Il «Sistema-Poesia» non è riformabile
E adesso non resta da fare altro che ricominciare da zero.
Faccio copia e incolla dei miei interventi sulla vexata quaestio della paventata «chiusura» della collana de “Lo Specchio” Mondadori apparsi sul blog lombradelleparole.wordpress.com di inizio agosto 2015.
https://lombradelleparole.wordpress.com/…/giorgio…/
31 luglio 2015 alle 10:42
La vera questione
La vera questione (che investe anche la poesia in dialetto) non è quella del rapporto fra gli idioletti della comunicazione mediatica e la lingua strumentale della comunicazione relazionale, ma quella del rapporto tra il linguaggio poetico e i linguaggi della comunicazione mediatica. Ma già parlare di «linguaggi» è un pescare nelle profondità della superficie. Oggi i «linguaggi» (anche quelli letterari) tendono a dis-locarsi sul piano della superficie superficiaria (infinita, senza limiti) propria della società mediatica. Oggi il problema non è solo quello del rapporto tra la lingua nazionale e le massime lingue di cultura (come ipotizzava Franco Fortini), in quanto anche le lingue di cultura internazionali tendono a superficializzarsi in una super lingua della superficie internazionale.
Resta valido però ancora oggi quello che scriveva Franco Fortini nel 1976:
«In corrispondenza ad un irrigidimento della società in caste (maschera delle classi), il cosiddetto “italiano” o è una sottospecie dell’inglese che serve alla comunicazione dei potenti, dei sapienti, degli eminenti, dei borsisti, degli specialisti, dei registi, ecc. o è esso stesso un dialetto, la lingua d’uso destinata alla comunicazione pragmatica e affettiva. In questo senso i dialetti tradizionalmente intesi ritrovano tutta la loro legittimità: se consideriamo l’Italia una grande Manhattan, nei dialetti tradizionali vi sono linguaggi delle sottoculture, mentre l’italiano della comunicazione corrente (parlata o letteraria) è il linguaggio della sottocultura complessiva peninsulare e, al di sopra, sta l’italiano ufficiale, amministrativo, scientifico o specialistico, che è l’inglese o russo tradotto o traducibile; non a livello linguistico ma a livello morale e culturale. Per questo i dialetti, in quanto superstiti, sono “figura” dell’italiano, che già fin da ora è una lingua superstite. Non corrisponde a nulla di autonomo. Che Volponi scriva in (ottimo) italiano invece che in castigliano è un puro caso geografico».
Se prendiamo invece in esame i testi di tre poetesse laterali al circuito della grande editoria ma di sicuro valore: Maria Rosaria Madonna (Stige – 1992, libro uscito postumo, adesso in Stige. Tutte le poesie, Progetto Cultura, 2020, pp. 150, 12), Giorgia Stecher (Altre foto per album– 1996, adesso in Altre foto per album. Tutte le poesie 1972-1996 – Progetto Cultura, pp. 320 18), Anna Ventura (Antologia Tu Quoque (Poesie 1978-2013) del 2014, in questi libri ci accorgiamo che ciò che frigge, non solo semanticamente, sono le direzioni poetiche, si tratta di una scelta di campo: l’attraversare in diagonale il linguaggio poetico ereditato con consapevole intenzionalità litoranea rispetto alla poesia maggioritaria e una diversa tematizzazione della loro poesia. In autori del percorso maggioritario, prendo ad esempio una delle migliori, Antonella Anedda, si percepisce un senso «squisito» e «naturale» del sottostante «effabile», l’«affabile», l’«estatico», il «cromatico»; il tratto elegiaco di violini e violoncelli che esalta il «sublime» o, come nel caso di Jolanda Insana, l’«antisublime» post-sperimentale.
1 agosto 2015 alle 9:08
Compito del critico
Cerchiamo di non spostare l’ordine del discorso sul discorso sull’ordine.
L’ordine va infranto appunto insufflando nei suoi penetralia nuovo e corposo disordine. Questo è il compito del critico. Altrimenti questi si ridurrebbe a suonare il piffero ad ogni incantatore di serpenti. Compito del critico è portare dubbi nel campo dell’argomentazione dell’interlocutore… e poi fare in modo che i dubbi camminino da soli.
Io non pretendo mai di aver ragione, ho le mie ragioni, che è cosa diversa dall’aver ragione. Ho sempre tenuto presente l’aforisma di Adorno nei Minima moralia secondo cui «Nulla si addice meno all’intellettuale che vorrebbe esercitare ciò che un tempo si chiamava filosofia, che dar prova, nella discussione, e perfino – oserei dire – nell’argomentazione, della volontà di aver ragione. La volontà di aver ragione, fin nella sua forma logica più sottile, è espressione di quello spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di dissolvere […] Quando i filosofi, a cui si sa che il silenzio riuscì sempre difficile, si lasciano trascinare in una discussione, dovrebbero parlare in modo da farsi dare sempre torto, ma – nello stesso tempo – di convincere l’avversario della sua non-verità».
Il cerchio ermeneutico delle opinioni maggioritarie gode di una inattaccabilità originaria. È lì il vizio di origine. Allora, l’argomentazione critica dovrà assumere dal cerchio il concetto dell’ordine del discorso da applicare alla normologia del discorso del conformismo.
1 agosto 2015 alle 19:12
Il sistema non è riformabile», almeno in Italia
Il problema è ben più vasto. Da noi non si tratta di un problema specialistico, cioè di tipo letterario, ma è più vasto: per riformare il settore della poesia (produzione, commercializzazione, pubblicizzazione e consumo del prodotto), occorre una riforma non solo di tipo letterario, cambiare un dirigente di collana è appena una goccia nell’acqua, in Italia bisogna cambiare le regole del gioco, le regole di cooptazione, le regole non scritte delle lobbies letteraria e politica, la seconda che sostiene la prima; riscrivere le regole del gioco, spezzare le cinghie di trasmissione che legano i partiti alle lobbies. Quando io parlo di «qualità» che dovrebbe presiedere la valutazione di certe scritture letterarie, cioè quelle che non sono di mero intrattenimento, intendo appunto un universo assiologico istituzionale che adotti quel valore, quel criterio metodologico, non ho in mente un criterio mitico idealistico di delibazione dell’opera “bella”. Occorre soprattutto una riforma della scuola, delle università, della stampa e della televisione, nonché dei mezzi di comunicazione di massa; è un problema gigantesco che attiene a quelle mancate riforme istituzionali e di struttura di cui si parla tanto oggi ma che nessuno dei partiti dell’arco costituzionale ha la minima intenzione di porre in essere. Il problema del settore poesia e narrativa non va visto quindi come un problema specialistico o di comparto, ma è molto più vasto ed attiene al tipo di società che vogliamo costruire, se vogliamo continuare sulla falsariga feudale e coloniale che la politica italiana ha seguito finora, non c’è scampo, la scrittura letteraria e la produzione artistica ne rimarranno condizionate. Tutto ciò mi sembra ovvio. Quindi, il sistema non è riformabile.
2 agosto 2015 alle 11:29
Gli ultimi tre libri di poesia de Lo Specchio
Gli ultimi tre libri di poesia de “Lo Specchio”, quelli di Roberto Dedier, Stefano Dal Bianco e di Franco Buffoni sono scritture professionali, scritture letterarie che adottano un gergo della medietà linguistica, scritture di professori, professionalmente corrette… ma di questo tipo di scritture ne sono capaci almeno un paio di centinaia di persone in Italia. Ad essere seri quindi dovremmo pubblicare nello “Specchio” libri di almeno un paio di centinaia di persone. In realtà, di tratta di libri caudatari. E questa è la dimostrazione del decesso de “Lo Specchio” come strumento di orientamento della produzione poetica. A questo punto che “Lo Specchio” continui a pubblicare gli “amici” e i “sodali” di una ristrettissima cerchia di persone di Milano e di Roma, che significato può avere? Nessuno, rispondo. Che ben venga quindi la chiusura della collana che un tempo lontano pubblicava libri di poesia.
Caro Gianpaolo Mastropasqua, quello di Cucchi e Riccardi non è stato un «errore di politica editoriale», come tu scrivi, o, almeno, non solo. È stata una strategia fatta a tavolino: quella di voler imporre alla poesia italiana del secondo Novecento il marchio di fabbrica di Milano con, in posizione sussidiaria, i romani (Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, etc.) fingendo di dimenticare i romani diversi e di diversa qualità e consistenza come Mario Lunetta (1940-2017), Luigi Manzi (1944-2023) e Carlo Bordini (1938-2018) oltre che Giovanna Sicari (1954-2006) etc, per non parlare dei poeti che romani non erano. L’operazione è culminata con la Antologia curata da Cucchi e Giovanardi (nella quale Giovanardi faceva l’esecutore testamentario del mandato editoriale).
Però, mi viene un dubbio sempre più assillante, ed è questo: è la visione che della poesia hanno i Cucchi e i Riccardi che non è stata all’altezza di recepire e pubblicare la poesia migliore che si è fatta in Italia negli ultimi 40 anni. Questo, penso è stato un loro limite. Era ovvio che fosse soltanto una questione di tempo, a lungo andare, la loro “visione” della poesia italiana si è rivelata sempre più asfittica e conformista, sempre più ristretta, fino alla implosione finale fatta senza neanche il minimo dubbio che il 90% degli autori pubblicati ne “Lo Specchio” fosse di media qualità, intendendo con il termine “medio” che ce ne sono in giro almeno altre duecento persone che scrivono a quel livello letterario. E questo ha portato a un livello sempre più basso delle pubblicazioni. Ed il pubblico è scomparso. A questo punto non ha senso chiudere o no la collana de “Lo Specchio” e quella della collana bianca della Einaudi, in sostanza queste collane hanno già compiuto da tempo il loro compito, non sono più da tempo in grado di individuare i valori poetici e, secondo me, nemmeno ne hanno intenzione. Ed è finita la funzione di «GUIDA» che queste collane hanno avuto nel lontano passato quando al loro timone c’erano persone del calibro di Calvino, Sereni e Raboni, pur con i loro errori.
3 agosto 2015 alle 11:22
Il dito nella piaga e il dito nell’occhio
Caro Gianpaolo,
hai messo il dito nella piaga, la poesia viene letta quando è di livello elevato. Il pubblico della poesia che è andato decrescendo a dismisura in questi ultimi cinque decenni, ha fatto sì che ci fosse una enorme quantità di libri di poesia in circolazione, e spesso anche scritti in un italiano corretto, ma il problema non è che siano ben scritti per essere pubblicati da una collana un tempo prestigiosa, qui dovrebbe intervenire qualcosa di più. Bisognava avere l’accortezza di mettere in piedi una rete di lettori di diverso indirizzo stilistico e di diversa provenienza culturale allo scopo di ottenere responsi anche contraddittori e magari anche conflittuali dai quali trarre le risultanze definitive. Occorrerebbe oggi più che mai mettere in piedi e diffondere un diverso sistema di valutazione dei testi, ampliare i lettori di alta qualità che possano esprimere una convinzione argomentata sui testi, tutto un lavoro che si mette in piedi (e si sarebbe dovuto mettere in piedi) nel corso degli anni per tentare di coinvolgere le migliori intelligenze critiche in circolazione, lavoro che però non si è fatto o che si è fatto affidando il lavoro di vaglio e di selezione dei testi a persone che non avevano i requisiti per svolgere questo lavoro con competenza e affidabilità. Con la conseguenza che si è pensato ad una “scorciatoia”, quella di restringere il campo dei “beneficiati” ad una ristretta cerchia di “amici” e di “sodali” cooptati. Si è trattato di un meccanismo di cooptazione affiliazione che alla lunga si è dimostrato perverso e ha determinato risultati discutibili mentre nel frattempo la crisi del mercato editoriale dei libri si aggravava e la crisi ha prodotto il fall out del sistema Adesso il sistema è imploso.
Oggi non resta da fare altro che ricominciare da zero.
(Giorgio Linguaglossa)
Marie Laure Colasson, Structure, 50×28 cm, acrilico, 2021 – L’arte moderna diventa astratta quando si accorge che non si può più raffigurare l’irrappresentabile, perché la normalità è diventata finalmente rappresentabile in quanto neutra e neutrale, perché la poiesis è diventata decorativa e funzionale alla estetizzazione diffusa e fa da cornice alla immondizia e ai cassonetti dei rifiuti e che non c’è alcun experimentum da fare. Così, non è più possibile oggi fare dei ritratti che non siano kitsch o peggio, il volto umano non è più raffigurabile, così come non è più raffigurabile un paesaggio, con buona pace del zanzottismo e dei suoi fedeli seguaci. L’arte moderna diventa astratta perché ha orrore degli oggetti, che nel frattempo sono stati defenestrati dalla sanità pubblica del buon gusto. Diventa astratta perché ha in orrore la spiritualità posticcia e invereconda delle anime belle… (g.l.)
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https://twitter.com/i/status/1372943861287415813
Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa
Domanda: La «nuova poesia» pone sicuramente la necessità di una «nuova lettura». Lasciamo stare per il momento se questa«nuova lettura» sia proprio quella della «nuova ontologia estetica» o sia qualcosa d’altro. Resta il fatto che la «nuova lettura» implica munirsi di una dotazione intellettuale nuova e diversa, il critico che deve fare una «nuova lettura», deve abbandonare i linguaggi ermeneutici pregressi, deve inventarne di nuovi, di desueti, non riconoscibili. Certo è che una «nuova lettura» della poesia kitchen si deve munire di strumenti «diversi», deve saper pescare nel linguaggio filosofico recente quegli spunti che ti offrano una «nuova visione» della poesia moderna. Quello che è indubbio è che gli strumenti ermeneutici tradizionali non possono aiutarci. Rinnovare il linguaggio ermeneutico (per carità, lasciamo il termine “critico”) è oggi una necessità della «nuova ontologia estetica».
Risposta: Mi dispiace, molti non capiscono il nuovo linguaggio critico, ma è perché i miei commentatori sono rimasti fedeli ad un vocabolario critico un po’ attempato, i più aggiornati, mi riferisco agli addetti ai Cultural studies, non hanno strumenti categoriali idonei a comprendere la nuova poesia, il loro è un vocabolario accademico!
Alcune persone mi hanno chiesto lumi su ciò che intendo per «linguaggio dell’esplicito e dell’implicito». Non credo di essere stato particolarmente astruso. Possiamo considerare implicito un discorso che va per linee esterne ad un oggetto, che dà per scontata la presupposizione cui una risposta sempre reca in sé, anche in modo inconscio.
Domanda: Tu hai scritto:
«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».
E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto, tra gli altri, i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, dell’attualità, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Questo tipo di scrittura che oggi va di moda è la poesia maggioritaria?
Risposta: Interrogare il logos significa che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi «impliciti», il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o non posta. Nella risposta esplicativa l’interlocutore introduce sempre uno smarcamento, una deviazione che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.
La traduzione problematologica diventa nella poesia kitchen una traslazione stilistica. I vecchi concetti di «simmetria» e di «armonia», legati ad un concetto lineare del tempo, vengono sostituiti con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella kitchen invece assistiamo ad un universo sintattico «goniometrico», plurispaziale, pluritemporale, distopico.
Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così diritte e dirette. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.
Domanda: Puoi fare un esempio?
Risposta: Nella poesia kitchen è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzweg), un significato barrato, e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica, una topografia dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito.
La poesia kitchen risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare» dell’io. In questa ricerca eccentrica, spiraliforme, indiretta la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un pluri-spazio che si apre al tempo, anzi, un pluri-spazio fitto di temporalità, un tempo fatto di pluri-spazio, che apre lo spazio, lo svincola dalla sua clausura temporale. È la marca della pluri spazialità quella che appare alla lettura, un pluri-spazio inscindibilmente legato ad una molteplicità di accadimenti.
Per la poesia kitchen il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta che rimanda ad altro, che rinvia ad un altro segno, ad un significato deviato perché non vuole statuire attraverso il discorso assertorio dell’io e della comunicazione. Il discorso poetico kitchen invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia della poetry kitchen abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi appaiono e basta:
la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
(Mauro Pierno)
Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?
Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora, della metonimia, dell’immagine. La metafora e, soprattutto, la metonimia indicano così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metonimia smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia kitchen, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, ad un qualche significato o senso, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non è una glossa, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo, pur se superdissimile e superdistopico.