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Letizia Leone, Estasi  della  Macellazione, da How the Trojan War Ended I Don’t Remember  – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20, Lettura di Giorgio Linguaglossa, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra

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(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember . Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20)

L’idea forte di questa Antologia pubblicata negli Stati Uniti con Chelsea Editions nel 2017 è la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è diventato globale e glocale e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza.

Il mio personale impegno di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anonimo Romano, Anna Ventura fino a Letizia Leone indebitamente trascurati e lateralizzati. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, compito della ermeneutica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni dettate da interessi di parte. Letizia Leone si pone nella linea di coloro che hanno optato per una scrittura poetica modernistica che si rifacesse al mito come fonte originaria di nuova interpretazione. La poetessa romana sviluppa il mito del satiro Marsia che sfidò il dio Apollo ad una tenzone musicale per essere poi sconfitta con un sotterfugio dal dio e condannata ad essere scorticata viva. La Leone adotta il traslato, immagina il mito dal vivo, entra direttamente nella «macelleria» dove è stato compiuto l’olocausto della ninfa Marsia (o del satiro Marsia?), il terribile misfatto da cui avranno inizio tutti i misfatti e i delitti perpetrati contro le donne e i diversi. Marsia è morto ma Marsia è vivo (viva?), e lo sarà per migliaia di anni fin quando ci saranno dei diversi e delle donne che vengono torturate e uccise per un ciuffo di capelli fuori ordinanza come l’iraniana Masha Amini che ha dato il via all’autunno di rivolta e di proteste nel paese islamico, ma il mito di Marsia ripreso da Letizia Leone vuole indicarci anche le tribolazioni di tutti i diversi e di tutte le donne che hanno lottato e lottano contro i soprusi e le angherie degli uomini di potere e degli dèi proconsolari, contro tutte le ideologie del potere maschilista, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra.

Anche da Letizia Leone si diparte la individuazione della linea che segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e posiziocentriche che continuano inconsapevolmente la grammatica regionale ed epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si sia definitivamente esaurita. E che occorra aprire una nuova pagina.

Riporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

(Giorgio Linguaglossa)

1] Giorgio Agamben, Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

(da Letizia Leone, La disgrazia elementare, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011)
(da AA.VV. Poesia Italiana Contemporanea, a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)
(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)

Giorgio Ortona Letizia celestina 42 x 70 olio su tela 2020

Opera di Giorgio Ortona, ritratto di Letizia Leone

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Letizia Leone

Estasi Della Macellazione
Chi conosce l’indirizzo dei mattatoi?

Supplizio fossile
(Del Satiro Marsia che osò sfidare in gara musicale il dio Apollo e finì scorticato vivo: strumento cantante.)

No,
non avresti dovuto scherzare col suono
col grido di do
questo drago illeso nel fuoco della campana,
nell’arca di bronzo. Né usare

le note
dell’uovo spaccato
quasi fossero venti, Marsia!
Per non dire delle folate d’aria
sullo scheletro vibratorio delle sillabe.

Hai immolato il tuo corpo.
Raggiante di silenzio e morte
sembra il lavoro di un sadico
ma c’è troppa letizia di un dio
in questo fasto del sangue.

E che altro?
Il canto di lode
travolse gli alberi da olocausto,
era dunque musica incosciente
la risata quadrata della natura?
Poi si sa, un dio
in questo caso Apollo,
è un mezzo vivo con poca musica,
affamata di grida guerriere
la sua sordità.
E come si canta?

I

Dapprima il gioco di Apollo

fu pantomima del tuono
grande musica totemica.
Imitava – lui, dio pappagallo-
i rumori robusti delle materie:
folgori mareggiate sfregamenti
di bestie contro cortecce
poi passò agli animali,
esaurito il coro della natura,
prese dai vivi il fiato per un canto,
l’invidioso.
Ma gli inni primaverili, l’accompagnamento
dei cembali, i tintinnii, in fondo
lo mettevano a disagio
che farsene di un Cantico solare?
Costruire un tamburo di pelle
dura e gonfia con pezzi d’animale
e assordare Marte con quest’arma sonora
al ritmo delle arterie
una crociata di rombi, urla
a squarciagola
e le lingue profonde dei selvaggi
farle volare mozzate con la freccia sibilante
di un suono e gli schizzi di sangue,
questo si che è uno strumento cantante
da pestare con mani e piedi
su una terra assetata
– se è vero che i suoni incurvano e spezzano-
e poi si potrebbe amplificare tutto in un
antro! Questo pensava Apollo.

Oppure un altro ordigno: il corno.
Con tamburo e corno
sarebbe stato più facile imboccare la via dell’inferno.

II

Ma questi, di far risuonare caverne
erano desideri inespressi
profondi. Che qui come dio
gli toccava accoppiarsi al sole
all’armonia delle piante
alla forza altalena di una scala maggiore,
una gru di toni e ipertoni
dai ritmi edificatori,
insomma
all’unisono con i bocci
tanta musica alata
a nutrire gli insetti non nati
pronti a tuffarsi nella luce.

Perché un cantare supremo era il suo compito
apollineo, celebrare il culto
della vita con la lira.
Altro che clamori infernali. Continua a leggere

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Intervista di Donatella Costantina Giancaspero a Giorgio Linguaglossa – Ho letto il tuo libro Critica della ragione sufficiente, ti chiedo: è scomparsa la critica militante? 1) Ha senso, a tuo avviso, la linea dicotomica tracciata da Gianfranco Contini: La componente innica e quella elegiaca del Novecento? 2) La Nuova Ontologia Estetica? 3) Il Grande Progetto?

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Domanda: Ho letto il tuo libro, Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica (Progetto Cultura, 2018 pp. 512 € 21), un lavoro monumentale di indagine ermeneutica sulla poesia italiana e sui nuovi orientamenti della «nuova ontologia estetica». Perché quel titolo?

 Risposta: Ho scritto nel retro di copertina del libro:

«Critica della ragione sufficiente, è un titolo esplicito. Con il sotto titolo: verso una nuova ontologia estetica. Uno spettro di riflessione sulla poesia contemporanea che punta ad una nuova ontologia, con ciò volendo dire che ormai la poesia italiana è giunta ad una situazione di stallo permanente dopo il quale non è in vista alcuna via di uscita da un epigonismo epocale che sembra non aver fine. I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una ragione sufficiente. Non dobbiamo farci illusioni però, occorre approvvigionarsi di un programma minimo dal quale ripartire, una ragione critica sufficiente, dell’oggi per l’oggi, dell’oggi per ieri e dell’oggi per domani, un nuovo empirismo critico. Ecco la ragione sufficiente per una nuova ontologia estetica della forma-poesia: un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo.»

Domanda: Subito un grande problema: ha cessato di esistere la critica militante della poesia?

Risposta: Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai cinquanta anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.
È per questo che io ho dovuto forgiarmi, quasi da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, la psicofilosofia… ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio (personalissimo) linguaggio critico che qualcuno ha definito «inventato»; e in effetti lo è, perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altri prodotti, non lo si trova già bell’è fatto..

Un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi cinquanta anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico: si perde la memoria storica del linguaggio critico, quel linguaggio, dicevo, cessa semplicemente di esistere.

Domanda: Riprendo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”. Ripartiamo da Gianfranco Contini, perché a mio avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni: linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri, ad esempio nella indicazione della «linea elegiaca dominante» nella poesia italiana e la canonizzazione di Montale quale poeta strategico del novecento. Tu di recente hai proposto la linea del «discorso poetico» che permetterebbe di considerare il ruolo positivo svolto da poeti come Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), Angelo Maria Ripelllino, Edoardo Sanguineti, Alfredo de Palchi, Helle Busacca, fino a Maria Rosaria Madonna, il che consentirebbe una rivalutazione di un poeta come Aldo Palazzeschi che altrimenti verrebbe sacrificato dalle strette maglie della «linea elegiaca». In quest’ottica, se non sbaglio, la proposizione della nuova ontologia estetica verrebbe ad occupare una posizione centrale.

Risposta: Scrivevo il 21 dicembre 2015 alle 11:42 su questa rivista: «Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

Ecco, io vorrei dire che tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco.

Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento”, perché è importante scalzare la visione dicotomica del Contini. Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Aldo Palazzeschi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Mario Lunetta Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che percorrono un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè né con la linea innica né con la linea elegiaca. È importantissimo tenere questo distinguo. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del Discorso Poetico di stampo modernistico. Ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare la «Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione oltre ad altri poeti e che vede impegnati in questa ricerca i migliori poeti contemporanei.

Domanda: Quindi la questione della «forbice» tra «poesia innica» e «poesia elegiaca» è un falso problema?

Risposta: La questione della «forbice» tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, rientra in una una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi «politici» a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là; ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema delle conflittualità delle  linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010 (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà  novità e approfondimenti. A mio parere, la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Domanda: Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

Risposta: L’indicazione della Linea dominante dell’elegia post-montaliana di Contini è un atto critico che, come tale si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra «Linea» da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, i valori assodati da Contini saltano in aria, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il «più grande poeta dopo Montale». Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è stato il più abile rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento che trova il suo apice ne La Beltà del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile, le «isoglosse» e le isoipse di continiana memoria vanno a farsi benedire. Oggi è chiaro che non c’è più una Linea dominante, oggi si assiste alla polverizzazione dei «modelli», alla disseminazione dei «canoni». Fenomeno squisitamente post-modernistico. Continua a leggere

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Annamaria De Pietro Quartine scelte – da Rettangoli in cerca di un pi greco (Marco Saya, Milano, 2017) – Con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

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L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno.

Annamaria De Pietro è nata a Napoli. Vive a Milano. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005). Nel 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Le ultime pubblicazioni sono Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015) e Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Secondo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2017).

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

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Stanotte cadono le stelle. Una
cada nel tuo bicchiere come ghiaccio

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento,

che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Andrea Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo e la fine del Moderno. Annamaria De Pietro raddrizza l’endecasillabo, restaura la quartina rimata (ABBA – ABAB), e da lì parte per una scrittura elegantemente sillabico endecasillabica. In modo incredibile, qui c’è la gioia della rima, la gioia del solfeggio e del cantato e del cantabile. E non c’è dubbio che la De Pietro sia il poeta, tra quelli che io ho letto, che impiega l’endecasillabo in modo impareggiabile.  È il suo modo di rispondere alla crisi della poesia: la risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba o a percussioni da contrabbasso… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, e così l’epoca delle retroguardie. E Annamaria ne ha preso atto.

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che è stato il prodotto poetico del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi, paradossalmente, ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, è sufficiente una buona tromba di Eustachio e un buon paio di occhiali. La poesia della De Pietro assomiglia alla barchetta di carta che galleggia tra i flutti della materia equorea, «è un soffermarsi presso la linea», per dirla con Pier Aldo Rovatti.

annamaria de pietro

annamaria de pietro

Poesie di Annamaria De Pietro

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

 

L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno. Identificare,
costruire, attraverso l’uso che facciamo del linguaggio,
uno spazio di gioco, un’abitabilità.
Mettersi in ascolto non di un «canto» sepolto e originario,
bensì di un «groviglio» di significati…

(Pier Aldo Rovatti) Continua a leggere

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Giovanni Testori (1923-1993) “POESIE (1965 – 1993)”, Mondadori, 2012 – Poesie tratte da”Nel tuo sangue” (1973) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Testo teatrale piuttosto che poetico”

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Il quadro politico italiano bloccato

Giovanni Testori nasce il 12 maggio 1923 a Novate Milanese. Nel 1941 pubblica, firmandosi Gianni Testori, i primi scritti d’arte su “Via Consolare”, rivista legata al gruppo di Pattuglia, e, sempre per le Edizioni di Pattuglia, nel 1943 escono La morte, Un quadro, i suoi primi testi teatrali e l’introduzione a Manzù, Erbe. Scrive anche un saggio su Henri Matisse per Goerlich di Milano. Inizia la sua attività di pittore. Nel 1947 si laurea in Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano, con la tesi “La forma della pittura moderna”, in un primo tempo respinta, perché ritenuta non degna di essere discussa in quella università, in quanto filo modernista, e poi riproposta da Testori con l’espunzione delle parti contestate.
L’anno successivo va in scena al Teatro della Basilica di Milano il suo primo testo teatrale, Caterina di Dio, interpretato da una giovane Franca Valeri. Nel 1949, in seguito all’intervento della Sovrintendenza ai monumenti, Testori cancella gli affreschi, commissionati dai Padri Serviti e raffiguranti i quattro evangelisti, che aveva realizzato nel 1948 per la chiesa di San Carlo a Milano.
Si dedica anche al teatro: nel 1950 scrive Tentazione nel convento e va in scena al Teatro Verdi di Padova, con la regia di Gianfranco De Bosio, un altro suo testo teatrale, Le Lombarde.
Nel 1952 inizia la collaborazione con “Paragone”, la rivista diretta dal grande critico d’arte Roberto Longhi, con un saggio su Francesco del Cairo che crea discussioni e polemiche. Nel 1953 partecipa all’organizzazione della mostra “I pittori della realtà in Lombardia” presso il Palazzo Reale di Milano.
Nel 1954 pubblica nei “Gettoni” di Einaudi, collana diretta da Elio Vittorini, la prima opera narrativa, Il dio di Roserio, incontrando un buon favore da parte della critica.
Intensifica il suo lavoro di critico d’arte: nel 1955 organizza la mostra sul manierismo piemontese e lombardo del Seicento che si tiene a Palazzo Madama a Torino r al Centro culturale Olivetti di Ivrea, e l’anno successivo quella su Gaudenzio Ferrari a Vercelli.
Nel 1958 pubblica, per Feltrinelli, la raccolta di racconti Il ponte della Ghisolfa che apre il ciclo I segreti di Milano. Il libro vince il premio “Puccini-Senigallia” e ottiene subito un grande successo di pubblico. Anche Luchino Visconti si ispira ad alcuni racconti del volume per la sceneggiatura del film Rocco e i suoi fratelli.
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giovanni testori

L’anno successivo presenta una seconda raccolta di racconti, La Gilda del Mac Mahon, e organizza la mostra su Tanzio da Varallo, uno dei suoi artisti prediletti, al Palazzo Reale di Torino.
Nel 1960 va in scena, al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Mario Missiroli e protagonista Franca Valeri, La Maria Brasca, terzo quadro della serie “I segreti di Milano”.
Nel 1961 pubblica il suo primo romanzo, Il Fabbricone, e la monografia d’arte Elogio dell’arte novarese. L’anno successivo entra a far parte della redazione della rivista “Paragone”.
Nel 1965 raccoglie tutti gli studi dedicati a Gaudenzio Ferrari in Il gran teatro montano, pubblicato da Feltrinelli. Pubblica inoltre il poema I Trionfi.
Nel 1967 organizza la mostra “Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale”. Va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la regia di Luchino Visconti, La Monaca di Monza, anche in questo caso accompagnato da polemiche e da presunti dissapori tra il regista e lo scrittore.
Nel 1969 esce da Feltrinelli il testo teatrale Erodiade. Ritorna ad occuparsi del Sacro Monte di Varallo e pubblica lo studio dedicato alla “Cappella della Strage” del Paracca.
Nel 1974 ritorna, dopo più di dieci anni, a pubblicare un romanzo, La Cattedrale.
Nel 1975 scrive l’introduzione alle Rime di Michelangelo Buonarroti per la BUR Rizzoli.
Nel luglio 1977 muore la madre, Lina Paracchi, e inizia a scrivere Conversazione con la morte, a lei dedicata. Inizia a pubblicare articoli di argomento etico-morale sul “Corriere della Sera”. In seguito sul quotidiano milanese dirigerà la pagina dedicata all’arte. Nel 1978 legge per la prima volta Conversazione con la morte, scritta inizialmente per l’attore Renzo Ricci, al Salone Pier Lombardo e poi in più di cento teatri e chiese di tutta Italia, sempre affollatissime di giovani. Inizia la collaborazione con un nuovo settimanale, “Il Sabato”, espressione del movimento di Comunione e Liberazione.
Nel 1979 viene rappresentato a Milano, nella chiesa di Santo Stefano, dalla Compagnia dell’Arca e con la regia di Emanuele Banterle, Interrogatorio a Maria, che diventerà un evento con rappresentazioni in duecento città e paesi italiani. Il 29 luglio 1980, a Castel Gandolfo, alla presenza dello stesso scrittore, Interrogatorio a Maria ha uno spettatore d’eccezione: Papa Giovanni Paolo II.
Nel 1980 assume la direzione della nuova collana Rizzoli “I libri della speranza”. Il primo titolo è un colloquio tra Testori e don Luigi Giussani, Il senso della nascita.
L’Anno successivo pubblica il monologo teatrale Factum est, in cui la voce di un feto che chiede di aver salva la vita trova una soluzione linguistica assai nuova e sperimentale. Il monologo viene rappresentato da Andrea Soffiantini, per la prima volta, alla chiesa del Carmine di Firenze.
Nel 1982 raccoglie gli articoli a carattere etico-morale pubblicati sul “Corriere della Sera” e sul settimanale “Il Sabato” nel volume La maestà della vita. Nel 1983 pubblica la raccolta di poesie Ossa mea.
L’anno 1985 è all’insegna della rivisitazione della lezione manzoniana, con una rilettura teatrale del capolavoro di Manzoni, I Promessi Sposi alla prova, che viene rappresentato al Salone Pier Lombardo dalla Compagnia Franco Parenti, con la regia di Andrée Ruth Shammah; protagonista, nel ruolo del Maestro, Franco Parenti, l’attore della “Trilogia degli Scarozzanti”. Nel catalogo della mostra “Manzoni. Il suo e il nostro tempo”, pubblica il saggio Ricordi figurativi del e dal Manzoni, un itinerario nelle opere d’arte che si ricollegano alla lezione del grande scrittore lombardo. Riceve il premio Renato Simoni. Una vita per il teatro.
Nel 1987 al Centre George Pompidou di Parigi viene allestita la mostra di disegni “Testori: Erodiade e la testa del Profeta”.
Nel 1988 pubblica il romanzo In exitu, a cui ha lavorato dal 1982, la via crucis di Riboldi Gino, un giovane drogato che grida contro la nuova indifferenza di Milano in una versione ridotta alle esigenze del teatro, il testo va in scena al Teatro La Pergola di Firenze, con la regia dello scrittore, protagonisti Franco Branciaroli nel ruolo di Riboldi Gino e Testori stesso in quello dello “scrivano”. Tiene al Teatro Out Off di Milano un ciclo di tre lezioni sul proprio lavoro, intitolato “La parola, come”.
Nel 1992 esce il romanzo Gli angeli dello sterminio, in cui Testori racconta l’Apocalisse di Milano.
Giovanni Testori muore il 16 marzo 1993 a Milano. La sua ultima testimonianza viene affidata a un’intensa intervista televisiva di Riccardo Bonacina, trasmessa dalla RAI nei giorni precedenti la morte.
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giovanni testori aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani

aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani Roma 1978

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Testo teatrale piuttosto che poetico
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Le poesie qui citate sono tratte dalla raccolta Nel tuo sangue (1973). A livello stilistico si rinviene la tipica deformazione espressionistica e una stilematica proposizionale da monologo interiore o flusso di coscienza con rime alternate, baciate e intrecciate con i tipici effetti percussivi, ripetizioni, parallelismi, anadiplosi. Davide Rondoni nell’introduzione, richiama le affinità, da Iacopone a Rebora, da Petrarca a Caproni, ma, a parte le affinità vicine e lontane, del tutto discutibili e, a mio avviso, infondate, il flusso di coscienza poetico di Testori  proviene senz’altro dalla crisi di una coscienza cattolica davanti alle risultanze di una società laica sempre più secolarizzata ed estranea al magistero guida della Chiesa. Scandalo e sconforto, disperazione e angoscia sono le polarità in cui si inscrive questa «poesia lirica», caratterizzata da una forte componente espressionistica e drammatica di derivazione confessionale. C’è un eccesso di spiritualizzazione che nuoce alla resa estetica in quanto prodotta come segmentazione di un sovrappiù di eccitazione emotiva; inoltre, la spiritualizzazione ha, da sempre, in poesia, posto un ostacolo all’attingimento di una resa oggettiva, alla oggettivizzazione artistica. Il lettore ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo di un’anima in eruzione e alla spettacolarizzazione di un’anima in piena confessione di verità. Si avverte il tinnire di stoviglie di un confessionalismo rabbioso e scabroso. Testori usa la forma-poesia per uno scopo allotrio, per veicolare lo spettacolo di un’anima scissa, lacerata, vulnerata e per pascersi con un sottile compiacimento in essa. Ma, così facendo cade nel pacchiano, nel luogo dell’anima bella disperata e vulnerata. Così operando, esce fuori dalla forma-poesia per attingere il registro ed il genere della affabulazione teatrale di una coscienza martire e martirizzata. Evidente appare la estraneità di questa poesia alla tradizione della poesia italiana del secondo Novecento, incentrata com’è sulla identificazione, tipica della poesia liturgica e spiritualista, tra voce narrante ed estroflessione dello spirito vulnerato. Con tutto quel gusto cattolico del sangue in esposizione e del dolore dell’anima vulnerata e fustigata. Testo teatrale piuttosto che poetico, adatto alla declamazione attoriale dove infatti le doti di Pino Censi eccellono. Nel tuo sangue fu accolto dallo scetticismo e dall’indifferenza della critica. Era un libro a suo modo eretico, trasversale al genere poetico, a suo modo etico, e anche difficilmente intellegibile allo spirito della insorgente civiltà secolarizzata con tutto quel travaglio interiore messo a nudo, per quel crucifige cui si sottoponeva l’autore con tutti gli abiti e gli alibi della disperazione religiosa in bella mostra. A rileggerlo oggi, l’impressione è quella di un affabulatore da teatro piuttosto che di un autore di poesia. Non dimentichiamo che Testori prenderà il posto di Pasolini sulle colonne del “Corriere della sera” nel 1975, quindi un intellettuale istituzionale che contrassegnava un ritorno all’ordine con interventi discutibili nelle tesi spiritualisteggianti, troppo frontalmente negazioniste della nuova realtà del paese che tumultuosamente cercava una via di uscita dallo stato di minorità democratica di un quadro politico partitico bloccato. Era il tempo della strategia della tensione e delle stragi, dell’austerità che seguiva la fine del boom economico, del grande consenso del P.C.I. nelle elezioni del 1975 entro un quadro politico, dicevamo, ermeticamente bloccato. In quel quadro storico, con il suo abito negazionista della via italiana alla modernizzazione del paese, la voce poetica di Testori appariva manifestamente fuori luogo, e forse anche fuori tempo con i suoi crucifige, con la fustigazione dello spirito in mostra. Uno spirito religioso turbato, questo sì.
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giovanni testori agguato-via-fani Roma

panoramica dell’agguato-via-fani Roma

http://it.radiovaticana.va/news/2016/03/03/teatro_della_misericordia_nel_tuo_sangue,_di_testori/1212636

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 Giovanni Testori testi tratti da “Nel tuo sangue” (1973)

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Se è bestemmia
pensarti inesistente,
non Ti chiedo pietà.
Davanti a Te
che ritenevo Dio,
alzo come un pugno
la mia idiota realtà.

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Sono caduto sotto il mio stesso peso.
Non avevo su di me nessuna croce.
“Perché mi lasci?” ha urlato la mia voce.
Parlavo a Te non come Dio,
parlavo al Cristo venduto,
al Cristo sanguinante, perduto.
S’era scomposto Dio nei frammenti del caso,
s’era disfatto come il mio niente,
più atroce e indifferente verso me
del mio stesso io.

1

Nell’ora della mia prossima agonia
potremo finalmente batterci,
Te, luce falsa, ed io.
Tu non sarai più Dio,
sarai soltanto un grumo di sale,
un segno d’unzione sulla fronte.
Poi riderò sfrontato
e Ti dirò:
T’ho vinto,
T’ho spappolato.

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Gigantesca menzogna,
fandonia sulla fronte,
bacio traditore del profeta
che, senza volerlo, nel cranio
stai marchiato
finalmente, ridotto a un mormorio,
Ti vedrò crollare
abbacinato.

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Se un’ alba o una mattina
di colpo a me riapparirai
con la Tua immane storia
di redenzione ed omertà
a Te riservo
come estrema Tua felicità
la mia fine suicida.
Allora Tu non avrai neppur la forza
di stendere sulla Tua vana eternità
una smorfia di pena e di pietà.

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T’ho amato con pietà
con furia T’ho adorato.
T’ho violato, sconciato,
bestemmiato.
Tutto puoi dire di me
tranne che T’ho evitato.
Ma Tu non parli,
non dici.
Sei il Dio sordo;
il Dio muto.
Per illuderci di poterTi parlare
Ti sei dovuto incarnare.

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Non è più la nebbia
e nemmeno la vanità della memoria,
è la pena d’aver creduto
che agli uomini fosse possibile
la storia.

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La storia è possibile
solo a Te che non esisti.
Anche se falsa
la menzogna della Tua voce
è più vera
d’ogni nostra croce.

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Chi ha distrutto la mia pace
sei stato Tu,
la Tua falsità.
Avessi creduto anch’io
all’inumana omertà
avrei accettato la Tua incarnazione,
questa vile, idiota,
sanguinante delazione.

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M’aspetti nel buio
come un’affamata prostituta,
come un ladro m’azzanni
nei riposi difficili e ansiosi.
Mi riporti nel letto privo ormai di lui
le Tue stigmate affrante.
Che cosa mi domandi?
Che accetti di baciarle,
di rotolarmi su Te
come facevo sul suo ventre
di figlio delicato,
sulla sua carne,
d’arcangelo rubato?
É lui
non Te che amo.
È lui
il dio vero
il dio giusto
il dio sano.

 

giovanni testori libri

giovanni testori

Tu sei il Dio marcio,
il Dio incarnato.
Sei il Dio Cristo,
il Dio sangue,
il Dio peccato.

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Sarò me stesso,
sarò vero,
sarò presente,
quando Tu come Dio
sarai per sempre assente.

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Perché hai gridato
che Ti lasciava
se era Tuo padre
e T’amava?

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Non ha salvato la storia
la Tua deità.
T’illudi forse di poter salvare
con la Tua umanità
la vegetante bestia
della nostra omertà?

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La sola passione vitale
è il caso,
la forza d’una natura bestiale
che trasforma in possibile grembo
ogni taglio, ogni umana ferita,
anche se la vita, la povera vita
non ne sarà mai partorita.

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Anche in Te c’è stato
lo sai
qualcosa di muto e bestiale.
Ti dicevi nato
da una luce celeste.
Eri un figlio che bruciava
la sua stessa natura
nella rivolta della vita futura.

Hai voluto morire come uno
che volesse qualcosa dimostrare.
Ma Tu dovevi soltanto
vivere e amare.

Se come Dio volevi veramente soffrire
dovevi scegliere
un luogo più vile e segreto per morire.
Dovevi fare come le vipere e i cani
che scelgono i posti
più inaccessibili e vani.
Il Tuo sangue non sarebbe stato mai visto
bevuto, mangiato
e nessuno per odio T’avrebbe scordato

Hai presunto di non esser stato mai
veramente figlio
per poter inventare anche Tu
senza carne il Tuo giglio.

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II

Il giglio inventato
è quello che hai scelto,
amato, lasciato.
É quello che per un’uguale rivolta
da Tua adolescente, fedelissima scolta
s’è fatto profeta del tempo
che era prima ancora di Te,
il tempo senza luce ed ardore,
il tempo che attende
il messia traditore.

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Ha bruciato quel tempo
nell’incendio della Bestia trionfante.
Ha visto come ogni amante lasciato
che niente più resta
quando chi ama da noi se n’è andato,
soprattutto se, invece d’un maschio violento
o d’un angelo pio,
è un falso, orribile Dio,

.
L’hai amato più degli altri.
Sul desco della Cena
appoggiava la sua guancia
al Tuo volto.
Non era solo una predilezione,
era un’atroce, carnale
peccatrice dedizione.

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Perché nel dolore
Te lo sei tenuto vicino?
Era il figlio, l’amante?
Era il carnale festino,
il tranello preparato anche a Te
dal destino?

.
Quando dormivi accanto a lui
che accadeva?
Chi muoveva per primo
nel silenzio
i lenzuoli?
Non eri Socrate.
Non puoi barare.
Eri un Dio da stringere
e amare.

L’hai lasciato senza padre
ai piedi della croce.
Mentre morivi
che nome urlava
se non il suo
la Tua voce?

Sulla croce
dagli occhi offuscati dalla morte
vedevi ancora la sua carnale beltà.
Dov’era in quel punto
la Tua superba deità?

.
In che prato,
in che via di perduti
l’hai raccolto?
E perché,
dopo averlo innalzato,
in un’isola
d’orrenda empietà l’hai avvolto?

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Ha letto i numeri indecifrabili, atroci;
le rose ha ridotto a demenza.
Quello che per Te
era pietà o clemenza
nel Libro increato
s’è aperto nell’unica luce
d’universo insensato.

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T’aveva baciato
aveva bevuto il Tuo segno
il Tuo sangue.
Quando poi l’hai lasciato
è stato per odio
non per amore
che, invasato,
ha visto la fine
della Tua incarnazione,
l’universo incendiato
e ogni Dio contraddetto,
negato.

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Mentre Tua madre
sveniva,
s’è avvicinato al tuo ventre.
T’ha sfiorato,
baciato.
Cosa volevi di più?
Nessuno
è stato amato così.

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Ha raccolto l’ultima goccia
del sangue di Te,
l’ha portata alle labbra,
l’ha tenuta nella sua giovane bocca,
l’ha ingoiata, mangiata.
È stata la comunione unica,
vera.
La Tua chiesa non l’ha vista:
non c’era.

 

giovanni testori Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti-

Gli-angeli-nascosti-di-Luchino-Visconti sul set

Ha sfiorato
i piedi trafitti.
Ha tentato per l’ultima volta
di farTi gli occhi riaprire.
Forse voleva vederTi
sorridere ancora;
ancora voleva
che la Tua umana tristezza
si trasformasse
in divina allegrezza.

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L’allegrezza silente, carnale
che assieme al cristallo
della Tua atroce deità
aveva trafitto
la sua adolescente,
indifesa beltà.

É stato così
che l’hai vinto.
È stato così che di Te
come Dio
l’hai incinto.

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III

Hai lasciato anche Tu
sulla neve di quel lontano Natale
una rosa di sangue,
un liquido sconcio e fetale

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Anche Tua madre
ha gridato.
S’è afferrata alla mangiatoia
quando dal ventre
le uscivi.
Sapeva anche lei
che nascendole Cristo
come Dio le morivi?

.
Solo Tua madre ha capito
l’incomprensibile affanno
di sapere che la sua gioia
era già il nostro danno.
Il danno d’un figlio
che si voleva carne di Dio
nel suo grembo
di serva povera oscura;
un figlio che conosceva da feto
la Sua vita futura.

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Quando Tua madre
Ti stendeva sul grigio giaciglio
baciava suo figlio
o un mostro atroce e divino,
una carne di pane e di vino?

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Apriva la veste,
Ti dava il suo latte casto ed antico.
Eri ancora suo figlio
o eri già il suo nemico?

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Del ventre di mia madre
ricordo il tepore
d’un immenso dolore.
Del grembo della Tua
ricordi il suo povero amore
o invece il Tuo disumano furore?

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Quando succhiavi il suo miele
pensavi di già
al sapore del fiele?
Hai desiderato anche Tu
d’esser chiuso
dentro il suo ventre,
di restarvi feto marcio
per sempre?

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Che sarebbe accaduto
dell’umana pietà?
Chi avrebbe incarnato
la vergogna
della Tua carità?

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Quando con le gengive
il suo seno mordevi
era la pace o la morte di lei
che volevi?

.
Se il sangue è il Tuo segno
La morte è il Tuo regno.

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Non è Dio chi copula
con la carne e la morte.
Non è Dio chi solo a trent’anni
apre le sue povere porte.

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Dovevi essere il Dio vero,
il Dio liberante e liberatore.
Sei diventato il Dio schiavo,
il Dio amante, il Dio traditore.

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Appoggi vicino a me
nel sonno
il Tuo cranio avvolto di spine.
Ti unisci
anche ai Tuoi nemici.
La Tua fame
non ha mai fine.

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Accarezza con la mano
la sua fronte.
Il sangue che scende da Te
versalo solo su me.
Nessun maschio,
nessuna donna, nessuna prostituta
m’ha inseguito così.
Sei rimasto fermo allo stesso punto.
Ti credevo perduto:
eri lì.

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Hai rincorso nell’erba
una donna, un’amante?
Hai inseguito qualche bestia ardente,
divina?
Hai portato una vita
che era anima e carne
in qualche oscura cantina?

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Sei entrato nel letto
furtivo come un amante.
Dovevi sapere che chi ama
domanda la carne per violarla,
baciarla,
non per stroncarla, umiliarla,
negarla.

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Se allunghi una mano su me
è perché io brucio di Te.
Ma di Te io non brucio.
Di Te sento solo pietà.
Sei un Dio che per avermi
s’è fatto morte, sangue,
viltà.

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Dovevi accettare il rifiuto
come fanno gli sposi,
gli amanti.
Perché,
ridotto a un feto
di spine e di sangue,
mi ritorni davanti?

.
Che vuoi che Ti dica?
Di prendermi,
entrar nella carne, nel sangue?
La Tua ostia
da tempo ho allontanato da me.
Il vino che la Tua chiesa m’offriva
era una lussuriosa ironia.

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A chi ho amato
ho dato da bere
con gioia e dolore
il sangue e la carne di me.
Così lui ha fatto con me.
Tu cos’hai fatto di Te?

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Avessi potuto bere anch’io
non il simbolo vano dell’ultima Cena,
ma il resto che sui chiodi e sui legni
s’era aggrumato di sangue,
sarei diventato un tuo figlio,
un tuo amante.
Così sono un padre
che ha generato suo figlio
con la carne degli altri.
Pel resto
sono un orfano cieco,
demente, vagante.

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Non è vero.
La croce non si rinnova.
Chi non ha bevuto quel sangue
non potrà berlo mai più.
Chi non è stato Tuo amante
sarà per sempre un passante.

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Se Ti chiedessi
di stringerti a me,
d’aprire la bocca
incrostata di sangue;
se Ti chiamassi
come si chiama un amante,
resteresti,
fuggiresti da me?
Rispondi.
Non è una diffida.
È l’ultimo dado da trarre,
è l’ultima sfida.

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La bocca,
la saliva,
il sangue così triste
che m’hai dato…
La ferita sul costato,
il segno come il suo delicato
che alla madre T’aveva legato…
Perché non sei restato soltanto Grazia?
Perché sei diventato anche Peccato?
Hai accettato l’abbraccio.
Hai accettato la voce
che chiama gli amici,
gli amanti.
Sei andato più avanti.
Poi m’hai guardato,
m’hai detto:
non esiste peccato.
In quel punto
eri ancora Dio
o mentivi
per illudermi
che io fossi ancora io?

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M’hai atteso.
M’hai cercato
nei ritrovi più infami.
Quando infine
ho accettato il Tuo invito
sapevo già
che non m’avresti guarito.
Volevo solo provarTi
che potevo sconciarTi,
gettarTi su un letto,
baciarTi anch’io
come carne di Te,
come Dio.

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Ti sei levato
assetato,
affamato.
Non m’hai detto:
ti lascio.
Non m’hai detto:
t’ho amato.
Hai guardato lontano.
T’ho chiesto
se Cristo
era simile a Te.
M’hai risposto:
chi è?

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TogliTi la toga.
Fatti vedere nudo,
ferito, sconciato.
Fatti vedere
come sei nato.
Adesso che di nuovo
come in un furto
T’ho abbracciato,
T’amo più di quando pensavo
che fossi il Dio vero,
il Dio eterno e incarnato.

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La Tua nudità
è tenera, sconcia,
febbrile.
Sei un angelo,
un animale divino,
una bestia sconfitta
da porcile.

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Ritrovo in Te
i suoi occhi,
la sua castità.
Non dovevi provarmi
questa Tua parità.
Potrei di nuovo abbracciarTi,
stringerTi ancora di più,
umiliarTi,
strozzarTi,
provarTi che Tu non sei Tu.

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Cosa mi diresti
in questo punto?
Accetteresti
d’essere ucciso
da chi T’ha cercato,
avvilito,
negato?

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Non sarei Giuda.
Sarei chi uccide
colui che diceva
d’essere Dio.
Un delitto da strada,
un delitto da camera a ore.
Un delitto soltanto
d’impossibile amore.

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Dopo un fallimento di Te
non resta che disprezzare ogni deità
e vivere nella disperata certezza
della Tua nullità.

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É stabilito:
siamo un caso,
molecole di zucchero
che un fortuito accidente
ha nei secoli assommato.
Ma se è zucchero
il sangue di lui che ho amato,
che atroce, demente negazione
la rivolta di Cristo
v’ha incarnato?

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Perché, se era zucchero anche lui,
non m’hai lasciato amarlo
da felice pagano?
Perché hai voluto che s’aprisse
anche tra lui e me
la ferita oscena,
l’oscena piaga di Te?

Il dolore più vero non si scrive.
È muto, imprendibile, increato.
Del Dio credibile e beato
resta solo la certezza
che lo zucchero facendoci
s’è sbagliato.

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Ti sei intromessa
tra il suo bacio ed il mio
orrenda lingua di Dio.
Se vedendoTi apparire
come un incubo, un richiamo,
non Ti darò l’estrema gioia
di vedermi morire,
è perché qui c’è ancora lui che va
e va, sola mia pena,
più grande, più infinita di Te,
tigre dell’anima,
jena.

Sei zucchero anche Tu,
immensa storia di Dio.
Uno zucchero marcio come il suo,
come il mio.
Tu che attendi i Tuoi figli
all’ora soltanto della sorte,
getta su di me come sul toro
del segno che in me porto
il manto che copre
il vile, degradato morto.
Hai ancora bisogno
del mio corpo,
di me?
Quando potrò liberarmi
di Te?

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