Francesco Paolo Intini
(da Facebook del 29 settembre 2022)
Spyke di fine settembre
Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.
Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!
La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
– Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.
Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi
Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito
Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
– Io non sono Antigone -ripete un ragno sul muro
Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.
La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche
L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.
*
Giorgio Linguaglossa
1 ottobre 2022 alle 11:32
Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’ insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere a-significanti e inoperose (g.l.)
Alcuni autori di poesia (ad esempio, Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni) adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno. L’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato; questi autori fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.
Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «centricità» dell’io, di «identità», di «soggetto», di «riconoscibilità», di «originarietà» della scrittura poetica implica un rivolgimento: porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione», di un «nuovo paradigma», di una «nuova forma-poesia». Il discorso poetico della poetry kitchen passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo novecento incentrato sul dolorificio permanente dell’io egolalico ed elegiaco e su una «forma-poesia riconoscibile». Il capitalismo cognitivo in crisi di identità e di accumulazione genera ovunque normologia e riconoscibilità; quello che occorre è l’«irriconoscibilità», una poiesis che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica.
Jacopo Ricciardi
1 ottobre 2022 alle 18:14
Il mio ultimo libro “Dei sempre vivi” è uscito con Stampa2009 diretta da Cucchi. Il libro non è né avvicinabile alla Poetry kitchen (anche se si dirige verso quei lidi) né parente della poesia minimale dell’io e dell’esperienza di cui Cucchi è certamente l’esponente più autorevole.
Si distanziano da questa posizione io-centrica tutto quel gruppo di poeti simili a Marco Giovenale che escludono l’io in favore di una oggettualità del mondo.
Già tra questi due gruppi non c’è alcuna comunicazione, posti come sono sulle due facce della stessa medaglia. Un passaggio però esiste, e riguarda l’utilizzo è la considerazione (la lettura) da parte del secondo gruppo di tutta una serie di testi che per esempio vengono dall’arte contemporanea (Emilio Villa in testa) e questo dal mio punto di vista fa loro onore. Mentre parlavamo del libro da pubblicare Maurizio Cucchi era avverso al Lucio Fontana dei tagli mentre esaltava il sempre eccezionale Lucio Fontana delle ceramiche figurative, o pseudo figurative. Dal mio punto di vista l’inclusione è sempre migliore dell’esclusione.
Ora, se uno volesse una poesia che lavorasse sull’esperienza e sull’io ridimensionandone la portata da una diversa angolazione, si potrebbe benissimo parlare dei due premi Nobel, Szymborska e Tomas Tranströmer, molto diversi ma «rigenerativi». Che il minimalismo italiano sia invece «conservatore», paragonandolo ai due Nobel, mi pare lampante.
Soprattutto Tranströmer nella poesia “Silenzio” mostra come il contesto, il collante, il linguaggio, debba essere compreso o ricompreso, perché il testo ne stabilisce un nuovo ordine: le immagini in successione sostituiscono il dettato, il parlato, quindi il poeta non utilizza le proprie parole ma delle immagini che si sostituiscono al suo parlare e al suo apparire nel mondo. Quindi le frasi di immagini si auto indagano e sprofondano in un abisso del linguaggio rinominando il “silenzio”, rinominandolo in “Silenzio”. Quando nella Poetry kitchen si citano i versi di questa poesia di Tranströmer:
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Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero
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si isolano questi versi dal proprio contesto, e così isolati sembrano già una poesia kitchen. Nella poesia kitchen si passa dall’immagine sola di Tranströmer che tramanda l’abisso dell’essere come cosa della Natura, al distacco elementare di due parti del linguaggio che fa sbuffare su di noi il vuoto. Io colgo in queste tre fasi una direzione di progressiva liberazione dall’io del testo poetico, e la Szymborska e ancor più Tranströmer ne segnano il vettore. Quindi rifiutare questo fatto è pericoloso per la contemporaneità del proprio scrivere.
Jacopo Ricciardi
1 ottobre 2022 alle 10:26
Da un punto di vista decentrato rispetto alla «posizione centrica» di Giorgio Linguaglossa e di altri come Francesco Paolo Intini o Marie Laure Colasson ecc., io mi trovo a guardare in lontananza ciò che accade in quel centro teorico e pratico, che vuole o vorrebbe, battendo sempre sul medesimo punto, mostrare uno spazio privo di metafisica, quindi senza l’illusione della rappresentazione.
Quindi il processo della lettura nella Poetry kitchen vuole o vorrebbe disarcionare tutta l’abitudine narrativa o lineare dell’osservazione e della comprensione tradizionali, fondati sul riconoscimento delle cose del mondo.
Quindi si ottiene un percorso spezzato che dà su una realtà che è appunto quel vuoto o nulla scoperti in un improvviso altrove che non ha più rapporto coi frammenti che l’hanno suscitato, un vuoto che genera quei frammenti galleggianti sul vuoto. Frammenti che non sono però il vuoto, ma che per frammentazione fanno scorgere oltre di loro il perfetto, il vuoto. Ora se questo vuoto sta anche all’interno dei frammenti, le parole operano come forme e racconti metafisici, con una metafisica tradita che però è sempre metafisica. Una metafisica dal volto disilluso come dice Roberto Bertoldo. Il piacere della lettura è appunto questo perdersi nella parte metafisica, tradente sé medesima, dei frammenti e nei fantasmi delle cose, più che con l’incontro con il vero vuoto che è fisso, identico, tra i frammenti di un solo poeta, e di poeti diversi, uguale, solo momento, a dire il vero inafferrabile, e non trattenibile.
Quindi io credo che il vuoto esterno ai frammenti non sia un appiglio per la mente, e che si riveli alla mente come attimo comunque mascherante se stesso, nel suo essere veritiero, e che i veri appigli siano nei frammenti dalla linearità cortissima o abortita, che trattengono in sé una metafisica ripetutamente e variegatamente ripiegata nel proprio tradimento. Uscire veramente dalla metafisica vorrebbe dire teorizzare il comportamento di una mente senza corpo e priva di mondo, e del tutto senza pensiero, in un tempo vasto senza tempo.
La Poetry kitchen produce lo shock del vero vuoto? Forse.
Giorgio Linguaglossa
1 ottobre 2022 alle 14:27
caro Jacopo,
è che il vuoto ce l’abbiamo nel linguaggio, fuori del linguaggio, di fronte a noi ed è dentro di noi, dentro gli oggetti, è nel soggetto e nell’oggetto, specularmente. E allora, quale sguardo impostare?, quale esperienza?, con quale linguaggio? Il problema di ogni giudizio o rappresentazione è che si tratta di cose che derivano da una posizione frontale (kantiana). L’io, il soggetto metafisico che osserva l’oggetto è una finzione perché il soggetto è sempre parte e «limite del mondo, non si può staccare il soggetto dall’oggetto come un francobollo da una busta. Fare una poesia o romanzo rappresentativi presuppone sicuramente un soggetto plenipotenziario, una ideologia narcisistica, egoriferita, ombelicale ovunque poi cada la rappresentazione, se nella storia o nella storialità, nell’ipoverità o nella iperverità o nella perversione del Collasso del Simbolico. Nel Collasso del Simbolico non c’è una «mente» che possa tenere insieme i membra disiecta. È che non ci resta che una auto educazione alla lateralità, alla disfunzionalità del linguaggio, del soggetto che lo agisce e del soggetto che viene agito e etero agito; occorre la formattazione della antica ottica per una nuova che sdipani i fili di quel che si è fittiziamente e fattiziamente fattualizzato dall’io auto riferito ponendo però attenzione alla dis-attenzione, a quel che, di volta in volta, è andato smarrito, centrifugato e dissolto nel Collasso dei linguaggi e delle visioni.
Il «cogito ergo sum» di cartesiana memoria è stato rovesciato da Lacan nel monito «penso dove non sono, dunque sono dove non penso»: il diffondersi di questa concettualizzazione non-lineare e a-centrica della rappresentazione del soggetto «a-centrico» (per usare una dizione di Enrico Castelli Gattinara) non ha avuto seguito nella produzione poetica e romanzesca italiane (fatta eccezione per Calvino), dunque, la rivoluzione copernicana iniziata da Freud deve essere portata a compimento anche nel cassetto della poesia italiana ancora immobilizzata ad una visione «centrica» della soggettualità.
Il linguaggio non è la sede del trauma, è il trauma che buca il linguaggio; ma il trauma obbliga il soggetto a «perdere» la cosa e a «bucare» la rappresentazione. Questo è il passaggio fondamentale: il momento in cui si struttura la soggettività per la rappresentazione è il medesimo momento in cui si struttura il linguaggio. Da questo momento in poi quando entriamo nel linguaggio «perdiamo» la Cosa e trattiamo con i suoi sostituti: le «parole» delle «cose», così le «parole» acquistano legittimazione filosofica e giuridica. Le parole del mondo collassato sono anch’esse attinte dal collasso. La modalità kitchen disconosce la «posizione centrica», non c’è nessuna posizione che sia «centrica», siamo tutti lateralizzati. Non avrebbe senso dinanzi alle parole collassate salvaguardare una «mente» integra o «centrica» come affermi tu. Le parole del mondo collassato sono degradate ad utilitarietà e convogliate nella comunicazione (a-centrica). E così perdono peso, senso, significato.
Pensare che vi sia una uscita di sicurezza gratuita dalla fine della metafisica attraverso una operazione di modernariato sul linguaggio è una pia illusione, un errore. C’è un dazio da pagare, altrimenti si va a comprare il soggetto «centrico» al mercato nero.
Jacopo Ricciardi
1 ottobre 2022 alle 17:10
L’ipoverità e la disfunzionalità del linguaggio anche se possono essere messi in un discorso come distinti fattori, potrebbero a un atto pratico di verifica – analisi testuale – sovrapporsi ed essere addirittura la stessa cosa. Ossia, come posso sapere se il vuoto vero non è un’ipoverità del vuoto ovvero una sua immagine. Non ho difficoltà a vedere il vuoto, a “sentirlo” addirittura, nelle cose – coglierlo nella struttura della società contemporanea -, a formare di vuoto il soggetto, a rendermi conto della non aderenza tra frontalità e pratica disfunzionale del linguaggio come lateralità, ma penso che essere certi alla lettura che quel dato frammento o parola non mantenga un’aura metafisica che si confonda col desiderio di sogno e di racconto, ancorché negato, non è certo.
Nel mio caso poetico uno spazio e un tempo si dilatano in un modo che trova un luogo fatto di fuori spazio e fuori tempo, eppure resta una forma di spazio e di tempo, anche se nell’esperienza – alla lettura – molto diverso. Nei testi della Colasson trovo personaggi e loro gesti e situazioni ridotte e frammentate che mi danno godimento per essere dei fantasmi la cui aura mi fa sognare, nel vuoto diciamo, però sognato. Può essere un mio errore, il godimento. Però la lettura richiede soddisfazione di un godimento, altrimenti non ci sarebbe lettura. I testi di Linguaglossa mi piacciono perché il luogo dove avviene una serie di fatti idiosincratici è un vuoto che nonostante tutto si riempie, di vuoto forse, ma che è sempre qualcosa. Così seguo la pallottola di Gino Rago, perché fa dipanare una storia che non si svolge, il filo della pallottola è fatto di vuoto ma pure passa come un filo continuo attaccato ad un ago che attraversa e lega distanze e tra loro il vuoto. Se Gino Rago non mantenesse in vita la storia quale piacere proverebbe il lettore. Lucio Tosi seziona la realtà e la isola in maniera tale che la disgrega, ma pure la mantiene viva in pochissimi pezzi e quasi incomunicabile; perché ogni poesia comunica, e lo stare davanti a un testo così stringato che non si stringe può affascinare il lettore. Intini forse è l’unico che concede al lettore meno spazio, e che si trova al centro di un centro. Il testo di Intini si trova nel centro del centro della teoria di Linguaglossa, ma il lettore – dalla mia personale esperienza di lettura – vede il suo desiderio insieme al proprio sogno bruciati via.
Ora questo margine degli autori dal centro del centro – per esempio di Linguaglossa poeta rispetto al Linguaglossa critico – della Poetry Kitchen meno Intini, offrendo uno spazio meno stringato del linguaggio, dove ancora spiffera il desiderio e il sogno del lettore, a me pare necessario; evitandolo nella direzione di Intini – oltre di lui -, che pure non ne è esente, si farebbe del testo un esercizio filosofico anziché restare nel letterario, vivrebbe insomma nel presente della teoria anziché nel futuro della pratica.