UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015). Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

EdiLet ha appena pubblicato – dopo “Tutti i Sonetti” di W. Shakespeare – la seconda uscita della collana CLASSICI, diretta dal Prof. Emerico Giachery. Si tratta di una preziosa “Antologia di Sonetti e Poemi” (196 pp., Euro 16) di Luis de Gòngora, tradotti dall’ispanista Luigi Fiorentino (di cui EdiLet ha già riscoperto le poesie, con il volume “Il compiuto discorso”, 2013). L’edizione originaria, ormai introvabile, datava 1970 per i tipi di Ceschina editore, Milano. EdiLet ha provveduto, in collaborazione con la vedova di Fiorentino, Francisca Cruz Rosòn, alla revisione e correzione del testo, che si compone di 32 Sonetti – fra cui il celebre 228Mientras por competir con tu cabello” – e di una nutrita selezione antologica dalla Fàbula de Polifemo y Galatea e dalle Soledades. C’è, ovviamente, il testo a fronte in lingua spagnola. Il paratesto comprende Cronologia, Bibliografia e Note critiche, a cura dello stesso Fiorentino. L’introduzione è di Raffaello Utzeri.

Gongora copertinaArgomentare diffusamente sul barocco letterario spagnolo non sembra indispensabile nel momento in si ripropongono i Sonetos e altri componimenti di Luis de Góngora nella magistrale versione italiana di Luigi Fiorentino, da tempo esaurita nella edizione milanese di Ceschina, datata 1970. Ci sembra infatti che il lavoro del nostro ispanista, accurato e competente quanti altri mai, costituisca per sé una testimonianza di coscienza critica, utile più di un saggio di carattere accademico, completato com’è da un apparato di note in cui ogni osservazione si amplia dal testo al referente poetico generale, il mondo del celeberrimo Autore. La serietà con cui Luigi Fiorentino affronta i problemi del tradurre viene testimoniata già nella sua prima nota: «La traduzione si è sforzata di mantenere la tipica struttura gongorina, conservando dove possibile anche le rime, ma tralasciandole quando per rincorrerle era necessario tradire lo spirito e la lettera dell’originale castigliano o ripiegare su forme arcaiche o termini apocopati».

Nel caso di Góngora, anche una discussione sul significato del barrueco sarebbe piuttosto sterile, dato che don Luis non fu complessivamente barocco, anche se in quello stile, in quella dimensione culturale ed esistenziale fu confinato. Il barocco letterario spagnolo, infatti, si può dire che fu più tipicamente rappresentato da personalità creative distanti e diverse da lui, come M. Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca. In realtà, i suoi confini Góngora li delimitò da sé curando l’eleganza, la precisione, la sonorità, la densità semantica dei suoi componimenti: dire che tutto ciò che è suo sia barocco per definizione sarebbe come voler sottrarre una parte del suo repertorio, soprattutto formale, alla classicità o al classicismo. Si potrebbe infatti audacemente definire Góngora classico per “sostanza” e barocco per “accidente” in quanto visse in, e per, un’epoca in cui le certezze del Rinascimento europeo si stavano lentamente ma decisamente consumando nel manierismo dilagante. Come si sa, il barocco è connotato da insicurezza e incertezza esistenziale. Gli artisti, a contatto con i “poteri forti” venivano per primi interiormente contagiati dall’instabilità politica, economica e sociale che nel secolo diciassettesimo non risparmiò nessun popolo e nessuno stato; poi trasmettevano alla società ragionamenti e valori, dominanti nelle corti e nelle cancellerie, dove conoscevano anche creatività e distruttività. Il Barocco conobbe anche suggestioni emotive. Sul piano psicologico spostava l’attenzione dalla pienezza e stabilità dell’Essere che si manifesta nel molteplice, alla precarietà del mutamento in continuo divenire, che fa apparire il vuoto nei cicli periodici di fenomeni mai uguali a se stessi. La paura del vuoto, quell’ “horror vacui” degli atomi dispersi nell’infinità del cosmo, già ipotizzato in metafora epistemica nel De rerum Natura di Lucrezio, produce il clinamen, la deviazione vorticosa di una reazione caotica: nelle Arti del disegno si manifesta come sovrabbondanza di ornamenti e figure tra linee curve; in poesia riempie la versificazione con sovrabbondanza di aggettivi, iperbati e coloriture. Ma Góngora ne trovò l’antidoto mantenendosi fedele nelle forme, almeno in parte, alla tradizione internazionale.

François Clouet

François Clouet

Lo stesso Traduttore nelle note mette in evidenza quante volte il suo Autore prenda le mosse dal Petrarca e dal Tasso. Ma la prova sovrana dell’italianità di Góngora si trova nella struttura stessa del suo sonetto. Un confronto immediato chiarirà tale affermazione.
La rivoluzione culturale causata dall’imperialismo inglese promosso da Elisabetta Tudor modificò anche alcuni parametri letterari. Una dozzina di anni prima che Góngora nascesse nel 1561, Thomas Whyatt aveva introdotto il sonetto, il cui schema fu poi cambiato abolendo il modulo canonico come segue. Sostituiva il noto schema 2 x AB AB (AB BA) + 2 CDE (o poche varianti) con il seguente: AB AB + CD CD + EF EF + GG: tre quartine con rime indipendenti seguite da un distico a rima baciata. Ecco il sonetto pienamente barocco. Con centocinquanta di questi, W. Shakespeare compose un canzoniere non meno profondo di quello del Petrarca, senza curarsi di essere baroque in inglese come in francese. L’autore barocco non si preoccupa della provenienza della formula, ma la ripropone come sfida nella condizione culturale presente e futura. Tutto questo è anche parte della poetica di Góngora; ma il maggior poeta del “siglo de oro” non prediligeva quella forma ormai troppo connotata come tabernacolo del pensiero laico. Essendo religioso, a ventiquattro anni aveva preso gli ordini minori e a cinquantasei fu prete; forse perciò non volle prestare suoi tabernacoli a quel “modus lascivus” che da secoli la Chiesa disapprovava. Nonostante gli apprezzamenti di Cervantes e Lope de Vega, scrisse pochi sonetti, quasi tutti come formalità occasionali, tra i quali: “Alla nascita di Cristo N.S.”; “Sul sepolcro della Duchessa”; “In morte di Donna Guiomar”; e ancora il capolavoro “Alla memoria della morte e dell’inferno” e il finale “Sulla brevità ingannevole della vita”. Già quei titoli riassumono esaurientemente la precarietà di un mondo “secolare” del quale il poeta voleva ma non poteva godere. Con questa modalità Góngora fu perciò sicuramente barocco, restando però classico nel rispetto del canone del sonetto italiano.

Più di qualsiasi racconto critico può però interessare l’esame comparativo di alcune traduzioni dal medesimo corpus. A questo scopo presentiamo il Sonetto 228 a fronte delle versioni di L. Fiorentino e G. Ungaretti, affiancate da un’altra inedita, equidistante da entrambe, qui offerta dal sottoscritto, a scopo di riferimento linguistico contemporaneo nella riscoperta di Góngora.

Gongora

Gongora

Luis de Góngora, 1582

Mientras por competir con tu cabello,
oro bruñido el Sol relumbra en vano,
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente al lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
de el lucente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fué en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente

no sólo en plata o víola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

Luigi Fiorentino, 1969

Mentre per emulare i tuoi capelli
oro brunito il sole splende invano,
mentre scontrosa guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

mentre gli sguardi per carpirle inseguono
tue labbra più che il primo dei garofani,
e mentre il fine collo con disdegno
del lucente cristallo già trionfa,

collo, capelli, labbra e fronte godano
prima che il vanto dell’età dorata,
oro, giglio, garofano, cristallo,

si muti in viola recisa o in argento,
non solo, ma con esso tu in terra,
e in polvere, in fumo, in ombra, in nulla.
Giuseppe Ungaretti, 1947

Finché dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finché negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finché per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finché più dell’avorio, in allegria
sdegnosa luca il tuo gentile collo,

la bocca, e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio
non in troncata viola solo o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

Raffaello Utzeri, 2013

Finché a competere coi tuoi capelli
risplende, oro brunito, il sole invano
e con dispregio la tua bianca fronte
considera il bel giglio in mezzo al piano,

finché, per coglierlo, ciascun tuo labbro
più che il primo garofano occhi seguono
e il tuo collo gentile in lieto sgarbo
trionfa sullo splendido cristallo,

collo e capelli e labbra e fronte goditi
prima che quel che fu, in tua età dorata,
oro e cristallo splendido e garofano

e giglio, muti in viola sradicata
o argento, e inoltre tu congiunta in quello
in terra, in fumo, polvere, ombra: in nulla.

Sembra quindi superfluo inoltrarsi nelle solite considerazioni critiche di circostanza: i testi parlano da soli, ciascuno trasportando nel tempo la propria datazione, che non coincide precisamente con la sua data. Bisognerà ricordare che tradurre significa non solo amare ma, in parte almeno, anche tradire. Spesso è l’ambivalenza dell’animo umano, che ogni traduttore impersona nell’ambiente che lo informa e lo forma, quella che forse, più della competenza linguistica, determina scelte lessicali e sintagmatiche. Sembra ancora ieri, e in letteratura può essere anche mezzo secolo, quando le traduzioni si dividevano in “brutte fedeli” e “belle infedeli”. Accreditiamo a L. Fiorentino di aver superato quel pregiudizio, ironico ma non troppo, di molti critici suoi contemporanei, grazie alla sua rara competenza sorretta da un equilibrio poetico che lo ha sempre sostenuto.
venezia 4Le due Soledad primera e Soledad segunda del 1613-14 sono poemi quasi lirici ciascuno di quasi mille versi, prevalentemente endecasillabi e settenari. Fiorentino ne ha tradotto meno della metà, privilegiando le parti più significative. L’argomento è piuttosto tenue, un giovane naufrago accolto da un gruppo di pastori è pretesto per divagazioni su temi naturalistici e mitologici. Sono pezzi di bravura per la complessità sintagmatica e la leziosità immaginativa, quasi una sfida dell’intelligenza al codice linguistico.
Molto simile, la Fabula de Polifemo y Galatea contemporanea delle Soledades, ma in ottave ariostesche, cioè di struttura italiana: AB AB AB CC. Anche qui la maestria nella versificazione suscitò ammirazione; il culto del gongorismo fu poi chiamato cultismo. Ma incontrò anche forti resistenze con qualche condanna per la oziosità dei temi e il deprecato modo sensuale nella scrittura di un religioso. Lope de Vega, che aveva lodato i Sonetos, divenne, per onestà intellettuale, un avversario di Góngora: forse anche per questo c’è chi lo antepone a lui come simbolo del secolo d’oro.
L’interesse che suscitano le versioni testuali di Luigi Fiorentino, ciascuna nell’ambito metodologico che il traduttore dichiara, consiste nel fatto che la traduzione non può non essere in sé operazione di esperienza barocca. Nei testi qui presentati, le due lingue sono sorelle, ma non per questo si può fare copia conforme in lingua italiana di una scrittura spagnola. Immaginiamo i risultati di traduzioni da lingue molto distanti dalla nostra, come l’arabo, il giapponese, l’urdu. In questi casi l’unica difesa del traduttore sarebbe produrre una versione più esplicativa che interpretativa: così la “brutta fedele” potrebbe interessare più della “bella infedele”.
Comunque, Goethe sosteneva che la poesia è sempre traducibile. Intendeva dire forse che è anche giustamente tradibile? Teniamo presente questa eventualità, utile almeno in quanto provocatoriamente dissacrante; tutto sommato sembra un’affermazione poco classica, poco romantica, ma forse non poco barocca.

(Raffaello Utzeri)

Luis De Góngora (Cordoba, 11 luglio 1561-Cordoba 23 maggio 1627), poeta e drammaturgo del Siglo de Oro, è il massimo esponente della corrente letteraria conosciuta come “culteranesimo” e, per sua stessa influenza, “gongorismo”. Avviatosi fin da ragazzo alla carriera ecclesiastica (nel 1585 fu nominato economo della cattedrale di Cordoba e prese gli ordini maggiori), ebbe difficoltà con i superiori per la sua attività letteraria: tra i capi d’imputazione con cui l’arcivescovo Pacheco lo accusò di malcostume, c’era anche il fatto di scrivere poesie. Góngora rimase inedito per tutta la vita: le sue opere passavano di mano in mano manoscritte, suscitando polemiche. Era un poeta incontentabile e difficile: aspirava a «fare poco non per molti», elaborando composizioni di alto livello retorico, in equilibrio fra tensioni opposte, irte di concetti e cultismi, di elusioni e allusioni che le rendevano oscuro esercizio per menti erudite, a mo’ di enigmi da decifrare, benché godibilissime sul piano musicale. Con Góngora l’estetica barocca sperimenta le potenzialità multisensoriali e simboliche della parola, aprendosi alla modernità senza rompere i rapporti con la tradizione classica, petrarchesca e classicistica rinascimentale. La novità dell’autore delle Soledades verrà apprezzata pienamente nel ‘900, quando il sentire poetico avrà le giuste affinità per entrarvi in consonanza. Non a caso la cosiddetta generazione del ’27 (Lorca, Guillén, Salinas, Alberti, Alonso, etc.) lo prenderà a modello, riscoprendolo e traducendolo proprio a partire dal terzo centenario della morte.

Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913-Trieste, 2 agosto 1981) è stato scrittore, poeta, saggista e traduttore. Autore di oltre venti opere originali (poesia, narrativa, critica letteraria) e di numerose traduzioni dalla letteratura spagnola e francese (tra cui Gongora, Chenier, Mallarmé, e classici come il Cid), ha suscitato l’interesse critico, fra gli altri, di Francesco Flora, Enrico Falqui, Paul Fort e Juan Ramòn Jimenez. Dopo le esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che lo videro nei panni di ufficiale di artiglieria e di internato I. M. I., si è stabilito a Siena dove, nel 1946, ha fondato la rivista «Ausonia». Ha diretto a Siena la casa editrice Maia e ha insegnato storia della letteratura italiana presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri. Successivamente ha insegnato lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana presso le Università degli Studi di Siena, Arezzo e Trieste. Di Fiorentino nel 2013 per EdiLet è uscita, a cura di Raffaello Utzeri, l’antologia poetica Il compiuto discorso.

11 commenti

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11 risposte a “UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015). Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

  1. sarebbe interessante fare ritradurre in spagnolo le tre versioni per vedere quale delle tre si avvicini di più all’originale

    • Salvatore Martino

      La lunga, interminabile controversia sulla traduzione della poesia in forma chiusa, quella che custodisce gelosamente le cadenze, il ritmo, la musica, il numero delle sillabe. la “quantità” delle parole, che non sarà mai risolta. Il sonetto poi! riversato in altra lingua appartiene ad un brutale tradimento. La lettura migliore per me è ovviamente quella dell’originale magari con l’aiuto di una versione accanto come aiuto. Poi via per noi italiani non dovrebbe essere così complicato leggere lo spagnolo. Non voglio entrare nel merito del barocco o meno di Gòngora, non son in grado di affrontare un discorso filologico, ma conoscendo l’opera di Don Louis azzardo un’ipotesi decisamente barocca. Troverò altri testi nella mia biblioteca che mi sembra avvalorino questa tesi. Salvatore Martino

  2. antonio sagredo

    con un gelato di corvi in mano

    a vittorio, a carmelo e a me stesso
    ————————————————————-

    regressione salentina

    Con un gelato di corvi in mano
    torchiavo con le dita il grumo dolciastro di un mosto,
    sul capo mi ronzava una corona di gerani spennacchiati.
    Crollavano lacrime di cartapesta dai balconi-cipolle,
    giù, come vischiosi incensi.

    Squamata da luci antelucane l’ombra asfittica
    piombata come una bara, scantonava
    per la città falsa e cortese su un carro funebre.

    Nella calura la nera lingua colava gelida pece!

    Schioccavano i nastri viola un grecoro di squillanti: EHI! EHI!
    come un applauso spagnolo!

    Ma dai padiglioni tracimava il tuo pus epatico, bavoso…
    risonava un verde rossastro strisciante di ramarro,
    le bende, come banderuole scosse dal favonio, tra quei letti infetti…

    e brillava… l’afa!

    Scampanava al capezzale delle mie Legioni
    quel verbo cristiano e scellerato che in esilio,
    invano, affossò – il Canto!

    Ma noi brindavamo – io, tu e l’attore – con un nero primitivo,
    i calici svuotati come dopo ogni risurrezione,
    perché la morte fosse onorata dal suo delirio!

    antonio sagredo

    Vermicino, 11 marzo – 4 aprile 2008

    • Salvatore Martino

      Perdonami Antonio ma non riesco proprio ad entrare in questi tuoi versi, nemmeno alla terza lettura. Ritornando un attimo alle traduzioni incontrai anni fa Les fleurs du mal tradotti da Gesualdo Bufalino per i tipi di Mondadori.L’autore aveva mantenuto gli endecasillabi e gli alessandrini del testo originale, le cadenze e le rime collocate al posto giusto, ovviamente cambiando le parole: ebbene a mio giudizio non rimaneva molto della profondità, della grandezza del discorso poetico di Baudelaire. Quanto a Gòngora barocco ho scovato molti testi che avvalorano questa tesi ve ne propongo uno esemplare.

      A LA MEMORIA DE LA MUERTE
      Y DEL INFIERNO

      Urnas plebeyas, tùmulos reales
      penetrad sin temor, memorias mìas,
      por donde ya el verdugo de los dias
      con igual pie dio pasos desiguales.

      Revolved tantas senas de mortales,
      desnudos huesos y cenizas frias,
      a pesar de las vanas, si no pias,
      caras preservaciones orientales.

      Bajad luego el abismo, en cuyos senos,
      blasfeman almas,y en su prisiòn fuerte
      hierros se escuchan siempre, y llanto eterno,

      si quéreis, oh memorias, por lo menos
      con la muerte libraros de la muerte,
      y el infierno vencer con el infierno.

      Scusatemi per l’inesattezza di alcuni accenti, ma non ho qui la possibilità di andare alle correzioni Simbolo. Salvatore Martino

    • gabriele fratini

      Questa sagrediana mi è piaciuta… per il sonetto invece prediligo senz’altro la versione di Ungaretti. Un saluto.

  3. Ivan Pozzoni

    Luis de Góngora y Argote, il mio mito culterano!

  4. Steven Grieco

    La questione di come tradurre un poeta che è notoriamente difficile da tradurre – per i ritmi, la sintassi, soprattutto per i suoi idiomi (che comunque sono quasi sempre intraducibil), o forse per il fatto che la sua stessa lingua appartiene a un altro tempo – è un problema che chiede, reclama, sempre e in ogni caso una soluzione. Soluzione che sarà diversa per ogni poeta, ogni periodo storico.
    Sappiamo per esempio che Pushkin risulta difficilmente traducibile in molte lingue dell’Europa occidentale. Personalmente, io penso che questo sia anche perché Pushkin pensava spesso in francese, e proprio questo rende alcune delle sue poesie più importanti intraducibili: alcuni ritmi fantasma, acune sonorità e inflessioni interne hanno già in qualche modo un suono “straniero”, in questo caso “francese”. Ecco dove sta la difficoltà! Perché non scordiamo che il francese era la lingua internazionale di quel tempo, e quindi già di per sé, almeno in parte, veicolo occulto, trainante per le altre lingue europee (italiano, inglese, tedesco, etc.).
    Eppure Pushkin va tradotto, non c’è niente da fare.
    In genere, l’unico modo è di essere il più flessibili possibile – non insistere con un certo rigore filologico, con un certo criterio traduttivo “perfezionista”, cosa che spesso uccide il poeta – e di riconoscere che talvolta ci sono versi che possono solo essere resi in prosa, e che questa versione servirà unicamente come una sorta di guida al lettore. Ma sarà una guida preziosissima, se ben fatta.
    Ho a casa molti volumi della serie Penguin di poeti europei dei secoli passati, una collana che si faceva negli anni 50-80, e che fornisce una semplice ma accurata traduzione in prosa a pie’ di pagina. Much the best thing, let me tell you. Sono testi perfetti anche oggi, perché costringono il lettore a intuire in un modo o l’altro le sonorità, i ritmi e la struttura dell’originale.
    Ettore Lo Gatto fece infatti anche lui una pubblicazione di versioni in prosa di poesie di Pushkin, che a me sembrano ancora molto belle e leggibili oggi.
    Poi ci sono traduzioni come quella del Divan di Mirza Asadullah Ghalib fatta dallo studioso Ajjaz Ahmad, negli anni 60. Ogni ghazal viene tradotto in base al suo significato letterale, ma vengono anche fornite all’interno dello stesso testo le possibili varianti, e tutte le sfumature. Un lavoro bellissimo, da grande filologo che Ahmad era. Poi Ahmad dette queste pietre grezze a importanti poeti americani di allora, fra cui Merwin, Adrienne Rich e altri, perché ne facessero proprie versioni, libere. L’esperimento è sicuramente interessante, fatto sta che spesso però è proprio la traduzione letterale, grezza di Ahmad che risulta la più convincente, con le sue varianti e possibilità di capire un verso in più di un modo.
    Certo, in quel caso si parla di un salto molto grande – dall’urdu all’inglese. Già per me è stato più facile tradurre Ghalib in italiano, perché l’italiano è più affine alle lingue medio-orientali dell’inglese, e non soltanto per certe regole grammaticali, ma anche perché Dante, in fondo, prese così tanto dalla poesia mistica persiana (“La vita nuova”, esempio lampante), che è poi la stessa linfa che nutre la poesia dei poeti urdu.
    Nel caso di Gongora, visto che le due lingue italiano e spagnolo sono sostanzialmente molto vicine, è bello leggere il grande poeta barocco in traduzioni “letterarie” come ci dà questa edizione Edilet. Certo, mi sarebbe piaciuto leggere qualche altro sonetto i più per capire meglio come le versioni si intrecciano fra di loro.
    Nel campo della traduzione della poesia – arte difficile se non impossibile – bisogna provare di tutto, percorrere tutte le strade.
    Il traduttore di Paul Celan fece una cosa geniale: La “Todesfugue” la tradusse tutta in inglese, poi ritradusse alcuni versi in una sorta di tedesco anglicizzato, pedestre, volgare, stereotipato, espediente che illumina quel testo in modo davvero incredibile e dà al lettore precisi strumenti per capire l’originale “vero”.

  5. Steven Grieco

    Perché una traduzione – ricordiamolo – non deve fare la primadonna, deve piuttosto cercare di illuminare l’originale, deve in qualche modo dare al lettore la possibilità di scavalcare la traduzione stessa, portandolo a “immaginare” l’originale: Questa sì che sarebbe una traduzione ben fatta.

  6. antonio sagredo

    Caro Steven,
    Puskin è stato quasi tutto tradotto in lingua italiana, e bene. Recentemente da Paolo Statuti 32 poesie in maniera esemplare… il volumetto contiene anche una mia presentazione critica. Non si dimentichi l’interesse quasi ossessivo – da sfiorare talvolta una ripulsa – di Tommaso Landolfi; gli studi pubblicati di Ripellino e, ancora inedito il corso monografico che gli dedicò (il cui unico esemplare originale, con centinaia di suoi appunti scritti con pennarelli di vari colori è in mio possesso); la stessa Serena Vitale offre il suo valido contributo, come quello di uno stuolo di slavisti di ottimo livello.
    >>>>> Quanto agli spagnoli… fu il mio primo amore e questo lo si deve alla dominazione aragonese secolare del Salento (piccola parte del suo dominio) … studiai dunque giovanissimo i poeti spagnoli dai barocchi fino a quelli del ‘900 inoltrato (devo affermare che la traduzione del Fiorentino mi pare la più pertinente, quella di Ungaretti la peggiore. Fui combattuto in età adulta fra Gongora e Quevedo, e pur vincendo in me (per varie simpatie e analogie quest’ultimo), ancora oggi non decido… entrambi hanno contribuito parecchio alla mia formazione, a certe mie volute di forma, ecc.
    Per una sorta di destino le prime traduzioni dei miei versi sono state fatte in lingua spagnola da eccellenti poeti spagnoli, e devo dire che mi sembrano più originali che in italiano!
    >>> Non sono menzionati in questo intervento i nomi di traduttori celebri come Macrì e Bodini (salentini entrambi!) e Tentori Montalto che mi divenne amico. (altri nomi ora mi sfuggono).

  7. antonio sagredo

    Dimenticavo…. che devo sottolineare come sono vicini la lingua del barocco boema e quella spagnola… più volte il Ripellino vi ritorna, specie nel secolo scorso sopratutto con F. Halas vi è un ritorno all’antico barocco poi che specie i temi correnti si ripetono come il rapporto vita-morte è affrontato in svariatissime tinte similari, il motivo dello specchio e della rosa, del disfacimento, l’esaltazione di riflessioni metfisiche, il cantare l’oltretomba assume carattere preminente in entrambi i … barocchi.
    Ma non si finisce mai di…

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