
josif-brodskij: «La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo»
È il tempo la fonte del ritmo (Brodskij)
« Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…
Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.
Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?
Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.»*
*[L’intervista di Solomon Volkov a Iosif Brodskij “Marina Cvetaeva, Primavera 1980 – Autunno 1990″, è stata pubblicata nella traduzione di Gala Dobrynina da Lietocolle, nel 2016, pp. 400 € 20,00]
Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo
Il problema del «tempo» che dilata lo «spazio» è ben visibile nella poesia di Brodskij “Odisseo a Telemaco”, che è tutta costruita su questa immagine:
Eppure la strada che porta
a casa si è rivelata troppo lunga,
come se Poseidone, mentre là
cincischiavamo, dilatasse lo spazio
Il «tempo» che «entra» nella poesia e che modifica e determina la costruzione sintattica e la stessa costruzione fonologica della poesia è una grande invenzione della poesia europea, mai prima del 1972 un poeta europeo aveva immaginato questa possibilità, del «tempo» (interno della poesia) che detta le immagini e lo scorrimento delle immagini (che da esterne diventano interne al testo).
Nella poesia italiana del tardo novecento nessun poeta ha intuito questa possibilità, e si è continuato ad perorare un concetto del «tempo» come di un fattore «esterno», non come di un fattore «interno» della poesia. Il «tempo» è neutrale e naturale, non dipende dalla volontà del poeta, gli è estraneo, gli è indipendente, questa è la grande inventio del topos di Brodskij.
Nella intervista sopra citata, Brodskij affronta proprio questo aspetto: che cosa significa poeticamente il problema della «neutralità» del «tempo» della poesia di un Wistan Hugh Auden e di una Marina Cvetaeva?
Per semplificare, direi che qui si tocca un aspetto centrale della poesia del XX e del XXI secolo, un aspetto attuale, attualissimo.
Brodskij aveva compreso che nella poesia della Cvetaeva il «tempo» modifica la struttura sintattica proprio come la gravità modifica la struttura spazio-temporale. Il problema è la traduzione della poesia cvetaeviana, la più difficile da rendere in altre lingue. E qui faccio un profondo inchino alla capacità di Donata De Bartolomeo di aderire, direi quasi mimeticamente, al russo e di trasportare, nella sua traduzione, per quanto possibile, gli strati di tempo dalla lingua russa a quella italiana. Si tratta di un difficilissimo trasbordo. La sintassi così deformata modifica a sua volta l’apparato fonetico, il quale a sua volta reagisce modificando, di ritorno, il sistema sintattico. Chi capisce di poesia può comprendere quello che sto dicendo.
In Odisseo la perdita di tempo viene a coincidere per la prima volta nella storia europea con la perdita di memoria. Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo. La «voce» del poeta non si situa più all’esterno ma è una «voce» interna al testo, è la «voce» di chi ha preso ragione della perdita di memoria e il cui discorso sorge appunto in ragione di questa perdita, soltanto a questo punto è possibile attingere la «neutralità» della «voce».
Nella mia poesia “Odisseo a Telemaco” ho consentito al «tempo» di fare ingresso nella struttura sintattico-semantica della composizione, e mi sono posto, per così dire, in posizione di terzietà. Il «tempo» introduce sempre della modificazioni nella struttura sintattica di un testo poetico, anche in modo inconsapevole, perché agisce sua sponte.
Nella famosa poesia “Odisseo a Telemaco” Brodskij dà una magistrale esemplificazione di come si possa scrivere una poesia sull’ingresso del tempo nella struttura poetica proprio nel momento in cui il suo personaggio, Odisseo, è colpito dalla perdita della memoria.
Nel commento di Lacan al saggio La Negazione di Freud, viene messo in evidenza un concetto, la Verwerdung, tradotto con «forclusione». La psicanalisi lacaniana ci dice che la forclusione è il meccanismo specifico che struttura le psicosi, meccanismo che opera sul significante che permette l’articolazione del simbolico, e, forcludendolo, impedisce che la «cosa» acceda al simbolico, che la «cosa» accada e che, conseguentemente, ritorna nel Reale, meccanismo ben visibile nelle allucinazioni o nei deliri degli psicotici. Gli uomini si possono ritenere fortunati se non incontrano questa realizzazione totale del principio di piacere se non molto raramente, in una condizione analoga a quella degli ubriachi i quali sono persi infinitamente nella loro ebbrezza, nella dimensione col tempo, con lo spazio e con la memoria strettamente correlata al tempo; è proprio grazie a questa perdita totale ciò che può permetterci di immaginarci l’esperienza della Cosa. Infatti, nessuno può ricordare quello che veramente ha fatto in stato di ebbrezza totale, tutti gli uomini possono però ritornarci per il tramite di altre esperienze, per il tramite del ritorno.
Odisseo è l’uomo che, per primo, fa esperienza della perdita della memoria (un vero e proprio stato di ebbrezza) e, proprio grazie a questa esperienza di perdita, può attraversare il mondo alla ricerca di ciò che ha perduto. È il primo uomo dell’Occidente a dover fare i conti con questo aspetto tipico della psicosi. D’ora in avanti tutti gli uomini saranno segnati da un meccanismo psicotico che agisce all’interno della propria psiche. È un paradosso, ma è così che funzionerà la psiche degli uomini dell’Occidente, i quali grazie alla perdita della Cosa potranno accedere alle «cose», alla felicità consentita delle piccole «cose» del quotidiano. Così, Odisseo potrà fare ritorno nella piccola e brutta isoletta Itaca, presso la sua vecchia moglie Penelope, accanto al figlio che non ha mai più rivisto da quando era nella culla e che è diventato un adulto, un estraneo. È soltanto attraverso il dolore della «perdita» che Odisseo e l’uomo dell’Occidente che verrà, potranno trovare una soluzione conciliativa al proprio conflitto interiore. Nasce l’uomo dell’Occidente che acquisisce capacità rappresentative attraverso l’uso del linguaggio, ma si tratta di un linguaggio che nasce dalla perdita della memoria e dal ritorno.
Affinché la percezione si organizzi intorno alla «rappresentazione» è necessario che il soggetto vi sia introdotto da qualcuno: dalla parola della madre; la funzione materna, quella che dà accesso al simbolico, avviene attraverso l’intervento del linguaggio materno e del trauma che ne segue, questo trauma obbliga il bambino a perdere la cosa, la natura (la zoé aristotelica), ciò che gli consentirà l’ingresso nel bios, nel corpo, un corpo regolato dalla «rappresentazione». Questo è il passaggio fondamentale e strutturale, il momento in cui si struttura la soggettività umana e sorge la storia. Lacan mette in luce come proprio a questo punto si acceda al simbolico. Da questo momento in poi, da quando entriamo nella Parola perdiamo la Cosa (il soddisfacimento reale). Per dirla con le parole dell’antropologia di Levi-Strauss, per l’essere umano la natura è immediatamente cultura. Non c’è differenza tra natura e cultura, perché in quel momento preciso sorge la soggettività umana e l’umano perde completamente l’animalità, si umanizza; da questo momento in poi non possiamo più tornare indietro, non possiamo più tornare animali: anche la crudeltà umana non ha nulla a che spartire con la ferocia naturale delle fiere. Ecco, questo è l’annuncio del simbolico: la presenza, l’intervento della parola della madre e la perdita dello stato di quiete totale nella inconsapevolezza, struttura il simbolico e dà forma alla condizione della soggettività che entra nella storia.
È inoppugnabile che con Odisseo nasce la soggettività in senso moderno, quindi possiamo affiliare Odisseo tra di noi, come nostro antenato e nostro simile.
Il soggetto, ci dice la psicanalisi lacaniana, è sempre barrato, presenta una frattura strutturale, è alienato ab initio come io (moi) nella sua immagine speculare e come soggetto (je) nella dimensione del significante. Di qui la conseguenza che il negativo (la barratura interna al soggetto che lo attraversa in lungo e in largo) non può mai essere definitivamente eliminato; l’inquietudine di Odisseo non si arresta al livello coscienziale, ma si presenta anche e soprattutto a livello inconscio, in questo luogo sarà abitata da un soggetto anch’esso barrato (con la S/s del significante in posizione di supremazia rispetto al significato); ciò vuol significare che la psicosi che mina dall’interno il soggetto (Odisseo) il quale vuole con la coscienza il ritorno, ma che dis-vuole con l’inconscio, non potrà mai più trovare una soluzione conciliativa. Il significante adesso ha il comando sulla soggettività barrata: ciò che la coscienza comanda, il viaggio, è la peripezia del significante che incide il soggetto barrato (Odisseo); il viaggio apre il soggetto barrato alla storia e lo getta in essa, vuoto e nudo, preda propizia di un significante, di un comando che gli viene dall’inconscio.
Odisseo è il primo umano che ha a che fare con il proprio «fantasma» e che decide di affrontarlo, quel «fantasma» che regola l’universo della sua esperienza. Il soggetto freudiano dell’inconscio emerge soltanto quando un aspetto-chiave dell’(auto)esperienza del soggetto, il suo «fantasma fondamentale», gli diviene inaccessibile, rimosso a un livello primordiale. Ciò è evidente quando Odisseo ordina ai suoi marinai di legarlo all’albero maestro per non sentire la voce melodiosa del canto delle sirene, una astuzia che gli consentirà di vincere la prova di forza con il suo «fantasma», oltrepassare l’abisso che lo separa dal «fantasma».
Il topos è noto: il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non udire il canto sinuoso delle sirene e la duplice strategia di Odisseo (per i marinai la cera alle orecchie, per Odisseo la legatura del suo corpo all’albero maestro della nave). Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (1942-1947) leggono il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non sentire il canto sinuoso delle sirene così: si invita a formulare un giudizio di DUPLICE negazione: non stare né dalla parte di Odisseo né dalla parte dei suoi marinai (la «società borghese» creatrice dell’ideologia dell’illuminismo). Odisseo rappresenta la nascita e l’autoconservazione del soggetto borghese, del Sé ideologico ma anche della struttura di potere vigente nella società contemporanea. Viene descritta un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita della civiltà occidentale che, nella modernità, culmina con l’instaurarsi di un controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere umano. Ma è sulla alienazione originaria che si innesta l’alienazione secondaria, quella ideologica costruita dalla abile strategia di Odisseo, l’una non è possibile senza la compartecipazione della alienazione originaria. L’ideologia del dominio dell’Occidente sulla natura e su quella parte del genere umano in posizione subordinata non sarebbe stata possibile senza impiantare l’ideologia tutta politica del dominio sulla cancellazione della coscienza del Sé, della perdita della memoria e della consapevolezza dell’io in capo ai marinai: non udire il canto sinuoso delle Sirene significa per i marinai rinunciare ad ascoltare il linguaggio del ricordo e della corrispondenza con gli altri uomini e la natura. I imarinai ormai dovranno soltanto ascoltare e ubbidire al linguaggio di un uomo solo: Odisseo.
Come ai tempi di Odisseo, anche noi oggi viviamo in un mondo pericoloso e instabile, esattamente come ai tempi di Odisseo e di Agamennone. A quei tempi Odisseo tentò di sottrarsi alla chiamata alle armi di Agamennone fingendosi pazzo, ma poi il trucco di Palamede lo smascherò e l’Acuto fu costretto a partire con una flottiglia di itacensi alla volta di Troia.
Anche oggi noi ci troviamo all’interno di un Grande vortice: la guerra planetaria (dalla guerra di Ucraina a quella nell’Indopacifico); anche noi (la piccola Italia) potremmo tentare di fingerci pazzi, o sciocchi, o inconsapevoli, o inermi, o altro… e chiedere di essere esentati dal partecipare, anche simbolicamente, alla Grande Guerra, e forse ci riusciremmo, tanto siamo piccoli e ininfluenti a livello planetario. Ma poi il vincitore ce la farebbe pagare salato (leggi Tucidide, il discorso degli ambasciatori ateniesi ai melii).
A nulla valse la furbizia di Odisseo per scansare la guerra. La guerra ci fu, e determinò la storia a seguire.
Dentro questo gigantesco sconvolgimento che avrà ripercussioni sulle nostre vite e sulle nostre tasche (che l’Italia partecipi a vario titolo o no), noi siamo costretti a vivere. Nessun italiano di oggi vuole la guerra, tranne qualche pazzo, quindi, in realtà, siamo tutti pacifisti. Certo, sarebbe bello gettare tutte le (poche) armi che abbiamo, sciogliere l’esercito che abbiamo e dichiararci nazione pacifica e pacifista, al pari della Svizzera, ma questo avrebbe poi un costo: il vincitore della guerra di domani ci chiederà il conto, e possiamo essere sicuri che sarà molto salato.
In tutto questo calamitoso frangente, schiere di poeti continueranno a scrivere montagne di poesiole sull’io, sulle sue malizie, sulle sue masserizie e sulle sue nostalgie. Sotteggoalgia poetica di poco, se non di pochissimo conto.
(Giorgio Linguaglossa)

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Iosif Brodskij
Odisseo a Telemaco
Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.
(traduzione di Giovanni Buttafava)
Odisseo a Telemaco
Mio Telemaco,
la guerra di Troia
è finita. Chi ha vinto – non ricordo.
Saranno stati i greci: solo i greci
possono lasciare tanti morti fuori di casa…
Eppure la strada che porta
a casa si è rivelata troppo lunga,
come se Poseidone, mentre là
cincischiavamo, dilatasse lo spazio.
Non so dove mi trovo,
cosa c’è davanti a me. Una specie di isola sporca,
cespugli, edifici, grugnito di maiali,
un giardino incolto, una specie di regina,
erba e pietre*…Caro Telemaco,
tutte le isole si assomigliano
quando vaghi così a lungo, e il cervello
già si smarrisce, contando le onde,
l’occhio, infestato d’orizzonte, lacrima
e la carne acquosa copre l’udito.
Non ricordo come è finita la guerra
e quanti anni hai adesso, non ricordo.
Cresci grande, Telemaco, cresci.
Solo gli dei sanno se ci vedremo ancora.
Anche adesso non sei lo stesso bambino
dinanzi al quale trattenevo i tori.
Non fosse per Palamede, vivevamo insieme.**
Ma forse ha ragione lui: senza di me
ti sei liberato dalle pulsioni d’Edipo
ed i tuoi sogni, mio Telemaco, sono senza peccato. Continua a leggere
massimo cacciari
Giorgio Agamben
Caro Agamben, ora dobbiamo salvare te e la filosofia dal tuo complottismo
di Donatella Di Cesare – 20 dic 2021
da espresso.repubblica.it
È stato il filosofo più significativo di questi ultimi decenni. Ma da quando ha iniziato a commentare gli eventi legati al coronavirus ha abbracciato il negazionismo. Sarà quindi necessario preservare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva
Mentre volge al termine il secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere, tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che investe in pieno la filosofia. Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza.
Giorgio Agamben – piaccia o no – è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato l’insegna di un nuovo pensiero critico. Per quelli della mia generazione, che hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri – soprattutto a partire da “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 – hanno costituito la possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata, che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso, un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato dell’economia. Sulla scia della migliore tradizione del Novecento – da Foucault ad Arendt, da Benjamin a Heidegger – Agamben ci ha offerto il vocabolario e il repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia post-totalitaria che mantiene un legame con il passato?
Tanto più traumatico è quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato “L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza. Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. Nel mio pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o rimuovere.
Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della polis, ci sembrò quasi insopportabile – fin quando non emerse la sofferenza di chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. L’immagine dei camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto di non ritorno. Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica dei confini chiusi. L’Europa reagì.
Per Agamben era tempo di riconoscere a chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. I suoi post si sono susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 – “Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” – dove il green pass viene paragonato alla stella gialla. Un paragone osceno, che ha dato la stura ai peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione per il dubbio e la precauzione”, è storia recente.
È motivata la preoccupazione per una deriva securitaria. La politica della paura, la fobocrazia che governa e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con lo stato d’eccezione. Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il sale della democrazia.
Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica, non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata…». Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo.
No, non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla «organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono purtroppo nel panorama attuale del complottismo.
Com’è noto Agamben si è ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass. Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il piano di vaccinazione. Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili. Mi sarei aspettata dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati morire. Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo peso. Nulla di ciò.
Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare categorie concetti, termini, alcuni – come “stato d’eccezione” – divenuti quasi ormai grotteschi. E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica, dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.
Donatella De Cesare
Green pass, Gianni Vattimo: “Dittatura sanitaria? Göring? Come si fa a sostenere simili sciocchezze?” Il filosofo esterrefatto per Cacciari e Agamben. E indica la via in Kant e Rorty
da Davide D’Alessandro da huffingtonpost
Salgo le scale e immagino il professore Gianni Vattimo seduto davanti alla finestra a leggere i giornali, che passano in fretta, e a rimirare la Mole, che non passa mai. Mi accoglie con le mani giunte e quel sorriso dolce e stanco di chi è costretto alla poltrona. Di fronte svetta la libreria, dove campeggiano i libri di Heidegger, di Nietzsche e i suoi, tradotti in tutte le lingue del mondo; perché, sia detto con chiarezza, è lui il filosofo italiano più tradotto all’estero. Della versione cinese ci limitiamo a guardare la bella copertina. Dentro è inutile avventurarsi.
Gli chiedo se devo mostrargli il green pass della doppia vaccinazione ma lui, lucidissimo, non abbocca: “Sono in attesa della terza dose e tutto questo chiasso francamente mi provoca fastidio e sconcerto”.
Ma come, gli dico, si fanno incontri e manifestazioni sulla dittatura sanitaria, sulla sorveglianza, sui complotti politico-tecnico-finanziari, si fa addirittura riferimento ai metodi di Hermann Wilhelm Göring e tu te ne stai qui, buono buono, zitto zitto, ad assaggiare una fettina di torta alle mele e a sorseggiare un po’ di vino bianco? Si fa più serioso: “Guarda, a me sembra un’autentica follia. Ma come si può arrivare a sostenere simili sciocchezze? Stanno usando il green pass e il malcontento generale per arrivare chissà dove. Purtroppo, la responsabilità non è soltanto dei Cacciari e degli Agamben, ma anche di un sistema mediatico che insiste sul tema, concedendo pochissimo o nessuno spazio ad altri tipi di dibattiti, che sarebbero ben più importanti. Vorrei partecipare a incontri e manifestazioni sulla povertà, sull’eutanasia, vorrei parlare di questi temi a studenti coinvolti colpevolmente in una confusione generale”.
Gli porgo la pagina di un libro dov’è l’idea dello Stato da parte di Kant: “L’idea dello Stato è quella in cui nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà di altri di tendere a uno scopo simile, la quale può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale”. Vattimo si illumina: “Ecco, scolpiamola sulla pietra e non parliamone più. Anzi, possiamo issarla a mo’ di bandiera e farla sventolare per le piazze. Una volta i Movimenti nascevano su ben altre motivazioni, oggi mi tocca leggere che le riunioni sul green pass potrebbero preparare la nascita di qualche Movimento. Non ho parole. Ma dove siamo finiti?”.
C’è un filosofo al quale il professore affiderebbe la lettura di questo complicato tempo presente ed è Rorty: “Certo, perché le sue parole sono attuali, edificanti, positive. Il pensiero filosofico può essere al centro del discorso pubblico, ma non sul green pass. Non mi sento affatto sorvegliato. Mi sento un po’ spento e amareggiato. Aprire i giornali al mattino e leggere menti, ritenute brillanti, che si accapigliano sul nulla è deprimente. I dati, inconfutabili, ci dicono che la stragrande maggioranza degli esseri umani è ancora in piedi grazie al vaccino. I controlli sono necessari, poiché lo Stato non può consentire che la libertà sfrenata e pericolosa di qualcuno possa compromettere la libertà e, ciò che più conta, la vita di altri. Se non comprendiamo questo, di che cosa parliamo? Di quale filosofia parliamo? Povera filosofia!”.
Lo saluto ricordandogli che la filosofia della quale resto attento lettore è in “Scritti filosofici e politici”, la sua opera (quasi) omnia edita da La nave di Teseo. Il professore sorride ancora. Un raggio di sole lambisce la Mole. Il pensiero debole è più forte che mai.