
La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente
Giorgio Linguaglossa
A proposito della «noia» e del «vuoto» e dell’«oggetto»
«La noia è un’esperienza fondamentale dell’umanità e dell’Occidente. La parola tedesca è langweile: un lungo indugio, una piccola sosta protratta lungamente nel tempo. Il tempo che si caratterizza per una ripetizione infinita: non solo la mancanza della novità ma soprattutto la mancanza della speranza stessa che qualcosa di nuovo possa accadere. È l’esperienza del soffocare, che può aprire alla disperazione, questo è ovvio, ma anche al salto, religioso e filosofico. Senza questo senso di soffocare nel vuoto è impensabile anche solo pensare di uscirne. Quando giungi al limite in cui il passato ti sembra niente puoi immaginare un oltre. La noia direi, quindi, ha una duplice faccia: consuma il tempo passato, consuma il presente ma non è detto che si fermi lì, può portare ad una novitas, il tempo si è esaurito ma può esserci dell’altro.
Poi non citerei sempre lo straniero, citerei Leopardi, è un discorso tipicamente e completamente leopardiano, ma direi anche tipicamente italiano, anche del Tasso e di tutta la grande lirica italiana.» (da una intervista a Massimo Cacciari)
La debolezza degli oggetti
Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità, assumono una grande carica simbolica. Il «lungo indugio» richiede che il punto di vista della noia si posi sugli «oggetti» per rivelarne la loro intrinseca debolezza ontologica: l’oggetto diventa «debole», e anche il soggetto diventa «debole». Si va profilando la «ontologia del declino» degli oggetti e del soggetto di cui ci ha parlato Gianni Vattimo. La «debolezza degli oggetti» va di pari passo con la appercezione annoiata del mondo tipica della attuale fase della civiltà del capitalismo finanziario e globale; è la conformazione indebolita degli oggetti quella che appare alla epoché dello sguardo annoiato, ma, appunto, questo sguardo indebolito richiede una sintassi indebolita, e così le giunture razionalizzatrici della sintassi si indeboliscono, la direzione unilineare e unitemporale della sintassi diventa fragile e si disintegra; analogamente avviene con la appercezione dello spazio-tempo: lo spazio tempo, liberato dalla costrizione della sintassi, si moltiplica in una pluralità di spazi e di tempi, e arriviamo alla appercezione indebolita della «nuova poesia», cioè della «nuova ontologia estetica». È un movimento epocale che qui ha luogo, un movimento innervato nella «ontologia del declino» del soggetto e dell’oggetto.
Pensavo in questi giorni leggendo la poesia di Mauro Pierno e di Alfonso Cataldi che la poesia della nuova ontologia estetica dà molto credito alla noia. La noia è una ottima maestra dell’arte poietica; la disarmonia di cui parla Leopardi a proposito della musica (intuizione brillantissima), pone la musica alla stessa stregua della poesia, entrambe sono una interruzione della noia, della noia come rallentamento del tempo e dilatazione dello spazio; la musica questo lo sa da tempo immemorabile e la musica di Rossini e di Paganini ne è un esempio impareggiabile…
In tempi moderni la musica di Giacinto Scelsi mette in opera il principio della noia: gli «oggetti», i «suoni» della musica tradizionale scompaiono, per Scelsi la musica è interna al suono (ascolta Quattro pezzi su una nota sola, per orchestra da camera, del 1959), il musicista che abita davanti al Foro romano distingue la musica dei suoni dalla musica del suono, e la sua ricerca musicale si concentrerà sulla musica che scaturisce da un suono solo, un suono dominante che si può dilatare e temporalizzare all’infinito. Scelsi compone sempre più a rilento, spesso rielaborando opere precedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto.
Analogamente, la noia per la orchestrazione sonora della tradizione poetica, sostanzialmente elegiaca e monocorde, spinge la «nuova poesia» che vuole essere inusitata e dissonante a ricercare nuove soluzioni di conflittualità e di dissonanza, ma tutto ciò all’interno di una tonalità dominante, non più entro il perimetro di un concetto di panlogismo zanzottiano e sanguinetiano che accosta parole-suoni diversi e differenti in un conglomerato unilineare e unitemporale, nella «nuova ontologia estetica» la differenza e la diversità si possono trovare soltanto all’interno di una metafora dominante o una tonalità emotiva dominante.
La «noia» è il vuoto che si apre, che apre spazi e spalanca tempi; soltanto la «noia» ti consente questa esperienza fondamentale… ti fa esperire il tempo e lo spazio attraverso le parole… e le parole vengono ad essere temporalizzate e spazializzate… Il punto e la spaziatura tra i singoli versi e le singole strofe sono balconi che si affacciano sul vuoto della pagina bianca… Il «vuoto», dunque, insieme alla «noia» sono esperienze costitutive della poesia della nuova ontologia estetica; per «vuoto» intendo qui qualcosa di affine alla «noia», qualcosa che consente la traslazione di essa nella pagina bianca, perché è la «noia» che può spalancare la impalcatura del «vuoto», solo la «noia» per la parola panlogistica.
Due parole sull’oggetto
l’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto; l’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo. La «questità» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, la possibilità del loro essere e la non-possibilità, cioè il loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]
La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in oggi oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.
Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3] –
La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.
1] L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 41
2] Ibidem p. 39
2 Ibidem, p. 168

Con l’insorgere della noia gli oggetti si caricano di una forte emblematicità
Francesca Lo Bue
Una parola e una poesia sull’oggetto “lampada”.
Nel nominare gli oggetti la loro “specifica ” oggettualità, o precisione è già implicita la loro vaghezza, perché comporta la “condanna del linguaggio”: il suo essere scarso, limitato, approssimativo. Ma pure paradossalmente, nominare gli oggetti è aprire con una “chiave” la infinita possibilità di dire, nominare in un altro modo. Come una lampada che gettando luce su gli oggetti li chiama alla visibilità, alla loro presenza ed uso.
La poesia è questo oggetto “lampada” che è capace di potenziare la nominazione, quindi arricchire la esistenza materiale e spirituale del mondo.
Cercare
Come fossi lo spirito della lampada
cerco il luogo del Nome e della cima innevata,
cerco nel gioco delle mani la scrittura fatale del tuo destino.
Visione..
Barbaglii di brace in desolato suono.
Mano che afferri
oltre pareti di ferro,
scarlatto che ammicchi una chiave di silenzio e presagio.
Buscar
Como si fuera el espíritu de la lámpara
busco el lugar del Nombre en la cima nevada,
busco en el juego de las manos la escritura fatal
de tu destino.
Visión,
destello que abrasa en desolado sonido.
Mano que aferras
más allá de las paredes de hierro.
guiñas una llave de silencio y presagio.
Lucio Mayoor Tosi
18 maggio 2018 alle 18.02
La maniglia argentata
di una vecchia macchina da scrivere.
Questo lento a capo.

Man Ray, Lee Miller
Giorgio Linguaglossa
19 maggio alle 19.28 alle 18.02
Due poeti a confronto: Tomas Tranströmer e Iosif Brodskij – L’uso degli «oggetti»
Poesie di Tomas Tranströmer
Se leggiamo contemporaneamente una poesia di Tranströmer e di Brodskij salta in evidenza il diverso modo di nominare gli «oggetti». Nel primo gli oggetti si trovano nel presente e si sono, come dire, assolutizzati nel presente, e il poeta non fa altro che estorcere al presente la inusuale conformazione di essi (anche le persone sono oggetti e sono trattati da oggetti). L’approccio che ne deriva agli oggetti è quindi «frontale» ma non in accezione mimetica, quanto in accezione deduttiva. Tranströmer fa derivare gli oggetti dalla deduzione, argomenta utilizzando la verosimiglianza al reale e la inverosimiglianza, entrambe le strategie sono utilizzate per raggiungere una fotometria della profondità degli oggetti, cioè considera gli oggetti dal punto di vista dell’inconscio, rivelandone un diverso modo di essere. Rispetto alla poesia elegiaca di Brodskij, senza dubbio la poesia dello svedese è più «moderna», più vicina alla sensibilità di un contemporaneo: presenzializza il presente degli oggetti.
IV
Accanto al genero che è uomo del suo tempo Liszt è uno sciupato grandseigneur.
È un travestimento.
L’abisso che prova e respinge tante maschere ha scelto proprio quella per lui –
l’abisso che vuol far visita agli uomini senza mostrare il suo volto.
V
L’abate Liszt è abituato a portarsi da solo la valigia nel nevischio e sotto il sole
e quando un giorno morirà nessuno lo aspetterà alla stazione.
Una tiepida brezza d’un generoso cognac lo rapisce nel bel mezzo di
un compito.
Ha sempre dei compiti.
Duemila lettere all’anno!
Lo scolaro che scrive cento volte la parola sbagliata prima di poter andare a casa.
La gondola è gravata dal peso della vita, è semplice e nera.
VI
Di nuovo nel 1990
Ho sognato che avevo guidato per duecento chilometri inutilmente.
Poi tutto si fece grande. Passeri grossi come galline
cantavano in maniera assordante.
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.
(traduzione di Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, La gondola a lutto, 1996 – Herrenhaus, 2003)
Se leggiamo una poesia di Iosif Brodskij scritta nel 1997 (un anno dopo la pubblicazione delle poesie di Tranströmer). Ci accorgiamo che gli «oggetti» sono già nel passato e il poeta non fa altro che rievocarli e revocarli dal passato per renderli presenti. Utilizza cioè l’elegia, la rammemorazione. L’impostazione che ne segue sarà sostanzialmente di tipo elegiaco, il tono di voce e il contenuto emotivo, la Stimmung saranno la nostalgia e la poesia avrà un tono vagamente nostalgico di qualcosa che si è perduto e che non potrà più tornare. Il periodare avrà qualcosa di manieristico (del manierismo alto) e viene impiegato il «come» per unire i ponti delle metafore e delle proposizioni tra di loro, inoltre Brodskij fa amplissimo uso dell’enjambement in modo del tutto convenzionale e adotta la separazione in strofe di due versi per intervallare il tempo che passa e renderlo più evidente. Il soggetto in realtà è il tempo. Ecco una sua tipica poesia:
*
Tramonta il sole, ha chiuso il bar all’angolo.
Si accendono i lampioni come occhi d’attrice truccati
di violetto per ammaliare e insieme spaventare.
E il mal di testa scende con il paracadute sulla nuca
del nemico nel pastrano del ponte.
Sul frontone di Palazzo Minelli i piccioni
si accoppiano negli ultimi bagliori del tramonto
senza far caso, come nei tempi andati
i nostri cupi antenati in un preistorico
contesto, ai loro confratelli.
I rintocchi della torre campanaria
che affonda le radici nel cielo veneziano
sono frutti che cadono senza toccare
il suolo. Se esiste un’altra vita,
là qualcuno è intento alla raccolta di tutte
queste cose. Suppongo che tra poco
l’avrò chiaro. Qui, dove tanto sperma
si è versato, e anche vino
e lacrime estasiate, fermo di sera in un vicolo
dell’eliso terreno, assorbo
con la spugna consunta dei polmoni
l’aria pura dell’autunno-inverno
rosata dalle fughe di tegole sui tetti, aria
del luogo che mai si respira a sufficienza
– specie quando è prossimo il finale! -,
profumata di cellule ormai libere dai vincoli
del tempo. Sgualcita come una vecchia
banconota, l’onda lecca i gradini
del palazzo con il suo ceruleo taglio
e riceve in resto un mattone
scurito, soggetto a dermatite,
e una cariatide malferma
che ha issato sulle spalle l’organo
del linguaggio, sigaretta inclusa,
ed è immersa nella contemplazione
di quell’aviaria camera da letto
alla rovescia che si è liberata del pudore
e ricorda ora il calco di una palma,
ora un numero romano impazzito,
ora un verso manoscritto, con la rima di rito.
(Autunno 1995, Casa Marcello)
[da E così via, Adelphi, 1997 trad Matteo Campagnoli e Anna Raffetto p. 201-202]

Probabilmente il sole. Disse Lei.
Giorgio Linguaglossa
E adesso un esempio di poesia della nuova ontologia estetica
Qui è la fenomenologia delle categorie estetiche che è cambiata di sana pianta, che è stata ribaltata: innanzitutto, il tempo e lo spazio (anzi, gli spazi) rimbalzano di qua e di là; la verosimiglianza se ne è andata a farsi benedire ed è subentrato l’inconscio, il surreale, anzi, mi correggo, il sovrareale ultroneo, l’abnorme, l’abnormato; è stato abolito l’enjambement, l’a-capo si è liberato delle costrizioni di scuola e adesso è libero e assoluto; gli oggetti si sono liberati delle costrizioni dello spazio-tempo e adesso navigano liberi in un oceano di libertà, i protagonisti non sono le persone o l’«io» ma «due simil gatti», ci troviamo in una fiaba o in un sogno, insomma, ci troviamo in un sovrareale e poiché l’autore si è liberato di tutte le costrizioni di scuola, può spaziare liberamente seguendo il filo della sua fantasia. Questa poesia è, secondo me, un esercizio di libertà. Nell’originale era una colonna unica, io mi sono permesso di suddividerla in strofe con delle spaziature. Spero che Lucio mi perdonerà.
Lucio Mayoor Tosi
Lui e Lei avevano due simil gatti:
Andersen e l’altro Eckersberg. Entrambi maschi.
E castrati.
Andersen amava le camicie bianche
Eckersberg il contatto con la nudità.
“Fetente ma raffinato”, così recitava
la pubblicità.
Ma Lei aveva a cuore Andersen.
Se lo teneva in braccio o sulle spalle,
anche stando in piedi mentre cucinava:
sapori dell’India per loro e bianchi
ma finti spaghetti per Gatto Eckersberg
il nudista.
Lei stava morendo. Lo faceva ogni giorno.
Lui se non aveva da leggere svitava
e avvitava qualsiasi cosa.
John Lennon, Miles Davis, Natasha Thomas.
Lei quei pontili sospesi sul lago. Ma senza nebbia
e nemmeno dragoni. Solo cose per Andersen.
(Se la noia non vi assale, penso io
vuol dire che siete fumatori).
– Tutta l’Europa del sud è un canile.
A cominciare da Courbet. Non è vero, Eckersberg?
Quell’Origine del mondo, appena concepito
con furore. Quel leccarsi le dita…
Lei non rispondeva (stava morendo).
Contemplava le forme molli di un cubo
le bollicine dell’axterol, le lancette
dell’orologio sull’ora e i secondi.
– Probabilmente il sole. Disse Lei.
E non tornarono sull’argomento.
Tranne un giovedì, allorché Lei disse:
– Credo che ad Andersen farebbe bene
un piatto di trippa ogni tanto.
Il cargo dei viveri Okinawa era in ritardo
ormai di tre settimane (sei mesi terrestri).
Salgari sarebbe già partito in missione
con a bordo almeno tre robot ambasciatori
di marca tedesca.
Ma era stagione di polveri.
Difficile poter comunicare, inutile sprecare
Metafore. Si sarebbero perse nel vuoto
tra le lune. Quindi Lui e Lei si misero d’accordo
per spedire un messaggio criptato
al sovrintendente dei beni umani,
Ork il maligno; in realtà un povero cristo
circondato da macchine, alcune a vapore
(per via della pelle che nella stagione delle polveri
gli si seccava. Puntualmente e orribilmente).
“Aghi OrK”, così iniziava il messaggio
“Le bdhko di lk snmlir8jk! Andersen bd in vgeytz!
Si dia una mossa”.
La risposta non si fece attendere:
“Mi sono informato: niente trippa sul cargo Okinawa.
Ma posso mettervi da parte dei pomodori irlandesi”.
E in un secondo messaggio aggiunse:
“Per il gatto ho un Mickey Mouse del ’63.
Il mio l’ha già letto. Lo so, non è divertente”.
Le quattro linee del tramonto si stavano fondendo
nel sogno turco di Moon light.
Lui si tolse le spalline di cristallo, si strofinò gli occhi
e senza dire una parola volle intrattenersi ancora un po’
con Lei, che nel frattempo aveva terminato
di raddrizzare, così diceva, tutti i rametti del prezzemolo.
Fecero programmi. Il letto scandinavo ondeggiava
rumorosamente.
Vista dal giardino lenticolare, la casa sembrava
un traforo di merletti. Ork il maligno, come al solito
stava trasmettendo pensieri sconclusionati.
Lo chiamava Ozio dei poveri. Oppure
a seconda del momento, solo ‘Zio.
Mauro Pierno
15 maggio 2018 alle 8.21
Nelle boutique del centro
l’attesa nella stesura del silenzio
ha complicato
il taglio. Visioni fantastiche
sublimano abiti di manichini
in serie.
In strada corrono scampoli inafferrate di parole.
L’abbandono delle mani,
pure esplicito, allinea file di soli sarti in regola.
Si odono
solo note di ininterrotte forbici.
Giorgio Linguaglossa
caro Mauro Pierno,
non c’è dubbio, ma nutro dei dubbi su quel «non» che la tua sia una ricerca scriteriata di senso. Nella mancanza generale di senso dell’ordo rerum è ricco di senso il fatto di avere un senso scriteriato del senso. Quello che apprezzo nella tua collocazione del senso è che nella tua poesia non c’è nessuna esibizione del muscolo cardiaco e nessun esibizionismo del senso, del peccato, della disperazione etc. chi più ne ha più ne metta… forse è stato l’insegnamento di Totò e di Peppino, eterne maschere napoletane del non senso in un mondo privo di senso ad avere senso. La tua poesia fa le veci di un sabotatore che mostra il bidone della spazzatura nel mentre che gli altri poeti ispirati indicano a dito la luna, perché il senso della luna bella è proprio il bidone di cui discorreva Adorno nella Dialettica negativa nel 1966, e il mondo non è cambiato gran che da allora, solo che adesso va più veloce di allora, e allora la poesia che dir si voglia deve acquistare velocità e speditezza nella certezza che vada a schiantarsi contro la parete del nulla… Come scrive Adorno: «una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».1]
1] Dialettica negativa, 1966, paragrafo ultimo ed. it. Einaudi, 1970 p. 340)
Una poesia dell’ingegnere Raffaele Greco
Approfitto del fatto che non mi seguite in tanti per fare una confessione. Ora dirò la cosa più turpe che ho fatto nella mia vita matrimoniale. Un torto a mia moglie, solo per il mio piacere. Che bestia sono stato. Lo dico al prossimo tweet.
*
Ebbene abbiamo avuto un cane una volta, una femmina. Il nome l’ho scelto io. Indovinate come l’ho chiamata. Esatto, come una mia ex. Cioè manco una ex, una che mi piaceva un casino ma mi aveva dato il 2 di picche. Così sono fatto io.
Poi è durata poco, una decina di giorni.
L’abbiamo regalata, nonostante fosse solo una cagnolina non riuscivamo a gestirla. O forse mia moglie si era insospettita perché io andavo dicendo Lilli, Lilli vieni qui, baciamoci, e cose così.
Allora in seguito, dopo anni e anni, mi sono chiesto:
Ma cosa sarebbe stato del mio matrimonio se avessimo tenuto Lilli (la cagnolina)?
E cosa ne sarebbe stato se Lilli (la gnocca) mi avesse dato la patata?
E l’universo, come si sarebbe evoluto?
Dunque c’è questa teoria in cui si parla di mondi paralleli io cui io e Lilli (la cagnolina) conviviamo con mia moglie, e mondi in cui io e Lilli (la gnocca) conviviamo, con o senza mia moglie. C’è anche un caso in cui Lilli (la gnocca) convive con mia moglie. E io col cane.
Sono passato quindi a investigare questa storia dei mondi paralleli.
Vediamo quali sono i tipi possibili.
Prima di tutto l’universo stesso in cui viviamo. Senza tanti sforzi di fantasia, anche se l’universo non è infinito, è sicuramente più grande di 13.8 miliardi di anni luce (un anno luce è una misura di distanza).
E quindi tutto ciò che è più lontano da noi di 13,8 miliardi di anni luce, non può avere avuto alcun contatto con noi, non ci siamo mai potuti neanche vedere, perchè le rispettiva luci non si sono raggiunte, perciò a tutti gli effetti è un altro universo per noi.
Questo però non è proprio parallelo, più che altro è lontano. Non ci attizza molto.
Un’altra ipotesi abbastanza divertente è quella che riguarda l’universo inflazionario. Oh, l’universo inflazionario è una teoria ormai consolidata che dice che subito dopo il big bang …
… che subito dopo il big bang …
… c’è stata una espansione rapidissima (“inflazionaria”) che ha avuto un sacco di conseguenze.
Tra queste conseguenze c’è anche la possibilità che siano nati altri universi oltre al nostro. Quindi in qualche modo simili al nostro, ma irraggiungibili.
Come se noi e loro fossimo su pianeti diversi, costretti a muoverci, a vivere, a vedere solo sulla superficie del nostro pianeta. Sappiamo che possono esserci, ma che non interagiremo mai.
Poi c’è un’altra teoria, che parla di altre dimensioni. Se nel nostro universo noi riconosciamo 3 dimensioni spaziali (alto-basso, avanti-indietro, destra-sinistra), + il tempo, non è detto che non esistano anche 4 o più dimensioni.
In realtà già per il nostro mondo si parla di molte più dimensioni spaziali, quindi immaginarne più di 3 non è affatto strano. Ma insomma, se ce ne fossero 4, potrebbero esserci universi paralleli proprio accanto a noi.
Mi spiego meglio con un esempio.
Scaliamo di una dimensione.
Immaginiamo che il nostro universo sia un grande enorme foglio, una roba piatta insomma, in cui tutto è piatto e niente esce fuori dal foglio.
Un altro enorme foglio potrebbe essere a fianco del primo e nessuno di loro lo saprebbe.
Allo stesso modo potrebbero esserci, in uno spazio ipotetico multidimensionale, altri universi tridimensionali simili al nostro, e noi lo non lo sapremmo.
Ovvero, le teorie più accreditate dicono che l’unica forza in grado di passare da un universo all’altro è la gravità.
Dunque, la gravità è un modo per “comunicare” con gli universi paralleli. Tutto molto bello, ma non sappiamo usare la gravità per comunicare. Ah, e c’è anche il fatto che per giustificare la mancanza di materia dell’universo si sono dovuti inventare la “materia oscura” …
Non vorrei incasinarmi.
In breve, nel nostro universo manca materia. Gli effetti gravitazionali presenti sono relativi a una massa complessiva pari a 10 volte quella osservata. Cioè manca all’appello il 90 % della massa. Questa parte mancante viene chiamata materia oscura.
Una possibile spiegazione di questa materia mancante, o meglio di questo effetto gravitazionale inspiegato, è che provenga dagli universi paralleli.
Insomma, apro un digressione parallela. Se volete seguirmi bene, se no comunque poi continuo con sliding doors.
La causa principale della diminuzione di una forza (tipo la gravità, o il campo elettrico) con la distanza, è che la forza con l’aumentare della distanza si espande in tre dimensioni.
Cioè se io mi allontano di un km dalla fonte della forza, quella stessa forza si è espansa …
in un km cubo, perciò perde molta della sua intensità per potermi raggiungere. Se si sviluppasse lungo una linea, come un singolo fotone, non perderebbe intensità.
Allora, ammettiamo per un momento che le dimensioni spaziali in realtà siano 4, ma ne vediamo 3.
La gravità, che è in grado di passare negli altri universi, e quindi “vede” 4 dimensioni, è più debole di quanto sarebbe in 3 dimensioni, perchè parte della sua intensità va negli altri universi.
Allo stesso modo, la gravità degli altri universi, si riversa anche sul nostro.
Bon. Non ne so molto di più. Torniamo all’ultima possibilità.
Infine c’è un’altra teoria, che deriva dalla meccanica quantistica.
Il multiverso.
L’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica porta alla formulazione della teoria del multiverso.
Ogni decisione, ogni misura, ogni possibilità porta ad un percorso diverso, un altro mondo che parte e si sviluppa da una scelta diversa da quella di questo mondo.
E così, la scelta di andare a quella festa, ha dato origine ad un mondo parallelo in cui non ci siete andati. E tutti questi infiniti mondi continuano contemporaneamente in un diverso continuum spazio-temporale.
Forse c’è anche un mondo in cui Lilli mi ha detto di sì.
In quel mondo, il mio alter ego non ha conosciuto Loredana, mia moglie.
Peggio per lui.
Lettera alla Redazione de “Il Mangiaparole”, anno 2018, N.2
Gino Rago
Intorno ad alcuni luoghi comuni sulla poesia
“Poco prima di Pasqua sono andato dal mio barbiere romano di fiducia, sulla Via Appia Nuova.
Anche Berardo, il barbiere, scrive poesie e spesso alla fine delle sue giornate piene me ne legge qualcuna. Anche questa volta, tra uno shampoo e un taglio di capelli, Berardo ha voluto con me parlare di poesia, del fare poesia, del cosa è la poesia, e di altre amenità. Gli altri due clienti presenti nella bottega del barbiere subito hanno partecipato appassionatamente allo scambio fra « Berardo-il-barbiere-poeta» e me. E, sorpresa, quali questioni sono state con foga gettate sul tappeto?
Le stesse che proponeva l’inserto “La Lettura” [del Corriere della Sera] del 18 marzo 2018:
– TUTTO E’ POESIA
– LA POESIA NON SI CAPISCE
– PER SCRIVERE POESIE BASTA ANDARE A CAPO
– LA POESIA NON LA LEGGE NESSUNO
– TUTTI SCRIVONO POESIE
– LA POESIA E’ UNA FUGA DALLA REALTA’
– I POETI SONO TRISTI E PESSIMISTI.
Sono domande o luoghi comuni da barberia, ancora sopportabili per far passare i 25-30 minuti di tempo fra uno shampoo e un taglio di capelli in una barberia e con un barbiere-poeta-fai-da-te che scrive qualche verso, ma assolutamente da gettare nella spazzatura per un dibattito serio, colto, competente sulla poesia. Se posti poi sottoforma di domande queste non meriterebbero nessuna risposta per la nullità che racchiudono in sé e per l’inconsistenza che le caratterizza.
Ma sono luoghi comuni duri a morire e se questi luoghi comuni persistono nei dibattiti poetici forse i poeti qualche domanda se la devono pur porre, recitando anche qualche mea culpa, anche se nel discorso sull’assegnazione del Nobel a Stoccolma Eugenio Montale suggellò le sue risposte che a ben considerare spazzavano via gran parte di questi luoghi comuni …
Ma in buona sintesi con la chiusura de Lo Specchio mondadoriano la nostra poesia è stata danneggiata? E quando la scuderia de Lo Specchio Mondadori era scalpitante la poesia contemporanea ne ha tratto arricchimenti?
Nella barberia romana de L’Alberone-Appio-Latino ben sanno montalianamente che scrivere versi è l’arte più semplice che esista: bastano una matita e un foglio di carta …. Il problema [scandalosamente irrisolto] è che poi questo far poesia te lo puoi ritrovare stampato e diffuso anche sugli Oscar Mondadori… E allora questi luoghi comuni saranno duri a morire, anzi sono destinati a vita lunga.
Del resto, non dobbiamo meravigliarcene, offenderci sì, ma non meravigliarcene, se per decenni abbiamo subito la poetica minimalista, se tante esperienze della nostra poesia recente si sono concentrate sulla vita privata, sul culto interiore dell’ “Io”, un « IO » ipertrofico proposto, anzi innalzato a unico paradigma di verità, come cifra del trionfo di certo neo-individualismo [ anni Settanta] o come opzione ironico-teatrale [negli anni Ottanta del postmoderno].
Ma soprattutto questi luoghi comuni non sono ancora morti per questi due motivi [che al contrario sono alla base del dibattito e del fare poetico lanciati in questi ultimi anni da L’Ombra delle Parole e dal suo fondatore e coordinatore Giorgio Linguaglossa ben coadiuvato da una motivata e competente Redazione]:
– la poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non si è misurata con l’idea di Adorno [Teoria Estetica] «I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna».
– la nostra poesia ha smesso di porsi le Grandi Domande… E non si è misurata con il Vuoto, con il Nulla, con il Tempo interno, con la Metafora silenziosa, con lo Spazio espressivo integrale, con le immagini metaforiche, con il metodo mitico, con il frammentismo, con la dialettica ‘oggetti/cose’ e altro e altro ancora.
Così come le è sfuggita la necessità estetica del passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità, nella consapevolezza della pluralità e della polimorfia. E si è così dichiarata estranea alle pratiche culturali della rottura, della frammentazione, della dissociazione, della ibridazione da intendere come mescolamento di tempi, di spazi, di storia, di geografia, con l’adozione coraggiosa e diffusa del parlato. Di tentare di far poesia totale in forma di missiva [Ewa Lipska ne è altissima testimonianza poetica] neanche a parlarne…
Se i luoghi comuni sulla poesia [soprattutto le categorie di pessimismo e non pessimismo] elencati da La Lettura [del Corriere della Sera] fossero stati posti in forma di domande non avrebbero meritato nessuna risposta perché la loro leggerezza vacua non umilia e offende chi le riceve ma chi le pone.”
(Gino Rago)
Che ci importa, se “lo Specchio” di Mondadori ha chiuso, se, sull’Appia Nuova, c’è ancora un barbiere che crede nella poesia?
gentile Gino Rago,
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».
(Adorno, Minima moralia)».
In punta di dito
in maniera esplicita
la stessa che ci appartiene e ci
uniforma
alla confusione universale.
La stessa per intenderci, famo a capirci,
sul punto unico che ci contraddistingue.
La zona erogena dell’indice destro or ora utilizzato
per digitare, appunto, POESIA.
Nella parola la nostra salvezza.
Cosi comune che fa quasi schifo.
Così confusa ed ammansita.
Poesiapoesiapoesiapoesiapoesia
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alla maniera di Francesca Dono.
Grazie,Ombra.
(Bella la presentazione della rivista!)
Gli oggetti e le cose rappresentano le forme d’urto e di recupero del nostro subconscio, tutte le volte che si richiede la loro mediazione interculturale, come in poesia, che ne estetizza la loro presenza, portandola a livello emotivo e memoriale.
Senza gli oggetti e le cose non si potrebbe avere o produrre un’opera d’Arte, una icona, un libro; insomma tutta quella vasta merce che il consumismo attuale ha reso indispensabile, grazie alla fine dell’homo faber, sostituito dall’homo laborans, che ha annullato l’alienazione sostituendola con la soddisfazione, cioè con la quantità di pena e di piacere provati nella produzione o nel consumo delle cose, già rapportati da Hannah Arendt.
La nostra vita non può farne a meno, essendo veri apri-memoria, ologrammi, indizi, tracce, prodotti “usa e getta”. Essi ci appartengono come la nostra carta di identità, il nostro codice IBAN, l’anello di nozze, il broncodilatore nei momenti di apnea. Oggetti e cose sono anima e simbologia all’interno della poesia che ha lo scopo di reificare la loro funzione, e le loro zone di periferia, vive solo attraverso la rimemorazione.
Gli oggetti e le cose fanno parte del libero mercato della merce e della mente che li produce. Possono essere comprati, venduti, regalati. Diversi sono invece gli oggetti usati da chi ha comportamenti delittuosi, per cui l’arma, il coltello, ecc. non hanno più la funzione espositiva dell’oggetto d’Arte o dell’icona, ma finiscono con l’essere veri e propri arnesi del Male, ma anche significare il rimedio estremo nel difendere la nostra vita dagli attacchi della delinquenza comune. Su un altro piano si pone la problematica esaminata da Giorgio Linguaglossa su oggetti e cose, che sembrano denuclearizzarsi all’interno del linguaggio poetico, oggi tendenzialmente debole e fuorviante.
Se le notti non hanno più
lo scricchiolio del legno,
ma ronzii di lamenti digitali,
radiazioni monocromatiche,
superfici lisce e vitree
e le pieghe del foglio
fuse nei cavi ottici,
torneranno i colori più caldi e pesanti
ad oltrepassare con uno spillo
la lucida parete
frantumandola in esili semi.
(da DECODIFICHE, di Francesco Lorusso, Cierre Grafica, Verona 2007)
Se L’Ombra delle Parole fra i tanti bei versi che pubblica, mi permette questa intrusione autocitante.
Un grazie e un saluto a tutti.
Francesco Lorusso
Gentile Francesco Lorusso,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/20/loggetto-in-poesia-la-debolezza-degli-oggetti-poeti-a-confronto-tomas-transtromer-iosif-brodskij-francesca-lo-bue-lucio-mayoor-tosi-mauro-pierno-raffaele-greco-lontologia-del-declino-d/comment-page-1/#comment-34877
è interessante questa sua poesia tutta costruita su un registro ipotetico: «se le notti…», però mi sembra che la serie delle proposizioni ipotetiche dell’inizio non siano state chiuse; in ogni caso, sia come sia, mi sembra che manchi qualcosa, per esempio si sarebbe potuta inserire una serie di proposizioni secondarie e incidentali o ipotetiche (a rafforzamento delle precedenti) in modo da complicare la tessitura proposizionale della composizione… comunque mi sembra interessante questa procedura tutta imperniata su delle proposizioni ipotetiche ma poi l’ultima strofa con quel «torneranno»… che ha un attacco quasi pascoliano finisce in realtà con delle immagini di frantumazione e di dispersione («uno spillo», «in esili semi»), che stanno bene in un registro espressivo a cui la nuova ontologia estetica dedica molta attenzione.
Sarei interessato a leggere altre sue composizioni per capire in quale direzione espressiva lei si sta avviando, e sarei interessato a capire il suo punto di vista circa le nostre letture delle poesie di Brodskij e di Tranströmer.
Quello che vorrei tentare di far capire è che dal modo con cui poni il discorso espressivo si può intendere il modo con il quale vuoi porre in evidenza gli «oggetti» o le «cose». E viceversa, dal modo con cui poni gli «oggetti» e le «cose» si può comprendere il perché di certi registri espressivi e di certi tropi.
Breve botta e risposta fra Gino Rago-Giorgio Linguaglossa-Mario Gabriele
intorno a oggetti-cose-poesia-poeta
Giorgio Linguaglossa
1- “Gentile Gino Rago,
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».
(Adorno, Minima moralia)».
2- “[…] È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e la stessa esperienza del mondo[…]”
Mario Gabriele
“[…]Oggetti e cose sono anima e simbologia all’interno della poesia che ha lo scopo di reificare la loro funzione, e le loro zone di periferia, vive solo attraverso la rimemorazione[…]”
Gino Rago
Il poeta
“Il poeta è sempre all’alba del mondo,
ha indosso panni non suoi, schiacciato
da indumenti che altri gli ha fatto indossare
il suo pensiero nuota nel fiume a fatica.
Sbarbato, con la barba fitta di farfalle
si presenta il poeta.
Non sempre sente ciò che dovrebbe sentire.
Né riesce sempre a dire ciò che sente.
Il poeta si spoglia di ciò che ha imparato.
Dimentica ciò che altri gli ha insegnato.
Il poeta gratta via da sé ogni traccia:
forme – oggetti – forze.
E l’anima? [ abbiamo dimenticato l’anima…]
Non ne ha una di ricambio…”
————————————————————————————
N.B.
Benvenuto a Francesco Lorusso cui segnalo [ tenendo ben presente uno dei punti decisivi del paradigma estetico di quella che ormai è conosciuta come NOE] che in appena 11 suoi versi la mia lettura attenta dei medesimi si è imbattuta in almeno 6 aggettivi qualificativi [lisce, vitree, caldi, pesanti, lucida, esili…]
G R
una poesia del poeta turco Tuğrul Tanyol:
da Elinden Tutun Günü (Tenete il giorno per la mano), 1983
Il cavallo bianco
Vagando in silenzio per città incendiate
Nel vuoto delle piazze vuote e delle strade sporche
Dove tutti inseguivano l’eco
Seduto nel cortile buio
Risuonavano in me i tam-tam rapaci della morte
Vidi tutti gli idoli ancora innalzati
E la mia vita svanire lontano, come un cavallo bianco.
Tu dormivi
Nella stanza senza sole in strade sporche
Uno dopo l’altro i caseggiati mi crollavano addosso
E le strade prendevano vita e mi stringevano il collo
Tu dormivi
Tu dormivi
Per svegliarti in una notte differente.
Mentre il silenzio cresceva con le ali pesanti
Il buio si posava sulla tua finestra
E le ombre si sospendevano ad altre ombre…
La città brucia, non lo senti?
Vagando in silenzio per città incendiate
Risuonavano in me i tam-tam rapaci della morte
Vidi dolore mutarsi in dolore,
Odio in odio, buio in buio
E la mia vita svanire lontano, come un bianco cavallo
*
mi sembra una poesia incentrata in un pensiero di poesia di tipo elegiaco… una ontologia estetica che sa di passato…
(Giorgio Linguaglossa)
Posso solo scrivere frammenti, oggi tweet (mi si è rotta la tastiera del pc, procedo con fatica).
Mi hanno rimproverato due vasi da fiori che avevo dimenticato sopra un pensile, in cucina. Sono stati lì per cinque anni, mai usati. Finché d’improvviso ho visto su di loro la polvere che mi ricopre, e questi lunghi 5 anni trascorsi in quasi perfetta solitudine. E’ stato un lampo di verità.
Ora provo a tradurre: il tempo si deposita sulle cose, ne resta imbrigliato. Ma siccome non cessa i trascorrere, ecco che si accumula di significati, tutti trasparenti in uno; anzi due, entrambi bianchi e vuoti. Le cose sono luoghi di atterraggio e affrancamento, depositi di verità.
Il tempo è reale, ha fisicità. La stessa fisicità che hanno i pensieri, i quali come fotoni possono essere sia qua che altrove inspiegabilmente.
L’essere tempo è reale. Ma è indifferente e vuoto. Molti lo possono osservare – Il passato è qui – pochi lo sentono brillare. Le cose sono tempo, e anche noi se ci pensiamo cose. Essere cose è la nostra dimensione, cose tra le cose.
Dirci persone è assai generico, meglio dire che tutti noi siamo “Io”: noi pratichiamo l’io, tutti allo stesso modo. Io è l’assoluto che ci accomuna, indistintamente. Io c’è, ed è uguale in tutti. Ma è anche l’elemento he ci separa e ci rende soli. Non è né giusto né sbagliato: così siamo fatti.
caro Lucio, il problema a mio avviso si può porre così:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/20/loggetto-in-poesia-la-debolezza-degli-oggetti-poeti-a-confronto-tomas-transtromer-iosif-brodskij-francesca-lo-bue-lucio-mayoor-tosi-mauro-pierno-raffaele-greco-lontologia-del-declino-d/comment-page-1/#comment-34881
come si dovrebbe scrivere dopo la scomparsa di tutta la cultura, di quella alta, di quella media e di quella bassa, se davvero parlare in poesia di «città incendiate» abbia ancora del senso… trovo le locuzioni del poeta turco molto ingenue, troppo dette, troppo piene di «senso» e di «disperazione», troppo gridata, dettata da una concezione ancorata all’idea che ci sia ancora, purtuttavia, un sentimento dell’estetico… forse oggi si può parlare di poesia come messaggi via twitter, concatenazione demoltiplicata di messaggi twitter, e sms, implosione, diffrazione, demoltiplicazione, dis-aggregazione, dis-gregazione, aleatorietà, simulazione e mimulacro, simil poesia, simil simulacri, sproblematizzazione della cultura alta, impalcatura di simulacri…
Dalla lettura della poesia che si fa in Europa (vedi il poeta turco) si capisce che ci troviamo tutti in una «bolla speculativa» della cultura alta, che è implosa, bucata da miliardi di spilli della demagogia e del populismo. Quella del poeta turco (e lo dico con tutto il mio rispetto) è una tipica poesia ancora fondata sul concetto «nobile» della poesia della cultura alta che è implosa nel mondo della omologazione di massa…
Poesia con carta e penna, frammenti come antichi pallottolieri. Si può fare con niente, per questo non c’è da temere: poesia sopravviverà. Tutte le arti sono primitive. Del resto è tribale anche la nostra organizzazione sociale, checché se ne dica, se è vero ne siamo scontenti da millenni. Purché la lingua non affondi, certo; ma questo ormai potrebbe avvenire solo a causa di un disastro energetico. Questa eventualità non è ancora da escludere.
Caro Lucio, continui ad in cantarmi,specialmente nelle espressioni più concise:”Poesia per carta e penna, frammenti come antichi pallottolieri”.Il testo poteva fermarsi qui, aveva già detto tutto.
.+
LA NOIA di Alberto Moravia
(1960)
In questo romanzo, Moravia descrive con mirabile precisione la crisi esistenziale e artistica del protagonista, un pittore, che intuisce all’improvviso come rappresentare di nuovo gli oggetti del mondo: «La mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina»; «La noia, che è mancanza di rapporti con le cose». La noia quindi è il motore che mette in moto il rinnovamento della visione degli oggetti. Ecco, io ritengo che per raggiungere una nuova visione degli oggetti e delle cose in poesia si debba passare necessariamente attraverso lo stadio della noia. Sentirsi annoiati fino al punto da non poter più leggere poesia, da smettere di leggerla, da non poter neanche prendere la penna in mano, o premere con le dita la tastiera del pc. Ecco, a questo punto, ci troviamo sulla soglia di ingresso ad una nuova ontologia della poesia. In questo prologo del romanzo di Moravia abbiamo una mirabile esposizione della noia quale nuova modalità analitico-esistenziale della crisi dell’uomo contemporaneo, una «malattia» la definisce Moravia, ma una «malattia» che d’ora in avanti accompagnerà per sempre il lavoro creativo di un artista dell’Occidente..
Versione cinematografica di Damiano Damiani (1963)
Prologo
Ricordo benissimo come fu che cessai di dipingere. Una sera, dopo
essere stato otto ore di seguito nel mio studio, quando
dipingendo per cinque, dieci minuti e quando gettandomi sul
divano e restandoci disteso, con gli occhi al soffitto, una o due
ore; tutto ad un tratto, come per un’ispirazione finalmente
autentica dopo tanti fiacchi conati, schiacciai l’ultima
sigaretta nel portacenere colmo di mozziconi spcnti, spiccai un
salto felino dalla poltrona nella quale mi ero accasciato,
afferrai un coltellino radente di cui mi servivo qualche volta
per raschiare i colori e, a colpi ripetuti, trinciai la tela che
stavo dipingendo e non fui contento finché non l’ebbi ridotta a
brandelli. Poi tolsi da un angolo una tela pulita della stessa
grandezza, gettai via la tela lacerata e misi quella nuova sul
cavalletto. Subito dopo, però, mi accorsi che tutta la mia
energia, come dire creatrice, si era completamente scaricata in
quel furioso e, in fondo, razionale gesto di distruzione. Avevo
lavorato a quella tela durante gli ultimi due mesi, senza tregua,
con accanimento; lacerarla a colpi di coltello equivaleva, in
fondo, ad averla compiuta, forse in maniera neattiva,quanto ai
risultati esteriori che del resto mi interessavano poco, ma
positivamente per quanto riguardava la mia ispirazione. Infatti:
distruggere la tela voleva dire essere arrivato alla conclusione
di un lungo discorso che tenevo con me stesso da chissà quanto
tempo. Voleva dire aver messo finalmente il piede sul terreno
solido. Cosí, la tela pulita che stava adesso sul cavalletto, non
era semplicemente una qualsiasi tela non ancora adoperata, bensí
proprio quella particolare tela che avevo messo sul cavalletto al
termine di un lungo travaglio. Insomma, come pensai cercando di
consolarmi del senso di catastrofe che mi stringeva alla gola, a
partire da quella tela, simile, apparentemente, a tante altre
tele ma per me carica di significati e di risultati, adesso
potevo ricominciare daccapo, liberamente; quasi che quei dieci
anni di pittura non fossero passati ed io avessi ancora
venticinque anni, come quando avevo lasciato la casa di mia madre
ed ero andato a vivere nello studio di via Margutta, per
dedicarmi appunto, a tutto mio agio, alla pittura. D’altra parte,
però, poteva darsi, anzi era molto probabile che la tela pulita
che adesso campeggiava sul cavalletto, stesse a significare uno
sviluppo non meno intimo e necessario ma del tutto negativo, il
quale, per trapassi insensibili, mi aveva portato all’impotenza
completa. E che questa seconda ipotesi potesse essere quella
vera, sembrava dimostrarlo il fatto che la noia aveva lentamente
ma sicuramente accompagnato il mio lavoro durante gli ultimi sei
mesi, fino a farlo cessare del tutto in quel pomeriggio in cui
avevo lacerato la tela; un po’ come il deposito calcareo di certe
sorgenti finisce per ostruire un tubo e far cessare completamente
il flusso dell’acqua.
Penso che, a questo punto, sarà forse opportuno che io spenda
qualche parola sulla noia, un sentimento di cui mi accadrà di
parlare spesso in queste pagine. Dunque, per quanto io mi spinga
indietro negli anni con la memoria, ricordo di aver sempre
sofferto della noia. Ma bisogna intendersi su questa parola. Per
molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è
distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il
contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che
per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto,
appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un
genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una
specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.
Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha
sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo
corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi
e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e
cosí non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro
paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e
misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto
è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lí i divani, piú in
là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le
finestre, le porte; un momento dopo non c’è piú che buio e vuoto.
Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una
malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita
di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per
trasformazioni successive e rapidissime un fiore passare dal
boccio all’appassimento e alla polvere.
Il sentimento della noia nasce in me da quella dell’assurdità di
una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di
persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può
accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere.
Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o
di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle
labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di
rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere
con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla
sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate
che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che
ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo,
col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia
come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdita scaturirà
la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo,
non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa
noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi
che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse
averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso
sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di
essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire
da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse
uscirne, grazie a non so quale miracolo.
Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in
tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufliciente
chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l’infanzia e
poi anche durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ho
sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono
di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un
medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme
del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di
spiegare e che gli altn, nel caso mia madre, attribuivano a
disturbi dclla salute o altre simili causc; un po’ come il
malumore dei bimbi piú piccoli viene attribuito allo spuntare dei
denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di
giocare e di restare ore intere immobile, come attonito,
sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho
chiamato l‘avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura
consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto.
Si in quei momenti mia madre entrava nella stanza vedendomi
muto, inerte e pallido per la sofferenza mi domandava che cosa
avessi, rispondevo invariabilmente: “mi annoio”; spiegando cosí,
con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo
vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia
affermazione, si chinava ad abbracciarmi poi mi prometteva di
portarmi al cinema quel pomeriggio stesso, ossia mi proponeva un
divertimento che come sapevo ormai benissimo, non era il contrario
della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo accogliere con
gioia la proposta, non potevo fare meno di provare quello stesso
sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue
labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che
mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva
balenare come un miraggio davanti a occhi. Anche con le sue
labbra, con le sue braccia con il cinema, infatti, io non avevo
alcun rapporto quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia
madre che il sentimento di noia di cui soffrivo non poteva
essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia
consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora, non potendo
comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da
qualsiasi altro oggetto, in certo modo ero costretto ad accettare
il malinteso e a mentirle.
Sorvolo sui disastri della noia durante la mia adolescenza.
Allora, la mia pessima prova a scuola, fu attribuita a delle
cosiddette “debolezze”, ossia congenite incapacità in questa o
quest’altra materia di insegnamento; e io stesso accettavo questa
spiegazione in mancanza di un’altra piú valida. Adesso so di
certo, invece, che i cattivi voti che mi fioccavano addosso ad
ogni fine d’anno scolastico, erano dovuti ad un solo motivo: la
noia. In realtà io sentivo acutamente, con il solito profondo
malessere, che non avevo alcun rapporto con tutta quell’immensa
farragine di re ateniesi e di imperatori romani, di fiumi
dell’America meridionale e di montagne dell’Asia, di
endecasillabi di Dante e di esametri di Virgilio, di operazioni
algebriche e di formule chimiche. Tutta quesa sterminata quantità
di nozioni non mi riguardava, o mi riguardava soltanto per
constatarne l’assurdità fondamentale. Ma, come ho già detto, non
mi vantavo né con me stesso né con gli altri di questo mio
sentimento puramente negativo; mi dicevo, anzi, che non avrei
dovuto provarlo e ne soffrivo. Già allora questa sofferenza,
ricordo, mi ispirò il desiderio di definirla e di spiegarla. Ma
ero un ragazzo, Gon tutta la pedanteria e l’ambiziosità dei
ragazzi. Il risultato, cosí, fu un progetto di storia universale
secondo la noia, di cui, però, scrissi soltanto le prime pagine.
La storia universale secondo la noia era basata sopra un’idea
molto semplice: non il progresso, né l’evoluzione biologica, né
il fatto economico, né alcun altro dei motivi che di solito si
adducono da parte degli storici delle varie scuole, era la molla
della storia, bensí la noia. Assai infervorato per questa
magnifica scoperta, presi le cose alla radice. In principio,
dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio,
annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli
animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a
loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si
annoiò di loro e li cacciò dall’Eden; Caino, annoiato d’Abele, lo
uccise; Noè, annoiandosi veramente un po’ troppo, inventò il
vino; Iddio di nuovo annoiato degli uomini, distrusse il mondo
con il diluvio; ma questo, a sua volta, l’annoiò a tal punto che
Iddio fece tornare il bel tempo. E cosí via. I grandi imperi
egiziani, babilonesi, persiani, greci e romani sorgevano dalla
noia e crollavano nella noia; la noia del paganesimo suscitava il
cristianesimo; la noia del cattolicesimo, il protestantesimo; la
noia dell’Europa faceva scoprire l’America; la noia del
feudalesimo provocava la rivoluzione francese; e quella del
capitalismo, la rivoluzione russa. Tutte queste belle trovate
furono annotate in una specie di specchietto; quindi, con grande
zelo, cominciai a scrivere la storia vera e propria. Non ricordo
bene, ma non credo di avere oltrepassato la descrizione molto
particolareggiata della noia atroce di cui soffrirono Adamo ed
Eva nell’Eden, e come, a causa appunto di questa noia,
commettessero il peccato mortale. Quindi, annoiato a mia volta
del progetto, lo lasciai lí.
In realtà, soffrii di noia tra i dieci e i vent’anni forse in
misura maggiore che in tutte le altre età della mia vita. Sono
nato nel 1920, la mia adolescenza passò, dunque, sotto l’insegna
nera del fascismo, ossia di un regime politico che aveva eretto a
sistema l’incomunicabilità cosí del dittatore con le masse come
dei singoli cittadini fra di loro e con il dittatore. La noia,
che è mancanza di rapporti con le cose, durante tutto il fascismo
era nell’aria stessa che si respirava; a questa noia sociale,
bisogna aggiungere la noia dell’ottusa urgenza sessuale che, come
avviene a quell’età, m’impediva di comunicare con quelle stesse
donne con le quali credevo di sfogarla. Ma la noia mi salvò dalla
guerra civile che poco dopo ebbe a devastare l’Italia per due
anni; e precisamente in questo modo: mi trovavo sotto le armi in
una divisione di stanza a Roma; appena fu proclamato
l’armistizio, mi disfeci della divisa e tornai a casa. Quindi fu
promulgato un bando con l’ingiunzione a tutti i militari di
rientrare nei ranghi, pena la morte. Mia madre, con
caratteristico ossequio alle autorità che in quel momento erano
quelle fasciste e tedesche, mi consigliò di rimettermi la divisa e
presentarmi al comando. Lei voleva la mia salvezza; in realtà mi
spingeva verso la dcportazione e probabilmente la morte in un
campo di concentramento nazista, come avvenne a molti miei
compagni d’armi. Fu la noia, e soltanto la noia, ossia
l’impossibilità di stabilire un rapporto qua}siasi tra me e quel
bando, tra me e la divisa, tra me e i fascisti, la noia di cui
avevo sofferto durante vent’anni e che adesso rendeva ai miei
occhi del tutto inesistente il grande impero del fascio e della
croce uncinata, che mi salvò. Nonostante le preghiere di mia
madre, mi rifugiai in campagna, nella villa di un amico, e lí
trascorsi tutto il periodo della guerra civile, dipingendo, una
maniera come un’altra di passare il tempo. Fu allora che diventai
pittore; ossia che sperai di poter ristabilire una volta per
tutte il rapporto con la realtà per mezzo dell’espressione
artistica. Anzi, addirittura, nel primo sollievo provocato
dall’entusiasmo per la pittura, quasi mi convinsi che la mia noia
finora non era stata che la noia di un artista che ignorava di
essere tale. M’ingannavo; ma per qualche tempo mi illusi di avere
trovato il rimedio.
Alla fine della guerra, tornai da mia madre che, nel frattempo,
aveva acquistato una grande villa sulla via Appia. Avevo sperato,
come ho già detto, che la pittura avesse definitivamente
debellato la noia; ma mi accorsi quasi subito che non era cosí.
Ripresi, dunquc, a soffrire di noia nonostante la pittura; anzi,
poiché la noia interrompeva automaticamente la pit tura, mi resi
conto della intensità e frequenza del mio vecchio male con
maggiore precisione di quando non dipingevo. Cosí il problema
della noia si ripresentava immutato; e io allora presi a
domandarmi quali ne potessero essere i motivi, e per via di
esclusione, arrivai a concludere che forse mi annoiavo perché
ero ricco e che se fossi stato povero non mi sarei annoiato
Quest’idea non era cosí chiara nella mia mente, allo ra, come
adesso sulla carta; piú che di un’idea, si trat tava del sospetto
quasi ossessivo che vi fosse un nesso indubitabile benché oscuro
tra la noia e il denaro. No voglio dilungarmi troppo su questo
periodo oltremod sgradevole della mia vita. Poiché mi annoiavo, e
quando mi annoiavo non dipingevo, cominciai a odiaI con tutta
l’anima la villa di mia madre e gli agi di cu ci godevo;
attribuivo alla villa la mia noia e la con seguente impossibilità
di dipingere e anelavo ad al darmene. Ma poiché si trattava, come
ho già detto di un sospetto, non riuscivo a dire chiaramente a mi
madre la sola cosa che avrei dovuto dirle: non vogli vivere con
te perché sei ricca, e la ricchezza mi an noia e la noia
m’impedisce di dipingere. Cercavo, invece, d’istinto, di
rendermi insopportabile, in modo da suggerire e in certo modo
imporre la mia partenza dalla villa. Ricordo quei giorni come
giorni di eterno malumore, di pervicace ostilità, di ostinato
rifiuto, di quasi morbosa antipatia. Non ho mai tratta mia madre
peggio che in quel periodo; e cosí, al noia che mi opprimeva, si
aggiungeva, oltre tutto, la pietà per lei che non riusciva a
spiegarsi la mia sga beria. Ma soprattutto soffrivo di una specie
di paralisi di tutte le mie facoltà, per cui, muto, apatico e
ottuso, mi pareva di essere murato vivo dentro me stesso, come
dentro una prigione ermetica e soffocante.
Il soggiorno nella villa e il mio conseguente stato d’animo si
sarebbero probabilmente prolungati molto di piu se, per fortuna,
mia madre non avesse creduto di rlconoscere nella mia noia il
sentimento analogo che aveva rovinato i suoi rapporti con mio
padre. Cosí è giunto il momento di parlare anche di lui, sia pure
di sfuggita, se non altro perché mi aveva preceduto sul cammino
della noia.
Mio padre, dunque, era un vagabondo nato, a quanto ho potuto
ricostruire, ossia uno di quegli uomini che, a casa, pian piano,
ammutoliscono, perdono l’appetito e, insomma, si rifiutano di
vivere, un po’ come certi uccelli che non tollerano di esser
chiusi in gabbia; e che, invece, una volta sul ponte di una nave o
nello scompartimento di un treno, riacquistano tutta la loro
vitalità. Era alto, atletico, biondo e con gli occhi azzurri,
come me; ma io non sono bello essendo precocemente calvo, con un
volto per lo piú fosco e grigio; lui, invece, sí, almeno a
credere ai vanti di mia madre che aveva voluto sposarlo per
forza, nonostante che lui le ripetesse tutto il tempo che non
l’amava e che l’avrebbe lasciata al piú presto. L’avevo Visto
poche volte, perché viaggiava sempre, e l’ultima volta che lo
vidi i suoi capelli biondi erano quasi grigi e il suo viso di
adolescente tutto tagliuzzato da rughe sottili e profonde; ma
portava ancora le spensierate cravatte a farfalla e i vestiti a
scacchi della sua gioventu Andava e veniva, ossia fuggiva da mia
madre con cui si annoiava e poi tornava da lei probabilmente a
rifornirsi di denaro per una nuova fuga, perché non aveva un
soldo, sebbene, in teoria, si occupasse di lmportazioni e
esportazioni”. Alla fine non tornò piú. Una raffica di vento, nel
mare interno del Giappone, capovolse un ferry-boat con un
centinaio di passeggeri e mio padre annegò con loro. Che cosa
facesse nel Giappone, se vi si trovasse per le “importazioni e
esportazioni” o per altro motivo, non ho mai saputo. Secondo mia
madre, che amava le definizioni scientifiche o che sembrassero
tali, mio padre aveva la “dromomania”, ossia la mania del
movimento. A questa mania, forse, ella commentava pensosamente,
si doveva la sua passione per i francobolli, piccoli documenti
colorati della varietà e vastità del mondo, di cui aveva
accumulato una bella collezione che lei tuttora conservava,
nonché la sua bravura in geografia, la sola materia che a scuola
avesse veramente studiato. Come mi sembra di aver fatto capire,
mia madre con siderava la “dromomania” di mio padre come un ca-
rattere puramente individuale, e però, in fondo,insignificante
io invece, non potevo fare a meno di provare una specie di
fraterna pietà per quella figura patetica e sbiadita,
sempre piú sbiadita a misura che il tempo passava, nella quale mi
pareva di ravvisare, al meno per quanto riguardava i suoi
rapporti con mia madre, alcuni tratti in comune con me. Ma erano
tratti esteriori, come mi rendevo conto, poi, riflettendoci: mio
padre, è vero, aveva anche lui sofferto di noia; ma in lui questa
sofferenza si era risolta in un vagabondaggio felice attraverso i
paesi; la sua noia, in altri termini, era la noia volgare, come
la si intende nor malmente, che non chiedeva di meglio che essere
alleviata da sensazioni nuove e rare. E infatti mio padre aveva
creduto nel mondo, almeno quello della geografia; mentre io non
riuscivo a credere neppure in un bicchiere.
Comunque, mia madre non andò tanto per il sottile e credette di
riconoscere senz’altro, nella mia noia, il rimedio superficiale
che aveva già reso difficili i suoi rapporti con il marito:
“Purtroppo tu hai preso piú da tuo padre che da me,” mi disse
alla fine, un giorno, in maniera sbrigativa. “Io so che, quando
vi prende, l’ unico rimedio e mandarvi via. Dunque parti, va’
dove ti pare, e quando ti è passata, ritorna.”
Risposi subito, con sollievo, che non era mia intenzione partire:
viaggiare non mi interessava affatto Desideravo soltanto
andarmene di casa, mettermi per conto mio. Mia madre obiettò che
era assurdo che io andassi a vivere per conto mio quando potevo
disporre di una grande villa come quella in cui abitavamo, dove,
per giunta, facevo quello che volevo. Ma io, ormai deciso ad
approfittare dell’occasione, risposi con violenza che me ne sarei
andato via il giorno dopo, non un’ora di piú. Cosí mia madre capí
che facevo sul serio. Si limitò allora a ripetere con esperta
amarezza che riconosceva nella mia risposta perfino il tono della
voce di mio padre: facessi dunque quello che piu mi piaceva,
andassi pure ad abitare dove volevo.
Restava la questione del denaro. Eravamo ricchi come ho già
detto, e fino allora io avevo disposto di un credito, per cosí
dire, illimitato: attingevo dal conto in banca di mia madre ogni
volta che ne avevo bisogno. Ma mia madre che prevedeva di dover
ripetere con me l’ esperienza già fatta col marito, al quale
aveva sempre dato abbastanza denaro per fuggire ma mai abbastanza
per restar lontano da lei, mi avvertí seccamente che d’ora in poi
mi avrebbe corrisposto un mensile. Le risposi che non chiedevo di
meglio; e quando lei mi annunziò, quasi con una spccie di
indispettito rimorso, la somma che aveva intenzione di
assegnarmi, L’avvertii subito che mi sarei contentato della metà.
Mia madre che si era preparah ad una discussione del genere di
quelle che aveva un tempo sostenuto con mio padre, al quale il
denaro non bastava mai, fu molto meravigliata di questo mio
imprevisto disinteresse. “Ma con cosí poco non potrai vivere,
Dino, esclamò quasi involontariamente. Risposi che era affar
mio; e per non darmi delle arie di asceta, aggiunsi che speravo
comunque di riuscire molto presto a guadagnarmi da vivere con la
pittura. Mi pane che mia madre mi guardasse con incredulità; come
sapevo, non credeva alle mie capacità artistiche. Pochi giorni
dopo trovai uno studio a via Margutta e mi trasferii là con la
mia roba.
Naturalmente, il mutamento di domicilio non portò alcuna
modificazione al mio stato d’animo. Voglio dire che, svanito il
primo sollievo proprio a qualsiasi mutamento, ripresi ad
annoiarmi ad intenalli come in passato. Ho detto “naturalmente”; e
questo perché avrei dovuto prevedere che la noia non sarebbe
scomparsa per un semplice cambiamento di casa: se non altro io
ero ricco non perché abitassi nella via Appia, ma perché
disponevo di una certa quantità di denaro. Che io, poi, non
volessi farne uso, non importava in fondo gran che; anche certi
ricchi che sono avari, spendono una piccolissima parte delle loro
rendite e vivono poveramente; nessuno penserebbe per questo di
considerarli poveri. Cosí, alla prima idea, o meglio alla prima
ossessione che la mia noia e la conseguente sterilità nell’arte
fossero dovute al fatto che abitavo con mia madre, venne pian
piano sostituendosi una seconda e piú grave ossessione: non si
poteva rinunziare alla propria ricchezza; essere ricchi era come
avere gli occhi azzurri o il naso aquilino; una sottile
determinazione legava il ricco al denaro, e dava il colore del
denaro perfino alla sua decisione di non farne uso. Insomma. io
non ero un povero che era stato ricco, ero soltanto un ricco che
fingeva, con se stesso e con gli altri, di essere povero.
Che questo fosse vero, me lo dimostravo, poi, nel modo seguente:
“Che fa un povero vero, se non ha soldi ? Muore di fame. Che
farei io in un caso simile ? Andrei a chiedere aiuto a mia madre.
E se anche non lo chiedessi, non per questo sarei considerato
povero; sarei, invece, soltanto considerato pazzo.” Ma, come
pensavo subito dopo, il mio non era un caso estremo. Era un caso
medio, tanto è vero che accettavo di essere mantenuto da mia
madre, sia pure limitando il mantenimento allo stretto
necessario. Cosí, nei confronti dei poveri veri, io venivo a
trovarmi nella situazione privilegiata e sleale del giocatore
ricco nei confronti del giocatore povero: il primo puo perdere
illimitatamente, il secondo no. Ma, soprattutto, il primo può,
appunto, “giocare” ossia divertirsi; mentre il secondo non può
che cercare di vincere.
E difficile dire quel che provassi quando pensavo queste cose.
Come un senso di stregoneria meschina contro la quale non potevo
far niente, perché non potevo sapere quando né come né dove fosse
stata praticata la magia che mi irretiva. Qualche volta pensavo
al detto evangelico: ; piú facile che un cammello passi per la
cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno di Dio; e
mi domandavo che cosa volesse dire essere ricco. Si era ricchi
perché si disponeva di molto denaro? O perché si era nati in una
famiglia ricca ? O perché si era vissuti e tuttora si viveva in
una società che metteva la ricchezza al di sopra di qualsiasi
altro bene? O perché si credeva alla ricchezza, desiderando
diventar ricchi o rimpiangendo di esserlo stato? O perché, come
era il mio caso, non si voleva esser ricchi? Piú ci pensavo e piú
mi pareva difficile precisare a me stesso il senso di
determinazione e di predestinazione che mi ispirava la ricchezza.
S’intende che questo sentimento non ci sarebbe stato, se fossi
riuscito a liberarmi della mia originaria ossessione che la noia
dipendeva dalla ricchezza, e la sterilità dell’arte dalla noia.
Ma tutte le nostre riflessioni, anche le piú razionali, sono
originate da un dato oscuro del sentimento. E dei sentimenti non è
cosí facile liberarsi come delle idee: queste vanno e vengono, ma
i sentimenti rimangono.
Si obietterà, a questo punto, che, in fin dei conti, non ero che
un pittore fallito il quale, caso forse insolito, era consapevole
del proprio fallimento: ecco tutto. Giusto; ma fino ad un certo
segno. Io ero certamente fallito, ma non già perché non sapessi
dipingere dei quadri che piacevano agli altri; bensí perché
sentivo che i miei quadri non mi consentivano di esprimermi,
ossia di illudermi di avere un rapporto con le cose, cioè, in una
parola sola, non mi impedivano di annoiarmi. Ora, in fondo, io
avevo cominciato a dipingere proprio per sfuggire alla noia. Se
continuavo ad annoiarmi, perché allora dipingere ?
Andai via, se ben ricordo, dalla villa di mia madre nel marzo del
1947; poco piú di dieci anni dopo presi a coltellate, come ho
raccontato, il mio ultimo quadro, e decisi di non dipingere piú.
Subito, la noia, che l’esercizio della pittura aveva fino allora
in certo modo tenuto a bada, mi riassalí con violenza inaudita.
Ho già notato come la noia fosse in fondo mancanza di rapporti
con le cose; in quei giorni, oltre che con le cose, mi parve che
fosse anche mancanza di rap porti con me stesso. So che sono cose
difficili a spiegarsi; mi limiterò ad alludervi con una metafora:
durante le giornate che segurono la mia decisione di abbandonare
la pittura, io fui per me stesso qualche cosa di molto simile ad
un individuo per varie ragioni insopportabile, che un viaggiatore
trovi nel suo scompartimento all’inizio di un lungo viaggio. Lo
scompartimento è di quelli all’antica, senza comunicazioni con
gli altri scompartimenti; il treno non si fermerà che alla fine
del viaggio; il viaggiatore e dunque costretto a stare con
l’odioso compagno fino alla fine del percorso. In realtà e fuori
di metafora, la noia, durante quegli anni, pur sotto la
superficie del mio mestiere di pittore, aveva corroso a fondo la
mia vita, non lasciandovi niente in piedi cosí che, una volta
abbandonata la pittura, io sentii che, senza accorgermene, mi ero
trasformato in una specie di rottame o moncone informe, ma come
ho detto, l’aspetto principale della noia era l’impossibilità
pratica di stare con me stesso, la sola persona al mondo, d’altra
parte, della quale non potevo disfarmi in alcun modo.
Dunque, in quei giorni, una impazienza straordinaria dominava la
mia vita. Niente di quello che facevo mi piaceva ossia mi
sembrava degno di essere fatto; d’altra parte, non sapevo
immaginare niente che potesse piacermi, ossia che potesse
occuparmi in maniera durevole. Non facevo che entrare e uscire
dallo studio per qualsiasi futile pretesto che davo a me stesso,
appunto, per non restarci: comprare sigarette di cui non avevo
bisogno, prendere un caffè di cui non avevo voglia, acquistare un
giornale che non mi interessava, visitare una mostra di pittura
per la quale non provavo la minima curiosità, e cosí via Sentivo,
d’altra parte, che queste occupazioni non era no che smaniosi
travestimenti della noia, cosí bene che talvolta non andavo fino
in fondo alle cose che intraprendevo, e invece di comprare il
giornale o sorbire il caffè o yisitare la mostra, fatti pochi
passi, me ne tornavo allo studio dal quale ero uscito qualche
minuto prima con tanta fretta. Ma nello studio, naturalmente, la
noia mi aspettava e tutto ricominciava.
Prendevo un libro, avevo una piccola biblioteca, sono sempre
stato un buon lettore; ma ben presto lo la sciavo cadere:
romanzi, saggi, poesia, teatro, tutta la letteratura del mondo,
non c’era una sola pagina ch riuscisse a trattenere la mia
attenzione. E d’altronde perché avrebbe dovuto farlo? Le parole
sono simboli di oggetti, e con gli oggetti, come ho già detto, ne
momenti di noia, io non avevo rapporti. Lasciavo dunque cadere il
libro, oppure in un impulso di fu rore lo scagliavo in un angolo e
ricorrevo alla musi ca. Avevo un ottimo giradischi, dono di mia
madre nonché un centinaio di dischi. Ma chi mai disse ch la
musica agisce in qualsiasi modo, cioè si fa ascoltare per cosí
dire, per forza, anche dalla persona piú di stratta ? Colui che
disse una cosa simile disse una cos inesatta. In realtà le mie
orecchie rifiutavano non sol tanto di ascoltare ma anche di
udire. E poi, sul punto di scegliere il disco, questo pensiero mi
paralizzava qual è la musica che può essere ascoltata nei momenti
di noia? Cosí, chiudevo il giradischi, mi gettavo su divano e
cominciavo a pensare a quello che avrei po tuto fare.
Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non voler fare
assolutamente niente, pur desiderando ardente mente fare qualche
cosa. Qualsiasi cosa volessi far mi si presentava accoppiata come
un fratello siames al suo fratello, al suo contrario che,
parimenti, nor volevo fare. Dunque, io sentivo che non volevo ve-
dere gente ma neppure rimanere solo; che non volevo restare in
casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure
continuare a vivere a Roma; che non volevo stare sveglio ma
neppure dormire; che non volevo fare l’amore ma neppure non
farlo; e cosí via. Dico sentivo, ma dovrei dire piuttosto che
provavo ripugnanza, ribrezzo, orrore.
Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per
caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto
che vivere mi dispiaceva, tanto. Ma allora, con stupore, mi
accorgevo che sebbene non. mi piacesse vivere, non volevo
neppure morire. Cosí, le alternative accoppiate che, come in
un funesto balletto, mi sfilavano nella mente, non si fer-
mavano neppure di fronte alla scelta estrema fra la vita e la
morte. In realtà, come pensavo qualche volta, lo non volevo tanto
morire quanto non continuare a vivere in questo modo.
… e, a proposito di Esistenzialismo, vorrei ricordare un regista che apprezzo moltissimo, un grande Maestro del cinema: Michelangelo Antonioni (1912 – 2007).
Cari amici, sedetevi comodi e gustatevi questo suo film del 1962, L’Eclisse, con Monica Vitti e Alain Delon.
Buona visione!