
Marie Laure Colasson, Astratto, Struttura dissipativa
Giorgio Linguaglossa
L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua, La poesia oggi non può essere che fondazione del nulla
Il poeta è quell’ente che sta a metà tra il linguaggio e mondo. Linguaggio e mondo stanno uno di fronte all’altro ma sarebbero muti se non ci fosse l’esserci che assicura la dicibilità. L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua.
La poesia oggi non può essere che fondazionale, magari fonda il nulla, come avviene nella nuova ontologia estetica, ma è inevitabile che fondi il nulla, perché appena parteggia per una parte diventa discorso positivo e così si scava la fossa. Per sopravvivere la nuova poesia deve sfidare il nulla a farsi dappresso, a farsi avanti. E questo penso sia chiaro leggendo le poesie sopra postate, tutte hanno cessato di cercare un terreno stabile come poteva essere la poesia neoverista di Pagliarani con La ragazza Carla (1960) o sperimentale con Laborintus (1956) di Sanguineti o impegnata come Le ceneri di Gramsci di Pasolini (1957) o Composita solvantur (1995) di Franco Fortini. Quella è stata una gloriosa tradizione fondata su un discorso positivo assertorio, adesso, mutate le condizioni del mondo, l’unica positività che spetta di mettere in atto in una poesia è la «positività» del nulla.
La poesia italiana che è seguita all’ultima opera di Fortini non mi sembra che abbia mutato la direzione del percorso di un discorso positivo e positivizzante che oggi non ha più senso proseguire…
Da questo punto di vista la nuova ontologia estetica prende le distanze da tutta la poesia della tradizione del novecento.
Scrive Giorgio Agamben:
«L’essere è una pura esigenza fra il linguaggio e il mondo. La cosa esige la propria dicibilità, e questa dicibilità è l’inteso della parola».1
1 G. Agamben L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014, p. 220

La poesia oggi non può essere che fondazionale, magari fonda il nulla…
Francesco Paolo Intini
Passo su sgabello
Servono ventose e becco di polpo. Capacità predatoria.
Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde.
La Luna schiaccia una clinica a notte.
Kubrick in una civetta.
C’è un retaggio platonico. La Scolastica intera.
Una serpe aspetta il topo.
Colline e lagune del mimetismo.
Si odono lumache. Il petto lacrima dolcemente.
Il venditore elenca i vantaggi della discesa.
Si berrà Mc Carthy al Colosseo.
Dopotutto il centro della galassia divora Dei.
Aggancio di vipera su topo.
Se non pensa, che pensa la Scienza?
Il Tempo muore, l’Energia è zero Kelvin
Stravrogin fa un passo da gigante.
Matrëša su uno sgabello.
La V tace e non c’è mai stata.
Gino Rago
Una e-mail di A. C. (lungo le onde hertziane della eternità)
Gentile Signor G.
Ricordo la Sua domanda
fatta a nome di Zbigniew Herbert:
«Dove passerà l’eternità?»
Avevo in me la risposta nel magma,
ma ero ancora di terra sulla terra.
Ora possiedo la risposta:
passo già l’eternità con Tiresia,
cieco lui, non vedente io.
Mi creda Signor G.
Tiresia e io qui non siamo mai soli.
Seneca, Omero e Sofocle
Appena dopo il mio arrivo erano con noi.
Subito dopo Dante, Virginia Woolf e Borges.
Da poco sono andati vita
T.S. Eliot, Apollinaire, Primo Levi e Pound.
Per domani hanno annunciato la presenza
Woody Allen, i Genesis e Pasolini.
Ma senza vista, compiutamente donna
compiutamente uomo
Tiresia non è interessato ai loro films…
Giorgio Linguaglossa
«Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde.» (Francesco Paolo Intini)
Chiedersi che cosa significhi una verso siffatto è come quella bambina che nel museo di Picasso a Barcellona, di fronte a un quadro di una signora con un occhio sopra e uno sotto il mento e il naso al posto delle orecchie etc. di Picasso, si chiedeva: «mamma ma l’autore del quadro è diventato pazzo?».
È esattamente così. Porsi davanti ad una poesia della nuova ontologia estetica ricercandone un senso e un significato già noto e consolidato, equivale a porsi davanti ad un quadro di Picasso ricercando in esso la sintassi pittorica di Tiziano o di Rembrandt o di Vermeer. Nei versi di Francesco Paolo Intini, o in quelli di Marina Petrillo e degli altri poeti nuovi non c’è nulla che possa rimandare alla poesia di un Pasolini, di un Fortini e neanche di un Sanguineti, è cambiato il «modo», oltre che il mondo, cioè il linguaggio, e questo nuovo linguaggio richiede nuove categorie di pensiero, richiede un nuovo «modus».
Recentemente, un autore mi ha scritto in una email che io elogio ed esalto poeti mediocri mentre denigro e devaluto poeti veri. Dal suo punto di vista è comprensibile, capisco la sua obiezione. Ma il mio sforzo di ricerca ermeneutica è proprio quello di cercare nuove categorie di interpretazione di un fenomeno nuovo qual è la nuova poesia italiana, la poesia della nobile tradizione che arriva fino a Composita solvantur (1995) di Fortini non mi interessa più di tanto, il mio interesse si concentra sulla nuova poesia. Penso che ciò sia legittimo. Quella è ormai la tradizione del novecento e il miglior modo per rivitalizzarla e farla rivivere è fare della archeologia, recuperare e riposizionare all’interno della nuova poesia quella tradizione, non avrebbe senso continuare a versificare come hanno versificato i poeti della tradizione recente e meno recente.
Quanto alla questione della «ontologia» qualcuno mi ha rivolto la critica secondo cui noi continuiamo a pensare l’ontologia come discorso sulla «sostanza». Ebbene, mi permetto di ribaltare questa critica nel suo contrario: sono proprio i conservatori a pensare e a scrivere secondo il concetto di una ontologia come «sostanza», io infatti ho parlato a più riprese di «ontologia meta stabile», proprio per segnalare che l’ontologia di cui trattiamo non è quella «sostanza» stabile che costituisce il mondo, quanto una «esigenza», un modus…
Scrive Giorgio Agamben:
«Nella formula che esprime il tema dell’ontologia: on he on, ens qua ens “l’essere come essere” il pensiero si è soffermato sul primo ens (l’esistenza, che qualcosa sia) e sul secondo (l’essenza, che cos’è qualcosa) e ha lasciato impensato il termine medio, il qua, il “come”. Il luogo proprio del modo è in questo “come”. L’essere, che è qui in questione, non è né il quod est né il quid est, né un “che è” né un “che cosa”, ma un come. Questo come originario è la fonte delle modificazioni (“come” deriva etimologicamente da quo-modo) Restituire l’essere al suo come significa restituirlo alla sua com-moditas, cioè alla sua giusta misura, al suo ritmo e al suo agio (commodus, che in latino è tanto un aggettivo che un nome proprio, ha precisamente questi significati, e commoditas membrorum designa l’armonica proporzione delle membra). Uno dei significati fondamentali di “modo”, è infatti, quello, musicale, di ritmo, giusta modulazione (modificare significa, in latino, modulare armonicamente: è in questo senso che abbiamo detto che il “come” dell’essere è la fonte delle modificazioni).
Benveniste ha mostrato che “ritmo” (rytmos) è un termine tecnico della filosofia presocratica che designa la forma non nella sua fissità (per questa, il greco usa di preferenza il termine schema), ma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile e fluido.»1
1 G, Agamben L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014 pp. 223,4
Marina Petrillo
Esiste un paradigma della mente che apre il suo vanto ai “mediocri”. Così straluna il tempo, assottigliato nel suo vestito migliore.
Non affonda l’egoico sarcasmo nell’inchiostro, l’anchilosare dei perduti giorni. Chi scrisse il non scritto in nuovo Logos… a quale ultima Poesia appartenere se il giudizio “priva del vaso senza perdere alcun fiore” .
“Nell’aria un uccello infelice. Cadendo diventa un piccolo peccato. O un flauto celeste, troppo sottile”. Non ascoltabile da tutti.
Scrive Paul Celan:
“La poesia, in virtù della sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera.
Insegna a comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità;
invita alla fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro,
anche là dove questi si manifesta come deforme e con il naso adunco…”
Ringrazio Giorgio , il sensibile Gino Rago per la sua citazione, la complessità e meraviglia resa da ogni poeta. Continua a leggere
TRE POESIE di Valerio Magrelli da Il sangue amaro (Einaudi, 2014) con due Commenti di Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa su “L’Ombra delle Parole”
Alfredo de Palchi
Scrive Alfredo De Palchi nel Commento del 7 ottobre 2014:
Sembra si sia esaurita la critica sul problema della raccolta “Il sangue amaro” e della persona civile di Valerio Magrelli. La mia opinione sui commenti degli interlocutori mi fa dire che l’insieme è riuscito un disastro,
i rari commenti seri di due tre interlocutori non salvano la vitriolica atmosfera del blog. D’accordo, si è liberi di parlare pacatamente, gridare, insultare, averi dissensi, etc. etc., ma non in maniera incivile anche tra interlocutori, io incluso. Dopo aver approfittato della mia libertà, mi trovo veramente commosso davanti a un ragazzo ventenne, Valerio Gaio Pedini. Alla sua età e alla mia età si esagera tutto, sia nel bene che nel male, ma coloro che si trovano nello spazio tra Valerio Gaio e ADP dovrebbero insegnare che ci sono migliori posizioni per giudicare il bene o il male di un’opera e della personalità dell’autore. A ventanni e a ottantanni si è mentalmente ragazzi, si giudica bianco o nero, le vie di mezzo le crediamo borghesi, e indubbiamente lo sono, però più accettabili. . . Purtroppo, Valerio Gaio, è così, e i tipi delle nostre età vengono definiti esaltati.
Lei ha espresso la sua opinione contraria di esaltato su “Il sangue amaro” di Valerio Magrelli, io ho espresso la mia favorevole di esaltato. Tuttavia le assicuro che le nostre opposte posizioni di giudizio non sono meno oneste delle posizioni di mezzo espresse meglio e professionalmente. Per me, chiudo soddisfatto di aver elogiato l’opera di Magrelli. Lei, Valerio Gaio, pensi e scriva quello che vuole, ma quando avrà completa fiducia in sé stesso sarà migliore e sicuro. Importantissimo. Ci sentiremo altrove.
Saluti a tutte e a tutti.
(Alfredo De Palchi)
Alfredo de Palchi
Risposta di Giorgio Linguaglossa, Commento del 7 ottobre 2014:
Caro Alfredo De Palchi,
Rendo omaggio al grande poeta Alfredo De Palchi, alla tua nota generosità e prendo atto della tua tesi in favore della poesia di Magrelli, ma non posso non dissentire dalle tue argomentazioni. Per quanto riguarda «la vetriolica atmosfera del blog» nei riguardi della poesia di Valerio Magrelli, questo convalida il fatto che ormai il blog è rimasto l’unico avamposto del pensiero libero in Italia. Il blog è libero, chiunque può inserire i propri commenti (purché non offensivi) con piena libertà di esporre le proprie tesi nel modo ritenuto più idoneo. Non c’è nessun controllo, né preventivo né successivo, e questo credo è un fatto che tutti possono verificare. Al contrario, scorrendo nei vari blog le recensioni al libro di Magrelli, ho notato un coro unanime di lodi sperticate come se fossimo davanti al capolavoro della poesia della Terza Repubblica. Purtroppo, la verità è un’altra: è un libro della «vecchia republica», certo è scritto da un professionista della scrittura, uno scrittore che, almeno, sa scrivere. Però va anche detto che si tratta di una scrittura facile. Innanzitutto, potremmo togliere tutti gli a-capo delle sue poesie e ne verrebbero fuori dei testi narrativi forse addirittura migliori. Cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che è una scrittura in prosa con degli a-capo. Dirò di più: non è poesia ma finta-poesia; è prosa travestita da poesia. Ormai ho un occhio e un orecchio troppo smaliziato per non accorgermi di questi trucchi. Ma dirò di più, la poesia di Il sangue amaro pesca nella superficie dei luoghi comuni che tutti frequentiamo: il padre che ha avuto una vita difficile, il figlio, il seno rifatto di Nicole Minetti, la fobia per il “sesso”, “le gocce” prese per profilassi, il Pin, il Puk, l’Irpef, l’Irak, l’Urar, etc. Troppo facile direi. Si può fare questo tipo di poesia all’infinito, è una procedura serializzata che serializza e socializza i luoghi comuni alla maniera che tutti li possano condividere.
Dal punto di vista sociologico ritengo che la poesia di Magrelli sia lo specchio fedele dell’Italia di oggi, con le sue miserie, le sue meschinità, i suoi egoismi, i suoi piccoli e vanitosi narcisismi, gli esibizionismi dell’io esposti in bacheca, etc. Specchio e nulla di più. Per di più espresso con un linguaggio in prosa arricchito di calembours e, qua e là, con giochi di parole. Non mi sembra il caso di gridare al capolavoro, anzi, mi sembra un lavoro furbo, che ammicca alla complicità del lettore, ai tic e agli inciampi che l’esistenza degli italiani incontra con la burocrazia di ogni giorno.
La poesia di Magrelli è lo specchio e, al tempo stesso, un tassello, della mediocrità generalizzata del nostro Paese, delle mancate riforme non fatte negli ultimi 30, anzi 40 anni. In questi ultimi 30, 40 anni il Paese è andato indietro in tutti i campi, non si è investito nella ricerca, non si è investito sulla scuola, le università sono dei Palazzi d’inverno dove regna il rigore del grigio. La politica è rimasta ferma a difendere gli interessi della classe politica. Così il Paese è rimasto fermo durante 30, 40 inverni. L’omologia e il conformismo culturale che hanno invaso il nostro Paese li ritroviamo tali e quali nella poesia de Il sangue amaro, senza alcuna distinzione; direi che questo è il l’elemento di gravità che emerge dalla lettura di questo libro. La poesia di Magrelli è appena un tassello della medietà generalizzata del sistema Paese e della sua incapacità a rinnovarsi e di ritrovarsi. Ecco altre due poesie ammiccanti del libro:
Le nozze chimiche
Queste che prendo gocce
con tanta religiosa compunzione
sono i miei testimoni
per le nozze col mondo.
Soltanto grazie a loro posso stringere
un patto d’amore col mondo,
perché solo con loro reggo l’urto
della sua illimitata ostilità.
Elmo fatato: mio padre non lo aveva
e morì, prima ancora di morire,
incredulo, indifeso ed indignato,
sotto i colpi del mondo.
Sul circuito sanguigno
È come nel sistema circolatorio:
il sangue è sempre lo stesso,
ma prima va, poi viene.
Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza,
la vena che riporta
il dono delle arterie alla partenza.
Da notare il patetico dell’ultima strofa della prima poesia, dove si accenna alla morte del “padre” perché non aveva “l’elmo fatato” che avrebbe potuto proteggerlo. Ma, caro Magrelli, gli elmi fatati esistono solo nelle fiabe! (anche mio padre è morto “sotto i colpi del mondo” dopo una vita di duro lavoro; anche altri mille migliaia di padri di altre persone sono morte “sotto i duri colpi del mondo! perché non avevano “l’elmo fatato”). Mi fermo qui. Non posso fare a meno però di sottolineare l’intreccio di patetismo e di buonismo di questo finale che vorrebbe astutamente intenerire il lettore per adescarlo nel dramma tutto intimo familistico dell’autore, ma in realtà posticcio. Beh, direi troppo facile, no?, troppo corrivo e scontato:
Elmo fatato: mio padre non lo aveva
e morì, prima ancora di morire,
incredulo, indifeso ed indignato,
sotto i colpi del mondo.
Ma arriviamo al “capolavoro” del libro, la poesia sulla figura di Nicole Minetti:
L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
Cari amici lettori: una serie di luoghi comuni elencati ad effetto, uno dopo l’altro, senza tema di apparire, quanto meno fuori luogo o sopra le righe, una ironia scontata applicata ad un personaggio dei media fin troppo facile da colpire e, infine, il finale sessuofobico nei confronti della bellezza (se pur corretta dal bisturi) femminile. Anche qui, un finale facile per accalappiare il consenso del lettore sessuofobico e conformista. Mi sembra davvero troppo (mi correggo, troppo poco) per incoronare Magrelli come il più grande poeta degli ultimi trent’anni.
(Giorgio Linguaglossa)
Valerio Magrelli
Valerio Magrelli è nato a Roma, dove vive, nel 1957. È professore ordinario di letteratura francese all’Università di Cassino. Tra i suoi lavori critici Profilo del Dada (Lucarini 1990; Laterza 2006), La casa del pensiero. Introduzione a Joseph Joubert (Pacini 1995, 2006), Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry (Einaudi 2002; l’Harmattan 2005) e Nero sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire (Laterza 2010). Collabora a «la Repubblica». Il suo primo libro di poesia, Ora serrata retinæ, esce da Feltrinelli nel 1980 (ed è raccolto, insieme ai successivi Nature e venature dell’87 ed Esercizi di tiptologia del ’92, in Poesie (1980-1992) e altre poesie, Einaudi 1996); gli ultimi – Didascalie per la lettura di un giornale del ’99, del 2006 e Il sangue amaro del 2014 – sono usciti da Einaudi. Nel 2002 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il Premio Feltrinelli per la poesia italiana. Al suo attivo anche quattro libri di prose: Nel condominio di carne (Einaudi Stile Libero 2003), La vicevita. Treni e viaggi in treno («Contromano» Laterza 2009), Addio al calcio. Novanta racconti da un minuto (Einaudi 2010) e Geologia di un padre (Einaudi 2013; Premio «Stephen Dedalus», Premio Bagutta, Premio SuperMondello, finalista al Premio Campiello). Tra gli altri libri, Che cos’è la poesia? (Sossella 2005, libro e cd; Giunti 2014), Sopralluoghi (Fazi 2006, libro e dvd), Il violino di Frankenstein. Scritti per e sulla musica («fuoriformato» Le Lettere 2010, prefazione di Guido Barbieri, postfazione di Gabriele Pedullà), il pamphlet politico in forma teatrale Il Sessantotto realizzato da Mediaset. Un Dialogo agli Inferi (Einaudi 2011) e il saggio Magica e velenosa. Roma nel racconto degli scrittori stranieri (Laterza 2012).
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