.
*
.
mi trovo in una strana prova
non riesco a spingerla al di fuori del tempo presente
non mi sporgo oltre gli assiomi
cado nello specchio che sto creando
e tu che guardi un panorama statico
dici e ripeti e fai cenni
ora il silenzio algebrico ha preso la stanza
metà del volume è suo
i filamenti che si dipartono dal foglio
non vanno da nessuna parte
non convergono come dovrebbero
al completo disegno del teorema
.
*
.
andiamo riconoscendo il flusso normale delle cose
gli sbarramenti e piú in centro la possibilità di perdere
le formule hanno sviluppato le incognite
anche quando la sera è un raduno di maschere
i neutrini messaggio delle supernove
attraversano incessantemente il corpo
e il cervello
ma non per questo le onde cerebrali
vengono mutate
né muta la nostra visione del mondo
muta l’occhio che davanti alla fuga
dell’acceleratore trova conferma
di questa strana materia quasi priva di sostanza
e poi sente l’emozione che il tutto
si svolge come era stato intuito
si dispone in un quadro coerente
.
*
.
dici dove non sei
dici attraverso il corpo
la linea degli edifici sull’orizzonte
che ti racchiude
il fango dove passi illeso
bene sarebbe entrare in un locale
ristorante o altro
partecipare a qualche forma di vita
i bicchieri fanno schermo
e transitano tranquilli nel presente
fuori un semaforo si muove e perde luce
verso le auto
che superato l’ultimo rallentamento
si dirigono al bersaglio dell’autostrada
veloci nella protezione degli alberi
sei capitato qui per caso dicevano
è il vapore che si leva dalla strada
è lo sguardo smarrito dai cappotti lucidi
ora tremi nel corpo
esci
ti sembra di non lasciare segni
.
Giuseppe Pedota acrilico, Trittico Civiltà extra solari anni Novanta

Giuseppe Pedota acrilico, Trittico Civiltà extra solari anni Novanta

.
ciò che compare mosso nella foto di gruppo
nel quarto in alto sulla destra
è la spalla di colui che non voleva esserci
e striscia la luminosità radente del sole
spezzando la linea del muro
all’inizio delle sbarre della recinzione
risponde ora del suo graffio al presente
lí fissato di quello scarto casuale
tra vuoto e pieno
e di quel sommovimento della luce
che adesso come un virus si propaga
testimoniato da lui
il non interpellato
.
*
.
comincia a muoversi con moto rotatorio
per distaccarsi dal punto
emette suono che diventa acuto
risoluzione della pietra
lo spazio lo accoglie lo sente suo
la dimensione tagliata forte
la capacità di inventare già fiorisce
prima di ogni crollo
qualcosa gli tende lo sguardo tira
la percezione quasi qui assume formazioni
lamine che affondano
il piccolo espande
paga la sua bolla di universo
.
*
.
ora si muove lascia il nero che sguscia
si muove tra gabbie e altari
rilancia il nero che lo spinge
quasi sottoterra ormai ma non una radice
estraneo piú volte mentre viene lasciato cadere
messo al mutismo
mentre continua a cedere davanti alle finestre
tutto risarcito
con le vesti che tendono verso l’alto tutto
rovesciato dentro di sé
grida arti nulla
bolle di terrore che esplodono
fino a quando
l’atmosfera che taglia
non piú terrestre
in quel quanto istante
nessuna madre mai avuta
e cosa significhi il quando
culla sesso niente
aria inferno di aria
.
*
.
il sistema di riferimento del no
sull’asse x porta il soggetto
su quello discendente il verbo
riflesso nello specchio
sul terzo trae il peso del tempo
data una sfera nella luce nera
quanto dista il suo centro dall’origine?
.
*
.
un’auto ha sbandato malamente
in una curva a tornante
ho temuto il vuoto la sua forza attrattiva
per l’incolumità del tutto
per l’innocenza di noi della scena
l’inverso di quando temo di salire io troppo in alto
come nel sogno dell’ascensore
che non si ferma al mio piano prosegue
ai successivi nemmeno si ferma
e sfonda il tetto
e io mi sento perduto
.
*
Pitagora
.
Il respiro della notte è onorato
ora va ad attenuarsi lo splendore degli astri.
Pitagora dorme.
Il paesaggio lo assiste
lo accompagna nello scendere cauto su rocce
in vista del mare.
Il sonno ci viene dagli alberi
il respiro dalla luce
che attraversa una lieve fenditura
e alta si espande.
Tutto è numero egli dice
anche qui nella incomprensibile notte.
È vero: ieri c’è stato uno scatto
di superbia che ha offuscato le fronti.
Ma noi di certo veneriamo gli dei immortali
serbiamo i giuramenti onoriamo gli eroi
come egli ci insegna.
E di solito ci siamo ritirati con modestia
abbiamo cercato di non agire senza ragione
e ben sappiamo come il nostro destino sia la morte.
Il mondo ci confonde
ma noi confidiamo.
Ci asteniamo da cibo animale da fave
rinunciamo a voluttà di cibo e lussuria
e per quanto possibile in pace soffriamo.
Pitagora dorme.
I sogni gli giungono dagli avi.
Ora il cielo è senza disastri
chi è arrivato sa di poter scegliere.
C’è il quadrato costruito sull’ipotenusa
e ci sono i quadrati costruiti sui cateti.
Generare collegamenti è la natura umana piú alta.
Dimostrare è possedere
una parte di mondo dopo averla osservata
condividere una regione del linguaggio.
Frase genera frase e il buio si dirada.
Non portiamo fuori la notte
perché di cose pitagoriche sappiamo
non si debba senza lume conversare.
Tutto è serbato nelle nostre menti
e nei lineamenti tranquilli dei volti.
Tutto è numero – dice.
E ci dispone le proporzioni armoniche
dei suoni e degli astri.
Si pone dietro un telo
perché tutto sia nell’appartenenza
come un viaggio di abbandono
o come i nostri inverni ci cercano
il nostro muoverci negli spazi stellari.
E noi gli crediamo.
Che torneremo a dormire e a guardarci dormire
a far scorrere tra le nostre dita
questa stessa sabbia in un ciclo futuro.

*

la parola che mi dicevi entrava nella costola
come un’operazione
ma ora ho vergogna di una piccola ferita
che nessuno riconosce
che non ha una voce
che non è un dolore
ma negli anni non ha smesso
di bisbigliare.

.

*

vedevo sulle pagine
la struttura sistolica delle formule
il semicerchio della parentesi
il taglio delle frazioni
il sigma sistema di sorprese infinite da sommare
la esse allungata dell’integrale
che misura forme non regolari
e i gruppi perfetti nelle operazioni semplici e chiuse
e allora nella luce bianca della scrivania
la proiezione delle mensole e il letto
diventare una geometria proiettiva della stanza
e la mia attenzione un fascio aggiuntivo di luce
posato sulle pagine che scorrevano
e uscivo dalla selva dell’incomprensione
per avventurarmi verso le figure dei pianeti.

 

 

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NOVE POESIE di Stefanie Golisch: “Summerguests”, “Fly and fall” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano – E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

Foto Edward Honacker

Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia. Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.
L’espressione è il volto codificato del dolore.
Ad un lettore italiano la poesia di Stefanie Golisch suona come un oboe sommerso, con un tono cupo, monocorde, attutito. Del resto, i titoli di queste poesie e della raccolta inedita sono esplicativi: Summerguests (Ospiti d’estate) e Fly and fall (Volo e caduta), sono eloquenti. Si tratta della tematica dell’estraneo e della tematica del volo e della successiva caduta. Tematiche ad un tempo della metafisica e della vita quotidiana, tanto per smentire le tesi di coloro i quali intendono la metafisica come cosa diversa e a parte dalla vita quotidiana. E invece per Stefanie Golisch è il medesimo tema che ritorna in tutte le sue poesie, come anche nella sua narrativa fatta di brevi prose fulminanti, prose legate ai luoghi e alla loro storia. Ma da come viene posizionato il verso italiano, dalle atmosfere plumbee, dagli improvvisi incisi e dai susseguenti strappi, si capisce subito che abbiamo a che fare con un poeta di madrelingua allotria. Ed è un arricchimento questo per la lingua poetica italiana di insospettabile valore. Il fatto è che il linguaggio poetico italiano ne viene come strattonato, reso plumbeo, ammaestrato alla scuola dell’espressionismo tedesco; e ne sortisce fuori come fortificato, solidificato, preciso, tagliente. Un solo esempio: «Corvi che gridano al cielo vuoto l’insensatezza del rimorso», verso che sembrerebbe uscito dalla penna di un autore che sta tra Georg Trakl e Gottfried Benn. Certo, in Italia non abbiamo avuto un equivalente del movimento poetico dell’espressionismo tedesco, e questa lacuna stilistica non è stata indolore; la poesia italiana del Novecento è stata così costretta dentro la asfittica forbice: lirica – antilirica, con il prosieguo di post-lirica e di anti-lirica di marca tardo novecentesca e sperimentale, con tutta una serie di equivoci che si sono moltiplicati a dismisura. Da noi i pochissimi poeti a tendenza espressionista non hanno goduto il favore della critica. Tipico è il caso dei Canti orfici (1914) di Dino Campana, opera etichettata da Pier Vincenzo Mengaldo sotto l’egida dell’inno, da porre come contraltare all’elegia di Montale. Ma le questioni non sono così semplici e non si possono ridurre a formule antogonistiche e, dunque, riduttive.  Ma ecco qui che viene la Stefanie Golisch ad immettere linfa espressionistica nel nostro armamentario stilistico e nel lessico poetico italiano. Ed è un dono di non poco significato.
Quello che colpisce nelle poesie della Golisch è la sua capacità di inserire la molteplicità del mondo nella struttura monologante della sua lirica, cosa non facile né scontata, non si giunge a questo grado di rappresentazione senza una profonda meditazione su ciò che è la «cosa» chiamata poesia e su ciò che essa deve contenere; e soprattutto, la poesia qui non è un mero contenitore di «cose» ma una «cornice» dove ci sta di tutto: l’infanzia, la vita erotica, le passioni, la conoscenza, l’oblio, la percezione del limite, il mistero che dà alla poesia un significato omogeneo e unitario. Il significato di una poesia è sempre fuori di essa, mai dentro, come credono gli ermeneuti ingenui, la poesia non si risolve in un amalgama di significanti e di significati, come purtroppo una vulgata durata decenni ci ha voluto dare ad intendere. La poesia è, al pari del romanzo, molteplicità, totalità finita che allude all’infinito delle possibilità inespresse.
Quello che colpisce in queste poesie è l’impiego sapiente delle immagini, certe poesie sono costruite con i mattoni delle immagini alternate:

.

Il matto, lo chiamano lupo mannaro.
Corvi che gridano al cielo vuoto l’insensatezza del rimorso.
La copia della copia del santo bevitore.
Uomo in canottiera gialla alla finestra della cucina, fumando.
La vecchia che attende il suo giorno, ripetendo tra sé e sé
una storia della sua vita…

.

Le immagini chiudono e aprono, sono una serratura che permette al lettore di entrare all’interno della poesia. E il lettore entra come un ladro che ruba le sensazioni, gli attimi di cui sono fatte le parole. Il lettore diventa un ladro di parole. Come del resto lo è anche l’autore: un ladro di parole. Nei suoi momenti di punta l’espressionismo della Golisch ci apre delle porte verso l’aldilà, un luogo ultroneo, verso il mistero dell’esistenza di questo ente chiamato uomo.

Foto Robert Mapplethorpe donna entra nei veliSummerguests

Una donna con la barba bianca, gonna a grandi fiori
impressionisti, mi ferma per strada. Chiede del pane,
ma non ha fame. Dice che non è di qui e con un cenno
di mano appena, si congeda da me casuale. Passeggia
lungo questa giornata d’estate lenta e senza scopo
preciso come una nuvola indecisa, una etimologia poco
chiara, un amore moribondo per colpa di nessuno

*

Dice che non riesce più a baciarla dopo averla intravista
per sbaglio in camicia da notte a fiorellini azzurri, una
vecchia che pure un tempo è stata la sua amante
d’occasione. Lei chiude gli occhi mentre lui serra le
labbra. Ecco, il bacio più goffo del mondo, sbrigato
in un rifugio di montagna, raggiunto faticosamente in
una domenica di giugno generoso

*

Lo vede il cane dalla finestra della cucina, il ragazzo che
passeggia per le vie del centro deserto in una camicia da
vecchio, collo chiuso, cappello contro il sole sul capo. Un
giorno sì, uno no, con un cono di gelato alla crema, sempre
guardando avanti diritto come se avesse in mente una meta
precisa. Appare alle tre del pomeriggio e si dissolve verso
le cinque in una nuvola di magliette colorate e hot pants.
L’estate è ugualmente per e contro tutti

stefanie-golisch-190

Stefanie Golisch

Stefanie Golisch Fly and fall – Inedito
Poesie tratte dalla raccolta inedita Fly and fall

.

Un io e la sua bestia

.
Copri con il tuo grigio pelo
il pallore della mia pelle,
il mio tremolante desiderio.
Dentro le mie calde viscere
sento il tuo ansimare secolare
mischiarsi alla mia linfa.
I tuoi morsi mi risvegliano reale,
custode del mio segreto animale.
Nel nostro silenzio
gorgoglia vita indistinta

Proteggi questo troppo lieve io
dalla tristezza degli uomini

.
Corpo di madre sulla terra

.
When will we three meet again?
In thunder, lightning or in rain?
When the hurlyburly’s done,
When the battle’s lost and won.

(Shakespeare, Macbeth)

Stesa sull’asfalto,
avvolta nella mia pelle pallida,
il corpo di mia madre
è una ferita

Sulla breve via verso il freddo,
la sua carne avara
prega la mia,
calda per coprire la nostra sconfitta

La battaglia è finita.
Tra cavalli e guerrieri morti
con bocche spalancate,
ti canto, madre, la ninnananna
alla rovescia

.
Kartoffelfeuer

.
Nella quiete di primo autunno,
un improvviso grido di corvo,
il profumo di mele mature
e di involtini primavera dal ristorante cinese
al pian terreno

C’è in questa natura morta
una ansia di risposte a fine estate,
un cupo giorno di settembre
in cui la mia infanzia bruciò
in un Kartoffelfeuer.
Dopo quel giorno, non c’era più

Nello specchio una ragazza sorride seducente
al mondo appena nato, come per dire,
eccomi,
prendimi,
sono tua

.
* Il Kartoffelfeuer è il fuoco con il quale, nelle campagne, i contadini bruciano le piante di
patate dopo il raccolto.

.
La mia inviolabilità

.
Luz è il nome dell’osso
dalla cui improbabilità risorgerò
dopo che la grande onda mi avrà trascinato via,
mia madre mi avrà chiamato a casa

Non dimenticare
la mia gobba antica,
non dimenticare
il vuoto nell’ora degli uccelli morti,
quando le domande,
una a una, svaniscono
senza risposta,

Raccogli quell’io pietra
nel mistero della sua
imperfezione

*Nella religione ebraica luz è il nome di un osso minuscolo che non può essere distrutto e dal quale, alla fine dei tempi, l’uomo sarà ricreato.

Foto donna tra i veli

Quando una vecchia suora si prepara per la notte

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Quando una vecchia suora si prepara per la notte, innanzitutto si toglie
le pesanti scarpe marroni,
poi il velo, chiuso dietro la nuca con una striscia di velcro.
Aprendo la lunga cerniera sulla schiena, lascia cadere la tonaca
a terra.
Nella sua veste ingiallita sta davanti a nessuno specchio.
Invece della propria immagine, le sorride seducente
un giovane uomo dai lunghi riccioli biondi che dice:
non aver paura, sei o non sei la mia sposa diletta?
Fiduciosa, sfila i collant color pelle,
il reggiseno color pelle e le mutande color pelle.
Nella luce diffusa di una fredda notte d’autunno,
eccola, nuda davanti al suo Signore.
Tremando, indossa una camicia da notte rosa,
e si fa scivolare sotto le coperte.
Persa come una goccia di pioggia in un cielo senza nuvole,
fa sparire le dita stanche
nell’antro sacro tra le gambe,
dove si nasconde la vita
umida, oscura, muta

.

Il motel più economico

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Questa è la stanza dei vecchi amanti,
così disperatamente devoti all’idea dell’amore
che potrebbero uccidere,
diciamo un cane,
se questo fosse il prezzo da pagare
per una prima volta nuova di zecca.
Ma non c’è alcun cane intorno,
soltanto due paia di scarpe consunte
sotto un unico letto
per tutti gli amanti.
Venite, uccidetemi, direbbe
il cane, se ci fosse un cane,
ma, ahimè, non c’è.

Tutto qui: non c’è

.
Fly and Fall

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Piano il giorno apre gli occhi
per salutare la mattina di fine agosto.
Ecco ciò che sta per accadere oggi:

Un uomo troverà l’amore e un altro lo perderà.
Qualcuno arriverà alla stazione giusto in tempo,
mentre un altro attenderà invano.
Un merlo sussurra nell’orecchio di un altro, che bello volare e cadere.
Qualcuno inaugurerà il giorno con una bottiglia di birra,
e un altro ascolterà a lungo l’eco dei sogni complessi.
Qualcuno scriverà una lettera scarlatta,
mentre nel cuore ferito del suo vicino non è rimasta una sola parola.
Una bambina si sveglierà dai suoi sogni notturni
stringendo il suo orsacchiotto, e una donna si sveglierà
soltanto per morire a metà mattina poiché il giorno
richiede tutto questo. Lottando scivolerà via davanti agli occhi
dei vivi nello stesso momento in cui
un pittore finalmente trova il suo blu.
Oggi sarà il mio giorno pensa il giovane,
mentre si allena, impaziente di gettarsi nella mischia.
Nella cantina di una casa abbandonata,
una gatta tigre gioca con un topo soltanto
per intrattenere la piccola cosa

Quel che il pittore non sa
è che quel blu non esiste,
ma soltanto una voce lontana,
quasi non udibile nel brusio di tutto questo fare all’amore,
morire, chiacchierare con gli amici, mangiare, bere,
spaventarsi e gioire,
impaziente di placare l’insaziabile
oggi

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La vita è tutto questo

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You are marvellous. The gods want to delight in you.

Charles Bukowski

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Il matto, lo chiamano lupo mannaro.
Corvi che gridano al cielo vuoto l’insensatezza del rimorso.
La copia della copia del santo bevitore.
Uomo in canottiera gialla alla finestra della cucina, fumando.
La vecchia che attende il suo giorno, ripetendo tra sé e sé
una storia della sua vita.
La ragazza finta bionda con i jeans economici,
la maglietta economica e i suoi sogni inimmaginabili.
La coppia di nani al loro primo bacio, ansiosi
di fare bella figura.
Sole di Novembre, tempo di resa,
tempo di rinascita, perdono e oblio.
Un verso di Hölderlin che recita:
più l’uomo è felice, più alto è il rischio che si rovini.
Il mistero di ogni nuovo giorno
e i sette significati nascosti di una antica fiaba.
Oscure selve germaniche e luminosa bellezza mediterranea.
La speranza che una calza rotta può essere rammendata,
che le ferite possono guarire,
e che la nostra voce può migliorare con il tempo,
perdendosi
in tutte le voci

31 commenti

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Intervista a Mario Gabriele. Dialogo tra Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa su alcune questioni aperte: La caduta delle Grandi Narrazioni; Discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento; Globalizzazione e Nuovo Ordine Mondiale; Il linguaggio interrelazionale; chatpoetry; Il postmetafisico; Post-moderno; L’Essere si minimizza in un frammento in rovina; Crisi della critica di fronte alle avanguardie; Il soggetto è libero di agire non essendo legato a nessun vincolo; Poesia anatomopatologica e dermoesfoliativa; con POESIE SCELTE di Mario Gabriele da:”L’erba di Stonehenge” (2016).

foto New York City

New York City

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzaro, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera:  Giorgio Barberi Squarotti, Carlo Felice Colucci, Francesco d’Episcopo, Carlo Di Lieto, Luigi Fontanella, Giuliano Ladolfi, Stefano Lanuzza, Giorgio Linguaglossa, Sebastiano Martelli, G.B.Nazzaro, Ugo Piscopo, Giose Rimanelli, Maria Luisa Spaziani, G.B.Vicari, ecc. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, L’Ombra delle parole ecc. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.
mario gabriele foto

mario gabriele

Dialogo tra Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa su alcune questioni aperte

Domanda: Nel discorso poetico del tardo Novecento sono venuti a cadere le grandi narrazioni, restano i piccoli racconti dell’io solitario che accudisce la reificazione del discorso poetico ad uso privato del soggetto poetante. Oggi si assiste ad una “poesia” piena di episodi biografici, si crede ingenuamente che la propria biografia debba entrare nella forma-poesia. I tuoi libri, invece, si muovono in un orizzonte tematico e problematico. I tuoi ultimi libri: Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione Galante (2004), Un burberry azzurro  (2008) e Ritratto di Signora (2014), «non sono correlati ad un determinato modello, ma ad una galleria di “soggetti” che, sottostanti il ritratto principale, si fondono in un’unica panoramica, dove la scrittura poetica si fa pellicola simbolica di microstorie pubbliche e private nate dalla “metamorfosi dell’oggetto”» (Luca Landolfi). La tua poesia invece adotta la citazione come metodo di composizione e di collage tra elementi disparati del mondo e di trasmissione dei valori estetici della tradizione.
Il metodo della citazione che tu adotti, questo del collage e della citazione, produce un rafforzamento plurilinguistico della comunicazione estetica; la citazione viene intesa come contigua alle esperienze denaturate del «valore di scambio» delle scritture pubblicitarie. Propriamente, la citazione è la costituzione della nostra biografia, siamo diventati citazione di qualcun’altro e di qualcosa d’altro. La tua poesia si nutre di citazioni culte, di cronotopi letterari, di films, di scritte della pubblicità, etc. come un mostro carnivoro si ciba di carni insanguinate, non può essere altrimenti e non può tradire il proprio DNA: è un mostro cannibalico che fagocita i segni e i segmenti semantici della tradizione ridotta ad emporio di citazioni in libera svendita.
Questa mia lettura ti trova d’accordo?

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Risposta: Gli anni Sessanta hanno determinato la fine della poesia-racconto, come misura unica del testo, lasciando spazio a Correnti e Gruppi letterari, che si sono alternati nel tentativo di costituire un valido punto di riferimento, che in effetti non vi è stato, se si voglia sul piano delle verifiche controllare la loro sopravvivenza, spesso limitata a qualche decennio e anche meno, mentre una parte della critica letteraria si occupava  del nuovo percorso linguistico nel segno dello Strutturalismo. Viviani, Ottonieri, Ramous, Baino, ecc. sono stati i rappresentanti di una poesia anatomopatologica e dermoesfoliativa, oggi in stato di colliquazione come le antologie, omissive di nomi e opere, sostituite da quelle indirizzate verso la periodizzazione repertoriale, con giudizi critici di sopravvalutazione. Si è lasciato il campo ad autori dal balbettio terminale, fino a quando la loro stessa voce si è afonizzata. Non esiste ancora lo spazio per riempire il Vuoto con una poesia alternativa. Ogni poeta opera secondo la propria cultura e sensibilità. Da qui l’esplicazione di una visione della realtà che è, nel mio caso, repertorio di memorie, di figure femminili e di luoghi provenienti da un carotaggio psichico di diversa stratificazione. Non a caso Freud, sul significato di creazione artistica, riconduce ogni cosa alla sfera intima e mentale. Ho rifiutato il pentagramma lirico di vecchia classe istituzionale, per addentrarmi non nella cellula poetica degli oggetti, ma in quella dei soggetti vivi e morti, entrambi destinati all’oblio, e per questo motivo ne rivitalizzo la presenza-assenza con la citazione dei loro versi, che formano una doppia aura all’interno di un’unica cornice. Più in specifico, è l’adesione a un linguaggio interrelazionale, che ricorda Eliot, ma anche il pensiero filosofico di Derrida, quando supera il concetto di finitudine dell’uomo, e lo traspone in un’altra dimensione: quella della scrittura, che rimane l’unica traccia visibile e duratura di uno scrittore. Da qui la nascita degli Autoritratti avvolti dalla metafora, come modello biottico di fusione nel testo principale. E’ ciò che accade un po’ nei miei volumi: Le finestre di Magritte, Bouquet, Conversazione galante, Ritratto di Signora, Un burberry azzurro e nell’Erba di Stonehenge, dove ricompongo l’estetica del verso per rinnovare il mito della vita lungo le strade del mondo, i cui eventi non si discostano molto dalla nostra sensibilità e cultura, pur essendo espressi con particelle linguistiche di diversa provenienza, nel tentativo, sempre più difficile, di trovare nuovi spazi alla poesia. La forma adottata è estranea a qualsiasi concetto di “moda”, poiché ho voluto ricondurre l’esercizio della scrittura alla libera invenzione della lingua, anche se poi, qualsiasi mezzo adoperato in poesia si logora da sé, subendo la contaminazione del tempo.

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foto ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

Domanda: Si parla oggi molto spesso di esperienze «non-reali», che l’autore non ha mai provato, delle esperienze del padre, del nonno e così via. Ma allora si scriva un romanzo! Ben più idoneo alla ricostruzione di una esperienza mai esperita. Nel romanzo questo è possibile, in poesia, no. Se nell’ipermarket tendono a scomparire i confini tra le varie tipologie di merci in un susseguirsi di produzione indifferenziata fondata sulla minima differenza e sul minimo scarto, oggi si assiste al medesimo fenomeno tra i generi artistici e, all’interno del genere, tra i singoli sotto-generi, de-vitalizzati a «genere indifferenziato». Avviene così che l’anello più debole, la forma-poesia, tenda a perdere i connotati di differenza e di riconoscibilità che un tempo lontano la identificava, per trasformarsi in un «contenitore», un «palinsesto», tenda ad un «genere indifferenziato», ad un non-stile indifferenziato, cosmopolitico e transpolitico. Negli autori di moda si tende alla chatpoetry, al pettegolezzo da lettino psicanalitico (Vivian Lamarque), pettegolezzo da intrattenimento ludico-ironico (Franco Marcoaldi), flusso di coscienza reificato e disconnesso, utopia agrituristica, monologo da basso continuo, soliloquio allo specchio con qualche complicazione intellettuale per assecondare gli utenti di una cultura di massa (Valerio Magrelli). Ma il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tendenza «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico»,1) afferma Vattimo; ma se la tecnologia è la diretta conseguenza del dispiegamento della metafisica, un pensiero post-metafisico ci conduce da subito alla critica dell’ideologia del Progresso e alle istituzioni culturali che in tutto il Novecento hanno svolto il ruolo di supplenza e di sostegno.
Qual è il tuo pensiero in proposito?

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Risposta: Nel momento in cui scompaiono i “confini tra le varie tipologie di merci e di generi artistici”, vengono a decadere anche le ragioni per cui si è creduto a un determinato modello economico e culturale. È il segno dei nostri tempi e delle mutate condizioni sociali dovute al consumismo. La verità è che siamo entrati in un mondo nel quale l’homo faber entra autonomamente in un mercato di merci. consentendogli di “barattare, trafficare e scambiare una cosa per un’altra”, assumendo una specie di “sfera pubblica”, ma non politica, nel mercato di scambio dei rispettivi prodotti. Siamo lontani dalla alienazione marxiana e dal primo stadio di sottomissione capitalistica, ma molto vicini ad una autonomia commerciale, dove le cose “compaiono come merci per essere valutate o rifiutate”. Lo stesso discorso vale per la poesia, anch’essa ridotta a prodotto di consumo, nella molteplice varietà del linguaggio a servizio di una diplomazia lessicale, che vuole essere, come in effetti è, deterioramento del tessuto linguistico e fiches verbali in un gioco senza risultati.  La visibilità di questa merce non è il marchio di fabbrica, ma la proposizione  di versi che hanno un ‘unica direzione: la dissoluzione  finale. La poesia di oggi si proietta all’esterno come esercizio di scena: è teatro, “voice” in permanente esibizione, da cui partono poi le affiliazioni nel massimo grado della praticabilità e dei tecnicismi  riconducibili alle forme traslative e disgiuntive, verboiconiche e arcaiche, trasgressive e fono lessicali. Esistono, è vero, gli strumenti, ma non la ”qualità”. L’avvento della borghesia ha dischiuso le porte del mercato mondiale, dove le ideologie hanno perso valore, e l’unica forma che resiste è la merce di consumo. Con il tramonto della metafisica, e dei suoi valori assoluti, l’Essere “può venire esperito” secondo Vattimo, soltanto “debolmente”, come una struttura ondulante, rispetto al concetto di stabilità della metafisica. Una teoresi, scientifica o filosofica, può essere sempre sottoposta all’azione della falsificabilità nel momento in cui si riscontrino deduzioni, dichiaratamente incongrue e asimmetriche. È quanto si verifica nella poesia, esposta a significative contraddizioni e metamorfosi, di fronte al continuo rapporto-scontro con il postmoderno, e la metafisica e, infine, con il postmetafisico, Appare, pertanto, possibile indagare su ogni categoria, con una critica sempre più revisionista, che propone congetture in continua evoluzione e fibrillazione di fronte alla trasmutabilità del Logos e dell’avanzamento del Progresso.

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foto ipermoderno Il ponte di Brooklyn a New York Louis Vuitton

ipermoderno Il ponte di Brooklyn a New York Louis Vuitton

Domanda: Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso. Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione narrante. È perfino ovvio che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria sua legislazione interna. Il concetto di «contemporaneità» (come il concetto del «nuovo») è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo
Qual è la tua opinione?

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Risposta: Credo, in questo caso, di dover citare J. F. Lyotard a cui va il merito della diffusione del termine post-moderno, e la conseguente nascita di una stagione filosofica, in cui il sapere si esterna non più per capitoli interi, ma per appunti di riflessione, chiari e sintetici, dopo la fine delle narrazioni. L’assenza di una filosofia della Storia e dell’Arte è da collegare, probabilmente, alla crisi della critica di fronte alle avanguardie e alle velocizzazioni tecnologiche, che si sono susseguite come trasformazione del capitalismo. Dopo anni di sociologismo politico e ideologico, è tempo di restituire all’Uomo più dignità, non riconosciuta dal comportamento aziendale dell’economia. Il futuro opera in modo che tutto sia condizionato dal progresso, ma quanto a riportare i parametri della vita e il decoro poetico a livelli accettabili non sembra facile. Si ha la sensazione che tutto questo sia il risultato di una alienazione esistenziale, economica e ideologica. L’uomo non trova più soddisfazione nei prodotti di consumo da lui creati. Si disarticola nell’accomodamento inerziale di fronte al progresso, senza alcuna identificazione nei confronti della Globalizzazione, che in effetti lo immiserisce, lo emargina, abituandolo alla inconsistenza dell’Essere. La demassificazione delle classi operaie, il progetto di un Nuovo Ordine Mondiale, e i conflitti geopolitici, con la costante invasione migratoria, non rendono la dialettica intorno alla poesia, terreno fertile di ogni discussione. Anzi, la crisi attuale la neutralizza, tanto che il mondo potrebbe benissimo fare a meno della sua presenza. Non esiste alcuna possibilità di resurrezione letteraria, perché tutto nasce e si dissolve non lasciando alcuna traccia, neanche la creatività dell’angoscia. Né si può dire di trovarci in una zona di attesa perché il crollo della società contrattualistica, con il sindacato messo alle corde, e l’annullamento del diritto di fronte alla supremazia del potere finanziario e del carattere tirannico delle democrazie, rendono astorici e nullificanti tutti i valori connessi alla poesia, alla narrazione, ad ogni fondamento costitutivo della Forma. Inoltre, i conflitti balcanici, la guerra in Medio Oriente e il terrorismo, sono stati gli ostacoli di maggiore frenaggio per la poesia  civile, la cui assenza è allarmante, per non dire sorprendente. Con molta probabilità ai poeti interessa l’IO e l’autobiografia, il ricorso alle succursali linguistiche novecentesche, la permanenza in un backstage fatto di maschere, e vuoto narcisismo, temporaneamente annullati dall’antologia di Ernesto Galli della Loggia  in “La Poesia Civile e Politica dell’Italia del Novecento”, BUR-Saggi, 2011. Tuttavia, esiste un “pendolo della letteratura”, la cui oscillazione va e viene, anche se bisogna partire da zero, dando alla poesia infusioni energetiche, in grado di tenerla in vita. Ma come iniziare questa avventura? Semplicemente prendendo ad esempio il pensiero di Hans Freyer in: “Società e Cultura,”  quando afferma che “la lingua deve definire, senza però ridursi a un resto amorfo,  deve dominare, e nello stesso tempo, colma sino all’orlo di significati deve scoppiare di forza espressiva”.  Chi ha voluto la dissoluzione dell’Origine, della Storia, dell’Arte, della Filosofia e di ogni altro Edificio culturale, ha tramato contro la stessa civiltà dell’uomo, conseguita dopo secoli di sacrifici, di rivoluzioni, di guerre, di ricerche scientifiche, per destabilizzare il pensiero polivalente e della Metafisica di Aristotele, che riconosce agli uomini il diritto di sapere contro l’ignoranza.

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foto Louis Vuitton L'ultima fermata della campagna Chic

Louis Vuitton L’ultima fermata della campagna Chic

Domanda: Per Vattimo «si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 2)

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Risposta: La via di svolta per l’uomo di tornare al proprio concetto di Essere, di fronte alla sua temporalità, trova in Heidegger uno dei maggiori sostenitori. Pensare è archiviare le superstizioni dando validità al pensiero scientifico, come credeva anche Einstein. Il postmetafisico agisce come un cambio di pagina nella storia del divenire critico e filosofico, smantellando un sistema culturale non più propositivo, attraverso l’esercizio del pensiero esplicante una critica opposta a tutto ciò che prima era istituzionalizzato e accettato. Uscire dalla considerazione dell’Essere, come soggetto integrato nella metafisica, e da cui ci si distacca soltanto riducendone i valori assoluti, significa per Vattimo “progettare” un iter filosofico nel momento in cui l’Occidente si è trovato di fronte al tramonto della metafisica, per cui l’unica via possibile era svincolare l’Essere, depotenziandolo dalla sua categoria, per continuare un discorso interpretativo e logico sulla realtà, dove l’Essere si minimizza in un frammento in rovina. Non sembrerà un indirizzo teoretico periferico o isolato se anche altri filosofi si sono espressi con ulteriori concetti critici, legati al binomio Teoria-Prassi, Totalità e Unità, Staticità e Critica: tutto un repertorio di temi al vaglio dell’Osservazione, come metodo di “Obiezione”, e di legittimo senso del superamento della monolitica visione esternalista, dopo ogni caduta di tensione nella società.

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Domanda: Possiamo allora affermare che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di pensiero? Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al Discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il Discorso poetico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.

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Risposta: La decostruzione della metafisica correlata al concetto di sostanza-presenza, con i fondamenti inattaccabili quali: Dio, l’Essere, il Soggetto, porta Heidegger a considerare l’esistenza nella sua realtà, fatta di angoscia e di nulla. Nel post-metafisico, vengono a decadere gli equilibri universali, per lasciare il posto a una logica, che rispecchi la verità, con le sue connotazioni di tipo socio-politico e culturale. Siamo all’interno di un ordinamento socio-culturale correlato al “sentire critico”, indirizzato verso varie ubicazioni, non ultima quella della scrittura poetica che si situa tra il tentativo di consolidamento e la frantumazione, tanto che alla fine, le giunture provvisorie non portano ad un impianto duraturo e armonico dell’edificio: il risultato, è quasi sempre lo sforzo di ricomporre l’unità linguistica e culturale, che dovrebbe essere riassorbita da una nuova civiltà letteraria e poetica, in assenza della quale bisognerà, continuamente, fare i conti con le proiezioni del pensiero e della continua riflessione critica e filosofica.

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Domanda: La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni. La tua poesia parte da qui, è il tentativo di ripartire dal significato di una immagine, da una citazione, da un segno come effetto di superficie ed effetto di lontananza. Che cos’è l’effetto di superficie? Qualcosa che, proprio perché effetto, non appartiene a ciò che è originario: l’essenza, la coscienza, e che, non situandosi né all’altezza dell’Origine, né nella profondità della Coscienza, si presenta come pezzo di «superficie», relitto linguistico che galleggia nel mare del linguaggio, il reale subliminale che sta appena al di sotto della superficie della coscienza linguistica. Non bisogna con ciò intendere, né vorrei darlo ad intendere, che il senso sia qualcosa di diverso dal significato o che esso sia un «effetto» come se fosse un segno o un sintomo o un crittogramma di qualcos’altro (quel qualcos’altro che ha contraddistinto la civiltà del simbolismo in Europa); né bisogna intendere la stabilità del significato come qualcosa, appunto, di «stabile», ovvero, non modificabile almeno per un certo periodo. Infatti, mi chiedo, può esistere qualcosa di «stabile» all’interno della fluidificazione universale? – Ciò di cui il significato «è», lo è in quanto senso, sensato, appartenente al sensorio (e che gira e rigira intorno all’oggetto); possiamo dire quindi che il senso abita l’immagine, il significato, ovvero, il sensorio? Forse. I personaggi delle tue poesie sono gli equivalenti dei quasi-morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito (le categorie dello scambio simbolico), essi sì che corrispondono allo scambio economico-monetario al pari delle pagine di un medesimo foglio bianco che attende la scrittura. Al pari della moneta anche la parola poetica vive ed è reale soltanto nello scambio simbolico (ma qui il discorso si allungherebbe). Anche se è da dire che nel tessuto fisico-chimico della tua poesia penetrano (osmoticamente, e quindi ideologicamente) lacerti, lemmi e immagini del linguaggio poetico orfico che si sono sedimentati appena sotto la superficie del testo, indebolendo (più che rafforzando) il passo della sintassi (claudicante in quanto non più originaria, non più ordo rerum né più ordo verborum).

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Risposta: Devo ammettere che il discorso si sta orientando verso un piano di dialettica filosofico-letteraria nel tentativo di ricomporre un Corpo, restituendogli la sua Forma. Difficile amalgamare le evaporazioni del Tempo e del Presente riunendole osmoticamente, nella vita e nella poesia. Ci siamo addentrati non solo nelle terre della oggettività, ma anche in quelle della soggettività fasciandole di filosofia. La fine del linguaggio narrativo ha caratterizzato il secondo Novecento, trascinandosi dietro la deregulation poetica e linguistica, che ha allontanato l’interesse della critica e del lettore. Ci sono volumi di poesie che sono pagine bianche, le stesse che si trovano al Centro del Nulla. Si tratta, quasi sempre, di una poesia priva di latitudini e di cartelli indicativi che possano indirizzare il poeta e il lettore, verso qualcosa di durevole. che non è realizzabile perché è nel cromosoma della Natura, fonte essa stessa di vita e di morte, di senso e contro senso. Ipotizzando, per un attimo, la precarietà del significato, quando ti poni la domanda: “Esiste qualcosa di stabile all’interno della fluidificazione universale, almeno per un certo periodo?”, la risposta scientifica più valida la potrebbe dare il noto astrofisico inglese Stephen Hawking; ma, da buon Osservatore delle cose e Propositore di progetti quale sei, già la conosci, ben sapendo che ”l’effetto di superficie”, come lo definisci, ha una frequenza brevissima, come il Big Ben della Torre di Londra. Quanto ai lemmi, ai lacerti e alle immagini da te riscontrati nella lettura dei miei versi, mi richiamo a quanto già detto sulla mia poesia, a inizio del nostro colloquio, consapevole che anch’essa, quale agglomerato di frammenti, appena sotto la superficie, rimanga in attesa del dissolvimento, come tutte le cose inserite nel mondo. Devo qui richiamare Deleuze? Penso di si quando sostiene che la teoria del senso non è legata in alcun modo a qualcosa di eterno o al suo radicamento nella profondità della coscienza.

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foto ipermoderno L'ultima fermata della campagna Chic on the Bridge Louis Vuitton ci riporta a Parigi

ipermoderno L’ultima fermata della campagna Chic on the Bridge Louis Vuitton ci riporta a Parigi

Domanda: «Effetto di superficie» è, secondo Deleuze, sia il senso che il non-senso. Per Deleuze il senso non è una totalità organica perduta, o da edificarsi (come utopia) ma è un evento, sempre individuato, singolare, costitutivamente in forma di frammento in rovina, ed è il prodotto di una «assenza» costituita (non originaria) auto-dislocantesi. È sempre una assenza di Fondamento che produce il senso, ed è futile stare oggi a registrare con malinconia la fine dei Fondamenti o la fine del Fondamento dell’«io» come fa la poesia a pendio elegiaco o la poesia che si aggrappa agli «oggetti» come un naufrago al salvagente, per il semplice fatto che non c’è alcun salvagente a portata dello «Spirito», non c’è nessuna «utopia» che ci riscatti dal «quotidiano» o dal viaggio turistico (la transumanza della odierna poesia da turismo elegiaco che si fa in camera da letto o in camera da pranzo, tra un caffè, un aperitivo e un chinotto, o in un improbabile bosco con tanto di margherite e vasi di geranio ben accuditi). La tua poesia non sfugge a questa problematica, ci sta dentro come nel suo elemento marino. Anzi, trae da questa situazione la propria forza di vitalità e la propria giustificazione di esistere. Sbaglio o ho colto nel segno?

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Risposta: Deleuze ha cercato di creare un pensiero su filosofia e letteratura, positivismo e psicoanalisi, focalizzando l’attenzione sul senso del pensare, come risulta nel suo volume: Logica del senso. Il pensiero è l’atto dell’indagare come in altri filosofi: Nietzsche, Bergson, Kant, Spinoza, Hume e Leibniz. Estraneo alla metafisica, Deleuze approda ad una distinzione del pensiero per superare l’opposizione fra due contrasti come può essere ad esempio la staticità e il movimento.
Quindi nessun approccio al concetto di eternità e al suo radicamento nelle viscere della coscienza e dell’Idealismo. Secondo Deleuze, è l’imprevedibilità del caso a generare il senso che non si produce dall’azione di un soggetto. È libero di agire non essendo legato a nessun vincolo. Si genera da sé, riducendo altezze e profondità,  finito e infinito, in un dualismo sottoposto sempre alla verifica dell’inconscio. Il “senso” come  tu dici, Giorgio, “è un evento in forma di “frammento in rovina, che può adattarsi a tutti i fenomeni esterni, privo di approdi salvifici per la poesia nel dissolvimento dell’IO e di tutti i Fondamenti, senza alcuna possibilità di salvezza a ”portata dello “Spirito”, per uscire dal calendario giornaliero e dalla marginalità dell’essere qui e ora, essendo noi stessi frammenti di un Principio (Vita) e del suo controsenso, rappresentato dalla (Morte).Tranne le argomentazioni religiose, è evidente che la filosofia del razionalismo ateo non riesca a dare un “Centro” se non quello di un “polo” negativo, trasformando l’Essere in un non Essere, secondo il pensiero di Heidegger, così come la poesia che, una volta dissacrati i costumi dell’estetica, si minimalizza, proiettandosi nel passato e nel presente con i suoi frammenti in rovina. Ciò porta il poeta a rimanere in una camera buia, in attesa, che tornino senso, forma e contenuti: ossia la luce. (ma poi mi chiedo, verrà mai questo bagliore?). Alla domanda se la mia poesia è in sintonia con ciò che hai esposto, o ipotizzato a chiusura della tua intervista, ti invito a considerare questa mia similitudine quando paragono la poesia a un cristallo dai molteplici riflessi, che hai saputo captare con profondo spirito di osservazione, segno evidente che sottoponi a giusta critica ciò che leggi e senza tariffario. Ringraziandoti per l’attenzione e la gentile ospitalità, ti esprimo i miei più cordiali saluti e auguri di buon lavoro. Mario M. Gabriele.

.

1 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 p. 114
2 Gianni Vattimo La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21
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Stonehenge

TESTI  da “L’ERBA di STONEHENGE” IN CORSO di STAMPA (Ed. progetto cultura, 2016, Collana “Il dado e la clessidra”).

(1)

Quando vennero i Signori Herbert e Mrs.Lory
a salutare i fantasmi della sera, non c’erano
damigelle e masterchef, ma macchie bianche
sul tavolo dell’ 800, con qualche tarlo ancora in vita.
Si poteva dire di tutto, ma la casa era una favela,
tenuta in disordine per anni.
Un esperto di vecchie aste ne aveva proposto
l’acquisto. Poi Herbert disse a Lory,
allontanandosi dalla buvette:- le persone
che non vogliono essere uccelli di tundra
hanno in casa sempre le finestre chiuse-.
Ne era sicura Lory che leggeva Wang Wei,
ma si divertiva quando si parlava dell’agronomo Winston
che voleva un nuovo giardino, là dove crescevano solo sterpi.
Le due persone, morte a Willowbrook, passarono un tributo
a Berengario, prima di separare corpo e anima.
Nulla di più che un piccolo lascito
per il custode del cielo e della terra.
Non c’era una stanza per gli ospiti, ma a casa di Lory
il soppalco aveva una vista sui quartieri alti della città
e tante copie del Washington Post
che cercavano per la chiesa di St. Mark’s nel Bowery,
preti e benedettini ringraziando alla fine
con il Domine labia mea aperies
et os meum annuntiabit laudem tua.
Non credo che ci sia un passepartout per il Paradiso,
ma Annalisa dona sempre qualcosa
a padre Gesualdo, come money e travellers cheques
pur di dire che è un’offerta della Signora Juanin.
(2)

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!
(3)

Alla fine il ragazzo rivelò l’architrave del mondo,
le meraviglie di Bertram von Minden,
con slang romagnolo disse dove si trovavano le foglie morte,
le Fêtes Galantes di Verlaine,
a Bruxelles presso il Caffè Jeune Renard,
piccoli affreschi ricordavano Renoir,
era gennaio di gelo e neve,
la bruna orchestrale davanti ai preludi di Massenet,
ancora per poco restiamo negli slums,
credimi quando ti dico che pensavo a te stamane;
le preghiere all’ultimo minuto,
non sono bastate a fermare i fiumi e i tornadi sulle città,
buttata la bisaccia, pulsava il sangue nelle vene,
se tu pensi che tornino i passeri a beccarci un nuovo giorno,
le feste di quartiere, la movida;
ieri sera ho dormito sul tuo sonno,
e ci sarà una sola fine, un solo principio,
antica strada la memoria, le cerbottane per ferire;
ondeggiano i mesi, gli anni, sotto quest’arco e questa croce
bruciano i ritorni e ho conosciuto le litanie nei pub,
le carrozze ferme in strada, uno sotto l’arco del Trionfo,
senza donne e mascarpè, esile come un giunco,
non più del ramo di una quercia:
-Diranno poi come gli son diventate
sottili le gambe e le braccia!-;
la sera chiudeva il giorno con un uomo in transumanza,
le pellegrine a cercare i funghi prataioli,
giochiamo io e te la sorte alla roulette,
fuori il silenzio attraversava il vicolo, il respiro a metà giro,
c’èra un salvagente per andare oltre il fiume,
ma chi ci credeva? l’inverno lasciò troppe crepe sopra i muri,
Kelin maledisse il freddo, si fece in quattro
per fermare il tempo,
rimandando ogni cosa dopo il Serenase;
in una stanza suonavano come a Woodstock,
non passavano giorni senza chiedere dove fossero
Marisa e Abele, lontana era l’isola del tesoro,
perché accadde, perché c’era l’ombra alla porta,
come a Montpellier quando suonava Madame Drupet
a strapparci le unghie, a morderci la carne?
(4)

E andammo per vicoli e stradine.
In silenzio appassirono il vischio e il camedrio.

Più volte tornò il falco senza messaggi nel beccuccio.
Restarono i giorni guardati a vista, arresi,
un gran vuoto dentro il link e la scritta sopra i muri:
-Non cercate Laura Palmer-.Correva l’anno……

L’erba alta nel giardino preparava un’estate
di vespe e calabroni. La nostra già era andata via.
Giusy trattenne il fiato seguendo il triangolo delle rondini.
-Se vai pure tu- disse, io non so dove andare!
Con i ricordi ci addormentammo e non fu più mattino.
L’alba non volle metterci lo sguardo.
Il boia a destra, il giudice a sinistra.
Caddero rami e foglie.
Fuggirono l’upupa e il pipistrello.
Nel pomeriggio confessammo i peccati.

La condanna era appesa a un fil di lana.
I capi del quartiere si offrirono per la pace.
Li conosciamo -dissero.– Hanno dato tutto a Izabel
e Ramacandra.- Aronne è morto.
-A chi daremo allora ogni cosa di questo mondo?-.
-La darete a Lazzaro, e a chi risorge
su questa terra o in un altro luogo e firmamento,
prima del battesimo dell’acqua,
non qui dove una quercia in diagonale,
come in una tavola di Poussin,
fermerà il tempo, e sarà l’ultima a fiorire-,
concluse il giudice.

 

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Roma, via Baccina 79, martedì 5 aprile dalle ore 18 alle 21 Empiria festeggia  l’ottantesimo compleanno di Elio Pecora  con la riedizione del suo primo libro  LA CHIAVE DI VETRO  Salvatore Zambataro alla fisarmonica, clarinetto e voce di Pierfrancesco Ambrogio.    Elio Pecora (1936) “La chiave di vetro” (Empiria, 2016, prima edizione 1970,  pp. 122 € 15) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e uno stralcio della nota di Roberto Deidier in calce al libro

pittura Bauhaus

Bauhaus

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, nel 1936. Ha trascorso a Napoli una lunga adolescenza, dal 1966 abita a Roma dove risiede a via Paolo Barison 14 ( tel.349/4439444; email:e.pecora@tiscali.it). Ha come titoli di studio una maturità classica e una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione dell’Università di Palermo. Non ha ricoperto incarichi pubblici. Ha pubblicato libri di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro. Ha collaborato per la  critica letteraria a quotidiani, settimanali e riviste (La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, La Voce Repubblicana, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, il Tempo Illustrato, Wimbledon, Nuovi Argomenti, Ulisse,  Saggi critici ) e ai programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

I suoi libri di poesia: La chiave di vetro  (Bologna, Cappelli 1970); Motivetto (Roma, Spada 1978); L’occhio corto (Roma, Studio S. 1985; Interludio (Roma, Empiria 1987 e 1990; Dediche e bagatelle  (Roma, Rossi & Spera 199O); Poesie 1975-1995 ( Roma, Empiria 1997 e 1998; Per altre misure   (Genova, San Marco dei Giustiniani 2001); Favole dal giardino (Roma, Empiria 2004 e 2013); Nulla in questo restare (Trieste, Il ramo d’oro 2004); L’albergo delle fiabe e altri versi (Roma, L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie ( Milano, Mondadori Lo Specchio, 2007 ); La perdita e la salute, I Quaderni di Orfeo 2008; Tutto da ridere?, Empiria 2010; Nel tempo della madre, La Vita Felice 2011; In margine e altro, Oedipus 2011; Dodici poesie d’amore  (con acquerelli di Giorgio Griffa), Frullini edizioni 2012.

I suoi libri di poesia per i bambini: L’albergo delle fiabe e altri versi, (con disegni di Luci Gutierrez), ed.Orecchio Acerbo , Roma 2007; Un cane in viaggio (Illustrato da Beppe Giacobbe) , ed. Orecchio Acerbo, Roma 2011; di prossima pubblicazione per le stesse edizioni Firmino e altre poesie.

I suoi libri di prosa: Estate, ed. Bompiani 1981; Sandro Penna:una biografia, ed.Frassinelli 1984,1990, 2006; I triambuli, ed.Pellicano 1985; La ragazza col vestito di legno e altre fiabe italiane, ed.Frassinelli 1992; L’occhio corto, ed. Il Girasole 1995; Queste voci, queste stanze, (conversazioni don  Paolo Di Paolo), Empiria, Roma 2008; La scrittura immaginata, Guida, Napoli 2009; La scrittura e la vita, ed.Aragno 2012. 

I testi per il teatro rappresentati: Alcesti ,1984 Roma Teatro SpazioUno, regia di Enrico Job; Pitagora, (edito nei Quaderni del Comune, Crotone 1987), Crotone, regia di Luisa Mariani;  Prima di cena, (Premio IDI 1987, in “Sipario”,474, gennaio-febbraio 1988),Roma Teatro Belli, regia di Lorenzo Salveti; Nell’altra stanza,1989 (in “Ridotto” 7-8,agosto-settembre 1989), Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; Il cappello con la peonia, 1990, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi; A metà della notte, Todi Festival 1992, regia di Maria Assunta Calvisi, edito da l’Obliquo, Brescia 1990; Trittico, Roma Teatro Due, regia di Marco Lucchesi, 1995. Le radiocommedie trasmesse: Il giardino, RadioTre il 21 luglio 1996; Il segreto di Lucio,  RadioTre il 19 ottobre 1997.

Quattro dei testi teatrali sono stati pubblicati nel 2009 dall’editore Bulzoni nel volume TeatroUn ultimo lavoro teatrale Sandro Penna: una cheta follia, per l’interpretazione e la regia di Massimo Verdastro, è in corso di rappresentazione in diverse città italiane.

Nel 2006 l’Università di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, lo ha insignito della Laurea ad honorem in Scienze della Comunicazione. Per conto della stessa Facoltà le edizioni San Marco dei Giustiniani , Genova 2008), hanno pubblicato il volume L’avventura di restare (le scritture di Elio Pecora) a cura di Roberto Deidier con contributi di vari critici fra i quali Daniela Marcheschi, Biancamaria Frabotta, Giorgio Nisini.

Sue poesie sono apparse tradotte, fra altre lingue, in  francese, inglese, rumeno, iugoslavo, arabo. Sue raccolte di poesia sono state edite in volume in portoghese, in olandese, in inglese ( Poemas Escolhidos, Quasi 2008; Liefdesomheining, Serena Libri, Amsterdam 2011; Selected poems, Gradiva Publications 2014.)

Ha curato :  Sandro Penna, Confuso sogno ed. Garzanti 1980; Antologia della poesia del Novecento, ed. Newton Compton 1990; Sandro Penna poeta a Roma, ed. Electa 1997; Diapason di voci (quarantadue poeti per Sandro Penna) ed.IL Girasole 1997; Ci sono ancora le lucciole (poesie di sessantadue poeti italiani) Milano, Crocetti 2003; La strada delle parole ( poesie del Novecento scelte per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari ) Milano, Mondadori 2003, 2013; I poeti e l’amore nel Novecento italiano, Roma, Pagine 2005; Il cammino della poesia, antologia poetica, ed.Pagine 2013.

pittura Matthias Weischer Erfundener Mann

Matthias Weischer Erfundener Mann

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Questo libro fu composto fra gennaio e luglio 1968 in Germania (…) Aggiunsi le due pagine finali a Napoli, quando vi tornai nei primi giorni di agosto. A Roma… fu letto in dattiloscritto da un gruppo di amici e di conoscenti, che se lo passarono a mia insaputa. Non so per quali vie pervenne a J.R. Wilcock che volle conoscermi e insistette perché lo pubblicassi solo dopo aver scritto molto altro (a sentir lui mi ero troppo esposto, per un primo libro (…) Fu edito sul finire del 1970 dall’editore Cappelli… L’editore ne rispettò caratteri e spazi, ma chiese un titolo diverso da quello che ritenevo il più esatto: Narciso in pensiero. Il titolo nuovo mi venne guardando i quadri di Magritte, ben certo che la chiave di ogni possibile conoscenza non può essere che fragile e trasparente. Seppi dopo che quel titolo apparteneva già a un famoso poliziesco di Dashiell Hammet» *
Elio Pecora_cop La chiave di vetroUno degli aspetti più interessanti del libro d’esordio di Elio Pecora è l’impianto narrativo de-ideologizzato. Non c’era in esso nulla di ciò che all’epoca si era abituati a considerare poesia, il testo si presentava con un misto di prosa e poesia con un metro libero molto lungo che collimava e sconfinava con la prosa; per di più, la disposizione tipografica, con parti in maiuscolo che si alternavano ad ampi brani in metro libero in minuscolo normale e in corsivo, non aiutava certo il lettore ad orientarsi in quel tipo di scrittura che, peraltro, appariva particolarmente in sintonia con quel ritorno alla «oralità secondaria» teorizzata poco prima,  nel 1967, da McLuhan. Pecora infatti accoglieva nella forma-interna del libro di esordio l’esigenza di consegnare all’uditorio dei lettori una poesia vicina alla quotidianità, alla oralità e alla biografia con un modo disinvolto e fresco di porgere il plot. Il protagonista del libro è l’autore che parla in prima persona, ma è il modo con cui parla che qui è diverso. Innanzitutto, l’io che parla lo fa senza schermi o paratie retoriche; come nel romanzo, è una voce narrante che ci racconta le vicende sue personali, il travaglio dei lavoretti e dei licenziamenti del giovanissimo protagonista, i suoi rapporti con la madre e con la madre della madre, la scoperta del padre, quasi sempre assente per motivi di lavoro, gli scorci sul suo milieu familiare e sociale, i rapporti con gli scrittori che venivano alla libreria dove lavorava il giovanissimo Elio. C’è, in rilievo, la figura di un giovane intellettuale che viene a contatto con la vita di fine anni Sessanta della capitale. Le sue vicissitudini private, anzi, privatissime, come la scoperta del sesso e delle pulsioni libidiche. Ma qui il privato diventa, come per magia, un fatto pubblico, diventa la metafora del riflusso incipiente degli anni Settanta che si preannuncia da eventi minimi e inavvertiti. La «voce» che racconta lo fa senza infingimenti, senza retorismi, con un parlato ricchissimo di perlustrazioni esistenziali e oggettuali. La scrittura di Pecora è attenta agli spigoli, ai dettagli del privato-quotidiano e del sociale come mai era successo in precedenza; quella «voce», dicevo, così dissimile da quella di un Dario Bellezza che nel 1970 dà alle stampe Invettive e licenze, salutato da Pasolini come «il miglior poeta della nuova generazione», (giudizio lusinghiero che rivelava la capacità del poeta friulano di percepire il «nuovo» della nuova generazione), forse non era ancora pienamente riconoscibile in quei primi anni Settanta, gli nuoceva quello smarrirsi del protagonista nelle pieghe della capitale, quell’andirivieni tra un lavoretto e l’altro, quella gassosità degli eventi narrati, quel senso di disorientamento e di dispersione, molto sottile e pervasivo che si rinviene in modo percussivo in tutto il libro. Fatto sta che Dario Bellezza conosce un successo immediato di pubblico e di critica, il suo libro è aggressivo nei toni e anche nella violenza linguistica, fa breccia da subito; il libro di Elio Pecora, comunque salutato con attenzione e apprezzamento dalla critica dell’epoca, dovrà attendere alcuni decenni per entrare di diritto nell’immaginario delle citazioni critiche ed essere rivisitato come avrebbe meritato. I libri di poesia, si sa, hanno un loro cammino autonomo, fanno la loro strada, camminano da soli, a volte zoppicano, vengono superati da altri più veloci di autori che godono della approvazione mediatica, ma non c’è dubbio che il libro, a rileggerlo oggi, a distanza di quarantasei anni, mostra una imprevedibile vitalità e capacità di durata, una sua immediata riconoscibilità. Ai libri di Pecora e di Dario Bellezza, nel 1974 si aggiunge quello di Patrizia Cavalli con il noto titolo Le mie poesie non cambieranno il mondo ben consigliato da Elsa Morante. Nel corso degli anni che vanno dal 1970 al 1976 escono i libri dei principali protagonisti della nuova generazione. A Milano nel 1976 escono Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis. Altri autori si aggiungeranno subito dopo. Verrà così a configurarsi con sufficiente precisione la mappa della poesia della «nuova generazione». Eppure rimarrà un mistero l’approdo tardivo di un poeta come Elio Pecora alla grande editoria, visto che il primo libro pubblicato da Mondadori nello Specchio è del 2007, Simmetrie. Epperò è in questi anni che si muove la poesia sotterranea di Helle Busacca (1915-1996), la quale nel 1972 dà alle stampe, a sue spese, la trilogia de I quanti del suicidio, e nel 1974, I quanti del karma, in totale antitesi con la poetica della Cavalli. Ma la sua voce era dissonante con quella maggioritaria della sua collega romana che scriveva una poesia in linea con la sensibilità dell’epoca. E come non citare Salvatore Martino (1940) il cui primo libro La fondazione di Ninive (1965-1976) pubblicato nel 1976 voleva segnare un momento di continuità piuttosto che uno di rottura. Analogo discorso vale per il romano Luigi Manzi (1944) il quale esordisce con “Nuovi Argomenti” pubblicandovi alcune poesie nel 1974, e per il poeta di Campobasso, Mario Gabriele (1940), il quale pubblica in quegli anni alcuni libri significativi: Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976).

* Avvertenza in calce al volume p. 115

dalla Nota di Roberto Deidier in calce al volume

Possiamo finalmente leggere La chiave di vetro come un prosimetro indefinito, al cui interno il passaggio di forma resta spesso inavvertito e inavvertibile. Quando il narrato cede al lirico, non sempre la prosa cede al verso. e lo stesso accade se invertiamo l’ordine e rovesciamo la prospettiva. Insomma, l’evidenza della novità congiurava contro la natura di quella novità, la occultava tra le pieghe di una scrittura mobilissima, la cui materia autobiografica si distaccava precocemente dai modi in cui la «nuova generazione», e Bellezza stesso, l’avrebbero «bruciata».
Faticheremmo non poco, infatti, a cercare in queste pagine l’«io che brucia». Non c’è alcun soggetto in fiamme, ma un ritorno pieno, e problematico, di quello che Debenedetti aveva definito «il personaggio uomo». Un’intera e ampia stagione sperimentale si affaccia nella Chiave di vetro, e con essa una geografia letteraria che comprende l’Inghilterra di Virginia Woolf e la Francia di Michel Butor, nonché la grande esperienza della Mitteleuropa. Ma sotto questo ritmo si agita soprattutto il Gombrowicz dei diari. Elio Pecora, questo il nome dell’autore, non aveva dunque mancato di guardarsi intorno e si era recato da Roma fino in Baviera. Lì, a opportuna distanza dai luoghi più suoi, si era arreso alla scrittura.
Di italiano questo libro conservava solo la lingua. Che i più accorti lo accogliessero con giudizi lusinghieri è credibile alomeno quanto la defezione di chi allora non seppe, o non volle, misurarsi con esso. La complessità dei suoi referenti si mostra oggi, a più di cinquanta anni dalla prima edizione, come una sfida accattivante sul piano dell’interpretazione, ma anche su quello della ricostruzione di un contesto. Di fatto la Mitteleuropa non aveva perduto nulla del suo fascino e del suo prestigio, per quanto il raggio dei suoi influssi risultasse indubbiamente indebolito. Perché la sua forza propulsiva tornasse pienamente ad accendersi, bisognava attendere di rileggere Walser, o che apparissero le prime traduzioni da Thomas Bernhard. quella cultura, invece, aveva profondamente inciso nella formazione letteraria di Pecora, accanto alla frequentazione dei classici. Irrorando quella matrice antica con nuovi attriti e nuove tensioni, psicologizzandola. […]
Ogni percorso di osservazione dell’io risponde oggettivamente a un principio di oggettivazione: Narciso contempla se stesso perché l’acqua ne riflette il sembiante. Solo così sarà possibile chiarire il ruolo effettivo che la parte di lirismo e quella di narratività inscenano in questa costruzione; e si tratta di un ruolo ibrido, cangiante come le mille maschere di Dioniso. Il lirismo si fa paradossalmente oggettivo. E Narciso affonda tra le acque: Dioniso, il dio misterioso, ci attende proprio lì dove siamo certi che «Le cose stanno così».

.elio pecora 3

Elio Pecora,  La chiave di vetro, Cappelli Editore 1970, Ed. Empiria 2016

I

Le cose stanno così.
Sono cresciuto in mezzo a gente che, il giorno,
mentre cava il fosso per le immondizie,
si racconta di reami e di santi.
Le favole non mi contentano.

Così, una domenica siedo alla fontana.
Attacco a parlare con un tedesco, psichiatra, a Roma
scrive un romanzo.
Gli dico che ho scritto dei versi, me li ha vantati
un critico attento e ignoto; che lavoro in libreria,
ci passano le celebrità. Non mi qualifico commesso,
che spolvero mensole e taglio spago ai pacchi.
Ma lui frequenta le librerie.
Parliamo soprattutto di me.
Da « Rosati », a cena alla « Buca », negli intervalli
a teatro, all’Osteria dell’Orso.
Io mi presento nella parte giusta, controllo i gesti,
scompiglio sulla fronte i capelli marrone e,
abbandonato al divano soffice,
ascolto canzonette con evidente malinconia.
E il mio amico mi santifica « poeta », un po’
Hofmannsthal, un po’ bardo arruffianato alla luna.
E scopre in me l’ambivalenza che, prima, m’era
solo servita nelle guerre casalinghe.
— mio saltar dal letame all’urna del Santissimo.
— issar l’asta della vittoria e leccar lo sputo.
Io precipitosamente discorro, lui col suo italiano
puntellato e veramente ci conosciamo.
Pazienta ad aspettarmi la sera, mi pungola a
scrivere, mi consiglia letture, m’accenna
al Narcisismo.
Già. Io vado curiosamente per le strade,
il padrone del mondo.
Mi specchio nelle vetrine:
ogni occhiata incupirmi e bearmi.
Il passo fatto d’aria,
la testa in alto contro i cavi del filobus.
Insomma Narciso.
Io odio il compromesso e corro
sfiancandomi.

Narciso non è bello né conosce la sua bellezza.
Si finge bello.
Perché gli altri plaudendo sentenzino: vive.
Narciso procede nel gioco;
e non sente misericordia per i suoi piedi stanchi,
per la speranza che gli si consuma d’altre parole.
Nel cavo del sogno riconosce l’intesa
che si traveste d’impegno.

Egli vive con un segreto e si piace.
Mai felice né veramente infelice,
sperduti gli occhi,
guardar tutto come da una nuvola.
Il mistero, ossia la verità mai conquistata.
Un segreto come quello di Dio.
L’ateo cerca Dio per smentirlo.
Il fedele inchioda il suo Dio in capo al letto e
l’ ossequia di sera per prendere sonno.

Narciso non vuole compromettersi.
Permanentemente adolescente ascolta tutte le voci,
è preda di tutti i dolori, delle gioie più lievi,
la paura come quotidiana attesa
la ricerca come programma esaltante
il sogno come domanda, ritorno
— la voglia di pianto è il desiderio dell’istrione.

Certo ogni ora attende un gesto, un soffio
che gli significhino il presente.
Un legno scricchiola, s’appanna il vetro ed ecco
un nuovo elemento per l’aritmetica dell’anima.

Narciso deve compromettersi.
La sua adolescenza senza spiegazioni, senza
programmi. Quando l’ideale lungamente inventato
si scontra con persone ed eventi e questi gli resistono
ed esso si piega in se stesso e un momento
si divinizza un momento si sprofonda d’ansia.
Allora ti viene incontro una totale incertezza,
una solitudine universalmente dubitante,
una nostalgia d’ignoranze superate.
Vorresti essere il bambino,
la bestiola sicura al caldo, ma corri verso la rabbia
e il disprezzo di te.
Necessità della guerra.
Una guerra senza bandiere.
Cercarsi. Superare la disperazione.

II
A Roma ero venuto l’altro Settembre.

Dopo le prime due notti, accampato in un lurido
guscio dell’Albergo del Popolo, trovai camera nel
quartiere africano. Da un’emiliana coi reni incrostati,
la pressione alta, il cuore incerto, un rilasso uterino,
e la bocca che non reggeva la dentiera.
La vecchina mi raccontò del marito morto
paralitico, delle figlie in America, della guerra che
l’aveva spiantata: lei sul carretto impietrita dall’artrosi,
gli altri nei fossi e i nazisti mitragliavano.
S’agitava per i terremotati del mese e per il
ragazzetto del terzo piano.
Raccoglieva bottiglie vuote e scatole unte di
conserva per la sua quota d’obolo all’Orfanatrofio
che il venticinque del mese disseminava gli esattori
alle porte.
Con la vecchia dividevo i dolci della domenica
e gli anemoni che m’allegravano la stanza.
La notte nel corridoio luceva un santo barbuto, lei
ronfava nello stanzino del guardaroba, con l’uscio
spalancato per non soffocare.
Da quella casa, con l’orario che mi scadeva,
partivo il mattino.

A Roma mi ci ero avventurato.

Un compaesano, deputato e giornalista, mi promise
impiego e interessamento per bocca del segretario.
Tre mesi dopo un cartoncino m’avvertiva d’una sua
conferenza marxista su fondale cristiano.

Trovai lavoro a Monte Sacro.
Con altri due telefonavamo alle amministrazioni
proponendo abbonamenti a un foglio previdenziale.
Quando capitava un ragioniere indeciso
gli spedivamo rivista e contrassegno.
In un mese telefonai a collegi, cliniche, latterie e
quanto il commercio fa e disfa in Roma.
Dicembre e Gennaio a via Veneto, in libreria.
Una galleria di marmi e lampadari, mancavano
i pattini a rotelle all’ingresso, la musica c’era —
quattro microsolchi in sessanta giorni.
La mattina tardavo un cinque minuti e il direttore,
omuncolo a molle, fulminava l’orologio stradale e
scoteva il capino. Sfacchinando due mesi,
cortesemente mi licenziarono.

Un pò godei al sole di Trinità dei Monti.
Ché m’abbindolò una società americana per un
libro d’infanzia.
Girai Roma e provincia.
Copiavo indirizzi dall’elenco telefonico, suonavo
alle porte ogni volta esitante, spesso scendevo
afflitto e sfiatato,
di rado pasticciavo l’intesa = percentuale.
Un mese ed ero depresso.
Altro lavoro in libreria.

Stavolta minuscola, un ombelico verde con
scaffali di palissandro,
due poltrone di pelle,
un’anfora di peltro con gladioli.
Mi ci sono costretto otto mesi,
ad agosto quando tutti rosolavano sulla sabbia
e a Natale quando signori panciuti compravano a
dozzine, per cardinali e ministri, i coloratissimi
volumi che accatastavamo a trincee.

elio pecora 2

Elio Pecora

III
Mia madre visse la sua giovinezza in una casa
sulle colline. Una casa con gradinate e colonne
di pietra.
Sulla porta lo stemma con leoni, molte camere
chiuse. Cortili di glicine, azzurri
d’ortensie a giugno.
Pozzi d’acqua gelida, larghi giardini, scalette
nel verde, Madonne in edicole fiorite,
ovunque un silenzio di sole e di tempo.

In quei giardini ho visto farfalle e lucertole,
l’uva annerirsi d’agosto, stillare di latice i fich.
Per quegli orti ho scoperto le stagioni e il cielo,
la luna del tramonto e le stelle alte della sera.
In me, per questi orti,
i ricordi di mia madre e della madre di mia madre.

Nel racconto,
la madre di mia madre s’alzava all’alba,
coglieva rose di rugiada
una ornarne la treccia altre per la figlia,
apriva la finestra
annunciava il mattino
e la destava con voce di rimprovero.

Nel racconto
questa madre di mia madre
aveva neri capelli sino all’ultima vecchiezza.
Si profumava di colonia, incipriava le gote,
spingeva dalla fronte un ricciolo e andava a messa
poi al mercato e tornava
con molte parole e frutta d’altri paesi
e sedie di paglia intrecciata.

La madre di mia madre fischiava.
Al plenilunio, con tenera voce
chiamava i figli morti da tanto.

La madre di mia madre,
davanti al focolare avvampato di quercia,
accoglieva vecchi preti e lavandaie di lunga
memoria. Nella brace abbrustolivano castagne,
bevevano rosso Falèrno dentro tazze di creta.

Morì un giorno d’ottobre la madre di mia madre.
Nell’alto letto giaceva esausta, ma
allegramente parlò: è bene ch’io muoia.
La vendemmia è stata scarsa e
dovrei bere poco quest’inverno.
Poi, si perse nella pena. Chiamò i figli morti,
gli stese incontro la mano.
Un giorno di pioggia,
d’ottobre.

Io vengo da una razza di contadini.
I parenti di mia madre
per secoli hanno allargate le terre,
cavalcato per dirupi, si sono in piazza scannati
con chi gli spostava i pali di confine,
hanno impeciato i tini per le vigne gonfie, una
di loro pare stesse dai Borboni — nelle soffitte
tarlavano i farsetti dei paggi.
Gli avi paterni zapparono,
furono macellai e cantinieri. Mio nonno emigrò
in Venezuela scordando moglie e figlio; tornò sordo
e vecchio.
Mio padre s’arruolò in Marina
meritandosi i gradi dorati, il rispetto dei paesani,
una casa con tende e porcellane e la moglie
nata signora.

IV
Dei primi giorni a Napoli ricordo
la pena che mi colse
in una strada, verso il mare, ascoltando dal pianino
la canzone d’una promessa e di un amore finito.
A quel sole, odorando il mare.

Anni vari.
Gli onomastici di mia madre con dolci e fiori,
le sue passioni rabbiose a pianoforte,
la scuola col giardino ampio e sfolto, certe domande,
le barche a Posillipo.

Avevamo lasciato il paese dove tutti eravamo nati
un mattino di giugno.
Si chiuse la casa senza coprire i mobili; la guida
per le scale, k tende alle finestre, le forbici al chiodo
in cucina.
Qualche mese dopo, i ladri avrebbero tutto portato
via e dopo quindici anni, dietro un tiretto,
mia madre trovò il suo velo di sposa.

Mio padre a quei tempi imprecava contro il mondo,
a mia madre crescevano i mali, tingeva
i capelli a onde,
il mio amico Vanni non rispose alle mie lettere,
io leggevo la mia enciclopedia alle pagine verdi
delle favole e a quelle gialle della storia e dei miti.
Al ritorno da una vacanza in paese trovai i miei
in una casa lontana dal mare, in vicoli vocianti
coi panni stesi fino al sole.
Da un lato premeva contro i balconi un monastero
di cadenti terrazze, dall’altro s’allineavano bassi
con pergolati sulle porte; fra le foglie d’edera
spuntavano rose di celluloide.

In quel quartiere i grammofoni urlavano senza
requie, il tanfo delle cucine esalava fino alle tegole,
nelle risse giornaliere si cimentavano grasse donne
e bambini gracili, si proclamavano i numeri per
vincite di uova e d’olio, a gennaio su un falò
di sedie rotte ardeva un pupo di stracci,
di sera una vecchia
spiava dall’alto gl’innamorati, i ragazzi squassavano
a calci le saracinesche, nel balcone d’angolo
una ragazza si vestiva di nero; avevo un binocolo
per le terrazze lontane.

In quella casa la mia interminabile adolescenza.
Un salotto stile luigisedici, vecchie mura traversate
da topi e scarafaggi, carte a fiori alle pareti,
una piccola stanza per ascoltare la radio,
uno spazio fra balcone e tenda dove starmene
a leggere.

Tutto leggevo.
Le puntate dei romanzi vendute dal giornalaio,
le storie della Peverelli, la Karenina di Tolstoi,
Sue, Hugo, Dostoevskij, i libretti dei melodrammi,
la Nanà di Zola e libri che m’imprestavano i vicini,
libri che a poche lire compravo sulle bancherèlle,
giornaletti di Gordon e dell’Uomo Mascherato,
ancóra le favole della mia enciclopedia.
La notte mio padre spegneva sul mio comodino la
lampada e raccoglieva in terra il libro.

A scuola andavo rassegnato.
Mi fingevo assorto in un disegno per meglio
ascoltare le confidenze dei compagni.
Una notte sognai la ragazza bionda che guardavo
per le scale e da allora smisi di guardarla.

Pittori e muratori facevano in casa il nuovo.
Mia madre con me fingeva le più concrete favole.
Io piangevo di rado. La malinconia mi governava
le giornate. Entrai nel dolorosissimo sbaglio.
Allora forse mi volli diverso da quel padre assente,
da quegli zii senza cuore e dalle donne languenti
solitudini. Un uomo appresta la felicità.
Uno sbaglio dolorosissimo.

elio pecora 1

Elio Pecora

***
V
Tunzenberg, Marzo

Iersera ho preso a camminare.
Le case chiare, le tendine rialzate, una donna
con bambino dietro i vetri, il lago increspato,
il vento sgominar foglie,
un cane guaisce legato, mai percorse foreste.
Sono tornato indietro.
Ho spiato il cielo strisciato di rosso, il cane ancora
ha guaito, la stessa donna dietro i vetri col figlio,
sul selciato rane schiacciate, risecchite al sole.
Ho continuato il cammino.
Le ombre slargavano. Il vento mi percuoteva freddo.
Bestiole balzavano nei cespugli. La luna
agli inizi del primo quarto.
Ho raccolto un ramo per difendermi da qualche
assalto e andavo tra abeti e quercie.
Ho preso una strada più buia, brulicante di rumori,
di legni cigolanti. Foglie m’inseguivano come ragni,
come serpi.
Mi sentivo pronto a quelle solitudini.
Col corpo fiero, il bastone nodoso, entrare più
dentro il boscame.
Dalla strada ora aperta scorgevo finestre accese,
fanali d’auto.
Ho desiderato qualcuno che mi cercasse. Qualcuno
che mi gridasse, son qui fermati. Io sono qui e
tu sei vivo. Tu hai mani e faccia. Questi alberi
inverdiscono. Questa nebbia appanna le case. Tutto
questo vento traversa.
Noi siamo fuori del sogno.

SIGISMONDO, AMBIGUO AMLETO.
NELLA PIÙ FITTA DISPERAZIONE E NEL DUBBIO
DI QUESTA DISPERAZIONE.
98 99
AFFAMATI DUBITARE DELLA FAME, DEI DENTI,
DEL CORPO DIGIUNO.
DISPERARE DELLA DISPERAZIONE.

— ci sono giorni terribili in ogni mio mese, nei quali
io sono completamente perduto.
Tutto inutile e vano.
Chi il giorno avanti m’amava e amavo, ora m’è
estraneo, i suoi occhi ipocriti, ogni suo gesto una
bugia. E veramente sono solo.
Una pietra al sole, in fredda delusione,
in sofferenza senza parole.
Una pietra al sole e alla pioggia, morta tra le cose.
Piangere, bestemmiare è una corda che ci allaccia.
Ma il silenzio che sa l’inutilità del parlare, gridare,
gemere, questo silenzio è soffertissima morte.
Io devo ignorare le distruzioni che sempre premono.
Io cerco i ricordi perché essi m’impediscono di
vivere.
Io ricordo per non più ricordare.

In questo paese io sento tutti i rumori, del cuore
e di fuori.
Un corvo nero per l’aria; si staccano dagli abeti
i fagiani; i caprioli si volgono incerti e spariscono
nella boscaglia; viole fragili sul dorso dei viottoli;
l’acqua scivola nei canali lungo le terre.
Sono arrivato la sera dell’otto Gennaio.
A Napoli Osvaldo lungamente mi salutò.
A Bolzano una musichetta si sparse per i vagoni;
monti, precipizi, campanili, distese.
L’allegria degli inizi.
Poi la folla di ritorno dai campi di sci.
A Monaco, Wolf m’attendeva con un curioso
cappello. Io intontito e deluso, come a ogni
arrivo. A Dingolfin, Lotti con l’auto.
Per via cercai d’essere allegro.
Quando fummo nella camera assegnatami, in una
dipendenza del Castello, cavai dalle valigie i doni
e ci dirigemmo alla loro casa.
Il cancello di legno. La mia disattenta emozione.
I bambini presero i regali, noi cenammo, poi Wolf
m’accompagnò alla mia stanza e fui solo.
Cinque quadri alle pareti, tende verdi alla finestra,
una grossa poltrona, un divano récamier,
la stufa a legna, due lumi.
M’accinsi al sonno.
Al mattino mi svegliò la voce di Wolf.
Disposi libri nello scaffale e sullo scrittoio di noce.
Uscimmo al sole bianchissimo.
A Tundig, nel cimitero fra le case, spiavo dentro
le finestre gli armadi e le cucine,
io fermo tra le lapidi,
su quei morti allegri di neve.
Tornavo in quella stanza, tra quelle mura senza
parole.
— io odiavo quei lumi, quel tappeto sardo, i
bicchieri sullo stipo.
Faticavo ad accendere la stufa.
Il dieci gennaio annotavo … « io veramente voglio
scrivere tutto. Il tempo di fuori e quello dell’anima
… io so, debbo farmi vuoto per farmi nuovo,
per sentir musica, vedere un quadro,
odorare un fiore, scaldarmi,
dormire, io lo voglio, nonostante queste notti,
questi sonni interrotti da paurosi pensieri…
desiderare la morte,
fuggire. dove?… »

Oscillavo tra un dolore grande, una paura folle di
persone e di cose e la voglia di tutto superare, di
aver pazienza.
Di vincere, rifiutando la felicità.
Chi m’ha raccontata la favola della felicità?
Quando m’ha raccontata la terrificante bugia?
È lui, è lei, sono loro i colpevoli della mia
sofferenza.

Il pomeriggio andavamo per i boschi.
Paesaggi di Bruegel, orizzonti sterminati.
Avevo detto a Wolf le mie paure. Uguali, le stesse,
ripetizioni, mi rispose.
Di sera io tornavo alla loro porta, trasalendo
al crepitio della neve sotto le scarpe. Restavo
a guardare lo studio e la biblioteca illuminati.
Poi correvo a dormire
sonni inquieti. Ogni volta, nella mia camera
calda, m’impauriva la sosta.
Tutti dentro mi parlavano quelli del mio passato.
Io chiuso, il freddo fuori, tutto inutile e lontano.
Stavolta non potevo fuggire ……..

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SEI POESIE DI BORA ĆOSIĆ SULLA RESPONSABILITA’ DEL “FARE” POESIA: DA  “ I MORTI – BERLINO DELLE MIE POESIE” (Mesogea, 2006) – LA TESTIMONIANZA DELLA POESIA SULL’EMIGRAZIONE EUROPEA. Traduzione di Lavinia Bissoli e Lola Vlatković Con un commento di Letizia Leone

Bora Cosic Ancora la Trg. Bana J. Jelacica con i tram a due assi 157 e 150 sulla linea “11”

Zagabria Ancora la Trg. Bana J. Jelacica con i tram a due assi 157 e 150 sulla linea “11”

Berlino delle mie poesie, Mesogea by GEM s.r.l., Messina, 2006; prefazione di Predrag Matvejević, a cura di Silvio Ferrari; Traduzione di Lavinia Bissoli e Lola Vlatković

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http://www.mesogea.it/casa-editrice-mesogea.html

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Bora Ćosić (1932) è uno dei più noti scrittori della ex Jugoslavia. Nasce a Zagabria e nel 1937 si trasferisce con la famiglia a Belgrado, dove più tardi intraprenderà gli studi di filosofia. Nei primi anni cinquanta collabora con diverse riviste letterarie, si dedica alla traduzione di alcuni autori classici della letteratura russa, tra cui Majakovskij e Chlebnikov, ma soprattutto diventa, giovanissimo, una delle personalità di spicco della vita culturale belgradese. Scrittore caustico per eccellenza, intellettuale anticonformista e déraciné, malvisto dalle autorità ma amatissimo dai suoi lettori, è sempre stato un autentico “apolide dello spirito”, come testimonia il suo Dnevnik apatrida [Diario di un senza patria, 1993], scritto durante le guerre jugoslave. Nel 1992, in seguito al collasso del proprio Paese e in aperta opposizione al regime di Milošević, si trasferisce prima in Istria, nella casa estiva di Rovigno, e poi a Berlino, città nella quale vive tuttora in una sorta di “asilio-esilio” e a cui ha dedicato un’intensa raccolta di poesie dal titolo I morti (2006). Ha ottenuto tra gli altri, il Leipzig Book Award.Dopo aver vissuto per molti anni a Belgrado, dove si è laureato in filosofia, nel 1992 ha dovuto lasciare la Serbia, a causa delle sue posizioni anti-nazionaliste, per emigrare a Rovigno, in Istria. Dal 1995 vive a Berlino dove ha ottenuto una borsa dal Deutscher Akademischer Austauchsdienst. Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale (e/o 1996), è il suo primo romanzo, apparso negli anni del “disgelo jugoslavo”, grazie al quale ha subito conosciuto il successo internazionale.

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bora cosic 2

Bora Cosic

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Commento di Letizia Leone

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Pedrag Matvejević nel presentare Bora Ćosić non esita a collocarlo in un punto di oscillazione “tra asilo ed esilio”, condizione esistenziale che si rivela per un poeta inevitabilmente condizione linguistica: “L’epiteto jugoslava continua, nel suo caso, ad avere ancora un senso. Di origine serba, ma nato in Croazia, questo poeta e prosatore che vive adesso in Germania, ha abitato a Belgrado per molti anni prima di emigrare a “Rovigno” città istriana croato-italiana, all’epoca della guerra serbo-croato-bosniaco-montenegrina. Si troverebbe più difficilmente uno scrittore più europeo di lui. In un momento in cui i nazionalismi vogliono a ogni costo imporre il concetto di patria, lui si professa senza patria.”
È un esilio spontaneo ma necessario quello di Ćosić come di colui che ha perso il terreno sotto i piedi, quello del suo paese, la ex Jugoslavia risucchiata nel buco nero della storia. Il processo è stato violento, doloroso e il vessillo della morte sventola sulle sessanta poesie raccolte in questo libro. La morte fisica di un’intera nazione per disintegrazione identitaria e quella degli amici o dei grandi poeti che ormai è possibile   incontrare “in queste sue passeggiate…in fondo ai cimiteri”: È tutto il giorno che tasto il pavimento / cercando sotto la tavola il buco / dov’è finita la vita dell’amico / millecinquecento chilometri / più a sud…”
Dopo la dissoluzione della federazione jugoslava la lingua diventa lo strumento principale della nazionalizzazione generando situazioni paradossali come quella di chi, ormai straniero nel proprio paese, ne sperimenta la data di scadenza: Con un decreto speciale / è stata abolita la lingua del mio paese / sostituita da una nuova / tutto quello che finora avevo scritto / si considera non tradotto.
La narrazione poetica sembra adottare lo stile dell’assenza, quella “parola trasparente e “impassibile” inaugurata dallo straniero di Camus, una scrittura neutra che sgombra la pagina da ogni rivestimento estetico accessorio, da ornamenti, rovine, miti formali del linguaggio letterario novecentesco. “Se la scrittura è veramente neutra, se il linguaggio, invece di essere un atto ingombrante e indomabile, raggiunge lo stato di un’equazione pura, sottile come un’algebra davanti alla futilità dell’uomo, allora la Letteratura è vinta, la problematica umana è scoperta e rivelata senza colori, lo scrittore è per sempre un uomo onesto”, l’utopia della scrittura immacolata avanzata da Roland Barthes pare spostare il baricentro della riflessione  sull’aspetto morale, sulla funzione sociale della forma e sulla inevitabile “responsabilità che l’artista assume scegliendola”.
Questa forte tensione all’onestà informa tutto il libro. La poesia deve riprendere le misure, controllare e tarare la strumentazione nel grande arsenale retorico e letterario per ricalibrare la lingua attraverso il confronto con la società. Un tipo di scrittura da referto medico-legale, vicina al gergo giornalistico, che ha messo al bando con gli aggettivi qualificativi ogni intenzione estetico-formale e sposta il baricentro della riflessione dalla problematica estetica “senza contenuto” all’autenticità dell’Erlebnis: questo richiedono le contingenze drammatiche dei nostri giorni, sembra dirci Bora Ćosić.  
Un riposizionamento del punto di vista soggettivo, la morte della “persona metaforica” affinché il discorso poetico esca dal pantano della celebrazione nichilista del proprio oblio: Come se invece di un’enorme albero dell’Amazzonia /arrivassero a Amburgo /per esigenze di costruzione /solo le sue misure.
In questi testi selezionati, vere e proprie meditazioni su modi e ruoli del poeta di oggi, sembra superata quella lacerazione della coscienza che affligge l’artista moderno impegnato nella ricerca formale di un proprio principio artistico assoluto. Per Ćosić bisogna ricominciare a scrivere con il metodo che usava Mandel’štam nella sua cella (o Dante nel suo esilio e Campanella nella fossa del Camerone, potremmo aggiungere) e cioè poetare, “poietare” nel senso di produrre, dall’incandescenza della Storia usando il metodo di raffreddamento del pensiero.
Gli strali a qualche famoso collega burocrate della poesia, gigante del minimalismo che sa tutto di “cosa succede in quelle stanzette” evidenziano i rischi di degenerazione nell’estetismo (o inestetismo anestetico) inautentico:

.

IL GIGANTE

Un grande poeta del mio paese
ha una statura che arriva al quarto piano
è per questo che sa
cosa succede in quelle stanzette
tra le ragazze in soffitta
e nel letto del malato
nello stesso corridoio
lui è capace di deviare tutto il fiume
dal suo letto
di sollevarlo sopra i suoi occhi
come una radice
di osservarlo accuratamente
e rimetterlo al suo posto
adesso siamo in guerra
senza sapere perché
lo vedo seduto tra gli assassini
allo stesso tavolo
chissà come ha fatto a mettercisi
forse si è rimpicciolito nel frattempo
forse ha dimenticato
come aveva trattato il fiume
che oggi è ghiacciato
perché non se ne serve
come di una mazza.

“Bora Ćosić costituisce, forse, uno degli ultimi legami fra quelle letterature serba e croata che oggi preferiscono ignorarsi.”: le parole di Matvejević siglano con nostalgia un fallimento civile e culturale.

*
Bora Cosic Berlino Immagine

.

LE MISURE

Adesso capisco Osip Mandeljštam
quando privo di matita
sceglie le parole russe
fissando il soffitto
dal suo giaciglio in carcere.
Perché la poesia non deve essere scritta
mentre sta dietro alle mie spalle
all’angolo della via Gervinus
come uno sbirro, come Rogožin, come la peste.
Lì nel prato vicino
cerco di scavare una piccola tomba
per l’amico
morto straniero nel proprio paese.
Si tratta di una fossa angusta
dove c’è posto solo per il piccolo pezzo
di quella creatura morta
che è toccato a me.
Come se invece di un’enorme albero dell’Amazzonia
arrivassero a Amburgo
per esigenze di costruzione
solo le sue misure.

.
IL LETAMAIO

Io non so fino a dove si estende
una poesia
forse sono ancora disteso
nella frase di ieri
sto tastando intorno con la mano
solo cose taglienti e pericolose
lucchetti ghiaia viti e latta
il basamento di un letto
arrugginito nel basso fondale
del Mar Caspio
attraverso il materasso si sta infiltrando
la rotaia di una ferrovia siciliana
abbandonata
il guanciale facilmente marcisce
in quel letamaio
di Pomerania
il mio mondo è affondato
capisco mia sorella
che talora non ha voglia di alzarsi
anch’io avevo un amico poeta
che si è impiccato
nel bosco vicino a Zagabria
e una ragazza che è saltata giù dal ponte
non farò nessuna sciocchezza
chiedo solo molte spiegazioni fino a quando il quartiere di Kaslshost
sembrerà un cane bastonato
lasciato a crepare
non cedo né alla scalinata né alla via
di Belgrado
trasformata in porcile
sarebbe stupido dare tutta la colpa
alla stagione
che è oggi al potere
ho un piccolo motivo.

 

Bora Cosic 1

Bora Cosic

ESSERE E TEMPO

Non c’è molta realtà
nei nostri appartamenti
l’avvenimento
si è già svolto
prima
come quando arriva
una lettera d’oltreoceano
dalla quale fuoriesce
un tempo passato remoto

nell’angolo opposto della stanza
il mio inevitabile futuro
bisogna pagare i conti
andare all’assicurazione
vedere una buona volta quella gente
tutti i vari compiti ricevuti da Husserl

solo nel mezzo
là dov’è il tappeto
c’è un po’ del tempo presente
che non si può dimostrare
un casuale raggio di sole
caduto chissà da dove
sparito
come le promesse fatte a Kafka
e poi mancate.

.
IL SOGGETTO

Un eroico agente segreto
ridotto all’assurdo
in seguito al nuovo ordine di potere
continua a camminare in quel film
come se la città fosse ancora divisa
non parla con nessuno
osserva le cose con la coda dell’occhio
ogni tanto entra in una cabina telefonica
per farsi vivo con il suo capo
e questo è tutto
lui stesso è il suo soggetto
cortese abile competente
un po’ solitario

Così anch’io mi guardo attorno
raccolgo i dati
del mio essere
come se si trovassero sulle facciate
ricompongo l’intreccio il complotto
il contenuto del mio dramma
con la tecnica del monologo muto
quando è stato eretto questo piano
questo assomiglia a Bruno Ganz
anzi è proprio Bruno Ganz
dai giornali vengo a sapere della morte dell’amico
tutto nel mondo solo al mondo
mi sto rotolando lungo il Kurfurstendamm
cannoneggiato dalla grande Berta
delle mie intenzioni
senza rumore
concepisco questa storia.

.
DUE POESIE SULLA TRADUZIONE

1.

Quel taxi americano
sul quale è salito il poeta
Charles Simić
con la sua invisibile figlia
non è lo stesso
della traduzione di Enzensberger.
La differenza sta
nel tipo di traffico
nella larghezza delle strade
e nella grammatica.
Perché ogni veicolo
che attraversa l’Oceano della lingua
ha un passeggero nuovo
con idee mai viste prima.

Così ricevo dal mio paese le notizie
sulla mia scomparsa
come dopo l’affondamento di una nave.

Perciò mi attengo alla traduzione libera
grazie alla quale
cammino ancora per Berlino.

2.

Alla stazione Zoo
portando una borsa leggera
compro un giornale
cerco lo scompartimento
nel treno per Dresda
come una pallina
che cerca la casella
nel Flipper.

Mezzo secolo fa
gli occhi dei bambini nei Balcani
si rallegravano
all’incendio di quella città.
Poi è avvenuto il cambiamento
come quando una barca
entrando nel canale nel livello più basso del fiume
scopre una nuova uscita
con l’aiuto di un argano
e di altri sapienti congegni.
Dopo di che lo sappiamo:
a Dresda è stato commesso un crimine.

.
ČECHOV

E io signori miei leggo molto Čechov
nei miei vasti possedimenti
di due stanze in via Sybel Charlottenburg
mi sembra strano di non essere finito
nelle grinfie dei creditori
sono solo moderatamente malinconico
tenendo presente la mia sorte
abbastanza russa non sono epilettico
non ho duellato con nessuno
mi aggiro per Berlino
come se fosse la steppa siberiana
osservo la gente
come se fossi in treno verso Tula
poi scrivo qualcosa
su questi argomenti
per un quotidiano berlinese
dicono che pubblicheranno ma sono molto stupiti
di fronte a questo modo di scrivere
cos’ero prima
c’era qualche storiella lirica
sì c’era
ma questa persona metaforica
è morta
il giardino dei ciliegi l’abbiamo venduto
i compratori l’hanno abbattuto.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

.
Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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