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Vincenzo Petronelli: dalla poesia del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen, Due poesie esemplificative di Giorgio Linguaglossa e Francesco De Girolamo, La reificazione dell’archetipo edipico, Le nuove tavole di Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio e Ucraina, acrilici, 80×80 cm, 2024 –

Lucio Mayoor Tosi Paesaggio

Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio, 80×80, acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi Ukraïna! acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi, Ucraina, 80×80, acrilico, 2024

Su una campitura coloristica di radiosa luminosità Lucio Tosi stende i colori quasi senza l’intervento dell’io, del braccio che esegue i comandi della mente, quasi fosse un veggente che disegni un ostentato mare della tranquillità, quasi che un automatismo abbia ordinato qui le macchie, lì le campiture piatte del colore, quasi che tutte queste nuove opere fossero nate già ponderate alla Matisse, nate senza indugio, per partenogenesi, quasi che non conoscessero la reificazione delle parole e dei colori, quasi fossero nate nel mondo di Adamo ed Eva, liberi dal giogo della storia e dal peccato originale. (g.l.)

Vincenzo Petronelli

dalla poesia della fine del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per aver imperniato quest’articolo su di un mio intervento, il che mi onora e mi stimola dunque a recuperare la “sincronia” nei miei interventi sugli articoli dell’Ombra giacché, in questi giorni mi stavo invece soffermando su articoli apparsi nelle settimane precedenti; d’altronde è nella mia indole di antropologo la tendenza a rimanere attardato sulla riva del mare fuori stagione ad osservare da lontano le scie e raccoglierne le suggestioni.
Trovo decisamente interessante e pertinente l’ampliamento di raggio operato da quest’intervento rispetto al mio articolo di partenza, che mi spinge a riflettere su un ulteriore articolazione antropologica.
La lettura del disfacimento del rapporto fra società ed istituzioni nel nostro mondo in chiave psicanalitica e la riconduzione, da tale assunto di base, alla nascita ed alla diffusione nefasta dei populismi e della generale decadenza culturale e politica che affliggono la nostra epoca, è senz’altro stimolante ed è nota la reificazione sociale dell’archetipo edipico, culminante con la pulsione per l’uccisione del padre, che si traduce nei vari momenti distruttivi della storia della nostra civiltà.
Tale assunto, mi conduce ad allargare a mia volta lo spettro ricognitivo, nella direzione di uno dei temi di maggior fascino e profondità sviscerati dagli studi antropologici e cioè quello sulle società matriarcali, riflesso e modello opposto a quello dominante storicamente nella nostra società, da cui deriva la dinamica evidenziata nell’articolo.

Bisogna subito precisare che il dibattito sulle società matriarcali è risultato diversificato nel corso del tempo, poiché l’esistenza storica di comunità basate su di una gestione del potere affidato alle interamente alle donne in ambito europeo – e dunque per estensione in quella che si suole definire civiltà occidentale – non è mai stata realmente comprovata, nonostante fosse stata teorizzata già nel XIX sec. dall’importante opera di Bachofen, “Il matriarcato” del 1861, nella quale viene teorizzato il concetto di ginecocrazia, vale a dire, appunto un modello di gestione della società fondato sulla componente femminile della comunità.

Tale ipotesi si basava sulle testimonianze, provenienti dalla storia delle religioni, dell’esistenza di divinità femminili (le Dee Madri) i cui culti erano diffusi specialmente nel Mar Mediterraneo centro-orientale, simbolicamente identificate con la terra che porta frutti; ipotesi sviluppata anche da altri studiosi, tra i quali una figura chiave nella storia degli studi antropologici, quale James George Frazer, nel suo monumentale “Il ramo d’oro”.

L’età del matriarcato veniva collocata durante la Preistoria, nella fase delle società di cacciatori-raccoglitori in cui le donne sarebbero state investite del ruolo di capi-famiglia, mentre all’uomo sarebbero state demandate le funzioni pratiche di sussistenza: a questo modello comunitario si ispirò Friedrich Engels, teorizzando il comunismo delle origini nel celebre volume “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.

Al di là del dibattito sul matriarcato dei popoli cacciatori-raccoglitori, l’origine del patriarcato viene fatta risalire dagli antropologi al neolitico, momento in cui gli umani smisero di procacciarsi da vivere mediante la raccolta dei frutti della terra e la caccia, sviluppando l’agricoltura e successivamente l’allevamento
Dagli studi di linguistica, si è appurato che l’attività di semina e coltivazione delle piante, sia stato il passaggio culturale che abbia permesso al genere umano di rendersi conto del collegamento causale fra il rapporto sessuale e la gravidanza, determinando la nascita del concetto di genitorialità e la volontà da parte del padre, per assicurarsi il controllo della propria discendenza, di porre la donna sotto il proprio dominio: da qui nasce anche l’istituto del matrimonio.

Al tempo stesso, dagli studi di archeologia, sappiamo essere stata questa l’epoca dell’arrivo dei popoli indoeuropei (fenomeno a sua volta collegato alla nascita dell’agricoltura) ed in particolare l’attività della grande ricercatrice lituana Marija Gimbutas, è stata in grado di mostrare come i popoli pre-indoeuropei fossero caratterizzati da una divisione egualitaria del lavoro sociale, come attestato dal fatto che le tombe in cui venivano seppelliti i componenti di quelle comunità fossero singole, a testimoniare l’assoluta parità dei ruoli all’interno del clan, senza distinzioni gerarchiche fra uomini e donne.

A partire dal XX sec. gli antropologi e gli storici, in relazione alle società europee storiche, hanno preferito parlare non di matriarcato (nel senso che abbiamo visto di ginecocrazia), ma piuttosto di società matrilineari e matrilocali, dove cioè determinati diritti vengono trasmessi tramite le donne e i nuovi sposi si stabiliscono presso i genitori della sposa, ma in cui il potere di gestione rimane nelle mani degli uomini.
Tale slittamento semantico è conseguenza del fatto che l’idea dell’esistenza reale di società matriarcali nella preistoria europea è stata messa fortemente in discussione – rimanendo tuttavia dibattuta – confinandola alla sfera della narrazione mitologica; d’altro canto, le numerose spedizioni etnologiche che in varie aree del mondo (dai Tuareg nord africani, ai Kerala indiani) hanno testimoniato l’esistenza di società organizzate su base ginecocratica, lasciano supporre che effettivamente anche le società occidentali possano aver conosciuto anticamente realtà analoghe.

Indipendentemente da ciò, è assodato che nelle società di cacciatori-raccoglitori (come confermato anche dalle ricerche condotte sul campo presso le popolazioni di questo tipo ancora presenti – in misura sempre più esigua – nel mondo contemporaneo, oltre che dalle ricostruzioni archeologiche), vigesse e viga un pronunciato egualitarismo, tanto rispetto alla suddivisione sessuale del lavoro, quanto dal punto di vista sociale. L’assenza di conflitti interni, si abbina alla mancanza di una cultura bellica, come accertato dall’assenza di armi nelle tombe dei defunti e dalla mancanza di tracce di fortificazioni nelle piante dei villaggi.

Altro elemento caratterizzante tali culture, è la cosiddetta “economia del dono”, cioè una cultura della condivisione, che consente ai propri componenti di non avvertire mai la precarietà e di lavorare meno rispetto ai modelli di società successive che – già a partire da quelle agricole – fondano la propria economia su di un’idea intensiva del lavoro; una visione della conduzione dell’economia divenuta un esempio per gli antropologi economici, a cominciare da Jared Diamond, che teorizzano una diversa e più armoniosa distribuzione delle risorse.

Dunque, indipendentemente dalla matriarcalità siamo senz’altro di fronte a culture dal forte senso estetico, apollinee, in cui il senso del femminile ha un’incidenza evidente in contrapposizione al profilo dionisiaco, guerresco, delle società agricole, che in quanto stanziali, sono condizionate dall’idea del territorio e del suo ampliamento; una cultura dell’accumulazione di potere e di ricchezza che ha poi informato la storia del mondo occidentale ininterrottamente fino ad oggi, costituendo un archetipo che pone tra parentesi il senso dell’estetica e che condiziona tutto, compresa l’arte, per snaturarne il senso eversivo della rappresentazione mimetica.

Così la cultura dell’accumulazione di potere, tramutato in forma di presenzialismo salottiero o di scranno digitale, si impadronisce anche della poesia, svilendola di senso e riducendola ad una rappresentazione autotelica; va da sé che forme di autodifesa del valore di metafora sacra dell’arte hanno sempre continuato ad esistere ed a perpetuarsi, per fortuna, ma nei momenti storici di crisi delle libertà, anche l’arte rischia di essere soffocata e quella che stiamo vivendo è proprio una fase di regime, sospesa tra rigurgiti autoritari ed il suo alter ego travestito da antitesi, il populismo.

Sono proprio questi i momenti in cui la riappropriazione del senso estetico diventa fondamentale in quanto atto rivoluzionario e quindi è improrogabile che la poesia si rimpossessi del suo ruolo critico ed insieme catartico, esattamente come storicamente, nelle parabole decadenti della storia occidentale, è decisiva la capacità di ricreazione del mondo che solo la donna, nel suo ruolo cosmico di donatrice di vita è in grado di esprimere; evidentemente, le due cose sono strettamente collegate poiché il simbolo della poesia è femminile e perciò può esercitare una funzione rigeneratrice insostituibile.
La Poetry Kitchen è appunto l’espressione di tale liberazione, di tale affrancamento dall’impaludamento nel linguaggio del potere ed è pertanto un progetto, una visione di rinascita.

Mi è capitato di rileggere ultimamente una poesia di Giorgio Linguaglossa di qualche anno fa, in una fase ancora embrionale rispetto alla definizione di Poetry Kitchen, ma già emblematica del progetto Nuova Ontologia Estetica e tanto più significativa perché in nuce contiene già i contorni della Poetry Kitchen e la rivela:

Onto Giorgio Linguaglossa.blu

Giorgio Linguaglossa

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del Tramonto, LietoColle, 2006)

Trovo che in questo componimento, sia racchiuso il percorso che dalla fase destrutturante Noe, conduce alla fase palingenetica della Poetry kitchen; da lì in poi, tutta la poesia dello stesso Giorgio, di Franco Intini, di Lucio Tosi, di Mimmo Pugliese e di tutti gli amici del nostro collettivo, sembrano affermare perentoriamente il grido di rivendicazione della poesia: “il corpo (della scrittura) è mio e lo gestisco io!”, premessa indispensabile per liberare la poesia e permetterle di tornare ad incarnare appieno la sua carica libertaria.

giorgio linguaglossa
(25 febbraio 2024 alle 8:09)

Il lavapiatti del Cremlino

Il lavapiatti del Cremlino adesso fa il barbiere
taglia i capelli dei bastardi, applica della brillantina sui loro capelli

Aggiusta le frange e i riccioli dei soldati
Così, è stato promosso al rango di ragioniere

Tiene i conti della banda in ordine, finanzia i progetti per la produzione di carrarmati e di velivoli senza pilota

Asserisce che vuole denazificare l’Europa e altre quisquilie
Così il ragioniere è stato promosso a generale

Adesso comanda un corpo d’armata nel Donbass
Rapisce i bambini con gli occhi azzurri, bombarda le città

e gli elettrodomestici, distribuisce sigarette avvolte nei dollari arrotolati, dichiara che le stelle sono a portata di kalasnikov

E altre quisquilie, che le pallottole sono le caramelle che preferisce e che getterà i gonzi in fondo al mare

Il generale adesso ha altre mire, ma non le dice, attende le mosse del Cremlino, studia la scacchiera, muove qui la Torre,

Qui la Regina, qui il Cavallo…

(24/ 02/2024)

foto francesco de girolamo

Francesco De Girolamo

Ai fuochi azzurri

Sotto il trepido sole degli addii
lo sguardo era il germoglio di una spina,
era una macchia d’ombra porporina
che il vento vorticava in dondolii.
Un che di noi, perduto nella luce,
rimpiangeva il languore della luna
che indora all’alba i fiumi della brace
non spenta dei bivacchi di fortuna.
Erano troppo presto divampati
i fuochi azzurri dell’appartenenza,
confusi nell’azzurrità più intensa
d’altri cieli remoti, non svelati.

(Francesco De Girolamo – da La radice e l’ala, 2000)

Bisbiglio ed eco

Cerco il nodo che acquieta, grazie al poco
che non ho più, per cuore troppo aperto.
Ciò che vorrei, dunque, lo credo detto,
seppure non intenderlo sia un gioco;

a pronunciarlo pare un suono fioco
e più obliquo il suo senso che diretto.
Pertanto spererei che più protetto
fosse il suo segno ed il suo canto, roco

per menti che ad intendere il suo sfogo
potessero servirsene a dispetto.
Che sia perciò il suo transito più stretto,

di bocca, in vento, in vela, in punto, in luogo,
che un palpito racchiuso dentro il petto;
e il suo venire in luce, duri poco. Continua a leggere

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Dalla disinformacija del mondo globale nasce la nuova sensibilità poetica, Poesie di Miroslav Krleža, Sergej Stratanovskij, Hans Magnus Enzensberger, Giorgio Linguaglossa, A cura di Vincenzo Petronelli

Foto manichino con vestiti su stampelle

Vincenzo Petronelli.

Il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, tra la pandemia e il riaffacciarsi di conflitti bellici in Europa, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo, consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, affermatosi a partire dall’edonismo degli anni ’80 del secolo scorso. Quest’interrogazione ci pone di fronte, in particolate, ad una riflessione cruciale per le sorti della poesia e segnatamente della poesia italiana, investita in modo pronunciato da questa stagnazione, finendo per essere relegata in buona parte, nelle sue forme dominati, ad arte da salotto o da festival, per quanto ciò non tolga, ovviamente, che anche in periodi di magra come questi ultimi anni, compaiano voci che tentino di fare poesia seria, ma è indubbio che l’orientamento prevalente sia andato in un’altra direzione.
Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non abbiano ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare nella poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, proprio questo è da considerare come uno degli aspetti maggiormente deleteri che la cosiddetta «poesia del quotidiano» ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto «velo» poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica, proprietà immanente alla lingua poetica, in quanto soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) in quanto più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino nei confronti della lingua tutta.

Il risultato di fatto, invece, è stato che anche la poesia ha abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di normalizzazione politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà anni’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
Sono stato condotto a questa riflessione dalla bellissima allocuzione del poeta russo Ilya Jashin – riportata nell’articolo dell’Ombra delle Parole del 9 dicembre dello scorso anno – reo di aver pubblicamente citato la parola “guerra” invece del travestimento buffonesco di «operazione militare speciale» – che trovo ci proietti direttamente al nocciolo del discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie.
L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla «macchina politica» che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.

A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep. Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad altre di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e deleteri come la storia ci ha del resto già insegnato.
La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.Antologia_poetry_kitchen_2023 Azzurra_web

È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche (in musica) più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare nel proprio limbo apparentemente indolore (riproducendo all’interno del proprio dominio i meccanismi dell’egoismo dominante) ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbatterglisi addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protagonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimonia, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza, di fronte alla cui scena, affida il suo disappunto ad uno slogan laconico: “Mangè mangè nu séi chi ve mangià” (“Mangiate, mangiate, non sapete chi vi mangerà”).

Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico–culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’“uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che hanno di fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia (poiché i modelli propinatici rappresenterebbero non solo una regressione democratica, ma un vero e proprio trionfo del più bieco autoritarismo, con il suo storicamente consueto, falso paternalismo bonario) ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea sottesa a tale concetto, rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo il messaggio – insieme ingannevole e pernicioso – per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali o alle varie frustrazioni sociali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi codici comunicativi, improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.

Cover Gino Rago Gallina NaninAppare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza, mettendole in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di contrastare libertà sociali ormai consolidate per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae uno dei suoi serbatoi di maggiore propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.

E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa, nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla loro tirannie.
Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa con uno straordinario anticipo temporale in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.

Agenda 2023 cover DEF

Miroslav Krleža

Notturno di San Silvestro millenovecentodiciassette
(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)
Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle strisce di tutti i meridiani.

Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terrore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro.

Oltre all’ambientazione, che per la situazione di guerra potrebbe farla apparire una poesia composta oggi (e fa riflettere il fatto che siano trascorsi più di cento anni dai fatti descritti), trovo che alcuni passaggi, come: «Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/ e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione»;
o come:
«L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte/e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice./La luna è sanguigna/e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte /con coltello piombo e gas/e unghie, e calcio del fucile, e pugno/la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok/pure questa è notte di San Silvestro.”
evidenzino mirabilmente lo straniamento che si impossessa dell’intellettuale realmente calato nell’osservazione e nel tentativo di decifrare la realtà di un tempo così desolante come quello dell’epoca cui si riferisce il brano, che richiama in modo impressionante la nostra.
Il compito della poesia e dell’arte in genere in tale contesto, dovrebbe essere da un lato appunto, lo scrutamento e la denuncia e dall’altro l’approfondimento e la ricerca dei “moti profondi”, delle connessioni sotterranee che sottendono la crosta di superficie, per comprendere a fondo le logiche ontologiche, destrutturandole e proponendo un nuovo possibile paradigma.
Proprio la poesia russa – ed è quindi un incrocio emblematico rispetto all’attualità – ci offre degli esempi straordinari della capacità della poesia e dell’arte in generale di trovare – nelle varie epoche storiche, attraverso le sensibilità più spiccate ed in grado di sottrarsi ai condizionamenti delle correnti dominanti che riflettono, tramite le lobbies che controllano la produzione intellettuale, le impostazioni dei poteri costituiti – la capacità di proporre una visione poetica ed un indirizzo per la storia dell’umanità soteriologici, catartici.
Un poeta significativo in tal senso (ma è uno dei tanti) oltretutto di straordinaria attualità, è Sergej Stratanovskij, attivo nell’ambiente dei Samizdat, fenomeno sociale, politico e culturale sviluppatosi in Unione Sovietica e con varie modalità anche nel resto del blocco socialista, consistente nella diffusione clandestina di scritti considerati illegali, in quanto avversi al regime e propugnatori di idee libertarie. La tecnica consisteva nell’uso di riprodurre in proprio i testi e di diffonderli (da cui il nome che tradotto dal russo si potrebbe rendere in autopubblicare), divenendo uno dei vettori fondamentali di diffusione delle idee di opposizione al regime.
La poesia di Stratanovskij è un esempio mirabile di come anche una poesia realmente impegnata nel senso della proposta di un rinnovamento sociale e politico, non possa prescindere da un modello di scomposizione del lessico, della semiologia e della semantica poetiche, per ricomporle in una visione cosmologica alternativa.

Poetry kitchen cover

Sergej Stratanovskij

In morte di utopia
Chi è mai Utopia?
È l’annegata, l’inghiottita
Dall’acqua torbida, sporca,
dal gorgo dell’oggigiorno
Ed eccola deposta in una cassa
Rozza, di quercia.
Divinavergine, ma, forse, Libro
Tondo-purpureo,
in veste ferroviva.

Si affretta la guardia:
di notte, come fanno i ladri, di soppiatto
Verrà portato via il suo corpo
E inumato tra scorie di fabbriche
Gioia dei popoli.

Sia pure, beh, non piangerò, basta
Senza di lei in fondo non si soffre
Si sta benino, anzi
E i guardiani hanno abiti passabili

Riscossosi, dirà qualcuno:
ma Ella dov’è mai finita?
Domina discesa a noi dal cielo
L’abbiamo sepolta, scordata
E sì che l’amavamo un tempo
Senza di lei come facciamo
ad affinare la tecnica del vivere? Continua a leggere

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EUR-Roma “Nuvola” di Fuksas, Domenica 10 dicembre, ore 17.00 Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen, Cambiare nome alla Poesia per cambiare la Poesia? Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Riflessioni di Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

La_macchia_arancione_50x50 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 50×50 cm, 2023

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EUR-Roma “Nuvola” di Fuksas
Domenica 10 dicembre, ore 17.00 Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen

Cambiare nome alla Poesia per cambiare la Poesia?

Intervengono
Marie Laure Colasson, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa
Tiziana Antonilli, Gino Rago, Giuseppe Gallo
con Reading degli autori della Poetry kitchen

Francesco Paolo Intini

15 ottobre 2023 alle 9:02

Cari

Penso che il vuoto sia prima di tutto prodotto dalla società in cui muoviamo i nostri passi. Negli ultimi tempi si sono succeduti tre grossi avvenimenti che hanno svuotato la realtà storica di tutto ciò che si poteva considerare accadere nel senso di un progresso per l’intera umanità. Covid, guerra Russia\Ucraina e per ultimo l’epilogo della guerra perenne per il diritto di un popolo all’esistenza tra Palestina e Israele.

Le implicazioni e le estensioni di questi fatti e principi sono sotto gli occhi di tutti e minano da una parte la credibilità della scienza di rappresentarsi come l’unica arma capace di lavorare in favore della conservazione della specie e dall’altra la fiducia in valori universali capaci di contrastare la legge del più forte.

Che altro rimane?

Beh, il senso di tutto questo è quello di una tendenza allo svuotamento generalizzato di valori compensato da una disponibilità di tecnologia e di merci in crescita esponenziale su tutti i fronti.

Non c’è da meravigliarsi se a questo vi corrisponda un vuoto nel significato delle parole con le quali intendevamo gli altri e non c’è da meravigliarsi se all’interno di questo in cui conserviamo le merci e la tecnologia che le produce, le stesse aleggiano come fossero particelle estremamente rarefatte in cerca di qualcosa su cui poggiare.

Io credo che ci sia nelle parole, nel come le vedo nascere ed interagire con le altre per fare un verso, qualcosa che non assomiglia ad un bisogno di senso. Le vedo mentre dirottano le possibilità di significato verso il non senso, lo sberleffo, il derisorio, la caricatura, lo sfottò. Le vedo distruggere qualcosa che potrebbe risultare gradevole ad un orecchio abituato alla dolcezza del suono, del ritmo, della commozione etc.

Sono parole che prendono spunto da ciò con cui vengono a contatto e cioè l’enormità del prodotto che chiamiamo merci per sabotarle, dissiparle e togliersi di dosso l’odore di denaro a costo di non farsi voler bene per il senso negato anche solo all’ultimo istante, all’ultima virgola.

Non è dunque una parola destinata a riscuotere facilmente like, approvazione, comprensione e successo. Specialmente nella composizione apparirà sempre precaria, malaticcia, clownesca, sul punto di fallire, togliersi il trucco e ricadere su sé stessa.

Roba da RSA dirà qualcuno, magari qualche ex amico allontanatosi perché inorridito dalle conseguenze a cui è arrivata la sua stessa creatura. Ma che c’è da meravigliarsi?

Tutto ciò che penso è che nell’attraversare il vuoto le parole risentano di un minor grado di attrazione da parte di altre parole e vengano fuori, per ciascuna di esse, possibilità inesplorate, sfaccettature che aprono tunnel e passaggi segreti evidenziabili solo quando sono allo stato di nudità assoluta.

La loro riaggregazione è un fatto inspiegabile con le normali leggi della sintassi poetica. Forse cercano qualcosa per poter essere riportate nel mondo macroscopico ma nessuno sa quando la tempesta che collassa i valori cesserà.

Un caro saluto

La macchia blu, acrilico, 20x20, 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 50×50 cm, 2023

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Giorgio Linguaglossa

16 ottobre 2023 alle 7:55

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Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale fa a meno di ogni atteggiamento critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare, è una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani…

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Diceva Umberto Eco in una famosa intervista :

«…un giorno Balestrini (e non so se fossi il primo con cui ne parlava, ma eravamo in una tavola calda vicino a Brera), mi ha detto che il momento era venuto di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi, ciascuno parlando male anzitutto dell’altro – poi, se avanzava tempo, degli altri, quelli che secondo noi intendevano la letteratura come “consolazione” e non come provocazione. Mi ricordo che Balestrini mi avea detto “faremo morire di rabbia un sacco di gente”. Ebbene sembrava una spacconata, ma ha funzionato.

Perché il Gruppo 63 che si riuniva a Palermo senza, all’inizio, strombazzare troppo l’iniziativa, e – se ci pensiamo bene – facendosi i fatti suoi, doveva fare arrabbiare tanta gente?

Per capire questa storia occorre fare un passo indietro a ricordare cosa fosse la società letteraria italiana (indipendentemente dalle posizioni ideologiche) verso la fine degli anni cinquanta. Si trattava di una società che era vissuta in difesa e in mutuo sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime – dico che non si allineavano quanto a scelte stilistiche, indipendentemente dalle convinzioni e persino dalle viltà politiche di molti – erano a mala pena tollerati. Si riunivano in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata.

[…]

Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria non era stata la posizione che diremmo “politica” del Gruppo. Era stata una diversa disposizione al dialogo e al confronto. Ho parlato di una società letteraria confinata nei propri luoghi deputati, e impegnata per ragioni storiche di sopravvivenza a proteggere i propri membri e a mantenere intatto l’unico suo capitale, la idea sacrale del poeta e dell’uomo di cultura. Era una generazione che poteva conoscere il dissenso, ma lo consumava attraverso un mutuo ignorarsi delle varie conventicole, e preferiva la malignità sussurrata al bar alla stroncatura su un pubblico elzeviro. Per così dire era una generazione abituata a lavare i panni sporchi in famiglia.

Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia aveva bene fissato le caratteristiche di questi movimenti. Erano: attivismo (fascino dell’avventura, gratuità del fine), antagonismo (si agisce contro qualcosa o qualcuno), nichilismo (si fa tabula rasa dei valori tradizionali), culto della giovinezza (la Querelle des ancien set des modernes), ludicità (arte come gioco), prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda (violenta imposizione del proprio modello a esclusione di tutti gli altri), rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, nel senso di senso agonico dell’olocausto, capacità di suicidio al momento giusto, e gusto della propria catastrofe.

Invece lo sperimentalismo è devozione all’opera singola. L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardistica.»*

* https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/02/21/ricordando-umberto-eco-il-gruppo-63-quarantanni-dopo-prolusione-tenuta-a-bologna-per-il-quarantennale-del-gruppo-63-8-5-2003-1-eco-gruppo-63-2003-da-www-umbertoeco-it/

Marie Laure Colasson

16 ottobre 2023 alle 13:03

È vero, qualcuno, leggi la poetry kitchen, ha smobilitato il discorso poetico del Grande Labirinto della narratività, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo, mostra la fatuità di quel linguaggio. Nessuno oggi fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce con un bel Campari. Invece, il bello della modalità kitchen (o infantile) è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaco-narrativi che partono da qui: In principio era il Verbo, per poi affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice e ricreatrice alla Vivian Lamarque.

Questa poesia [del post precedente, n.d.r] di Francesco Paolo Intini è felice, perché scritta con un linguaggio che ha la libertà immaginativa tipica dei bambini, sembra scritta durante un terremoto del 9° grado della scala Mercalli. Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci più sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci e degli adulti che parlano la Lingua del Labirinto elegiaco, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo possiamo dire, senza innaffiarci di «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci.

Intini riesce formidabile quando adotta il principio di Lacan:

«Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto». Intini ha la peculiare e rarissima capacità di perdersi nel linguaggio fino a non trovare più la via di uscita dal Grande Labirinto della narratività, ma non demorde, continua a cercare la via di uscita e sbatte la testa di continuo contro il muro del linguaggio. Quello che noi leggiamo sono le cicatrici sulla testa di Intini.

La Macchia all'angolo, 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 25×25 cm, 2023

Giuseppe Talìa

17 ottobre 2023 alle 16:38

Ricordo di aver commentato in precedenza la poesia di Intini, “Spyke di fine settembre”, rimanendo molto colpito proprio dal distico iniziale, “Accadde all’inizio che…”, un lampo improvviso scuote l’immobilità e a cui segue il tuono dell’indeterminatezza e delle aporie che costellano l’intero testo di Intini, a partire proprio dal verso “il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno./Gnam!” Un sovvertimento, una metonimia, dove contenuto e contenitore vengono sovvertiti come le stesse attese. Se ricordiamo la famosa frase “apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”, allora capiamo il rumore prodotto da chi mangia e la comodità del triclinio dove le parole passano ai fatti e diventano poltrone e sofà. Solitamente, Intini infarcisce i suoi distici con una o più metafore, in questa lirica salta all’occhio immediatamente la metafora del cibo e degli organi fisici ad esso, il cibo, collegati. Come un giocoliere, un saltimbanco, il poeta Intini riesce collegare i distici con un tropo comune ma nascosto, non dichiarato immediatamente, una riduzione del significato in una sineddoche inferenziale, come nell’esempio di seguito:

– Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.

Dov’è la sineddoche in questo esempio? Qual è l’elemento nascosto, sostituito? Alla luce della metafora del cibo, i denti appaiono senza apparire, sono “secoli” che “rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.”
L’ironia in questo gruppo di versi è pungente e si concretizza nella domanda su la bonne cuisine française, altra sostituzione per completare il tavolo dei commensali, Macron, Biden Putin (?) E l’Italia, come viene rappresentata se non con il luoghi comuni sovvertiti ? « Rospo all’amatriciana, Andreotti. »
Il lauto pasto del « potere » si conclude con il brindisi finale :

L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

Chi pensa che la poesia kitchen non abbia in sé anche le corde della denuncia globale dovrebbe ricredersi ri-leggendo i versi di Intini. Se si prestasse attenzione, ad esempio, alla decostruzione del mito attraverso le aporie di Giorgio Linguaglossa, – “Quindi il mito è falso. Dice il falso” – cercando di non avere sotto gli occhi la scheda di lettura editoriale, si capirebbe meglio la portata unica in Italia della poetry kitchen.

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Intervista a Giorgio Linguaglossa, di Daniele Santoro DOVE VA LA POESIA CONTEMPORANEA?(2009) Risposta: Se guardiamo alla poesia ufficiale, il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all’interno non c’è nulla, proprio nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell’editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un’area che in un libro di critica in corso di stampa definisco “La Nuova Poesia Modernista Italiana”, Poesie scritte dagli Avatar di Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese, Giorgio Linguaglossa

Intervista a Giorgio Linguaglossa
di Daniele Santoro DOVE VA LA POESIA CONTEMPORANEA?

Giorgio Linguaglossa giacca blu
Ho avuto cattivi maestriÈ stata una buona scuola» (Ich hatte schlechte Lehrer. Das war eine gute Schule) verso di Hans Arnfrid Astel – In foto Giorgio Linguaglossa.

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Poeta e narratore, Giorgio Linguaglossa esercita da anni, con non minore interesse, una considerevole attività critica, tanto acuta quanto eversiva e dissacratoria; attività che ha trovato in passato il suo organo di “partito” nello storico quadrimestrale “Poiesis”, da lui fondato e diretto dal 1993 al 2005, e che continua tutt’oggi attraverso collaborazioni a diverse riviste letterarie e pubblicazioni varie. Lo fa con la consapevolezza di chi ama la poesia incondizionatamente e non accetta di vederla asservita, come pure accade, a becere logiche di potere editoriale e alle mode del momento, manco fosse un prodotto soggetto a mercificazione. Di qui le sue battaglie, le sue accanite lotte, le sue «azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni», come scrive in un suo corposo libro dal titolo Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (coedizione Libreria Croce – Scettro del Re, Roma 2003). In occasione della uscita del suo nuovo volume di saggi La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) Roma, EdiLet, 2010, abbiamo pensato di raccogliere direttamente dalla sua voce cosa pensa della poesia e di altrettante interessanti questioni intorno al fare poetico.
(d.s.)

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1. Consapevole della difficoltà di offrire una risposta breve ed esaustiva, puoi aiutarci a tracciare un quadro della poesia italiana più recente?

Se guardiamo alla «poesia ufficiale», il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all’interno non c’è nulla, proprio nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell’editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un’area che in un libro di critica in corso di stampa definisco «La Nuova Poesia Modernista Italiana». Un’area poetica che è emersa nel corso degli ultimi venti-trenta anni, quando si è manifestata la crisi e l’esaurimento delle poetiche epigoniche, cioè quelle che facevano capo al post-sperimentalismo e a quella rappresentata dai poeti della seconda linea lombarda, per intenderci, quella del «piccolo canone».

2. Riporto dalla introduzione al tuo Appunti critici (2000) una significativa frase di Hans Magnus Enzenzsberger che può essere intesa come un manifesto del tuo modus operandi: «l’inverso di ogni distruzione della poesia è la costruzione di una poetica nuova». Alla luce di tale affermazione, quale futuro è possibile disegnare per la poesia?

Risposta: Il linguaggio di poeti del Novecento come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini comuni come in Wordsworth ma acquista le caratteristiche di una sofisticatissima colloquialità. Ciò che Yeats rimprovera ad Eliot può essere rivolto contro la sua stessa poesia. La colloquialità e il quotidiano prendono il posto della dimessa prosodia e della mitologia («Eliot has produced his great effect upon his generation because he has described men and women that get out of bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effect by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantic rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty»).

L’arte che oscilla tra iperrealismo e minimalismo è quella che meglio corrisponde alle esigenze di conservazione dell’esistente. Se l’iperrealismo muove dall’assunto che occorra ripristinare uno sguardo quanto più vicino possibile al «reale» mediante un punto di vista asintoticamente prossimo al punto di fuga del campo ottico, il minimalismo, nelle sue varianti consapevole e inconsapevole (cioè, conseguente e inconseguente) assume l’assioma secondo cui ciò che esula dalla lastra fotografica del «reale» non ha ragion d’essere. La limitatezza dello sguardo viene scambiata per limitatezza del «mondo».

In questo quadro problematico il problema del realismo diventa un problema soggettivo. Il «realismo» diventa un problema di «psichismo», con tutto ciò che ne consegue: l’oggettività del mondo scompare… etc. La «progettualità» del minimalismo è una finta e fittizia progettualità, per il minimalismo il mondo diventa una funzione dell’io e l’unità di misura degli oggetti è lo sguardo soggettivo.

Così, sia gli iperrealisti post-sperimentalisti (Giancarlo Majorino, Luigi Ballerini), che gli esistenzialisti milanesi (Maurizio Cucchi, Mario Benedetti, Antonio Riccardi), e i minimalisti (ad es. Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, Franco Marcoaldi), sono accomunati dall’idea dello spazio come «contenitore» di «oggetti linguistici», considerati come entità misurabili e calcolabili a-priori, e quindi spostabili e modificabili. I minimalisti «sanno quante tazze ci sono nel mare». Ma, appunto, questa «ingenuità» della loro poetica fa del minimalismo una poetica ancillare dell’esistente. Il minimalismo non arriva neppure ad immaginare una «ontologia estetica» ma si ferma al di qua degli oggetti e al di qua del reale. In queste condizioni il problema del «realismo» non si pone nemmeno. Anime ingenue e inconseguenti, i minimalisti non sanno veramente che cos’è una «ontologia estetica»: essi procedono a tentoni, con gli occhi bendati, producono migliaia di pagine di finta poesia, di simil-poesia, di spacconate triviali e superficiali, truismi e banalismi. Per quanto riguarda coloro che si esprimono con quelli che definirei una sorta di paralinguaggi come i dialetti, costoro finiscono a dare voce a una gamma di «manichini» i quali parlano un linguaggio che non esiste, un linguaggio fittizio, virtuale, costruito in un laboratorio linguistico separato da un burrone rispetto alla comunità linguistica europea di cui l’esempio più recente è fornito dall’ultimo libro di Franco Loi, Voci d’osteria (Mondadori, 2008). Nel suo genere un capolavoro di gergo iperletterario costruito a tavolino. Un gergo privato, insomma.

Preso atto di ciò, penso che occorra procedere alla costruzione di una «nuova» poetica per andare oltre il riformismo moderato del minimalismo.
Poiché nella tensione verso il reale le «cose» subiscono uno «spostamento», la cosiddetta parallasse, sono «altrove», sono «oltre», ecco allora che un nuovo realismo non può che sorgere da un nuovo concetto dello «sguardo», ovvero, da uno «sguardo stereoscopico e stereometrico» che vada dal particolare al generale, dagli oggetti alle loro metafore. Ecco allora che la «nuova poesia» non può non porsi il problema della «esistenza» degli oggetti allo scoccare della in-tensione significante. Ecco, allora, il precipuo carattere linguistico della tensione semantica (leggi la metafora), quel ponte semantico che rimanda all’urgenza del «reale».

Porre oggi la questione di un realismo integrale è un modo per porre la questione di una uscita dal Novecento, lottare affinché il «nome» si avvicini alla «cosa», chiami, convochi la «cosa».
Porre oggi la questione di un realismo integrale significa risolvere il problema di uno stile integrale che sappia coniugare l’alto e il basso, il sermo humilis e il sublime.

Chiediamoci con molta franchezza: chi è in grado oggi in Italia di esprimersi con il «subtle conversational tone» di Eliot o con la potenza rappresentativa di un Mandel’stam? Come è possibile non vedere i grandi risultati estetici raggiunti dai poeti del «nuovo realismo» come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Luigi Manzi, Anna Ventura, Roberto Bertoldo, Mario Lunetta? Si tratta di una svista o di un palese atto di misconoscimento?
Mi chiedi: quale futuro per la poesia? Credo che la poesia, quella ufficiale intendo, quella pubblicata dagli editori «a diffusione nazionale», non abbia futuro perché non c’è alcun filtro critico. La poesia-spazzatura dei nostri tempi non ha nessun futuro perché non ha nessun presente.

Antologia Poesia contemporanea cop

3. Per un proficuo “rilancio” della poesia, quanto può giovare la riflessione storico-filosofica?

Risposta: Per il minimalismo l’assunto di partenza è che per fare poesia non è necessario avere alcuna idea di poetica, io invece penso che occorra ripartire da una seria riflessione filosofica sul che cosa significa fare oggi poesia in un paese dell’Occidente in pieno post-moderno.

Per un “rilancio” della poesia credo sia necessario procedere alla riforma dell’Università, della Scuola, della Ricerca, della Stampa, della TV. Occorrerebbe una rifondazione della borghesia finanziaria e dello stato di diritto. È un problema complesso.

4. Ricordo al pubblico dei lettori che, tra le tante attività da te svolte, non meno importante è stata quella di traduttore da poeti inglesi, francesi e tedeschi, non ultimo il premio Nobel Milosz; si è trattato di scelte oculate e di autori che hai avvertito essere più congeniali o magari di un rifiuto della poesia italiana delle ultime generazioni? Dunque, quanto è importante il ruolo della traduzione dalle letterature straniere?

Risposta: Ho tradotto alcune poesie di Milosz, in collaborazione con una persona di madre lingua, aiutandomi con la mia scarsa conoscenza del russo e in stato di ipnosi. Le grandi poesie di Milosz sono state per me un corroborante e un tonico dell’intelligenza. Dopo aver letto Milosz guardi alle cose del mondo con un occhio più severo ma anche più comprensivo. E poi occorreva guardare al di là della nostra piccola e provinciale Italia, occorreva guardare al di là delle Alpi. Le traduzioni sono importanti, di più, sono essenziali per ricostruire l’identità della poesia italiana del secondo Novecento che ha perduto la propria fisionomia. La grandissima parte dei poeti inseriti nelle Antologie redazionali e amicali di questi ultimi trenta anni sono prive di valore culturale, anche quelli inseriti nell’Antologia dei Meridiani a cura di Cucchi e Giovanardi sono per lo più indistinguibili gli uni dagli altri.

5. Cosa pensi delle numerose antologie di poesia, pubblicate negli ultimi anni, che pretendono di fare il punto della situazione? qual è la tua personale idea di canone letterario, seppure è lecito assumerne uno?

Risposta: Credo che l’utilità delle antologie pubblicate negli ultimi trent’anni sia prossima allo zero. Non c’è nessun «punto» della situazione. Quello delle antologie degli ultimi quindici anni è stato uno spettacolo squallido: ognuno ha fatto l’antologia a proprio uso e consumo. Per quanto riguarda il cosiddetto «canone letterario», dirò semplicemente che esso è l’assioma della propria primogenitura che il ceto letterario egemone produce. Non c’è nessun «canone», né piccolo né grande, c’è soltanto una grandissima confusione dalla quale emergono soltanto i più furbi e i più attivi nel perseguimento delle alleanze di comodo. Come nella giungla vige la legge della giungla.

Antology How the Troja war ended I don't remember

6. Il tuo nome è legato, come si diceva, alla fondazione e alla codirezione per quasi tredici anni di “Poiesis”, rivista militante tra le pochissime di allora. Cosa ha rappresentato per te quella esperienza? l’averla chiusa è stata un abbassare la guardia, è l’avere voluto riconoscere un fallimento, un inevitabile scacco?

Risposta: Aver chiuso una rivista come «Poiesis» ha coinciso con il prendere atto che la palizzata del conformismo era praticamente infrangibile. Di fatto, ho dovuto prendere atto della mancanza di interlocutori. I più dotati, si defilavano per timidezza, i meno intelligenti, neanche capivano di che cosa si stesse parlando. Chi stava sul ponte di comando delle istituzioni egemoni capiva bene che cosa si stava dicendo ma non gliene importava niente. Sì, posso dire che la fine di «Poiesis» ha segnato una sconfitta, un «inevitabile scacco» come tu dici. Ma mi conforta il pensiero che ci sono sconfitte inevitabili, sconfitte che possono, in un futuro più o meno prossimo, convertirsi in un insperato successo postumo. Del resto, quando ho fondato «Poiesis», nel lontano 1993, non mi ero fatto alcuna illusione sulle possibilità di «bucare» la chiglia del conformismo. Era una sconfitta annunciata.
Non ho mai «abbassato la guardia», né allora né tantomeno intendo farlo adesso: il profilo della mia riflessione critica è rimasto lo stesso, anzi, con il tempo si è affinato. Adesso è più appuntito e preciso. Guardo le cose con maggiore distacco.

7. In un tempo impaziente come il nostro qual è il futuro della poesia?

Risposta: Questo libro è venuto alla luce in un tempo impaziente, un tempo in cui il discorso poetico è rimasto irrimediabilmente indietro rispetto alla velocità di riproduzione e rinnovamento dei linguaggi mediatici. Ciò che in un tempo lontano era una attività di «avanguardia» è oggi diventata una attività di numismatici che collezionano monete fuori corso. L’emancipazione dalla letteratura borghese non è avvenuta e, forse, mai più avverrà; gli dèi sono tramontati e dio è scomparso, e probabilmente è meglio che le cose siano andate così. Nel frattempo la poesia si è mutata in discorso poetico. Qualcosa di determinante nel suo DNA si è mutato irreversibilmente. Qui non si tratta di indicare come perduta l’«innocenza» della scrittura poetica (ammesso e non concesso che sia mai stata innocente), e neanche l’ipercriticismo (anch’esso una diversa modalità di confezionamento dell’«innocenza»). Ciò che un tempo apparteneva alla profondità adesso pertiene alla superficie, ciò che un tempo corrispondeva alla fenomenologia di apparenza ed essenza, adesso pertiene ad una dimensione unica che comprende e giustappone superficie e profondità, durata (dell’opera d’arte) e suo carattere transeunte, periclitante, effimero. Davvero, non c’è alcun dramma nella scomparsa della poesia, che è stata sostituita dai paralinguaggi degli addetti ai lavori. Ci inoltriamo sempre di più in un mondo virtuale ed effimero e non vedo perché la poesia non debba situarsi entro questo contesto culturale come meglio le aggrada e meglio la soddisfi. Alla «coscienza infelice» di Hölderlin e di Leopardi fino al primo Montale è subentrata la coscienza felice della piena integrazione della società globale.

Giorgio_Linguaglossa_cover_Dopo_Il_Novecento

8. Fare poesia è un modo per parlare e per sentire con tutti i sensi e in molti sensi. Fare poesia è darsi il tempo di ascoltare il proprio respiro. C’è un modo “diverso” di fare poesia tra Nord e Sud? Oppure la poesia è uguale a tutte le latitudini, dalla Sicilia alle Alpi?

Risposta: In questo articolo di Giovanni Raboni che risale al 1969 scritto in occasione di una analisi della poesia di Daria Menicanti, abbiamo la prima acuta diagnosi critica della nuova situazione della poesia italiana. Si prende atto che il campo della poesia è un rettangolo di gioco aperto alle più svariate correnti.

«Diciamo la verità: il linguaggio della tradizione, recente o remota, è uno spazio sperimentabile come qualunque altro – non meno, suppongo, dell’alfabetismo dei mass media o dei sussulti linguistici della cibernetica. Sperimentabile, voglio dire, ai fini espressivi, di recupero o di straniamento o di critica: senza alcuna preventiva garanzia d’efficacia, è ovvio, ma senza preclusioni specifiche. Non c’è davvero bisogno d’aderire alla teorizzazione del falsetto per riconoscere che si può operare dentro – e sopra, e persino “contro” – un linguaggio anche senza usargli violenze vistose, e che, d’altra parte, si può “inventare” anche un linguaggio che c’è già

D’ora in avanti, si afferma la convinzione secondo cui il linguaggio poetico è diventato una zona franca, esentasse, una sorta di svizzera e il linguaggio della tradizione un «campo aperto» alle incursioni di abili rivisitazioni: un mix di sperimentalismi e di orfismi «privati»; uno sperimentalismo «personale», «libero», «esentasse», privo di una procedura sperimentabile, orientabile e verificabile; uno sperimentalismo non più verificabile né falsificabile, come dovrebbe essere ogni procedura scientifica, ma uno sperimentalismo gratuito che sconfina nell’arbitrio, una procedura di riscrittura libera, ilare, gioiosa, giocosa, parodica, umoristica; una procedura di investigazione del quotidiano libera, ilare, gioiosa, parodica, umoristica; si diffonde la convinzione che la scrittura poetica non sia altro che il prodotto di una riscrittura continua, di un rifacimento perpetuo dei medesimi topoi, che nulla di nuovo c’è da dire perché non c’è nulla di nuovo che valga la pena di esser detto e scritto. In questa situazione di disillusione, di scetticismo di massa e di illusione di libertà creativa di massa, accade che aumentano a dismisura le possibilità della scrittura poetica e aumenta vertiginosamente il numero degli aspiranti poeti. Altro che «parlare e sentire con tutti i sensi»! I pessimi odierni epigoni di Zanzotto, Giudici e Pasolini fanno una poesia cosiddetta del «quotidiano» ma non hanno la minima idea di che cosa sia il «quotidiano» e come parlarne in poesia.

La convinzione secondo cui il linguaggio poetico sia «uno spazio sperimentabile come qualunque altro», e per di più gratuito, a disposizione di tutti come la manna dal cielo, è stata, bisogna riconoscerlo, una grande infatuazione collettiva e una grande mistificazione di massa. La corresponsabilità è presto detta: ad iniziare dal più grande poeta italiano del Novecento, Montale con Satura (1971), per proseguire con Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), fino a Zanzotto già con Dietro il paesaggio (1951) e La Beltà (1968) e Giovanni Giudici con La vita in versi (1965), forniscono la sponda teorica e l’esempio fattuale di una poesia che accetta la visione dell’ordinamento borghese del mercato delle idee (le idee dell’iperuranio del mondo mediatico, un certo concetto acritico di «quotidiano», e di «privato», un certo concetto di utilizzare in poesia gli «oggetti» in modo acritico, come se fosse possibile versarli da un contenitore all’altro quasi fossero vasi comunicanti).

La poesia diventa marginale e marginalizzata, abbandona l’impegno «alto» e si auto confina nella investigazione del «quotidiano», del «privato», del «paesaggio». Manca del tutto l’idea di «progetto». Inizia in quegli anni, per la poesia italiana, un pendio declinante che non avrà termine, che va a bucare il Novecento e giunge ai giorni nostri.
Certo che c’è un modo diverso di fare poesia tra Nord e Sud; la latitudine così come la longitudine, cambiano il profilo di una lingua, cambiano la sensibilità. La marginalizzazione della «Linea meridionale» diventa un fatto compiuto: basti pensare a poeti del calibro di Luigi Compagnone, Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo, Gesualdo Bufalino (tanto per restare nel Sud negli anni Ottanta), Mario Lunetta, i quali vengono espunti dalla storia della poesia italiana con la complicità del conformismo della critica letteraria, sempre più inesistente ed evanescente.
Con gli anni Ottanta e Novanta si consuma la definitiva subordinazione della poesia meridionale all’egemonia del parametro stilistico maggioritario. Continua a leggere

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Il «Sistema-Poesia» non è riformabile, Il compito del critico, Gli ultimi tre libri de “Lo Specchio” considerazioni e ragguagli, Il dito nella piaga e il dito nell’occhio, E adesso non resta da fare altro che ricominciare da zero

Locandina Festival Poetry kitchen 2023Il «Sistema-Poesia» non è riformabile

E adesso non resta da fare altro che ricominciare da zero.
Faccio copia e incolla dei miei interventi sulla vexata quaestio della paventata «chiusura» della collana de “Lo Specchio” Mondadori apparsi sul blog lombradelleparole.wordpress.com di inizio agosto 2015.
https://lombradelleparole.wordpress.com/…/giorgio…/

31 luglio 2015 alle 10:42

La vera questione

La vera questione (che investe anche la poesia in dialetto) non è quella del rapporto fra gli idioletti della comunicazione mediatica e la lingua strumentale della comunicazione relazionale, ma quella del rapporto tra il linguaggio poetico e i linguaggi della comunicazione mediatica. Ma già parlare di «linguaggi» è un pescare nelle profondità della superficie. Oggi i «linguaggi» (anche quelli letterari) tendono a dis-locarsi sul piano della superficie superficiaria (infinita, senza limiti) propria della società mediatica. Oggi il problema non è solo quello del rapporto tra la lingua nazionale e le massime lingue di cultura (come ipotizzava Franco Fortini), in quanto anche le lingue di cultura internazionali tendono a superficializzarsi in una super lingua della superficie internazionale.
Resta valido però ancora oggi quello che scriveva Franco Fortini nel 1976:

«In corrispondenza ad un irrigidimento della società in caste (maschera delle classi), il cosiddetto “italiano” o è una sottospecie dell’inglese che serve alla comunicazione dei potenti, dei sapienti, degli eminenti, dei borsisti, degli specialisti, dei registi, ecc. o è esso stesso un dialetto, la lingua d’uso destinata alla comunicazione pragmatica e affettiva. In questo senso i dialetti tradizionalmente intesi ritrovano tutta la loro legittimità: se consideriamo l’Italia una grande Manhattan, nei dialetti tradizionali vi sono linguaggi delle sottoculture, mentre l’italiano della comunicazione corrente (parlata o letteraria) è il linguaggio della sottocultura complessiva peninsulare e, al di sopra, sta l’italiano ufficiale, amministrativo, scientifico o specialistico, che è l’inglese o russo tradotto o traducibile; non a livello linguistico ma a livello morale e culturale. Per questo i dialetti, in quanto superstiti, sono “figura” dell’italiano, che già fin da ora è una lingua superstite. Non corrisponde a nulla di autonomo. Che Volponi scriva in (ottimo) italiano invece che in castigliano è un puro caso geografico».

Se prendiamo invece in esame i testi di tre poetesse laterali al circuito della grande editoria ma di sicuro valore: Maria Rosaria Madonna (Stige – 1992, libro uscito postumo, adesso in Stige. Tutte le poesie, Progetto Cultura, 2020, pp. 150,  12), Giorgia Stecher (Altre foto per album– 1996, adesso in Altre foto per album. Tutte le poesie 1972-1996 – Progetto Cultura, pp. 320  18), Anna Ventura (Antologia Tu Quoque (Poesie 1978-2013) del 2014, in questi libri ci accorgiamo che ciò che frigge, non solo semanticamente, sono le direzioni poetiche, si tratta di una scelta di campo: l’attraversare in diagonale il linguaggio poetico ereditato con consapevole intenzionalità litoranea rispetto alla poesia maggioritaria e una diversa tematizzazione della loro poesia. In autori del percorso maggioritario, prendo ad esempio una delle migliori, Antonella Anedda, si percepisce un senso «squisito» e «naturale» del sottostante «effabile», l’«affabile», l’«estatico», il «cromatico»; il tratto elegiaco di violini e violoncelli che esalta il «sublime» o, come nel caso di Jolanda Insana, l’«antisublime» post-sperimentale.

1 agosto 2015 alle 9:08

Compito del critico

Cerchiamo di non spostare l’ordine del discorso sul discorso sull’ordine.
L’ordine va infranto appunto insufflando nei suoi penetralia nuovo e corposo disordine. Questo è il compito del critico. Altrimenti questi si ridurrebbe a suonare il piffero ad ogni incantatore di serpenti. Compito del critico è portare dubbi nel campo dell’argomentazione dell’interlocutore… e poi fare in modo che i dubbi camminino da soli.
Io non pretendo mai di aver ragione, ho le mie ragioni, che è cosa diversa dall’aver ragione. Ho sempre tenuto presente l’aforisma di Adorno nei Minima moralia secondo cui «Nulla si addice meno all’intellettuale che vorrebbe esercitare ciò che un tempo si chiamava filosofia, che dar prova, nella discussione, e perfino – oserei dire – nell’argomentazione, della volontà di aver ragione. La volontà di aver ragione, fin nella sua forma logica più sottile, è espressione di quello spirito di autoconservazione che la filosofia ha appunto il compito di dissolvere […] Quando i filosofi, a cui si sa che il silenzio riuscì sempre difficile, si lasciano trascinare in una discussione, dovrebbero parlare in modo da farsi dare sempre torto, ma – nello stesso tempo – di convincere l’avversario della sua non-verità».
Il cerchio ermeneutico delle opinioni maggioritarie gode di una inattaccabilità originaria. È lì il vizio di origine. Allora, l’argomentazione critica dovrà assumere dal cerchio il concetto dell’ordine del discorso da applicare alla normologia del discorso del conformismo.

1 agosto 2015 alle 19:12

Il sistema non è riformabile», almeno in Italia

Il problema è ben più vasto. Da noi non si tratta di un problema specialistico, cioè di tipo letterario, ma è più vasto: per riformare il settore della poesia (produzione, commercializzazione, pubblicizzazione e consumo del prodotto), occorre una riforma non solo di tipo letterario, cambiare un dirigente di collana è appena una goccia nell’acqua, in Italia bisogna cambiare le regole del gioco, le regole di cooptazione, le regole non scritte delle lobbies letteraria e politica, la seconda che sostiene la prima; riscrivere le regole del gioco, spezzare le cinghie di trasmissione che legano i partiti alle lobbies. Quando io parlo di «qualità» che dovrebbe presiedere la valutazione di certe scritture letterarie, cioè quelle che non sono di mero intrattenimento, intendo appunto un universo assiologico istituzionale che adotti quel valore, quel criterio metodologico, non ho in mente un criterio mitico idealistico di delibazione dell’opera “bella”. Occorre soprattutto una riforma della scuola, delle università, della stampa e della televisione, nonché dei mezzi di comunicazione di massa; è un problema gigantesco che attiene a quelle mancate riforme istituzionali e di struttura di cui si parla tanto oggi ma che nessuno dei partiti dell’arco costituzionale ha la minima intenzione di porre in essere. Il problema del settore poesia e narrativa non va visto quindi come un problema specialistico o di comparto, ma è molto più vasto ed attiene al tipo di società che vogliamo costruire, se vogliamo continuare sulla falsariga feudale e coloniale che la politica italiana ha seguito finora, non c’è scampo, la scrittura letteraria e la produzione artistica ne rimarranno condizionate. Tutto ciò mi sembra ovvio. Quindi, il sistema non è riformabile.

2 agosto 2015 alle 11:29

Gli ultimi tre libri di poesia de Lo Specchio

Gli ultimi tre libri di poesia de “Lo Specchio”, quelli di Roberto Dedier, Stefano Dal Bianco e di Franco Buffoni sono scritture professionali, scritture letterarie che adottano un gergo della medietà linguistica, scritture di professori, professionalmente corrette… ma di questo tipo di scritture ne sono capaci almeno un paio di centinaia di persone in Italia. Ad essere seri quindi dovremmo pubblicare nello “Specchio” libri di almeno un paio di centinaia di persone. In realtà, di tratta di libri caudatari. E questa è la dimostrazione del decesso de “Lo Specchio” come strumento di orientamento della produzione poetica. A questo punto che “Lo Specchio” continui a pubblicare gli “amici” e i “sodali” di una ristrettissima cerchia di persone di Milano e di Roma, che significato può avere? Nessuno, rispondo. Che ben venga quindi la chiusura della collana che un tempo lontano pubblicava libri di poesia.
Caro Gianpaolo Mastropasqua, quello di Cucchi e Riccardi non è stato un «errore di politica editoriale», come tu scrivi, o, almeno, non solo. È stata una strategia fatta a tavolino: quella di voler imporre alla poesia italiana del secondo Novecento il marchio di fabbrica di Milano con, in posizione sussidiaria, i romani (Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, etc.) fingendo di dimenticare i romani diversi e di diversa qualità e consistenza come Mario Lunetta (1940-2017), Luigi Manzi (1944-2023) e Carlo Bordini (1938-2018) oltre che Giovanna Sicari (1954-2006) etc, per non parlare dei poeti che romani non erano. L’operazione è culminata con la Antologia curata da Cucchi e Giovanardi (nella quale Giovanardi faceva l’esecutore testamentario del mandato editoriale).

Però, mi viene un dubbio sempre più assillante, ed è questo: è la visione che della poesia hanno i Cucchi e i Riccardi che non è stata all’altezza di recepire e pubblicare la poesia migliore che si è fatta in Italia negli ultimi 40 anni. Questo, penso è stato un loro limite. Era ovvio che fosse soltanto una questione di tempo, a lungo andare, la loro “visione” della poesia italiana si è rivelata sempre più asfittica e conformista, sempre più ristretta, fino alla implosione finale fatta senza neanche il minimo dubbio che il 90% degli autori pubblicati ne “Lo Specchio” fosse di media qualità, intendendo con il termine “medio” che ce ne sono in giro almeno altre duecento persone che scrivono a quel livello letterario. E questo ha portato a un livello sempre più basso delle pubblicazioni. Ed il pubblico è scomparso. A questo punto non ha senso chiudere o no la collana de “Lo Specchio” e quella della collana bianca della Einaudi, in sostanza queste collane hanno già compiuto da tempo il loro compito, non sono più da tempo in grado di individuare i valori poetici e, secondo me, nemmeno ne hanno intenzione. Ed è finita la funzione di «GUIDA» che queste collane hanno avuto nel lontano passato quando al loro timone c’erano persone del calibro di Calvino, Sereni e  Raboni, pur con i loro errori.

3 agosto 2015 alle 11:22

Il dito nella piaga e il dito nell’occhio

Caro Gianpaolo,

hai messo il dito nella piaga, la poesia viene letta quando è di livello elevato. Il pubblico della poesia che è andato decrescendo a dismisura in questi ultimi cinque decenni, ha fatto sì che ci fosse una enorme quantità di libri di poesia in circolazione, e spesso anche scritti in un italiano corretto, ma il problema non è che siano ben scritti per essere pubblicati da una collana un tempo prestigiosa, qui dovrebbe intervenire qualcosa di più. Bisognava avere l’accortezza di mettere in piedi una rete di lettori di diverso indirizzo stilistico e di diversa provenienza culturale allo scopo di ottenere responsi anche contraddittori e magari anche conflittuali dai quali trarre le risultanze definitive. Occorrerebbe oggi più che mai mettere in piedi e diffondere un diverso sistema di valutazione dei testi, ampliare i lettori di alta qualità che possano esprimere una convinzione argomentata sui testi, tutto un lavoro che si mette in piedi (e si sarebbe dovuto mettere in piedi) nel corso degli anni per tentare di coinvolgere le migliori intelligenze critiche in circolazione, lavoro che però non si è fatto o che si è fatto affidando il lavoro di vaglio e di selezione dei testi a persone che non avevano i requisiti per svolgere questo lavoro con competenza e affidabilità. Con la conseguenza che si è pensato ad una “scorciatoia”, quella di restringere il campo dei “beneficiati” ad una ristretta cerchia di “amici” e di “sodali” cooptati. Si è trattato di un meccanismo di cooptazione affiliazione che alla lunga si è dimostrato perverso e ha determinato risultati discutibili mentre nel frattempo la crisi del mercato editoriale dei libri si aggravava e la crisi ha prodotto il fall out del sistema Adesso il sistema è imploso.
Oggi non resta da fare altro che ricominciare da zero.

(Giorgio Linguaglossa)

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Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento, La Crisi del discorso poetico, di Giorgio Linguaglossa, Quale è l’esperienza della realtà? di Carlo Michelstaedter, Dopo il Novecento, Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria, siamo entrati da tempo nel campo largo, anzi, larghissimo del commonplace (del banale), Poesie kitchen di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Raffaele Ciccarone

foto deja vu

«L’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso» , scrive Slavoj Žižek.
Non possiamo non essere d’accordo con il filosofo di Lubiana. Ad esempio, nella poesia kitchen degli autori di questo post c’è qualcosa di «osceno» e di «traumatico» per un lettore educato al linguaggio poetico maggioritario e alle emittenti del consenso maggioritario; ma è un ottimo segnale, e corrisponde al vero, questo linguaggio kitchen non può rientrare nel Simbolico, è la frattura del Simbolico, la sua infrazione, e viene respinto, rimosso… E così ecco che il Reale torna sempre al suo posto, che poi è il posto della rimozione collettiva: il luogo della normologia, il posto della ideologia normologante che agisce in modo invisibile e automatico, mediante automatismi ma agisce rimettendo sempre di nuovo le cose al loro posto, che poi è il posto dell’autorimozione collettiva. Il ritorno del rimosso coincide con il ritorno del nomos. La poiesis kitchen è un meteorite diretto alla volta del Simbolico, produce uno schianto e una frattura, mette in discussione tutta la cultura del consensus omnium e del nomos.

Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento. La Crisi del discorso poetico

di Giorgio Linguaglossa

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni sessanta del novecento. Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo il punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. Qualche anno prima, nel 1968, nell’anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario». 1 

Quello che oggi ci si rifiuta di vedere è che nella  poesia  italiana di quegli anni  si è  verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche.

Davanti a questa rivoluzione in progress che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino ai capelli, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha tascabilizzato la metafisica (da un titolo di un libro di poesia di Valentino Zeichen, Metafisica tascabile, del 1997, edito ne Lo Specchio), ha scelto di non prendere atto del «sisma» del 18° grado della scala Mercalli che ha investito il mondo, di fare finta che il «sisma» non sia avvenuto, che nel Dopo Covid tutto sarà come prima, che si continuerà a fare la poesia di nicchia e di super nicchia di sempre, poesia autoreferenziale, chat-poetry.

Qualcuno ha chiesto, un po’ ingenuamente: «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto», «declinando il futuro». Che non è una cosa che possa essere convocata in una formuletta valida per tutte le stagioni.

Il problema della crisi dei linguaggi post-montaliani del tardo Novecento, non è una nostra invenzione ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica».

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Noi invece pensiamo a qualcosa di dissimile, ad una poesia che possa durare  soltanto per il presente, per l’istante, una poesia per il soggiorno, mentre prendiamo il caffè, o mentre saliamo sul bus, i secoli a venire sono lontani, non ci riguardano, fare una poesia «fur ewig» non so se sia una nequizia o un improperio, oggi possiamo fare soltanto una poesia kitchen, che venga subito dimenticata dopo averla letta.

Per tutto ciò che ha residenza nei Grandi Musei del contemporaneo e nelle Gallerie d’arte educate, per il manico di scopa, per il cavaturaccioli, le scatolette di birra, gli stracci ammucchiati, i sacchi di juta per la spazzatura, i bidoni squassati, gli escrementi, le scatole di Simmenthal,  i cibi scaduti, gli scarti industriali, i pullover dismessi con etichetta, gli animali impagliati. Tutto ciò fornisce un formidabile sostegno alla normologia asfissiante delle società a democrazia parlamentare dell’Occidente. Non ci fa difetto la fantasia, che so, possiamo usare il ferro da stiro di Duchamp come oggetto contundente, gettare nella spazzatura i Brillo box di Warhol, con la macarena e il rock and roll possiamo farci gli gnocchi.

Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria

Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria. Non è un fiorellino da mettere nell’occhiello della giacca: è un modo di pensare, di vedere il mondo-coccodrillo in cui ci troviamo: un mondo confuso, costipato, contraddittorio, illogico. Cercare di dire questo mondo in poesia non può quindi non presupporre un ripensamento critico di tutti gli strumenti della tradizione poetica novecentesca. Uno di questi – ed è uno strumento principe – è la sintassi: che oggi è ancora telefonata, discorsiva, troppo concatenata e sequenziale, quasi identica a quella che è prevalsa sempre di più fra i poeti verso la fine del secolo scorso, in particolare dopo l’ingloriosa fine degli ultimi sperimentalismi: finiti gli eccessi, la poesia doveva farsi dimessa, discreta, sottotono, monotonale, diventare l’ancella della prosa.

Rebus sic stantibus, dicevano i latini con meraviglioso spirito empirico. Che cosa vuol dire: «le cose come stanno»?, e poi: quali cose?, e ancora: dove, in quale luogo «stanno» le cose? – Ecco, non sappiamo nulla delle «cose» che ci stanno intorno, in quale luogo «stanno», andiamo a tentoni nel mondo delle «cose», e allora come possiamo dire intorno alle «cose» se non conosciamo che cosa esse siano. 

«Essere nel XXI secolo è una condizione reale», ma «condizione» qui significa stare con le cose, insieme alle cose… paradossalmente, noi non sappiamo nulla delle «cose», le diamo per scontate, le cose ci sono perché sono sempre state lì, ci sono da sempre e sempre (un sempre umano) ci saranno. Noi diamo tutto per scontato, e invece per dipingere un quadro o scrivere una poesia non dobbiamo accettare nulla per scontato, e meno che mai la legge della sintassi, anch’essa fatta di leggi e regole che disciplinano le «cose» e le «parole» che altri ci ha propinato, ma che non vogliamo più riconoscere.

Carlo Michelstaedter (1887-1910) si chiede: «Quale è l’esperienza della realtà?». E cosi si risponde:

«S’io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s’io ho sete, la realtà è più o meno liquida, è più o meno potabile, s’io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun’altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri.

…”Ma noi non guardiamo le cose” con l’occhio della fame e della sete, noi le guardiamo oggettivamente (sic), protesterebbe uno scienziato.
Anche l’”oggettività” è una bella parola.
Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno ma in sé: aver in un punto “il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo,” nella attualità della mia vita tutte le cose, l’”eternità resta raccolta e intera…
È questa l’oggettività?…».2

Ancora urgenti e centrate queste osservazioni del giovane filosofo goriziano che ci riportano alla nostra questione: Essere del XXI secolo, che significa osservare le »cose» con gli occhi del XXI secolo, che implica la dismissione del modo di guardare alle «cose» che avevamo nel XX secolo; sarebbe ora che cominciassimo questo esercizio mentale, in primo luogo non riconoscendo più le «cose» a cui ci eravamo abituati, (e che altri ci aveva propinato) semplicemente dismettendole, dando loro il benservito e iniziare un nuovo modo di guardare il mondo. La nuova scrittura nascerà da un nuovo modo di guardare le «cose» e dal riconoscerle parte integrante di noi stessi.

Dopo il novecento

Dopo il deserto di ghiaccio del novecento sperimentale, ciò che resta della riforma moderata del modello sereniano-lombardo è davvero ben poco, mentre la linea centrale del modernismo italiano è finito in uno «sterminio di oche» come scrisse Montale in tempi non sospetti.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967). Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo dell’experimentum per approdare ad una sorta di poesia che faccia a meno delle categorie del novecento: il pre-sperimentale e il post-sperimentale oggi sono diventate una sorta di terra di nessuno, in un linguaggio koinè, una narratologia prendi tre paghi uno; ciò che si apparenta alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile poetico intellettuale olistico-pubblicistico), vivrà una terza vita ma come fantasma, in uno stato larvale, scritture da narratologia della vita quotidiana. Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi: Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista?, ma è la sua metafisica che oggi è diventata irriconoscibile. La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio,  con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista, come schiettamente modernista è la poesia di Elio Pecora, da La chiave di vetro, (1970) a Rifrazioni (2018), di Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1976) e l’Antologia Tu quoque (2014), di Giorgia Stecher di cui ricordiamo Altre foto per un album (1996), e adesso Tutte le poesie (1978-1996), pubblicato da Progetto Cultura, (2022) e Maria Rosaria Madonna, con Stige (1992), la cui opera completa appare nel 2018 in un libro curato da chi scrive, Stige. Tutte le poesie (1980-2002), edito sempre a mia cura da Progetto Cultura di Roma. Il novecento termina con le ultime opere di Mario Lunetta, scomparso nel 2017, che chiude il novecento, lo sigilla con una poesia da opposizione permanente che ha un unico centro di gravità: la sua posizione di marxista militante, avversario del bric à brac poetico maggioritario e della chat poetry dominante, di lui ricordiamo l’Antologia Poesia della contraddizione del 1989 curata insieme a Franco Cavallo, da cui possiamo ricavare una idea diversa della poesia di quegli anni. In questi ultimi anni degna di nota è la forma-poesia pensante di Paolo Valesio, con Il servo rosso (2016) e Il testimone e l’idiota (2023), che persegue una poesia dialogata, un itinerario insolito e in contro tendenza che nulla concede alle rapsodie dell’io.

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».3

Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità presunte del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.

Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.

La pseudo-poesia privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

La poesia kitchen 

L’estraneazione è l’introduzione dell’Estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel già conosciuto. Il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della musa della poesia kitchen. Queste sono le categorie sulle quali il kitchen costruisce le sue parole instabili in movimento. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo, è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte, nella vita e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… Nella poesia kitchen di Francesco Paolo Intini, Mimmo Pugliese, Raffaele Ciccarone, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Vincenzo Petronelli, Giuseppe Gallo, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi, Gino Rago, Tiziana Antonilli, Lucio Mayoor Tosi e mia c’è il vuoto, però, e in grande abbondanza. E questo la normologia del cassetto-poesia non lo può accettare, fa paura, esce dal bon ton, è estraneo alla poesia dell’amichettismo. Il vuoto proprio no, non è educato metterlo lì in bella vista, in primo piano.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. Il kitchen scrive alla stregua delle circolari della Agenzia dell’Erario, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi, interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

Tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento, qui, nel kitchen è nuovo, anzi, nuovissimo il modo con cui viene pensata la nuova poesia. È questo il significato profondo del distacco della poesia kitchen dalle fonti novecentesche; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non  produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate e lubrificate.
la poesia kitchen dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

Siamo entrati da tempo nel campo largo, anzi, larghissimo del commonplace (del banale)

Oggi la dicotomia tra stile e maniera ha perso significato. Poiché se tutto è consentito nulla ha più importanza di un’altra cosa, e se l’arte è un semplice «gioco» di possibilità, tutte le possibilità diventano note e calcolabili; in questo contesto categoriale, le antiche categorie di originalità, autenticità e genuinità perdono progressivamente significato. La distinzione tra stile e maniera risulta obsoleta per ragioni storiche e ontologiche (perdonatemi la brutta parola): nel mondo dell’arte post-storico i mezzi stilistici appaiono come opzioni liberamente disponibili, come metodi o tecniche di cui chiunque può servirsi. Ma ne deriva che le opere di poiesis che sono immediatamente e pubblicamente riconoscibili, in quanto opere di techne, sono prive di «valore» (nel senso che si sono distaccate dalla catena di valore della tradizione), in quanto possono essere ripetutamente applicate in serie, infatti la serializzazione si applica alle opere che si basano sulla categoria della riconoscibilità pubblica, non certo sulla categoria del «valore». In tal senso, le opere di Andy Warhol ne sono la esemplificazione perfetta.

Sollevare questioni riguardanti la autenticità o la genuinità o la identità di un autore o di una serie di opere implica il rischio di commettere errori categoriali. Non si dà autenticità o genuinità garantite. Nell’opera di poiesis di oggi non si dà alcuna garanzia, l’opera lasciata sola con se stessa si comporta come un «incomunicabile», come un «intrasmissibile», come un «infungibile».

Nel Dopo il Moderno la differenza tra mera maniera e stile autentico svanisce.
È proprio il segno del momento post-storico il fatto che la richiesta di un’identità riconoscibile sia rivendicata dagli artisti e dai critici che si battono per la riconoscibilità di una identità artistica. Ma qui ci troviamo in un momento regressivo dell’arte. Uno stile definito non equivale a dire uno stile stabile, oggi un artista che non si muove dal proprio stile è un artista inconsapevole della complessità del lavoro artistico, e fa del déjà vu.

È errato interpretare la fine dell’arte come l’epoca del manierismo che si ripresenta sempre identico a se stesso. Il manierismo deve essere invece inteso come modus, come modalità, come tecnica di indagine a disposizione di un artista che abbia consapevolezza della techne che impiega. Da questo punto di vista la distinzione tra stile e maniera, tra originalità e commonplace è oggi una questione obsoleta, siamo entrati da tempo nel campo largo, anzi, larghissimo del commonplace (del banale).

Lo stile della NOe (nuova ontologia estetica o nuova fenomenologia del poetico) è quello delle didascalie dei prodotti commerciali e farmacologici

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato stampa che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. La NOe scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi della NOe interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

L’ispirazione è rubinetteria di terza mano, utensileria buona per i pronostici del totocalcio, eufemistica, superstizione, epifenomeno di un armamentario concettuale in disuso, concetto cafonal-kitsch, concetto da Elettra Lamborghini in topless per poveri di spirito.

L’Elefante sta bene in salotto, è buona educazione non scomodarlo

L’Elefante si è accomodato in poltrona. Tant’è, si fa finta di non vederlo, così si può sempre dire che non c’è nessun elefante, che i bicchieri sono a posto, le teche di cristallo intatte, le suppellettili pure, che la poiesis gode di buona, anzi, ottima salute, che non c’è niente da cambiare, che la poiesis da Omero ad oggi non è cambiata granché, che da quando il mondo è mondo la poiesis è sempre stata in crisi… come dire che il linguaggio normologato è il nostro riparo, non abbiamo più niente da dire né da fare. Ed è vero: la poesia italiana che si fabbrica in Egitto non ha veramente nulla da dire, evita accuratamente e con tutte le proprie forze di vedere l’Elefante che passeggia in salotto e che con la sua proboscide ha fracassato tutto ciò che c’era di fracassabile. L’Elefante adesso si è accomodato in poltrona. È disoccupato. Il suo posto è stato preso dai corvi.

La NOe

La NOe (nuova fenomenologia del poetico) dà uno scossone formidabile all’isomorphismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, 1970, p. 76
2 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica Joker, 2015 pp. 102-103 (prima edizione, 1913)
3 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

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Mimmo Pugliese

GLI ARGINI

Gli argini hanno spolpato i fari
la lunula stordisce gli imbroglioni

Nelle trincee si insegna il forrò
nevica sulle case senza tetto

Ai lati della settimana mancano le finestre
nei ripostigli bombe molotov nutrono trecce di aglio

Mercanti di parole conservano pupille di rame
pitoni accendono candele e bevono argento

Nel trolley bivacca l’occhio di pernice
sull’arco sesto boccheggiano bisce color fragola

La regina di quadri è una carrozza
stivali lucidano maniglie della vasca da bagno

Una giraffa vaga tra le carcasse d’auto
all’ora del thè si trapianta le narici

Dai campanili cravatte asportano scogli
un ombrello rovescia telline e rosmarino

La disillusione degli alluci è un presepe a righe
cacciaviti inchiodano colombe al soffitto in discesa

Marie Laure Colasson

16.

“Jadore boire un saké avec un Massai”
dit la blanche geisha “et toi Eredia?”
“Oh moi je préfère les radis-beurre
et l’éternité enlacée à un Dogon”

Tonitruant le chien de Madame Bonjour intervient
“Vos conversations sont grasses
comme un démon à l’oeil manquant
allongé sur un tapis persan”

Une ombre folle et magouilleuse
s’entremet et chante à tue-tête
“Les ressuscités fauchent l’herbe multicolore
et un fou allume un feu écologique
avec le Marquis de Sade”

“Quelle est cette belle voix?”
demande Sapho frémissante
“Mais ma douce exilée moi le héron
voleur de pastèques et de raisins
sur un collage de Juan Gris”

Tonitruant le chien de Madame Bonjour intervient
“Vos conversations sont grasses
comme un démon à l’oeil manquant
allongé sur un tapis persan
et de ce pas je file à la cérémonie des persifleurs”

*

“Adoro bere saké con un Masai”
disse la geisha bianca “e tu Eredia?”
“Oh io, preferisco il ravanello al burro
e l’eternità intrecciata con un Dogon”

Interviene tonitruante il cane di Madame Bonjour
“Le tue conversazioni sono triviali
come un demone dall’occhio mancante
sdraiato su un tappeto persiano”

Un’ombra folle e ammaliante
si intromette e canta a squarciagola
“I risorti falciano l’erba multicolore
e un pazzo accende un fuoco ecologico
con il Marchese de Sade”

“Cos’è questa bella voce?”
chiede Saffo fremente
“Ma mia dolce esiliata sono io l’airone
ladro di cocomeri e uva
su un collage di Juan Gris”

Interviene tonitruante il cane di Madame Bonjour
“Le tue conversazioni sono triviali
come un demone dall’occhio mancante
sdraiato su un tappeto persiano
e adesso vado alla cerimonia dei motteggiatori”

Francesco Paolo Intini

UN BITE E MEZZO

Raggruppare lana sulla lampada.
Raggruppata.
(In fondo si trattava di sostituire una u difettosa)

Morso di pecora al posto del cavallo.
Sostituito.
(Unità di misura non ammessa dal SI)

Alla scomparsa di Guernica cambiò rotta la corrente del golfo.
Anche i Sette Sigilli furono ritoccati da Filini.

Dalla sedia del regista originò un ratto e altri risalirono la rena.
Innestare uno speculum sulla Punto rottamata.

Chi ha parlato male della r?
Forse un pungiglione calmerà la sete di peste?

C’è un ragazzo sul predellino che riempie un secchiello di nostalgia.
Faremo un castello con qualche trucco di cartone
ma alla fine morderemo un pezzo di pane.

Il collo di mollica che nessun demone riesce a baciare.

-Che furfanti riempiono le valigie?
Svuotare anche la stiva della scrivania.
Litanie da bombarolo in un lapsus.

Un tirannosauro incastrato in prossimità del cuore.
Ma nessuno vuol parlarne.

Forse un infarto chiarirà la misura del suo bite
o un’indagine televisiva sulle pillole di dentina.

Alle dieci del mattino interviene una marmitta catalitica.

E in fondo potevamo coltivarli come lumache
Sarebbero cresciute al profumo di mimosa.

Avremmo discusso con un angelo biondo.
Bignè sulle guance e tulipani dopo i canini.
Anteprima e via coi programmi sul cappellino.

Fa così buio sul Tempo
e i lampioni suonano black to black per raggelarsi.

Ha un lampo d’amuchina mentre sposta una parete
Un tocco di meraviglia sistema le piastrelle.
Si tratta di uno scarico da inabissare nella fossa delle Marianne.

I critici non capiscono i tubisti che murano le strofe tra pesci rotti.

L’emporio della metafisica pubblica i suoi depliants.
Sfogliarli all’alba, sul Collins ogni parola che buca una tomba.

Per il momento gli eventi girano attorno ad uno scarico
Finire in strada senza ausili né parcheggio riservato.

Un’ape morta sul lavandino.
Un cardellino con la bocca di un bambino.

Non c’è tregua nel creme caramel.

Raffaele Ciccarone

Non c’è tregua nel creme caramel

Giasone sale sullo yacht

Giasone sale sullo yacht parte per la Colchide
insieme al Corsaro Nero vanno alla ricerca del Vello d’oro

Maigret passeggia a Montmartre Lupin gli ruba la pipa
la rivende la domenica successiva al mercatino delle pulci

Il mezzo busto televisivo mostra sul dorso delle mani
i peli irsuti del dr Jackie – i bimbi si rifugiano sotto il letto
quando vedono le ombre dei mostri

Alice non trova l’uscita dal Paese delle meraviglie
Arianna gli chiede in cambio il cappello a fiori

note biobibliografiche

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022; con il medesimo editore nel 2023 pubblica Domani il giorno comincia un’ora prima.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Raffaele Ciccarone è nato nel 1950, ex bancario in pensione risiede a Milano. Dipinge e scrive. Ha pubblicato su una piattaforma online con uno pseudonimo circa un centinaio di poesie e qualche prosa. Ha partecipato a gruppi di poesia a Milano. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen,  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022; nel 2023 pubblica Al canto delle sirene manca l’acqua potabile

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Le radici della poesia di Marco Tabellione, Poiesis o Dichtung?, Il concetto di poesia da Giambattista Vico ad Heidegger attraverso Jaspers, Derrida fino ai giorni nostri

foto Un abito della collezione autunno inverno 2011 2012 The Rodnik Band intitolato Venere in paillettes che ha reso omaggio a vari artisti ha fatto riferimento alla Fountain di Marcel Duchamp del 1917

Foto della collezione autunno-inverno 2021 che rappresenta Venere in paillettes

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Le radici della poesia

di Marco Tabellione

Studiare la poesia rappresenta sempre un’avventura della mente, ma anche dello spirito e dell’emotività, come se l’arte delle parole riuscisse da sé a dare vita ad un universo globale e complesso, come se la poesia potesse davvero assurgere ad essere tra le arti la più capace a testimoniare l’integrità dell’essere umano, e il significato più profondo di ciò che è precipuamente umano. Del resto l’esaltazione di cui essa gode presso tutte le civiltà, ma anche il blasone che continua a conservare nella contemporaneità testimoniano appieno la sacralità di cui spesso l’arte poetica è rivestita. Per comprenderne le ragioni si può cercare di individuare alcuni autori che hanno tentato di evidenziare il percorso della poesia dalle sue origini, e di chiarirsi i motivi della sua nascita.-

Definire l’arte poetica è impresa a dir poco titanica, perché essa fa parte dei misteri dell’essere umano, in quanto ha accompagnato l’origine e lo sviluppo della civiltà. Giambattista Vico nella sua immensa opera La nuova scienza, tra le facoltà culturali umane pone la sapienza poetica al primo posto in ordine di nascita, molto prima delle altre discipline umanistiche o addirittura delle scienze esatte. L’idea di Vico è che il linguaggio poetico nasca contemporaneamente alla facoltà verbale dell’essere umano, o meglio ancora che il linguaggio nasca con caratteristiche poetiche. Lui immagina i primitivi, che chiama giganti (ma il riferimento è probabilmente alla mitologia greca, ad Esiodo per esempio che indica giganti e titani tra i primi nati dall’unione di Urano e Gaia) alle prese con i misteri e le paure del mondo, li immagina mentre fantasticano su dei e divinità per spiegare i pericoli e le difficoltà delle vite, mentre inventano svariate divinità attraverso cui sentirsi protetti, dalle quali anche farsi punire, nel tentativo di dare vita alle prime forme di organizzazione comunitaria e dunque di legge (Vico nota che Iovis il genitivo di Iuppiter, Giove in latino, ha la stessa radice di ius-iuris cioè legge o giustizia presso i romani). Li immagina passare dal linguaggio gestuale ai primi monosillabi, e successivamente alle prime parole con cui nominare le cose del mondo, sia esistenti sia non esistenti, li vede infine mentre fantasticano e creano l’idea di una trascendenza che possa indirizzarli e guidarli. Ed ecco il miracolo, il passaggio alla base delle culture: dall’ignoranza dei primitivi al sorgere delle prime curiosità, dalla paura e dal mistero suscitati dal mondo naturale alle prime idee di oltre, dimostrate dalla pratica della sepoltura, fino alla creazione delle prime religioni e delle prime cosmogonie. Nasce così non tanto la religione o la metafisica, quanto la poesia, e la poesia nasce come conoscenza, come prima forma di conoscenza che spalanca il campo appunto alla religione e alla metafisica.   

È evidente in questa ricostruzione vichiana la presenza di una particolare idea di poesia, ciò la poesia come creazione, come fare, come dare vita dal nulla. Il linguaggio umano cioè diventa per i primitivi la dimensione dei primi significati da attribuire all’esistenza. Le idee sorgono innanzitutto come parole; è, cioè, il linguaggio, nella sua origine poetica, che dà vita ai significati, i quali non preesistono al linguaggio; e ciò diversamente da come sosterrà Husserl, padre della fenomenologia, secondo il quale invece i significati sarebbero indipendenti dal linguaggio, come dimostra il caso ricorrente in cui sosteniamo che abbiamo l’idea ma non ci viene la parola. Altri filosofi, al contrario di Husserl, proseguiranno sul solco di Vico, fino al caso estremo di Jacques Derrida che sosteneva che “tutto è linguaggio”. Per Vico indubbiamente se non tutto è linguaggio, sicuramente vale il principio espresso nel vangelo di san Giovanni, secondo il quale come è noto “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio”. Sappiamo che per Vico tale impostazione (di significato primariamente teologico) vale nel senso del carattere iniziatico che il linguaggio avrebbe nella sua origine appunto poetica, tanto che la lingua costituirebbe lo scopo stesso del pensare umano, o meglio pensiero e linguaggio sarebbero in sostanza la stessa cosa, come è anche nell’idea dei greci che utilizzano la parola logos per indicare entrambi.

Gli stessi greci inoltre ci offrono etimologicamente la parola che noi utilizziamo per indicare poesia, cioè poiesis, che vuol dire appunto creare, e che ci permetterebbe di vedere nel poeta soprattutto il creatore, come creatori di linguaggio e pensiero furono i primi parlanti. Il poeta, cioè, secondo questa visione sarebbe un creatore, e creatori di linguaggio e dunque di poesia furono gli arcaici uomini preistorici che diedero vita alle prime forme verbali, probabilmente per costruzione onomatopeica.

Vico, a questo proposito, addirittura sostiene che le idee non nascono prima del linguaggio, sarebbero piuttosto conseguenti al linguaggio, perché la concretezza fisica, a cui i giganti primitivi erano legati, li avrebbe portati a creare prima il verbo fisico e poi le idee spirituali, i concetti. Va detto però che tale idea di poesia non è la sola avvallata dalle tradizioni e dalle civiltà che si sono susseguite nei secoli. Il romanticismo, ad esempio, ha sì mantenuto l’esaltazione della creatività del poeta, ma lo ha considerato come una specie di invasato, di posseduto dal linguaggio poetico, che sorge nella sua mente per servirsi di essa quasi come strumento, secondo una visione che tende a considerare il poeta come un mezzo della lingua e non viceversa. In base a questa interpretazione, la visione del poeta muove sempre da una ispirazione; è il sorgere misterioso e spontaneo dell’empito creativo che determina il primo germe del fare poetico, e l’ispirazione non nasce dalla individualità cosciente del poeta, da una sua volontarietà, piuttosto gli viene regalata.

Non per niente, Dante nel primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di ispirarlo, di offrigli una sorta di apporto divino, la vocazione profonda dell’arte delle parole di cui Apollo è protettore. Lo invoca perché Dante sa che da solo non è affatto in grado di dare un resoconto seppur sommario della sua estatica esperienza paradisiaca, poiché, dice in sostanza l’Alighieri, con le sole armi della poesia come arte, come tecnica (l’un giogo di Parnaso) non si potrebbe dare inizio a questo, per altro inutile e fallito in partenza, tentativo di dire l’esperienza del divino. A monte della creatività poetica, c’è dunque l’ispirazione, non sono l’abilità creativa, anzi la sorgente stessa dell’afflato poetico non è che in questo monito linguistico e immaginativo che sembra nascere indipendentemente al di fuori.

Ma che cos’è allora questo originario germoglio poetico? Difficilissimo dirlo, a meno che non ci si rivolga ad Heidegger, il quale, come ha ricordato Massimo Cacciari in molte conferenze dedicate all’unicità del linguaggio poetico, per le ragioni sopra esposte non utilizza il termine di origine greca poesie, ma quello latino di Dichtung, che potremmo tradurre con “dettato”. Il poeta cioè ubbidisce ad un dettato interiore, e ciò è lo stesso Dante ad affermarlo quando, dopo aver incontrato nel Purgatorio il poeta pre-stilnovista Bonagiunta Orbicciani, che gli chiede da dove derivi il suo “dolce stil novo”, risponde facendo proprio riferimento ad un dettato interiore “Io sono uno che come detta il cuore scrive” (alla lettera: “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”).

Scrivere o meglio ancora poetare, secondo questa visione non vuol dire tanto creare, cioè plasmare, mettere in atto un’abilità, un fare (poiesis appunto), ma vuol dire seguire un dettato, ubbidirgli addirittura, e non per niente il temine Dichtung etimologicamente si ricollega anche a quello di dictator, che a Roma designava la carica temporanea di sei mesi assunta in caso di pericolo per le istituzioni, termine dal quale poi deriva quello spregiato di “dittatore”. Per Heidegger la Dchtung è innanzitutto linguaggio, linguaggio però che si detta, si dà all’ascolto del poeta, per cui essere poeta vuol dire primariamente ascoltare e non parlare, vuol dire cioè ascoltare un linguaggio interiore. L’idea di linguaggio interiore fu formulato tra i primi da Vygotskij, linguista russo vissuto durante la dittatura staliniana e affidato allo studio di bambini problematici, il quale mise in relazione l’acquisizione dall’ambiente culturale di stimoli linguistici, da rielaborare individualmente, con i progressi dell’apprendimento. Su un versante ancora più misterioso e ovviamente metafisico Heidegger giunse ad individuare addirittura una completa identità tra il linguaggio interiore e l’essere stesso, vedendo nel linguaggio “la casa dell’essere”.

Nella visione di Heidegger il linguaggio, e ancor più il linguaggio poetico, non sarebbe solo uno strumento di comunicazione o espressione, ma sarebbe la fonte stessa delle idee, la forma materica che permette la nascita delle idee, le quali non preesistono al linguaggio e, rappresentando la fonte stessa della coscienza, sarebbero collegate con l’essere profondo dell’uomo fino ad influenzarlo radicalmente. Poetare dunque non vorrebbe dire solo fare, creare (poiesis) vuol dire innanzitutto immaginare il linguaggio, cioè rispondere alla Dichtung che abita ognuno di noi, e dunque in ultima istanza poetare vuol dire essere contattando l’essere. È probabilmente lo stesso tipo di identità tra linguaggio ed essere che spingeva Rimbaud ad affermare “io non penso ma sono pensato”. Come è noto Rimbaud appena adolescente paragonò il poeta ad un veggente, sottolineando la necessità di un’azione poetica che fosse innanzitutto aperta all’ascolto, e successivamente dialogo della ragione con questa matrice profonda dell’essere umano. Le Illuminations già dal titolo sottolineano questa specie di accensione di luce che la poesia comporta, in un senso che non coincide ovviamente con l’amissione razionalistica dell’illuminismo, il quale utilizzò la metafora già religiosa della luce, in un’accezione laica se non addirittura ateistica, per indicare la funzione totalizzante della ragione. In Rimbaud torna il significato mistico dell’illuminazione, nella quale però la ragione non è abolita, ma dialoga con le profondità dell’essere umano.

Dunque Poiesis o Dichtung? Entrambi si dovrebbe dire, nel senso che, essendo artista, anche il poeta si muove in un ambito di abilità, linguistiche o metriche o musicali, le quali abilità richiedono talento ed estro. Pur tuttavia è evidente che senza l’ispirazione originaria l’arte diventerebbe ben poca cosa; in fondo è lo stesso Dante a riconoscerlo, quando nel citato primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di assisterlo con entrambi “i gioghi del Parnaso”, perché ora l’autore della Divina Commedia confessa di aver bisogno soprattutto dell’ispirazione per poter proseguire.

L’esistenza di un monumento linguistico letterario nel profondo di ogni essere umano, per cui essere poeti e scrittori vuol dire appunto attingere da questo spazio di ricchezza, può essere comprovata dalla teoria di Jung sull’inconscio collettivo. Jung chiama in causa gli archetipi, e li riprendi da quelli che Freud invece tratta come simboli arcaici. Si tratta di componenti psichici collettivi, derivati da sedimenti che non interessano le individualità in quanto tali, ma in quanto individualità appartenenti al genere umano. Il modo che l’inconscio ha di rivelare tali archetipi assomiglia moltissimo al linguaggio simbolico della poesia, tanto da autorizzare a dire che si tratta dello stesso tipo di meccanismo psicologico e linguistico.

Jung sostiene che molti simboli onirici, i quali si rivelano nei sogni delle persone, non possono essere spiegati solo con le vicissitudini del singolo, ma rimandano ad un sostrato collettivo, dal quale il nostro inconscio attinge per le sue formazioni simboliche. Questa comune radice linguistico-simbolica, che risiede nell’uomo un po’ come gli istinti che agiscono negli animali – istinti il cui sorgere misterioso è utilizzato da Jung per motivare il sorgere altrettanto misterioso degli archetipi umani – questa radice archetipica, si diceva, non solo ha anche fare con le formazioni mitologiche dei popoli arcaici, ma appare vicina alla radice stessa della poesia. In un certo senso Vico anticipa Jung, quando descrive la nascita della propensione linguistica nell’essere umano definendola poetica a priori, e probabilmente il filosofo napoletano si riferisce inconsapevolmente ad un motivo arcaico, una tendenza simbolica e immaginativa, non lontana dalla dimensione psichica in cui si formarono gli archetipi collettivi junghiani.

Fase generativa, misteriosa e arcana, la quale ha a che fare con esperienze che Vico definisce divinatorie, e che investono le prime due età della storia umana individuate dall’autore della Scienza nuova, vale a dire quella sacra e quella eroica, dominate rispettivamente dalla percezione sensoriale e da quella sentimentale e passionale, mentre raziocinio e consapevolezza logica sarebbero state acquisite dall’uomo solo durante un terzo stadio. In definitiva nel secondo periodo quando l’uomo è già immerso in una configurazione passionale e sentimentale della propria visione del mondo, la necessità relazionale avrebbe spinto i nostri antenati ad elaborare la dimensione linguistica grazie alla quale sarebbero giunti a nominare e a significare la realtà, a determinare la coscienza – cioè una consapevolezza sempre più progredita sul mondo – e a produrre quell’incredibile creazione affabulatoria che darà vita alla mitologia e alle religioni, che a loro volta contribuiscono a rimpinguare la coscienza stessa.

Ma, lo ripetiamo, questa straordinaria sequenza sorge da un atteggiamento iniziale e iniziatico che è già poetico, è già poesia. Ecco perché Heidegger sosterrà che la poesia prima di creare ascolta; dal silenzio, come direbbe Ungaretti, essa tira fuori le parole e i loro connotati simbolici per offrirli alla collettività, e riesce a farlo perché attinge da un tesoro che è a sua volta collettivo, se ha ragione Jung quando parla di inconscio collettivo e va a riscoprire i miti antichi per avere conferma delle sue intuizioni. Scrivere poesia, adagiarsi sul linguaggio interiore, farlo parlare, non vuol dire solo dare vita ad un’esperienza artistica o estetica, o peggio semplicemente culturale, vuol dire contattare l’essere nella sua forma più pura, secondo quelle coordinate che Karl Jaspers, forse più di Heidegger, ha proposto. In Metafisica Jaspers sostiene che se l’esser-ci, la nostra sola sola possibilità di vivere l’essere, cioè essere qui e ora, viene vissuto nella consapevolezza della resa al mondo, cioè nella forma della contemplazione, allora l’essere, che è trascendenza ma anche immanenza, può davvero rivelarsi a noi, possiamo davvero cogliere “la meraviglia dell’essere” nonostante la nostra condanna alla consunzione, cioè al vivere per morire, ciò che il filosofo tedesco chiama “naufragio”. Ma questo cammino finale, questo incontro con l’essere è appunto la grande tentazione della poesia e del linguaggio, è la sua finalità fin dagli albori linguistici; è l’obiettivo di “dire l’essere”, che la poesia continua a perseguire da sempre, fallendo ogni volta e ogni volta ricominciando, come “Adamo che dà il nome alle cose”.

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Marco-Tabellione-2021Marco Tabellione (5.5.1965), laureato nel ’91 in lettere moderne all’università “G. D’Annunzio” di Chieti, con una tesi sulle avanguardie poetiche degli anni Sessanta, specializzato alla LUISS di Roma in giornalismo. Collabora con quotidiani e riviste letterarie nazionali e insegna materie letterarie. Vincitore a Perugia nel 1990 del premio di poesia intitolato a Sandro Penna, nel 1998 ha vinto il premio “Giovani autori” curato dalla Fondazione Caripe di Pescara, mentre nel 1999 il premio “Palazzo Grosso” di Riva presso Chieri (Torino) con il volume di poesie Incanti. Nel 2003 con la raccolta Tra cielo e mare è stato tra i vincitori del concorso “Adottiamo uno scrittore” indetto dalla provincia di Pescara, e nel 2004 si è classificato secondo al premio abruzzese Sant’Egidio indetto dalla cooperativa Tracce di Pescara. Per le edizioni Tracce di Pescara ha pubblicato nel 1995 la raccolta di poesie Gli uni e gli altri bui e il saggio sul giornalismo televisivo L’immagine che uccide. Nel 1998 è stata pubblicata la raccolta di poesie InCanti, sempre per le edizioni Tracce, mentre nel 2000 le edizioni Samizdat di Pescara hanno curato la raccolta di versi, L’alba e l’ala. Nel 2001 è uscito il suo primo romanzo Il riso dell’angelo per le edizioni Tracce, mentre risale all’anno 2002 il saggio di letteratura La cura dell’attimo edito da Samizdat di Pescara. Nel 2003 è uscita l’ultima raccolta di poesie intitolata Tra cielo e mare e pubblicata anch’essa da Tracce. Nel 2009 è uscito il romanzo L’isola delle crisalidi per le edizioni Runde Taarn, che nel 2010 ha vinto il premio Zenone riservato alla narrativa. Lo stesso romanzo L’isola delle crisalidi nel 2010 è risultato finalista al premio Lamerica e ha vinto il premio speciale della giuria al premio De Lollis. Nel 2011 ha vinto il premio di poesia Spinea e nel 2012 è giunto secondo al premio “Liliana Bragaglia” con il racconto inedito La bottega del libraio. Infine nel 2013 ha vinto il premio di giornalismo sezione ambiente “Vivi l’Abruzzo”. Nel 2015 è uscito il suo ultimo libro, il saggio Il canto silenzioso, viaggio nei segreti della poesia (edizioni Solfanelli) premiato nello stesso anno al premio di saggistica Città delle Rose di Roseto e finalista al premio Roccamorice. Nel 2016 il racconto L’uomo che decise di morire sulla Maiella ha ottenuto il premio speciale della giuria al premio sulla Letteratura paesaggistica. Nel 2017 è giunto terzo al premio nazionale di poesia di Civitaquana e la raccolta inedita Ogni voce si è classificata seconda al premio Pablo Neruda. Nel 2018 il volume di versi L’eternità dell’acqua (2017) è risultato vincitore del primo premio per la poesia alla rassegna dell’editoria abruzzese e nel 2019 ha conseguito il premio Maiella per la poesia, con la raccolta inedita Ogni voce il primo premio al concorso Il parco di Antonino. Nel 2021 è uscito il suo ultimo romanzo La vita che non muore per le edizioni Il viandante.

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Franco Cordelli, A proposito della Antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli – Poesie di Mario M. Gabriele da  Astuccio da cherubino (1978),  a cura di Giorgio Linguaglossa

Una nota personale di Franco Cordelli

L’Antologia Il pubblico della poesia (1975)

 Quante volte ho raccontato questa storia? Temo più d’una. Ma poiché la ripeterò per una ragione oggettiva, la ristampa de Il pubblico della poesia, spero sia l’ultima.

I problemi sono due. Perché sentii la necessità, chiamiamola così, di compilare questa antologia? Perché oggi, a distanza di quasi trent’anni, la si ristampa?

Potrei rispondere in tre modi.

  1. È stata spesso scambiata per una specie di mania la mia ansia classificatoria. Naturalmente si tratta di una faccenda complessa. Se lasciamo che nei nostri cassetti si accumulino carte, biglietti, lettere, “oggetti desueti”, ecc., il giorno in cui ci capiterà di rimetterci le mani, saremo pieni di orrore. Il passato ci invade l’anima come puro feticcio, come non senso. L’archiviazione, la catalogazione sono il minimo consentito, se non per il riscatto di quegli oggetti (che invero sono tutti psichici), per la loro stessa trascendenza. Inutile aggiungere che la poesia – la concentrazione, il distillato di ciò che lentamente si accumula nel fondo di qualcosa – sarebbe il massimo di trascendenza possibile. Che fare quando i propri oggetti sono precisamente le poesie di tutti gli altri, qualcosa che per definizione si situa, di fronte alla coscienza individuale, a metà strada tra la dimenticanza e la luce, di mezzogiorno o di crepuscolo non importa? È da qui che nacque Il pubblico della poesia. Questo fu uno dei primi impulsi.
  1. Nel 1975 il dominio dell’ideologia avanguardista era allo stremo. Ma non lo si capiva affatto. Era anche nel momento di massimo dispiegamento della propria forza. Ho detto forza e non energia. Tutta l’energia s’era volatilizzata. Il senso di soffocamento, di occlusione, era totale. Che cosa avrebbe dovuto fare un giovane che avesse avuto voglia di scrivere? Occorreva che si creasse da sé lo spazio (interiore) per liberarsi da un modello tirannico. Ma crearselo non era facile affatto. Sembrava impossibile. C’era il rischio, supremo, dell’inattualità – o della ripetizione, dell’epigonismo. Deridevamo chi non aveva fatto suo quello che ritengo sia il patrimonio inalienabile dell’avanguardia, e che posso riassumere nel concetto di sorveglianza. Ma i seguaci dei Novissimi ci sembravano irrimediabilmente sterili. Era evidente che non vi sarebbero state altro che soluzioni individuali. Ed era altrettanto evidente che per conseguire queste soluzioni, occorreva combattere due battaglie e non una sola, quella per se stessi, per il bene, e quella contro gli altri, contro il male.
  1. Finora ho parlato di scrivere. Ma c’era anche il problema, assillante e difficile, di pubblicare. Non mi riferisco in questo momento al problema generale della poesia di venire alla luce: complesso per lo meno in tutta la modernità, problema legato alle vicende del mercato e non già a quello del gusto interno alla sfera della poesia. Mi riferisco a questo secondo aspetto, alle oscillazioni del gusto, alle ideologie di volta in volta chiamate a sostegno. Nel 1975 il dominio di un gusto rispetto ad ogni altro era pressoché assoluto. L’antologia Il pubblico della poesia, stampata da un piccolo editore che nasceva (o rinasceva) allora, si proponeva proprio questo: provare a compiere un gesto di forza, contrapporre ad una forza centrale una forza per l’intanto periferica. Di tentativi simili, in quel momento, ce n’erano una quantità incalcolabile, e così, penso, accade adesso. Ma in quel momento, questo gesto per me si caricava di un significato ulteriore, indiretto, personale. Nel 1973 avevo pubblicato il mio primo romanzo, Procida. Non avevo ambizioni smisurate. Avevo, anzi, ambizioni sbagliate, indotte proprio dall’ideologia dominante e che mi proponevo di combattere. Desideravo il riconoscimento (virtuale) non di tutti ma di una parte. Inutile dire: della parte di coloro che consideravo “i miei padri”, gli scrittori e i critici della cosiddetta Neoavanguardia. Il riconoscimento non venne (a ragion veduta: poiché ignoravo quanto m’ero già distaccato da questi padri presunti, e naturalmente mi sarei messo a ridere se avessi potuto sapere che un giorno costoro mi avrebbero accusato d’essere un militante della parte avversa, e proprio il mio compagno d’avventura nella compilazione dell’antologia, accanto a scrittori più giovani, m’avrebbe invece accusato d’essere rimasto fedele alle mie prime ragioni avanguardiste). Come si vede non era, non era ancora, come non è tuttora, un problema di qualità intrinseca del libro che avevo scritto e di quelli che avrei scritto dopo. Era precisamente un problema di lotta per la sopravvivenza, lotta per prodursi uno spazio culturale, lotta per egregiamente dannarsi l’anima. Era, insomma, un problema di “pubblicità per se stessi”.

Pubblicare. Pubblicità per se stessi. Il pubblico della poesia. Si sarebbe mai sfondato il circolo vizioso? Si sarebbe mai usciti dall’altra parte?

Perché ristampare Il pubblico della poesia? Nel 1975 già sapevo che la letteratura, come l’avevo vissuta, assorbita e assimilata negli anni di formazione, era un puro relitto della Storia. Più volte ho indicato nel 1970 l’anno (simbolico) della fine: l’anno dei suicidi di Mishima (morte del romanzo), di Celan (morte della poesia), di Adamov (morte del teatro). Quel tipo di conoscenza non implicava ovviamente la credenza che non si sarebbe più scritto, né che non si sarebbe più dovuto scrivere. Pensavo che era finito un certo modo di scrivere, un certo tipo di rapporto con la letteratura, e della letteratura con il pubblico. Ancora non si sapeva che questo modo era ciò che si chiama il Moderno.

In ogni modo, questo tipo di coscienza – mentre mi induceva ad ogni understatement nei confronti delle ambizioni in assoluto intrinseche a quell’atto tanto naturale quanto di pura hybris che è scrivere una poesia o un romanzo o una commedia – questa coscienza non era così sciagurata da consegnarmi, nudo, alla militanza – alla militanza come scappatoia, uscita di sicurezza, rivincita. La militanza era quello che era, uno strumento – che lasciava intatta ogni nostalgia per ciò che non c’era più.

Naturalmente subentrava il rischio che la militanza, come pura gestualità, come resa all’evento, poco a poco guadagnasse tutto lo spazio, come è successo a tanti scrittori-ideologi. Di giustificazione in giustificazione sarebbe stato facile uscirne con le ossa rotte. Ripeto: indipendentemente dal proprio personale talento e dalle condizioni storiche. Ovvero, giocando come il gatto con il topo, proprio con la debolezza dell’uno (il talento) e la preponderanza delle altre (le condizioni storiche). Di alibi possibili ce ne sono tanti quante le verità: ma la propria verità (cioè la mia) è una sola, ed era allora quella che è oggi: l’idea che sporcarsi le mani fosse necessario, ma che di questo si trattava, d’uno sporcarsi le mani – non bisognava chiamarlo con un altro nome.

Nel 1975 era necessario. Oggi lo è altrettanto? E si può ripetere ciò che era solo un gesto? Tra l’altro, esso non si è manifestato in quanto conoscitivo: l’avanguardia come momento militante del moderno, la militanza come salute (e malattia) o malattia (e salute) della gioventù, ma anche in quanto boomerang: il ruolo di burattinaio, o di demiurgo, trasferito dall’arte alla vita ha forse alleggerito il senso di colpa togliendogli la sua forma, consumandone i margini? A me pare che, al contrario, lo abbia suffragato, come controprova, o accresciuto – come la vita accresce l’arte, ne testimonia, non meno di quanto l’arte accresce la vita e ne certifica, o compila, il senso. Ma qui entra in scena un paradosso della Storia, chiamiamolo così, un po’ pomposamente. Le diverse esperienze e gli opposti caratteri hanno diviso le strade dei due curatori, rimasti a guardarsi sempre (così credo), ma da lontano. Allora, trent’anni fa, credo d’essere stato io a trascinare Berardinelli nell’avventura. Egli in principio era, se non ricordo male, piuttosto riluttante. Ora la guida è lui, lui è il vero giudice, io della poesia sono diventato un lettore distratto, nella poesia non vedo più la figura d’un’emancipazione “politica”. Perché accade questo? Perché oggi lui è la guida e io mi lascio trascinare? Per Berardinelli non so. Il nodo tra poesia e militanza forse non s’è mai sciolto: a suo modo sente il problema della “giustizia poetica” in modo più cocente di quanto non lo sento io – che ho elaborato frattanto una mia personale teodicea. Io, in questa teodicea, accetto con letizia il contrappasso. Ma, alla letizia, vorrei aggiungere una glossa. All’improvviso, mi sono riconosciuto, come persona che si è formata nel 1968, una caratura tutta speciale, o meglio, forse, un ghigno. Mi sono riconosciuto tardivamente come intrinseco a quel simbolo, parte di esso, riflettendo sulle esperienze, così diverse dalle mie, di persone che avevano fatto tutt’altro che scrivere. Penso a chi fu protagonista fino al 1978, ai terroristi (di famiglia operaia) che non si sono mai pentiti, ma anche a chi fu protagonista dopo, nel quindicennio socialista. Tutti costoro non ignorano i propri errori e la natura di essi, non ignorano cioè il male. Eppure, rimangono ad essi, agli errori, e a ciò che ne stabilisce la natura, diciamo il male, assurdamente, demoniacamente fedeli. È in questo senso, e solo per questa affinità culturale, o generazionale, che non posso sottrarmi alla proposta di ripubblicare l’antologia di trent’anni fa, che di quel tempo è un piccolo riflesso.

Post scriptum.

Confrontato con la nostra antologia, il panorama della poesia italiana contemporanea è migliorato o, viceversa, peggiorato? E poi: la poesia è come la sinistra sempre in crisi, sempre in via di rifondazione? Eccetera. Forse a causa del fatto d’essere diventato un lettore occasionale, ritengo che questo panorama sia migliorato. Non vedendoli più, non incontrandoli, non essendo offuscato dalle loro persone, in genere lamentose, o litigiose, ovvero posto nudo e crudo di fronte ai libri, codesti libri sfolgorano. Tra coloro che non compaiono, o non comparirono, ne Il pubblico della poesia, o che rispetto a quell’epoca sono maturati in modo inequivocabile: Cosimo Ortesta, Iolanda Insana, Anna Cascella, Elio Pecora. Ma poi: Patrizia Valduga, Gianni D’Elia, Marco Palladini, Mario Santagostini (uno dei miei preferiti). Tra i più giovani aggiungo: Riccardo Held, Gilberto Sacerdoti (che però dieci anni fa sembrava più robusto), Alba Donati (uno degli esordi più originali), Paolo Jacuzzi, Umberto Fiori, Fernando Acitelli, Plinio Perilli (questi ultimi due, al contrario di quanto ho detto prima, mi piacciono come persone), Luca Archibugi (a giudicare dai manoscritti), Claudio Damiani, Paolo Febbraro (altro eccellente esordio), Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco, Silvia Bre, Marco Ceriani. In assoluto, il poeta che mi ha più impressionato (ma sono costretto a riferirmi a una lettura dal vivo in un festival) è Enzo Di Mauro. Mi piaceva anche prima, al tempo di Notturna, l’esordio. Ma il suo mutamento, ascoltandolo, mi apparve impressionante. Alessandro Fo non lo conosco, i suoi libri non si trovano.

In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano. Continua a leggere

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Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

Alfredo de Palchi

Domanda: Chi è il poeta Alfredo de Palchi?

Risposta: Alfredo de Palchi è nato a Legnago (Verona) il 13 dicembre, 1926, e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italiano residente negli U.S.A., a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua individualità stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento e di questi anni. Il suo primo libro, Sessioni con l’analista, esce in Italia nel 1967, con Mondadori, grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni; poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è ancora tutto da spiegare, un destino davvero singolare ma non difficile da decifrare. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione, (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri delle celle durante la detenzione del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo. Estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica degli anni che seguiranno la seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza letteraria italiana, per di più il giovane poeta era visto con estremo sospetto per via della sua scelta di affiliazione, ancorché giovanissimo, tra le file della Repubblica di Salò.

Laboratorio 5 zagaroli

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Perché una monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi?

Risposta: Perché Alfredo de Palchi è un poeta asintomatico e che non è possibile irreggimentare in una corrente o una scuola o una linea correntizia della poesia italiana del Novecento. E poi direi che il maledettismo di de Palchi non è nulla di letterario, non è costruito sui libri ma è stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana fu colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non è stata mai compresa in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini di schieramento politico-letterario. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neoavanguardia, la poesia di de Palchi venne messa in sordina come «minore» e «laterale» e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso e segnato. Finita in fuorigioco, chiusa dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava, e risulta ancor oggi, incomprensibile e indigesta alle istituzioni poetiche nazionali, era una fattura stilistica e poetica troppo dissimile da quella letterariamente riconoscibile della tradizione secondo novecentesca. Quella particolare «identità», quella convergenza parallela di vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di estraneità alla tradizione italiana. Probabilmente, la poesia di de Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica «europea», come espressione adiacente alla poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie. Diciamo, con una formula eufemistica, che quel manufatto era allora «oggettivamente» indisponente e indigeribile da parte della società letteraria del tempo. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia «migliore» di quella di Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci.

Laboratorio gezim e altri

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Pensi che oggi i tempi siano maturi per una rilettura priva di pregiudizi ideologici della poesia di de Palchi?

Risposta: Oggi, ritengo che i tempi siano maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo», per citare una dizione di Brodskij, da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano. Per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” da Pasolini nel 1963 perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo; questo almeno nelle intenzioni di Pasolini, artefice di quella operazione. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile» per motivi politici e di politica estetica, e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo e con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione storico-estetica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Domanda: Un capitolo della tua monografia è denominato «L’anello mancante della poesia del Novecento italiano». Vuoi spiegarci che cosa significa e perché questo titolo?

Risposta: La dizione non è mia ma di Luigi Fontanella che l’ha coniata per primo, che ritengo fortunata ed azzeccata. L’esperienza poetica del de Palchi di Sessioni con l’analista (1967) è centrale per comprendere la diversità esistenziale e stilistica della sua poesia nel contesto della poesia italiana del secondo Novecento, la irriducibilità di una esperienza poetica legata a doppio filo con la sua esperienza biografica e umana. Se si salta la poesia di de Palchi non si capisce nulla della poesia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. È incredibile, a confronto con la poesia depalchiana la poesia che si faceva in Italia non ha nessun punto di contatto, sembra quella di un marziano che scriva sul pianeta Marte.

Domanda: Una dichiarazione di sfiducia totale per le opere di storicizzazione.

Risposta: Sfiducia totale.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo de Palchi

Domanda:  I sei anni di carcerazione preventiva subita dal diciottenne Alfredo de Palchi con l’accusa infamante di omicidio di un partigiano, sono anni di letture intensissime da parte del giovanissimo poeta. Scrive Luigi Fontanella:

«Gli anni nel penitenziario di Procida, duri e vessatori da un lato, ma assai ricchi di letture, di stimoli e fantasie letterarie. de Palchi divora una montagna di libri che vertiginosamente (ma anche con diligente intento cronologico) vanno dalla Bibbia, Dante (specialmente quello delle rime petrose) e Cavalcanti, fino ai moderni e contemporanei, passando attraverso qualche rinascimentale, per arrivare, appunto, ai vari Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Quasimodo, Ungaretti, Montale,  l’amatissimo Cardarelli (su cui, sempre in carcere,  scriverà un breve saggio che, inviato a Cardarelli in persona, a quel tempo direttore della ‘Fiera Letteraria’, uscì su questa rivista,  suscitando scalpore e un certo dibattito),  fino ai suoi,  quasi coevi,  maestri o ‘fratelli’ maggiori: Sinisgalli, Sereni, Caproni, Erba, Zanzotto, Cattafi. Dalla lett(eratu)ra italiana passa poi a quella francese, non importa se – a quel tempo – con scarsa conoscenza di questa lingua, venendo conquistato in particolare da François Villon (non pochi eserghi tratti da questo poeta verranno poi utilizzati da de Palchi), Charles Baudelaire, Gerard de Nerval e, su tutti, Arthur Rimbaud».

Risposta: Il discorso poetico di de Palchi ha preso congedo dalle «fondamenta» pascoliane della poesia italiana del Novecento. Pascoli e D’Annunzio sono saltati di netto. È il primo poeta italiano del secondo Novecento che si libera anzitempo della zavorra stilistica pascoliana e dannunziana. In tal senso, è il poeta più realista del Novecento.

Laboratorio 4 Nuovi

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: E questo ai tuoi occhi è un distinguo importante?

Risposta: Nella mia visione dello sviluppo della poesia del Novecento questo è un punto decisivo.

Domanda: Torniamo agli anni Sessanta Settanta. Qual è a tuo avviso il distinguo dell’esperienza poetica di de Palchi rispetto alle coeve esperienze poetiche che in quegli anni si facevano in Italia?

Risposta: Nel libro, ho scritto: «Alfredo de Palchi sterza vigorosamente dalla poesia di impianto simbolistico-auratico del primo periodo montaliano, da una poesia meramente fonetico-musicale della tradizione lirica italiana dove l’io si auto conserva entro l’impianto dell’alienazione dell’«io» e del «corpo», per aderire ad una poesia dell’immaginario e della internalizzazione degli oggetti; fa una poesia afonetica, amusicale, anti auratica, fantasmatica non inscritta in alcun pentagramma melodico tonale. Un po’ in consonanza con quello che avveniva nella musica di avanguardia degli anni Sessanta da Giacinto Scelsi, John Cage a Luciano Berio, a Morton Feldman che apriranno nuove prospettive alla musica contemporanea». Non mi sembra cosa di poco conto.

Domanda: La poesia di Alfredo de Palchi come esempio di un nuovo tipo di realismo?

Risposta. Direi che non ci possono essere dubbi in proposito. Nel libro scrivo:

«Leggiamo alcuni sprazzi di «materia poetica» di de Palchi all’argento vivo, da «Un ricordo del ’45» in Sessioni con l’analista (1967):

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
[…]
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

Si tratta della poesia che ha consumato la più alta capacità di combustibile dagli anni del dopo guerra, un veicolo ad altissimo dispendio energetico, che non conosce il principio del risparmio di carburante, che va allo scontro frontale con l’entropia delle scritture detritiche dello sperimentalismo in auge negli anni Cinquanta e Sessanta, attraversa i decenni con una incredibile fedeltà alla propria intuizione stilistica ed arriva all’epoca della stagnazione stilistica e spirituale dei giorni nostri sempre con l’allegria del naufragio prossimo venturo».

Laboratorio quattro

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

ALFREDO DE PALCHI COVER GRIGIADomanda: Hai scritto nella monografia:  “Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo de Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967». Ritieni questo un punto qualificante della esperienza poetica di de Palchi?”

Risposta: Lo ritengo un punto assolutamente qualificante.

Domanda: Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore».

Risposta: Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

Domanda: So  che hai letto l’ultimo libro inedito di de Palchi Eventi terminali. Che cosa mi puoi dire su questo lavoro?

Risposta: Siamo circondati dalle parole-chat: radio, televisione, internet, giornali, riviste di intrattenimento e di nicchia, simil-poesie in plastica, miliardi di parole che sciamano con un ronzio inquietante e imperioso nella nostra mente. Anche le opere letterarie sono promulgate in parole chat. Purtroppo non abbiamo altra scelta che credere fermamente in una utopia: che soltanto una grande letteratura può bucare la rarefatta atmosfera fatta di sciami di parole insulse, inutili e perniciose. Le parole sono importanti per mantenere viva e vigile la coscienza estetica di una comunità nazionale. La decadenza delle parole di un popolo è l’indice del progressivo sfacelo di un paese e di una lingua. Una lingua è una precisa concezione del mondo e una immagine della identità di una comunità linguistica. Modificando le parole cambia la lingua, muta la concezione del mondo di quella lingua e muta l’immagine riflessa della identità di una comunità.  Il senso dell’identità dell’io è una costruzione linguistica e, come insegnava Lacan,  quello che per un soggetto è il significante non coincide con quello che per il medesimo soggetto è il significato; tra significante e significato si apre una voragine. Quando l’identità di una nazione è in crisi, si offusca anche il linguaggio dei suoi poeti migliori; de Palchi con quest’ultimo lavoro inedito, Eventi terminali, avverte, come per telepatia, la grande crisi del paese Italia, e la traduce in una scrittura anche sgrammaticata, sforbiciata ma di forsennato vigore. Una scrittura che vuole bucare il linguaggio poetico maggioritario dei nostri giorni, e lo buca a suo modo, con una forza effrattiva che lascia sgomenti. È un linguaggio testamentario che qui ha luogo: de Palchi ritorna, ossessivamente, ai luoghi e ai fatti della sua prima giovinezza, deturpati e violentati, prende per il bavero il più grande poeta italiano del novecento: Eugenio Montale e lo irride mettendo a confronto la edulcorata scrittura letteraria del poeta ligure con la propria irriflessa e istintiva. È l’ultimo atto testamentario del poeta Alfredo de Palchi.

In senso teleologico, il critico ideale è il lettore ideale. Comprendere l’«esperienza» che le parole di un poeta ci offre, questo è il compito del lettore ideale e quindi del critico. Abito del critico è la dichiarazione di valore letterario di un testo. A volte, non basta il primo incontro con un testo; di frequente il lettore vigile ritorna a riflettere sull’opera. Legge e rilegge la stessa opera, magari a distanza di anni. La riflessione è il primo stadio del processo di comprensione ma, inevitabilmente, in ogni atto di lettura è implicita una valutazione. Il lettore ideale si dovrà chiedere: a chi si rivolge quest’opera? Da dove proviene? In quali rapporti sta con le altre opere sue contemporanee? Come si colloca a fronte delle opere del passato? Come si colloca nel panorama del  contemporaneo? Cos’è che rende importante un’opera nei confronti di un’altra? Qual è il rapporto che collega un’opera ad altre contemporanee? Il giudizio critico implica sempre una collocazione non solo dell’opera ma anche del lettore ideale. Ma un giudizio critico è sempre «aperto», non può essere «chiuso», altrimenti sarebbe un dogma teologico; nel giudizio rientra la ricerca del confronto con altri giudizi; ciò a cui il lettore ideale tende è un confronto con altri lettori che lo induca a riesaminare il precedente giudizio. Paradossalmente, il critico ha bisogno, più del poeta o dello scrittore, del confronto con un pubblico. Senza di esso, l’atto della lettura critica diventa un responso soggettivo. Credo che debba esistere nell’ambito della comunità una élite di lettori intelligenti in vista di un accordo sul giudizio estetico. Privo del supporto con un pubblico intelligente, il lavoro del lettore ideale diventa un fatto utopico, al pari di quello del critico. In fin dei conti, anche la scrittura di un critico è un atto testamentario, al pari di quello del poeta.

Quando una società non dispone di una letteratura in salute, l’esercizio dell’attività critica risulta dimidiata e offuscata, la comunità dorme il suo sonno ontologico. La stessa democrazia è in pericolo. La valutazione delle «cose pubbliche» della comunità non è cosa diversa e distinta dalla valutazione delle «cose private» qual è un  libro di poesia.

La difesa di un libro di poesia ha a che fare con la difesa della democrazia. Occuparsi di un’opera di poesia, difendere un buon libro di poesia, un autore è dunque un esercizio altamente «politico», è un atto da cittadino della polis, un atto che ha a che fare con la libertà individuale e collettiva. È, in definitiva, un atto pubblico.

Domanda: Un’ultima domanda, pensi che sia utile in quest’epoca di grande confusione in materia di poesia scrivere una monografia critica su un poeta vivente?

Risposta: Sono fermamente convinto che nella attuale situazione di confusione indotta dei valori poetici sia indispensabile proporre delle monografie critiche sui poeti veramente significativi. 

Laboratorio lilla

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Alfredo de Palchi, Poesie
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies Continua a leggere

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Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto, La Τύχη di Aristotele, Poesia di Gino Rago, Storia di una pallottola n. 8, n. 10, con una Lettera di Giorgio Linguaglossa, Giorgio Ortona, autoritratto,

Giorgio Ortona, agnostico, astemio e asintomatico 2020, olio su tela, 53,3x37,5 cm

Giorgio Ortona, autoritratto, agnostico, astemio e asintomatico, olio su tela, 533×375, 2020

Giorgio Linguaglossa

Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto

Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto. In ciò la critica del testo poetico, lungi dal ridursi a mera pratica ermeneutica, non può neanche appiattirsi a semplice teoria del senso. Se così fosse, il nucleo vuoto del reale resterebbe inviolato.
Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto. L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide precisamente con l’insensatezza del reale medesimo. Il testo poetico non risponde ad alcuna intenzione originaria di significazione, o a un «voler dire», il reale è il registro di tutto ciò che il testo non recita e che è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. Il testo poetico è proprio di un fuori-senso costitutivo del registro del reale. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio. Queste le parole di Lacan al riguardo, in uno dei numerosi tentativi di definizione del reale:

«L’Altro dell’Altro reale, ossia impossibile, è l’idea che abbiamo dell’artificio in quanto è un fare che ci sfugge, e cioè oltrepassa di molto il godimento che possiamo averne. Tale godimento sottile sottile è ciò che chiamiamo spirito. Tutto questo implica una nozione di reale. Certo, bisogna distinguerla dal simbolico e dall’immaginario. L’unica seccatura – è il caso di dirlo, vedrete fra poco perché – è che in questa faccenda il reale fa senso,mentre, se andate a scavare quello che intendo io con la nozione di reale, appare che il reale si fonda in quanto non ha senso, esclude il senso o, più precisamente, si deposita essendone escluso». 1

Tuttavia, malgrado la sua estraneità e la sua irriducibilità all’ordine simbolico, alla significazione e a qualsiasi tentativo di rappresentazione, esiste un modello in grado di riferire piuttosto adeguatamente l’opacità del reale al senso. Si tratta della lettera.

Qual è lo statuto della lettera in Lacan? Ben lungi dall’aderire al modello della scrittura tradizionale, la lettera è qualcosa di insignificante, o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o di senso, quanto l’estraneità, la revulsione ad esso. Ogni senso, così come ogni non-senso, è interdetto alla lettera, la cui solitudine indica l’emersione di qualcosa nel registro dell’esperienza umana (esperienza profondamente simbolica) come di un resto problematicamente irricevibile e non integrabile nell’esperienza stessa, in quanto dotata di senso. Esiste un’utilità della lettera, non riconducibile unicamente alla sua funzione indicativa, o sintomatica di un reale in quanto residuo o scarto non integrabile e non significante nell’esperienza del soggetto: si tratta, piuttosto, di una funzione di collegamento con una sorta di campo trascendentale del linguaggio, prima cioè che il linguaggio inauguri concatenazioni significanti di parole.

Si tratta, in altri termini, di annodare l’insignificanza della lettera al potere enunciativo delle parole, così da poter «godere del solo blaterare della parola». La questione di fondo è legata al riconoscimento del carattere esplicativo della lettera, nella misura in cui essa, prima ancora di costituirsi come segno in un sistema linguistico, polverizza il linguaggio riducendolo alla materialità di una cosa. E quella cosa che emerge come scarto nel linguaggio, altro non è che il reale stesso, non si aliena nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma vi si oppone, non fa resistenza, ma mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole. In questa prospettiva, il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione del dispositivo linguistico. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità. Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’iscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità. Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere e al non conoscere, nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime: il conoscere. Come sostiene Alain Badiou, una delle differenze sostanziali tra il reale e la realtà nel pensiero lacaniano consiste nell’inscrizione della realtà nel dominio di ciò che è, almeno di principio, conoscibile. Al contrario, il reale, che abbiamo visto essere esterno tanto al conoscere quanto al non-conoscere, non può essere pensato, per ciò stesso, nemmeno nei termini di inconoscibilità. Al di là di ogni formalizzazione, il reale lo si può solo incontrare.

Τύχη – L’incontro con il reale

Fuori dal senso, dalla verità, dal conoscibile e dall’inconoscibile, l’unico dominio cui il reale si concede è l’incontro. Ma v’è di più: nella differenza abissale che sussiste con la realtà ordinariamente intesa, il reale lacaniano è l’indice di qualcosa che appare improvvisamente nel mondo empirico e che ne interrompe il funzionamento, ne traumatizza l’esercizio. Il reale è ciò che resta disfunzionale rispetto al mondo.

Τύχη: come si sa, con questo termine ereditato da Aristotele, Jacques Lacan indica proprio l’incontro con il reale nella misura in cui esso prende le forme del trauma. E il trauma non è altro che ciò che nella realtà si presenta come inassimilabile alla realtà stessa. Trauma che irrompe nel funzionamento lineare della catena significante,che vi fa irruzione come buco, come taglio. Ma a costituirsi come trauma nel linguaggio è proprio un significante, ancorché del tutto particolare; un significante che, non ricollegandosi a nulla, incarna la mancanza, incarna il reale come iato. Eppure questo incontro è un incontro costitutivamente mancato. Nell’esperienza della psicoanalisi, sostiene Lacan, ogni appuntamento con il reale è un appuntamento tradito, eternamente rinviato. Perché il reale in sé è ciò che sfugge senza posa; non si dà appuntamento con il reale se non nella forma di un appuntamento mancato. Pur tuttavia, tale mancanza non indica affatto l’irrealizzabilità dell’incontro stesso: l’incontro con il reale si realizza nella forma della mancanza, della fuga, della procrastinazione indefinita. E l’effetto sul soggetto di questo incontro sempre mancato con un reale che si dà solo nella forma del trauma non può che essere un effetto perturbante, straniante, spossessante. Nell’incontro traumatico sentiamo venir meno la presa, il controllo su noi stessi e sull’esperienza ordinaria del mondo.

Tύχη è l’indice di una sorpresa traumatica che irrompe nella vita del soggetto. La natura evenemenziale della Tύχη in quanto incontro con il reale inscrive l’accadimento nell’esperienza e ne marca la difficoltà di controllo.
Tύχη è, altrimenti detto, l’evento dell’ «incontro del soggetto con il proprio impossibile». È l’incontro con il reale in quanto impossibile. Formula magica o ritornello sin troppo abusato nell’esegesi lacaniana, la descrizione del reale in termini di impossibile è tuttavia rivelatrice di quante e quali considerevoli resistenze e complicazioni siano intime ad ogni tentativo di inquadrarne lo statuto. Proprio per questo, il reale di Lacan, lungi dall’essere un’entità mistica, si configura come quella soglia evenemenziale indicibile che tocca il soggetto nel suo punto impossibile, così che il soggetto medesimo non sia in grado di riferirne alcunché: l’ineffabilità del reale coincide con la sua radicale estraneità all’ordine del senso e della verità. Puro punto di traumaticità. Ecco il reale. Ecco l’impossibile del reale.

Non l’irreale, dunque, ma l’impossibile come ciò che include in sé stesso il possibile nella forma dell’innominabilità, dell’ineffabilità, dell’irrappresentabilità. Ecco allora che il ricorso di Lacan alla nozione aristotelica di Tύχη per indicare l’incontro costitutivamente ed organicamente mancato con il reale, è mirato a definire il contatto del soggetto con l’impossibile di quel reale che giace al fondo di ogni possibilità, e che è limite ed origine primordiale e causativa di ogni contingenza.

1 1 J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psico-analisi 2003. p. 61 trad. It. di A. Di Ciaccia, Contri, Torino, Einaudi.

Gino Rago

Storia di una pallottola n.8

Ufficio degli oggetti smarriti di via Gaspare Gozzi. Il commissario Ingravallo ha requisito una busta con dentro questa conversazione telefonica.

Wislawa Szymborska:
«Madame Colasson,
avrei bisogno del suo cardiogramma».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, le posso concedere un cablogramma
con dentro il nulla».

Wislawa Szymborska:
«La sua pallottola viaggia sempre a scrocco…
E anche senza biglietto».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, sto dissipando le mie “strutture dissipative”.
Domani sarebbe già tardi, non posso risponderLe.
Adieu».

 

Storia di una pallottola n. 10

Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.

Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.

Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».

Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».

Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.

Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettile fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.

Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.

Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.

Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.

Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:

«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

sono passati 101 anni dal saggio di Osip Mandel’štam Sull’Interlocutore, del 1919, il poeta di oggi non può più rivolgersi a nessun interlocutore. Questa tua poesia è figlia di questo tempo. Rende bene la differenza, anzi, l’abisso che passa (e divide) tra la visione della poiesis della Szymborska (sostanzialmente ancorata alla ontologia poetica del tardo novecento) e quella tua e di Marie Laure Colasson. Siete poeti della nuova ontologia estetica. È come se fossero passati mille anni dalla impostazione di Osip Mandel’štam.
Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso purtroppo le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.
Il vero potere destituente è la potenza destituente del «nulla» che abita la poiesis della nuova poesia della nuova ontologia estetica.

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Disattivare il sistema semantico e semiotico del dominio è il compito precipuo della nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico, Poesia di Francesco Paolo Intini con una Lettera a Giorgio Linguaglossa, Fracchia recita Edipo re, 

Gif Sparo
caro Francesco,
è che viviamo ormai tutti sotto il mirino di un revolver. È la pallottola del senso e del significato che ci sta uccidendo. Il senso e il significato dell’Altro. Ogni giorno in ogni istante del nostro giorno obbediamo all’ordine del giorno del significato, alle ingiunzioni del significato (questo è questo e quello è quello, questo non è quello, etc.). Siamo così abituati ad obbedire che obbediamo anche quando disobbediamo, anche quando diciamo “no”. Anzi, il sistema richiede il nostro “no”, lo prevede e lo contempla, lo protegge addirittura. Il “no” dell’homme revolté è diventato il “sì” dell’homme bourgeois, dell’uomo cittadino di internet. Tu scrivi: «Fracchia recita Edipo re». A questo punto non resta altro da fare che disapplicare il sistema di comando, disattivare il sistema di dominio con un gesto di sottrazione, di inappropriabilità, di esproprio di noi da noi stessi. Disattivare il sistema semantico e semiotico del dominio è il compito precipuo della nuova poesia della nuova fenomenologia del poetico.
(Giorgio Linguaglossa)

Francesco Paolo Intini

Caro Giorgio,
nel leggere i tuoi ultimi interventi inevitabilmente il pensiero è corso alla scena del supplizio della povera ragazza messa al rogo nel film di Bergman “ Il settimo sigillo”.
In qualche modo il poeta si trova su quella scala mentre cerca di convincere Antonius che qualcosa c’è, questi e più di lui il suo scudiero hanno contezza che così non è.
La scena scorre, la condanna, il tempo impongono leggi ed eventi che non vogliono domande ma solo obbedienza e conformità di veduta. Il pensiero dei due cammina sui binari dell’evidenza e del dubbio mentre quello dei carnefici e della strega su quello della certezza e della positività.
D’altronde come potrebbe entrare a far parte della vita il Nulla?
Solo in punta di morte, quando la successione degli eventi diventa singolare e violenta, si manifesta con quello che fa, la distruzione di cui è portatore.
Il poeta dunque si trova di fronte a questa evidenza di un Nulla che scaturisce sul crinale degli avvenimenti. Ma ce ne vuole a convincerlo che questo stesso sia l’ interlocutore che svuota il paesaggio ed il coro di uomini, l’unico in grado di indicargli un senso e un modo per scendere dalla scala.
Il salto è tutto qui.
Quando questo diventa chiaro il ruolo di ognuno all’interno della sua narrazione si scolla e con esso anche il pensiero logico che vi corrisponde.
Non è follia ma lucida presa d’atto di un problema di cui la poesia è manifestazione nella misura in cui si fa indeterministica, lontana cioè dal dare un peso e un senso preciso a ciò che scrive.
Tutto è chiaro se al centro dell’universo poetico c’è l’Io domatore di leoni con i suoi trucchi di verseggiatore capace di attrarre l’attenzione su un numero di bravura e piacevolezza, ma cosa succede se qualcuno di questi manifesta il suo animo di violenza e predazione e nessuno è in grado di controllarlo?
L’evidenza è intorno a noi con questo costante saltare del COVID -manifestazione di una natura imprevedibile e infinitamente indomabile- addosso a qualcuno, ma lo era già da parecchio tempo, solo che non eravamo su quella scala con il rogo sotto e potevamo illuderci che l’Io avrebbe dominato il gioco di equilibrio tra terrore e ragione o che qualcun altro lo avrebbe fatto per noi.
C’è di fatto che questo tipo di domatore non è più credibile se di fronte al Nulla continua a dire che c’è un interlocutore su cui modellare il discorso e con cui val la pena di rapportarsi ” dicendo la messa e ascoltandola” per dirla con Mandel’štam.
La poesia indeterministica, come il sottoscritto la intende, è fatta di interferenze e suggerimenti, percorsi illogici del tempo e salti di epoche. La nuvola che, come dice il poeta di sopra non si fa beffe di nessuno, riempie un foglio che non è di cellulosa.
Ma di cosa è fatto il suo nucleo?

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: “ NATOMALEDUE” è in preparazione

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[PACK]

Intervistarono il lavoro, proiettore in pensione,
e dichiarò che non ce la faceva più a tener fermo il frigo.

Il Po gli chiedeva cosa fare di versi e spleen

L’ ossigeno aveva denti di carbone.
Zolfo che sgorgava dall’idrogeno.

Anche la mente rimandava allo stomaco
Impossibile sostenere il ritmo della carie

Immagini sfocate fuori Capitale.
Una cucina a raccontare il piacere della dispersione

Ritornò in casa dopo un sopralluogo alla corteccia cerebrale.

Opportunità che offriva la cornetta del telefono.

Installare cardellini nel ciliegio
da una stalattite una margherita.

E quando fu piazzato un geyser oltre la veranda
il discorso cadde sulla caldera sottostante
-In una spiga si può essere vicini a Dio
E sentire mille ampere tra stelo e Sole

Piccoli roditori delle immagini costruivano cattedrali sulla calce viva.
Il freon rigenerato dalle scene di paura .

Fracchia recita Edipo re.
-Tornai da figliol prodigo dopo aver vagato per l’Antartide.
E niente d’incomparabile a una cena ultraterrena.

Non più di una Spagnola alla volta se non si ha posto tra i Sigilli.
E infatti la più grassa, creatura di Otero, non riusciva a rientrare nel Settecento.
Decise di liberare una pulce dalla parrucca e si trovò nel 2020.

Dov’era la testa mozzata dei colombi?

Attese la fine del quaternario intanto che in un angolo riprendeva fiato.
Cominciò con una storia di pressione e ingrossamento del fegato

Ma ci finirono dentro calcoli biliari e sedia elettrica,
lieviti e ostruzione della coronaria

E ora quest’intervista sul vapore
che si disperde da una pentola sul pack.

[CERCASI CAPOSTAZIONE]

Al rifiuto del geranio l’acqua sale nel rubinetto.
L’ictus abbandona il campo a Stalin furioso.
-Finire da chierichetto una vita così.

Sole e Pioggia giocano a roulette russa
Nessuno dei due azzarda una regola
Perché angosciarsi con gli scacchi
se il Logos ha già pensato a tutto?

Terza tra le Grazie, una Kapò balla la polka.
Chi l’avrebbe detto di questi postumi fuori della fossa.

L’epoca fu propizia alle birrerie. Il grano violentava i crucchi.
I popoli ricevettero un filetto di piombo al giorno
Ma adesso il botulino fa da chairman a un congresso di virologi.

Finiscono seduti a un giardinetto. Bere novello
Forchetta e piatto con un occhio alle scintille.

La firma di Duchamp sulla confezione da un Ampere.
E intanto da una polla nella rocca sgorga Cagliostro.

L’uscita dagli ovuli fu un rompicapo
mettere in ordine feti e chiavi inglesi

ai gatti nati dai baccelli fu tagliata la testa

Non si può progettare un esperimento come un binario
Prima o poi un bunsen si mette in proprio

Le leggi ridiscesero le scale ma era il ‘39 e diluviava
Da una crepa nella carena un fotone contagiò Noè.

[LA LUCCIOLA SPENSE IL FALÒ]

Calcabrina chiuse via Glamorelli
Rimasero secchi a riempirsi di cieli stellati

Plutone interviene ad un pranzo di cassintegrati:

-Milioni di piedi hanno smesso di cercare un predellino
E la calcolatrice non ha il tasto dello spread.

C’è odore d’amuchina nel pensiero di Cartesio

Nacquero sillogismi con vibrioni in premessa.
Il museo di Pietro il Grande non conobbe crisi

Il mostro a tre teste del declassamento
I nervi prospettano un meteorite nello Yucatan

D’altronde si sa che alla scomparsa dei mammiferi
subentrarono i Tirannosauri.

Alcuni, con donne bellissime a fianco,
indossavano lo scalpo di Marylin

Altri avevano il mouse a trentadue denti
I Poli invece voltarono faccia e decisero per un altro momento.

Il tempo era propizio alla glaciazione
e non si poteva lasciar fuggire l’occasione.

[GLENN]

Tre chitarre sulla clinica di fronte.
Cinque dita per una gru.

Per tutti un infinito a divisore.
Ruota il sole in un bagaglio a mano.

Così cominciò la prevendita di biglietti.
Ci si sarebbe accaniti per un posto in un secondo.

Immettere velocità nella pigrizia dei poeti.
La montagna russa al lancio dello Shuttle

In diretta e la garanzia di poter scegliere
tra bandiera rossa e stelle e strisce.

Quel giorno la chitarra mise una corda
in una bottiglia e scolò il pvc.

Ci furono vittime senza preavvisi
e interviste all’uranio arricchito.

Al licenziamento di ulivi seguirono piramidi
con radici esagonali.

Tafferugli tra tifoserie
per l’acquisto di triangoli.

Negli occhi la trasparenza delle api
mentre sputava whisky il collo in fiamme.

La scomparsa dei diodi muschiati
in favore di una scheda perforata.

Toccano il naso i denti buoni. Cardellini
nelle trombe di Eustacchio.

La corteccia dei Beati.
John Glenn in tutti i Noi.

Il saluto dall’universo e una certezza
Integrale triplo in punto di morte.

Gli altri.
La divisione a palate sulle spalle.

[BREVE INTERVALLO IN UN GIORNO DI PIOGGIA]

Un Io cade sul pino, un altro scivola sulla veranda.
Tanti annaffiano i trifogli

È pioggia, diluvio, tzunami

Una goccia ha perso le dita stanotte.
Batteva forte alle finestre del quartiere.

I dati confermano un tonfo nel mercato dell’oro.
Gli smeraldi escono da soli dalle miniere.

I diamanti invece hanno crepe d’argilla.
I batteri muoiono d’invidia.

Bandito il rimorso dalla coscienza
si procede a sperimentare un volo di corvo.

I topi confermano il pessimo andamento della stagione.
Piazzare peste è davvero difficile.

Di gatti feroci nemmeno l’ombra.
Solo quelli di casa conoscono lo Spread.

Un agguato di cani in diretta TV.

A uno che diceva NOI hanno dato dell’untore
e dopo averlo ucciso, ha potuto bestemmiare.

C’è un ritorno di pioggia. Cade sul soffitto, scivola sul canale del gas
Si affaccia ai vetri. Fa un breve intervallo di pubblicità.

Poi torna la conta oltre il cento, mille, infinito
In giacca e cravatta su tondo, oblungo, fico secco, cipolla

goccia dopo goccia ovvio, sulle antenne, le cucine le case

(Inediti, Francesco Paolo Intini)

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Andrea Emo, da La voce incomparabile del silenzio, Da Montale alla nuova fenomenologia poetica, Poesie di Gino Rago, Alfonso Cataldi, Struttura dissipativa Z di Marie Laure Colasson, Commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Z Struttura Dissipativa 2015

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Z, acrilico, 55×35 cm., 2015]
Il quadro Struttura dissipativa “Z” ci offre la rappresentazione del mondo che è tutto ciò che accade. Tutto il mondo è contenuto in questa struttura dissipativa. Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto.
Una colonna color rosso imperiale che si sdipana dal basso all’alto su uno sfondo di nerità luciferina e una ricca varietà di narrazioni di contorno, intersezioni intersemiche e polisemiche in un arco di semicolori abbaglianti, cangianti e sfumanti. Il rosso porpora, il viola cardinalizio, l’arancione acrilico, il verde bottiglia e il blu cobalto delle carrozzerie Audi insudiciate degli anni novanta, il senape e lo zafferano, la sfumatura di melanzana delle Fiat millecento anni ottanta, il mandarino e il ciclamino, il cinabro dei vecchi muri scrostati dell’Urbe, il carminio dei rossetti popcorn, il bianco sgualcito e rarefatto delle camicie da mettere in lavatrice, le nuances della mostarda e della majonese, della cioccolata, del budino, dell’ovatta usata, il rosa scialbo e livido del yogurt alla albicocca, il violetto sbiadito, il lillà, il color albume dei dentifrici antiplacca, il pourparlerdelle insalate francesi farcite di creme e cremagliere, gli esantemi di funghi arrostiti, gli unguenti di argan, i sorbetti alla mela verde, il color di vino novello e quello in barrique, la variantistica dei rettangoli, delle semi sfere, delle losanghe periferiche e della colonna centrale di rosso imperiale che impressiona, la miriade di pigmenti pulviscolari che scollima con l’effetto di luminosità iridescente.
Tutto ciò il quadro lo raffigura in modo traslato e intersemico e lo convoca in una struttura auto sufficiente e auto immune, erige la propria struttura difensiva e ostensiva perfettamente in grado di rendersi indifferente ed estranea alla prassi, perché la felicità non è nella prassi ma al di là della prassi, al di là della storia. La sola felicità compossibile è quella che è contenuta nella prassi di una struttura dissipativa come atto di negazione del tutto. Scrive Adorno nella Teoria estetica: «la forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità».
(Giorgio Linguaglossa)

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

Lucio Mayoor Tosi, polittico

«Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato…»
(Lucio Mayoor Tosi)

«Sono un errore con sette corpi. Uno è rinchiuso in un vecchio film osceno, gli altri vagano nella cristalliera.»
(Carlo Livia)

«Un Io cade sul pino, un altro scivola sulla veranda.
Tanti annaffiano i trifogli»
(Francesco Paolo Intini)

«Così… me ne sono andato, non esistevo più. E mi sono accorto che ero felice.
Poi mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi»,
disse Xabratax ingollando un tramezzino.
(Giorgio Linguaglossa)

«La prima pagina ha l’occhio stanco,
è una pratica elegante, bisbiglia attimi.»
(Mauro Pierno)

Ecco, nel mondo amministrato dove tutto è regolamentato con la massima precisione, capita di non sapere più come comportarsi nelle cose più elementari come entrare in un bar per prendere un caffè…
Così non sai come iniziare una poesia, se dalla testa o dalla coda, se dal «ripostiglio di sartoria teatrale» o dai miasmi fetidi di un cassonetto di immondizie che staziona qui sotto casa mia in via Pietro Giordani n. 18 a Roma. È che è diventato problematico l’inizio e la fine. Ed è diventato problematico anche proseguire dopo l’inizio. Per dire cosa? È il «dire» che è diventato problematico.Come si vede da questi esempi di autori della nuova fenomenologia estetica, qui siamo dinanzi ad un linguaggio impiegato come una sorta di tic localizzato, si tratta di frasi che affiorano in una situazione linguistica per decontestualizzarla, sono frasi scritte in una sorta di pseudo linguaggio che collide con il linguaggio adottato dalla collettività nel quale una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla più o meno bene. Nel linguaggio adottato in modo irriflesso dalla collettività le singole frasi si dispongono in modo da designare degli stati di cose o azioni che obbediscono a delle convenzioni comunemente accettate. Però, però… ci sono anche delle altre convenzioni, implicite, soggiacenti che fanno riferimento ad altri stati di cose e ad altre presupposizioni linguistiche. Quando parliamo noi non ci limitiamo ad indicare soltanto delle azioni ma poniamo in essere degli atti che ci assicurano un rapporto fisso, stabilito con l’interlocutore: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli «atti linguistici» performativi (speech-act) i quali impongono la necessità di una risposta (io vi ordino…); al contrario, le frasi non-constatative sono quelle che fanno implicito riferimento a stati di cose soggiacenti, impliciti e implicati in altri ordini di discorso che sono dati per presupposti e per possibili, che non sono delle invarianti.

Ebbene, i versi sopra riportati sono indiscutibilmente di quest’ultimo tipo, non richiedono una risposta «si-no», non impongono un comportamento cogente, ma si limitano a sollevare nell’interlocutore dei distinguo, delle eccezioni, a indicare delle risorse, delle possibilità, delle eventualità, aprono degli spazi di manovra, degli spazi mentali.

Al contrario, se leggiamo le frasi di un maestro storico della poesia italiana del secondo novecento, Montale, ci accorgiamo che siamo dinanzi ad atti linguistici constatativi, che riconoscono uno stato di cose accertato e non messo in dubbio.

«La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei piú) che mai sia esistita.»
(Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72)

Si tratta, come ognuno potrà notare, di una differenza di fondo tra due tipi di impostazione del discorso poetico che non potrebbero essere più diversi e contrastanti.
Mi sembra evidente che la nuova sensibilità del discorso poetico della nuova fenomenologia del poetico richieda l’adozione di proposizioni non-constatative che prediligono le espressioni dubitative, incidentali, approssimative, anche assurde o illogiche, anche ultronee, che recidono il linguaggio da ogni referenza.

(Giorgio Linguaglossa)

Gif Hitchcock Sparo

Gino Rago

Storia di una pallottola n.9

Cade un biglietto dal settimo piano di via Gabriello Chiabrera.
Una folata di vento.
Atterra sul balcone del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani in Roma,
accanto a delle scatole cinesi con l’immagine di un drago rosso.

C’è scritto: «Tanti saluti mon amour!».

Il commissario Ingravallo prepara la retata.
Circonda l’abitazione del poeta Linguaglossa al quinto piano.
Fa irruzione.
Sequestra una piuma di struzzo, un chewingum, una scatoletta di tonno sott’olio
e il famoso biglietto.

«Linguaglossa, lei è formalmente inquisito»

Alfonso Cataldi

Vedi? Un’occasione persa

Si può descrivere un rossetto in quarantena
dal taglio obliquo netto sulla punta?

Il becco esamina il lacerto inattaccabile.
Vedi? Un’occasione persa a zoomare espressioni da diporto.

Siamo voci pop chiuse nella cavità di un tronco
il cuore della trattativa lambisce la città.

È necessario dichiarare nomi e cognomi.
Nominando accade. Cosa? L’incipt

irreparabile di una somiglianza distaccata
nell’attesa dell’evento collettivo.

Bad news: il mito ha smesso di bruciare
la cenere ricopre la post-evacuazione.

Good news: Popeye da giorni accumula spinaci nella stiva
è pronto per lanciare il Covid dentro l’orbita lunare.

 

caro Giuseppe Gallo,

L’idea della nuova poesia che stiamo tentando è disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate. Non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel che gli consente di indicare.

«Una parola ne presuppone sempre delle altre  che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlcoutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».1

Per la nuova poesia è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.
(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Deleuze in Gilles Deleuze Giorgio Agamben, Bartleby La formula della creazione, Quodlibet, Macerata, 2012 p. 20

«Il disallineamento frastico, il dislivello tra i singoli sintagmi, l’interruzione di ogni enunciato, è questo il lavoro nel quale sono personalmente impegnata. Il significato deve essere bypassato, dribblato, eluso, solo così si può ottenere un significato ulteriore, citeriore, anteriore… Aprire una parentesi all’interno di ogni enunciato, e un’altra parentesi fuori dall’enunciato, e così via… fare del terrorismo, terremotare ogni enunciato, dissestarlo, de-costruirlo, smobilitarlo.
Fare del terrorismo all’interno di ogni enunciato è un lavoro serissimo, che dovrebbe appartenere al bagaglio di ciascun poeta, perché oggi non si può adottare un significato così come ce lo consegna già confezionato il sistema delle emittenti linguistiche.»
(Marie Laure Colasson)

Andrea Emo 

da La voce incomparabile del silenzio, Gallucci, 2013 pp. 49-50

La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.
(Q. 265, 1964)

È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione.
Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia.
A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.
(Q. 265, 1964)

Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.
(Q. 280, 1965)

La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.
(Q. 309, 1967-68)

L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi.
Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto.
(Q. 331, 1970)

L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi?
(Q. 336, 1970)

Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla.
(Q. 336, 1970)

L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso.
(Q. 340, 1971)

Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare.
(Q. 244, 1971)

Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale.
(Q. 347, 1972)

Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire?
(Q. 347, 1972)

La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere?
Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza.
L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione.
(Q. 355, 1973)

…Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati.
(Q. 359, 1973)

L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto.
(Q. 370, 1975)

Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione…
(Q. 372, 1975)

La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?)
Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere?
(Q. 372, 1975)

… Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio…
(Q. 372, 1975)

L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile…
(Q. 381, 1977)

Parola

L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte…
(Q. 9, 1921)

Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela…
(Q. 9, 1929)

La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte…
(Q. 14, 1932)

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Il Cambiamento di Paradigma, La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione, Riflessione di Giorgio Linguaglossa con uno Stralcio di Andrea Brocchieri, Poesia di Carlo Livia, Alfonso Cataldi, Ewa Tagher, Lucio Mayoor Tosi

 

Giorgio Linguaglossa

Il Cambiamento di Paradigma II

Se il telos di un’opera d’arte è scandagliare la vita in tutti i suoi aspetti, dobbiamo chiederci: che cos’è la vita?

«La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione».1

Stavo riflettendo su questa frase sibillina e magnifica di Derrida e pensavo che un’opera d’arte che non tenti la «rappresentazione» del «non-rappresentabile» si riduce a chiacchiera scialba. Il problema è proprio lì, nella «origine», nella scaturigine delle cose. Pensavo di ribaltare il nostro comune e irriflesso modo di vedere le cose, che si riduce nell’andare «per linee esterne»; e invece dobbiamo capovolgere il nostro punto di vista e pensare di andare «per linee interne». È come passare dalla fisica classica, newtoniana alla fisica dei quanti. Dal nuovo punto di vista, cambia tutto, cambia il modo di impiego del lessico, delle strutture sintattiche e delle categorie grammaticali. È perfino ovvio che il «non-rappresentabile» sfugga alla «rappresentazione», ma il punto di evidenza sta proprio lì. Il punto di evidenza sta nel «significato». Ogni volta che accettiamo, in maniera irriflessa e opaca, il significato dato e consolidato dalla comunità e dalla tradizione letteraria, il «non-rappresentabile» si volatilizza e non torna più. Il «non-rappresentabile» sfugge al «significato», e di conseguenza sfugge anche al «significante». È questa la ragione che ci induce a fare una poesia che non impieghi le categorie della antica metafisica dell’umanesimo: del significato e del significante.
È questa la ragione che ci spinge verso un Cambiamento del Paradigma.
Ewa Tagher scrive: «è il Paradigma del mondo che si è spento».

«Ma la poesia pensante è in verità topologia dell’Essere (des Seyns).
Ad essa dice la dimora del suo essere essenziale (die Ortschaft seines Wesens).»2

Nella Erörterung (la ricerca del Luogo) è coinvolto il problema della metafora. Si tratta della sfiducia di Heidegger nei confronti del linguaggio ordinario. Per l’ultimo come per il primo Heidegger, il linguaggio ordinario resta sotto il segno dell’anonimato del man, dell’opinione, della chiacchiera e del senso comune, che promana sempre già da una concezione impropria e deietta della vera natura del linguaggio. Il linguaggio ordinario è ordinario proprio perché esso non è che l’uso della lingua; in questo uso, le parole sono destinate a logorarsi, all’usura permanente. L’uso delle parole implica la loro usura. Le «parole» (Worte) diventano «vocaboli» (Wörter). In ciò consiste la morte del linguaggio. Questa usura comincia quando le parole sono rappresentate come dei «recipienti» destinati a ricevere un certo contenuto significante. Il senso che riempie così le parole è già un’«acqua stagnante», dice Heidegger. A questa immagine dell’acqua stagnante, il filosofo tedesco oppone l’immagine del pozzo e della sorgente.

L’Ereignis, nella concezione di Heidegger, presenta una somiglianza inquietante con la metafora, concepita come uno scarto del linguaggio. Scarto come qualcosa che viene espulso dal linguaggio per poi farvi ritorno. In questa accezione Ereignis e metafora sono intimamente collegate nel linguaggio, esse si rimandano dall’uno all’altra come in un gioco di specchi e di maschere. Si corrispondono: dove si dà l’uno c’è anche l’altra. La metafora raccoglie ciò che viene scartato dal linguaggio. La metafora che fa ritorno al linguaggio è l’evento a cui il linguaggio stesso si dà, così il circolo del linguaggio viene ripristinato e la lingua può continuare a vivere. Si tratta del circolo metaforico che è in vigore in ogni atto di linguaggio. Possiamo allora dire che in questa processualità autofagocitatoria del linguaggio riposano insieme l’Ereignis e la metafora. E il gioco di specchi può continuare.

1 M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens, Pfullingen 1954 – Dall’esperienza del pensiero, 1910-1976, tr. it. di N. Curcio, Genova 2011, p. 23.
1 Jacques Derrida La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 301

Scrive Andrea Brocchieri1

2. Entschlossenheit

Il fatto è che in Sein und Zeit non c’è soltanto questo linguaggio della possibilità ma esso è in un certo senso superficiale e viene strutturalmente subordinato ad un altro linguaggio , cioè ad altre parole che hanno il compito di far emergere qualcosa di differente rispetto alle modalità dell’ontologia classica. Se ci si limita a lavorare col vocabolario filosofico tradizionale per individuare le occorrenze del discorso sulla possibilità in Sein und Zeit si rischia di non riconoscere nemmeno i luoghi testuali di tale discorso. D’altra parte Heidegger non ci vuole sviare, e basta seguire l’indagine di Sein und Zeit per trovare questi luoghi e quelle altre parole. Solo che – come sempre con Heidegger – bisogna saper leggere le parole diversamente da come siamo abituati. Ci chiediamo dunque: grazie a che cosa l’esserCi è un “poter essere” che rende possibili gli enti come possibilità (d’azione)? – Rispondiamo in una parola: grazie alla Entschlossenheit.

Questa parola non è affatto semplice, un po’ come Ereignis, di cui in un certo senso tiene il posto, qui in Sein und Zeit.
La parola Entschlossenheit non indica semplicemente una condizione dell’esserCi, ma una dinamica di chiamata-risposta (Ruf-Antwort) che costituisce l’esserCi come una determinata (cioè finita, storica) apertura del “mondo”. Ent-schlossenheit indica che la Erschlossenheit (schiusura) del mondo non avviene “per natura” (φύσει) ma nemmeno per un libero arbitrio (νόµῳ) ma nel gioco tra un “non” (Nicht: un’assenza che reclama risposta) e l’assunzione della responsabilità di questa risposta. L’essere vivente che è capace di ascoltare questo “non” e che se ne prende cura, si assume la responsabilità di dar luogo all’essere al posto di quel nulla. “Al posto di” non significa: mettere l’ente al posto del nulla, assumendosi un compito creativo (Sartre: se c’è l’uomo non c’è Dio) – ma significa: assumersi il compito di fare le veci di quel nulla come fondamento dell’ente; infatti quel“non”, essendo nullo, si presenta come Ab-grund, come un fondamento che non c’è. L’esserCi si chiama così perché esso c’è nel dar luogo all’essere dell’ente al posto del fondamento assente. Il modo in cui l’esserCi c’è non è però un autonomo sussistere ma è un e-sistere, perché c’è solo in quanto è spinto ad esserci come fondamento dall’assenza del fondamento: visto che quest’ultimo non c’è son costretto ad esserlo io.

3. Come l’esserCi rende possibile l’ente?

Questo “dar luogo” all’ente significa esserne la condizione di possibilità, cioè renderlo possibile. Ma com’è che l’esserCi rende possibile l’ente? La domanda che chiede “come?” intende due cose: (A) come gli è possibile? – risposta: verstehend, redend, sich befindend; (B) come realizza tale possibilità? con quale modus operandi? – risposta: als Entwurf. Continua a leggere

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Cambiamento di Paradigma, Sull’Evento nella nuova poesia, La poesia all’Epoca del Covid19, Poesie di Mario M. Gabriele, Giuseppe Gallo, Gino Rago, 

Gif Danza di bottiglie

sono portato a credere che un’era geologica della poesia sia finita, irrimediabilmente, e che se ne sia aperta un’altra. È cambiato non solo il paradigma, ma è cambiato il mondo, e forse sarebbe bene prenderne atto.

Giorgio Linguaglossa

cambiamento di paradigma

Tempo fa discettavo intorno alla ipotesi che si stesse profilando nella poesia italiana un cambiamento di paradigma, dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza, espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, è ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo. E questa è senz’altro una buona notizia.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (in La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica stilistica) più o meno di moda nei vari periodi, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.
Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck:
«Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.»
Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

si è concluso il Post-moderno

Possiamo dire che quell’epoca che va da l’Opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonologica) ed inizia una poesia topologica che integra il Fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili e mi riferisco ad una recentissima scoperta scientifica: è stato individuato un cristallo che ha una struttura atomica mutante, cioè che muta nel tempo!) ed il Fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un certo concetto di reale e di finzione), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio» (per dirla con un termine del lessico mediatico).

La poesia all’Epoca del Covid19

Leggendo la poesia di Mario Gabriele, sono portato a credere che un’era geologica della poesia sia finita, irrimediabilmente, e che se ne sia aperta un’altra. È cambiato non solo il paradigma, ma è cambiato il mondo, e forse sarebbe bene prenderne atto. E con esso anche la poesia, ovviamente.
È come andare in trattoria, chiedere un fritto misto di paranza e, invece, il cameriere ti porta un usufritto di oloturie, ologrammi e orologi da tasca. Qui c’è qualcosa di irriconoscibile e di inaspettato. E, davanti ad una materia irriconoscibile e inaspettata che cosa ha da dire una ermeneutica? Niente, penso proprio niente.

Mario M. Gabriele

Caro Giorgio,
mi sto indirizzando verso un nuovo paradigma poetico, come eccezione propositiva, senza rinnegare la NOE e i Distici.
Per quanto tempo potrò andare avanti su questa forma? Non lo so!. Ma mi piace assecondare ciò che qui dici con il titolo “cambiamento di paradigma”… “Possiamo affermare che in Italia c’è ormai da tempo, e ben presente, un cambiamento di paradigma, perché le cose della poesia camminano da sole, si sono rimesse in moto dopo cinque decenni di immobilismo”. Spero proprio, ma lo avverto che questo testo ne indichi qualcosa. Grazie di questo nuovo post.

*
Dalle cinque alle sei del mattino
sempre in dormiveglia. Perché?

All’alba ci muoviamo per la caccia ai lupi mannari
e ai sacchetti di speranza e di Lou Rossignon.

Ce la fai da solo?
Grazie! Fammi solo compagnia.

Vedo immagini passare come Mary Poppins.
E’ quanto di più raro mi rimane del tempo passato.

In questi agglomerati urbani non puoi chiedere
a nessuno la strada di un nuovo battesimo.

Il Naprosyn mi toglie la sindrome radicolare
simile ad una stagione all’inferno.

Beata te, Vanessa, che cogli le rose e i tulipani
nella serra di Nonno Vincent.

La nostra questione
rimane un olifante senza voce.

Maglie, camiciole, pezzetti di hamburger,
terreni seccati che tornano ad essere vivi.

Forse hai dimenticato qualcosa. Che cosa?
La brunetta che ti adocchiava come in un outlet.

Era la cucitrice di sogni in bianco e nero.
Questione di opinione!

Ciò non spiega l’allume di Rocca,
la barba di Marx e Senofonte!

Vivere a caso ci fa star bene
come un torroncino a Natale.

Il Corriere dell’Inferno scorrazza da New York
ai ghiacciai dell’Antartide.

Mondo sii buono!
E’ questo il mese della primavera!

Gino Rago

Storia di una pallottola 3

Il commissario:

«Madame Colasson, dalla sua pistola è partito un colpo.
che si è allungato lungo via Merulana,

ha colpito di striscio un signore che leggeva il giornale,
– qualcuno ha insinuato trattarsi di Barabba –

e invece si trattava di un modesto poeta di Mediolanum.
Madame, la accuso di infedeltà alla narrativa
e la sbatto in gattabuia!».

Marie Laure scende dal camion. È irritata. Prende un taxi,
si reca all’Opéra di Parigi,

getta un guanto in faccia al commissario Ingravallo,
afferra dalla sua borsa Birkin il revolver con il manico di madreperla

e spara un colpo che,
come al solito, sbaglia traiettoria e attinge

un aquilone il quale precipita in via Gaspare Gozzi
attigua alla abitazione del poeta Giorgio Linguaglossa…

Intanto, fiocchi di neve, chicchi di riso, uno scolapasta,
una stella di latta, un catecumeno con la tonsura,

le Poète noir Antonin Artaud con i guanti bianchi a testa in giù,
una tovaglia ricamata e la bandiera tricolore

precipitano dal quinto piano del balcone di via Gaspare Gozzi,
comprese delle mascherine, dei volantini della Lega lombarda,

una matrioska dipinta a mano,
e un piffero…

«Tutto questo per una pistola a tamburo con il manico di madreperla…»,
pensa Madame Colasson…

«Ah…les choses de la vie», commenta la parigina
mentre fa ritorno a cavallo al Beaubourg.

«Sont les choses de la vie»

Giuseppe Gallo

On/Off

la notte è in piedi
a volte sono io… la porta trasparente, la spia di controllo: accesa/spenta

: verde/bianca. La questione è che non sono ancora del tutto… On/off
Cos’è un P R O B L E M A?

“L’analista era spento”* poi “si tirò su, sorrise…” *
perché nelle sue parti esistono entrambi: la nascita e la morte…

ma le idee non vivono nel vuoto… sono un po’… come intermittenze sonore
o conchiglie infantili depositate sull’arenile.

Il quid è negli interstizi dei vuoti a rendere.
Entra. Siediti. C’è qualcuno che non hai mai visto?

A volte sei anche tu… On/off
è che non sei ancora del tutto… sei un po’… come la trasparenza di una parete,

il controllo di una spia: spenta/accesa: bianca/verde.
Spenta/accesa. Gialla/rossa. Spenta…

* Ph. Dick, The cromium Fence, in Tutti i racconti, 1955-1963, Fanucci Editore, 2012

Lucio Mayoor Tosi

Caro Giuseppe Gallo,
On/Off a me piace moltissimo. Il mix prosa-poesia (prima la prosa, che è cavalier servente) io lo avevo risolto tenendo sul comodino libri di Philip Dick e di Tomas Tranströmer. La prosa di Dick va spedita ma tutto sommato è prosa ordinaria, quel che colpisce è la sua magnifica inventiva. C’è un punto in cui la prosa deve lasciare il posto alla poesia, avviene per una sorta di suo svenimento… lo stop! dopo il quale i motori dell’astronave possono procedere in autonomia. Lo avrai sperimentato chissà quante volte anche tu.

Accensione e spegnimento non dipendono da noi. O raramente. Facciamo tutto in automatico: dal mattino, quando alzandoci dal letto tocchiamo con i piedi il pavimento, a sera nel chiudere gli occhi. Il punto del sonno. Penso che siamo niente. Solo spettatori.
Nemmeno le parole ci appartengono. E ci infiamma il pensiero. Tra poeti ci si legge per vedere chi sa infiammarsi meglio, e porre a confronto le qualità dei fuochi. Se stringiamo questa visione sul verso, ecco vediamo che brucia e finisce. Poi ne brucia un altro. Nella stessa poesia è morire tante volte. Chi non muore è lo spettatore, colui o lei che scrive: nella pausa vive, nell’ozio è se stesso. Dal che se ne deduce che la società non è a misura d’uomo. Nessun tipo di società può essere a misura d’uomo. Mi sa che tornerò a leggere Kierkegaard.

 

 

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Luciano Nota, Poesie da Destinatario di assenze, ArcipelagoItaca, 2020 pp. 96 € 12, Lettura di Giorgio Linguaglossa

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Michelangelo Antonioni, La notte (1961) Il discorso poetico dovrebbe tenere bene a mente questa cosa, che la parola è sempre «sentenza», «significato», «giudizio», e che ogni parola che viene pronunciata si scontra contro questo muro grigio di cemento, la «zona grigia» del linguaggio.

Luciano Nota è nato ad Accettura, in provincia di Matera. Insegnante di lettere, vive e lavora a Pordenone. Ha pubblicato: Intestatario di assenze (Campanotto 2008); Sopra la terra nera (Campanotto 2010); Tra cielo e volto (Edizioni del Leone 2012); Dentro (Associazione Culturale LucaniArt Onlus 2013); La luce delle crepe (EdiLet 2016), Destinatario di assenze (ArcipalagoItaca, 2020). Alcune  poesie sono state pubblicate su varie riviste letterarie e in diverse antologie. Cura il blog letterario “La Presenza di Erato”.

Luciano Nota è forse l’ultimo raffinato poeta lirico nell’Italia della post-lirica dell’Epoca del Covid19. È un poeta da linea Maginot, attestato sulla trincea avanzata di difesa del territorio stilistico della tradizione. Spesso con lui  ho avuto degli scambi di opinione su questo argomento, ma poi ciascuno ha fatto ritorno alla propria casamatta blindata con tanto di auguri amicali: questo, ovviamente, non ha mai precluso l’amicizia e il sodalizio. Con questo ultimo libro il poeta lucano indaga lo statuto fenomenologico della coscienza. Quel congegno che chiamiamo «coscienza» è quella cosa che fornisce l’involucro della soggettività, questo «destinatario di assenze» che converte il più concreto nel più assente, l’esperienza in memoria. Questo «destinatario» è sempre impegnato con il per-sé, o, con linguaggio heideggeriano, con la «cura preveggente» del sé. Il poeta lucano scopre che l’essere della coscienza è un ente il cui essere è sempre in questione, continuamente in bilico, che opera per problematizzazioni e sproblematizzazioni ma in modo episodico, saltuario e a-dialettico. L’esistenza non è una struttura dialettica, la struttura della coscienza non funziona mediante la dialettica ma mediante una fenomenologia degli istanti della percezione, è un congegno che replica agli eventi  in modo tale che non coincide con la soggettività ma la incide e la rende manifestamente inidonea, rivela cioè la non-adeguazione della soggettività rispetto al mondo ambiente.

La soggettività  piena di sé si rivela essere una mancanza, una latenza, una non-adeguazione a se stessa.

Questa problematica esistenziale viene indagata mediante lo spettroscopio della forma-poesia. Resta il fatto che a mio avviso quella forma-poesia ereditata dalla tradizione della poesia italiana del novecento non può fornire, per sue intime lacune e insufficienze, un linguaggio idoneo per questa problematica, e allora il poeta lucano è costretto ad andarselo a cercare il linguaggio nelle commessure dei linguaggi ereditati, in particolare, nella poesia di Sinisgalli; e a retrocedere alle soluzioni di un Caproni, e di qui retrocedere ancora più indietro fino al linguaggio dei post-ermetici. Ed ecco affiorare nella sua poesia stilemi arcaici post-ermetici come «vortici aprichi», «danza di veli», «bocche socchiuse», «l’alfabeto ansante»; ecco affiorare in superficie la struttura dell’haiku, come bene ha dimostrato Gino Rago in una sua nota di lettura del libro; ecco il verso breve del settenario con il novenario più di rado che occupano la grande maggioranza dei testi; ecco certa sentenziosità del dettato che oscilla tra un «noi» sottinteso e un astratto che fa le veci dell’io; ecco certa predilezione per la nobiltà denominativa del linguaggio del tipo: «Farfalla di sera troppo lussuosa per farne rosario», dove c’è un quantum di surrealismo e di barocchismo meridionale che l’autore lascia cadere lì per lì in chiusura di poesia con un gesto apparentemente negligente. Infatti, le chiuse e gli incipit delle sue poesie sono sintomatiche di certa ascendenza  nobile del lessico dove il poeta  è ancora e pur sempre impegnato in una sua personalissima ricerca del senso. Perché è proprio della poesia lirica la ricerca del senso in quanto detiene le chiavi del significato. Ed è proprio la ricerca del senso dell’esistere che interessa al poeta lucano il quale scopre atterrito le tracce della presenza del nulla che minano la sobria compostezza stilistica della sua poesia. Ed ecco infine spiegato il titolo di questa raccolta: Destinatario di assenze, che chiude il cerchio anche stilistico iniziato con l’opera di esordio, Intestatario di assenze (2008). Dunque, una parabola stilistica durata dodici anni che chiude l’esperienza della poesia lirica notiana nell’età della post-lirica. Sarà interessante vedere come l’autore  lucano, l’ultimo strenuo difensore della poesia lirica, risponderà alle sfide del presente, come evolgerà, se terrà la linea difensiva Maginot o azzarderà qualche affondo in territori stilistici scoscesi e sconosciuti. C’è come una preveggenza di questa problematica nell’ultima poesia del volume:

Nuova terra

Mi piacciono i graffiti sui muri
non i cani che scrivono libri.
Leggo Hegel e Marx, Rilke e Plath.
Purtroppo morti. Pasolini, Fortini…
La nuova terra è gelo sui ginocchi.
Sui cipressi scrivono picchi.

Dove è chiara la volontà di esplorare nuovi confini del linguaggio poetico, magari ritornare ai poeti eslegi e non esigibili del secondo novecento, ai Fortini e ai Pasolini, poeti oggi messi un po’ a latere per vari motivi non tutti presentabili e rispettabili, per riprendere di nuovo il largo verso nuovi territori stilistici da esplorare.

Leggo in filigrana nel linguaggio poetico notiano questa tensione linguistica e stilistica appena trattenuta e sopita nella compiutezza del giro frastico che, penso, metterà a repentaglio la compiutezza metrica e la conclusività  stilistica della sua poesia negli anni a venire. In fin dei conti, Nota è uno degli ultimi ad abbandonare il Titanic della poesia lirica che lentamente, ma inesorabilmente, affonda ogni giorno sotto i nostri occhi. E questa tenuta ha qualcosa di audace e di ammirevole. Ma prima o poi l’argine costruito con tanta dedizione verrà probabilmente distrutto e quel settenario ben rifornito, quel novenario ben costruito dovranno arrendersi alla forza dell’irresistibile moto ondoso. E per uscire fuori da questa impasse si dovrà accettare di togliere gli ormeggi alla significazione, liberare il linguaggio poetico dal significato, lasciarlo andare libero al largo. Ma, mi chiedo, è possibile abbandonare il significato al suo destino?, dismetterlo?, dimenticarlo? Io penso di sì, il significato è una convenzione condivisa dai più e, come ogni convenzione, prima o poi finirà per essere smobilitata e smontata.

E qui ci riallacciamo alla nota tesi di Giorgio Agamben il quale sostiene che la macchina di tortura della leggenda kafkiana è, in realtà, il linguaggio: e cioè che il linguaggio è, sulla terra, uno strumento di giustizia e castigo, e il segreto della leggenda è rivelato in una frase che egli cita dal romanzo Malina di Ingeborg Bachmann (alla cui memoria Idea del linguaggio II è dedicato): «Il linguaggio è la pena». Il linguaggio in quanto significazione, per Agamben, è intrinsecamente legato al «giudizio»: «la logica ha il suo ambito esclusivo nel giudizio: il giudizio logico è, in verità, immediatamente giudizio penale, sentenza». Il discorso poetico dovrebbe tenere bene a mente questa cosa, che la parola è sempre «sentenza», «significato», «giudizio», e che ogni parola che viene pronunciata si scontra contro questo muro grigio di cemento, la «zona grigia» del linguaggio.

La coscienza non è in-sé, non è mai in coincidenza con se stessa; il  per essere posto richiede una distanza entro l’immanenza del soggetto, sempre scomposto e lacerato tra essere e coscienza di essere. La coscienza in quanto «destinatario di assenze» è un modo di non essere la propria coincidenza, di sfuggire l’identità.

Se si è presente a sé significa che non è del tutto sé. Luciano Nota scopre così che il nulla si insinua nel più intimo della coscienza, del «destinatario di assenze» in quanto nulla d’essere e potere nullificante.
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Gino Rago, Storia di una pallottola, Poesia inedita, Prima e seconda versione, Il Polittico come struttura instabile aperta, Editoriale n. 9 de Il Mangiaparole, Giorgio Linguaglossa

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È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
1a stesura

Gino Rago

Storia di una pallottola

La volontà di fare di sé stessi un fuoco. Una rivoltella.
Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
Daniil Charms a distanza di chilometri

sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
«Forse è’ un alieno sulla mia testa o uno starnuto dal Cremlino…»

La pallotola entra in un monolocale, si ficca in un’altra pistola.
Parte il colpo. Scoppia il cuore di Vladimir Majakovskij.

La pallottola-dei-poeti fuoriesce dalla spalla,
Lascia la stanza:«Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa,

Non mi fermano né il tempo né lo spazio
Né le forze di attrazione della terra e della luna».

Torino. Agosto. 1950. La pallottola-dei-poeti rompe i vetri
Di una camera dell’albergo Roma.

Cerca un’altra tempia.O un altro cuore. Afa. Nemmeno un’anima in giro:
«Tardi, troppo tardi…»
[…]
Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.
Sulla copertina dei Dialoghi con Leucò:« Perdono a tutti e a tutti chiedo Perdono… Non fate troppi pettegolezzi».

La Stampa. Prima pagina. Morto-suicida-Cesare-Pavese.
La pallottola lascia di corsa la camera dell’albergo.

Ha fatto in tempo a leggere su un foglietto non visto da nessuno:
T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

Un agente della STASI ruba i due foglietti.
Con il primo treno parte da Torino in direzione di Berlino Est…

*
2 stesura

Storia di una pallottola

Una rivoltella.
Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
Daniil Charms a distanza di chilometri

sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
«Il miagolio di un gatto o uno starnuto dal Cremlino?»

La pallottola fa ingresso in un monolocale, entra nel tamburo
del revolver col manico di avorio di Madame Colasson.

Parte il colpo. Colpisce al cuore Vladimir Majakovskij.
poi la pallottola fuoriesce dalla spalla, va in giro per un po’,

lascia la stanza: «Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa».
Entra nel boudoir di Madame Altighieri

E colpisce alle spalle il generale d’Aubrey
in partenza per la guerra di Crimea.

Torino. Agosto. 1950. La pallottola rompe i vetri
di una camera dell’albergo di Roma.

«È tardi, troppo tardi…».
Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.

Una copia dei “Dialoghi con Leucò”. Sulla copertina c’è scritto:
«Non fate troppi pettegolezzi».

Prima pagina de “La Stampa”. «Morto suicida Cesare Pavese».
Lascia di corsa la camera dell’albergo.

Ha letto su un foglietto non visto da nessuno:
T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

Un agente della STASI ruba i due foglietti.
Con il primo treno parte da Torino

in direzione di Berlino Est… cerca al telefono
il Signor Cogito. «È in casa Cogito?».

«No, non è in casa. È uscito».
E allora cambia strategia. Si reca ad Istanbul.

Sull’Orient Express incontra Madame Altighieri,
si innamora della duchessa e la uccide con un colpo

di pugnale alle spalle…

Ma non è questo quello che volevo raccontare,
era un’altra storia, che però ho dimenticato…

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Nella prima versione appare chiaro che inseguivo troppo “il significato” e questo procedere può diventare una gabbia, un freno inibitore alla libertà completa della nostra immaginazione.
Nella seconda versione, grazie anche alla approfondita lettura dell’Editoriale di Giorgio Linguaglossa per il prossimo numero della Rivista “Il Mangiaparole”, rimuovendo il condizionamento dell’inseguimento del “significato” a tutti i costi, l’inedito ha guadagnato in libertà ed entra nello scenario Madame Colasson che capovolge, anzi stravolge la storia della morte di Vladimir Majakovskij: non più suicidio, ma omicidio (non importa se omicidio volontario o involontario) commesso da Madame Colasson. Il regime bolscevico ha nascosto a lungo questa verità? Sulla morte di Majakovskij ha diffuso un’altra notizia falsa fra le tantissime notizie false di regime? E chi si meraviglia delle tantissime “bugie di Stato” adoperate sia dai regimi totalitari sia dalle democrazie occidentali? Allora anche lo stratagemma, tipico di una poesia della NOE, di stravolgere una storia radicata nel tempo e nella memoria collettiva ‘inventando’ un’altra storia al posto della precedente è un gesto di coraggio estetico e dunque è anche un fatto etico, eticamente lecito,
perché tutti noi d’accordo con Brodskij sappiamo che “l’Estetica viene prima dell’etica”.
Accanto a Madame Colasson agiscono, per proprio conto, ma nello stesso tessuto poetico, come nel teatrino siciliano dei ‘pupi’ con i fili tirati da un unico puparo, anche Madame Altighieri la quale, con un salto acrobatico spaziotemporale, spara al Genarale d’Aubray sullo sfondo della Guerra in Crimea, per poi saltare a Torino nel 1950, un altro tempo, un altro luogo…con un agente della STASI, (i cui tentacoli come sapevano tutti erano in grado di arrivare su chiunque e dappertutto, che forse deve redigere un rapporto al Signor Cogito), che a sua volta sopprime Madame Altighieri ma con un pugnale per non far troppo rumore perché viaggiano pugnalatore e pugnalata sullo stesso treno, il treno più elegante ed esclusivo del vecchio Novecento europeo (assassinio sull’Orient Express…). Per noi la scrittura non è lineare, consequenziale, perché non crediamo nel tempo premoderno né nei tempi moderni o postmoderni o ipermoderni, lo stesso dicasi per lo spazio.
Perché?
La risposta è anche qui, nella parte finale dell’Editoriale scritto da Giorgio Linguaglossa per il n.9 del trimestrale cartaceo Il Mangiaparole, perché:
“il «polittico» è un sistema instabile che fa di questa instabilità un punto di forza. Mi sembra una ragione sufficiente”.

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

La poesia NOE è nient’altro che una «rappresentazione prospettica», una rappresentazione priva di funziona simbolica. La prospettiva come forma simbolica (1924) di Erwin Panofsky è una utilissima guida perché ci mostra come funzione simbolica e rappresentazione siano legate da un cordone ombelicale che è dato dal linguaggio. Ma mentre le opere del passato erano portatrici di una funzione simbolica, le opere moderne, a cominciare da Brillo box di Warhol, non sono provviste di alcuna funzione simbolica, sono dei dati, dei fatti, dei ready made. Invece, la tua poesia, di Intini, di Mario Gabriele, di Giuseppe Talìa per fare qualche nome di poeta che è maturato nell’officina della NOE, è priva di funzione simbolica, sembra la registrazione di dati di fatto, di elenchi statistici, elenchi cronachistici. In più, qui si ha una molteplicità di prospettive che convergono e divergono verso nessun fuoco, nessun centro prospettico, le linee ortogonali non portano ad alcun centro che non sia eccentrico, spostato, traslato; inoltre lo sguardo che guarda è diventato diplopico, diffratto, distratto.

La tua «poesia-polittico» può essere ragguagliata ad una matassa, ad un groviglio. Tu ti limiti ad aggrovigliare i fili, li intrecci gli uni con gli altri e tiri fuori il percorso degli umani all’interno di un labirinto. La tua è una «poesia-labirinto», uno spiegel-spiel. I tuoi personaggi sono gli eroi, prosaici, del nostro tempo, vivono in un sonno sonnambolico, tra chiaroveggenza e inconscio, guidati e sballottati come sono dalla Storia (Achamoth) e dalle loro pulsioni inconsce (Von Karajan, la Signora Schmitz, Joseph il pacifista, Madame Colasson); c’è «poi Madame Tedio, il tempo,[che] sbroglia le carte» e sdipana i destini individuali; c’è l’intellettuale, il Signor L., il quale denuncia la Grande mistificazione dell’Occidente: che l’«Ulisse è un bugiardo inglese». Questo Signor L. mi piace, è una sorta di Baudrillard per antonomasia, l’intellettuale che ci mette in guardia contro la mitologizzazione di certi prototipi umani come Ulisse, progenitore e prototipo del politico imperialista che avrà discendenti di tutto riguardo ai giorni più vicini a noi, da Giulio Cesare a Napoleone e giù fino ai pazzi sanguinari Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot, etc.

La tua «poesia-polittico» è un esempio mirabile di come si possa oggi scrivere una poesia moderna, appassionata e dis-patica, raffreddata e ibernata, patetica e algida, serissima e ilare. Una poesia che, finita la lettura ci lascia sgomenti e ammirati.

 

Giorgio Linguaglossa

Editoriale n. 9 (rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”)

L’ermeneutica segna lo spostamento del baricentro della trattazione dai problemi del senso verso i problemi del referente. In conformità con questa impostazione concettuale, tutta la poesia del secondo novecento e di questi ultimi anni ha perseguito il medesimo obiettivo: ha fatto una ricerca del senso impiegando un linguaggio referenziale.
L’equivoco verteva e verte sul fatto che si è considerato il discorso poetico come equivalente, nella sua funzione, al discorso ordinario, senza capire che il linguaggio ordinario si limita a «servire» gli oggetti che rispondono ai nostri interessi sociali, il nostro interesse sociale è limitato al controllo e alla manipolazione degli oggetti nella vita quotidiana, ma la funzione del linguaggio poetico non può essere «servente» degli oggetti, questa sarebbe una grave miscomprensione della sua natura specifica e ci porterebbe fuori strada.

Il discorso poetico lascia in libertà la nostra appartenenza al mondo della vita e al mondo della vita quotidiana, lascia-dirsi, lascia che vengano messe delle parentesi tra il pensiero e il linguaggio, tra il linguaggio e il linguaggio, lascia alla parola il compito di dire ciò che il linguaggio ordinario non può dire. Quello che così si lascia dire è ciò che Paul Ricoeur chiama la referenza di secondo grado, la referenza sganciata dal rapporto di controllo e di dominio degli oggetti e del mondo.

Il discorso poetico della nuova ontologia estetica, comporta (in modi vari e con diverse sensibilità linguistiche), l’abolizione del linguaggio descrittivo-informativo. Ciò potrebbe far pensare alla famosa «funzione poetica» di Jakobson, ad un concetto di linguaggio poetico che rinvii soltanto a se stesso, ma la NOE ha compiuto un decisivo passo in avanti: è proprio tale abolizione che costituisce la condizione positiva affinché venga liberata una possibilità più profonda per attingere un referenza soggiacente, una referenza di secondo e terzo grado che coglie il mondo non più al livello degli oggetti manipolabili, ma ad un livello che Husserl designava con l’espressione Lebenswelt e Heidegger con In-der-Welt-Sein.

Se osserviamo la struttura delle poesie della nuova ontologia estetica, ci accorgiamo che è lei, la struttura, che decide la disposizione, la frammentazione, la dislocazione e la cucitura degli enunciati: il loro ordine disordinato, o il loro disordine organizzato, il disallineamento degli enunciati e l’eterogeneità degli stessi, la loro natura disparatissima di varia provenienza di ordine culturale, in una parola: è la struttura che dispone della libertà o illibertà degli enunciati e delle immagini.

Un aneddoto di distrazione esistenziale

Un giorno uscii con due calzini diversi, uno blu e uno avana. Me ne accorsi quando fui in metropolitana accavallando le gambe. Davanti a me era seduta una signora vistosa, con permanente, biondizzata e profumata la quale puntò gli occhi sui miei due calzini. Ecco, mi accorsi allora che avevo messo i calzini invertiti. Avevo infranto una consuetudine condivisa inconsapevolmente dalla generalità attirando l’attenzione della bella signora. Così, un giorno, consapevolmente, uscii di casa con ai piedi due scarpe diverse, un mocassino testa di moro con la frangia e una scarpa con i lacci nera con in più due calzini di colore e di foggia diversi. Presi di nuovo la Metro e accavallai le gambe. Il risultato fu che tutti gli utenti della metro mi guardarono le gambe e i piedi. Ecco, non avevo fatto nulla di particolare, ma avevo infranto lo “schermo” di una condivisione sociale accettata inconsapevolmente da tutti. Penso che la poesia debba avere il coraggio di fare questo: di infrangere il conformismo di un linguaggio informativo, performativo, referenziale. E, per fare questo occorre una notevole dose di distrazione continuativa.
Una distrazione esistenziale radicale può aiutare.

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line lombradelleparole.wordpress.com”.

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Covid19, La peste e la noia, La «zona grigia», L’homo sapiens sapiens dell’Epoca cibernetica, Una zona grigia ci separa dall’inorganico, Poesia di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

Covid 19 2

Covid19, immagine al microscopio

Giorgio Linguaglossa

La peste e la noia. La «zona grigia». L’homo sapiens sapiens dell’Epoca cibernetica

caro Francesco Paolo Intini,
cari amici e interlocutori,

Viviamo e operiamo in una sorta di «zona grigia» della storia umana.
Fino all’epoca precedente del Coronavirus vivevamo in una appendice della storia. Pensavamo di vivere nella post-storia, nella storia del Dopo la guerra fredda, in un regime di storialità purtuttavia ancora storica molto diverso dalla dimensione storica dell’epoca precedente. E invece vivevamo nell’epoca della «zona grigia». Non ce ne eravamo accorti se non per lampi e per rapide intuizioni. Si continuava a poetare e a fare arte continuando gli stilemi del tardo novecento, non avevamo alcuna consapevolezza che il mondo era radicalmente cambiato. Si pensava di vivere in un mondo asettico, dove la nostra biologia era separata dalla biologia della vita animale. Le masse erano avvolte da questa nebbia che le accecava.
Noi lo dicevamo da tempo che non si poteva continuare a vivere e a fare poiesis come avevamo fatto fino all’altro ieri, ma venivamo denigrati come menagrami, e si continuava a poetare alla maniera epigonica, si continuava a fare quadretti decorativi e rassicuranti.

Poi, improvvisamente, tutto è cambiato, la pandemia del Covid19 ci ha messi di fronte alla nuova cruda realtà, alla cruda realtà della nuda biologia alla quale anche l’homo sapiens appartiene.

Che cos’è la NOE?, la nuova ontologia estetica? Ecco, io penso che sia la risposta più urgente alla «zona grigia» in cui consiste la nostra esistenza storica e la nostra poiesis. Noi lo ripetiamo da molti anni: la Krisis è la «zona grigia» in cui si presenta il nostro modo di vita nel mondo capitalistico.

Ci trovavamo da tempo in una «zona grigia» e non ce ne siamo accorti.

Orban ha detto: «Ci penso io al Coronavirus» e si è preso i «pieni poteri». I nostri politici ciarlatani da circo Togni hanno reclamato e reclamano i «pieni poteri» per risolvere i problemi. Viviamo in un mondo di miracoli e di traumi. Le masse tele mediatiche aspettano l’evento miracolistico. E intanto vivono sotto il trauma di un essere piccolissimo che distribuisce la morte a piacimento.
Morto Dio si è risvegliato il Signor Satanasso.
Le masse immunizzate dalla scarlattina della idiozia mediatica vivono da molto tempo una vita di mera sopravvivenza, credono alla balla della diffusione del Covid19 da un laboratorio americano o cinese. Ciarlatani e pseudo intellettuali hanno affermato che si trattava di poco più di una semplice influenza. E intanto si moriva e si muore a centinaia al giorno (adesso a migliaia e domani a decine di migliaia). Le masse credono da sempre ciecamente a complotti inesistenti e ai miracoli. Ondeggiano in preda al panico.
Un cardinale ciarlatano ha affermato che il Covid19 è stato inviato sulla terra da Dio per punire l’umanità per i peccati del divorzio, dell’aborto, per le libertà sessuali, per le promiscuità sessuali; i «poeti» di regime e gli sciocchi si sono precipitati a scrivere poesie sul Covid19 con annessa lezioncina d’amore e ninne nanne soporifere…
È questa la «zona grigia» di cui si diceva…

Covid 19

Scrive Giorgio Agamben:

«Una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, se lo sarà – non credo che, almeno per chi ha conservato un minimo di lucidità, sarà possibile tornare a vivere come prima. E questa è forse oggi la cosa più disperante – anche se, com’è stato detto, “solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza”».1

Io penso invece che una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, gli uomini torneranno a vivere come prima, cioè una vita vegetativa, primitiva, dalla quale è bandita ogni dimensione politica, comunitaria e finanche affettiva, erotica, partecipativa, attiva.
Non ho speranza alcuna. Ma non ho neanche alcuna dis-peranza.

Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, nel 476 d.C., l’ultimo imperatore di Roma, gli uomini continuarono per almeno un secolo a vivere come prima continuarono a parlare il loro latino infarcito di dialettismi, a fare l’amore, a moltiplicarsi, a odiarsi, a combattersi…
Poi venne il Medioevo, vennero i secoli bui…

La mancanza di tempo coincide ed equivale all’eccesso di tempo dell’uomo della rivoluzione cibernetica. Questa mancanza/eccesso così intesa getta l’uomo in uno stato di noia diffusa, richiama l’impossibile libertà dell’uomo dell’epoca cibernetica: ingabbiato nel recinto del proprio immediato presente assoluto l’uomo dell’epoca cibernetica è incapace di rompere le catene biologiche della propria datità, dello spazio vegetativo dove è inscritto a vivere nelle nostre moderne società depoliticizzate, non può costruire se non in questa dimensione di mancanza/eccesso e di noia diffusa che caratterizza il presente assoluto. Il presente assoluto, per istituirsi come tale, ha bisogno dell’oblio assoluto, oblio del passato e del futuro, altrimenti non riuscirebbe a costituirsi quale unica dimensione dell’homo sapiens sapiens. Questa dimensione assoluta e onni avvolgente è la situazione emotiva fondamentale che getta l’uomo nella condizione di vivere in un perenne stato di noia, in una «zona grigia» che non gli fa avvertire la noia come malattia in quanto tutto è «grigio», tutto è ridotto al valore di scambio e non si dà altro modo di sortire fuori da questo sortilegio. L’uomo dell’epoca cibernetica è prigioniero del suo sortilegio ed incapace di uscirne. La «noia grigia» è la condizione assoluta per la felicità del sapiens sapiens ridotto al valore di scambio.

Grazie alla pandemia del Covid19 siamo in presenza di una vera e propria riabilitazione ontologica del simulacro nell’ambito della vita quotidiana e anche nell’ambito dell’economia estetica. La vita quotidiana è già diventata una iconomia, una economia di icone, di simulacri, di immagini. Anche il Covid19 è diventato qualcosa di affine al simulacro. Aleggia, si diffonde ovunque per vie misteriose ed imperscrutabili, un microrganismo fatto di gelatina simile ad un ologramma, ad un simulacro. Il Covid19 è così entrato prepotentemente nel nostro immaginario e nella nostra esistenza quotidiana determinandone ogni singolo atto, sconvolgendo la nostra domesticità, è penetrato nella nostra forma-di-vita determinandone ogni singolo comportamento, inducendoci in paura, angoscia, spavento, noia, orrore, acquiescenza…

Proprio in virtù di queste considerazioni, possiamo pensare la discontinuità ontologica – che non è mai opposizione dialettica ma differenza assoluta
– tra l’uomo dell’epoca pre-cibernetica, pensato in quanto Dasein, a cui è concesso un rapporto di ‘libera’ corrispondenza con l’Essere nel tempo, e l’homo sapiens sapiens dell’epoca cibernetica, il quale, incapace di accedere a questo spazio di ‘libertà’, rimane inchiodato alla necessità biologica della sua «nuda vita» continuamente ‘presente’.

Nella Stimmung della noia diffusa e di superficie che caratterizza l’homo sapiens sapiens, è possibile trovare il punto di massimo contatto tra l’uomo e l’animalità. L’animale è stordito nel suo ambiente, l’uomo è stordito nella noia. Ma si tratta di una noia molto diversa da quella descritta da Moravia nel suo omonimo romanzo (La noia, 1960),* una noia più di superficie, che stordisce il sapiens sapiens ma senza danneggiarlo, perché in fin dei conti è felice della sua posizione nel mondo, felice di non-essere felice.

*[Scrive Moravia ne La noia: “Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi versi essa assomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno:la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente.”]

Covid 19 3Scrive Giorgio Agamben:

«In questo essere ‘consegnato all’ente che si rifiuta’ come primo momento essenziale della noia, si rivela allora la struttura costitutiva di quell’ente – il Dasein – per il quale ne va nel suo stesso essere del suo stesso essere. Il Dasein può essere inchiodato nella noia all’ente che gli si rifiuta nella sua totalità perché esso è costitutivamente ‘rimesso [überantwortet] al suo proprio essere’, fattiziamente gettato e smarrito nel mondo di cui si prende cura. Ma, proprio per questo, la noia fa apparire alla luce la prossimità inaspettata fra Dasein e l’animale. Il “Dasein” annoiandosi, è consegnato (ausgelifert) a qualcosa che gli si rifiuta, esattamente come l’animale, nel suo stordimento, è esposto (hinausgesetzt) in un non rivelato».2

«L’uomo ha ormai raggiunto il suo telos storico e non resta altro, per un’umanità ridiventata animale, che la depolicitizzazione delle società umane, attraverso il dispiegamento incondizionato della oikonomia, oppure l’assunzione della stessa vita biologica come compito politico (o piuttosto impolitico) supremo […]. Di fronte a questa eclissi, il solo compito che sembra ancora conservare qualche serietà è la presa incarico e la “gestione integrale” della vita biologica, cioè della stessa animalità dell’uomo».3

Scrive Antonello Sciacchitano:

Basta un solo quanto iperenergetico – un solo fotone ad alta frequenza – proveniente da chi sa dove (irrgendwoher): dal sole o da qualche lontano cataclisma distante miliardi di anni luce, perché si produca una mutazione in una catena di acidi nucleici e un virus [ad es. il Covid19] si trasformi da innocuo saprofita in pesante patogeno in grado di effettuare lo spillover dall’animale all’uomo e produrre una pandemia.

http://www.journal-psychoanalysis.eu/come-nasce-lideologia/

https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste
2 G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 68.
3 Ibidem p. 79, 80

Covid 19 7Francesco Paolo Intini Continua a leggere

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Carlo Livia, Poesie da La prigione celeste, Progetto Cultura, 2020 pp. 140 € 12 Presentazione di Marina Petrillo, Il sogno del viaggiatore nel multiverso

Marino Iotti Acrilico 3

Marino Iotti, Anime gemelle, 2016, 103 x 90, olio su tela

 

In questo libro di Carlo Livia, La prigione celeste, si palesa a traccia il Sogno dell’eterno viaggiatore nel multiverso. Approda a variazioni infinite, sconosciuto alla destinazione intrapresa. Il vaticinio lo accompagna tra voci diuturne interferenti ogni piano di realtà.

“Sono nel sogno sbagliato
perdo pensieri e cado
nell’universo che è la mia zona morta
no sono la mente del Dio oscurato dal programma
sguardo frantumato in miriadi di occhi che si allontanano
o la colpa di esistere nel cuore-tabernacolo
dell’ombra-fanciulla che simula l’essere

Segni di smisurata grandezza attraversano menti artificiali in cui il sacro intercede per sua stessa ammissione. Angeli ribelli rivelati alla luciferina costernazione dell’anima ai primordi dell’essere. Lo sterminio di dei, estingue forse l’antico oracolo in sillabario posto a codice supremo. Non appaiono antefatti alla Realtà. Si sprigionano apocalissi in quotidiana afasia della memoria. Il ricordo dell’Eden tramortisce la coscienza in “bagagli di cenere” e “angeli disossati”.
Nel luogo ove tutto è possibile, l’incesto magnifica l’estremo atto del perdersi. Corridoi bui in cui solo la Madre “varcherà l’istante che fugge. Senza tramonto”.
L’Evento immobile, il signore rotto del tempo, ansima nell’azzurrità del male, assenza di bene. Ieratiche figure, Purgatorio del possibile, attraversano scene morte di un palcoscenico. Teatro dell’assurdo, Beckett atteso tra camere mortuarie del pensiero, luogo in cui gli interrogativi rimandano a metamorfiche assenze. Una piazza ri-creata da anima estatica , sovraesposta all’astratto. Il normale balugina tra scaglie di visioni quotidiane perse allo sguardo. Dickinson esiliata nella regale arte del Nulla Poetico disidratato a merce sacra invenduta . Pandemia celeste declinata a prigione.
“L’assenza divina, sospirando si scopre fanciulla”. L’inquietudine non deterge il trauma, ripetuto in unica liturgia. Spoliazione dall’innocenza, tardiva, non salvifica, poiché nella coniazione di singole parole rivive il dramma di Sisifo. Infinito. “L’ultima volta, ma per sempre”.

Ogni frase è antitesi della precedente. Un rito impossibile e complesso, coitus interruptus dell’umano ingegno. Architettura dell’invisibile volta allo spasmo.
Non lascia tregua il respiro. Si resta desti, insomnia costante visitata da entità, come in un “quadro da cui esce la morte all’indietro”. Tonfo. Ipotesi di vita relegata a supposizione.
Se l’onirico, sottratto al suo martirio , è scenario da cui la morte esce all’indietro, istante cosmico denudato a evento della realtà, ogni accadimento trasfigura in liturgia del Presente. Ad esso prossimi e sconfinanti, in pastorale bulimica viviamo l’anarchia delle schiere celesti. Pietra d’angolo scartata e ricomposta in avversa Gerusalemme , popolata da Angeli caduti, rarefatta stella foriera di destini non del tutto umani.

Se mi baci l’angelo furioso scuote
i sigilli falsi della notte

Se mi trascini nella feritoia celeste
il profumo dell’abisso fa impazzire
gli oscuri guardiani dell’alba

Costringe a sonnambulia, la visione continuamente imposta. “Arancia Meccanica” dell’inconscio: l’uni-multi verso scorre su nastro immortale. Ogni evento sottende al silenzio e l’amore, frantuma in psicosi.
Devianza, il volo dei Cherubini, tra guardiani della soglia, trickster, posti a sigillo di Chronos.
L’amplesso fulgido di anime indecise sul restare o continuare ad amare. Non v’è traccia evidente dell’umano, eppure permane un lascito, dopo l’eternità del gesto.
Luci sacrileghe interconnesse al processo duale: sesso o castità.

Bussò un vecchio che diceva di essere
Dio ma non lo fecero entrare
Poi se ne andò ma ci lasciò la sua tristezza nascosta in fondo
Alla musica come una malattia del cielo

Dovevo assolutamente toccare quelle cosce ma non potevo così
Scappai e mi rifugia in mezzo ai libri sacri

Marino Iotti Acrilico 4

Marino Iotti, Ascesa, 2013, 80 per 40, tecnica mista su tavola.

E’ forse una malattia l’Eterno.
Quando si è in altra dimensione, la dualità perviene a poliformia e il punto di osservazione muta, per cui dalla morte si intravvede la vita. Dal sogno, la realtà. Dalla carnalità, l’estasi. Dall’angelo, il demonio.
Metafisica dell’innocenza tra “belle fontane di musica blu”. “Fra cattedrali nude cerco l’istante in cui sono scomparso”.

“La chiara presenza ha una eternità di venti appesa al collo…un polline d’arcangelo svela “il grande amplesso”.
Big bang iniziale ed iniziatico. Pantheon induista in cui muovono divinità assise ai loro troni. Santuario di insoluta trama. Indugiare marcescente verso l’altare del sonnecchiante custode. Alla fine dei giorni, dopo aver a lungo atteso, nulla verrà rivelato oltre la morte. Kafka muove rapido i suoi passi; indugia la lama nelle carni senza attesa della fine. Nella Colonia Penale del ristoro, ogni peccato imprime suo sigillo.

Un’Eternità nuda piange e rabbrividisce nel salone vacillante

Dal mio cuore fioriscono creature dementi
che divorano la madrina del Paradiso;
ora è in un cielo immobile
accanto al trono vuoto

Fiorisce lo spasmo cognitivo volto ad affermare l’insondabile vuoto. Un trono giacente tra le Rose, a di-svelare la Madre divina in assenza del Figlio. Squarcio non tacitato ma nel sempre speso ad interpretare l’assenza di D_o, la Sua Morte.
Nel nome del silenzio che tutto sovrasta, “non si può nascere ma si può restare innocenti “(Missa Romana- Cristina Campo).
“Due mondi. E io vengo dall’altro” (Diario bizantino-Cristina Campo).

Si apre l’ottavo sigillo, in “Lacrime dall’acquasantiera”. L’apice visionario sposa l’Apocalisse di Giovanni.

La Vergine concepì il candore d’un altro universo, ma il
Testimone lo imbrattò di sangue e di dolore

E’ rimando continuo ai Sacri Testi dal luogo in cui il poeta risiede, non identificabile se non per latitudine estrema. Ciò che permane divinizzato, si adegua alla descrizione del momento : “L’estasi ultramarina si perdeva in confutazioni”.

Quando scomparvi la mia ombra divenne divina,
invano

Lo scrivere trasmuta in un atto di innocenza violata, reiterarsi del rito ancestrale dell’incesto con la Grande Madre del Vuoto Assoluto, con l’aspirante incarnazione della necessità adeguata a virtù, mentre una cosmogonia di assoluta imperfezione non tralascia di esistere.

“…il pensiero sfuggito all’ordine” (Valse triste). Carlo Livia ricrea un nuovo impianto, un Teatro dell’Assurdo, divagazione del focus interiore sui temi centrali della sua poetica, amplificati sino alla dissolvenza. Svanisce ogni cosa su palcoscenico mobile, universo scaturito dalla summa di creature metafisiche interroganti e apostatiche.
Di nuovo: cosmogonia trattenuta a stento da un pensiero che inciampa e riproduce sprazzi, tensioni oniriche, figure estinte che interloquiscono con oggetti surreali . Creazione di dei viventi in un Olimpo dell’ombra.
Nella perdurante Ombra, la catabasi è “Madre (che) varcherà l’istante che fugge. Senza tramonto”.

E’ l’Evento immobile, il signore rotto del tempo

Per analogia, scosso il varco spazio temporale, si entra nell’immobile stasi della visione, come in Böohme, filosofo e mistico luterano, chiamati alla luce di D_o .

E la Madre varcherà l’istante che fugge
Senza tramonto

Il poeta varca ogni soglia. Si smarrisce e fa smarrire il viandante-lettore. Errabondi, si entra in ogni dove, come se tutto tornasse ineluttabilmente su una immagine o creatura- fanciulla angelo madre – in eterno, ma con una deviazione impercettibile che non consente agli eventi , per implacabile traslitterazione, di combaciare mai. Parallasse deviata di decimi di grado che, durante la lettura, incrementano, sino a determinare, nello spazio creatosi, universi paralleli in cui analoghe storie vengono narrate, con personaggi simili ma nominati ex novo in interspazi, sino a divenire irriconoscibili.

In questo tentativo, puramente folle e umile, di entrare, come fanciullo a piedi scalzi, nel limbo della ossessione, lì dove l’umano non scardina il divino e il divino nega l’esistenza all’umano, non si scorge attimo di stasi. Trasumananza, tra parole tronche, frasi de-private della punteggiatura, diluite dal solvente dell’eternità eppure, abbacinate da una invisibilità misteriosa che tradisce l’Impero del Sogno. Libro rosso dell’immaginazione attiva , presentimento del Sé creante
.
Il Sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto indietro (l’amato Kafka, di nuovo).

(Marina Petrillo)

Marino Iotti Acrilico 5

Marino Iotti, Giardino, olio su tela, 2019.Copertina di materia redenta.

da: La Prigione celeste di Carlo Livia

Paradiso artificiale

Ieri hanno portato via l’ultimo corpo, in parte già
trasformato in luce, bianco-musica e celeste-silenzio.
Al suo posto è apparsa la macchina che guarisce il pensiero: il dolore è dissolto dal raggio verde, la paura risucchiata dagli specchi.
Sembra che il sistema abbia raggiunto la perfezione,
eliminando ogni sensazione ed emozione o altro elemento di disturbo, solo onde di piacere nelle menti-ricevitori, che le riflettono all’infinito.

sono nel sogno sbagliato raccolgo i miei occhi e cado
nell’universo che è la mia zona morta
no sono la mente del Dio oscurato dal programma sguardo frantumato in miriadi di occhi che si allontanano o la colpa di esistere nel cuore-tabernacolo
dell’ombra-fanciulla che simula l’essere

attenzione: residuali entità antisistema potrebbero sfuggire al controllo delle barriere di filtraggio e mutazione di campo.
Il rischio maggiore è che, introducendosi nelle fasi ricettive, alterino la qualità dei valori di soddisfazione e riproducano perturbamenti e segnali negativi, superflui e nocivi.

ero la ferita del cielo
ero prigioniero della processione di istanti o di maschere ai piedi della candida peccatrice
nella dogana di lune e sospiri dov’erano gettati tutti i
desidèri
sognavo corpi che erano frutti di cieli lontani

cieli spogliati d’ombre malate di parole parole come squarci d’addio nel pensiero aspettavo poi venne il sonno
un macigno di lacrime fra arcate di nubi e quei passanti finti che gridavano
che la mia testa era senza confini

Sembra che permangano visibili tracce di entità non ancora conformi alla codificazione del sistema; occorre approntare al più presto sistemi di identificazione ed eliminazione
totale, per evitare che producano segnali in grado di interferire con l’attività programmata.

Come sono arrivato in fondo a questo precipizio corridoio di domande oscurate
dove sono esposti tutti i miei peccati stella spenta o giuramento tradito trascino pensieri sono bagagli di cenere angeli disossati pendono dalle feritoie da millenni lo stesso luogo di polvere niente più che viva e palpiti
ma la morte è scomparsa o attende fra le porcellane ponte gettato nell’oscurità
tento di raggiungere il mio essere che non sorge e non si estingue
sento l’esterno che non esiste ma ferisce ma non posso sentire l’interno
oceano di fontane spente
sterminio di Dei o di parole allacciate amplesso immobile o folle paradiso paralizzato sogno dell’oscuro Dio scomparso
mani che tentano di forzare la grande serratura celeste dietro cui attende la vergine distesa
che non posso ricordare
È evidente che l’azione di contrasto ha avuto effetto: le tracce di elementi non conformati si fanno sempre più labili ed evanescenti.

lo squarcio, i sogni che sfuggono, e

no, perché quando scompari trascini il peccato per un sentiero scosceso e completamente azzurro,
gridi di aspettare, ma

da quando il tuo regno non è di questo mondo

il tuo sguardo, il profumo del Paradiso,
il silenzio dell’immenso violino che

l’estasi della nuvola sul pendolo del mistero, la veglia delle deliziose lontananze col suo supplizio di corallo,
la tenerezza del crepuscolo appesa al chiavistello
di stelle morte, la visione che aspetta l’ultimo respiro,
il gomitolo delle finestre da
nel freddo della soglia scavata nell’anima

l’attimo resterà

quando risponderai

Marino Iotti Acrilico 2

Marino Iotti, Giardino segreto, olio su tela con inserti polimaterici, 85×135

Sette pause del silenzio in un tempio vuoto

La bambola pazza sferza a sangue la stella che medita.

Il Signore scomparso è una lama di sogno che penetra nel sesso della notte.

Il flauto dell’Enigma perseguita l’universo.

Nella follia degli angeli c’è un incesto di musica
nel peccato del cielo un pianto senza dolore e senza
bambini
nel sonno della folgore un vuoto di pensiero che uccide l’universo.

La nostalgia ammira i suoi gioielli e pensa: il prossimo addio sarà il mio vero amore.

L’ombra del vero si specchia nelle parole e tace a perdifiato.

In piedi sulla grande altalena del Paradiso il mio amore mi chiama, scompare, mi chiama…

Dipinti

Sono una belva dallo sguardo spento. Una belva dipinta sopra una scatola cinese. Una scatola dentro un’altra scatola dentro un’altra… e così all’infinito. Chi può dirlo. Non ho familiari, né simili. La mia specie si è estinta da millenni. Vivo in una pausa del tempo. In fondo alla strada infelice di De Andrè. In quel nero sono stati commessi atroci delitti. Alcuni sono celebri dipinti, e riposano in cielo coi santi. Altri alloggiano in televisione.
Ho un’unica dea, inesistente. Ogni giorno alle tre appare nei miei sogni. Diventa mia figlia, per amarmi. Poi si suicida. Ma non è un incesto. È un groviglio di piccoli santuari in forma di veliero nella tempesta. Per raggiungere la Signora altissima, inappagabile. Nelle sue stanze risuonano peccati e misteri biondi, celesti, terrificanti. Paradisi perduti, irraggiungibili.
È una carezza dorata, interminabile. Annienta senza uccidere. Senza togliersi le vesti. Come la musica che saliva lenta dai tumuli, in guanti di pioggia triste. Mi prese le mani fissandomi con occhi grigio-azzurri. Io sono fatta così, l’inaudito diventa vero- disse. Niente accade per caso, invano.
Invece giunse quell’assenza, quel dolore di ciechi in delirio che riempiva la calura d’estate. Voli murati. Giardini morti, che vagavano senza trovare l’ingresso dell’anima. E diventavano fanciulle crocifisse al sogno scomparso, implacabile. Viaggi effimeri nelle promesse del glicine. Col cielo basso in cui si scompare senza merito, senza seme.
E i padri bianchi ritornavano dal grande mistero senza parlare, coll’armatura di arpe e flauti ferita dalle domande di Kafka. Accecati dalle donne-praterie, chiedevano un altro giorno, un altro nome. L’altare intermedio, protetto dalla macchina vellutata. La siringa di Per sempre.
Se è vero amore il muro della velocità si piega docilmente – dicono. Ma prima bisogna attraversare il pianto della Madrina. La pietà indurita dagli scheletri. I teleschermi vuoti.
La malattia che ci ha diviso.

Marino Iotti Acrilico 1

Diario, 1996, 150×100, olio su tela

Ad ogni costo

Il tuono morbido spalancò il sogno. Una costola della morte. Varcò lo squarcio e cadde nell’insonnia dell’altro universo.
Una stanza troppo pallida in un’alba malata d’ardesia. Dappertutto c’era quel sesso malato che doveva morire ad ogni costo. E la creatura trasparente, che bruciava cantando.
La sposa era un dolore di flauto. Perseguitava l’universo.
Io aspettavo qualche goccia del suo amore, rinchiuso nell’animale spento. Ma lei era una fotografia lontana: “malinconia sul lungofiume”.
Legato alla colonna di pianto, vedevo passare i tempi missionari. Le comunicande nude, che copiavano la mia follia. Allontanandosi, mi uccidevano lentamente, senza fine.
Tutti si erano gettati nell’aldilà. Solo io esitavo, nell’oscuro cespuglio femminile. Stringevo l’ultimo cielo, la malattia di Schubert.
Ero un violoncello celibe, folle, senza memoria. Gridavo nella folla del mercato: “Lei è così in alto! Come avete potuto uccidere il suo amore? Non sentite questo gelo che cresce? Non vi terrorizza il suo silenzio? Il suo pensiero immobile nell’uragano morto?”
Chitarra bambina (dall’addio delizioso, da cui è appena fuggita la morte): “Se il naufragio ricorda il suo primo nome, se solo un bacio apre il tabernacolo, se il vertice del terrore è la fonte battesimale, se la Dea ha spigoli e farmaci, se l’Eterno ha un angolo rotto, se…”
Davvero credevate di esistere?
Il fatto increscioso è deceduto un’ora fa, fra le cosce supreme!

Evento (nel diaframma)
Il giglio cade alla velocità del prete
Oscurato
Oscurato fino al grido o al germoglio
Lei guarda in alto per rivedere il primo bacio
Il viale proibito ricresce
Nella musica che abolisce il corpo
Poi tutti si strappano l’anima
Per mangiare
Ma lei resta ammanettata al roseo dell’oriente
In quel cielo sonda le mie delizie
L’amore trapassa
“ Se fuori è fango, dentro è l’immacolata spoliazione “ – dice lo Spettro, fatto plastica dalla furia verginale.
Ma il destino si rinchiude nello specchio che annienta i velluti, senza esistere.
Entro nella femmina triste. È un tempo obliquo, matrigno, diserbato. Cresce e consuma i rami del sogno.
Ci sono troppe stelle. La casa morta. Il sole-falco. Il ragno supremo, che sposta l’universo.
Sale nel pensiero-serpente, spogliando paradisi, uragani.
L’uomo esce dall’ombra e si ferma in mezzo alla scena. La macchina pazza esce dalla sua testa, cresce e lo schiaccia ( lui muore e rinasce nel fotogramma oscurato).
Voce fuori scena (abissale, risorta a stento):
“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.

Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.
La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

*

Alla gemella prima luce, Carlo Livia, 

Marina Petrillo

da: materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura, 2019

Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.
Limen rivelato in distillio di tempo
a calco di ignoto cammino.
Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
imene dei molti inganni.
Ad ombra di me indossai il sudario
abitando la solitudine degli Esseri Primi.

da: L’amore trapassa, tratto da Evento (nel diaframma) di Carlo Livia

“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio
che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro
di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.

La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

Nell’ignoto spazio, ogni cosa è componimento. Interludio vittorioso, dell’insolito tramestio manto, quando sogni trapassano l’imene della notte. Oracolare lento sovrapposto allo sbiadire del verbo incolume al sacro involucro. Parestesia, immobile insetto di cristallina forma; dubbio volatile insorto a universo sconoscente l’interludio dei mondi. Stabilisce ritmo il ricordo di sé su una sedia accidiosa alla calma dell’estate. Non riconosce stagione il limbo: lento catturarsi all’istante.
Aspira alla completezza, misterioso, il tramestio dell’io nel perdurante gesto di una Età dell‘Oro. Turbinante forma accesa tra diapason avvertiti in fessurante linea tramortita dal gelido stridio del risveglio.

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010,  con Progetto Cultura, La prigione celeste 2020.

Marino Iotti nasce a Reggio Emilia nel 1954, e ancora giovanissimo dà inizio a un percorso pittorico che arriverà ad interessare autori come Achille Bonito OlivaClaudio CerritelliFrancesca BaboniGiuseppe BertiMarinella PaderniMassimo Mussini e Sandro Parmiggiani. Apprende le basi tecniche frequentando i corsi che il Prof. Giulio Soriani teneva alla Piccola Accademia di Regina Pacis, e successivamente con lo scultore Ugo Sterpini.

Nel 1978 inizia la sua attività espositiva a Scandiano (RE) con “Studio aperto”, uno studio/galleria che voleva essere punto di incontro e confronto tra gli artisti. Anche se sempre più affascinato dalla pittura aniconica, Iotti dedica una parte dei primi anni Ottanta allo studio della pittura italiana del Novecento. Numerosi sono i ritratti dipinti, dalla forte impronta psicologica, ispirandosi ad artisti come Casorati, Funi, Sironi. Studio che consente all’artista di rafforzare le proprie capacità tecniche. Ma è con artisti come Graham Sutherland e Giacometti, che avviene il graduale passaggio ad un linguaggio dapprima simbolico (con temi quali l’ecologia e l’orrore per la guerra) per passare poi ad una pittura astratto/informale.

Immagine

L’incessante ricerca è il dato che caratterizza tutta l’opera di Marino Iotti; una ricerca continua, mai forzata e sempre in divenire, uno studio appassionato dei sottili equilibri che il colore ed il segno possono ancora trasmettere.

Nell’ultimo decennio inizia la collaborazione con la Saletta Galaverni di Reggio Emilia, dove presenta due personali nel 2004 e nel 2009, e con la Galleria Nickel di Seebruck in Germania, dove espone nel 2002 e nel 2004 più altre mostre collettive.

Altre mostre significative: nel 2002 “Infinite Voci” nella Rocca di Scandiano; nel 2005 “Quel nulla di inesauribile segreto” Chiesa della Madonna a Cast Sotto; nel 2007 “Racconti interiori” Spazio Tadini di Milano; nel 2008 “Nel segno della Natura” Sede del Parco nazionale dello Stelvio – Prato allo Stelvio (Bz); nel 2011 ” Risonanze del Visibile” Chiostri di San Domenico Reggio Emilia, “La complessità del frammento” Galleria Meridiana, Pietrasanta – “Scartches” Galleria Marelia, Bergamo; nel 2012, “90 artisti per una bandiera” Chiostri di San Domenico Reggio Emilia, Palazzo Ducale di Modena, Complesso del Vittoriano, Roma 2013; nel 2014 Triennale di Roma, Galleria 13, Reggio Emilia.

Nel corso degli anni, Marino Iotti ha tenuto numerosi laboratori con bambini di scuole materne comunali della provincia di Reggio Emilia, e con persone affette da disagio mentale. Esperienze stimolanti sia dal punto di vista sociale che da quello creativo.

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Il Coronavirus nella poesia di oggi, La zona grigia, Pensare la zona grigia è compito del pensiero, Poesie di Dante Alighieri, Tomas Tranströmer, Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda

Lucio Mayoor Tosi La Gioconda

[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà  a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra  per i prossimi milioni di anni…]
.
«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
.
1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
.
Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
Caro Gino Rago,
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il virus ci rende deboli e fragili, ci isola ed esaspera gli egoismi e gli individualismi, i populismi e i sovranismi. Nello stato della «nuda vita» agambeniana ognuno si preoccuperà della propria sopravvivenza. La solidarietà sarà una parola del passato. L’uguaglianza dello stato di diritto anche.
Il filosofo «Žižek afferma che il virus ha assestato un colpo mortale al capitalismo, ed evoca i fantasmi di un oscuro comunismo. Crede anche che il virus possa far cadere il regime cinese. Žižek si sbaglia. Non succederà niente di tutto ciò.» Condivido l’analisi del filosofo cinese Byung-Chul-Han. La Cina spaccia il suo Stato di polizia digitale come la soluzione della pandemia, esibirà la superiorità del suo sistema rispetto a quello delle democrazie dell’Europa. Idem Putin il quale ha dichiarato più volte che le democrazie liberali dell’Europa sono in disfacimento.
(Giorgio Linguaglossa)
.
1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116

Giuseppe Talìa

La poesia del dopo COVID-19.

Riguardo al Nostro Giuseppe Conte, poeta, che nel tempo ha invocato gli dei e che continua, dopo aver preso un abbaglio clamoroso scambiando un modesto video montaggio di un’agenzia di propaganda per un’immagine reale della prima guerra mondiale, non ce lo dimentichiamo, ricordiamo questa sestina cattiva da La Musa Last Minute, Progetto Cultura, Roma 2018.

Giuseppe Conte

Né ferite né fioriture sono possibili
Lo dice il telegiornale non stop h24
E alla tavola rotonda che fu di re Artù
Si siedono ora tredici famiglie del gruppo
Bilderberg a cui importa solo il think tank
Della Parca parcheggiata nell’Economia

 

 

Tomas Tranströmer

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:
«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1

La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. Solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere com-presi nella nostra più vera essenza.
Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.”

(Giorgio Linguaglossa)

E’ incredibile come la quartina di Tranströmer, con quel finale:

Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

corrisponda alla nostra situazione quotidiana, prigionieri all’interno delle nostre abitazioni, con tutte le porte e le finestre chiuse a causa del virus Covid19.

 (Marie Laure Colasson)

Giorgio Linguaglossa

Stanza n. 1
K. invia il Signor F. sulla terra con una minuscola teca

K. sfregò uno zolfanello sul muro e accese il sigaro.
Il suo occhio di vetro sembrava osservarmi.

Poi accese il fuoco, ci mise sopra un bricco il quale cominciò a tossire.
Uscì fuori una figura di fumo che si contorceva.

«Ecco, questo è il Signor F.» disse K. «È una persona ragionevole,
con lui si possono fare ottimi affari…».
«Sa, è stato per tanto tempo nell’aldilà. Adesso però è stato dichiarato innocente.
E per questo riabilitato e restituito al pianeta Terra,
tra gli umani».
Fece una giravolta. Uno sgambetto.
Si infilò il monocolo sull’occhio di vetro.

Mostrò una minuscola teca. «Ecco, questo è il vasetto di Pandora.
Contiene il Covid19, un affaruccio con la corona lipidica che si scioglie ad una temperatura
di 27 gradi. Mille volte più piccolo di un globulo rosso…».
Azazello fece uno sberleffo, una piroetta.

«La sentenza di assoluzione è la prova di un errore giudiziario», disse K. con sussiego, riprendendo il discorso interrotto.
«Ciascuno è intimamente innocente»,
«E intimamente colpevole». «La confessione è il miglior argomento
in pro del giudizio».

Poi prese a passeggiare in cerchio.

Nel frattempo una ladyboy in calzamaglia a rete iniziò a litigare con Azazello.
«Sei piccolo e brutto!, e stupido!, non sai neanche come si tratta una Milady!, tornatene da dove sei venuto, scimunito!».

«È estremamente riprovevole giocare con il Covid19, non crede?», riprese K. il filo del discorso dove lo aveva lasciato. E si aggiustò la mascherina.

Nel frattempo, la teiera si alzò dal tavolo
E versò nella tazza di F. un tè bollente.
Che il Signor F. bevve d’un sorso. Deglutì sonoramente.

Il pomo d’avorio fece su e giù.

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Giorgio Agamben, Il luogo ateologico della poesia, di Giuseppe Zuccarino, L’oggetto perduto e la nuova lingua, La poesia e l’industria culturale, Due poesie di Mallarmé, nuova traduzione

Giorgio Agamben in giacca chiara

G. Agamben

Giuseppe Zuccarino 

Il luogo ateologico della poesia.

Agamben e Mallarmé L’oggetto perduto e la nuova lingua

Giorgio Agamben ha talvolta dedicato dei saggi ai simbolisti francesi dell’Ottocento1, benché mai, specificamente, a Mallarmé. Questo non significa che il filosofo attribuisca al poeta una minore importanza, anzi i frequenti e significativi rimandi agli scritti mallarmeani che si incontrano nei suoi libri dimostrano l’esatto contrario. Tuttavia, dato che si tratta di passaggi brevi e allusivi, per poterli comprendere in maniera adeguata occorrerà cercare di contestualizzarli meglio e, per così dire, sciogliere le abbreviazioni. Già in uno dei primi volumi di Agamben, Stanze, emerge il ruolo determinante che egli assegna a Mallarmé nello sviluppo della poesia moderna. Quest’ultima viene posta a confronto non con la produzione degli antichi, ma con la lirica medioevale. A giudizio del filosofo, nella poesia amorosa in lingua d’oc e d’oïl, così come nei testi dei siciliani e degli stilnovisti, si realizza qualcosa di raro e ammirevole: «Il vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio, apre infatti uno spazio in cui il segno poetico appare come l’unico asilo offerto al compimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia»2 .

In tale perfetta circolarità, la lirica amorosa del Medioevo «celebra, forse per l’ultima volta nella storia della poesia occidentale, il suo gioioso e inesausto “unimento spirituale” col proprio oggetto d’amore»3 Dopo questa riuscita eccezionale, si direbbe che, a parere di Agamben, il miracolo non abbia potuto ripetersi. Tuttavia almeno un aspetto di esso si è conservato nella lirica dei secoli successivi: «Se si volesse cercare, sulla traccia esemplare di Spitzer, un trait éternel della poesia romanza, è certo che proprio questo nesso potrebbe fornire il paradigma capace di spiegare tanto il trobar clus, come “tendenza specificamente romanza verso la forma preziosa”, che l’analoga tensione della poesia romanza verso un’autosufficienza e un’assolutezza del testo poetico»4 .

Agamben sembra incline a vedere nel passaggio dai poeti medioevali a quelli moderni (esemplificati da Mallarmé) un cambiamento di segno, dal positivo al negativo, dall’appagamento alla perdita: «Nel corso di un processo storico che ha in Petrarca e in Mallarmé le sue tappe emblematiche, questa essenziale tensione testuale della poesia romanza sposterà il suo centro dal desiderio al lutto e Eros cederà a Thanatos il suo impossibile oggetto d’amore per recuperarlo, attraverso una funebre e sottile strategia, come oggetto perduto, mentre il poema diventa il luogo di un’assenza che trae però da quest’assenza la sua specifica autorità. La “rosa” nella cui quête si sorregge il poema di Jean de Meung, diventa così l’absente de tout bouquet che esalta nel testo la sua disparition vibratoire per il lutto di un desiderio imprigionato come un “cigno” nel “ghiaccio” del proprio spossessamento»5 .

Come si vede, il discorso è complesso, anche perché contiene vari riferimenti impliciti. Il filosofo instaura un raffronto, per contrasto, fra i testi mallarmeani e un capolavoro del tredicesimo secolo, il Roman de la Rose, vasta opera allegorica al termine della quale, dopo aver superato molti ostacoli, il protagonista perviene a ciò cui aspirava, ossia a cogliere il metaforico fiore, «rosier et rose, flor et fuelle»6 . Nel poeta ottocentesco, invece, il fiore si smaterializza, per effetto della scissione fra significante e referente, fra idea e oggetto reale: «A che scopo la meraviglia di trasporre un fatto di natura nella sua quasi sparizione vibratoria, secondo il gioco della parola, se non perché ne emani, senza il fastidio di un vicino o concreto richiamo, la nozione pura? Io dico: un fiore! e, fuori dall’oblio in cui la mia voce relega ogni contorno, in quanto cosa diversa dai calici noti, musicalmente si leva, idea autentica e soave, l’assente da ogni mazzo»7 . Certo, qui viene meno il sogno di una perfetta coincidenza fra parola e cosa, ma la perdita è compensata da qualcos’altro. Spetta infatti al poeta sottrarre i vocaboli all’uso ordinario e conferire loro, all’interno del verso, non soltanto un’intensa musicalità ma addirittura una nuova vita: «Al contrario di una funzione di numerario facile e rappresentativo, al modo in cui lo tratta a priori la folla, il dire, innanzitutto sogno e canto, ritrova nel Poeta, per costitutiva necessità di un’arte consacrata alle finzioni, la propria virtualità. Il verso, che da molti vocaboli rifà una parola totale, nuova, estranea alla lingua e come incantatoria, perfeziona quest’isolamento della parola […] e causa a voi la sorpresa di non aver mai udito un certo frammento ordinario di discorso, nello stesso momento in cui la reminiscenza dell’oggetto nominato si immerge in una nuova atmosfera»8 .

mallarme_nadarL’idea, sostenuta da Agamben, che in Mallarmé il desiderio ceda il posto al lutto ed Eros a Thanatos appare eccessiva e opinabile. Infatti, benché il poeta francese abbia scritto dei  celebri  tombeaux, il tema dell’erotismo è ben presente nelle sue opere9.  Il filosofo, tuttavia, preferisce insistere su un presunto blocco del desiderio, e lo fa chiamando in causa tramite allusioni un celebre sonetto nel quale Mallarmé evoca l’immagine di un cigno rimasto intrappolato, con le zampe e le ali, in un lago di ghiaccio10. Nondimeno in altri testi il poeta esalta, all’opposto, la scioltezza del gesto, quale si manifesta ad esempio nella danza e nel mimo. Poiché si tratta di argomenti che sono cari ad Agamben, egli non manca di richiamare tali testi, sia pure fuggevolmente. Così ricorda che «Mallarmé, osservando danzare la Loïe Fuller, poteva scrivere che essa era come “la sorgente inesauribile di se stessa”», oppure che «nel mimo, i gesti rivolti agli scopi più familiari sono esibiti come tali, e perciò, tenuti in sospeso “entre le désir et son accomplissement, la perpétration et son souvenir”, in quello che Mallarmé chiama un milieu pur» 11. Tutto dipende dunque dagli scritti del poeta che, di volta in volta, si sceglie di prendere in considerazione, e dal modo in cui li si interpreta.

1 Cfr. G. Agamben, Baudelaire o la merce assoluta, in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, pp. 49-54, e, su Paul Valéry, L’Io, l’occhio, la voce, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 90-106.
2 La «gioi che mai non fina», in Stanze, cit., pp. 151-152.
3 Ibid., pp. 154-155. Cfr. Dante: «Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata» (Convivio, III, II, Milano, Garzanti, 1980, p. 145).
4 La «gioi che mai non fina», cit., p. 154. Cfr. Leo Spitzer, L’interpretazione linguistica delle opere letterarie (1928), in Critica stilistica e semantica storica, tr. it. Bari, Laterza, 1954; 1975, pp. 46-72 (l’espressione citata è a p. 66).
5 La «gioi che mai non fina», cit., p. 154.
6 Guillaume de Lorris – Jean de Meun, Le Roman de la Rose, Paris, Garnier-Flammarion, 1974, p. 573 (tr. it. Il Romanzo della Rosa, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 386).
7 Stéphane Mallarmé, Crise de vers, in Divagations, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1998- 2003 (d’ora in poi abbreviato in Œ. C.), vol. II, p. 213 (tr. it. Crisi di verso, in Divagazioni, in Opere. Poemi in prosa e opera critica, Milano, Lerici, 1963, p. 258; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
8 Ibidem.
9 Per un’ampia disamina delle tematiche mallarmeane si rinvia al classico studio di Jean-Pierre Richard, L’univers imaginaire de Mallarmé, Paris, Éditions du Seuil, 1961.
10 Cfr. Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, in Poésies, in Œ. C., vol. I, pp. 36-37 (tr. it. Il vergine, il vivace e il bell’oggi, in Poesie, Milano, Feltrinelli, 1966; 1980, pp. 141-143).
11 Le citazioni agambeniane sono tratte rispettivamente da Al di là dell’azione, in Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, p. 135, e Note sul gesto, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 52. Esse a loro volta rinviano, ma senza indicarne il titolo, a due scritti mallarmeani: Autre étude de danse, in Divagations, in Œ. C., vol. II, pp. 174- 178 (tr. it. Altro studio di danza, in Divagazioni, cit., pp. 215-216) e Mimique, ibid., pp. 178-179 (tr. it. Mimica, in Divagazioni, cit., p. 217).

 il canto dei grilli

Spesso Agamben si sofferma su passi poco noti di Mallarmé. Ciò avviene ad esempio nel caso di una lettera in cui il poeta si confida con un amico, Eugène Lefébure, citando dapprima alcuni versi tratti da un sonetto baudelairiano, Bohémiens en voyage: «Dal fondo della sua tana sabbiosa, il grillo, / guardandoli passare [gli zingari], rafforza la sua canzone; / Cibele, che li ama, aumenta la verzura»12. Poi Mallarmé collega l’espressione che concerne il frinire degli insetti a un’esperienza personale: «Conoscevo unicamente il grillo inglese, dolce e caricaturista: solo ieri, in mezzo alle giovani spighe, ho ascoltato questa voce sacra della terra ingenua, già meno scissa di quella dell’uccello, […] ma soprattutto assai più una rispetto a quella di una donna, che camminava e cantava davanti a me, e la cui voce sembrava lasciar trasparire le mille morti in cui vibrava – e compenetrata di Nulla! Tutta la felicità che la natura possiede per il fatto di non essere scissa in materia e spirito si manifestava in quel suono unico del grillo!»13.

Senza riportare il brano per esteso, Agamben si riferisce ad esso perché vi trova una conferma di ciò che pensa riguardo a una delle caratteristiche che più differenziano l’uomo dalle altre specie: «Gli animali, infatti, non sono privi di linguaggio; al contrario, essi sono sempre e assolutamente lingua, in essi la voix sacrée de la terre ingenue – che Mallarmé, ascoltandola nel canto di un grillo, oppone come une e non-décomposée alla voce umana – non conosce interruzioni né fratture. Gli animali non entrano nella lingua: sono sempre già in essa. L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, scinde questa lingua una e si pone come colui che, per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io. Per questo, se la lingua è veramente la natura dell’uomo […] ed essere natura significa essere sempre già nella lingua – allora la natura dell’uomo è scissa in modo originale, perché l’infanzia introduce in essa la discontinuità e la differenza fra lingua e discorso. Ed è su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano»14.

L’uomo, infatti, a differenza degli altri animali, non può limitarsi a far uso della propria eredità genetica, ma ha bisogno di ricevere anche un’eredità culturale, il cui aspetto più importante è costituito dal linguaggio:

«A differenza di quanto avviene nella maggior parte delle specie animali (e di quanto Bentley e Hoy hanno recentemente dimostrato per il canto dei grilli, nel quale possiamo dunque veramente vedere, con Mallarmé, la voix une et non décomposée della natura), il linguaggio umano non è integralmente iscritto nel codice genetico. […] È un fatto di cui non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza per la comprensione della struttura del linguaggio umano, che, se il bambino non è esposto ad atti di parola nel periodo compreso fra i due e i dodici anni, la sua possibilità di acquisire il linguaggio è definitivamente compromessa. Contrariamente a quanto affermato da un’antica tradizione, l’uomo non è, da questo punto di vista, l’“animale che ha il linguaggio”, ma, piuttosto, l’animale che ne è privo e deve, perciò, riceverlo dal di fuori»15.

Come si vede, l’osservazione di Mallarmé viene presa estremamente sul serio dal filosofo, che trova in essa uno spunto atto a individuare un elemento specifico dell’essere umano. Occorre accennare a un altro testo nel quale Agamben, pur non richiamandosi al poeta francese, torna a parlare del canto dei grilli. Si tratta di una serie di frammenti, nei quali le idee già esposte in Infanzia e storia vengono riformulate con un tono quasi letterario. Ecco l’incipit: «Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci animali.

Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono, che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali»16. Tuttavia questa carenza si accompagna a una preziosa possibilità, quella del pensiero: «Pensare, nel linguaggio, noi lo possiamo solo perché il linguaggio è e non è la nostra voce. […] (Il grillo – è chiaro – non può pensare nel suo frinito.) […] Pensare, noi lo possiamo solo se il linguaggio non è la nostra voce, solo se in esso misuriamo fino in fondo – non c’è, in verità, fondo – la nostra afonia»17. L’uomo è dunque affascinato dalla voce animale proprio perché resta separato da essa, ma tale privazione gli consente di – o lo obbliga a – pensare. La passeggiata del filosofo in mezzo alla natura costituisce dunque un incontro mancato, o meglio riuscito proprio in quanto mancato: «Camminiamo nel bosco: a un tratto sentiamo un frullo d’ali o d’erba smossa. Una fagianella spicca il volo e appena la vediamo sparire fra i rami, un istrice s’interna nella macchia più folta, sgrigiolano le foglie arse su cui rotola la serpe. Non l’incontro, ma questa fuga di bestie invisibili è il pensiero»18. Noi umani possiamo parlare, persino cantare (come la donna evocata da Mallarmé nella lettera), e tuttavia la nostra voce è divisa, non una come quella degli animali, e reca al proprio interno le tracce della morte: è dunque, secondo le parole del poeta, «compenetrata di Nulla».

12 Charles Baudelaire, Bohémiens en voyage, in Les fleurs du mal, in Œuvres complètes, vol. I, Paris, Gallimard, 1975, p. 18 (tr. it. Zingari in viaggio, in I fiori del male, Milano, Rizzoli, 1980; 2001, p. 95).
13 Lettera a Eugène Lefébure del 27 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 721.
14 G. Agamben, Infanzia e storia, in Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1978, pp. 50-51.
15 Ibid., p. 56. Il testo scientifico è il seguente: David Bentley – Ronald Hoy, The neurobiology of cricket song, in «Scientific American», 231, 1974, pp. 34-44. La definizione dell’uomo in quanto «unico animale che abbia la favella» è di Aristotele (Politica, I, 1253a, tr. it. Milano, Rizzoli, 2002, p. 77) e viene citata spesso nei libri agambeniani.
16 G. Agamben, La fine del pensiero. La fin de la pensée, Paris, Le Nouveau Commerce, 1982 (senza numerazione di pagina).
17 Ibidem.
18 Ibidem.

 La Musa moderna

Uno dei problemi che Agamben si pone, in rapporto alla poesia degli ultimi secoli – di cui Mallarmé costituisce per lui una figura emblematica – è quello che concerne il ruolo dell’ispirazione. Per chiarirlo, anche in questo caso il filosofo prende spunto da una riflessione sul passato: «Tutta la letteratura del Medioevo è, infatti, impegnata in una quête del libro e dell’anteriorità della parola che deve legittimare l’opera letteraria. […] V’è un’eccezione notevole e significativa: il grande canto cortese dei trovatori provenzali, quel trobar clus che si richiude su se stesso e non rimanda ad alcuna parole anteriore, riuscendo così a porre il nulla come propria sorgente: “Farai un vers de dreyt nien”, “Farò un verso dal puro niente”, recita il primo verso della canzone più enigmatica di Guglielmo IX. Non è possibile qui trattare tematicamente quest’argomento. Val  la pena però almeno ricordare il problema fondamentale dell’ispirazione, che ne consegue direttamente. Le Muse, Beatrice, Laura, Délie, tutti questi nomi non designano forse quell’origine assente della parola letteraria che – una volta compiutosi il passaggio dalla cultura orale alla scrittura – diviene problematica per il poeta? Avviene persino che, al termine di un itinerario i cui punti estremi sono Dante e Mallarmé, il poeta si trovi costretto a proclamare la morte di Beatrice e l’abolizione del luogo originario della parola. Può perfino darsi che egli non possa fondare la sua parola se non su tale abolizione: è questo il gesto di Mallarmé che afferma: “La Destruction fut ma Béatrice”»19.

La frase mallarmeana si legge in una lettera in cui il poeta spiega il modo in cui procede: «Io non ho creato la mia Opera che per eliminazione, e ogni verità acquisita nasceva solo dalla perdita di un’impressione che, dopo aver scintillato, si era consumata e mi consentiva, grazie alla sue tenebre liberate, di avanzare più in profondità nella sensazione delle Tenebre Assolute. La Distruzione fu la mia Beatrice»20. Dunque il lirico moderno deve accettare di addentrarsi nel buio, senza più una voce che possa fargli da guida e dettargli i versi che andrà a comporre. O meglio, se un’ispiratrice gli resta, è proprio la sensazione che scrivere sia impossibile: «Musa moderna dell’Impotenza, che da molto tempo mi vieti il tesoro familiare dei Ritmi, e mi condanni (amabile supplizio) a non far altro che rileggere […] i maestri inaccessibili la cui bellezza mi fa disperare; mia nemica, e tuttavia mia incantatrice dalle perfide pozioni e dalle malinconiche ebbrezze, io ti dedico, come una burla o – chi lo sa? – come un pegno d’amore, queste poche righe della mia vita scritte nelle ore clementi in cui non mi ispiravi l’odio per la creazione e lo sterile amore del nulla»21.

Per comprendere come l’assenza di ispirazione possa fungere ancora, paradossalmente, da fonte di ispirazione, da Musa a cui resta possibile rivolgersi, occorre risalire indietro nel tempo, fino a quegli scrittori del Romanticismo tedesco che hanno posto le basi teoriche per gran parte della cultura moderna. Ad essi e ai concetti da loro elaborati, come quello di ironia, Agamben dedica molta attenzione nelle sue prime opere. In una di esse, spiega che «i romantici, riflettendo su questa condizione dell’artista che ha fatto in sé l’esperienza dell’infinita trascendenza del principio artistico, avevano chiamato ironia la facoltà attraverso la quale egli si strappa al mondo delle contingenze e corrisponde a quell’esperienza nella coscienza della propria assoluta superiorità su ogni contenuto»22. Ciò parrebbe esaltante anziché deprimente, ma comporta di fatto gravi conseguenze: «Ironia significa che l’arte doveva diventare oggetto a se stessa e, non trovando più vera serietà in un contenuto qualsiasi, poteva d’ora in poi soltanto rappresentare la potenza negatrice dell’io poetico […].

Hegel si era già reso conto di questa vocazione distruttrice dell’ironia […]; ma aveva anche compreso che, nel suo processo distruttivo, l’ironia non poteva arrestarsi al mondo esterno e doveva fatalmente rivolgere contro se stessa la propria negazione»23. Da ciò deriva un mutamento dell’idea di opera, per cui quest’ultima si configura ormai, in certo modo, come irrealizzabile, perlomeno nella sua pienezza. «Benn osserva giustamente nel suo saggio sui Problemi del lirismo (1951), che tutti i poeti moderni, da Poe a Mallarmé fino a Valéry e a Pound, sembrano portare al processo della creazione lo stesso interesse che essi portano all’opera […]. L’origine di questo fenomeno si trova probabilmente nelle teorie di Schlegel e di Solger sulla cosiddetta “ironia romantica”, che si fondava appunto sull’assunzione della superiorità dell’artista (cioè, del processo creativo) rispetto alla sua opera e conduceva a una sorta di costante riferimento negativo fra l’espressione e l’inespresso»24.

Un altro aspetto del medesimo fenomeno consiste nella frequente rinuncia, da parte di scrittori e artisti, a giungere all’opera compiuta: «Schlegel, a cui si deve la profetica affermazione che “molte opere degli antichi sono divenute frammenti, mentre molte opere dei moderni lo sono al loro nascere”, pensava, come Novalis, che ogni opera finita fosse necessariamente soggetta a un limite cui solo il frammento poteva sfuggire. È superfluo ricordare che, in questo senso, quasi tutte le poesie moderne, da Mallarmé in poi, sono dei frammenti, in quanto rimandano a qualcosa (il poema assoluto) che non può mai essere evocato integralmente, ma solo reso presente attraverso la sua negazione»25.

In effetti, nel presentare ai lettori la raccolta delle sue Poésies, che include alcuni fra i componimenti più eccelsi della lirica moderna, Mallarmé definisce i testi, in tono riduttivo, come semplici «studi in vista di meglio, come si prova la punta della penna prima di mettersi all’opera»26. E analogamente, nell’introdurre il volume Divagations, ne parla come di «un libro di quelli che non amo, dispersi e privi di architettura»27. Tutto dunque è per lui soltanto provvisorio, incompleto, difettoso, mentre l’opera, quella vera, è assente, resta sempre a venire. In un certo senso, non esiste neppure più il soggetto che dovrebbe scriverla; il poeta, infatti, ha reso noto a un amico quanto segue: «Io sono ora impersonale e non più lo Stéphane che hai conosciuto – bensì un’attitudine che l’Universo Spirituale ha a vedersi e a svilupparsi, attraverso ciò che fu io»28.

Chiarisce Agamben: «È nella poesia che deve necessariamente giocarsi ogni tentativo di abolire e scavalcare l’Io. Secondo una tradizione che è consustanziale alla poesia occidentale, colui che parla nella poesia non è, infatti, il soggetto del linguaggio, ma un altro, che lo si chiami Musa, Dio, Amore, Beatrice. La poesia ha, cioè, da sempre fatto dell’alienazione la condizione normale dell’atto di parola: essa è un discorso in cui Io non parla, ma riceve da altrove la sua parola (parola “ispirata”, in cui lo spirito, il “soffio” viene direttamente al linguaggio). Mallarmé […] aveva cercato di spingere all’estremo questa abolizione dell’Io nella scrittura poetica; ma ciò che, in questo modo, egli aveva trovato al di là del soggetto dell’enunciazione non era altro che la lingua stessa. L’operazione distruttrice della Musa (“La Destruction fut ma Béatrice”) porta alla parola la lingua stessa»29.

L’inno esploso

Difficilmente Agamben avrebbe potuto passare sotto silenzio un’opera singolare come Un coup de dés jamais n’abolira le hasard. Ricordiamo che il poemetto, edito dapprima in rivista nel 1897, è stato poi rielaborato dall’autore ed è apparso postumo, come volume autonomo, nel 1914-30. Si tratta di un testo breve, che costituisce però, letteralmente, qualcosa di mai visto in precedenza. Infatti le parole sono composte (nel senso tipografico del termine) in caratteri di grandezza diversa e, a seconda dei casi, in tondo, in corsivo, in maiuscolo o in grassetto. Inoltre, cosa ancor più singolare, non si presentano nella forma dei normali versi, bensì in sequenze (spesso costituite da un solo vocabolo) sparse sulle doppie pagine del libro. Parliamo di doppie pagine perché quelle pari e dispari vengono trattate come se formassero ogni volta un’unica grande superficie, e vanno dunque lette e osservate assieme. Si tratta di un esperimento per certi aspetti assimilabile all’ambito che più tardi, nella seconda metà del Novecento, verrà etichettato come «poesia concreta» o «poesia visuale»31. In realtà, Mallarmé anticipa anche le ricerche della poesia fonetica, perché, come spiega, «da questo impiego a nudo del pensiero con ritiri, prolungamenti, fughe, o dal suo disegno stesso, risulta, per chi voglia leggere ad alta voce, una partitura», in quanto «la differenza dei caratteri di stampa fra il motivo preponderante, uno secondario e altri adiacenti, detta la propria importanza all’emissione orale»32. Questi aspetti «modernistici» del Coup de dés non sembrano però interessare ad Agamben, che all’opposto inserisce l’opera, pur così originale, in una tradizione poetica fra le più antiche, 30 quella dell’inno.

Scrive infatti: «L’isolamento innico della parola ha trovato nella poesia moderna il suo esito estremo in Mallarmé. Mallarmé ha durevolmente sigillato la poesia francese affidando un’intenzione genuinamente innica a un’inaudita esasperazione della harmonía austērá. Questa disarticola e spezza a tal punto la struttura metrica del poema, che esso esplode letteralmente in una manciata di nomi slegati e disseminati sul foglio. Isolate in una “vibratile sospensione” dal loro contesto sintattico, le parole, restituite al loro statuto di nomina sacra, si esibiscono ora […] come ciò che nella lingua tenacemente resiste al discorso del senso. Questa esplosione innica del poema è il Coup de dés. In questa irrecitabile dossologia, il poeta, con un gesto insieme iniziatico ed epilogante, ha costituito la lirica moderna come liturgia ateologica»33. Ciò che colpisce il filosofo, nel testo mallarmeano, è dunque la compresenza del tono solenne, caratteristico dell’inno, e di una frantumazione che investe l’unità metrica del verso, dando luogo a versicoli composti sovente da un’unica parola. Può trattarsi di un sostantivo, di un aggettivo, di un pronome, di un avverbio, di una preposizione, mai però di un nome proprio.

Non è a quest’ultimo, infatti, che Agamben allude quando parla di «nomi» nel Coup de dés, bensì ai vocaboli isolati. A suo avviso, a definire l’harmonía austērá, o connessione aspra, «non è tanto la paratassi, quanto il fatto che in essa le singole parole (o alcune di esse) tendono a isolarsi dal loro contesto semantico fino a costituire una sorta di unità autonoma (Mallarmé aveva parlato nello stesso senso di un isolement de la parole, il cui esito estremo è il Coup de dés)»34, testo in cui si perviene alla «disseminazione dei segni sul candore allibito della pagina»35. Pure in un’intervista il filosofo si pronuncia nello stesso senso, e dopo aver ricordato «le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento volte, anche solo una particella: aber, che significa “ma”)», aggiunge: «Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase ma al nome»36.

L’assenza del nome proprio, e a fortiori del nome divino, è solo uno dei fattori che confermano l’idea del filosofo secondo cui il poemetto mallarmeano va inteso in senso ateologico. I vasti spazi bianchi presenti nei fogli del Coup de dés fanno apparire le parole scritte come se fossero disperse, al pari di stelle nel cielo notturno. Ed era proprio questa l’impressione che aveva ricevuto Paul Valéry quando Mallarmé gli aveva concesso di osservare le bozze dell’opera. A Valéry, il Coup de dés era apparso come il tentativo, riuscito, «di elevare finalmente una pagina alla potenza del cielo stellato»37. Ma si tratta di un cielo vuoto di ogni presenza trascendente, perché da tempo Mallarmé ha portato a termine con successo la «lotta terribile con quel vecchio e malvagio piumaggio – abbattuto, per fortuna –, Dio»38. Quindi l’operazione linguistica e stilistica attuata nel poemetto non aspira a celebrare nulla se non i vocaboli stessi che lo compongono, e non lascia «dietro di sé che uno spazio vuoto, in cui veramente, secondo le parole di Mallarmé, rien n’aura eu lieu que le lieu»39.

 Il Libro e il rituale delle letture

Agli occhi del poeta di fine Ottocento, la religione tradizionale può apparire superflua anche perché alcune delle funzioni da essa svolte in passato vengono ora assunte dall’arte. Agamben nota appunto che, «di pari passo al processo che, con la prima apparizione dell’industria culturale, respinge i seguaci dell’arte pura verso i margini della produzione sociale, artisti e poeti (basti, per questi ultimi, fare il nome di Mallarmé) cominciano a guardare alla loro pratica come alla celebrazione di una liturgia – liturgia nel senso proprio del termine, in quanto comporta tanto una dimensione soteriologica, in quanto sembra essere in questione la salvezza spirituale dell’artista, quanto una dimensione performativa, in cui l’attività creativa assume la forma di un vero e proprio rituale, svincolato da ogni significato sociale ed efficace per il semplice fatto di essere celebrato»40. In campo letterario, il nuovo culto si configura, per Mallarmé, come una «religione del Libro», diversa ovviamente da quelle incentrate sulla Torah, la Bibbia cristiana o il Corano. Mentre infatti i vari monoteismi pongono i testi sacri come base e origine delle rispettive fedi, per il poeta francese questo rapporto si rovescia, poiché il Libro costituisce la conclusione di un processo, ideale o storico che sia:

«Una proposizione che emana da me – così, diversamente, citata a mio elogio o per biasimo – […] vuole che tutto, al mondo, esista per far capo a un libro»41.

Quale specie di opera sia il Libro supremo e totale, Mallarmé lo spiega in una celebre lettera indirizzata a Paul Verlaine, nella quale fa capire chiaramente che egli si propone di realizzarlo, almeno in parte: «Ho sempre sognato e tentato altra cosa, con una pazienza da alchimista […] Cosa? è difficile dirlo: un libro, semplicemente, in parecchi tomi, un libro che sia un libro, architettonico e premeditato, e non una raccolta di ispirazioni casuali, fossero pure meravigliose…  Andrò più oltre e dirò: il Libro, persuaso 40 che in fondo non ve n’è che uno, tentato a sua insaputa da chiunque abbia scritto, persino i Genî.

La spiegazione orfica della Terra, che costituisce il solo dovere del poeta e il gioco letterario per eccellenza: poiché il ritmo stesso del libro, allora impersonale e vivo fin nella sua paginazione, si giustappone alle equazioni di questo sogno, o Ode. Ecco, caro amico, la confessione del mio vizio, messo a nudo, vizio che mille volte ho respinto, con la mente martoriata o stanca, ma esso mi possiede e forse riuscirò, non a fare quest’opera nel suo insieme (bisognerebbe essere non so chi per riuscirci!), ma a mostrarne un frammento eseguito, a farne scintillare in un tratto l’autenticità gloriosa, indicando il resto tutt’intero, per il quale non basta una vita»42. Se già aver concepito l’idea di un simile Libro può sembrare, a seconda dei punti di vista, ammirevole o folle, non meno spiazzante è il fatto che, tra le carte lasciate dal poeta alla sua morte, sono stati ritrovati 258 fogli di appunti preparatori per quest’opera. Essi sono stati pubblicati una prima volta nel 1957 da Jacques Scherer e poi riediti nel 1998 da Bertrand Marchal in una versione filologicamente più accurata43.

Agamben, in un suo saggio, ricorda che Mallarmé aveva inseguito «per tutta la vita il progetto di un libro assoluto, in cui il caso […] doveva essere eliminato punto per punto a tutti i livelli del processo letterario. Era necessario, per questo, eliminare innanzitutto l’autore, poiché “l’opera pura implica la sparizione elocutoria del poeta”. Occorreva, poi, abolire il caso dalle parole, perché ognuna di esse risulta dall’unione contingente di un suono e di un senso. In che modo? Includendo gli elementi casuali in un insieme necessario e più vasto: innanzitutto il verso, che “di molti vocaboli fa una parola totale, nuova ed estranea alla lingua” e poi, in un progressivo crescendo, la pagina, costituita […] come una nuova unità poetica in una visione simultanea, che include i bianchi e le parole disseminate su di essa. E, infine, il “libro” inteso non più come un oggetto materiale leggibile, ma come un dramma, un mistero teatrale o un’operazione virtuale che coincide col mondo»44. Programma quanto mai ambizioso, ma proprio per questo impossibile da realizzare. Se si prende in esame il materiale superstite, ci si trova di fronte a qualcosa di inatteso: non si tratta dei frammenti di un’opera poetica incompiuta, bensì di «una serie di foglietti illeggibili, colmi di segni, parole, cifre, calcoli, punti, grafemi. Il manoscritto […] è, infatti, per metà un guazzabuglio di calcoli impervi, fatti di moltiplicazioni, somme ed equazioni e, per l’altra metà, una serie di “istruzioni per l’uso”, tanto meticolose quanto ineseguibili»45.

Va detto che Agamben esagera quando insiste sull’incomprensibilità delle carte mallarmeane, poiché da esse, a ben vedere, le intenzioni di fondo dell’autore emergono con una certa chiarezza46. Si sa ad esempio che nell’opera sarebbero stati utilizzati generi poetici diversi, come viene suggerito dai frequenti richiami alle forme del Dramma, del Mistero, del Teatro, dell’Inno. Il teatro merita una particolare attenzione, perché spesso Mallarmé ne ha sottolineato l’importanza e lo stretto rapporto con l’idea di Libro. Così in un’occasione ha asserito: «Io credo che la Letteratura, ripresa alla propria fonte che è l’Arte e la Scienza, ci fornirà un Teatro, le cui rappresentazioni costituiranno il vero culto moderno; un Libro, spiegazione dell’uomo sufficiente ai nostri più bei sogni»47. Se molti dei fogli relativi al Livre vertono sull’aspetto fisico che l’opera dovrà assumere e sui modi della sua pubblicazione e vendita, parecchi altri ipotizzano una forma di fruizione diversa da quella tradizionale, cioè una serie di letture pubbliche che avrebbero dovuto essere paragonabili a un’azione teatrale o a una cerimonia.

Agamben non manca di accennarvi: 44 «Sembra che Mallarmé pensasse a una sorta di performance o balletto, in cui 24 lettori-spettatori avrebbero letto 24 fogli disposti ogni volta in un ordine diverso»48. In effetti, non è esattamente così: Bertrand Marchal spiega che le letture, nelle intenzioni di Mallarmé, richiedono «uno spazio strettamente regolato e uno scenario minimale: un sipario, un mobile di lacca nei cui scaffali sono disposti i fogli, e le sedie per il pubblico»49. È vero che gli spettatori sono ventiquattro, al pari dei fogli (da intendersi però come plichi di sedici pagine) utilizzati in ogni seduta, ma a svolgere il ruolo di lettore è un venticinquesimo partecipante, ossia il poeta stesso. Egli si presenta non nelle vesti di autore dei testi, perché il Libro dev’essere rigorosamente anonimo, bensì in quelle di semplice «operatore», il cui ruolo consiste nel mostrare che «l’opera è essenzialmente mobile, si presta a manipolazioni, combinazioni e confronti»50.

Come si vede, quello mallarmeano è un progetto originale e di vasta portata, che però non ha trovato alcuna attuazione pratica. Lo conosciamo solo per via di qualche accenno nelle lettere e per l’insieme degli appunti, a volte enigmatici, che ci sono rimasti. Si tratta dunque, se si vuole, di un fallimento, perché – dice Agamben – «il “colpo di dadi” del “libro” che ha preteso di identificarsi col mondo elimina il caso soltanto a patto di far esplodere il libro-mondo in una palingenesi essa stessa necessariamente casuale»51. E tuttavia, pur senza sopravvalutare dei fogli che di certo non costituiscono (né sostituiscono) l’opera non scritta, sarebbe erroneo ritenerli trascurabili, poiché il loro valore sta proprio nell’essere la testimonianza di un sogno irrealizzabile. In tal senso, aveva ragione un amico di Agamben, Italo Calvino, quando diceva: «Sono sempre stato affascinato dal fatto che Mallarmé, che nei suoi versi era riuscito a dare un’impareggiabile forma cristallina al nulla, abbia dedicato gli ultimi anni della sua vita al progetto d’un libro assoluto come fine ultimo 48 dell’universo»52. Il grande narratore motivava così il fascino suscitato in lui da quest’idea del poeta francese: «L’eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d’attività, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione»53.

da http://philosophykitchen.com/2019/09/il-luogo-ateologico-della-poesia-agamben-e-mallarme/

19 L’origine e l’oblio. Su Victor Segalen, in La potenza del pensiero, cit., pp. 198-199. Cfr. Guilhem de Peitieu, Farai un vers de dreit nien, in AA. VV., La poesia dell’antica Provenza, vol. I, tr. it. Milano, Guanda, 1984, pp. 70-73. L’allusione a Délie rimanda a un’opera del poeta cinquecentesco Maurice Scève: Délie. Objet de plus haute vertu (Paris, Gallimard, 1984).
20 Lettera a Eugène Lefébure del 27 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 717.
21 Symphonie littéraire, in Dossier de «Divagations», in Œ. C., vol. II, p. 281.
22 G. Agamben, Un nulla che annienta se stesso, in L’uomo senza contenuto, Milano, Rizzoli, 1970, p. 89.
23 Ibid., pp. 89-90. Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, tr. it. Torino, Einaudi, 1967; 1976, pp. 75-81 e 182-183.
24 Beau Brummell o l’appropriazione dell’irrealtà, in Stanze, cit., p. 63. Cfr. Gottfried Benn, Problemi della lirica, in Lo smalto sul nulla, tr. it. Milano, Adelphi, 1992, pp. 266-302 (in particolare p. 268).
25 Freud o l’oggetto assente, in Stanze, cit., pp. 40-41. La frase riportata da Agamben si legge in Friedrich Schlegel, Frammenti dall’«Athenaeum», in Frammenti critici e poetici, tr. it. Torino, Einaudi, 1998, p. 33.
26 Bibliographie, in Poésies, in Œ. C., vol. I, p. 46.
27 Premessa senza titolo a Divagations, in Œ. C., vol. II, p. 82 (tr. it. in Divagazioni, cit., p. 3).
28 Lettera a Henri Cazalis del 14 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 714.
29 L’Io, l’occhio, la voce, cit., pp. 101-102.
Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, in Œ. C., vol. I, pp. 363-387 (tr. it. in Igitur – Un colpo di dadi, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 157-177).
31 Cfr. in proposito Vincenzo Accame, Il segno poetico, Milano, Edizioni d’Arte Zarathustra – Spirali, 1981, e AA. VV., Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, Milano, Mazzotta, 2002.
32 Observation relative au poème «Un coup de dés jamais n’abolira le hasard», in Œ. C., vol. I, p. 391 (tr. it. in Igitur – Un colpo di dadi, cit., p. 132).
 (a 33 G. Agamben, Oikonomia. Il Regno e la Gloria, in Homo sacer, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 601. 34 G. Agamben, Il torso orfico della poesia, in Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 113. 35 L’antielegia di Patrizia Cavalli, ibid., p. 162.
36 Giorgio Agamben: «Il vero Karma dell’Occidente», intervista di Chiara Valerio, in «La Repubblica», 27 agosto 2017.
37 P. Valéry, Le Coup de dés. Lettre au Directeur des «Marges», in Variété, in Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard, 1957; 1997, p. 626 (tr. it. Il Coup de dés. Lettera al direttore di «Les Marges», in Mallarmé, Bologna, Il cavaliere azzurro, 1984, p. 48).
38 Lettera a Henri Cazalis del 14 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 714.
39 La fine del poema, in Categorie italiane, cit., p. 142. L’espressione «niente avrà avuto luogo tranne il luogo» si legge in Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, cit., pp. 384-385 (tr. it. pp. 174-175).
  1. Agamben, Archeologia dell’opera d’arte, in Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, Vicenza, Neri Pozza, 2017, pp. 23-24. 41 Le Livre, instrument spirituel, in Divagations, in Œ. C., vol. II, p. 224 (tr. it. Il libro, strumento spirituale, in Divagazioni, cit., p. 274).
42 Lettera a Paul Verlaine del 16 novembre 1885, in Œ. C., vol. I, p. 788.
43 Cfr. J. Scherer, Le «Livre» de Mallarmé, Paris, Gallimard, 1957 e Notes en vue du «Livre», in Œ. C., vol. I, pp. 547-626 e 945-1060.
  1. Agamben, Dal libro allo schermo. Il prima e il dopo del libro, in Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 102-103. Le frasi mallarmeane qui richiamate provengono da Crise de vers, cit., pp. 211 e 213 (tr. it. pp. 256 e 258). 45 Dal libro allo schermo, cit., p. 103.
46 Cfr. in proposito la Notice di B. Marchal in Œ. C., vol. I, pp. 1372-1383.
47 Sur le théâtre et le livre, in Réponses à des enquêtes, in Œ. C., vol. II, p. 657.
Dal libro allo schermo, cit., p. 103.
49 B. Marchal, Notice, cit., p. 1379.
50 Ibidem.
51 Dal libro allo schermo, cit., p. 103.
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.

mallarme ritratto di Edouard Manet

da Poésies (1899).

Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx,
L’Angoisse, ce minuit, soutient, lampadophore,
Maint rêve vespéral brûlé par le Phénix
Que ne recueille pas de cinéraire amphore

Sur les crédences, au salon vide : nul ptyx,
Aboli bibelot d’inanité sonore,
(Car le Maître est allé puiser des pleurs au Styx
Avec ce seul objet dont le Néant s’honore.)

Mais proche la croisée au nord vacante, un or
Agonise selon peut-être le décor
Des licornes ruant du feu contre une nixe,

Elle, défunte nue en le miroir, encor
Que, dans l’oubli fermé par le cadre, se fixe
De scintillations sitôt le septuor.

*

Le sue pure unghie in alzando le loro onici
L’Angoscia, stanotte, sostiene, lampadofora,
Regge sogni vesperali arsi dalla Fenice
Che non raccoglie da cineraria anfora

Sulle credenze, nella sala vuota, nessuna ptice,
Abolito balocco d’inanità sonora,
(Poiché il Maestro attinge i pianti dello Stige
Con questo solo oggetto di cui il Nulla s’onora).

Ma accanto alla vetrata aperta a nord, un oro
Agonizza secondo forse il decoro
Di liocorni che scalciano fuoco a un’ondina.

Ella, defunta nuda allo specchio, ancor
Che nell’oblio chiuso da una cornice, fissa
Di scintillii subito il settimo.

*

Rien, cette écume, vierge vers
À ne désigner que la coupe ;
Telle loin se noie une troupe
De sirènes mainte à l’envers.

Nous naviguons, ô mes divers
Amis, moi déjà sur la poupe
Vous l’avant fastueux qui coupe
Le flot de foudres et d’hivers ;

Une ivresse belle m’engage
Sans craindre même son tangage
De porter debout ce salut

Solitude, récif, étoile
À n’importe ce qui valut
Le blanc souci de notre toile.

*

Nulla, questa schiuma, vergine verso
Non designa che la coppa;
Tale lontana si affoga una truppa
Di sirene, il dorso all’inverso.

Noi navighiamo, o miei diversi
Amici, io già sulla poppa
Voi la prua fastosa che taglia
Il flutto di folgori e d’inverni;

Un’ebbrezza bella m’ingaggia
Senza temere punto il suo beccheggio
Di porre in piedi il saluto

Solitudine, scoglio, stella
A non importa ciò che valse
La bianca cura della nostra tela.

(traduzioni di Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)

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Giorgio Agamben, Stralci sull’arte, L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica, sulla metafora, Il contemporaneo, il nichilismo, il nostro tempo, techne, la topologia, la metafisica, Poesia di Francesco Paolo Intini, Trend Commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

 

[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020, la foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino…] (g.l.)

.

Giorgio Agamben

Idea della musa 

«A Le Thor, Heidegger teneva il suo seminario in un giardino ombreggiato da alti alberi. A volte si usciva, invece, dal paese, camminando in direzione di Thouzon o del Rebanquet, e il seminario aveva allora luogo davanti a una capanna sperduta in mezzo a un’oliveta. Un giorno che il seminario volgeva ormai al suo termine e gli allievi gli si stringevano intorno senza più frenare le domande, il filosofo rispose soltanto: “Voi potete vedere il mio limite, io non posso”. Anni prima, aveva scritto che la grandezza di un pensatore si misura dalla fedeltà al proprio limite interno, e che non conoscere questo limite – e non conoscerlo per la sua prossimità all’indicibile – è il dono segreto che l’essere, rare volte, può fare. Che una latenza sia mantenuta, perché possa esservi illatenza, una dimenticanza custodita, perché possa esservi memoria: questo è l’ispirazione, il trasporto musaico che accorda l’uomo alla parola e al pensiero. Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di dettato: dev’esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, perché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipolata da un soggetto. (Io – è chiaro – non posso ispirar-mi). Ma questa latenza è, anche, il nucleo tartarico intorno a cui si addensa l’oscurità del carattere e del destino, il non-detto che, crescendo nel pensiero, lo precipita nella follia.
Ciò che il maestro non vede è la sua stessa verità: il suo limite è il suo principio».

«Non vista, inesposta, la verità entra nel suo occidente, si chiude nel proprio Amente. “Che un filosofo cada in questa o quella forma di apparente incoerenza per amore di questo o quell’accomodamento, è concepibile: egli stesso può esserne stato cosciente. Ma ciò di cui egli non è consapevole, è che la possibilità di quest’apparente accomodamento ha la sua radice più profonda in un’insufficiente esposizione del suo principio.
Se, dunque, un filosofo è veramente ricorso a un accomodamento, i suoi discepoli devono spiegare in base all’intimo, essenziale contenuto della sua coscienza ciò che, per lui stesso, ha preso forma di coscienza essoterica”. L’insufficiente esposizione del principio lo costituisce come limite musaico, come ispirazione. Ma, per poter scrivere, per poter diventare anche per noi ispirazione, il maestro ha dovuto smorzare la sua ispirazione, venirne a capo: il poeta ispirato è senz’opera. Questo spegnimento dell’ispirazione, che trae il pensiero dall’ombra del suo occidente, è l’esposizione della Musa: l’idea.»1

Il nostro tempo

«Il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse».

Il contemporaneo

«Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. […] È dalla nostra capacità di dare ascolto a quell’esigenza e a quell’ombra, di essere contemporanei non solo del nostro secolo e dell’“ora”, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato, che dipenderanno l’esito o l’insuccesso del nostro seminario».3

L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica

«L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica – e la sua apparente comprensione a partire dall’aisthesis dello spettatore – non sarebbe allora un fenomeno così innocente e naturale come siamo ormai abituati a rappresentarcelo. Forse nulla è più urgente […] di una distruzione
dell’estetica che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’opera d’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile
distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte e l’aprirsi di fronte ad essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare. Ma forse proprio tale perdita e un tale abisso sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno se vogliamo che l’opera d’arte riacquisti la sua statura originale. E se è vero che è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, noi siamo forse oggi in una posizione privilegiata per comprendere il senso autentico del progetto estetico occidentale».
(L’uomo senza contenuto, p. 17)

«Se e quando l’arte avrà ancora il compito di prendere la misura originale dell’abitazione dell’uomo sulla terra, non è perciò materia su cui si possano far previsioni, né possiamo dire se la poiesis ritroverà il suo statuto proprio al di là dell’interminabile crepuscolo che avvolge la terra aesthetica. La sola cosa che possiamo dire è che essa non potrà semplicemente saltare al di là della propria ombra per scavalcare il suo destino».
(L’uomo senza contenuto, p. 155) Continua a leggere

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Ludwig Wittgenstein, Perché dire la verità se si può trarre vantaggio da una menzogna? Poesie e Dialogo, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Adriana Gloria Marigo

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[Marie Laure Colasson, foto di un interno domestico, 2020 – La foto ritrae un interno visto attraverso il riflesso del vetro di una finestra con la tendina di lato. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che si accosta all’altro, da un occhio che legge un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. Questo sostare del senso sul limite è espresso anche con il termine di escrizione, intesa come la scrittura del senso nel fuori, nel-l’ex, sulla pelle di un corpo.  L’escrizione del quadro è analoga alla escrizione del nostro corpo. È ciò per cui dobbiamo innanzitutto passare. Osservando, noi entriamo dentro il quadro, possiamo ispezionarne l’interno. La sua inscrizione-fuori, la sua messa fuori-testo come il movimento più proprio del testo è il risvolto della sua inscrizione-dentro […] Il corpo, come il limite di una foto, di un quadro, non è un precipitato ma è il limite, il confine, il bordo esterno-interno, estremo, che niente richiude e niente esclude e che include… Il testo, il quadro sono un corpo e un fuori corpo, includono l’iscrizione e l’escrizione, il limite e il non-limite. E questo è il senso. L’unico senso possibile, la verità] (g.l.)

Ludwig Wittgenstein

Perché dire la verità se si può trarre vantaggio da una menzogna?”*

Questo fu l’oggetto della prima riflessione di Ludwig Wittgenstein di cui si abbia traccia. Aveva circa otto anni quando si soffermò a considerare la questione, giungendo alla conclusione che, dopo tutto, non v’era nulla di male a mentire in quella circostanza.

* Questa riflessione è ricordata in alcuni appunti ritrovati tra le carte di Wittgenstein e citati in McGuinness Brian, Wittgenstein: A life. Young Ludwig 1889-1921, London, Duckworth, 1988, pp.47-48. Monk Ray,
Ludwig Wittgenstein, Il dovere del genio, Bompiani, traduzione italiana di Arlo-rio P., Milano 1991, p.11.

 

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

[Lucio Mayoor Tosi, Polittico su parete bianca. Un quadro lindo e pinto, manca solo un delitto. Entra il commissario, ispeziona con lo sguardo la parete, il mosaico, ne deduce che c’è stato un delitto ma che l’assassino ne ha cancellato le tracce, e quindi non resta che interrogare il portinaio, il vicino di casa, il commesso degli alimentari, l’ubriacone sotto casa della vittima, etc. Il commissario redige un verbale nel quale sono accuratamente segnati gli oggetti: il divano verde, la sedia di gomma, il mosaico di 13 tessere… Tutto in apparenza è in ordine…] (g.l.)

Lucio Mayoor Tosi

Morti di questi tempi

I morti per virus corona, tenuti in grazia dalle istituzioni
camminano su rotaie con intorno lo spavento delle ossa.

Vivi, ci ricordiamo di loro in gabbiette di metallo ripiegati,
alcool che disinfetta e aceto. Nessuno più, ma fiori nuovi,

occhi della Madonna. E forse e domani. Se qualcuno
tornando, mettendosi di lato, tra quelli che restano,

in farsi di primavera non avrebbe odore. Aria smemorata
che sa di niente. Leggera, nuova si direbbe.
.

Nei locali pubblici a lutto le saracinesche della crisi
dove si balla, quando passano veloci quelle poche

automobili che a notte sfiorano con il tempo distanze
stellari, e al mattino trovi il corpo del gatto

di qualcuno penitente; che magari starnutiva in laboratori,
al braccio forte della finanza. Certe persone a martello,

o certi numeri. Una grande famiglia in assetto di sterminio,
davanti al sole costruire cerbottane.

Ma dietro, nulla. Non un nemico. Un perché di tutto.
.

Allora, poniamo che venga ferragosto, e ci arrostiamo:
di quale colore i campanelli, le fettuccine all’arancia?

Oh, Mayoor, sei tornato? Avevo da finire un libro,
aggiustare una tapparella. Metterci dei buchi.

Su pianeti come questo, dove non si fa altro che lavorare;
quindi arredato con paesaggi alpini, lune belle e ripostigli

per le scarpe da sci. Pensieri di tante maiuscole. Nomi estinti
di morti profili social. Nuovi cimiteri. Sorridenti.

Metà grazie, prego. Veniteci a trovare.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

[Lucio Mayoor Tosi. Sembra la foto di una scena di delitto. C’è la caraffa del tè, la tazza, la zuccheriera, un vaso di fiori… e, forse, un veleno disciolto nel tè…] (g.l.)

Giorgio Linguaglossa 

caro Lucio,

apprezzo in particolar modo l’andamento dinoccolato del componimento, con i suoi allunghi nel non senso del senza-senso, quel tuo modo di nominare le cose («Pensieri di tante maiuscole») che sono un modo per non nominarle, per evitare di passare alla cassa a pagare il conto salato della esistenza. Perché l’esistenza ha un conto in sospeso… e così tu lasci le tue fraseologie in sospeso, tu adotti la strategia dello struzzo, nascondi la testa nella sabbia quando vedi arrivare la buriana, il pericolo di animali feroci. Ma è che sia la natura che la società è popolata di nefandezze. A me non mi incanta il cielo stellato di kantiana memoria, anzi, lo trovo irrisorio e usufritto, roba da fumagalli per chi ci crede.

Apprezzo questo tuo entrare con «le scarpe da sci» nel discorso poetico più scombiccherato e svagato che oggi si scrive in Italia… e quel modo auto ironico di citarti in seconda persona «Oh, Mayoor, sei tornato?», per poi infilare la risposta in modo indiretto «Avevo da finire un libro,/ aggiustare una tapparella. Metterci dei buchi», che non sai se sia derisoria o irrisoria o auto irrisoria. È questo tuo procedere per diradamenti e per evitamenti che più apprezzo, quel tuo modo di non-rispondere, di sottrarti al dovere di fornire una risposta come il celebre Mr. Bartleby lo scrivano, di Melville, che risponde sempre allo stesso modo a tutte le domande: «Preferirei di no», il che getta nella disperazione il suo datore di lavoro che lo interroga. Ecco, tu adotti la medesima strategia di sopravvivenza di Bartleby, ti sottrai al dovere, a qualsiasi dovere di dover rispondere dando comunque una risposta che però risulta inutilizzabile, evasiva, e, alla fin fine, eversiva… La verità è che dei «morti per virus corona» non gliene frega niente a nessuno, questa è la verità, quello che importa sono le quotazioni di borsa in crollo e la pecunia che non olet.

La tua poesia vuole sottrarsi a tutto ciò. Vuole sottrarsi ad ogni dovere. Ad ogni dovere di kantiana memoria. E in questa impresa temeraria mi sembra che riesca a comunicare al lettore quello che vorrebbe fargli capire: la profondissima disistima che noi abbiamo di noi stessi per accettare senza battere ciglio tutto quello che accettiamo senza mai colpo ferire, senza auto dichiararci tutti quanti dei pazzi che sbraitano in un grande manicomio l’un contro l’altro armati.

Lucio Mayoor Tosi

Caro Giorgio,

tento di scrivere una poesia immune dal senso di colpa. Non l’ho fatto io questo mondo, sono qui per ragioni personali che nulla hanno a che vedere con tutta quanta l’umanità. E non mi riguarda il “pensiero unico”, tendenzialmente presente anche nelle varie diramazioni ideologiche. Se provo disistima, ed è vero, è perché considero pazzesca la volontà di potenza, che tanti hanno perfino tratto dalla Bibbia. Da non credere, cose dell’altro mondo!
Poesie come quelle della Gualtieri, pubblicata ieri, del volemose-bene, non mi riguardano. Il “noi” giustifica sempre le nefandezze del mondo, e non ci mette al riparo da nulla. Se manca autenticità, a che vale essere volenterosi?
Non si può dire che la natura sia popolata da nefandezze: solo perché non ci asseconda nei desideri? Cerchiamo piuttosto di capirla, capirci, perché non ne siamo separati… e lì trovare equilibrio.
In mancanza di ideologia, viene meno anche il giudizio. In mancanza di desideri nessuno più resterebbe deluso. Riprendiamoci la ricchezza prodotta forsennatamente a prezzo della vita, e il tempo che ogni giorno ci viene sottratto. E liberiamoci dal lavoro. Amen.

 

Lucio Mayoor Tosi Sponde

[Lucio Mayoor Tosi, Polittico – Un polittico di tessere apparentemente innocue. Chi può dirlo? Tuttavia, queste tessere potrebbero nascondere qualcosa di non completamente innocuo] (g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Relazione non significa identità

La nuova ontologia estetica è fondata sul Principio di relazione, in base al quale le Figure, le Icone, i luoghi della poiesis non vogliono ridurre il discorso poetico a discorso intorno alla identità di ciò che noi siamo ma come discorso intorno alla molteplicità e alla diversità di ciò che noi siamo diventati e continuamente siamo.

La forma-polittico è quella più idonea a raffigurare (cioè ridurre a Figura) la molteplicità del divenire. Alla base della «forma-polittico» non si dà più la forma di dominio sull’ente ma l’ente viene nominato senza l’intervento di alcuna forma di dominio su di esso. Nominare l’ente è il farlo venire alla presenza della visibilità della poiesis.

La scienza e l’arte dell’Occidente sono una forma di conoscenza che si è sviluppata nell’ambito dell’alienazione nichilistica dell’Occidente, utilizzando le categorie ontologiche sviluppate dall’epistéme greca.

Ponendosi come una forma di dominio, di potere sulla realtà, disposta a farsi dominare proprio in quanto diveniente («il senso greco del
divenire dell’ente rimane alla base della scienza moderna», «l’ontologia greca apre lo spazio della creatività e della distruttività estreme»),1 la scienza moderna si toglie la maschera, rivelando come tutti i suoi elementi,come «tutti gli elementi della nuova scienza siano già presenti nella filosofia e nella scienza greca» : l’affinità tra scienza e filosofia si manifesta soprattutto nel fatto che, nata nella modernità come una forma di sapere «che intende essere epistéme e anzi, spesso, l’epistéme autentica, in contrapposizione alle pretese epistemiche della filosofia», con il «tramonto dell’epistéme» in filosofia, anche la scienza «per rendere più radicale il proprio dominio sulle cose […] rinuncia ad essere verità definitiva e incontrovertibile»: «il tramonto dell’epistéme è un evento che non si manifesta soltanto nell’ambito del pensiero filosofico […] la filosofia, in quanto epistéme, è diventata infatti un poco alla volta il terreno, lo sfondo, l’atmosfera in cui sono andati via via manifestandosi i grandi fenomeni della storia dell’Occidente». 2

1 Severino E., Gli abitatori del tempo, p. 63.
Ivi, p. 66.
Ivi, p. 65.
2 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 283. 261

Adriana Gloria Marigo

concordo sulla tua affermazione “La relazione non significa identità”. Tuttavia nella relazione sono implicate le identità. Da questa implicazione sorge la complessità e la problematicità della relazione in quanto le identità si strutturano a livello psicologico filosofico culturale antropologico e in una percentuale di consapevolezza o inconsapevolezza tali da rendere la tramatura della relazione un processo perfettibile.
La tramatura della relazione consente il sorgere, inevitabile, dell’ontologia estetica: deve pur darsi un canone entro il quale esprimere il potenziale compresente delle identità che, in virtù della compresenza, perdono la distinzione e l’individualizzazione e si coniugano olisticamente, perdendosi così ogni forma di dominanza a favore di un oltre che, a mio avviso, si dà come metafisico.

Giorgio Linguaglossa

Les mots qui vont surgir savent de nous ce que nous ignorons d’eux.
(René Char, Chants de la Balandrane)

cara Adriana Gloria Marigo,

è l’inconscio che fa sì che accadano un «effetto di ritardo» e un «effetto anticipatorio» nella catena significante, effetti che si manifestano in un risultato di disallineamento fraseologico il cui prodotto finale è il discorso poetico minato al proprio interno da questa funzione ritardante o anticipatrice che lo renderebbe del tutto inidoneo alla significazione ordinaria o consuetudinaria. Il polittico è una costruzione di relazioni, di effetti ritardanti, anticipatori, di effetti di deviazione che prescindono da qualsiasi orditura di un senso stabilito. Ed è ovvio che una tale costruzione non corrisponda più ad un discorso poetico unilineare e unitemporale, ma ad una struttura a polittico multitemporale e multispaziale.

Infatti, la phoné è quello che dà il senso della peculiarità fenomenologica di continuità e di contiguità dei significanti fonici, che sembrano susseguirsi senza interruzioni, per disporsi in una successione unilineare e irreversibile. Ciò conferisce al soggetto la convinzione che lo sviluppo di un discorso non solo si manifesti linearmente, ma che si costituisca come tale linearmente, teleologicamente, fase dopo fase, astrazione dopo astrazione, come in una sorta di addizione progressiva. Questo sarebbe «il concetto linearistico della parola», che avrebbe indotto De Saussure ad affermare «l‟essenza temporale di ogni discorso».1

L‟idea di linguaggio, della costruzione da parte del soggetto di una proposizione con significato, per De Saussure, così come esposta nel Cours de linguistique générale, è proprio quella di una concatenazione progressiva di sintagmi e che è al contempo resa possibile dalla forma sensibile della temporalità lineare.
All’inizio del Corso, De Saussure elenca infatti i due principi sui quali deve fondarsi una scienza linguistica: il primo è l‟arbitrarietà del segno, il principio secondo il quale non vi è nessun rapporto di necessità fra una cosa e la parola usata per indicarla: il cane si può indicare benissimo con una parola diversa da “cane”, niente lo proibisce. Il secondo, invece, riguarda il significante che “essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo ed ha i caratteri che trae dal tempo:
a) rappresenta un‟estensione,
b) tale estensione è misurabile in una sola dimensione è una linea”.2

1 J. Derrida, De la grammatologie, Parigi, Minuit, 1967, a cura di G. Dalmasso, Della Grammatologia, Como,Jaca Book, 1969, p. 105.
81 Ivi., p. 105.
2 F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Parigi, Editions Payor, 1922, trad. It. di T.De Mauro, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1968, p. 88

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Helene Paraskeva, Poesie da Storie sogni e segreti, testo greco a fronte, Fuiss, Roma, 2018, pp. 110 € 10, Commento di Giorgio Linguaglossa, La poesia dopo la fine del modernismo, Polittici di Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi Frammenti_1

Lucio Mayoor Tosi Sponde 1

Lucio Mayoor Tosi, polittici, acrilico 2018

Le parole oggigiorno si sentono superflue

Helene Paraskeva è una poetessa di lingua greca che vive a Roma da molti anni. La sua cultura è europea, duplice e strabica, incentrata tra le due capitali del mondo pagano: Atene e Roma. Chi più di lei poteva quindi poetare in modo moderno con un discorso poetico pagano che sa di antico perché viene dall’antico, se pensiamo che appena duemilaeseicento anni ci dividono dall’epoca in cui poetò e visse Saffo. La Paraskeva recupera movenze antiche, modulandole in un metro breve con amarezza e disincanto; la poetessa greca sente tutta la grandezza e la potenza della storia e della classicità, di fronte alle quali l’unico atto di eroismo possibile è quello di salutare stoicamente il meraviglioso tempo passato, e il temibile tempo presente ben rappresentato nella poesie “L’Orso Manolo” e “Picasso sa”. 

Nella gravezza dei suoi versi brevi c’è tutta la tragica consapevolezza della storia dell’Occidente, della sua Grecia asfissiata dalla crisi economica e dal peso della passata grandezza, quella grandezza che grava come un macigno sulle spalle dei greci di oggi senza i quali non sarebbe neanche pensabile una idea di Occidente e di Europa, figlia legittima della Grecia antica. Inutilmente cercherebbe il lettore in questo libro gli eventi biografici o la cronaca dell’io come invece si fa qui da noi, la sua poesia è sempre parametrata all’oggi senza nessun cedimento  alle poetiche dell’io, la sua è una poesia dell’identità di una collettività. La Paraskeva è anche una studiosa e traduttrice della poesia greca moderna, infatti ha dato alle stampe nel 2018, sempre per le edizioni Fuis di Roma, Pegaso greco, una Antologia di poeti greci contemporanei per lo più del tutto sconosciuti al pubblico italiano ma di considerevole livello tecnico. Per la Paraskeva ripeto quello che ho già scritto in altra occasione, che anche la sua poesia rende evidente questo Ingehaltenheit in das Nichts, per usare le parole di Heidegger, questo periclitante intrattenersi nel Nulla della nostra epoca correndo il rischio quotidiano di scrivere una poesia priva di identità con una carta di identità scaduta.

Scrive Lucio Mayoor Tosi: «Le parole oggigiorno si sentono superflue. Tra quelle più adatte, la gran parte è disoccupata».

Trovo azzeccatissima questa espressione. Anche le parole, dopo l’uso forzoso e intensificato a cui le sottoponiamo nella nostra vita di relazione, si scoprono «disoccupate». Qui c’è una verità incontrovertibile.  Nella Paraskeva c’è la consapevolezza che «storie, sogni, segreti» sono situati in una unica dimensione che li congloba e li tiene separati; c’è la consapevolezza di vivere in un gigantesco ologramma che ci coinvolge tutti nella stessa invisibile visibilità. La Paraskeva continua comunque la tradizione del modernismo dopo la fine del modernismo, in questo spazio residuo la sua poesia trova pur sempre la sua ragion d’essere. Quello che resta da fare è il passo successivo: la sortita dal modernismo.

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Grande Polittico, acrilico, 2017

La poesia dopo la fine del modernismo

In una conferenza del 1965 dal titolo La fine del pensiero nella forma della filosofia – pubblicata nel 1984 da Hermann, Heidegger con il titolo La questione della determinazione della “cosa” del pensiero – scrive:

«La filosofia è giunta alla sua fine […]. Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero diviene affare serio» 1.

La questione dell’ultima possibilità della filosofia è dunque l’orizzonte di senso in cui siamo chiamati a pensare.

Forse può apparire una deriva nichilista quella di chiamare in causa la fine della filosofia in un momento storico in cui vari dibattiti animano la vicenda teoretica.

Anche la poesia è giunta alla sua fine. Insieme alla Filosofia anche la Poesia giunge a segnare il passo della sua fine annunciata. La poesia assume un linguaggio ulteriore, tende alla ulteriorità, alla ultimità. Qui non si tratta di un soggiorno tranquillo con balcone con vista sul mare, ma di un soggiorno problematico ed ultroneo. Ultimità significa linguaggio ultroneo ed erraneo. Ultimare significa non-finire, tendere alla finitudine con la consapevole ambiguità di non poterla mai raggiungere. Di qui lo stile ultroneo ed erraneo della nuova poesia che oscilla nella vasta gamma che va dalla nostalgia per il sacro perduto di Marina Petrillo e Carlo Livia allo stile da refurtiva, al gioco di guardia e ladri del linguaggio poetico di Mario Gabriele che adopera il gioco di specchi (lo Spiegel-spiel), utilizza i frammenti dello specchio infranto della civiltà del simbolismo come il gioco delle tre carte; ed il poeta si rivela per quello che è, un baro che occulta con un gioco di destrezza le carte perenti per palesare quelle vincenti.

Le parole «fine» e «ultimità» segnano un eone, non un fatto, e l’eone prende le sembianze del Tempo e delle temporalità. Potremmo dire che giunge alla fine quella poesia che pensa intensamente la sua fine prossima ventura, non come un fatto cronologico ma come un eone, un’epoca che occorre attraversare soggiornandovi.

In questo senso, la poesia di Marina Petrillo mi sembra che assolva in pieno il suo compito di dimorare-soggiornare nella fine, nella ultimità. Un segnare il passo nel luogo prescelto. Restare camminando e camminando restare.

Per comprendere cosa si intende con questa “fine della filosofia” occorre tornare alla riflessione compiuta da Heidegger sulla metafisica occidentale e sull’oblio dell’essere da essa realizzato, al compimento che realizza sin dalla sua fondazione, cioè alla Grundfrage. È in questa direzione che va interpretata questa espressione. «La fine della filosofia si mostra come il trionfo della dominante fondazione di un mondo tecnico-scientifico e dell’ordinamento sociale conforme a questo mondo». 2

Siamo forse giunti all’ultimo orizzonte di senso che la filosofia e la poesia possono scandagliare, una sorta di passaggio stretto delle Colonne d’Ercole, oltre le quali c’è l’oceano aperto dell’ignoto.

Nei Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) di Heidegger, degli anni 1936-38, l’Ereignis viene presentato come un moto oscillatorio pendolare la cui vibrazione, crea spazio e tempo. Questo “sito” in cui si insedia la verità come accordo tra ciò che viene appropriato al e dall’Ereignis è un’apertura in cui vengono a stare come in una costellazione Da-sein e Seyn nella loro autentica relazionalità di bisogno reciproco che è fatta avvenire solo nell’e-venire appropriante.

Il Da-seyn si pone nel luogo in cui si fa spazio, si apre lo spazio e si crea il tempo, è in quella apertura che si crea la dimensione dell’accordo musicale, musale-musicale dove accade l’e-venire appropriante e disappropriante dell’essere. La poiesis allora si dà come costellazione di momenti e di icone. La poiesis parla, può parlare nel mentre che fa, opera, crea.

1 M. Heidegger, Filosofia e cibernetica, trad. it. a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 1988, pp. 30-34
2 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensare, in E. Mirri, Il pensare poetante, trad. it. a cura di E. Mirri, C. L. E. U. P., Perugia, pp. 144-148

Poesie di Helene Paraskeva da Sogni storie segreti, 2018

Picasso sa

Le ragazze di Picasso
hanno ciuffi, nasi,
hanno fronti e menti
uno o due occhi, al massimo.
Le ragazze di Picasso
hanno nomi:
Maria Dolores, Mary Jane,
Anna-Conda, Nessie,
Bellaciao.

Una sola guancia hanno
le ragazze di Picasso.
Una sola guancia.
Per non girare
– come fanno sempre –
anche l’altra.
L’altra guancia

Orso Manolo

Legato alla catena danzava
per le periferie l’Orso Manolo.
Più sudicio del porco
Più feroce del lupo
Più vecchio del padrone.
“Balla, Manolo!”
Il muso appestante
accostava al domatore
ed eseguiva serio i comandi:
“Fai l’innamorato!”
“Fai la bella principessa!”
“Manda i bacini!”
“Adesso, saluta il pubblico!”

Non si scatenava mai
l’Orso Manolo.
Umiliato, mortificato,
ammaestrato alle moine
dal Mostro Domatore
L’Orso Manolo.

Storia nella Storia

Ti innamori di quell’uomo
impavido che si innalzò
in mezzo all’estate torrida
solo, contro i macigni
neri della tirannia.

Dell’assoluto in cerca
tu vivi l’amore amato
intrepido, inaspettato.
E ancora prima di capire,
nella tragedia affondi
senza catarsi anche tu.
Annaspi.
Affoghi.

Sublime Icaro

Trasgredisci la Legge Naturale.
Non puoi giocare
su questo tavolo per sempre.
Ma neanche smettere.
Trasgredisci.
Non puoi senza castigo
l’erba del labirinto
sempre calpestare
e poi volare.

Sei la trasgressione.
Sei la trascendenza.
Sei la festa.
La musica fai arrivare.
Con te la primavera dà un senso ai sensi
e le tue ali di cera,
le tue ali di cera
di libertà sono fragranza.

Senza nome

Non dicono il tuo nome
terra perduta,
smarrita nel vento,
ombra svanita di sogno.
Dimenticata, desolata
terra del mai
non ti chiamano più.

Padri

“Sono impegnativi sempre
i padri.” Edipo Re dice
pronto a usare le fibbie
sul trono di Tebe.

Ercole la pelle di leone
toglie nella sala d’aspetto.
Trema per l’accoglienza,
la benedizione del padre
il figlio ribelle di Giove.

“Ineludibili, irraggiungibili,
vivono dentro di noi.”
Conferma anche
Isacco, il Capostipite,
mentre ripassa la pomata
sulle ustioni di secondo grado.

“… Oppure noi dentro di loro.”
Mormora il medico che
sulle rive del Danubio blu
raccoglie storie, sogni e segreti.
In realtà, come al solito, origlia.

Coltan*

Si rotola, si scivola
Si sale e si scende
Si corre, ci si affretta
per acquistare
a prezzo modico
maledizione di ricchezza.

Ruggisce, strepita
dall’i-phone, dall’i-pad,
dall’i-pod, dall’ “ai ai ai!”
l’urlo pietroso di Coltan
strappato con violenza
dalla Madre Terra.

Gioie insanguinate.
Generazioni murate.
“Libere assediate”.

* Il coltan è una miscela di due minerali (columbite-tantalite) indispensabile per la costruzione dei cellulari e altri apparecchi elettronici.

Tu!

Non sei la più bella del mondo.
Né la più ricca.
Né la più grande.
Né la più inebriante.
Non sei tu “la Ville Lumière”.

Sei disubbidiente, rivoltosa
e porti in bella mostra
le tue ferite aperte al mondo.
Senza vergogna.
Sei divertente quando menti
e fai la gran signora nei café.
Patetica quando ti smarrisci
e cerchi nella spazzatura
poi dalle rovine
emergi e trovi
frammenti di luce antica.
Tu!

Helene Paraskeva è nata ad Atene e si è laureata in Lingua e Letteratura Inglese e Americana presso l’Università di Atene. Ha continuato gli studi all’Università della Sapienza di Roma e all’Università di Manchester (Master’s). Vive a Roma ma mantiene stretti rapporti con la Grecia. Nel 1978 la sua opera teatrale Alienazione (Αποξένωση) è stata premiata dal Teatro Statale della Grecia del Nord. L’opera teatrale è stata pubblicata più tardi, nel 2015. Nel periodo 1982-2013 ha lavorato per il Ministero italiano della Pubblica Istruzione. Nel 2003 ha pubblicato la raccolta di racconti Il Tragediometro e altri racconti, FaraEditore e lo stesso anno ha pubblicato un testo di Antologia in lingua inglese (Global Issues in English Literature,Clitt). Nel 2006 ha pubblicato il romanzo Nell’uovo cosmico, FaraEditore. Inoltre, ha pubblicato varie raccolte di poesie in italiano Meltèmi (2009,LietoColle) Lucciole Imperatrici (2012, LietoColle)  L’odor del gelsomino egeo (2014 LaVitaFelice). In lingua greca ha pubblicato due raccolte di poesie, Γλέντι τρελό, 2015,Ρώμα, e Θαλασσινά παράθυρα,2016, Βεργίνα. Ha pubblicato una raccolta di poesie bilingue (italiano-greco) Storie, Sogni e Segreti (Fuis2018). Ha tradotto una antologia di poeti greci contemporanei dal titolo Pegaso Greco (Fuis2019). Quest’ultima è stata premiata dalla Società di Traduttori greci di testi letterari (2020).

(Giorgio Linguaglossa)

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Poesia all’Epoca del Covid-19, Ulisse? Un bugiardo inglese, Poesia inedita di Gino Rago, Il reale è duplice, triplice, quadruplice, Riflessioni di Jean Baudrillard, Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa Y 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Y, acrilico 50×70, 2020

Gino Rago

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.”

Propongo un mio tentativo di Poesia all’Epoca del Covid-19

Ulisse? Un bugiardo inglese

Una vita di seta gialla, un abito con crinolina color lilla.
Un cappellino, una rosa nei capelli.

Con un’amica al Caffè Tommaseo.
Sotto i portici un uomo, forse l’ombrellaio delle favole.

La testa fra le mani, legge un libro di Joyce,
non si accorge neppure chi gli siede accanto.

È la donna della sua vita, ma lui non lo sa, esce dal caffè
e viene inviato sul fronte occidentale, sulle Ardenne.

Lascerà Trieste, andrà a Parigi, dipingerà.
È innamorato della danzatrice francese, ma lei non lo sa.

Ma Achamoth gioca con gli scacchi. Invia una lettera a Marie Laure,
C’è scritto: «Guardati dalle idi di marzo».

E la Colasson parte per Roma. Abita sopra la statua di Giordano Bruno.
Poi Madame Tedio, il tempo, sbroglia le carte,

Si pente e torna indietro.
Sul molo Audace i bersaglieri con le piume al vento.

D’Annunzio inneggia alla guerra.
[…]
Von Karajan al Bolshoj dirige un’orchestra di piatti e di posate.
C’è il mago Woland che dirige l’orchestra, ma lui non lo sa.

La Signora Schmitz s’è invaghita del musicista,
ma neanche lei lo sa. Scoppia la Grande guerra. Joseph è un pacifista,

Scrive un biglietto a Madame Schmitz: «Non sparerò un colpo»,
e invece gli sparano un colpo al cuore, e muore disperato.

Alla biblioteca civica in Piazza Hortis
Svevo scrive La coscienza di Zeno.
[…]
Il Signor L. tiene una conferenza sull’Odissea,
alla Berlitz School.

«Ulisse? Un bugiardo inglese».

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa X 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa X, acrilico 50×70, 2020

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

ecco alcune considerazioni.

La poesia NOE è nient’altro che una «rappresentazione prospettica», e precisamente una rappresentazione priva di funziona simbolica. La prospettiva come forma simbolica (1924) di Erwin Panofsky è una utilissima guida perché ci mostra come funzione simbolica e rappresentazione siano legate da un cordone ombelicale che è dato dal linguaggio e dall’uso del linguaggio. Ma mentre le opere del passato erano portatrici di una funzione simbolica, le opere moderne, a cominciare da Brillo box di Warhol, non sono provviste di alcuna funzione simbolica, sono dei dati, dei fatti, dei ready made. Invece, la tua poesia, quella di Intini, di Mario Gabriele, di Giuseppe Talìa per fare qualche nome di poeta che è maturato nell’officina NOE, è del tutto priva di funzione simbolica, sembra la registrazione di dati di fatto, di elenchi statistici, elenchi cronachistici; si va per giustapposizione e ri-composizione, per salti e per peritropè. In più, qui si ha una molteplicità di prospettive che convergono e divergono verso nessun fuoco, nessun centro prospettico, le linee ortogonali non portano ad alcun centro che non sia eccentrico, spostato, traslato; inoltre, lo sguardo che guarda è uno sguardo che si sposta nello spazio e nel tempo, è diventato diplopico, diffratto, distratto. È uno sguardo che si muove all’unisono con l’orizzonte degli eventi.

La tua «poesia-polittico» può essere ragguagliata ad una matassa, ad un groviglio. Tu ti limiti ad aggrovigliare i fili, li intrecci gli uni con gli altri e tiri fuori il percorso degli umani all’interno del labirinto, del tuo labirinto. La tua è una «poesia-labirinto», uno Spiegel-spiel. I tuoi personaggi sono gli eroi, prosaici, del nostro tempo, vivono in un sonno sonnambolico, tra chiaroveggenza e inconscio, guidati e sballottati come sono dalla Storia (Achamoth) e dalle loro pulsioni inconsce (Von Karajan, la Signora Schmitz, Joseph il pacifista, Madame Colasson); c’è «poi Madame Tedio, il tempo,[che] sbroglia le carte» e sdipana i destini individuali; c’è l’intellettuale, il Signor L., il quale denuncia la Grande mistificazione dell’Occidente: che l’«Ulisse è un bugiardo inglese». Questo Signor L. mi piace, è una sorta di Baudrillard per antonomasia, l’intellettuale che ci mette in guardia contro la mitologizzazione di certi prototipi umani come Ulisse, progenitore e prototipo del politico imperialista che avrà discendenti di tutto riguardo ai giorni più vicini a noi, da Giulio Cesare a Napoleone e giù fino ai pazzi sanguinari Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot, etc.

La tua «poesia-polittico» è un esempio mirabile di come si possa oggi scrivere una poesia moderna, appassionata e dis-patica, raffreddata e ibernata, patetica e algida, serissima e ilare. Una poesia che, finita la lettura, ci lascia sgomenti e ammirati.

Leggo alcuni libri di poesia Einaudi e dello Specchio e ci trovo il lessico e i polinomi frastici che ci parlano del corpo, della psicologia dell’io, rime intontite, rime finte, rime maleducate, ambasce e patemi del cuore, descrizioni di oggetti statici, immobili nello spazio e nel tempo etc. Leggo i risvolti di copertina e li trovo impeccabili quanto a personalità partecipativa e ipocrisia esornativa.

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Due poetesse della nuova ontologia estetica, Marie Laure Colasson, Marina Petrillo, Commenti di Carlo Livia, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Le parole oggigiorno si sentono superflue. Tra quelle più adatte, la gran parte è disoccupata, La metafora si trova in uno Zwischen, in un framezzo

giappone-geisha-in-glass

Marina Petrillo

Irraggiungibile approdo tra diafanie prossime alla perfezione.
Digrada il mare all’estuario del sensibile
tra risacche e arse memorie.

Si muove in orizzonte il trasverso cielo.
Fosse acqua il delirio umano perso ad infranto scoglio…
Sconfinato spazio l’Opera in Sé rivelata.

Conosce traccia del giorno ogni creatura orante
ma antepone al visibilio il profondo alito se, ingoiato ogni silenzio,
ritrae a sdegno di infinito, il brusio della spenta agone.

E’ nuovo inizio, ameno ritorno alla Casa della metamorfosi.
Saprà, in taglio obliquo, se sostare assente o, ad anima convessa,
convertire il corpo degli eventi in scie amebiche.

Un soleggiare lieve, di cui non sempre appare l’ambito raggio.

*

Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.

Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti
da brividi albescenti.

Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.

Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.

[Marina Petrillo vive a Roma dove è nata. Nel 1986 pubblica Normale astratto e, nel 2019, materia redenta con Progetto Cultura da cui sono tratte le poesie]

Carlo Livia

In una glossa alla sua poesia scrive la Petrillo: «Dal “Vuoto” nasce la costola dell'”Assoluto Presente”. Apnea dello spirito in sommersa ampolla. […] Trasformazione alchemica giunta all’apice di un processo in cui l’amore suicida trasmuta in vita. Le epistole transitano nel detto sapienziale e il percorso sentimentale affiora in forma archetipica, esplorando l’aspetto divino insito nel viaggio esperienziale. L’esoterismo di Goethe nutre le molecole di un dialogo interiore in cui gli elementi si combinano e le fasi, nel senso immaginale (Mundus Imaginalis), contaminano una visione interiorizzata.
Il sogno depone il suo vanto in rarefatta armonia, associando all’immagine l’improvvisazione grafica, attraverso segni, guazzi, pittura steineriana, volti a ricomporre l’Alto Cielo di Amore». Commenta Mauro Pierno: «Il tentativo di rinunciare agli oggetti, nella poesia della Petrillo, diventa il linguaggio stesso contaminato».

Apparentemente in controtendenza rispetto alla ribellione e desacralizzazione del modernismo, la poetessa romana utilizza lessico e forme retoriche sofisticate, inusuali, frequenta vertici e anfratti del pensiero speculativo ormai in abbandono. Ma la sua attualità e modernità si evince dalla divergenza rispetto ai percorsi noetici abituali, e dai prodotti mistificatori che ne derivano. La sua ricerca di nuove verità non si manifesta con metafore o catacresi incongrue e irrazionali, come nella pratica simbolico-ermetica; in questo caso è tutto il piano della significazione che viene spostato su un piano di sublimazione, svuotamento e inafferenza, producendo una semantica incoesa, metamorfica, poliedrica, inafferrabile, fatta di risonanze melodiche, prospettive mobili, echi, trasparenze, richiami, sogni, esili, paesaggi svuotati, inesperiti.

«La Petrillo giunge alla curvatura elicoidale del linguaggio, proprio per evitare qualsiasi contaminazione. Poesia che si ciba come un corvo o un gabbiano, dei rifiuti malmostosi del nostro mondo e della nostra lingua,  parte integrante di questa grande discarica all’aperto qual è diventato il nostro mondo». (Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

da Les choses de la vie

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant 

En flottant reviennent

Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven

Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères

Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses

Les perles se propagent sur les planets
Astrocinématographique confusionnel

Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha qui sort du bar
Eglantine défait sa robe aigue-marine

*

Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo

Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando

Galleggiando tornano

Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven

Tasti di piano ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie

Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale

Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha che esce dal bar
Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina

 [Marie Laure Colasson  nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi, Bruxelles,  Roma, Banja Luka, Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea] Continua a leggere

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Parallasse, Poesia all’Epoca del Covid19, Enesidemo, Charles Simic, Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,

coronavirus

Covid19, immagine al microscopio

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Parallasse

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

[The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *
* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.]

 

Marina Petrillo

Per trama antesignana all’ordito
il cosmo non agita alcun gesto.

Silenzioso assioma balbettato
da eventi insidiosi eppur perfetti.

Il tacitato rullio del pensiero, intercetta
la spiraliforme eclissi della parola.

Vuoto ponderato ad azione.
Attrito postumo all’impatto

quando non v’è stupore nella visione
ma opposta sintesi in idea.

Fossimo nella vibrante Rete Universale
non avremmo che misterioso Codice supremo.

Al battere continuo alla porta dell’assoluto
risponde, in segnale, l’indice di immortalità.

[Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.]

Gino Rago

Del resto, come è nelle esperienze poetiche della Poesia all’Epoca del COVID-19 (Gabriele, Linguaglossa, Rago, Tosi, Livia, Intini, Gallo, Talia, Tagher, Petrillo, Pierno, Cataldi, Leone, Dono, Dzieduszycka, Ventura)
a cosa servirebbe la Poesia se venisse meno a uno dei suoi ineludibili compiti che poi ( riprendendo ancora il Lunetta pensiero) è quello «di creare contraddizioni all’interno del senso comune egemone, di produrre enzimi fantastici indigeribili, di creare sconcerto nei confronti dell’universale obbedienza.
Uno scrittore (o un poeta) che non sia scomodo e non procuri fastidi alla digestione del dominio delle menti, non è uno scrittore, è un addetto al servizio delle pulizie»?

(gino rago)

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

come noto, gli scrittori sono i postini delle Poste assunti con contratti a tempo determinato;
i pittori anch’essi sono dei disgraziati imbrattatele o facinorosi fabbricanti di orrendi manufatti che chiamano installazioni;
i giornalisti sono i più utili, sono pagati per servire il padrone di turno e, a quanto mi risulta, lo fanno per bene;
i critici sono ben pagati nelle inutili Accademie che sfornano belletti per transessuali e crossdresser in passerella;
i poeti, in ultimo, sono gli addetti alle pulizie dei lavabo e dei servizi igienici. E c’è una gran ressa là fuori…

Charles Simic

«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina».

Coronavirus 1Enesidemo

«Le umane vicende oscillano come su di una bilancia dai pesi diseguali, ora sollevandosi, ora invece tirando giù il piatto. terribile è l’incertezza e molta è l’oscurità che coinvolge i fatti della vita: come in un sogno profondo, noi vaghiamo senza poter nulla percorrere con esattezza di ragionamento e senza nulla afferrare con vigore e fermezza, poiché tutto è simile ad ombre e fantasmi.
E come nei cortei la fronte passa oltre e sfugge agli sguardi e nei torrenti invernali il corso dell’acqua, spingendosi oltre, per la violenza della sua velocità, precorre il nostro sguardo e gli si sottrae, così anche gli eventi della vita, spingendosi innanzi e sorpassandoci, danno tutta l’impressione di star fermi, mentre non permangono neppure un istante, ma vanno ogni ora in rovina»1

Enesidemo, frammento tratto dal De Iosepho di Filone di Alessandria, 140-41. Ho utilizzato la traduzione di Antonio Russo che si trova in Scettici antichi, Utet, Torino, 1996, oag. 562. Dello scettico Enesidemo sappiamo pochissimo e la sua esistenza è stata fatta oscillare tra l’80 a.C. e il 130 d.C.

Francesco Paolo Intini

Caro Gino Rago,

vedo che abbiamo percorsi simili e per me è un gran piacere scoprirlo. La Chimica è scienza delle trasformazioni, ma anche e soprattutto creatività come le altre discipline sorelle. E’ mia convinzione che se è possibile un dialogo con la poesia debba svolgersi su questo terreno e non semplicemente su qualche aspetto stravagante buttato occasionalmente nella buca delle Lettere, magari solo per sbalordire. Chi si occupa di scienza sa che davanti ha il nulla e dunque esperire significa creare. Mi riferisco ad ogni nuovo processo che venga scoperto, ad ogni nuovo prodotto di sintesi che venga pubblicato. Basta dare un’occhiata a ciò che è visibile a tutti sulla tavola periodica, a quanti elementi nuovi sono entrati nel corredo della natura, in aggiunta a quelli già presenti. Giustamente si affermava su queste pagine che è falso dire (cito a memoria ma penso di ricordare correttamente) che nulla è cambiato dai tempi di Omero! Una poesia in quanto incarnazione del pensiero dell’autore, ha più o meno valore sulla base del tasso di novità che contiene, esattamente come una pubblicazione scientifica! Ben venga dunque una poetica-estetica dell’interferenza e più in generale la poetica NOE del frammento, del post- it, del polittico. Aldilà di questo c’è uno sforzo colossale di costruire sé stessi con la chiacchiera del si dice, del già detto, dell’infallibilità dei valori universali, dei mi piace su fb e dei curricula fatti di premi conseguiti nei concorsi di poesia, sparsi come altarini sul territorio nazionale. Personalmente mi accontento di mettermi al servizio di questa indicazione di Giorgio Linguaglossa:

” La differenza tra un poeta NOE e un poeta normale è questa: quando un poeta NOE prende una parola (ad esempio: tavolo, giacca, lampadario, finestra, porta, comodino, aereoplano etc.), il primo sa, avverte che dentro la parola e al di fuori di essa c’è il «vuoto», il «nulla»; il secondo invece prende quella parola come un pieno, una rotondità. ”

Da ragazzo non capivo che cosa succedesse nel mio pensiero quando mi fissavo su una parola e ne toglievo il guscio. Dentro c’era il nulla che letteralmente mi spaventava perché non era facile tornare indietro o spiegare l’esperienza a qualcuno. Dopo quaranta anni eccomi qua a scriverne. Continua a leggere

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La Struttura Dissipativa della metafora in opera nel linguaggio poetico della Nuova Ontologia Estetica, Concetto scientifico di Struttura Dissipativa, Poesie di Francesco Paolo Intini, Lucio Mayoor Tosi, Immagini, Strutture dissipative di Marie Laure Colasson

coronavirus

            Coronavirus Covid19, immagine al microscopio

Il concetto, dovuto a Prigogine, di Strutture Dissipative soggette a “biforcazioni” periodiche non lineari porta un contributo enorme alla comprensione scientifica del nostro mondo, permettendo di descrivere il processo evolutivo di qualunque sistema aperto, in qualunque punto del nostro universo. Tale processo si ripete milioni di volte ogni minuto nelle nostre cellule; presiede anche all’evoluzione dei regni della natura, dei pianeti, delle galassie e, in particolare, della nostra coscienza.

La metafora può essere anch’essa pensata come una «struttura dissipativa» soggetta a biforcazioni e deviazioni non lineari che opera all’interno di un «sistema aperto» per eccellenza quale è la lingua. In ogni lingua in ogni momento della sua vita il «processo conglobativo» quale è la metafora si ripete milioni di volte presso ogni atto di linguaggio e presso ogni parlante, talché possiamo tranquillamente affermare che anche e soprattutto nel linguaggio poetico, come vediamo in queste due poesie di Francesco Paolo Intini e Lucio Mayoor Tosi è in opera la «struttura dissipativa» della metafora.

(Giorgio Linguaglossa)

Per struttura dissipativa (o sistema dissipativo) si intende un sistema termodina micamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia. I sistemi dissipativi sono caratterizzati dalla formazione spontanea di anisotropia, ossia di strutture ordinate e complesse, a volte caotiche. Questi sistemi, quando attraversati da flussi crescenti di energia, materia e informazione, possono anche evolvere e, passando attraverso fasi di instabilità, aumentare la complessità della propria struttura (ovvero l’ordine) diminuendo la propria entropia (neghentropia).

Il termine “struttura dissipativa” fu coniato dal premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine alla fine degli anni ’60. Il merito di Prigogine fu quello di portare l’attenzione degli scienziati verso il legame tra ordine e dissipazione di entropia, discostando lo sguardo dalle situazioni statiche e di equilibrio, generalmente studiate fino ad allora, e contribuendo in maniera fondamentale alla nascita di quella che oggi viene chiamata epistemologia della complessità. In natura i sistemi termodinamicamente chiusi sono solo un’astrazione o casi particolari, mentre la regola è quella di sistemi termodinamicamente aperti, che scambiano energia, materia e informazione con i sistemi in relazione e, grazie a questo scambio, possono trovarsi in evoluzione.

Fra gli esempi di strutture dissipative si possono includere i cicloni, la reazione chimica di Belousov-Zhabotinskyi, i laser, e – su scala più estesa e complessa – gli ecosistemi e le forme di vita.

Un esempio molto studiato di struttura dissipativa è costituito dalla cosiddette celle di Bénard, strutture che si formano in uno strato sottile di un liquido quando da uno stato di riposo ed equilibrio termodinamico viene riscaldato dal basso con un flusso costante di calore. Raggiunta una soglia critica di temperatura, alla conduzione del calore subentrano dei moti convettivi di molecole che si muovono coerentemente formando delle strutture a celle esagonali (ad “alveare”). Con le parole di Prigogine:[1]

«L’instabilità detta “di Bernard” è un esempio lampante di come l’instabilità di uno stato stazionario dia luogo a un fenomeno di auto-organizzazione spontanea».

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa B 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa B, acrilico su tavola 50×70, 2020

Le strutture dissipative

Alla fine del XX secolo, Ilya Prigogine ricevette il premio Nobel per le sue scoperte sulle “strutture dissipative”. Le sue ricerche sulle leggi che regolano il funzionamento dei sistemi l’avevano portato ad addentrarsi nel campo della termodinamica, dove da più di un secolo gli scienziati osservavano un’apparente contraddizione tra due leggi naturali. Infatti, la seconda legge della termodinamica dichiara che il grado di disordine, di casualità o di caos, chiamato entropia, cresce costantemente nell’universo. D’altro canto si osserva però che molti aspetti della vita, inclusa la Vita stessa, crescono e diventano sempre più ordinati, meno casuali. Da un bel pezzo gli scienziati si chiedevano come potesse accadere che alcune cose si evolvessero, si strutturassero sempre di più e crescessero, mentre la tendenza generale dell’universo sembrava andare nella direzione opposta.

Fu allora che Prigogine fu indotto a definire i cosiddetti “sistemi aperti”, cioè sistemi che hanno la capacità di scambiare energia e materia con il loro ambiente. Qualsiasi sistema “vivente” o in crescita nell’universo può essere considerato tale: un fiore che spunta, un’organizzazione che si arricchisce, una società che si struttura, un ecosistema che si sviluppa, un pianeta che si muove nello spazio, o… un essere umano che si evolve attraverso i continui scambi, a vari livelli, con il suo ambiente.

Una caratteristica comune di questi sistemi “aperti” è che sono in grado di mantenere la loro struttura e persino di crescere e di evolversi in sistemi ancora più complessi perché sono capaci di adattare le loro strutture in base agli scambi che effettuano con l’ambiente, il quale assorbe il loro disordine. In altri termini, ciò significa che hanno la capacità di “dissipare la loro entropia” nell’ambiente. In questo modo la quantità globale di entropia effettivamente cresce, rispettando alla fine la seconda grande legge della termodinamica. In compenso, questi sistemi mantengono il loro ordine, e addirittura lo accrescono, a spese, entropicamente parlando, del loro ambiente, e perché ciò accada i sistemi aperti devono possedere qualità come la flessibilità, la fluidità e la capacità di adattarsi alle fluttuazioni dell’ambiente.

Il punto di biforcazione

– Eppure, ed è qui che tocchiamo un primo punto chiave molto importante per il nostro discorso, questa capacità di adattamento ha i suoi limiti. Esiste una soglia di adattabilità oltre la quale il sistema non è più in grado di adattarsi, cioè di dissipare l’entropia per mantenere il proprio equilibrio e la propria crescita. Questo limite dipende dalla complessità del sistema, dal suo grado di evoluzione, dalla complessità e dalla flessibilità della sua organizzazione interna. Quando l’impatto esterno diventa troppo forte e viene superato questo limite di adattamento, il sistema, al suo interno, diventa instabile e caotico.

– Ed ecco un secondo punto chiave: se l’impatto continua ad essere troppo forte, il sistema registra una tale instabilità che si ritrova per un attimo in uno stato di fluttuazione estremamente delicato.
In quel momento la minima influenza può indurre un’infinità di risposte possibili, e il sistema diventa imprevedibile nelle sue reazioni. Alla fine, in queste condizioni molto particolari, il sistema, secondo l’espressione usata da Prigogine, giunge a un “punto di
biforcazione”. Si presentano allora due possibilità:

o collassa completamente e scompare, dissolvendosi nell’ambiente;

o si riorganizza completamente, ma a un livello superiore.

– Ed ecco un terzo punto chiave: la caratteristica sorprendente di questa organizzazione completamente nuova è che non ha niente a che vedere con l’organizzazione precedente, e non ne costituisce affatto un miglioramento o una continuazione dotata di maggior capacità di adattamento. Viene ricreata su princìpi completamente diversi, che non hanno assolutamente alcun legame con quelli precedenti, perché funzionano all’interno di un’altra realtà. E quello che viene chiamato “salto quantico”.

Il concetto, dovuto a Prigogine, di “strutture dissipative” soggette a “biforcazioni” periodiche non lineari porta un contributo enorme alla comprensione scientifica del nostro mondo, permettendo di descrivere il processo evolutivo di qualunque sistema aperto, in qualunque punto del nostro universo. Tale processo si ripete milioni di volte ogni minuto nelle nostre cellule; presiede anche all’evoluzione dei regni della natura, dei pianeti, delle galassie, e in particolare… della nostra coscienza di esseri umani.

http://www.mauroscardovelli.com/PNL/Consapevolezza_di_se/Strutture_dissipative.html

L’utilità e l’importanza del concetto di entropia nei sistemi sociali, così come in quelli fisici e biologici, diventa evidente quando si fanno certe considerazioni. Nel mondo fisico la “freccia del tempo” sembra puntare verso un inevitabile aumento dell’entropia, in quanto gli atomi e le molecole di cui è costituito il mondo tendono verso la loro configurazione più probabile, e il disordine aumenta. La vita, al contrario, dalla sua prima apparizione fino allo sviluppo e all’evoluzione delle società umane complesse, rappresenta una diminuzione, invece che un aumento, di entropia, cioè partendo dal disordine tende verso un ordine sempre maggiore. La seconda legge della termodinamica sembra implicare un decadimento finale dell’universo, mentre la vita è un movimento nella direzione opposta.

Talvolta la vita viene considerata semplicemente una manifestazione locale di diminuzione dell’entropia, senza implicazioni per l’intero universo, cioè soltanto come una via più tortuosa verso la fine inevitabile. Tuttavia alcuni scienziati contestano questa ipotesi. A esempio il chimico belga Ilya Prigogine ha dedicato i suoi studi ad allargare il campo della termodinamica in modo da includere gli organismi viventi e i sistemi sociali. Prigogine, che ha vinto il premio Nobel per la chimica nel 1977, ha sviluppato modelli matematici di quelle che lui chiama strutture dissipative, cioè sistemi in cui l’entropia decresce spontaneamente. Tali sistemi sono stati osservati in certe reazioni chimiche e trasformazioni fisiche, così come nel fenomeno della vita. Il termine dissipativo si riferisce alla loro capacità di dissipare entropia nell’ambiente circostante, aumentando perciò il loro ordine interno. Le idee matematiche di Prigogine, e le conseguenze riguardanti l’interazione creativa fra energia e materia, hanno attirato l’attenzione dei sociologi e degli economisti, così come dei fisici e dei biologi. *

* da https://statidicoscienza.wordpress.com › 1967/04/18 › strutture-dissipative

Struttura dissipativa B

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Ordo Rerum, acrilico su tavola 50×50, 2020

Francesco Paolo Intini

A mio parere una metafora non è altro che un cristallo dotato di simmetria per cui due concetti come due parti di un oggetto si corrispondono. Ed è davvero incredibile come il linguaggio poetico possa intrecciarli! Un esempio di quello che penso:

(…) Io ho sponde basse
Se la morte sale di due centimetri vengo sommerso

(…) (Carillon, T. Tranströmer)

La prima corrispondenza è tra soggetto e barca con le sponde basse.
La seconda è tra l’acqua di un fiume o del mare e la morte.
La terza tra la possibilità di turbolenza o marea e l’ineluttabilità della morte
La quarta tra la fragilità della condizione umana e il viaggiare in barca.

Un cristallo per stare a Prigogine, tra le forme organizzate è l’oggetto che forse più di tutti, dissipa entropia.
Infatti, il terzo principio della termodinamica, non meno importante dei primi due, recita che allo zero assoluto il valore della sua entropia è zero.
Non è difficile osservare la deposizione di cristalli. Il ghiaccio ne è un esempio. Nella sua formazione c’è una parte di calore che si disperde e fa aumentare l’entropia dell’ambiente. Nel bilancio finale tra diminuzione nel cristallo e aumento nell’ambiente c’è sempre un segno positivo che spinge spontaneamente il processo portando ad un aumento complessivo del disordine nell’universo.
Lo stesso calore lo si riconosce nella costruzione del verso di sopra come qualcosa che scioglie l’attenzione e coinvolge i sensi fino a presentarsi alla vita del lettore, scompaginando le sue strutture portanti.
Sottopongo a tale proposito una mia vecchia poesia, pubblicata su web nel 2017 e dunque in epoca non NOE. Un caro saluto

Poeti, strane creature 

Poi ci sono i poeti, tra le stranezze e le fonti di calore.
Recitano, scrivono, imbrattano muri come colombi felici
e incendiano le notti nelle periferie.
Non c’è pace tra loro ed il patrimonio.
Faranno le loro cose sempre nell’erba,
porgeranno la mano tra le auto e allatteranno i bimbi al seno.
Incuranti dei gas ai semafori,
si faranno attraversare dalla follia dell’estraneità verso qualunque società.

Non c’è più grande storpiatura di una cravatta al collo di un colombo di città.

Gendarmi vengono per mettere ordine.
Sono numeri. Non c’è pace tra numeri e poeti.
Non è il timore delle persone,
ma la paura che l’errore venga preso per modello.
Il calore-non tutto-è soltanto scarto,
irrecuperabile degrado di una forza che spinge in un seme di margherita.
I numeri hanno il manganello, il fascismo scritto nelle menti,
il potere di scrivere punto nella natura delle cose.
L’esattezza ed il rigore del calcolo costituiscono il “fatto”, non il verso.

La guerra ha visto perdite incolmabili!
Nei fumi delle ciminiere sono passati Rimbaud, Baudelaire, Campana, Majakovskij e gli altri scheletri
Perché fanno conferenze su questi signori?
Perché hanno rifiutato il potere, si sono messi di traverso?
Che soffi un sottile caldo spirito nella serpe del mondo?

Niente è eccezionale, niente sfugge alla potenza delle cifre.
Fa così piacere spargere lacrime dunque,
che vien voglia di conservarle, pesarle e venderle.
L’organizzazione è perfetta.
Il logo dice: sterminateli tutti e vendetene gli occhiali, le protesi d’oro…
C’ è più mein kampf in un’equazione di primo grado che nel Novecento.
Ma la matematica è molto di più di una proporzione a portata di bambino

Ed i poeti?
Sono in questo tentativo di dare addosso alla forza che scrive morte, dissolvimento.
Rispondendo:-Bellezza!
e recuperandola dal secchio dell’inservibile.

Ecco, tutto qui: potere contro potere,
lotta tra chi ha più diritto sulle leve del comando.
E la bellezza è il potere supremo,
la moneta con cui il poeta diventa padrone del disordine universale

Sottrarla alla spontaneità del dissolvimento è la posta in gioco.

(2017)

Marie Laure Colasson Trittico 3

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa A, acrilico su tavola 30×30, 2019

Giuseppe Talia

A proposito della questione metafora, se essa sia precedente al linguaggio, dentro il linguaggio stesso, oppure collocata in una zona fluida quindi in sé e al contempo fuori di sé, mi pare che l’affermazione di Linguaglossa, “è la metafora che fonda il linguaggio”, sia pertinente. Se la metafora precede il linguaggio, allora essa lo fonda, senza di essa non ci sarebbe linguaggio (realtà, come la traduci? Il pensiero, come lo comunichi? attraverso il linguaggio impregnato di metafore). Di conseguenza, la metafora fondando il linguaggio lo permea e quindi la metafora è dentro il linguaggio stesso. Ma la metafora è anche fluida, essendo fondazione e permeazione, nel senso di penetrazione e moltiplicazione, essa è dentro e fuori al contempo.

Leggendo un saggio di Raffaella Scarpa, Secondo Novecento: lingua stile metrica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011, riguardo alle tecniche reticenti, essendo la “reticenza” affidata alla capacità interpretativa, «se si considera l’ampiezza della mossa cooperativa prevista da alcune figure quali l’ellissi, la litote, la preterizione, la perifrasi, l’eufemismo si vede come nella reticenza tale ampiezza sia massima» (C. Caffi, Reticenza, in Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica, a cura di G.L. Beccaria, Torino, Einaudi, 1994)

Ecco che la reticenza diventa la figura del “silenzio” per eccellenza. La pausa tra un frammento (rumoroso) e l’altro, come può essere la pausa tra un distico di pensiero concluso e l’altro successivo legati non solo dal silenzio reticente come anche da un successivo fragore pensiero che del primo ne riprende o ne lascia totalmente soggetto e oggetto.

Questa è una parola che si aggirava accanto alle parole,
una parola sul modello del silenzio

(P. Célan)

Marie Laure Colasson Trittico 1

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa A, acrilico su tavola 53×30, 2019

Una sola stella.

di Lucio Mayoor Tosi

Aperta la bocchetta dell’aspiratore, un gioco da ragazzi.
Anche la canna dei fumi, è sistemata.

Luna a sinistra, in parte nascosta dall’aletta del cargo.
E’ una bella sera, se così si può dire. Restano pochi murphy.

Domattina le sentinelle si attiveranno, ne arriveranno altri.
L’esposizione al sole sveglierà le menti. Troveremo presto

un nuovo orizzonte. Il sopra e il sotto. Quindi anche il tempo.
Tra il neo sulla spalla e il seno. Pianeti sconosciuti. Distanze

incalcolabili.

.

Scrivere in una sera un intero libro di poesie.  Si può fare.
Come costretti a cantare per sempre l’inno del paese.

Prendersi a schiaffi davanti a un mazzo di mimose.
Robespierre in A2. Coppa gelato e pastis.

Due rubicondi davanti all’altare della biancheria d’asporto.
Le gambe sotto il tavolino del bistrò. Le mani tue, le mie.

Astaroth, Belzebù. Con radice di gelso. Occhio pregnante.
E dunque la saliva.

.

Freddo e malcapitato inverno. Epatite dei monchi.

Nel frantumato raccolto noi due, quale sia il braccio.
Quale nube di sospiri e tavole.

Vogliamoci bene. Togliamoci le cravatte. Spertichiamo
l’inverosimile. Chi sei tu, chi sono io.

I nostri cervelli hanno forma diversa. Anche le mani.
Gauloises e tintarella. Che ci stiamo a fare qui, insieme?

.

Teniamo compagnia a quest’uomo impaurito.
Ha le stringhe marce per quanto ha camminato

strascicando i piedi sul volume otto-negletti.
Abbandonati al loro destino, come si suol dire

quando le palpebre fanno da paralume: la corte
a sonagli aspetta solo che passi un rinoceronte

a travolgere le sembianze. Ahimè! Se tu non fossi qui
io neppure potrei esserci. All’origine del cartesiano.

Devo poter muovere un braccio.

.

Uno scheletro in pizzeria. Moncherino in bocca
allo squalo bianco.

– Interrompiamo la spesa. Comunichiamo i nomi
dei vincitori del concorso “Ammazzete, una reliquia”.

Quattro involtini napoletani seduti al cloroformio:
– Chi di voi sa cosa fece Cagliostro ai debitori di spade,

prima che lo spartissero mari e fiumi da ogni parte?

.

L’anello del tuo fidanzamento con me. La scarpiera
dove tieni l’accendino. Il libro di tutte le fiabe.

Il flauto di amici in partenza per boschi e valli d’or.
Diverse cucchiaiate di budino crema e caramello.

Senza dire mi-raccomando, ti voglio bene. L’abitino
di chiffon, tratto da un libro di scavatrici nascoste

nel basso fondo di promesse ancora da formulare.
Quel modo di sollevare lo sguardo in amicizia.

Come sulla vetta di una montagna, a un passo
dal niente che sovrasta.

.

Approvati, ciascuno partirà per la propria atmosfera.
Ma collegati da pistilli trasparenti. Pensieri di lingua

mortale e follia. I senza-radici, le figlie del vento!
Ahi, come lacrime in Portofino. Sul ciglio della strada

scostarsi dalle guance. Ragnetto, muschio profumato.
Alloro. – Segui l’orma all’orizzonte.

Avvia il motore ancora freddo, all’ex discoteca.
Pronto a nuove superfici da percorrere. Fermo

in te stesso – Centro di rieducazione per schiave
superstar, trasferite nel tempo, da un secolo all’altro

degli squilibri di natura. / Elegiaco signor Dei Tali,
deponga le sue scritture sulla sedia, all’ingresso!

.

Nè maschi né femmine. Neutrini, bambini. Ringraziamo
il giorno per essersi presentato puntuale.

Gioiscono e arrossiscono per ogni nonnulla che si mantenga
nella matematica degli eventi futuri a rapporto.

Nell’abitacolo scorre un fiume di lucette scomparse, a risalire
le braccia, ridiscendere e stare. Sebbene in nessun posto

siano ferme. Intorno è cielo di rondini e nubi sparse.
Vale la pena di lanciarsi in un grido – raro, di fenicottero

accanto a una festosa fontana. Sugli scalini. Paese di naviganti,
Re di cespugli e vertici di aghiformi.


[…]

Vita è sollevare rifiuti dal dicastero delle perdite continue,
prima che sia troppo tardi, e uscire di senno al parking.

Scrollati di dosso i faraoni, senza più dinastie da mantenere
con fatica, ora senza ragione alcuna defluire.

Vivi, come per sempre innamorati di quel niente
che non si lascia dire.

.

Meglio fermarsi qui. Eravamo in stand by ormai
da diverso tempo. Fammi le condoglianze. E’ morto

l’anello mancante, l’idea partorita nel vagone dismesso
di uno spezzato piacersi. Come baciarsi tra sconosciuti

sul ballatoio. Tutti sposi. Riprendo il cappello,
trascrivo la marca sul registro. Diversi lasciti e il sospeso.

.

Le parole sono sempre sole. Parole e luce.
Non hanno forma e nella mente nemmeno suono.

Sono memorizzate nell’apparato costitutivo del corpo.
Cappuccette bianche, una simile all’altra.

Piacciono alla lingua dei mentitori, quelli che indossano
maschere da velieri nei loro teatri: l’extra-ordinaria vicenda

della ragione sconfitta da se medesima. In tante salse e tragedie.

.

Di notte, una ventata di ore tre primaverili. Essenza di buio
in buio di luce gialla. Al tepor dei villici.

Come tra una guerra e l’altra deporre i nostri figli;
tra le azzurre scansie di un vetrofoglio pieno di coloranti.

Entrano continuamente parole  future. Come a casa loro.
Una ragazza tiene stretta la piega del tovagliolo.

Altri si ubriacano. Così sono i poeti. I maestri del mondo.
Che lavorano gratis. Per maledizione divina. Per aver ripetuto

il suono di una stella irregolare. Forse perché viva
tra le morte. Una sola stella. Meno di un’abat-jour.

La chicca dei granelli che sempre davano spettacolo.

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Paolo Ruffilli, Poesie da Le cose del mondo, Mondadori, 2020, pp. 200, € 20.00, Nota ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Lo statuto di verità del discorso poetico non più fondato su alcuna manifestazione epifanica o semantica del linguaggio, ma sul suo fondo veritativo

Giorgio Linguaglossa

Questo di Paolo Ruffilli è un discorso poetico dichiarativo e descrittivo, che si affida al letterale, al referente, all’oggetto, che lo circumnaviga, lo perimetra, lo mette a fuoco. Il discorso poetico  ruffilliano fa a meno di figure retoriche, è  un discorso rischiarato dalla sintassi e dall’argomentazione piana e discreta del soggetto che osserva un oggetto. Infatti, le poesie del libro sono tutte tematiche, ciascuna vuole illustrare e argomentare sulla tematica indicata dal titolo espresso didascalicamente in una sola parola.

Il linguaggio poetico viene pensato alla stregua di uno «stato di natura» del linguaggio, come se godesse di una libertà di adozione e di perlustrazione di uso comune.

Giorgio Agamben, l’unico filosofo italiano dei nostri tempi che si sia misurato con la questione dell’arte in modo critico annota il pericolo che anche l’arte moderna soggiaccia alla tendenza generale verso la de-politicizzazione degli spazi dell’antropogenesi, il pericolo che l’arte dell’ipermoderno sia anch’essa un di­spositivo biopolitico della modernità. Questione grande e controversa su cui avremo modo di ritornare.

Paolo Ruffilli si muove nel suo linguaggio come in uno «stato di natura». È questo il punto. Ma, obietto, quel linguaggio rischia di essere un linguaggio del biopolitico?. Voglio dire che il linguaggio poetico ruffilliano si presenta come un linguaggio dello «stato di natura» è questo l’interrogativo e la riflessione che pongo ai lettori. Il punto è che il dispositivo biopolitico proprio del Moderno si nutre di linguaggi apofantici e dichiarativi propri del linguaggio tecnico scientifico e dei linguaggi dello «stato di natura». È questo il timore di chi scrive queste righe. Spero di sbagliarmi.

Dò atto a Ruffilli (e questo è un punto a suo vantaggio) che il suo ritorno alla poesia-argomentazione è un tentativo di concettualizzare e mettere a punto il superamento del post-minimalismo che ha invaso i libri di poesia di questi ultimi due tre decenni e che sembra non incontrare argini. Personalmente, penso di essere incompatibile con il minimalismo e il post-minimalismo italiano, quel minimalismo che ha imperversato nel nostro paese per più di cinquanta anni come una pandemia, una sorta di Coronavirus invisibile e neutro; quindi non posso non guardare con simpatia e approvazione al tentativo ruffilliano di ritornare agli oggetti e alla loro rappresentazione in poesia.

Il discorso poetico ruffilliano vuole tematizzare un contenuto, un tema, un oggetto e lo fa dall’esterno per giri concentrici di avvicinamento all’oggetto tematizzato, ma, così facendo rischia di non giungere mai all’eccedenza del «negativo» rispetto a quell’oggetto, non mette in atto insomma una fenomenologia del negativo che permetta di tematizzare discorsivamente tale identificazione dell’essente degli oggetti, eccedenza che invece non viene alla luce nel discorso poetico che scorre via senza interpunzioni dall’inizio alla fine di ciascuna poesia. Tento di spiegarmi: se indichiamo con il termine «poesia» l’orizzonte (non) concettuale che si indirizza a ciò che sta nell’oggetto tematizzato, ciò che resta fuori di esso è quell’eccedenza dell’oggetto che pertiene all’oggetto, potremmo dire così. Il discorso poetico ruffilliano è quindi tutto interno ad una fenomenologia del «positivo», tutta interna al concetto dell’oggetto, ma resta completamente al di fuori di essa la fenomenologia del negativo, dell’eccedenza, tra il concetto dell’oggetto tematizzato e quell’eccedenza (il negativo) che non si mostra nel concetto dell’oggetto, ma che si trova nel mondo pur eccedendolo negativamente. Leggiamo qualche poesia che verte sull’oggetto «parola»:

Ha filamenti lunghi la parola,
radiche chiare e barbe nere
che pescano nell’utero del tempo
tra le melme di quel limo viscerale
che ha dato soffio e corpo musicale
alle cose ancora sconosciute
richiamandole come fuori da se stesse
dentro il ritmo franto e cadenzato
di quel tutto tuttità che è strabordante
fuoco liquido eruttato dentro ognuna
riplasmata e singola entità.

*

Le parole si fanno a un tratto pallide:
sembrano vacillare sulle loro gambe
non più ferme, cadere e scivolare
tuttavia andando nel loro incerto moto,
tra lì’una e l’altra di colpo balenando
neri intervalli, indizi e accenni
al grande vuoto che spinge tutt’intorno,
al grande buio che grava fondo
in pieno giorno sui palpiti del mondo.

*

Poche semplici uniche parole
solo strettamente necessarie
secche scorticate nel loro lividore
quasi puntiformi e tuttavia capaci
per ampie ondate in successione
di ingrandire e amplificare il senso
dentro lo splendore illuminante
della sua accensione, fino a indurre
la più inedita ardua comprensione.

Facciamo un passo indietro. Dalla metà degli anni settanta alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, si conta la prima fase del minimalismo; dagli anni novanta ad oggi siamo entrati in un nuovo eone, quello del post-minimalismo, della scrittura ipoveritativa, giornalistica, leggera, fasulloide, qualunquistica.  Ruffilli reagisce d’istinto e con consapevolezza critica a questa deriva proponendo un libro severamente ancorato alle tematiche e agli oggetti mediante una forma poesia che fa del ragionamento del soggetto posto fuori quadro il perno centrale del discorso poetico affabulatorio.  È il tentativo di trovare un punto e ripartire da lì. Il tentativo di rifondare il discorso poetico. Ma qui si pone un interrogativo di fondo che la poesia italiana non può evitare di affrontare: Quale discorso poetico per il presente e per il futuro? Come fare per chiudere l’esperienza poetica del novecento e aprirne una nuova?

Mi è stato chiesto spesso, e se lo è chiesto anche Alfonso Berardinelli, «Quando comincia il novecento? Quando finisce?». Ecco, quando inizia io non saprei dire, forse con l’affondamento del Titanic, avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, un fatto simbolico che irradierà la sua luce sinistra su tutto il secolo, però so con precisione quando finisce il novecento, almeno quello italiano. Il secolo finisce nel 1994, anno di pubblicazione di Composita solvantur di Franco Fortini. Dopo di allora, si apre il sipario del Dopo il Moderno, entriamo nel nuovo secolo. L’ultimo «soggetto forte» della poesia italiana viene meno, Fortini muore nel 1994, anno di pubblicazione del suo libro. Dopo di allora la poesia italiana subirà l’invasione del «soggetto debole», di una soggettività diffusa ed espansa che lascia gli ormeggi della tradizione (concetto da intendersi come «tradizione critica»), cioè di qualcosa di fondato, di stabile su cui fare in ogni caso riferimento. Dopo il 1994 la poesia italiana subirà la liberalizzazione della forma-poesia e dei linguaggi poetici, un fenomeno eclatante che però la poesia italiana delle nuove generazioni non sarà in grado di esperire come atto critico, e infatti le nuove generazioni finiranno per accettare come inconcusso il dato di una narrazione del secondo novecento così come gli istituti letterari lo andavano raccontando.

Torniamo per un momento all’ultimo libro di un poeta «storico», cioè ancorato storicamente nel novecento: Franco Fortini. Il metro è breve, riconoscibile, che, prima facie, si confà alle «canzonette»; le rime, quando ci sono, sono riconoscibili, hanno la funzione di «ricordare» e di ricordarsi di ricordare; le rime hanno una funzione non solo mnemonica o di mnemotecnica ma anche una funzione «storica» perché ci collegano ad una tradizione entro la quale soltanto quelle rime e quelle strofe acquistano un senso. La poesia di Franco Fortini ci vuole ricordare che la poesia la si deve leggere come un segmento di una tradizione; al di fuori della tradizione la poesia resta inerte e inerme, è una scrittura priva di senso semantico, e anche di significato storico.

Il manierismo di queste «canzonette» fortiniane è sia una strategia di difesa (come è già stato notato da un critico) che di offesa, rappresenta un monito e un richiamo, un ripiegamento a posizioni stilisticamente minori, più arretrate, per poter sferrare un nuovo attacco stilistico quando i tempi saranno migliori, magari all’improvviso e alle spalle del «nemico di classe» quando il capitale meno se l’aspetta. Il manierismo di Fortini è ben diverso e di statura infinitamente superiore al manierismo del minimalismo di queste ultime  tre quattro decadi il quale è privo di spessore storico, privo di collegamento con la tradizione, ammicca al mediatico, alla cronaca, allude a una immediata riconoscibilità ed è politicamente neutro, se non apologetico oltre che esteticamente di scarsissimo valore.

La differenza tra un poeta della tradizione del novecento come Fortini e gli autori venuti dopo l’eclisse della tradizione novecentesca è che questi ultimi non fanno parte integrante della tradizione; nel migliore dei casi fanno  «scritture private», narcisisticamente imbonite, indirizzate ad un uditorio o alle funzioni auto pubblicitarie. Ma è chiaro che qui stiamo parlando di manufatti che non hanno alcun significato «pubblicistico», perché sia chiaro, la «poesia» è una scrittura pubblica e pubblicistica diretta ad un pubblico, magari a venire, magari remoto.

Franco Fortini è l’ultimo poeta che mette in atto una lettura nostalgico-utopica della crisi del soggetto «forte» e della cultura umanistica; resta fedele ad un concetto riappropriativo della tradizione umanistica, considera ancora possibile, anzi, doveroso riproporre la centralità del soggetto quale ago della bilancia, periscopio critico della disgregazione della società capitalistica. Fortini è l’ultimo depositario di una concezione restaurativa e riappropriativa della tradizione umanistica, pensa ancora in termini di umanismo in una società completamente laicizzata e de-storicizzata, la sua lirica ultima resta nel segno e nel solco restaurativo-elegiaco e non può spingersi oltre queste colonne d’Ercole, non riesce a intravvedere uno spiraglio nella crisi dell’umanismo e della tradizione, pensa ancora in termini di sopravvivenza della progettualità di un soggetto critico nelle nuove condizioni di esistenza della società tardo capitalistica.

Perché questo lungo preambolo? È per arrivare alla questione del contenuto di verità di un testo poetico.

La verità del testo o il testo della verità? Questo è il problema. Qual è lo statuto di verità che si propone, ad esempio, il nuovo venuto, il convitato di pietra,  la nuova ontologia estetica? Penso che è da questa questione che dipenderà il tipo di scrittura ipoveritativa o post-veritativa del «nuovo», qualechessia, discorso poetico.

La posta in gioco qui è molto alta, è nientemeno che lo statuto di verità del discorso poetico non più fondato su alcuna manifestazione epifanica o semantica del linguaggio, ma sul suo fondo veritativo, sullo s-fondo veritativo che la psicanalisi freudiana chiama la «scena primaria»?, o sullo sfondo sfondato delle innumerevoli «scene secondarie e terziarie» di cui ci ha narrato Derrida? Mixare post-it insensati con frasi e dialoghi immaginari o avvenuti per davvero, personaggi veri e personaggi onirici mi sembra un modo modernissimo di fare poesia nei nuovi tempi.

Già la «cartolina postale» di cui ci parlava Derrida è stata sostituita dalle pagine di Facebook, Instagram e Twitter, dalle innumerevoli apparizioni inter-faniche di Google. Il motore di ricerca ha sostituito la ricerca. La diafania ha sconfitto la fania. La disfasia e la dislessia si sono impadronite del mappamondo. Il motore di ricerca ha sconfitto ogni ipotesi di fondare una nuova Avanguardia, e anche una nuova Retroguardia, prendiamone atto. Un ottimo modo per scrivere poesia, lo abbiamo dimostrato sulle pagine dell’Ombra risponde al concetto di inter-fania. Incollare insieme pagine di Facebook e pagine della memoria, fare collages, post-it, postare insieme personaggi di Agota Kristof con quelli di Bulgakov. In fin dei conti il Tutto comunica con il Tutto. Il principio di Entanglement domina nel creato e, forse, anche sull’increato e finanche nella forma-poesia.

La nuova ontologia estetica, sistema instabile e peristaltico quant’altri mai, pone nei cassetti dei numistatici la forma-poesia del novecento nonché, la forma-poesia del post-novecento, ma non per un nostro decreto quanto per necessità storica.

Scrive Ilia Prigogine:

«Non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni».

La nuova ontologia estetica segue il medesimo principio coniato dal grande chimico russo. Parafrasando lo scienziato potremmo dire che «la forma-poesia è un sistema instabile, infatti, non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni».

Poesie da Le cose del mondo

Eccolo, il nome della cosa:
l’oggetto della mente
che è rimasto preso e imprigionato
appeso nei suoi stessi uncini
disteso in sogno, più e più inseguito
perduto dopo averlo conquistato
e giù disceso sciolto e ricomposto
rianimato dalla sua corrosa forma e
riprecipitato nell’imbuto dell’immaginato. Continua a leggere

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Francesco Paolo Intini, Poesia, Reloading Faust, Commento di Giorgio Linguaglossa, Una ILVA di parole ibernate, un gigantesco emporio del Nulla che opera come un frullatore che frulla i frutti di bosco con pasticci privi di glutine, un universo di parole radi e getta, privi di aminoacidi, aproteiche e ipocaloriche, a prova di gomma e di bomba

Struttura dissipativa B

Marie Laure Colasson, Struttura Dissipativa B, Acrilico 50×70 su tavola, 2020

Francesco Paolo Intini

Davvero impressionante la poesia di Giorgio. Rappresenta il punto critico che segna il confine della coscienza. Riguarda l’esistere e dunque il nascere dell’io a sé stesso, ma c’è il terrore degli occhi appena chiusi che guardano indietro ciò che hanno appena abbandonato. È il volante che gira a vuoto perché non si afferra al tempo che così gli scorre sotto e accanto ma non dentro. Il dualismo K\Figura ha la potenza dialettica di Io\non-Io. E’ sì una metafora ma di una scena assai possibile, un atto unico che fissa il tempo sull’orizzonte. L’ entrata in scena di qualcuno che defibrilla l’istante del passaggio definitivo come se fosse soggetto a reversibilità microscopica e dunque vita e morte, pesassero ugualmente sulla bilancia di un equilibrio che tutto riassume: essere = nulla.

Reloading Faust

[Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
«Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.
(Stanza N.88. G. Linguaglossa)]

Mantenere in ordine i crani, con coerenza
Senza che sbattano però.

Cocci di sale sul lungomare.
Astice che stacca le ali al Jet delle 10,30.

Un megafono versò olio di oliva nelle orecchie
E da lì trovò la via crucis per l’anno zero.

Alcuni concetti erano stati terribili
Si erano concentrati a sobillare la luna.

Faust parlò tristemente a Margherita.
Non si era accorto che Fidel era ancora sul palco.

E qualcosa doveva all’insistenza di Wahrol
Gli attacchi seriali alla primavera di Botticelli.

Rimettere i fiori di pesco in bustine
per i giocatori. Campagna acquisti 1959.

Ancora non era chiaro che certe libertà
Finiscono crocifisse sulla via Appia.

Come se la luna spostasse l’ Himalaya nell’Atlantico
e impedisse ai Barbudos di raggiungere l’ Avana.

Concentrare cellule vive sul Che.
Deviare la finanza dal trend di staminali.

Giove nacque che già pallottole imperversavano
Kronos doveva difendersi dalla concorrenza cinese.

Cose che sarebbero accadute nell’anno mille
presero a correre nel 2020.

Chi capisce la termodinamica!

Una notte che si fermò il cuore e più non osava Fb
intervenne Giocasta, con la bobina degli anni in mano.

Non c’è nulla da tagliare, scuotiti dal torpore del vichingo
Mezzanotte è un’invenzione della vicina di casa.

Torna a considerare la pillola dell’efficienza
Conta le bolle nel Graal.

La lavastoviglie reclamò il privilegio dello ius primae noctis
e prese a sistemarsi le forchette nel letto d’acciaio.

In fieri si procede a porte sprangate
Interessi zeri e copertura assicurativa.

Verranno a prenderti le bollette Enel
le rate del mutuo per l’ auto bianca.

La poetica inceppata si mette a seguire
un’ape regina. Rossa, agitata e feroce.

Plath in persona.

Dovevi nascere proprio poeta
o filosofo o chimico o idraulico?

Meglio poltrona telecomandata
in odore di dada e vecchiaia che regredisce.

Che malattia causa la senilità?
L’immortale rifiorisce sul sentiero del ritorno.

Elena recita una poesia di Paride.
Si innamorò della tarantola che ora abita il petto.

“Prima o poi scalderà il cuore”
Credi che non sia lirica abbastanza?

Né quasi né mai né sempre né ora né adesso
Il ritorno di crusca nel grano fu previsto.

Qui si genera segale cornuta
Chi l’ha detto al Dott. Hoffman di fermarsi

Non lo sa che mostrare i documenti
è già dipendenza da LSD.

Il suo curriculum sarà esaminato da Graffiacane
Per il momento potrà volare sulla sua bicicletta

Poi le amputeranno gli arti, le confischeranno i versi.
Un uncino farà il resto nella sua vasca da bagno.

Potrà solo mettere note esplicative alle allucinazioni.
Curare le ferite dell’ incomprensione con punti esclamativi.

Pillola blu o rossa davanti al frigo.
Di sotto una folla di bottiglie gestisce un bar.

Si torna ai cristalli liquidi.
Attendono boschi e problemi di innesto.

Come ghiacciare allo zero kelvin un’ idea
facendo a meno delle ricette sull’ elio.

Un ricostituente si riconosce
dai fichi che si seccano a maggio.


L’omino della discarica lascia impronte di santo.
Il fondo del catrame si agita con un cucchiaio da the.

Capire come ci si comporta davanti a un becco Bunsen
È lo steso che infiammare Campo de’ Fiori.

Perché la distrazione è una tattica
E il mare confonde le idee.

Partorisce schiuma da barba
e buste di cellophan.

Lanci di appestati sulle strade di Bari.
Sargassi di coriandoli nel canale d’Otranto.

Il melo muta le squame del tronco.
Anche il papavero ha i suoi tarli nel rosso.

La punizione per aver spostato l’interesse sul Mare Nostrum
consistette in un discorso di mezzobusto.

Impararlo a memoria e gridarlo in un Park and Ride
mentre a fianco ordinavano ad un olivo di torcersi la bocca.

Sono le idee base che fiaccano i germogli
la misura di una sfera inizia dal centro.

E poi l’ aritmetica compie il suo delitto.
Chi l’ha detto che è promiscua alla rivolta?

Potarli e addestrarli a barboncino
dargli il tempo di alzare una radice.

Non è semplice orinare linfa
e cercare una figura di uomo.

Il secolo ripercorre i suoi passi
Le infezioni spariscono, l’entropia fallisce lo scopo.

La malattia dei cartelloni pubblicitari
Guarisce spontaneamente.

Nessun bidone, però qualcuno
tira fuori la generazione spontanea

e il vaccino non balena a Pasteur.
Muore di rabbia un virus.

A metà strada ci fermammo
Né pieni né vuoti.

In vetta alle classifiche c’è una gazzella che uccide
Un bisonte intanto mira Buffalo Bill.

Cerca il cannone l’obice su Berlino
In risalita anche le bombe di San Giovanni.

Qui si è tutti metafore ma in prospettiva
ci sono leggi da ferrare.

Forse una piantagione di pomodoro
su cui passeggia un drago di Komòdo.

Vietato procedere per esempi vivi
meglio quelli della mente.

Pezzi da Experimental traboccano in cronaca
e dunque nelle lettere al direttore.

Far fesso Faust, che idea! Partire dall’una di notte
e sbucare con il trucco del cuore fermo.

Convenevoli e infezioni tra diavoli.
Tradimenti nel salone del barbiere.

Mostrargli la chiave di volta, il saggio
di onnipotenza a portata di esperimento.

Stormiscono di tanto in tanto
mani su pruni in sangue.

(inedito)

Giorgio Linguaglossa
21 febbraio 2020 alle 16:07 

Cose che sarebbero accadute nell’anno mille
presero a correre nel 2020.

La lavastoviglie reclamò il privilegio dello ius primae noctis

Convenevoli e infezioni tra diavoli.

… presi per sé, isolatamente, i versi di Francesco Paolo Intini sono letali come Corona Virus o Cofid19. Come serpenti cobra. Trattano di cose molto prossime alla nostra questione vitale. Quale sia poi la nostra questione vitale, non sappiamo più. Quelle cose per le quali però siamo ciechi. È come se vedessimo la visibilità delle cose e non le cose nella visibilità. È che le cose sembrano essersi invertite, capovolte. E sono diventate anti-cose, sono diventate invisibili. Ed ecco la rivoluzione del linguaggio poetico, rivoluzione che poggia sulla leva della metafora. Questi versi ci parlano della nostra epoca meglio di centinaia di libri di teologia e di Summum bene e di Ens realissimus e di paccottiglia letteraria. La nostra è l’epoca della lessicologia sguaiata: Trump, Putin Bolsonaro, Erdogan, e dei cialtroni nostrani, della fine della metafisica, se c’è mai stata. Scrivere alla maniera di Intini ci toglie il medico di torno e anche le mezze scritture, quelle accademiche e agiografiche che ci parlano delle cose stabili in modo convenzionale: qui il soggetto che scrive e lì l’oggetto che parla. Intini invece ci parla in modo normale di cose apparentemente sconclusionate, di «schiuma da barba», «cellophan», di «lavastoviglie» che reclamano lo «jus primae noctis», di «infezioni tra diavoli», di «Buffalo Bill», di «pillola blu», di «Wahrol», di «Botticelli» e «Margherita» di «cose… nell’anno mille» etc. Mette la centrifuga nel lessico per scuotere il linguaggio e ficca tutte le parole trovate nel termovalorizzatore che devalorizza tutto ciò che vi viene fagocitato. Una ILVA di parole ibernate, un gigantesco emporio del Nulla che opera come un frullatore che frulla i frutti di bosco con pasticci privi di glutine, un universo di parole radi e getta, privi di aminoacidi, aproteiche e ipocaloriche, a prova di gomma e di bomba. E chi vuol essere lieto, lo sia.

Davvero, penso che “Cofid 19” o “Poesia dell’Epoca Cofid 19”, sia un ottimo titolo per la nostra prossima Antologia della nuova ontologia estetica. Che ne dite?

La parte di Lucrezio e quella di Touring

La parte sporca tocca ai neuroni
che hanno visto il Muro e ci stavano bene dietro.

Quando li svuotarono di significato
[appesero le divise in armadietti

E si misero a correre in quadri blu di Picasso].

Ci doveva essere un inizio se ripeteva le sinapsi
Un altro Terzo Reich si replicava a dismisura.

Le gambe al mento, gli occhi luna.

Non c’era tempo per la chimica.
Il verso generava spettri di risonanza magnetica.

Cresceva il malcontento. Un tunnel attraversava le fogne
per sbucare nel lavandino di Scrooge Mc Duck.

All’autogrill una delle Fontane tornò al suo posto
Non più! Non più, come un corvo senza firma sul culo.

Bosch cambiò un quadro di Vermeer
in un ostrica al ragù.

Tutto si poteva immaginare tranne che trovare Cecilia
In una stazione dell’ Appennino campano.

Ebbero una sincope anche i gratta e vinci.
Voglia di difendersi dalle maniglie.

Alcune autobotti riempirono tazzine di caffè.
Senza zucchero, né aspartame, nafta dalle narici.

Lucrezio declamò l’ultimo libro dalla finestra di un XX piano
A Bari non sapevano come difendersi dagli ologrammi.

Si lasciò cadere la circostanza di un water in eruzione.
Nel frattempo alcune blatte si erano impadronite del circo massimo.

Viaggiarono senza fermarsi, travestiti da souvenir nei freni,
tra le scintille delle rotaie con la fragilità delle ampolle di neve.

Non più gladiatori e nemmeno Piazza Fontana.
Tutti cancellati i voli verso gli anni sessanta-settanta-ottanta.

La fuga è prevista nel tunnel di mezzanotte.
Niente panico. Invertire le lancette dopo il fischio d’inizio.

Le poche gazze si ammucchiavano coperte di escrementi.
Ossa di contadini e pastori nel raccolto di giugno.

Il mondo che ci lasciammo non ammetteva blitz, né storia
Soltanto Jet di microplastica in lotta con l’ anidride carbonica.

Ora i proletari erano tutti agenti di commercio
Odorava di miele la catena di montaggio.

Salutare anche l’alito dei fucili alle porte di Milano.
Manager dell’uranio povero lottavano con bancari.

Polvere pirica si annunciava nel respiro delle viole.
Nessuna Chernobyl fu chiusa per l’occasione.

Alcuni roghi restituirono i libri di Marx-Engels
altri la mordacchia di Giordano Bruno.

Per calmare la sete si mescolavano iceberg a titoli dei TG.
Nel pelo di un ratto l’Eugualemmecidue di Einstein.

Il mazzo veniva mescolato da tre secoli
Nessuna delle dita trovò il coraggio di distribuire le carte.

Enigma resisteva alle metafore.
Una mela amara la soluzione.

Si partì da omega, barra diritta verso Venere
Stella alfa nel berretto del tramonto.

Il mignolo di Wharol ripulì l’ orecchio sinistro.

(Inedito)

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Stanza n. 13, Poesia di Giorgio Linguaglossa, Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla 

foto Vopos

Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.

Giorgio Linguaglossa

Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, per Heidegger è la condizione dell’EsserCi.
La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla proprio in quanto mantenimento nei limiti e nella circonferenza del finito.

Costitutiva della verità dell’essere è per Heidegger la sua finitezza, o il fatto che l’essere è finito, il che ha sollevato un mare di discussioni sull’ateismo di Heidegger, sulla morte di Dio, come morte del Dio della metafisica tradizionale. Il che ha sollevato un mare di eccezioni. Che l’essere sia finito significa per Heidegger che la verità dell’essere si manifesta all’esserci dell’uomo solo sulla base del nulla. Se Dio fosse l’essere assoluto, sarebbe limitato dal nulla al quale si deve rapportare nella creazione del mondo. Occorre quindi ammettere che il nulla si manifesta come appartenente all’essere stesso. Ergo, l’essere è nella sua essenza finito in quanto si manifesta soltanto nella trascendenza dell’ esserci che si mantiene nel nulla.
La trascendenza dell’esserci rispetto all’ente nel suo tutto è radicata nella sua finitezza, che è al tempo stesso la finitezza dell’essere, cioè la coessenzialità dell’essere e del nulla.

L’esserCi non è semplicemente nel tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’esserCi. Le cose sono nel tempo, scorrono nel tempo, ma il tempo è intemporale. Le cose scorrono nel tempo proprio in quanto hanno un luogo dove stare, e questo luogo è il tempo.
La temporalità è la dimensione fondamentale dell’esserci, che è l’essere dell’uomo come esistenza, come essere gettato nel tempo e come progetto. L’esserci è il terreno su cui basare la domanda della ontologia fondamentale. 2

1 Cfr. Was ist Metaphysik?, trad. it. Che cos’è Metafisica, cit., p.15.
2 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927

*

Ecco l’ennesimo rifacimento di una mia poesia. Ho sostituito moltissime virgole con dei punti. Ho sbirciato nella Stanza n. 13.

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

…verso la libertà a bordo della BMW Isetta, una storia vera…

Stanza n. 13*

Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.

Torrette di avvistamento. A sinistra, il muro. A destra, il muro.
Una scala a chiocciola. In ferro.

Prigionieri. Gendarmi. Hangar. Corridoi. Cancelli.
Uniformi. Celle. Sbarre. Cancelli.

Pavimento epossidico color ambra. Materasso. Tavolo.
Lampadina. Soffitti. Oblò. Cortili.

Cellule fotoelettriche. Torce elettriche. Riflettori.
K. con i tacchi a spillo fuoriesce dalla finestra

Ed entra dentro la cella del filosofo.
«Veda Cogito, i marziani hanno occupato lo stabilimento balneare.

Si arrenda. Non ha più scampo ormai».

[…]

Ma io sapevo che il filosofo avrebbe vinto la partita,
sarebbe andato fino in fondo.

Che cosa aveva da perdere ormai…

Ma scacciai subito quel pensiero. Lo sostituii con una sigaretta elettronica.
Per paura. Forse.

Per disperazione. Per dissipazione. Per distrazione.
Per dimenticanza.

[…]

Il Re di Denari bacia la dama in maschera.
Un quadro del Tiepolo. Il cicisbeo accenna un inchino che non avviene.

La dama con l’orecchino di perla manda un sms a Vermeer,
c’è scritto: «Voglio anch’io un ritratto come quello che ha fatto

A quella sguattera con l’orecchino di perla…».
Il pensiero impresentabile mi sorprese all’angolo di via Gaspare Gozzi.

Pietro Longhi ritrae la damigella col guardinfante
in posa col papà nello studio del pittore, al Cannaregio.

Mozart compila il 740, si reca al Caf per la denuncia dei redditi.
Mangia un gelato italiano alla panna. Ride.

Ma dimentica qualcosa, ordina al calessino di tornare indietro.
E si perde nel traffico della Vienna imperiale.

[…]

A destra, la scala a chiocciola. Di fronte, il vano dell’ascensore.
Rumori di ascensore. Ottusi.

Fantomas imbracciò il piede di porco e sollevò la saracinesca
«La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma».

I cristalli della vetrina splenderono di luce abbagliante.
Poi si pulì i guanti con lo spazzolino da denti.

E prese congedo.

*

*Ecco qui un «polittico» composto con spezzoni e frammenti di altre poesie distrutte dall’hacker e da me miracolosamente ripescati dalla memoria. Quindi, si tratta di duplicati di scarti e di frammenti che forse non hanno né capo né coda, o forse hanno una coda, ma senza alcun capo… Lo stile è nominale; ho eliminato tutti i verbi inutili e gli aggettivi esornativi. Ho lasciato i nomi e le immagini.
Il «polittico» abita la pluralità dei tempi e degli spazi. Più spazi e più tempi convergenti costruiscono la casa del «polittico», altrimenti non si ha «polittico». C’è un filo conduttore che unisce quei tempi e quegli spazi, ma non è neanche detto che ci sia. Molto probabilmente ci sono una molteplicità di fili conduttori che si dipanano dal «polittico», c’è un tessuto di fili che tiene insieme il «polittico». Ma, anche se non ci fosse, non importa, perché l’arte è finzione, finzione che qualcosa accada; e finzione significa rappresentazione.

«Vero è che la permanenza è propria del tempo considerato nella sua totalità. Come tale il tempo non scorre, non cambia. Cambia, scorre, ciò che è nel tempo».1]

1] V. Vitiello, op. cit. p. 203

Foto Karel teige collage 1

Karel Teige, collages

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), indica, infatti, la necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo Super Faber, Super Sapiens.

Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» oggi, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» ad economia globale (Giorgio Agamben), è quindi una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica estetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte della polis per la polis.

la globalizzazione è un processo ancipite, in cui agiscono vettori anche contrastanti: non vi è solo sconfinamento e apertura al globo, ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile prescindendo da conflitti e polemiche: le assonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse complesse. Non esiste, in questo senso, «la filosofia europea». Non esiste, in questo senso «la poesia europea». Però. lo so, è paradossale, oggi può esistere soltanto una poesia europea, che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo.  Oggi può esistere soltanto una filosofia europea. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova nell’orbita: dalle Alpi al mare Jonio, permettetemi di dirlo, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla forma-poesia.

Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardia. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione pensante del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico del presente. Quello che oggi occorre fare è riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

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Lettera di Tallia a Germanico e risposta, Poesie, riflessioni, citazioni di Giorgio Agamben, Gigi Roggero, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini

Foto Statua volto romano

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Giuseppe Talìa

Tallia a Germanico

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Apollo figlio di Apelle, fece una palla di pelle di pollo…
Ricorda sempre – dice la Pizia – le viscere dell’aruspicina.

Dunque io filosofo e tu poeta. E chi l’avrebbe mai detto!
-Su ciò che non si può parlare si deve tacere. Ora mi spiego
Il mio lungo silenzio.

E se dunque non so, come realmente non so, perché l’Oracolo
Dice che io sono il filosofo e tu il poeta? I grandi problemi.

Ecco. La neve. La neve, tra gli altri, è un grande problema.
La neve non cade più, né più si scioglie al sole. Sparita.

Sparita come sparite le correlazioni: neve come cotone;
Il silenzio della neve; bianca come la neve; il fiocco vagabondo.

Parole in estinzione. Parole già estinte. Parole svanite.
Che fortuna, caro Germanico, la tua, di essere poeta.

(Tallia)

*

Leggo solo ora la stanza n. 13. Mi viene in mente
il percorso che ogni mattina abitualmente faccio
per andare a lavoro.

Attraverso la passerella Fortini sul Mungnone.
Incontro qualche Chichibbio e in primavera qualche gru.
Arrivo a Piazza della Libertà. Passo sotto l’arco
di Porta San Gallo, saluto Rolandino da Canossa.
Lungo via Palestrina l’organo del traffico suona il Magnificat.
A pochi passi da Piazza San Marco, l’ascensore mi porta
al terzo piano. Entro nell’enigma.

Giorgio Linguaglossa

Germanico a Tallia

caro Tallia,

ti devo confessare che mi è accaduto un fatto strano.

In questi ultimi tempi si è accentuato il mio mutismo. Dinanzi a libri (anche ben scritti) di poesia e di narrativa che mi giungono, e che scorro svogliatamente con gli occhi, mi sono accorto che non so che cosa dire, mi sono accorto con sorpresa che non saprei nemmeno dire qualcosa di sensato su di essi.

Come spiegare questo fenomeno? In me è cresciuto il mutismo. Peggio. Non ho più le categorie euristiche con le quali si è soliti leggere quei libri. Le ho perdute. Ho perduto le parole. Non ho più fiducia in QUELLE parole.
Allora ho capito: il mio mutismo segnala il bisogno di un nuovo linguaggio poetico, di un nuovo linguaggio critico e di un nuovo linguaggio civico: segnala l’insorgenza di un potere destituente. Ormai ne devo prendere atto: non sono più capace di utilizzare quel linguaggio pseudo critico fatto di omissioni, adulazioni e di ipocrisie.

Il mutismo della rivolta delle sardine italiane, la loro assenza di richieste, che cosa ci vuole dire?
A mio avviso segnala il destarsi dell’esigenza di un nuovo linguaggio politico e di un nuovo senso civico che, con le categorie agambeniane tradurrei così: il bisogno di una «nuova forma di vita». Le sardine non chiedono al Cesare di terracotta una piattaforma di riforme, ma ben di più, chiedono un rivolgimento del potere costituito e dei rapporti tra il potere e gli elettori, i cittadini non elettori e gli elettori tutti. Se fare richieste al potere di governo è già un modo di riconoscerlo, il mutismo sembrerebbe dirgli: non ho nulla da chiederti perché non ti riconosco, e non te lo dico neanche, perché altrimenti entrerei in relazione con te, ti riconoscerei una qualche forma di legittimità o di rappresentatività.

Allo stesso modo, nel rogo delle automobili, nella devastazione delle strade di Parigi, i gilet gialli non vedono, come pure alcuni famosi filosofi francesi hanno scritto, semplicemente il segno dell’ impotenza e l’opera di un nichilismo puramente distruttivo, ma l’ esercizio di un potere «destituente» che rifiuta le logiche e i mezzi dell’ integrazione delle periferie perché permeati di un razzismo, per così dire, «democratico».

Quella rivolta, dunque, non solo illumina con i lampi dei suoi incendi la crisi dei modelli tradizionali di azione politica ma sarebbe anche l’avvento di un nuovo tipo di esperienza politica.

Dunque, caro Tallia, io, Germanico, qui dall’Urbe, da una domus fuori le mura, mi rivolgo a tutti i cesaricidi nostri compagni d’armi: non deponete le spade, conservatele per un giorno migliore. Che giungerà.
Prima o poi.

(Germanico)

Scrive Gigi Roggero recensendo Non esiste la rivoluzione infelice di Marcello Tarì, DeriveApprodi, 2017, pp. 238:

«Bisogna sempre diffidare di un libro di cui tutti parlano bene. Se uno dice cose che sono gradite a tutti, è perché non ha niente da dire. Bisogna soprattutto diffidare del suo autore, in particolare se dice di essere un intellettuale militante (e già che ci siete, fate che diffidare a priori della categoria di intellettuale militante). Il pensiero rivoluzionario è infatti sempre divisivo: non si parla e si scrive per piacere a tutti, si parla e si scrive per separare gli amici dai nemici, per rischiare un passaggio o un salto in avanti, per spaccare le dannose compatibilità, anche quelle interne alla propria parte. La lingua dell’uomo è una tromba di sedizione, avvertiva Hobbes. La lingua del militante annuncia la guerra, non la pace.»1

1 https://www.commonware.org/index.php/gallery/788-rivoltarsi-alla-storia

Giorgio Agamben: L’uso dei corpi, Neri Pozza, pagg. 208, euro 18
Risvolto.
Con questo libro Giorgio Agamben conclude il progetto Homo sacer che, iniziato nel 1995, ha segnato una nuova direzione nel pensiero contemporaneo. Dopo le indagini archeologiche degli otto volumi precedenti, qui si elaborano e si definiscono le idee e i concetti che hanno guidato la ricerca in un territorio inesplorato, le cui frontiere coincidono con un nuovo uso dei corpi, della tecnica, del paesaggio. Al concetto di azione, che siamo abituati da secoli a collocare al centro della politica, si sostituisce così quello di uso, che rimanda non a un soggetto, ma una forma-di-vita; ai concetti di lavoro e di produzione, si sostituisce quello di inoperosità che non significa inerzia, ma un’attività che disattiva e apre a un nuovo uso le opere dell’economia, del diritto, dell’arte e della religione; al concetto di un potere costituente, attraverso il quale, a partire dalla rivoluzione francese, siamo abituati a pensare i grandi cambiamenti politici, si sostituisce quello di una potenza destituente, che non si lascia mai riassorbire in un potere costituito. E, ogni volta, la definizione dei concetti si intreccia puntualmente all’analisi della forma di vita di alcuni personaggi chiave del pensiero contemporaneo.

Pasolini al Rosati Roma

Moravia e Pasolini seduti al caffè Rosati, Roma, anni sessanta, sembra davvero un altro mondo, gli intellettuali andavano ancora al caffè e discutevano di cose… oggi ci resta l’etere etilico dai lampioni…

Francesco Paolo Intini

Etere etilico dai lampioni 

Paesaggi calmi, la ricerca di un filo spinato.
La luce non si fece attendere e dunque

Alla logica sostituì un balzo sulle spalle.
Perché dovevano allinearsi ai pianeti.

Dopo tutto vendevano merletti per Orione
E i mercati del quartiere erano aperti.

Il ponte spira endecasillabi
Il cobra nel ristorante cinese

e dunque si può operare
il fegato in gangrena.

Il colombo si tiene stretto
al forziere di sterco.

La noia sporge lupi dalla bocca.
Si comincia da Communio (Lux aeterna)

Enzimi guastatori, scampati a Norimberga.
Un melograno secco. Tutankamon tra i rami.

Talpe ammucchiano stelle
lava nelle pupille di corvo.

Gli ossessi con un dente, i malati di spirito
Furono accettati per quanto di geco avessero nelle code.

Gli altri vendevano madri a Caronte
per un appoggio di ventosa sul remo.

Li vedemmo affrontare il colpo di pistola
perché una telecamera sostituisse gli occhi.

Le scene di un colpo alla nuca e Resurrectio
ceduta a un cent.

Pure il sangue di Pasolini si vendeva in barattoli di salsa.
Un grammo della polvere di Ostia andò all’asta.

Si diffuse la notizia di un trend in salita
Per i seminatori di scandalo.

Il tasso di resurrezione salì alle stelle.
L’aids, la mafia, la shoah annichiliti in un lampo della IX sinfonia.

Avrebbero inglobato la mandibola ad uno stalattite
e sacrificato un mammut per la funzione.

Ma non fu facile riscrivere
la distruzione di Hiroshima.

Troppe teste l’una sull’altra e l’ombra
richiedeva il ritorno in Enola

Queste cose la luce non le ha mai fatte
L’esploso di farina si mescola al pensiero

Poter girare scene fino all’Introito
tenersi buono il Dio con Dies irae

Miserere per un giorno.
Nascondergli la tecnologia dell’onnipotenza.

Il miracolo di mettere l’assenza di versi in rima.

Com’è la musicalità delle parole
che comandano coperte e stufe inesistenti?

Le bottiglie voltavano il lato offeso all’ asfalto
Il pavimento si espresse in poetichese

Il suono perfetto della ruggine.
Nervi appesi ai crateri di Bari.

Ci sarebbe stato un getto di noia da un’edicola.
Un altro da un tombino fresco di stampa.


La vita non era tranquilla da benzinaio
Un tale mi puntò la pistola alla gola.

Poi imparai a vendere giornali e a riscaldami
Con banconote sull’esofago.

Capo Giuseppe, svicolò tra i muri
Nacque una colluttazione tra chiese borboniche

Portò le ragioni dei nativi in un tombino aperto
Dentro si scorgevano serpenti di rame e navi verde

La visione del telegrafo fu fatale
Ma non come quella post mortem.

Risalire foibe, prendere tempo, commisurare le forze
All’oro. Non ci sono nemici sul confine.

Cavalli e marce e winchester nessun’ altra memoria
anidride carbonica finalmente e acqua, sterile forse isterica.

(inedito)

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Heidegger nel 1924 scrisse: quando ci sentiamo spaesati iniziamo a parlare, Pensieri e poesie di Marina Petrillo, Italo Calvino, Jacques Derrida, Giuseppe Gallo, Gino Rago, Carlo Livia, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa

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Giorgio Linguaglossa

Heidegger nel 1924 scrisse: «quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare»

Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci accorgiamo che ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. Allora, le parole e le cose ci diventano irriconoscibili.

Ci sono delle cose che si possono dire con una lettera. Ricevere una lettera è molto diverso da quando parli con qualcuno che hai di fronte. Il dialogo con un estraneo è cosa molto diversa dal dialogo con una persona che amiamo e che conosciamo molto bene. Anche un dialogo al telefono è molto diverso dal dialogo con una persona che abbiamo di fronte. Le parole non sono mai le stesse. È molto difficile scrivere in un libro di saggi in modo da essere correttamente compreso, tanto più in un libro di poesia. È evidente. Alcune cose richiedono di essere scritte a mano, come una lettera di condoglianze. È ancora consuetudine che si scriva a mano e non a macchina un pensiero di condoglianze. Così una dedica a un libro che doniamo. Chi penserebbe di scrivere una dedica a macchina? Sarebbe davvero improprio.

Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto, e il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre come può, riproponendo di continuo ciò che non viene detto in altri modi, con altre parole, in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto allargando il campo della dicibilità e restringendo quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis.

È molto importante trovare il luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Mario Gabriele ha trovato il suo luogo esclusivo nella linguisticità generale, e non si muove di lì, anche Marina Petrillo e Carlo Livia lo hanno trovato. Soltanto in quel luogo la poiesis può parlare, in altri posti (della linguisticità) rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende. Ciò che intendo è sempre diverso da ciò che dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.

Pensare l’evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo», è una sciocchezza; chi è fuori del «luogo» non comprenderà mai l’evento di quel linguaggio che deriva da un «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo, il situarsi emotivamente da parte dell’Esserci in un luogo. Ogni luogo ha il suo particolarissimo pathos, e la poesia è il recettore di questo pathos.

*

Ogni linea presuppone una penna che la traccia, e ogni penna presuppone una mano che la impugna. Che cosa ci sia dietro la mano, è questione controversa.

(Italo Calvino)

Dove ci si trova allora? Dove trovarsi? A chi ci si può ancora identificare per affermare la propria identità e raccontarsi la propria storia? A chi raccontarla, in primo luogo? Bisognerebbe costruire se stessi, bisognerebbe poter inventarsi senza modello e senza destinatario garantito.

(Jacques Derrida)

 

Carlo Livia

«V’è una tendenza generale del nostro apparato psichico, riconducibile al principio economico del minimo dispendio… Con l’instaurazione di questo principio della realtà si differenzia una forma di attività psichica…che è soggetta solo al principio del piacere. E’ l’attività fantastica, che incomincia col gioco dei bambini e successivamente assume la forma del “sogno diurno». ( S. Freud )

Così l’attività ludica e fantastica è l’unica forma che consente al principio del piacere di mettere in subordine il principio della realtà, realizzando il sogno di Bergson e Nietzsche, della piena e libera esplicazione dello spirito vitale e della volontà di potenza.
Ma penetrando negli incunaboli dell’inconscio accompagnati da una guida particolarmente dotata di acume e sensibilità, come Kafka o Beckett, può accadere di imbattersi in presenze più inquietanti di quelle concretizzate da millenni nei mitologemi delle culture tradizionali, tali da rimettere in predicato tutta la nostra capacità di relazione e predicazione dell’essere. E’ quello che avviene con Mario Gabriele, in cui la decomposizione di strutture morfosintattiche e logiche ha un significato diverso dalla generale tendenza espressionista e simbolista della modernità, smarrendo o neutralizzando ogni istanza e auspicio per una nuova epistemologia e restaurazione metafisica. E’ come se prevalesse quello che Freud individua, nella sua ultima teoresi sulla dinamica psichica, come il “principio di morte”, contrapposto al principio di vita o erotico, che si esprime nel desiderio, proprio di tutti gli organismi biologici, a ritornare ad uno stato precedente a quello attuale, cioè, in ultima istanza, in una nostalgia allo stadio che precede la vita. Questo impulso scaturisce e giustifica la completa assenza di pathos ed emozione, di qualunque tensione aggregatrice che connota il flusso psichico- onirico di questi testi, significativa testimonianza di un universo culturale in piena decadenza, che, per citare ancora i solito Heidegger, presenta un tale grado di novità e mistero, da richiedere un pensiero e un metodo di analisi completamente nuovo, ma in cui ” ormai solo un Dio ci può salvare “.

Spero che Mario Gabriele voglia accettare questo testo che offro alla sua attenzione, esprimendogli la mia piena solidarietà e ammirazione.

Anamnesi ( Dal tempo oscuro )

Entrai nel ricordo spalancato dalla musica. Assenze abbracciate, voci sfinite.
Calici di ragazze e gelsomini, da bere in piedi, fra i cespugli. Lune pallide di passione, baci, sospiri. La notte spargeva templi, covi femminili.
Nel portico, gli Dei sfiniti. Sognavano forme, corpi, amori da attraversare.

Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
Prima del senso, del lutto, dell’addio. Quando le nuvole arrossivano fra le dita del vento, e le creature dei boschi si affacciavano da un balcone di pioggia, a spiare il segreto sposalizio di spiriti e silenzi.

Fu allora che il primo istante dimenticò il tuo nome. Impazzì, tracciò segni, confini. Circondò il tuo corpo d’ombre, di desideri.
E il cuore che lo vide fu rinchiuso nel sogno.

Giuseppe Gallo

Prima di tutto auguro a Registro di Bordo di M. Gabriele, edito da Progetto Cultura (2020), il successo di pubblico che si merita. In secondo luogo vorrei sottolineare quanto afferma Linguaglossa nella presentazione del testo:

“Mario Gabriele pone in essere una trafugazione di frammenti, di rottami, di referti, di reperti, di rifiuti del mondo della civiltà cibernetica; e così compone le sue poesie, come una com-posizione, un polittico in distici, come un campionario di tessere semantiche non più significanti, uscite fuori dal periscopio della significazione…”.

Sono pienamente d’accordo quando si mette l’accento sulla “com-posizione” dei distici tramite frammenti, rottami, ecc,, meno quando si afferma che il risultato di questi allestimenti semantici escono “fuori dal periscopio della significazione…” Io sono convinto che ogni parola, qualunque parola, caduta sulla pagina, ha in sé un quid “significazionale”, e non solo dal punto di vista fonetico o del rapporto che si instaura con gli altri lacerti linguistici contigui… non fosse altro che il venire in superficie di questi “reperti” e “referti” possa essere il frutto della liberazione dell’inconscio, della memori o di qualsivoglia altro meccanismo.
Le “com-posizioni” di M. Gabriele sono il risultato di un collage di “polinomi frastici” che nella loro frammentazione non solo risultano essere ciò che può sopravvivere del complesso linguistico contemporaneo, ma determinano, o potrebbero determinare, anche “i fondamentali”, si diceva una volta, di una nuova Poetica. Perché questo è il problema. Non cosa e come si possa scrivere poesia al tempo di Internet e della cibernetica, ma quale Poetica?

Quelle parole che Linguaglossa considera “raffreddate, ibernate”, costituite di “materiali a-significanti…” a mio modestissimo parere, riportano, invece sulla superficie del mondo linguistico qualcosa che può ancora sopravvivere, quasi un “corona virus” dei nostri giorni, che fa male, che continua mietere vittime, che supera le barriere e gli ostacoli, ma che allude, per contrasto, ad un mondo, sempre poetico, per restare nella metafora, che potrebbe tornare a vivere. C’è da dire, anche, che la formula portata avanti da M. Gabriele, determina un disallineamento tra Poetica e Potere, nel senso che la “metafora” di fondo che sorregge il suo discorso è oltre ogni limite di ciò che Linguaglossa denomina “mondo amministrato”.

Io andrei anche oltre, affermando che il distacco è “dal mondo che amministra” e che regola e stabilisce i rapporti di forza. Dalla lettura della prima poesia, la n. 9, emerge una “tonalità” che sospinge le parole, le frasi e il loro contenuto all’evanescenza: è una nebbia che sale, o scende, si ferma e obnubila ogni traccia. Eventi, oggetti, sensazioni, ciò che sembrava essere importante ( il tempo della nascita e della morte); il ricordo di Debora e Barak, After Strange Gods, i bouquet per i compleanni della famiglia, rimasugli e scarti del tempo, reperti della memoria,ecc., cadono e precipitano in una atmosfera di addio e di prossima fine. C’è anche una profonda ironia:

-Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana!

(Mario M. Gabriele, da Registro di bordo, Progetto Cultura, 2020)

Care lettrici e cari lettori, non abbandonatevi alle palpitazioni, ormai siamo preparati a prevenire anche il caso, pianificare le attese e a demistificare perfino le sorprese.

Marina Petrillo

Tre poesie inedite

Ci si sente forse sul ciglio
dell’immortalità tradotta ad effigie
o un pallido ciclo compone rinascite.

Donate una zolla di terra
al pauroso fragore del ciclo terrestre
in palpito di foglia morta al suo fiore.

Non soggiace Amore a spento atomo se
il nucleo trasale in ascensione inversa.
Chiamate i bambini a gran voce.

L’istante sconfigge ogni temporalità.
Indimostrabile teorema a diadema posto,
milizia in difesa di Bellezza.

Un albero attraversa lo sguardo.
Cauto, dilegua in rosei rami e, a richiamo,
celebra del padre la memoria.

Non fui mai. Solo intrattenni dialogo
con l’anima in veste di luce abbagliata
da origami diurni graffiati a fosforo.

Così vedo allontanarsi la notte.

*

Irraggiungibile approdo tra diafanie prossime alla perfezione.
Digrada il mare all’estuario del sensibile
tra risacche e arse memorie.

Si muove in orizzonte il trasverso cielo.
Fosse acqua il delirio umano perso ad infranto scoglio…
Sconfinato spazio l’Opera in Sé rivelata.

Conosce traccia del giorno ogni creatura orante
ma antepone al visibilio il profondo alito se, ingoiato ogni silenzio,
ritrae a sdegno di infinito, il brusio della spenta agone.

E’ nuovo inizio, ameno ritorno alla Casa della metamorfosi.
Saprà, in taglio obliquo, se sostare assente o, ad anima convessa,
convertire il corpo degli eventi in scie amebiche.

Un soleggiare lieve, di cui non sempre appare l’ambito raggio.

*

Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.

Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti
da brividi albescenti.

Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.

Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.

Mario M. Gabriele

Scrivere una poesia, comprensiva dell’esperienza umana e culturale del poeta, credo sia la forma migliore per avvicinarsi al lettore, il quale spera sempre di trovare nel testo parte dei propri pensieri da cui può avvicinarsi e riflettere di fronte agli attacchi della realtà nella quale siamo tutti immersi.
L’obiettivo è far risalire la psiche in superficie in modo da arginare l’angoscia o ansia vissuta come disagio in un mondo in continua fibrillazione, tanto da aggravare la posizione esistenziale della società, al di là di ogni tipo di filosofia e letteratura.
Sconcerta l’impotenza del pensiero sulla strategia economico-climatica che ogni anno si tiene a Davos. Ci hanno buttati nella piena notte del mondo dove è impossibile reinventare un nuovo Dio.
I poeti questo lo sanno. Hanno le attrezzature per indagare e informare. Se l’essenza della Verità sta nell’esprimere il pensiero in piena Libertà, allora “l’Irfaran” di Heidegger ha il giusto significato di viaggiare ed esplorare, perché in questi due termini si consolida l’aspetto misterioso del nostro Essere qui e ora.

Ciò si è assemblato nella mia poesia tanto da ostruirne il passaggio verso la Speranza. Che dire in questo caso?….“che l’occhio altera le superficie radianti. / Mette in forse la luce all’orizzonte”(Registro di bordo pag. 44).
Da quando sono scivolato nella solitudine, ho preferito restare dietro a immagine e vocabolario, recuperando fonemi ormai rari, caricando di significati nuovi la parola del quotidiano, immettendo flussi plurilinguistici tra Oriente smarrito e Civiltà defunte.
Che poi tutto questo si esplica in una continua viandanza lessicale, con cerotti applicati sul linguaggio, tra il polittico e il distico, dove il frammento è la sintesi del Tempo passato e del Tempo presente, non è da considerare come un revisionismo formale di nuovo secolo.

Credo che si vada, con questa operazione, a creare isole ecologiche, dove le differenze oggettive dei prodotti linguistici, sono da sottoscrivere trasferendovi la NOE, vista come soggetto emergente, non importa se di invenzione intellettuale e miniespressiva, purché abbia nel suo interno le caratteristiche della poesia come segno realistico della nostra vita.
Non a caso l’interessante disamina critica di Giuseppe Gallo, che naturalizza il percorso espressivo di Registro di Bordo, si apre ad una ermeneutica condivisibile, come quella di Giorgio Linguaglossa, primo apripista della mia poesia, a cui si aggiunge Carlo Livia con una visibilità estetica di sensibile analisi. A tutti vada il mio più sincero ringraziamento con l’augurio di continuare su questo viadotto.

Gino Rago

9

Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –

Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.

Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.

Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.

Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.

Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.

Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.

– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –

C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.

A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.

La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.

(da Mario Gabriele, Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020)

Lettura di Gino Rago

Il moto entropico perpetuo in Registro di bordo di Mario Gabriele

“[…]Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni[…]”.

Poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo

“[…]C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire[…]”

Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: “Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…”, e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
Per questo forse

“[…] Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet […]

mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini

“La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.”

Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi tòpoi di tantissima nostra poesia, le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai prendono il posto definitivamente in un altro luogo poetico delle linee-luoghi comuni fiore-sole-cuore-luna-amore…
Qui lo spaesamento dell’uomo d’occidente convoca altri approdi, in questo Giornale di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «poetica della indignazione morale», alla «estetica della disperazione»….

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Mario M. Gabriele, Poesie da Registro di bordo, Progetto Cultura, 2020, pp. 120 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La poiesis destituente in azione

Giorgio Linguaglossa

La poiesis destituente di Mario Gabriele in Registro di bordo

La poesia è un qualcosa che non ha testimoni. Nessuna sa perché è nata. Nessuno sa a che cosa serve. Non ha mittente e non ha destinatario, ha però la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti linguistici coi quali essa s’intende con i suoi lettori o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stessa. Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». Penso che oggi un poeta che si rispetti debba mettere in atto una poiesis destituente, debba saper fare un passo indietro rispetto alla scrittura, saper mettere in moto la potenza destituente della poiesis rispetto ai linguaggi del «mondo amministrato». Penso che questa sia una via obbligata per una poiesis critica.

In questo suo ultimo libro mi sembra che Mario Gabriele abbia affinato un dispositivo del genere, un dispositivo destituente del soggetto per dare via libera all’affioramento delle zattere significazioniste dalla memoria dissestata, dalla memoria collettiva, dell’inconscio collettivo. Ho parlato, a proposito di questo metodo, di ladro di refurtive di altri ladri. Mario Gabriele pone in essere una trafugazione di frammenti, di rottami, di referti, di reperti, di rifiuti del mondo della civiltà cibernetica; e così compone le sue poesie, come una com-posizione, un polittico in distici, come un campionario di tessere semantiche non più significanti, uscite fuori dal periscopio della significazione. Gabriele pone in essere un metodo a-sistematico, e così compone i suoi polittici, liberamente, azionando gli scambi impazziti dei treni della significazione disarticolata dei giorni nostri. In questa accezione, considero Gabriele  un autore di punta della nuova ontologia estetica, perché pensa ed opera in modo radicale, mediante l’impiego a polittico di parole raffreddate, ibernate, di materiali a-sgnificanti, usciti fuori dal circuito della significazione del mondo amministrato.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri più reconditi.
Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E, nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«L’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della metafisica tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare, e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

L’amministrazione da condominio del consenso amministrato delle società tecnologiche rende la prassi artistica sempre più analoga alle esperienze gastronomiche e deculturalizzate del Kitsch. Non c’è via di uscita da questa antinomia se non mettendo fuori gioco la prassi artistica, non accettare nulla gratis. Ed è quello che fa la poesia di Mario Gabriele, altrimenti si finisce nell’imbonimento del silenzio, il che segna un vantaggio considerevole per l’arte ammaestrata e gastronomica del Kitsch. La parentela tra il Kitsch culturale e il Kitsch non-culturale, vedi le poesie di Zeichen e della Lamarque, si va sempre più assottigliando: alla fin fine non si riesce più a distinguere una battuta di spirito del poeta di Fiume da una battuta da bar dello sport perché se si accetta la filosofia dello spot e della battuta di spirito, tutto pende peristalticamente verso la battuta di spirito tout court. «Tutto pende da ciò da cui dipende» diceva Michelstaedter. Se il «Totum è il Totem» (Adorno) ne discende che il «Totem è il Totum». Il Tutto è una costruzione peristaltica che sta bene alla filosofia imbonitoria e pacificatrice che vorrebbe gli uomini imbelli, sanificati dai vaccini della demagogia, proprio oggi che si parla a vanvera contro i vaccini perché colpevoli di aver salvato la vita a decine di milioni di persone, io mi sentirei di dichiarare: dissentiamo dal Totum, facciamo un’arte irriconoscibile, impenetrabile, antimbonitoria rimettiamo in piedi quello che adesso cammina sulla testa.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

[Cover de Il Mangiaparole n. 6 dedicata a Mario M. Gabriele]

Mario M. Gabriele,

da Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020

9

Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –

Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.

Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.

Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.

Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.

Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.

Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.

– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –

C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.

A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.

La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.

.
10

Tocca a Jeffry scegliere i Gospel Singers
e non un solista tzigano.

Signora Ingeborg, cosa si aspetta da questo concerto?
È un’operetta su un ultimo mon amour!

L’uomo che si riconobbe baco da seta
oggi indossa vestiti Jersey.

Benny non badò alle spese
nei giorni di Soweto.

Nella mansarda sono rimasti i posters
e le vecchie biciclette martin-martin.

Sembrava una cineteca
con il ritratto di Bruno Ganz nel film La casa di Jack.

Padre Hubert cura il giardino di albicocche,
salva le ragazze venute da Santa Cruz.

Chris propone un open day
sulle equivalenze estetiche.

Se non ci saranno avvisi di Warning
continueremo a cercare Laura Palmer sotto i ponti.

Jodie vive di malinconia a Norwich.
Scopre le carte per trovare il Jolly.

– Qui – dice -, passo i giorni
tra il metrò e il London Eye.

La Meridian House, alle sette di sera, apre il repertorio
con il canto degli invisibili e delle rimembranze. –


11

L’inganno delle tre carte
con l’elzeviro di Janette su le Figaro.

Il giorno che peccammo non fu il primo
e neppure l’ultimo.

Musica da radio Deejay
in attesa del rapido 673.

Ci fu un attacco nel Finale di Partita
tornando alla locanda.

L’ultima neve di marzo
segnò la fine dell’inverno.

Riaprì il Teatro della Crudeltà
di Peter Brook e Charles Marowitz.

Mancavano Giuda dal ramo e Lazzaro nella tomba.
Ma i più erano uomini senza ali e passione.

Blondy ogni sera prepara le gocce di melissa
senza il Roipnol.

E non desidero altro, davvero non desidero altro
se non la crème brûlée, e la rosa canina.

E tutti i borghi che portano a Milgate
e a All Those Yesterdays.

13

Hai lasciato la dimora e il Grande Gatsby
con gli oggetti che non ti parlano più.

L’anticiclone mise in pausa l’ira dell’inverno
senza passare sulle cime dell’Adamello.

Giorni si susseguono nel ritmo dell’hukulele.
Uno verrà col fiordaliso in bocca.

Buona parte dell’anno è passata
senza effrazioni sulla pelle.

Al Biffi Hotel rimanemmo
per conoscere la varietà dell’Essere.

ora pensi a dicembre
segnando le date da riesumare.

I vestiti autunnali
li abbiamo lasciati ai ragazzi del Bahrain.

Mister Wood agita mente e anima,
non sopporta i Concerti Brandeburghesi.

Torniamo in superficie
col rumore di fondo dopo Quickly Aging Here.

Dura il mese bisestile.
Barkeley canta Crazy.

21

È tornata Milena. Mi riconcilio con Pound
e The Shorter Poems.

Suona il Jukebox di Ginsberg.
Chi ricorda Tambourine man?

Sono con te Rosmina, con te e Baby Bull.
Che dice oggi il meteo? Si può andare a Parigi?

Da un morso di serpe è nato un fiore.
Karima sa come accendere il fuoco.

Dormi se vuoi. Così ti abitui alla morte.
Adam è tornato a rivedere la barista di Fellini.

Chi scriveva ai posteri
non sapeva di mandare la lettera ai fantasmi.

Dalla roccia non esce più acqua.
Ella Fitzgerald va oltre Lady be good.

Un enorme telone di juta ritrae Picasso.
e Les demoiselles d’Avignon.

La bromelina ha ridotto l’edema.
È caduto dal muro il Bacio di Klimt.

L’osteria all’uscita da Como vendeva alcaloidi
per il lungo viaggio fino a Donnalucata.

Jang Son Bai ha di nuovo acceso un haiku.
I capricci di Buddha lo tengono in vita.

L’anima di Fred non trova posto nel Paradiso.

92

Chi lasciò gli scarti autunnali non pensò al passato.
Rimasero i posters di Georges Mathieu e Guernica.

Clara portò via i golden books col pickup
dimenticando Les fleurs du mal.

-Andiamo in giardino a gustare i sorbetti-
disse il turista venuto da Nashville.

Non bastavano le corde
a ridare suono al sestetto newyorkese.

Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet.

L’ingresso alla Casa dei Doganieri
era senza le Guardie del Corpo.

Un’aria fredda si fermò sulla pelle dei muri
dove Banksy aveva lasciato la figura di un orsetto.

Lilly cantava la canzone dei vent’anni
nel gelo di dicembre.

Due mesi, soltanto due mesi,
e poi chiuderò con le primroses.

La bufera portò via
il capannone dei circensi.

La donna cilena si era fatto un tesoro
portando i cani nel giardinetto.

Ritrovammo la carta nautica
senza l’isola di Crusoe.

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Marie Laure Colasson, Tre poesie dalla raccolta inedita Les choses de la vie, Commento di Giorgio Linguaglossa, Lo spostamento linguistico, la metafora, fa senso, produce senso, Un Appunto di Edith Dzieduszycka

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage, Notturno, 30×30, 2010

Giorgio Linguaglossa

Lo spostamento linguistico, la metafora, fa senso, produce senso

 

Riguardo al lavoro sulla somiglianza e sulla sostituzione di una parola con un’altra, come avviene nella poesia della NOE – in particolare nella poesia di Francesco Paolo Intini e in quella di Marie Laure Colasson – dobbiamo fare alcune considerazioni  preliminari sulla natura della metafora per una adeguata valutazione della portata dello spostamento linguistico che caratterizza la procedura di sostituzione delle tessere frastiche.

Occorre sottolineare non soltanto l’aspetto della deviazione linguistica che si ha nella metafora ma anche l’aspetto della innovazione introdotta nel linguaggio. L’innovazione semantica è il prodotto della deviazione lessicale. L’aspetto fondante è dunque l’innovazione semantica, lo spostamento semantico che opera nel funzionamento interno della proposizione come operazione predicativa, grazie alla quale una nuova congruità linguistica è costituita in modo tale che la frase di per sé «produce senso» [makes sense]. Il creatore [maker] di metafore è un artigiano dotato di abilità verbali e immaginative, colui che da una frase insignificante ad un’interpretazione letterale traccia una frase significante per una nuova interpretazione che merita di essere chiamata metaforica perché genera la metafora non soltanto in quanto deviante rispetto alla normale significazione ma in quanto funzionale ad una nuova significazione.

In altre parole, il significato metaforico non risiede soltanto in un contrasto semantico ma anche in un nuovo significato predicativo che emerge dalle rovine del senso letterale, ovvero, dalle rovine del significato. È la rovina del senso, in poesia, che «fa senso», è dalla rovina del significato che sorge un altro significato. La poesia si nutre, vampirescamente, delle rovine del senso e del significato. È questa la sua più profonda natura e il suo telos. Il linguaggio poetico a differenza del linguaggio descrittivo relazionale incide il linguaggio e il reale, non si limita ad indicarlo. Questa incisione è un atto di depotenziamento delle funzioni referenziali del linguaggio e, al contempo, un potenziamento del dispositivo depotenziante. Non si tratta di un gioco di parole, tramite la metafora non si ha impiego del linguaggio, ma è il linguaggio ad esser «piegato» alle esigenze del «senso» [Sinn], piuttosto che a quelle del significato (Bedeutung]; si tratta di una complessa strategia che implica  una sospensione della referenza ordinaria legata al linguaggio descrittivo. La funzione della sospensione o epoché della referenza  ordinaria è la prova migliore sulla validità ontologica del discorso poetico.

C’è una figura che Aristotele chiama metafora per analogia, ovvero la metafora proporzionale: A sta a B come C sta a D. La spada sta ad Ares come lo scudo sta a Dioniso. Quindi possiamo dire: lo scudo di Ares come la spada di Dioniso. Abbiamo qui un permutazione dei termini propri tra due proposizioni. Si introduce una innovazione linguistica mediante un atto di ostensione del linguaggio, che è un lasciar vedere le cose. Le cose vengono alla visibilità tramite la metafora, che è un meccanismo immaginativo che porta le parole alla visibilità della visione. E questa è, propriamente, la proprietà produttiva-innovativa della metafora. Possiamo affermare quindi che ogni nuovo avvicinamento di elementi linguistici lontani semanticamente suscita l’opposizione di tutte le categorizzazioni pregresse che tenderanno ad opporre una resistenza alla innovazione.1

La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma. Una soluzione, certo, enigmatica, per cui le cose lontane sono date per vicine. È qui, nella mutazione caratteristica dell’innovazione semantica, che la somiglianza e quindi l’immaginazione giocano un ruolo decisivo. Ruolo che non può che essere frainteso fintantoché si ha in mente la teoria humiana dell’immagine come impressione debole, ovvero, come un residuo percettivo. Non è compresa meglio la natura della metafora se ci si sposta su un’altra tradizione,  quella secondo la quale l’immaginazione può essere ridotta all’alternanza fra due modalità di associazione, o per contiguità o per somiglianza, come invece è stato assunto da importanti teorici, tra tutti, Jakobson, secondo il quale il processo metaforico è opposto al processo metonimico nello stesso modo in cui la sostituzione di un segno a un altro all’interno di una serie di somiglianze è opposta alla concatenazione fra segni lungo una serie di contiguità. Ciò che dev’essere sottolineato è il modo di funzionamento della somiglianza e della dissimiglianza e quindi dell’immaginazione che sono fattori immanenti, ovvero non estrinseci, al processo predicativo stesso. In altre parole, il lavoro della somiglianza dev’essere appropriato e omogeneo alla deviazione, alla bizzarria e all’impertinenza dell’innovazione semantica. Il problema decisivo è il passaggio dall’incongruenza letterale alla congruenza metaforica fra due aree semantiche diverse e lontane. È come se un mutamento a distanza fra significati accadesse all’interno di una scacchiera dove i giocatori spostano i singoli scacchi. La nuova pertinenza o congruenza propria di una frase metaforica significativa procede dal tipo di prossimità semantica che improvvisamente si ottiene fra termini lontani nonostante, anzi, grazie alla loro distanza. Cose o idee che erano lontane, appaiono ora prossime tramite la congruenza metaforica.

La metafora è una proprietà del linguaggio, una sorta di collante che unisce punti anche distantissimi del linguistico, un meccanismo tipo entanglement o parallasse che presiede alla composizione, al dispiegamento e al funzionamento di ogni lingua umana. Il transfer di significato, non è nient’altro che questo movimento o questo spostamento nella distanza logica, dal lontano al vicino. E questo è il motore proprio di ogni lingua, che consente il rinnovamento della significazione e del linguaggio tramite l’apporto costruente dell’immaginazione. Il transfer di significato, non è nient’altro che questo duplice movimento o questo spostamento nella distanza dei significati, dal lontano al vicino, e dal vicino al lontano.

I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti

Nei versi citati di Marie Laure Colasson abbiamo un esempio significativo di transfer di significato: i «paleontologi» diventano «spogliarelliste» e «pianeti» vengono invasi da «perle». Sarebbe pelonastico andare a cercare in questi versi il significato consolidato  e condiviso dalla comunità dei parlanti, della connessione ad un referente, insomma, ricercare in essi un significato consolidato e condiviso, qui il piano del referente è stato depotenziato e messo in sordina, in secondo piano; viene invece in primo piano il «gioco gratuito» eppur serissimo del linguaggio che procede verso la nuova linguisticità per il tramite del depotenziamento, dell’epoché del linguaggio che si esplica in bizzarrie, deviazioni, permutazioni, scarti, estraneazioni che operano nuove congruenze linguistiche dove viene ad evidenza il ruolo dell’immaginario e del simbolico nel linguaggio.

La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico», un «polittico dismetrico», un «polittico distopico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici,  disarticolazioni e disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo, di ribaltamenti temporali e spaziali, di sovrapposizioni. In questo genere di procedura poetica il testo cessa di essere quella cosa che il critico può solo indagare per consegnarlo, intatto e intonso alla tradizione, esso è piuttosto il «gesto» che, nel testo, esibisce se stesso, la propria gestualità gratuita la quale tradisce un gigantesco gap di memoria. Il «gesto» in realtà dissimula un sottostante difetto di parola. È per il tramite della procedura metaforica che viene alla piena visibilità la solitudine delle parole; strette, costipate a miliardi di miliardi nei campi di concentramento dell’etere del mondo cibernetico amministrato.

Il «polittico» reca con sé i segni della rovina del tempo, della rovina del senso e del significato. Forse, tra cento anni, sopravviverà di essi il loro mero involucro formale, uno scheletro di segni divelti da ogni significato. E questo sarà già tanto.

La vita che ha dimenticato la vita, le parole che hanno dimenticato le parole sono al centro del dispositivo poetico della Colasson. «La vie […] c’est ce qui est capable d’erreur […] La vie aboutit avec l’homme à un vivant qui ne se trouve jamais tout à fait à sa place, à un vivant qui est voué à “errer” et à “se tromper”», ha scritto Foucoault. La poetessa francese riprende da qui, dal vivente-parlante che non si trova mai al suo posto, condannato ad essere sempre fuori luogo, ad errare. Infatti, i personaggi delle poesie della Colasson sono sempre fuori posto, provengono da un altro luogo e si trovano, all’improvviso, deiettati in un luogo del tutto sconosciuto e condannati ad errare.

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

I personaggi avatar che intervengono nelle poesie colassoniane non  hanno più a che fare con le questioni classiche della verità, della soggettività e del fondamento ma con quelle dell’errore e dell’erranza, della finzione e del simulacro, della copia e del manichino. Personaggi-account, personaggi-avatar che costituiscono il modo d’essere più proprio dell’uomo nel mondo contemporaneo.

 

1 Cfr. Paul Ricoeur

https://www.academia.edu/12110000/Tropi_del_pensiero._Retorica_e_filosofia_XVII_2015_I_?email_work_card=view-paper p. 98 «L’assimilazione predicativa coinvolge in tal modo un tipo specifico di tensione, che non è tanto fra un soggetto e un predicato quanto fra incongruenza e congruenza semantica. La visione della somiglianza è la percezione del conflitto fra l’incompatibilità precedente e la nuova compatibilità.La “lontananza” è conservata nella “prossimità”. Vedere il simile significa vedere il medesimo nonostante e mediante il differente. Questa tensione fra identità e differenza caratterizza la struttura logica della somiglianza. L’immaginazione,quindi, è questa abilità di produrre nuovi generi mediante assimilazione e di produrle non al di sopra delle differenze, come nel concetto, ma nonostante e attraverso le differenze. L’immaginazione è questa tappa nella produzione dei generi in cui un’affinità generica non ha raggiunto il livello di ordine e quiete concettuale, ma resta catturata nella guerra fra distanza e prossimità, fra lontananza e vicinanza. In questo senso, possiamo parlare con Gadamer di un fondamento metaforico del pensiero, nella misura in cui la figura del discorso, che chiamiamo “metafora”, ci permette di scorgere il processo generale attraverso il quale produciamo concetti. Perciò nel processo metaforico il movimento verso il genere è arrestato dalla resistenza della differenza e, per così dire, intercettato dalla figura retorica.»

Marie Laure Colasson esistenzialista 2020

[Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari. (Kommerel)]

 Un Appunto di Edith Dzieduszycka

Penso che la poesia di Marie Laure Colasson sia entrata a pieno titolo nella ormai tradizione della Nuova Ontologia Estetica – e capisco che Giorgio si sia interessato sia all’una che all’altra! – Anzi, Marie Laure è quasi l’anticipatrice di questo frammentismo, dato che scrive in questo modo da più di tre decenni, sempre in francese, successivamente tradotto in italiano. Forse un bel giorno scatterà la scintilla, e scriverà come me, direttamente in italiano. Ma non ci credo tanto, è profondamente attaccata alla sua lingua.

Direi che la sua poesia le assomiglia: imprevedibile, colorita, chatoyante, leggera, danzante, scorre in tanti rivoli e strade sorprendenti, e non c’è da stupirsi, conoscendo la sua professione di ballerina e il suo talento artistico (fotografia e collage). Non abborda un tema che subito se ne discosta, una piroetta, un entrechat, lasciando sconcertato il lettore sull’orlo d’un’evidenza, d’una sorpresa, di un bandolo da riafferrare. Il suo mondo è popolato da personaggi numerosi e variegati, appartenente alla letteratura, alla mitologia, alla cronaca, al suo entourage e ai suoi affetti. Li trasporta tutti nella ronda saltellante dei suoi pensieri sempre vigilanti e in allerta.

Bello il verso che piace a Gino Rago:

…il metronomo ritma la polvere della realtà…

e che vorrebbe come titolo della raccolta. Ma penso invece che Les choses de la vie, titolo primordiale basato appunto sulle cose e sui fatti, evidenti e visibili, confrontati ai pensieri nascosti découlant da quelle cose e da quei fatti o luoghi o incontri o reminiscenze, sia quello giusto e corrisponda alle intenzioni di Marie Laure Colasson.

(7 febbraio 2020)

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage, Notturno, 30×30, 2010

Marie Laure Colasson

Tre mie poesie dalla raccolta inedita Les choses de la vie

Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea.

25.

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant

En flottant reviennent

Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven

Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères

Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses

Les perles se propagent sur les planètes
Astrocinématographique confusionnel

Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha

Eglantine défait sa robe aigue-marine

*

Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo

Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando

Galleggiando tornano

Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven

Tasti di pianoforte ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie

Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale

Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha

Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina

*

26.

Eredia trouve dans son sac crocodile une chaise
recherche du DNA

Larbi entre dans les parenthèses
présence du vide

Ciseaux et couteaux à l’horizon
un mocassin met son profil sur facebook

Mac Cormack ferme les interstices
tactique stratégie sans bureaucratie

Un nez regarde la chaise
un pied bat un rythme infernal

Les objets dansent avec frénésie
les condamnés réclament le silence

Orgie grotesque
vols planés de chaises ciseaux couteaux mocassins

Larbi s’assied dans le vide

*

Eredia trova nella sua borsetta coccodrillo una sedia
ricerca del DNA

Larbi entra nelle parentesi
presenza del vuoto

Forbici e coltelli all’orizzonte
un mocassino mette il suo profilo su facebook

Mac Cormack chiude gli interstizi
tattica strategia senza burocrazia

Un naso guarda la sedia
un piede batte un ritmo infernale

Gli oggetti ballano freneticamente
i condannati reclamano il silenzio

Orgia grottesca
voli planati di sedie forbici coltelli mocassini

Larbi si siede nel vuoto

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Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate

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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico, 2010

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

LUMACHE VS LUCCIOLE

Ampere in libertà
maniaci per le strade.

Al fulmine segue
Un calcolo tra catodo e anodo.

La chiocciola è fuori guscio.
Scivola il Sole sul muco

Uomini con la mascherina trattengono il fiato
non c’è mai stata più poesia di ora,

e in effetti al coro di antenne
segue un sussulto di Terra.

Il commercio di sillabe fu implacabile
Un saliscendi nella spiana di Cheope

una farfalla al prezzo di cento Nobel
in fondo si trattava dello stesso DNA

E non si poteva aspettare che spuntassero mammiferi
Da una marmitta catalitica

Nacque la Fontana e fu chiaro
Lo stimolo di scrivere alla vescica

La vite scrisse tralci sui muri
Inneggiando a Marx- Engels

Trovammo il dirigibile appollaiato sul camino
Il nostro salvadanaio tintinnò minestra

Per un po’ ci si era calmati perché avevamo
La medicina contro la peste

E dunque si trattava di prendere fiato.
Per colazione ceci e bucce di patate.

Non era molto stretto l’interno di calcare
Doveva bruciare idrogeno sulle nostre teste.

Tutto un susseguirsi di levatrici
per un aborto spontaneo.

Non è uno scherzo avere il 1848 a portata di mano
E lasciarlo scorrere come un granello di rosario

Venimmo a guardare il 2048
Putti di Leonardo nel Verrocchio.

una neve di polistirolo ghiacciava i paesaggi
Il tempo germogliava volti di pomodoro.

Ci arrestarono perché avevamo mani di bambini
al posto dei crani e rosette nelle unghie

la fisica, la chimica uscirono dai libri
e furono messi a contare sillabe di viti.

Nessun tralcio doveva eccedere i dieci viticci
Il corrispettivo dell’ ossigeno nei polmoni.

Anche la luna non doveva esagerare con la gravità
Un giro nel cortile e di notte in cella.

Per quante ce ne sarebbero state
Fu prevista una dose di neon.

Nelle stazioni cani lupo strappavano il culo
A chi si attardava a salire sui treni per il 2020.

Il raccordo pulsa senza articolare una sillaba
E di molto le sopravanza nel bisogno.

Affacciarsi ai finestrini e nella grave
Le dita del ghiacciaio.

La vita appartenne ai motori,
i Watts alla digestione.

Quando si tratterà di esistere giungerà un fascio di luce
Un rapido susseguirsi di pallottole sull’olfatto.

Gli occhi spuntano dai guard rail.
Pesci sulla cima della Sfinge.

Arrivò l’ amore delle Assicurazioni.
Esponemmo i crocifissi per essere guardati.

Piccoli bruchi sul filo spinato.

Dai numeri estrapolarono i teschi
Sbattevano i denti. Forse parlavano i fari.


D’altronde le auto non chiedono al sorpasso
Di azionare un tir.

la catalisi mischia il sangue. La farfalla
governa i passi di una prostituta.

Giorgio Linguaglossa

“Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.”
“la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento.”
“L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.”
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.”

Caro Francesco Paolo Intini,

Questi aforismi di Adorno, tratti da Minima moralia del 1951 sono il miglior commento che io possa fare alla tua poesia. Ai quali ci aggiungerei quest’altro di mia produzione: «Le parole hanno dimenticato le parole».

*

«Ciò che resta lo fondano i poeti» (Hölderlin)

E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate…

Acutamente Ewa Tagher afferma che le sue poesie «sono errori di manifattura», errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili… Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le cose combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non siamo noi i responsabili.

Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del polittico» è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici, disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo.

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Marina Petrillo

Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.

A baldanza si insinua l’ultimo detto
presago di silenzio.
Non devia del corso suo il canto.

Procede ad orma infrante duttile
all’imminente commiato dall’esistere.

Invisibile alla nullità imperante
naufraga in altra dimensione

senza porre diaframma tra il Sé
e il congiunto suo riflesso.

Attende in sospinto moto l’impresso
lascito e annulla ogni presenza.

Varca il pendio in periplo costante
sino a smarrire l’orientato senso .

Alcun filosofo attende
poiché Poesia attarda in fiacca veste.

Del non smisurato Verbo, Musa.

*

Tutti i mondi si completano a vicenda.
Il raggio divino scende nelle coscienze ad illuminare
le vette dello Spirito.

Siamo nell’assente dormiveglia sino
a quando, toccati dalla tragedia,
non cediamo campo all’invisibile assenso.

Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce
la costola dell’Assoluto Presente. Inquietudine volge
al paradosso e ogni gesto torna a lenta consapevolezza.

Si può morire nell’istante. Si muore all’istante agognato
poiché inesistente. In nullità si procede, buio nel buio,
per giungere all’assoluto.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». La deposizione della potenza destituente del «mondo amministrato» è una via obbligata per una poiesis critica.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.

Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«l’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

Giorgio Linguaglossa

sul concetto di parallasse

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

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Cesare Viviani, Ora tocca all’imperfetto, Einaudi, 2019 pp. 130 € 11.00, Commento di Giorgio Linguaglossa, Il frammento si fa negozio e negazione della totalità

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage 2016

Giorgio Linguaglossa

il frammento si fa negozio e negazione della totalità

«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».

(T.W. Adorno, Minima moralia)

 Che un oggetto si lasci raffigurare in una rappresentazione priva di fratture è una supposizione della petizione dell’identità. La petizione di una continuità rotonda e conchiusa dell’oggetto, con tanto di armonia protesa verso l’infinito, è una idea vaga e indistinta che aggiunge vaghezza all’oggetto e genericità al soggetto. Ecco perché la parte più considerevole dell’arte di oggi e della nuova poesia in particolare si presenta nella veste del frammento, in quanto la petizione di principio di una rappresentazione rotonda e conclusa dimentica la natura opaca del soggetto e dell’oggetto. Ecco che a partire da un rilievo puramente formale, l’ideale della rappresentazione di un contenuto, siamo giunti ad un dato contenutistico che costituisce al tempo stesso il suo telos nascosto: essere la nemesi della falsa coscienza dell’idea di una rotondità dell’espressione artistica. Quelle intermittenze, quelle interferenze, quelle discontinuità, quei disallineamenti frastici quei disallineamenti temporali e spaziali del narratum sono invece il luogo proprio della poiesis. Il  proprium della scrittura poetica non è quindi un ininterrotto monologo del soggetto ma richiede delle pause, il «riprender fiato», come diceva Benjamin, le interferenze, i rumori di fondo. Gli interstizi della scrittura poetica sono dunque come le pause musicali, ben più che vuoto e morto silenzio: sono pregne di «senso», momenti del suo tessuto stilistico, della sua procedura. Caratteristica del frammento è proprio quella di non partire da zero ma di iniziare sempre di nuovo in medias res e di non puntare all’esaustività di una espressione rotonda e conchiusa.

 Della chiusura dell’oggetto non può decidere il pensiero, anzi. L’oggetto appare chiuso proprio in grazia delle sue «zone d’ombra», proprio in quanto non trapassa totalmente nella poiesis.

 Se  la filosofia è la coscienza di questo inconscio, come afferma Adorno, la poesia è l’inconscio della coscienza, il substrato soggiacente nella cultura che si è positivizzata. Come il contenuto del pensiero anti-sistematico non può che esprimersi in forma frammentaria, così il frammento ha la propria ragion d’essere nell’espressione di questo contenuto critico.

 Il frammento non è mera mimesi impotente della disgregazione del reale, della morte che si frapporrebbe ad una conciliazione con il reale, esso è espressione di ciò che ancora vive in e attraverso tale disgregazione, cioè dell’unica modalità nella quale è possibile parlare di vita senza trasformarla in ideologia.

 Il pensiero filosofico moderno  che si esprime nella forma del frammento si trova per Adorno in rapporto riflesso, negativo, critico rispetto al sistema del «mondo amministrato». Dal lato della forma il frammento filosofico prende di mira l’idea di totalità. Adorno dimostra non solo la  falsità della pretesa del pensiero di volgersi positivamente alla totalità ma, al tempo stesso, anche la necessità che spinge il pensiero inconsapevolmente verso di essa. È nel dissolvimento di questa necessità e non nel suo semplice – quanto illusorio – rifiuto che il sistema viene effettivamente «superato» (aufgehoben) e si realizza quella  Logik des Zerfalls (logica della disgregazione) che rende necessario al pensiero di assumere la forma del frammento. Quello di Adorno vuole essere, come è detto in  Dialettica negativa, un anti-sistema che si oppone cioè tanto al pensiero sistematico quanto a quello semplicemente a-sistematico. Rispetto alla forma, un pensiero anti-sistematico si oppone all’idea di una sistematica esposizione del suo oggetto. Esso riconosce nell’idea di una continua ed ininterrotta argomentazione anzitutto una esigenza di sicurezza soggettiva. Ma che l’horror vacui del sistema sia un presupposto necessario e indispensabile della comprensibilità di un asserto filosofico è, per Adorno, tutto da dimostrare. «Testi, che tentano apprensivamente di indicare senza interruzioni ogni passaggio,cadono perciò anche immancabilmente nella banalità e nella noia, che affetta non solo la concentrazione della lettura ma anche la loro stessa sostanza».1

Adorno punta ad una contraddizione latente dell’idea di sistema. Un testo, infatti, in cui ogni passaggio concettuale venga oggettivato, una totalità in cui lo sviluppo dell’argomentazione fosse fissata in modo rigoroso, renderebbe superfluo il pensiero.

Nell’ideale del suo pieno dispiegamento il mondo globale mostra che ciò che sembra appartenere alla mera «tecnica» spinge verso l’esautorazione del pensiero. Allo stesso tempo, tuttavia, l’esigenza sistematica muove verso la dissoluzione dell’oggetto, della sua natura opaca e altra rispetto al pensiero.

 Il sistema filosofico e l’idealismo in particolare, si costituiscono storicamente, per Adorno, come corrispettivo nella sfera del pensiero di un movimento di integrazione totalitaria degli individui che si impone con la società moderna. Ad esso corrisponde da un lato una forma di oggettivazione, cioè autoestraneazione, del pensiero e dall’altro una mutilazione dell’esperienza che volatilizza l’oggetto nel soggetto: in questa processualità ad agire è la struttura oggettiva, il sistema della ratio strumentale, il quale fa le veci del soggetto e dell’oggetto, sostituendosi ad essi  e mascherando la loro dissoluzione reale. La costituzionale discontinuità in cui si muove il frammento nella poesia e nel romanzo più evoluto oggi è il sintomo delle profonde fratture che attraversano longitudinalmente il reale.

 «La decostruzione [ Demontage] dei sistemi e del sistema non è un atto gnoseologico-formale»,2. Il pensiero che sceglie la forma aperta e priva di potere del frammento è animato, dice Adorno, dalla denuncia del dominio sulla natura e sugli uomini. È soltanto in rapporto a questa denuncia che il termine «negazione» assume un significato contiguo a quello di «negozio», che dunque è possibile comprendere in che senso il frammento si fa negozio e negazione della totalità. Negativo è sintomo di critica, critica di un  positivo  secondo il concetto hegeliano della bestimmte Negation. Critico è il pensiero che si esercita in un «dopo», in seconda battuta, contro qualcosa che già accade, interviene come momento reattivo nei confronti di un reale che si è solidificato. Il negativo è espressione di un negozio nei confronti di ciò che è oppresso e rimosso, schiacciato e negato dal dominio.

 Cesare Viviani parte dal principio che il reale si dà nella forma ipoveritativa e non è rappresentabile se non nella forma di frammento, ma in lui il frammento è a monte dell’opera che verrà, non è un risultato ma una petitio principii. Già prima di nascere la poesia del terzo periodo di Viviani viene alla luce nella forma di frammento pieno di fermento. Per questo motivo la causa agente della sua poiesis è il dubbio programmatico, lo scetticismo che tutto aggredisce come una ruggine il metallo, il dubbio che il tutto non sia in quel che appare e che anche la migliore poesia è un epifenomeno del nulla. La sua poiesis afferma perentoriamente: «ingannare il tempo». E di qui prosegue la sua corsa a dirotto tra le stazioni del nulla (parola che inutilmente cercherete nella sua opera), cioè l’indicibile e l’impensabile. Ecco perché la veste formale di questa poiesis è l’aforisma e il pensiero «imperfetto», per amore dell’onestà intellettuale verso quella cosa, la poesia, che, come recita il titolo di uno dei suoi libri di riflessione di poetica: «la poesia è finita», che, esattamente non è un enunciato negativo, perché nel pensiero di Viviani la poesia può anche finire, può assentarsi per anni o per decenni, per poi magari, all’improvviso, ripresentarsi senza alcuna ragione apparente con una nuova veste formale ed espressiva, senza che fosse stata richiesta o cercata.

 La poesia per Viviani non è un «falso» né un «vero», né un «positivo» o un «negativo», è semplicemente l’evento di un assentarsi dai luoghi frequentati dalle parole scostumate del nostro tempo. Lo scetticismo ipoveritativo della poiesis di Viviani dà luogo a una poesia che fa della imperfezione e della provvisorietà il proprio punto di forza, capovolgendo in tal modo la propria debolezza in forza. Parrebbe che la logica della disgregazione del mondo amministrato sia giunta a tal punto di profondità da non lasciare alla poiesis alcuna chance di ripresa. Il frammentismo trascendentale di Viviani si nutre proprio di quella disgregazione (Logik des Zerfalls) del mondo divenuto globale, ne è ad un tempo, riflesso e prodotto, «mosaico dorato» che è «fuori dalla natura». Quel dubbio e quello scetticismo radicale giunge, alla fin fine, a ristabilire un qualche valore alla poiesis, anche se in modo transitorio e periclitante. Un dispositivo destituente sembra in opera in questo tipo di scrittura, un abbassare il livello comunicazionale per adire un sublivello, una subcomunicazione. La cultura che si è positivizzata dà luogo all’anti positivo dell’arte, sembrerebbe questa la conclusione cui è giunto Cesare Viviani. Quindi, il non-chiudere è per definizione l’ultima possibilità che resta alla poiesis. L’ultima chance.

1 Th. W. Adorno,  Minima moralia, cit., p. 90

 2 Th. W. Adorno,  Negative Dialektik, cit., tra dita. Dialettica negativa, Einaudi, p. 32

da Ora tocca all’imperfetto, Einaudi, 2019

Quelle riproduzioni
che sembrano ritratti di familiari e di amici,
invece che marionette e bambolotti
quali sono.
Sculture o quadri sono la stessa cosa.
Accompagnano le ore vuote
del pomeriggio.
Creati per dire cose
che non riescono a dire, richiedono
una preparazione
per accoglierli come si deve.
Si resta confusi nell’incertezza
tra questo e quel mondo,
si posa lo sguardo
sul fondo verde
punteggiato di grumi rossi:
le pendici di un monte
o campi coltivati.

*
Oh la distanza che c’è tra la regina
e il combattente che si inerpica
per le valli alpine ad affermare
non si sa quale causa.
Fu una questione estetica che mosse
la guerra: qualcuno, molto in alto, disse
che la carta geografica del territorio
così stava male, andava completata,
era come se mancasse un pezzo
dell’arco alpino.

*

Baciare la mano, inchinarsi
di fronte al boss,
lo facciamo tutti, ma in privato,
in segreto,
in piazza procediamo dritti
senza salutare.

*

Fu una voragine la bontà
e noi precipitammo
e niente riusciva a fermarci,
né uno scatto d’ira,
né uno sprazzo di verità.

*

Il segreto che tutti sanno:
dietro ogni cosa che vediamo
ce ne sta una invisibile
che la sostiene.
Dietro questo mondo
ce ne sta uno invisibile
che lo sostiene.

*

Se ci cadesse addosso il cielo,
che bella morte!
*

Dicono: è mancato, è scomparso,
ma no, è diventato tempo,
quel tempo che ci circonda,
ci tocca, ci assilla,
ci seduce,
ci corteggia ogni giorno,
finché non cediamo.

*

Per ingannare il tempo
si fa di tutto,
anche scrivere un romanzo
o le poesie.

*

Le parole vanno a finire a contatto
col corpo di chi ascolta
e smettono di uscire quando toccano
il corpo di chi ascolta. Signore,
proteggi le parole e il corpo
dell’ascoltatore.

viviani volto

Cesare Viviani

Cesare Viviani è nato nel 1947 a Siena, dove studia al Liceo Classico “Piccolomini”, e poi si laurea in Giurisprudenza nel 1971 con una tesi sul ‘plagio’ (la soggezione psichica totale) in Medicina Legale. Dell’ambiente letterario, durante gli anni senesi, conosce Carlo Betocchi, Mario Luzi e Franco Fortini che insegnava all’Università di Siena. Nel 1972 si trasferisce a Milano dove svolge il lavoro di giornalista e poi di psicologo nelle istituzioni sanitarie pubbliche. Nel 1973 si afferma come poeta con il libro di esordio L’ostrabismo cara, edito da Feltrinelli. Nel 1984 si laurea in Psicopedagogia. Collabora per anni con recensioni e interventi di argomento psicologico e sociale ai quotidiani “Il Giorno”, “Corriere della Sera” e “Avvenire”. Nel 1978 e 1979 organizza a Milano, con Tomaso Kemeny, due convegni sulla poesia italiana degli anni Settanta. Dal 1981 rivolge i suoi interessi di ricerca e di lavoro alla psicanalisi. Tuttora lavora come psicanalista. Dopo il 1973 ha pubblicato diversi libri di poesia. Ha scritto due saggi psicanalitici: Il sogno dell’interpretazione, (Costa & Nolan, 1989, 1991, 2006) e L’autonomia della psicanalisi, (Costa & Nolan, 2008).

  • L’ostrabismo cara, Feltrinelli, Milano 1973
  • Piumana, Guanda, Milano 1977
  • L’amore delle parti, Mondadori, Milano 1981
  • Summulae (1966-1972), Scheiwiller, Milano 1983
  • Merisi, Mondadori, Milano 1986
  • Preghiera del nome, Mondadori, Milano 1990
  • L’opera lasciata sola, Mondadori, Milano 1993
  • Cori non io (1975-1977), Crocetti, Milano 1994
  • Una comunità degli animi, Mondadori, Milano 1997
  • Silenzio dell’universo, Einaudi, Torino 2000
  • Passanti, Mondadori, Milano 2002
  • La forma della vita, Einaudi, Torino 2005
  • Credere all’invisibile, Einaudi, Torino 2009
  • Infinita fine, Einaudi, Torino 2012
  • Osare dire, Einaudi, Torino, 2016
  • Ora tocca all’imperfetto, Einaudi, Torino, 2020
  • Poesie (1987-2002), Oscar Mondadori, Milano 2003 (antologia).

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Una poesia di Tomas Tranströmer, Poesie e Commenti di Carlo Livia, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Ethos significa soggiorno, Aufenthalt, luogo dell’abitare

Foto Armatura Knights templar

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Una poesia di Tomas Tranströmer

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:

«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare.

La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1

La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere compresi nella nostra più vera essenza.

Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.

1 M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in Segnavia, pp. 306-308

Francesco Paolo Intini

“Trasformare, transformer, forse Tranströmer.”

Che significa questo verso? Non c’è spiegazione migliore di quella tridimensionale riprodotta nell’articolo o forse ce ne possono essere mille altre. Le vie dell’interferire non conoscono limiti così come quelle delle onde. Attraversano mondi e si lasciano contagiare conservandone memoria, colore e natura.

La poesia diventa allora un ricettacolo di cose, avvenimenti senza data, scarti e rifiuti dove il senso è quello di un fiume che si avvita, scende lungo una dolina, scava e deposita contemporaneamente i suoi sali, le sue incongruenze, costruendo immagini, ologrammi, entanglement di mondi sconosciuti e tempi senza tempo, né leggi d’entropia o scambi di calore.

Che c’entra questo tipo di poesia con il resto in cattedra, dei fiumi sinfonici, esaustivi, messaggeri, dimostrativi, violentemente profanatori del silenzio?

Penso nulla e questo scava un fossato tra le esigenze del mercato che vuole la sopravvivenza della poesia affidata a canoni estetici fissati per l’eternità e una che intravede una crisi nell’interpretazione e comprensione del mondo come tendenza generalizzata all’automazione e dunque abbandono dei mezzi espressivi e delle libertà ad essi connesse.

“Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere compresi nella nostra più vera essenza. (G. Linguaglossa)

Andare oltre il principio di non contraddizione sembra allora la via maestra, una esigenza esplosiva tenuta a freno dalla forza forte nel nucleo della razionalità tecnologica che trasforma l’esistenza in gesti della Macchina infinita.

Se c’è una risposta alla domanda: quale poesia dopo la fine della metafisica? Credo che si nasconda nella formula E= mc2.
Qualche tempo fa scrivevo senza alcun riscontro:

Dopo l’ultimo verso
ancora mi commuove
E=mc2 (E uguale emme ci quadro)
che brucia me e ogni sole

(E= Poesia. Inedito 2017)

Che altro è possibile infatti oltre il muro della massa e dell’energia?
E’ un muro (con tanto di filo spinato), simile a “tutte le porte chiuse” di Tranströmer indicato da Giorgio Linguaglossa, che sta ad indicare un limite invalicabile del dire e dunque del significare, la chiusa di ogni possibile poesia semplicemente perché non hanno alcun significato oltre di esso, le nostre categorie.

Al suo interno la storia è gassificata ma non annullata, tanto che si può associare un moto, vederne i frammenti in movimento, azzardare la provenienza ed il contorno dell’intero senza darne assoluta certezza, entrando direttamente in contatto con il nucleo chimico, a tu per tu con l’essenza elementare delle cose, individuarne le combinazioni future.

A svolgere questo lavoro di scavo nel nulla è il pensiero, una lucciola che ha imparato dalle leggi del caso a sintetizzarsi l’abito di tungsteno necessario per sopportare il peso schiacciante del passato e volgerlo in energia luminosa che va dove va, obbedendo solo a sé stessa.

Poesia è questo illuminarsi del mondo dove il verso si mette in proprio, lampo tra catodo e anodo come nell’esperimento degli esperimenti tra sostanze che potrebbero accendersi e reagire, le più semplici nella direzione della futura complessità.

La stessa nella chiusa di G. Rago, probabilmente:

La nostra petizione di una nuova ontologia è quindi la petizione per una nuova polis, per nuove leggi, per nuovi cittadini” . Continua a leggere

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Francesco Paolo Intini, Frammenti d’intonaco, Inedito, Commento di Giorgio Linguaglossa, La questione della poiesis come positura di «significati», Verso una critica della economia poetica del segno

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«Trasformare, transformer, forse Tranströmer», verso di F.P. Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

Francesco Paolo Intini

Frammenti d’intonaco

Le insegne si misero in proprio
La distruzione impersonò vecchie stive

trovò la via di fuga su petroliere al largo.
Riempire le strade di merletti indistruttibili.

Andava salvaguardato l’onore del zigrino
Troppi avannotti guastavano il buon nome dell’ Adriatico.

La marea divenne una superpotenza.
L’atomica in mano a rocce senza scrupoli.

Il sussulto non fu solo sotto i piedi
S’incamminò sulla via Appia e venne crocifisso.

A senso rivoltato corrisposero semi di quercia.
D’ora in poi si sarebbe camminato verso l’anno mille.

Il periscopio incontrò sé stesso
Occupare il posto dell’occhio era stato frustrante.

L’obbligo di vedere non era pari
al diritto d’essere osservato.

Partimmo nel 2020 ma non giungemmo mai al 1989.
Scomparse le tracce di Spartacus e dunque soltanto ambra.

A Hiroshima un attacco di panico
si trasformò in neutroni.

Intravvedemmo pallottole indietreggiare
Riversarsi nelle mitraglie. Biglie nelle buche.

Fu un risalire ad Archimede
Un cercare di capire dove fosse il suo compasso.

Non è che i gigli siano da meno
Si sta davanti a polline di piombo.

Piegare a verso, farne conferenza
Ubbidire al morso del calendario.

L’ordine arrivò che stavamo in trincea
Il gelo scaldava le bisacce.

Piovve un meteorite.
Ci dirottarono su un ciliegio.

Ambra e dentro formiche
In lotta contro un T-rex.

Avemmo tette per il caldo.
Allo zero sopravvisse l’inverno.

Le epoche iniziano dalle fiamme.
Piegare un vetro, soffiarci dentro.

Non tutte le mani danno ordini alle dita
Alcune tentennano perché amano lo smalto.

A volte capita di sedersi accanto
ad uno che ha mani nelle labbra.

Qualcuno scrive la coscienza
un lettore le parole

Il polpo s’è fatto capire
sullo stesso piano ventosa e colpo di genio

l’arte fa sesso sporco, la serva
ci mette la parola buona

Capire le traiettorie, assimilarle a versi
Una costante di Boltzman per parola.

Deriverà l’esistenza da qualche parametro
Ne trovammo tracce in un punto.

Il rosso riempì due mani e scrisse su un muro.
Una possibilità al bianco di diventare tigre.

Perché la misura era colma e non valeva sporcarsi
Per costruire uffici, appendere lenzuola.

Il sottopasso: quanto si era combattuto per un pertugio!
Ora due occhi scrutavano, di topo combattivo, in attesa di istruzioni.

Trovarono i depositi sguarniti. Nessuna difesa per il corallo
Il porpora riprendeva a combattere. Polmoni secchi e neve arida.

Con questa bisognava sopravvivere alle rigidità.
Chi gridava alla vigliaccheria non aveva mai vissuto.

(Mario Lunetta e Agota Kristof)

Il ragazzo sa cosa deve fare, non c’è nulla da dire o da contrattare. I gesti sono automatici e dunque non occorre un dialogo e nemmeno molta attenzione, tanto che continua a parlare sul cell con la sua ragazza mentre innesta il bocchettone della pompa del gas sul serbatoio. Apro la portiera e lascio che un po’ del mio Lolli invada la piccola area della colonnina del metano. All’improvviso l’attenzione si focalizza su di me, su quel brano che parla di borghesia. Qualcuno dall’interno del cell ha ascoltato e fatto risvegliare l’attenzione del ragazzo. Ho la netta sensazione di trovarmi in un esperimento dove l’esistenza umana è o non è, a seconda dell’osservatore. L’aspetto interessante è che questo avvenga indirettamente, come si trattasse di un gioco di biglie messe in moto da un suono la cui origine è remota, come la luce di un microscopio.
Poco lontano una grossa civetta appollaiata su un palo dell’ illuminazione, non sa nulla di fisica, ma vola via non appena capisce di essere osservata. Chissà se ha provato la stessa mia sensazione e che pallettoni lo hanno colpito. Non poteva sentire le parole né vedere i miei gesti e l’auto procedeva senza alcun segno di distinzione tra le tante.

Era Stalingrado conquistata, l’esploso di radice in marsina.
Fuoco germogliato nelle ossa.

Un bivacco di cemento divenne aghi e gemme
brace con l’occhio bianco davanti alla vetrina di un negozio di scarpe.

Esponeva il grigio, l’azzurro rattoppava i suoi camosci
Le narrazioni, le astronomie, i razzi tornati indenni da Orione

Erano trasformati in Volga.
Brindisi col nemico seduto in una ruga di corteccia.

Gli avvenimenti trovarono il delitto al loro interno.
L’entrata trionfale di Von Paulus.

Farfalle sulle gru emulavano geometri comunali.
Nella spinta all’universo il lebbrosario della coscienza.

Si trattava di negare la fuga alla gabbia di ferro
E rendere arancio un geco.

L’alba colmò di chiodi la buca del sole.
Il cuore di un notaio pompò linfa nei plinti blu. Continua a leggere

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Ewa Tagher, polittico, Interferenza, Le mie poesie sono errori di manifattura, Commento di Giorgio Linguaglossa, L’Io non è più padrone in casa propria

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Ewa Tagher, trapezista presso il circo di Lubiana (occasionalmente si occupa anche di riassettare le gabbie dei leoni e dei dromedari). Spesso viene inviata dalla famiglia Dzjwiek, proprietaria del circo, alla ricerca di curiosità esotiche e fenomeni da baraccone.

Ewa Tagher
Intento poetico

ho raccolto residui di cuoio, di cui si è sbarazzato il mastro calzolaio dopo aver sapientemente realizzato un paio di mocassini. I pezzetti di pellame sono bizzarri da rielaborare, sfuggono a qualsivoglia volontà di dar loro una nuova forma: ognuno ha già caratteristiche proprie. Nessuno è simile o uguale all’altro. Perciò mi sono limitata a collezionarli e a provare a dar loro un’identità. Di certo vi è che nessuno di loro ha dignità di diventare calzatura: qualcuno è uno scarto di lavorazione, un altro è un tentativo venuto male, un altro ancora semplicemente un errore. Le mie poesie sono errori di manifattura.

Ewa Tagher Brigida Gullo dagherrotip

Ewa Tagher

Le mie poesie sono errori di manifattura

INTERFERENZA 1

“Campo 1 chiama Campo 2
… Campo 1 chiama Campo 2”

Anni a giocare a nascondino con i figli.
Sorry, l’indirizzo di posta non è più valido.

D. “Cosa ha provato nel momento della sua dipartita?”
R. “Qualche turbolenza. Poi un atterraggio perfetto.

“Campo 1 chiama Campo 2
Mi senti Campo 2?”

ANN. “Scambio una famiglia felice con un turacciolo di rosè”
fa eco Salmace, ancora avvinghiata a Ermafrodito.

“Qui Campo 2, ti sento forte e chiaro!”
una fetta d’anguria contro l’eclissi di sole.

Chi ha invertito i gemelli? Una ninfa, passata col rosso.
Non è un caso, che i biglietti in prima fila imparino subito a parlare.

“Pronto Campo 2, occorrono generi di prima necessità!”
La vicina si affaccia e accarezza la ringhiera. Poi fa visita al selciato.

D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?”
R. “ Lasciare sempre libere le vie di fuga”.

Il rumore di sottofondo somiglia alla facciata di Villa Chigi.
Sofonisba Anguissola imita spudoratamente la Abramovic.

“Qui Campo 1. Abbiamo solo merletti e altre oscenità. Arrangiatevi.”
“… dateci almeno uno spago per rifinire le cuciture del vascello fantasma!”

D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?
R. “Sono libere le vie di fuga?!”

N.B. Attenzione all’utilizzo di lampade a forfait.
L’abuso potrebbe ridurre l’importo calorico del film.

SCRIPT 1

PPP Angelo accasciato sulla tomba di Emelyn Story.
Totale di Mnemosine che reca in mano le istruzioni per la defunta.

Mn.“ Quando sarai giunta negli inferi, non accontentarti
di bere alla prima fonte, ma cerca l’acqua degli iniziati”.

SCENA 1. Interno giorno. Sala da pranzo apparecchiata.
CORREZIONE. Sala da pranzo con tavolo a tre gambe, spoglio.

E.Story: “Son figlio della Greve e del Cielo stellato,
di sete son riarso e mi sento morire: ma datemi presto
la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosine”.*

SCENA 2. NOTTE. Dai vicoli dietro la Basilica di Massenzio,
odore di cenere, effetto fumo, a tratti luci strobo.

Dalla regia fanno notare che l’ultimo piano sequenza
ha portato la produzione sull’orlo del fallimento.

Mn. (FUORI SCENA) “Sono stanca di questa pagliacciata,
datemi un copione sull’archeologia del domani.”

(APPLAUSI CLAQUE)

* iscrizione su lamina orfica di Hipponion (IV secolo a.C.)
Mn. = Mnemosine

Giorgio Linguaglossa
«L’Io non è più padrone in casa propria»
(Osip Mandel’stam)

Per chi l’abbia dimenticato, da questa frase di Osip Mandel’stam nasce negli anni Dieci l’acmeismo russo come reazione al «laboratorio di impagliatura» del simbolismo. Ecco, io penso che da questa frase di Ewa Tagher: «Le mie poesie sono errori di manifattura», nasce la nuova ontologia estetica come reazione al «laboratorio di impagliatura» della poesia italiana di oggi.
Errori di manifattura, errori di cucitura, pellami scuciti che il «maestro calzolaio» ricuce e riadatta alla «nuova calzatura» conferendole nuova «identità». Mi sembra che la «trapezista presso il circo di Lubiana» abbia compreso perfettamente qual sia oggi la posta in palio, qui c’è di mezzo il ribaltamento del tavolo di gioco su cui ha sonnecchiato la poesia italiana delle ultime decadi, il cambio di paradigma, una nuova fenomenologia estetica adatta ai nuovi tempi del sovranismo, del populismo e delle DemoKrature. In una parola: la nuova poesia che nasce dalle ceneri del modernismo europeo. La poesia di Ewa Tagher si popola di «oggetti bizzarri» che denotano «l’alterità intima del soggetto», la de-soggettivazione del soggetto e la de-oggettualizzazione dell’oggetto. «L’io non è più padrone in casa propria» ed ha deciso di uscire a prendere un po’ d’aria fresca e a passeggiare per le strade affollate di Lubiana. Continua a leggere

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Fabio Michieli, Dire, L’arcolaio, 2019, pp. 94 € 12.00, Lettura diacritica di Giorgio Linguaglossa, la cartografia della poesia italiana del Novecento secondo Giorgio Agamben, Critica alle categorie italiane di Gianfranco Contini, Si è dissolto il fondamento della «nuova poesia», Quale linguaggio dopo la fine della metafisica?

gIF MAN SMOKE

gli «oggetti», finiti chissà dove, chissà in quali cassetti di numismatici, espunti, messi fuori contesto…

 Giorgio Linguaglossa

La cartografia della poesia italiana del novecento

Riprendiamo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo sulla rivista lombradelleparole.wordpress.com  tra il 21 e il 29 dicembre 2016 sulla vexata quaestio de «La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini» e su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, perché, a nostro avviso, è qui che si concentrano, come in nuce, tutti i nodi e tutte le questioni (linguaggio, stile, canoni, modelli, generi poetici e sotto generi etc.) che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri.

Questa digressione era necessaria per poter inquadrare un libro come questo del veneziano Fabio Michieli, nato nel 1971, Dire, che si pone, – adopero le sue parole in calce al volume – come «un discorso su ciò che ci si lascia alle spalle e su ciò che ci si porta avanti, per proiettarlo nel futuro». Intento meritorio e coraggioso.

È ovvio che il dettato poetico di Michieli si inscrive nell’orbita di una poiesis che si situa nella categoria  continiana della «linea elegiaca dominante» del novecento, in direzione della sliricizzazione del dettato poetico e dell’abbassamento dei registri lessicale e semantico. Non è un caso che il titolo, Dire, pone al centro della poesis la questione del Logos, del linguaggio. Quale linguaggio percorrere tra i numerosissimi linguaggi dell’evo mediatico?, quale linguaggio dopo la fine della metafisica? La domanda heideggeriana risuona come un monito per quei poeti che si situano nell’ombra di questa problematica.

 Non c’è dubbio che Michieli si pone in linea di continuità con la poesia sereniana, come egli stesso afferma, ma è significativo che oggi da quella linea poetica sono scomparsi gli «oggetti», finiti chissà dove, chissà in quali cassetti di numismatici, espunti, messi fuori contesto dagli sviluppi della poesia di queste ultime decadi.  Un oggetto non solo dichiara l’identità di chi lo usa, ma contiene le tracce della storia delle relazioni umane di una comunità, richiama alla mente un insieme di significati legati ad una cultura, ad una determinata epoca storica e alla storia intima e personale di chi l’ha posseduto, alle geografie delle singole storie. L’oggetto è in questo senso una testimonianza di sé, della propria vita, della sfera del privato, della sfera pubblica, delle logiche d’uso e delle psicologie che ha intercettato. Le relazioni che un oggetto crea o trasforma ci permettono di affermare che attraverso di esso è possibile indicare un campo di significazioni. Tanto più utili quindi sono gli oggetti in un linguaggio poetico perché ne indicano la soglia di significazioni stratificate, primarie e secondarie.

E così accade che un autore delle nuove generazioni come Michieli si trovi tra le mani un linguaggio poetico privo di correlativi oggettivi e di oggetti correlati, il meritorio intento dell’autore si trova così a dover fare i conti con la situazione di oggettiva deprivazione di oggettualità, di prosaicizzazione, di disseminazione e porosità dei linguaggi poetici delle ultime decadi. Ecco una dichiarazioni di intenti di Fabio Michieli:

volevo un libro chiaro per noi due:
una pagina bianca – quasi pura

Il paradigma entro cui si inscrive il libro di Michieli è quello novecentesco che va da Saba a Penna passando per Gli strumenti umani di Sereni. Dopo Sereni è la «poesia degli oggetti» che si è esaurita ed è entrata in un buco nero di non significazione; incerta sul da farsi in ordine agli sviluppi del Dopo il Moderno e dopo la fine della metafisica, finita in «una pagina bianca – quasi pura». Michieli si ferma là dove si è fermata la poesia

italiana delle nuove generazioni, nel momento in cui sarebbe occorso prendere il largo da una certa narrazione della poesia italiana del secondo novecento. Lasciamo quindi la parola a Giorgio Agamben il quale ha riassunto con precisione la «cartografia» della poesia italiana del novecento.

Scrive Giorgio Agamben:

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1

Sono parole di Giorgio Agamben. «Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di oggi può considerarsi un errore di prospettiva, ma se invece rovesciamo il punto di vista del secondo novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana apparirà come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…».2

Si è dissolto il fondamento della «nuova poesia»

In una mia vecchia nota di lettura di circa 18 anni di un libro di un autore nato negli anni settanta che fa una poesia di scuola, come ce n’è a centinaia, scrivevo: l’autore è bravo, possiede le tecniche di base che ti consentono di adire un linguaggio poetico di accademia, una bravura del tutto telefonata, di chi è andato a scuola da pessimi maestri ed ha imparato la media medietà,  il fare poesia mediale.

Oggi, dopo l’interminabile foce epigonica degli anni ottanta e novanta del novecento, dopo la stagnazione economica, stilistica, politica e spirituale di questi anni pre-Zero, è sempre più chiaro a chi voglia vedere le cose senza gli occhiali ideologici del minimalismo, che l’epoca dello pseudo-simbolismo e dello pseudo minimalismo apparecchiato delle scritture epigoniche non ha nulla da dire di comunicabile alla comunità nazionale, nulla di significativo ai cittadini. Posta l’impossibilità, certo, oggi, di costruire uno stile simbolistico ovvero, post-simbolistico, per via della caduta a picco del fondale simbolico, per quella problematicità di porre il simbolico come «simbolico», e per via di quella confusione di porre l’equivalenza: l’immaginario=mito e mito=simbolico, quello che rimane possibile da fare è, per la nuova generazione, a memoria del futuro un linguaggio poetico che non poggi su alcuna stilizzazione e su alcuno zoccolo stilistico. Lo so, è paradossale e fortemente antinomico, ma così è. Lo zoccolo stilistico da solo non basta. Continua a leggere

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