caro Lucio,
il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico); non si dà il positivo senza il negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si rivela internamente bifide e auto contraddittoria: perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.
(Giorgio Linguaglossa)
Giorgio Agamben
Stralci
La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1
La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tuttala riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2
Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo esserespaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nelluogo del linguaggio, il Dasein trovaun’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3
… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4
1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, olio, 2020
Marie Laure Colasson
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Marie Laure (Milaure) Colasson francese, nasce a Torino nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in gallerie di Parigi, Bruxelles, Roma, Buenos Aires. Sue opere si trovano nei musei di Giappone, Francia e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È redattrice della rivista lombradelleparole.wordpress.com
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Poetry kitchen
L’ultima poesia di Les choses de la vie
di Marie laure Colasson.
33.
un deux deux
si si non
ouvre la valise
deux un cinq
non non si
cri d’un oiseau
deux cinq sept
non si non
monte les escalier
trois deux deux
non si si
dans la valise une robe en dentelle rouge
deux un sept
si si non
enfile la robe en dentelle rouge
deux un deux
si non si
c’est ton tour
cinq un deux
si si si
mèfiez vous d’elle
trop belle envoutante
fermez les portes les fenêtres
c’est la mort la mort
ne sait pas compter
ne sait pas dire non
mais n’oublie pas del mettre du rouge à lèvres
*
uno due due
sì sì no
apri la valigia
due uno cinque
no no sì
grido di un uccello
due cinque sette
no sì no
sali le scale
tre due due
no sì sì
nella valigia una veste di pizzo rossa
due uno sette
sì sì no
infila la veste di pizzo rossa
due uno due
sì no sì
è il tuo turno
cinque uno due
sì sì sì
diffidate di lei
troppo bella invitante
chiudete le porte e le finestre
è la morte la morte
non sa contare
non sa dire no
ma non dimentica di mettersi il rossetto sulle labbra
La collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è una ubicazione privilegiata, un luogo abitabile? Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana di nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», comprendiamo appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale.
Il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia ed approdano sulla pagina bianca. Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile.
(Giorgio Linguaglossa)
Alfonso Cataldi
Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.
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Omaggio contemporaneo
La conversione stupisce sempre un metro più avanti
Il posto di blocco scompagina gli appunti.
L’ampio parcheggio ospita la povertà di un resoconto
matrimoni combinati omaggiano il bric-à-brac contemporaneo.
Akiva è caduto nel tranello dei ghost painter
dipinge a tempo pieno reprimende da pensionare
la tenda mancante alla finestra
i panni arrotolati in fondo al letto
Dettagli. S’incollano in due ore alla barba di rappresentanza.
Cosa twitterebbe l’Incompiuto?
Un necrologio che penzola distratto
e nessuno ha il coraggio di afferrare.
Giacomo ha cinque anni e non ha chiesto mai perché
In emergenza le risposte sono appese alle finestre dell’albergo.
“L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.”
Affinché queste enunciazioni possano trovare riscontro nell’esperire, cioè a dire nell’evento, è necessario porsi nella condizione del testimone (silenzioso ascoltare e osservare). Ed è questa, a mio avviso, la condizione che precede la Poiesis. L’osservazione non selettiva degli eventi, che è pura testimonianza, fornirà materiale di risorsa (conscio e inconscio) utile alla scrittura, che è resa dei sogni. Nulla di vero può essere detto. Ma può essere detto. Finché non si comprende il gioco, per cui nel dire si finisce inevitabilmente in braccio alla ragione, tutte le costruzioni qui imbrigliate diventeranno materia, cioè altro rispetto alla loro sostanza originale. Tutto si esaurisce nel voler dire, che in sé non avrebbe alcun contenuto in quanto è il linguaggio a disvelare, con effetto sorpresa, ciò che il testimone ha in serbo, e a sua insaputa. Da qui la freschezza sorgiva dei versi in poesia?
Altra cosa è la manipolazione dei significanti. Ma questo attiene alle cose del mondo.
A chi agisce nel linguaggio – come in giardino, l’incessante fiorire degli eventi – tenuto conto dell’odierna semplificazione (avversa alla complessità) basterà un dire sufficiente, che il resto verrà dall’intenzione. Una buona parola può valere quanto e più di un libro: oggi, poi, che si fa quasi tutto per mestiere.
Così anche un buon dipinto, perseguirà l’estetica sufficiente a-rendere l’idea del ben eseguito. In questo modo può darsi che la pittura si salvi e trovi posto nell’ambito delle idee.
(Lucio Mayoor Tosi)
Tomas Tranströmer
Stanco di tutto ciò che viene dalle parole, parole non linguaggio,
Mi recai sull’isola innevata.
Non ha parole la natura selvaggia.
Le sue pagine non scritte si estendono in ogni direzione.
Mi imbatto nelle orme di un cerbiatto.
Linguaggio non parole.
(Lucio Mayoor Tosi)
Sulla Poetry kitchen
caro Lucio,
la poetry kitchen assume in sé il più alto grado di consapevolezza della negatività. Oltre di essa la nuova poiesis non può andare, la nostra epoca ci sbarra la strada.
Scrive Agamben:
«Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica.
[…]
La negatività entra nell’uomo perché l’uomo ha da essere questo aver-luogo, vuole cogliere l’evento di linguaggio» (Il linguaggio e la morte, p. 43). Subito dopo Agamben si chiede: «che cosa, nell’esperienza dell’evento di linguaggio, getta nella negatività?
[…] Com’è possibile che il discorso abbia luogo, si configuri, cioè, come qualcosa che possa essere indicato?» (ibidem).
Le domande inquietanti di Agamben gettano un fascio di luce sulla nuova poiesis, la decostruzione agambeniana giunge al suo compimento. La risposta è nell’individuazione della «voce» come dispositivo fondamentale, nel senso di dialettica del fondamento, della negatività, come «dimensione ontologica fondamentale»(p. 45), e dunque come luogo negativo (non-luogo) dell’aver luogo dell’onto-logia dell’Occidente.
In questo passo giungiamo all’ultimo lido del nichilismo della ontoteologia. Nel futuro soltanto un’altra ontologia non più fondata sulla negatività della «voce» potrà liberarci da questa condizione di negatività.
(Giorgio Linguaglossa)
La kermesse delle ampolle da riempire
Le albicocche in offerta hanno il verme con la sindrome di Asperger.
All’OVS sono andate a ruba le t-schirt “Save the planet”
Il National Geographic ci ha stampato il logo sopra
ma “visto mai?” prosegue ad esplorare il piano B. Mars. Seconda stagione.
L’impatto umano sul pianeta rosso dopo la colonizzazione.
I Benetton serviranno una cameriera ?
Bombe di testosterone neutralizzano bombe d’acqua
la pazza gioia è alle costole dell’uomo scimmia.
«A quindicianni non ho mai salvato un pomeriggio dalla noia.»
I vicini carteggiano la voce per un karaoke tenebroso.
«La matricola 249, nome in codice Clara, è appena fuggita dai concetti basilari.»
I pappagalli gracchiano sugli alberi di Roma Est.
Christine Granville spunta tra i rami consapevole della missione
deve convincere i volatili a disertare la kermesse delle ampolle da riempire
prima che Sheldon Cooper li minacci col bazooka spaziale.
Ma Van Gogh si uccise veramente?
In questa poesia di Alfonso Cataldi abbiamo un esempio di autonomizzazione degli enunciati. Ogni enunciato, ogni atto di parola, va per la sua strada e tutti insieme fanno un gran fracasso, una grande confusione. Ogni enunciato pesca in cucina le parole dismesse, usate e gettate via e, tutte insieme, indicano molto bene la nostra condizione storico-esistenziale, assai più di quanto lo possano fare migliaia di poesie monadiche e monodiche bene educate ed equipaggiate che si fanno oggi.
Questa è, propriamente, la poetry kitchen, l’ultima e recentissima propaggine della ricerca di una nuova ontologia del poetico che prendesse le misure e le distanze alla ontologia estetica del novecento e di questi ultimi due decenni.
Scrive Giorgio Agamben in uno stralcio postato sopra:
«La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato».
Un amico che fa poesia mi ha detto ieri al telefono che non riesciva a capire la poesia di Marie Laure Colasson, quella enumerazione gli sembrava stucchevole. Al che io gli ho risposto semplicemente che il suo gusto è stato rovinato dalle migliaia di pseudo-poesie bene educate che si sono fatte in Italia e si continuano a fare oggi. E che magari dovrebbe leggere con più frequenza le poesie dell’Ombra delle Parole.
Lucio Mayoor Tosi scritto:
«Alla poesia, penso, bisogna tendere tranelli, non solo aspettare contemplando la luna!», pensiero quanto mai vero, quanto mai complesso.
E poi c’è la questione del gioco del gatto e del topo.
Innanzitutto, c’è la «posizione» del poeta. Dove si posiziona il poeta in una poesia? Al centro del campo? In area di rigore? In porta? sulle ali? (usiamo il gergo calcistico così alleggeriamo il peso di questa indagine). In molte poesie che si leggono sulla carta stampata oggi targata Mondadori e Einaudi, si nota subito che il «poeta» se ne sta beato in tribuna a contemplare il gioco dei fonemi e dei lessemi che agiscono nel campo di gioco; il poeta si trova (beato lui!) seduto nella comoda tribuna numerata, al sicuro e ben riparato dalla pioggia e dagli eventi atmosferici. Potrei fare dei nomi di questa postazione nobiliare di molti poeti di oggidì, ma non ne varrebbe la pena, farei solo della pubblicità…
E poi si pone la questione del linguaggio.
Un tempo si pensava che porre la questione del linguaggio fosse una cosa che riguardava l’attivismo dell’autore, il linguaggio era un corpo, erano dei «materiali» dove si poteva entrare a piacimento con gli strumenti chirurgici offerti gratis dalla nuova scolastica che era data dallo sperimentalismo, intendo qui con il termine sperimentalismo anche tantissima parte di ciò che veniva volgarizzato dalla estrema destra letteraria: l’orfismo con le sue adiacenze, riflesso speculare della scolastica del pensiero progressista…
Quando invece il linguaggio è una pre-condizione che non postula nulla di condizionato. Un paradosso nel paradosso. E Marie Laure Colasson impiega il linguaggio poetico come una specie particolare di linguaggio paradossale.
Una pre-condizione che postula il nulla prima di esso.
Soltanto così, accettando questa impostazione esistenziale e categoriale si può tentare di fare poesia di qualche valore. Ma non è una cosa così facile né scontata… bisogna entrare in un altro ordine di idee, quello che noi abbiamo denominato la «nuova ontologia estetica».
E invece è vero il fatto che non si può pensare di scrivere poesia se non sulla pre-comprensione di una crisi avvolgente il linguaggio e il soggetto nel linguaggio.
Nel saggio «Spatial turn: spazio vissuto e segni dei tempi»
Giacomo Marramao scrive:
«[…]materia del contendere della “svolta spaziale” non è più l’alternativa tra “futurismo” del Progetto moderno e “presentismo” dell’Antiprogetto postmoderno:
tra un tempo infuturante e un tempo congelato nell’eternizzazione e ripetizione seriale del presente.
Non è più un superamento (operazione tutta interna alla signoria moderna del tempo), ma uno spostamento laterale in grado di porre lo spatial thinking come via privilegiata di accesso alle concrete forme di vita e di azione dei soggetti in un mondo non-euclideo: un mondo ormai irriducibile a una superficie piana (limitata, ma infinita), ma consistente in una sfera (finita, ma illimitata).
Il ribaltamento paradigmatico dallo spazio euclideo allo spazio topologico è alla base della proliferazione della “topica della spazialità” cui stiamo assistendo negli ultimi anni nel campo degli studi letterari e culturali, ma anche dell’antropologia, della storia e della stessa scienza politica.
L’ottica spaziale diviene così una finestra di collegamento transdisciplinare, che elude l’occhiuta vigilanza delle guardie confinarie delle discipline accademiche tradizionali[…]».
*
Milaure Colasson ha iniziato a prendere coscienza piena della poetica della spazialità e del passaggio dal paradigma temporale a quello del paradigma spaziale e si è messa “alla ricerca dello spazio perduto”, superando l’ormai logora scia “alla ricerca del tempo perduto…”
Gino Rago
caro Gino Rago,
hai colto un elemento determinante della nuova poiesis: lo spazio, la spazialità sono fattori determinanti e fondamentali della nuova poiesis. Una poesia priva di «spazio» la riconosci subito, è quella cosa facile facile che fanno tutti: piccoli, medi e cd. grandi poeti. Ma siamo fuori strada.
L’immaginazione ha bisogno di spazio per poter esplicarsi, altrimenti resta richiusa dentro la scatola dell’io e del tempo, del passato magari, con tanto di elegia e di lirica.
Poeti che nel corso di 40 anni non hanno mai cambiato stile, figure e linguaggio sono declinabili nel dimenticatoio per la semplice ragione che non è possibile che in 40 anni non siano intervenuti nuovi fattori nel corso della storia che non abbiano influito in qualche modo sulla forma-poesia, modificandola dall’interno.
Questo è il punto sul quale vorrei attirare l’attenzione dei lettori.
Dici bene quando ricordi il passaggio «dallo spazio euclideo allo spazio topologico», ma vedo che quasi nessuno si sofferma a pensare che cosa voglia significare questo fatto per la poiesis.
Copio e incollo alcune frasi che mi ero appuntato in un file.
Lo «spazio espressivo integrale» è il campo in cui «nome», «icone» «tempo», «spazio» vengono ridefiniti in un nuovo paradigma.
(Gino Rago)
La «struttura a polittico» è una struttura circolare.
(Lucio Mayoor Tosi)
La poesia di Linguaglossa è fondata sullo statuto di verità del nuovo discorso poetico denominato «nuova ontologia estetica».
(Mario M. Gabriele)
Il «polittico» nasce dalla consapevolezza che il discorso poetico è privo di un fondamento stabile.
(Marie Laure Colasson)