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Indagine sulle ragioni della Crisi della Poesia italiana mediante la prospezione di cinque antologie di poesia dal 2000 ai giorni nostri: “Parola plurale”, “Dopo la lirica”,  “La poesia italiana dal 1960” edite nel 2005 fino a “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” (2017) e alla “Poetry kitchen” (2022), Ha ancora senso produrre Antologie generaliste? Ha ancora senso puntare sul ventaglio pluralistico? Ha ancora senso puntare sull’archivio degli autori invece che sulla settorialità delle proposte? E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti, La nuova fenomenologia della forma-poetica, a cura di Giorgio Linguaglossa

Nell’anno 2005 vengono pubblicate tre Antologie di poesia: Parola pluraleDopo la lirica e  La poesia italiana dal 1960 a oggi.

Il problema metodologico sconfina e rifluisce in quello della datazione delle singole opere di poesia. Grosso modo tutte e tre le antologie scelgono l’anno 1960, l’anno della rivoluzione operata dai Novissimi e dalla neoavanguardia quale linea di demarcazione dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura delle proposte di poesia accompagnate dalla caduta del tasso tendenziale di problematicità delle proposte stesse che collimeranno con posizioni di poetica personalistiche da parte delle personalità più influenti. Affiora una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità. La storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione. Così Daniele Piccini dichiara nella introduzione alla sua antologia i suoi intendimenti metodologici:

«…nonostante tutto ciò e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico verificatosi per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori esponenti di essi e le  poetiche più interessanti è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia». (Daniele Piccini 15)

Antologia Dopo la lirica Enrico testa

Piccini dichiara di voler mettere un freno all’esplosione demografica delle antologie e lo fa con un’antologia ristretta a poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro» (Piccini 36). Coerentemente con questa premessa, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Risulta però evidente che la selezione dei nuovi autori introdotti: Rondoni, Ceni, Mussapi sia piuttosto il prodotto di una mancanza di intraprendenza per non aver incluso nessun autore che non fosse già ampiamente confortato da una lunga frequentazione dei luoghi deputati della poesia.

 Dopo la lirica

Il periodo considerato va dal 1960 al 2000, la selezione include ben 43 autori di poesia a cura di Enrico Testa. Nella Introduzione, dopo un excursus sulle linee di forza della poesia degli ultimi tre decenni, il curatore presenta i poeti in rigoroso ordine cronologico. Pur nella ampiezza e sobrietà del quadro storico contenuto nella introduzione, alla fin fine il criterio adottato dal curatore finisce per essere quello del catalogo e dell’appiattimento degli autori in un quadro storico unidimensionale. Un quadro storico dal quale sbiadiscono le differenze (se differenze ci sono) tra un autore e l’altro e neanche viene spiegato perché proprio quelli siano i prescelti e per quale ragione o giudizio di gusto o di eccellenza. Se la poesia odierna è in crisi di crescenza esponenziale, il curatore amplia a dismisura i poeti inclusi nella antologia, quando invece sarebbe stato ovvio attendersi una restrizione delle maglie in verità larghissime. A questo punto, l’analisi linguistica dei testi si rivela per quello che è: un valore informazionale e di alcuna utilità ai fini della storicizzazione che avrebbe dovuto giustificare perché proprio quei poeti e non altri siano stati selezionati. Testa sfiora la problematica centrale: le «grandi questioni del pensiero e, in particolare, il nichilismo», senza però essere in grado di storicizzare la presenza «di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e magica degli oggetti». (Testa XXXII)

Il criterio guida della antologia è la individuazione di una «rottura radicale della lirica italiana» verificatasi intorno agli anni Sessanta. Verissimo. «Rottura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni di essi sulla struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente gli autori della precedente generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) con una piccola concessione alla poesia dialettale: Loi, Baldini. Possiamo però condividere lo sconforto del curatore il quale si trova a dover rendere conto dell’esplosione di un «genere indifferenziato» e inflazionato come la poesia «post-lirica» con conseguente difficoltà a tracciare un quadro giustificato della situazione; a nulla serve tentare di giustificare questa condizione mettendo le mani avanti con l’argomento secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», con il risultato ovvio che tracciare «una cartografia imperfetta è allora preferibile a uno scorcio o veduta parziale» (Testa XXVI).

Così risulta affatto chiaro quale sia per Testa la linea di sviluppo che la poesia italiana ha seguito dal 1985 al 2005. Infine, ritengo un rimedio non sufficiente l’intendimento del curatore di ridimensionare il peso di alcuni autori: Benedetti, Buffoni, Dal Bianco quando invece sarebbe occorso più coraggio e più intuizione nelle esclusioni e nella indicazione delle linee di forza del quadro poetico.

Antologia La poesia italiana dal 1960 ad oggi alberto bertoni

A quindici anni dalla apparizione della antologia Dopo la lirica risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi due lustri, Testa si limita ad indicare le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana», questioni peraltro abbastanza confuse su cui si potrebbe anche essere d’accordo ma manca l’essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti, l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida ma ancora vaga e ondivaga, non sufficientemente delimitata. Per aggiungere alla «mappa» dei 43 autori altri autori per completare il quadro sarebbe occorso una diversa campionatura e uno studio più articolato sugli autori della militanza poetica che nel lavoro di Testa non c’è probabilmente a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare del villaggio poetico italiano.

Parola plurale

Otto giovani critici (nati tra il 1966 e il 1973) si sono spartiti 64 autori, nati tra il 1945 e il 1975, firmando otto diverse introduzioni; l’antologia mette un punto sulla situazione poetica fotografata; alcuni autori già selezionati ne Il Pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli del 1975 e già presenti nella Parola innamorata. Il modello di riferimento resta quello de Poeti italiani del Novecento di Vincenzo Mengaldo.

Si procede per inflazione: gli autori confluiti nella Parola plurale sono 64, numero pari a quello dell’antologia di Berardinelli e Cordelli. Il primo capitolo non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, ma già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, il saggio di Berardinelli è qui diventato Deriva di effetti. I curatori danno molto rilievo alla frattura posta al centro dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dai quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si esaurisce l’esperienza della Neoavanguardia «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano. 20); il 1971 conclude l’evoluzione del genere lirico con le raccolte di Montale e Pasolini (Satura e Trasumanar e organizzar), e apre un nuovo periodo che privilegia il privato con Invettive e licenze di Dario Bellezza. L’idea di fondo di Parola plurale è mettere il punto finale al periodo inaugurato dalla antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 per ripartire dalla idea di una selezione degli autori in base ad un codice o modello «plurale», nonché di riposizionare il genere antologia mediante la introduzione del fattore «collegialità».

Antologia Andrea Cortellessa

L’organizzazione «policentrica» mengaldiana, rinvigorita da una affabile struttura saggistica che inquadra i testi si scontra con il problema oggettivo della omogeneizzazione dei criteri e dei giudizi di gusto dei singoli curatori che affiancano Cortellessa; il Fattore «plurale» agisce nella selezione e nella organizzazione di una mappa dove ogni inclusione ed ogni esclusione viene appesa al giudizio di gusto dei singoli curatori; la pecca è che in mancanza di un comune orizzonte di ricerca, la «collegialità» del lavoro finisce inevitabilmente per coincidere con la «generosità» delle singole inclusioni.

Il problema della «mappa», in mancanza di un progetto che rientri in un preciso orizzonte dei mutamenti della forma-poesia, finisce per periclitare in una generosa pluralità di gusti e di posizioni di individualità prive però di un pensiero critico omogeneizzatore che può nascere soltanto da una attiva militanza  e nel vivo del territorio poetico. Così spiega un curatore la sua idea: «La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. (Alfano et al. 9)

Dei 64 poeti, circa una ventina obbediscono ad una linea neo o post-sperimentale, tutti gli altri sono posteggiati in una sorta di narratività allo stadio comunicazionale della scrittura poetica. Accade così che Parola plurale, sicuramente uno dei cataloghi più aggiornati sotto il criterio bibliografico, non riesce ad evitare la pecca di una sorta di «generosità» della scelta degli autori inseriti in costanza di latenza di una ricognizione critica della poesia italiana. Il risultato complessivo non va oltre il truismo della «generosità» senza riuscire a rinverdire o a riposizionare un canone o modello prevalente e né i modelli laterali e/o accessori. Anche puntare il dito sulla de-ideologizzazione della scrittura poetica, non solo non è un criterio di per sé sufficiente, ma, a mio avviso, il discorso critico lasciato così a metà strada perché non approfondito sulle poetiche e sugli stili dei diversi autori rischia di aggravare il problema della «generosità» che rischia di apparire una «gratuità». La latitanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare dei confini della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordo

La nuova fenomenologia della forma-poetica

Finita questa prospezione, chiediamoci: ha ancora senso produrre antologie generaliste?, ha ancora senso puntare sul ventaglio pluralistico delle proposte?, ha ancora senso puntare sull’archivio degli autori invece che sulla settorialità delle proposte?

Come è finita la guerra di Troia non ricordo

E siamo giunti a Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di chi scrive, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della «Proposta per una nuova ontologia estetica» (2017) o Una nuova fenomenologia della forma-poetica, una piattaforma di poetica sicuramente militante che almeno ha il merito di mettere dei paletti divisori in modo visibile. La «nuova ontologia estetica» non vuole essere né una avanguardia né una retroguardia, ma un movimento di poeti che ha dato un Alt alla deriva epigonica della poesia italiana che dura da cinque decenni; la proposta è un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), verso il Decreto poesia, diciamo, parlamentarizzata che dura da alcuni decenni in una imperturbabile deriva epigonica: la cosiddetta poesia a vocazione maggioritaria che fa dell’ogettoalgia e della soggettoalgia i binari del cromatismo emotivo di una forma-poesia eternamente incentrata sul logos dell’io.

E qui vengo alla attualità. La proposta di una antologia della Poetry kitchen (dicembre 2022) di 16 autori complessivi, varata in questi ultimissimi giorni ha almeno il merito di essere giunta a quella «rottura radicale» tanto cercata dalle proposte antologiche che la precedevano e alla identificazione di un «nuovo paradigma» e, se non altro, a un dimagrimento del numero degli autori inclusi. Almeno questo traguardo è stato raggiunto.

E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti. Continua a leggere

30 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana

Le figuralità e le Figure nella poesia Kitchen, La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso, Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati e costituiscono un non-luogo, un atopon, Poesie kitchen di Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Mauro Pierno, Mimmo Pugliese, Jacopo Ricciardi, Ritratto di Giorgio Linguaglossa, fotografia, È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta ha il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì; soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto

Ritratto di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson, Ritratto di Giorgio Linguaglossa, fotografia 2022

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Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé, se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,
celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)

Le figuralità nella poesia kitchen

Nelle figuralità presenti nelle poesie kitchen si può rintracciare il percorso che unisce e separa la poesia del novecento e/da quella della nuova ontologia estetica. Sono le figuralità che fanno la differenza.
Le figuralità sono delle vere e proprie tecnicalità, ripropongono la stessa logica anti-entropica e al contempo auto-trascendente della vita. Sono l’espressione di quel fondo pre-individuale presente in ciascuno di noi.

Ogni figuralità è tecnicalità. In ogni oggetto tecnico della poiesis possiamo vedere in atto la dynamis della «natura» umana, quella dimensione originaria che consente all’uomo di esternarsi e di porsi in relazione con quanto lo circonda; quel supporto naturale che permane come un apeiron, serbatoio di potenzialità infinite. L’artificialità delle figuralità non è dunque in alcun modo opposta alla spontaneità produttiva della natura, è anzi consustanziale all’artificialità che contraddistingue l’azione umana, che rappresenta la «natura» umana in svolgimento. La tecnicalità rende visibile al di fuori non tanto semplicemente ciò che l’uomo è nel di dentro, quanto il processo dentro-fuori e io fuori-dentro. La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso.

Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati. Una delle leggi antropologiche fondamentali è quella dell’immediatezza mediata, strutturalmente connessa a quella dell’artificialità naturale, nonché a quella del luogo utopico, del non-luogo a-topon.

Parlare di tecnica e di naturalità delle figuralità vuol dire parlare del medesimo. Le figuralità sono la spia di una poesia altamente artificiale, in quanto la tecnica è essa stessa prodotto di artificio, prodotto della dimensione aperta, storica, evolutiva e ibrida dell’essere umano. L’ibridazione con l’alterità nasce da una incompletezza che non è un difetto da colmare bensì una possibilità che conduce ad un oltre, che è per l’uomo la possibilità produrre una dinamica ad un tempo biologica e culturale, innata e acquisita, ontogenetica e filogenetica. La fisicità umana è fondamentalmente protesica, la physis umana è immediatamente meta-fisica.

Già Carlo Marx affermava che l’uomo è Gattungswesen, essenza generica o ente naturale-generico, apertura potenziale al mondo che si determina in modalità temporale e comunitaria. L’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso; è in rapporto-a e in relazione-con (zoon politikon); la sua natura non rigidamente statica, ma dialettica e dinamica lo spinge verso il mondo per entrare in rapporto con esso. Che l’uomo abbia un Verhältnis (tanto “relazione” quanto comportamento, azione: relazione), significa che la sua condotta di vita è una questione di modi di essere, il suo comportamento concerne il come agire in ogni determinata situazione.L’uomo è per natura uno sperimentatore, è sempre al di là (ek) del limite (peira) immediato imposto dalla natura. L’uomo è il medium tramite cui la natura si spinge al di là dei propri limiti. La tecnica appartiene all’essenza umana come esserCi, va inserita nel mondo, come disvelamento pro-vocante che pro-cede da physis, dal disvelamento producente del mondo che tocca l’uomo come natura che si fa storia. Se la techne è un modo dell’aletheuein dell’essere, è perché essa è la pro-vocazione della natura nei confronti dell’uomo, è quel movimento di fuoriuscita da sé con cui la physis chiama a sé nella forma del superamento di sé, apre lo spazio dell’umano, costituisce l’uomo in quanto ente storico-culturale in quanto ente che deve corrispondere al movimento sottrattivo di una natura che si dà nascondendosi e venendo meno nella sua immediatezza. L’uomo è così per sua natura un ente non-centrico, ec-centrico rispetto a qualsivoglia forma di centricità, di chiusura autocentrica; è sempre s-centrato e de-centrato rispetto a se stesso.

Se «espandiamo [e introiettiamo] tecnologia», è «per scoprire chi siamo e chi possiamo essere… la tecnica, i suoi apparati, non sono una deviazione rispetto alla norma o alla natura umana, ma piuttosto ne sono una amplificazione, una stilizzazione e una manifestazione eminente. […] Ciò che avviene attraverso la tecnica è una vera e propria rivelazione: ciò che si oggettiva nelle protesi è la natura umana, noi possiamo sempre specchiarci negli attrezzi che abbiamo fabbricato […] e dirci: ‘Questo sei tu’. […] La tecnica non è aberrazione, è rivelazione, ci mostra chi siamo davvero, e funziona non come uno specchio deformante, ma casomai come un microscopio o un telescopio»1.

1 M. Ferraris, Anima e iPad. Rivelazioni filosofiche, Guanda, Parma 2011, 11, 68.

Strilli Transtromer le posate d'argento

Poesie a-centriche di
Mauro Pierno

La parte meno esposta.
La parete del divisorio, questo lo ricordi?
L’ultima sigaretta,
va bene, la penultima!
L’orientamento spostato a ovest,
troppa luce! È quanta polvere, ancora?!
Hai dimenticato ancora
le lenti nel cassetto.
Queste, queste
dovresti averle sempre con te Jack.
Hai tante donne per la testa Jack!
I visipallidi ispirano così tanta devozione.
Caricate…
puntate…fuoco!

*

La pagina elettronica ha le sinapsi allungate
una silhouette a basso costo,
le code dei cavalli arrugginite.
La scopa, Hansel,
ha in dotazione un aspiratore elettronico
ed un pettine per crani calvi
e sdentati.

Mimmo Pugliese

Gatti e pavoni

Gatti nelle steppe tengono per mano arance
vele schiacciano briciole sul cartongesso
un trattore elettrico scuote alberi di catrame
nel garage del Colosseo
hanno profili di melagrana le donne gitane
i fucili degli argonauti ululano alla serotonina
l’abilità dei licheni persuade l’inviato speciale
il pollice di Robin Hood è depresso
no, è vivo! fa la corte alla glottide
gli acini non si radono da tempo
il gallo allude
gladiatori contaminano l’olio di oliva
gli apostrofi corrono in salita
dalla punta dell’Adriatico si vede Stonehenge
il bonus casa telefona alla luna
il cerume soffre di insonnia
Paperone starnutisce ai pavoni

Jacopo Ricciardi

brani poetici tratti dall’antologia Poetry Kitchen (2022).

Un mal di testa è un grande ombrello nero
una piovra con un eccesso di tentacoli.
Un gatto dal dorso ardente
acciambellato in ogni cosa
sogna un mal di testa. Qualche gatto
si alza per correre senza fine –
insegue il mal di testa
sotto l’ombrello.
Un mal di testa entra nel piccolo cranio del gatto
che non sa dove andare. Ogni direzione
è possibile
sarà svolta seguendo il vortice di un orecchio.

*

Si immergono luminosi dentro anelli scuri.
In su si afferrano con unghie a mezzaluna
a successive orecchie e discendono quatti
un orecchio alla volta sulle tracce di un mal di testa
guardando ripiani di pietra e pareti finire
nell’acqua di una terma – entra
ogni gatto in una bolla
espulsa dal fondo terrestre fino a una fessura
e salendo nel caldo liquido e aprendosi sulla superficie
lancia il felino nell’odore pregnante
mentre riposa acceso di luce su un calore
memoria di un indimenticabile bruciare.

*

Un podismo estenuante
che genera gatti infiammati
fermi accanto ai falò.
Altri falò soli
figli del non muoversi
del mancato saluto
stuprati da ogni cosa
in un respiro che va a onde circolari.
Queste lagune immobili
come stratificazioni di sanguisughe
bocche contro bocche che trovano solo aria
e rumori di tarli che avanzano che arretrano
salendo o scendendo fintamente nell’idea.

*

La folla di ceppi cade insieme
sanno di resina
che cola nella spaccatura circolare
lì si arrampica sui cerchi del legno
li discende come gradini –
il proliferare del tempo è in briciole.
Il tonfo che fanno a terra è sordo
e non scompone la resina appiccicata.
Le orecchie appiccicate alla resina al tronco.

*

Molti gatti in corsa su differenti vortici di orecchie
sotto il grande ombrello nero di una piovra.
Saltano sulle groppe dei segugi –
vanno riconoscendo il luogo con la lingua –
accendendoli appena e bruciacchiandoli
per finire nel fondo inghiottiti in una nascita –
lì in fondo la vasca della sauna
dove trapela una terma
dove l’acqua è ferma
percorsa da un respiro circolare
stigma di un luogo
come dei ceppi caduti riassorbiti densi in essa.
Sul largo ombrello una miriade di falò.
Intorno sta un paesaggio deforme.

Strilli Tranströmer 1

Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire, e in un ritratto non si possono disegnare. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Fare un ritratto è un atto subdolo: cercare di scavare nell’inconscio del Conscio senza darlo a vedere, non c’è principio di ragion sufficiente che regga. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio e fatto, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’Altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto. Il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre e come può, riproponendo di continuo ciò che non può esser detto in altri modi, ovvero, con altre parole; in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto, e così allarga il campo della dicibilità e restringe quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis. L’ontologia positiva è questo allargare di continuo il campo della dicibilità restringendo quello della linguisticità.

È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta ha il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì; soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende: ciò che io intendo è sempre diverso da ciò che io dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.

Pensare l’Evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo» del linguaggio è una sciocchezza e una improprietà; chi è fuori del quel «luogo» linguistico non comprenderà mai l’Evento di quel linguaggio che deriva da quel «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo: il situarsi emotivamente dell’Esserci in un «luogo linguistico». Ogni luogo ha la sua particolarissima tonalità emotiva, il suo personalissimo colore. E la poesia è il miglior recettore di questa tonalità.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Jacopo Ricciardi, poeta e pittore, è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn. Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), Dei sempre vivi (Stampa 2009, 2021), Quarantanove Giorni  (Il Melangolo, 2018), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il Melangolo, 2015). Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste PoesiaL’immaginazioneSoglieResine, Levania e altre. Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Ha collaborato con Il Messaggero in una rubrica di letteratura a lui dedicata: Passeggiate romane. Ha scritto di arte su Flash Art onlineArt a part of cult(ure) e Espoarte. Ha al suo attivo diverse mostre personali, E fiorente e viva e simultanea, Galleria WA. BE 190 ZA (Roma, 2001),  Nella nebbia dell’esistente, Area 24 (Napoli, 2010), Materie senza segno, Lipanjepuntin (Roma, 2010), Dialoghi d’arte, L’originale (Milano, 2011), Una stanza tutta per sé. Visioni da Shakespeare, Casa dei Teatri (Roma, 2012), Paesaggio terrestre, Area24 (Napoli, 2015), e diverse collettive Epifania, Galleria Giulia (Roma, 2000), Maestri di oggi e di domani, Galleria Giulia (Roma, 2001), Biennale del Mediterraneo, interno Grotte di Pertosa (Salerno, 2002), XXIX Premio Sulmona, Ex Convento di Santa Chiara (Sulmona, 2002), Segnare / disegnare Accademia di San Luca (Roma, 2009), ADD Festival 2011, Macro (Roma, 2011), 90 artisti per una bandiera, Chiostri di San Domenico (Reggio Emilia, 2013), Accademia Militare (Modena, 2013), Vittoriano (Roma, 2013), Ex Arsenale Militare (Torino, 2014), Tribù, Area24 (Napoli, 2014). Ha pubblicato due cataloghi d’arte delle sue opere: Jacopo RicciardiNella nebbia dell’esistente, prefazione di Nicola Carrino, Area24 Art Gallery, 2009; Jacopo Ricciardi, Paesaggio Terrestre, opere 2008-2014, a cura di Sandro Parmiggiani, Grafiche Step Editrice, 2015. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva dei recenti orientamenti fiolosofici, Una poesia di Montale e Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talìa, Giuseppe Gallo, Ewa Tagher, a cura di Giorgio Linguaglossa, Aggiungo una postilla sulla Nuova poesia

La gioconda in bikini

Da Vico ad Heidegger si compie il tragitto che traduce e trasborda le categorie antropologiche del pensiero poetico del filosofo napoletano nelle categorie dell’ontologia del novecento, con Heidegger il pensiero mitico di Vico viene assorbito e tradotto nei termini di una moderna filosofia dell’esistenza intesa come indagine ontologica dell’EsserCi.

Con la parola Heimatlosigkeit (senza patria), Heidegger accenna mnesicamente all’assenza-perdita della «patria» quale «casa», «dimora» per l’uomo dell’Occidente.
«Wir irren heute durch ein Haus der Welt» – «Noi erriamo oggi nella casa del mondo»1, scrive Heidegger, perché ci manca il linguaggio. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo vaga alla ricerca di una dimora da abitare e una parola da pronunciare; l’uomo erra nel mondo come uno straniero perché privo di una «patria» rimane privo anche di un «linguaggio», è il tempo della povertà che si annuncia, quella povertà inneggiata da Hölderlin, Quell’antico apoftegma: «il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo», non è più pronunciabile nel mondo moderno, l’uomo del capitalismo cognitivo è costretto ad abitare una casa linguistica non più accessibile e così viene spinto a costruirsi una dimora provvisoria, precaria, instabile, che fluttua all’imperversare degli eventi avversi senza sapere a quale corrimano aggrapparsi e quale maniglia afferrare.

L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia primo novecentesca di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire. Montale sarà il maestro indiscusso di questa impossibilità del dire:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.1.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)

Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi decenni è orientata invece verso una ontologia positiva, afferma che l’Essere è ciò che si dice, ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.
Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana. Il dire che si esaurisce nel detto, il detto che si esaurisce nell’esser stato detto, in un passato che non è più. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso della nuova fenomenologia del poetico indicano una compiuta ostensività della significazione, chiudono la significazione nel detto e non la riaprono che nella proposizione successiva, che si chiude anch’essa nel detto. Così, la poesia diventa composizione di singole tessere, di frammenti, enunciati assiologicamente non-orientati che periclitano verso il nulla della significazione, enunciati che non possono sporgersi oltre nel silenzio dell’essere per la priorità del nulla che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla di cui hanno percetto.

Aggiungo una postilla.

La «nuova poesia» si muove all’interno di un orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, e così facendo, ogni enunciato viene inghiottito nel significato positivo, nel positivo significare: un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela essere un negativo. Le fraseologie restano come appese all’appendiabiti di una sospensione trascendentale, intersoggettiva, sopra l’abisso del nulla dal quale provengono e nel quale torneranno. Paradosso nel paradosso: il positivo significare che periclita nel negativo significare in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto. Esemplari in proposito sono queste composizioni:

L’orologio sonnecchia e regredisce a tempi di forchetta
Tutta questa responsabilità in mano agli interrogativi.
I testi risultano incomprensibili
La legge dei puzzle violata come donna nel bottino di guerra.

Persino i punti esclamativi inorridiscono
risalgono le mura a pugnalate e colpiscono oltre i merli.

Bisognerà porre rimedio alla sintassi.
Perché collegarla al logos?

Forse funziona con un pistone in meno
e tagliando i dentifrici.

Dunque niente tubi e se necessario farli saltare
Prima che arrivino ai denti.

La locusta, una delle tre posate in tavola, pronuncia le preghiere a rovescio
Il suo Dio opera a meraviglia senza maschera e divieti.
Promette di preparare l’espresso dalla posa del caffè.

Il bicchiere si fa beffe di chi apre le labbra?

Nel sogno l’autore si cancella volontariamente
– Voglio che un’ape entri nell’incubo 2022 – dice

Almeno una, ma il produttore è schiavo di una voglia incontrollabile
E il sole del risveglio non fa che prendersela con l’ astro del momento
Il parassita che lo rende zombi.

(inedito di Francesco Paolo Intini, 2022) Continua a leggere

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Gino Rago, Strutture serendipiche, Mauro Pierno, Poesie da Antologia Poetry kitchen, Francesco Paolo Intini due poesie kitchen, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Jacopo Ricciardi sulla poetry kitchen, La poesia maggioritaria di questi ultimi decenni adotta pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato

Mauro Pierno
da antologia Poetry kitchen (Progetto Cultura 2022)
1
Il basilico dei vicini la sera si finge morto
di fronte alle nostre serie TV
Una Olivetti 32 vuole riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti
Einstein pipa in bocca violino sotto il mento
suona la relatività in quattro dimensioni
I cavalieri stanno aspettando
che la partenza sia per sempre rimandata
Per rifiorire sull’altro versante.
Prima o poi. Domani. O forse…
2
Ora i proletari erano tutti agenti di commercio
Odorava di miele la catena di montaggio
La pagina quindici oscillò di sette secoli
Il fantasma entrò dalla porta blindata
Il secondo altissimo e magrissimo
indossava occhiali di tartaruga rossicci e mocassini neri in vernice
la carrozza di mezzogiorno, lungo il viale dello Steccato,
accompagna il cambio della guardia nella torre d’avvistamento.
3
Le mani rumorosamente sfregarono il gel disinfettante.
Lo sciacquone derubricato mondò i peccati.
Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione
Daniil Charms sente nell’aria come un sibilo,
a distanza di chilometri non dà peso al fatto.
Pensa:
“Sarà stato il miagolio di un gatto
O uno starnuto dal Cremlino”.
Intorno sta un paesaggio deforme.
4
Due uomini non si capiscono ma conversano –
Molti altri umani si uniscono a loro.
“Avevi promesso di scrivere.”
“Ho preso appunti. Ma li ho mangiati.”
Un faro illumina un peschereccio che ondeggia.
Qualcuno paga con il bancomat.
Le dico, dattero. Non ho altre parole.
Toh, sei cavalli.
“Guerre, guerre e ancora guerre…basta, non studio più.”
Sofia lancia il libro dalla parte opposta della cameretta.
5
Alice non trova l’uscita dal Paese delle meraviglie,
Arianna gli offre la soluzione in cambio del cappello a fiori
Una squadriglia d’uccelli in alto nel cielo
nelle vesti di poliziotti sospettosi armati di binocoli ispezionano le migrazioni
i cieli inferociti sul mare
non si rassegnano a diventare uno sfondo
Strisciando sul guscio, sbriciolandone il calco.
Oltre i muri il pigolio, l’allucciolio, il bio
Monoliti contro un cielo blu-nero. Ghetti verticali.
6
Non c’era tempo per la chimica.
Il verso generava spettri di risonanza magnetica.
Gli schiamazzi della Performance si sentirono
Fino al terzo secolo avanti Cristo.
In un bastone da passeggio con il manico di avorio,
in un ombrello tricolore, in un fazzoletto profumato.
Molly è tornata ad innaffiare i gerani questa mattina: il professore dice
che Urano è nella costellazione del Leone e che l’oltre non avrà dominio.

Gino Rago
Strutture serendipiche

John Cage suona il flauto del filosofo Empedocle mentre sulla ventunesima stella piove a dirotto.
Il vespasiano in via dei Dauni aspetta la fine dei fuochi artificiali.
Un romanzo di Moravia + una poesia di Sandro Penna – un bicchierino di Rum x “Il nome della rosa” romanzo di Umberto Eco.
4 + 4 = Corsivo – Normal = Discorso etero diretto.
Era una sera buia e tempestosa. La poiesis ha finalmente fatto ingresso in cucina.
Evitare l’invidia degli specchi quando le lampadine sono fulminate.

Francesco Paolo Intini (da Facebook del 29 settembre 2022)

Spyke di fine settembre

Accadde all’inizio che un gatto sognò Tex Willer
E mangiò un topo.
Il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno.
Gnam!
La parola passò di bocca in bocca ed infine diventò poltrona e sofà:
-Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
-Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.
Dal sorriso riconosci il botox.
Putin nei lifting massivi
Labbra e denti della Pennsylvania.
Ma se vuoi un Andreotti saporito
Devi cucinarti un rospo all’amatriciana.
-Io non sono Antigone -ripete un ragno sul muro
Ho lunghe bollette nel cassetto. Un mutuo per ogni angolo del soffitto
E stasera si mangia un sushi di vespa orientalis.
La giuria lanciò i suoi dadi
lati che facevano linguacce
versi che mostravano le fiche
L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

Questa poesia è la prova comprovata che il kitchen sorge insieme all’ insorgere di un colpo apoplettico che colpisce il linguaggio riducendolo a zattere in-significanti e inoperose (g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Roberto Mussapi, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Antonio Riccardi e altri epigoni minori adottano pezzi di modernariato in un arredamento linguistico che è diventato totalmente postmoderno, l’effetto complessivo è una riedizione in chiave conservatrice di oggetti linguistici del modernariato, fanno una liturgia del modernariato. Da questo punto di vista il minimalismo di un Magrelli è linguisticamente più avanzato, almeno lui si libera di quegli oggetti liturgici gettando dalla finestra i pezzi di un modernariato ormai implausibili e impresentabili.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di centricità dell’io, di «identità», di «soggetto», di «riconoscibilità», di «originarietà» della scrittura poetica implica un rivolgimento: porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione», di un «nuovo paradigma», di una «nuova forma-poesia». Il discorso poetico della poetry kitchen passa necessariamente attraverso la cruna dell’ago della lateralizzazione e del de-centramento dell’io, della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento incentrato sulla metastasi dell’io egolalico ed elegiaco e su una «forma-poesia riconoscibile». Il capitalismo cognitivo in crisi di identità e di accumulazione genera ovunque normologia e riconoscibilità, quello che occorre è l’«irriconoscibilità», una poiesis che abbia una forma-poesia irriconoscibile, infungibile, intrattabile, refrattaria a qualsiasi utilizzazione normologica. Continua a leggere

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Poesie scritte in tempo di guerra, Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico, Poesia di Giorgio Linguaglossa, Il misuratore delle ombre, Antonio Sagredo, Poesia mostruosa, Francesco Paolo Intini, Grizzly, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, La macchia, due strutture dissipative, 50×50, 2020, L’arte sopraffina e peculiarissima di Francesco Intini è l’analogo delle contorsioni di una contorsionista maghrebina che una volta vidi al Circo Togni, la signorina si chiudeva dentro una valigetta 24 ore (o quasi) e poi ne usciva indossando dei tacchi a spillo e fumando una sigaretta, Io ero esterrefatta

Marie Laure Colasson Ordo Rerum Struttura dissipativaMarie Laure Colasson, La Macchia, 50×50 cm acrilico, 2020
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La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.

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Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa B 2020

[Marie Laure Colasson, La macchia, Struttura dissipativa, acrilico, 50×50, 2020]
Sostiene Lacan che nel campo scopico lo sguardo è all’esterno, io sono guardato, cioè sono quadro, il soggetto non coincide più come voleva Cartesio, con il punto geometrale a partire da cui si prende la prospettiva sulle cose, ma vive l’esperienza spaesante di essere in qualche modo oggettivato da uno sguardo altro, ridotto ad oggetto che “fa macchia” nel quadro: siamo presi dentro il quadro, e la vanitas, che credevamo riguardasse solo ciò che è rappresentato nel quadro, si rivela invece essere già da sempre anche la nostra, “che ci ri-guarda proprio dal punto impossibile, il fuori quadro nel quadro, che è lo sguardo come oggetto a”
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Giorgio Linguaglossa

Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico

Chiunque legga una poesia kitchen si accorge che qualcosa come una violenta mega esplosione è avvenuta all’interno del linguaggio, uno shock di inaudite dimensioni, un trauma gigantesco: Il Collasso dell’ordine simbolico ha trascinato con sé il Collasso dell’ordine del significante. Il che implica che quel soggetto (scabroso) che era il punto principiale e terminale della catena significante, ha fatto fiasco, e con esso fiasco è andato al macero quella antica metafisica che era, tutto sommato, rassicurante, ospitale, che va da Giovanni Pascoli di Miricae (1891) a Franco Fortini di Composita solvantur (1994). L’io del romanzo e del poetico si è trovato, si è scoperto essere nient’altro che un involucro vuoto che attende dei riempitivi per apparire significante di nuovo.
La NOe e la poetry kitchen nascono quando si inizia a distinguere chiaramente questo gigantesco iceberg che sbarra la navigazione ad ogni tipo di enunciato dotato di senso. A quel punto è andato al macero anche la catena del significante e la serie sintagmatica dei significanti che costituiscono gli enunciati dotati di senso e di significato. Con la guerra di aggressione all’Ucraina ciò appare ovvio: quel linguaggio  infarcito di ideologemi e di falsa coscienza, non si può più adottare.
Il soggetto postedipico è diventato un soggetto serendipico. Il Nome-del-Padre è diventato il Nome-di-Nessuno.

Francesco Paolo Intini

Che dire?
Da quando è iniziata questa guerra leggo quanto posso e ascolto i Tg, i talk show che si susseguono sulle reti, ascolto tutti e tutte. Ci sto mettendo passione per riuscire a capire cos’è che mi spaventa. Per qualche tempo ho pensato ai neutroni trattenuti nelle testate nucleari, costretti a stare buoni e non invadere nessun altro territorio. Devo confessare di aver persino sognato che facessero squadra e si mettessero in sciopero se qualcuno avesse pestato il tasto sbagliato. Ma i neutroni escono volentieri anche dalle mie fantasticherie. Devono berci sopra per non sentirsi schiavi di un impulso di morte. Piccoli kamikaze in picchiata libera sulle portaerei di grossa stazza. Botte a destra e a manca per ricavare una cattivissima reputazione. Che soddisfazione c’è a distruggere quello che capita?
Dopotutto sono solo fantasie mie che non stanno in cielo né in terra. Piuttosto penso a come un linguaggio combatta con un altro che vuol essere di segno opposto. A come l’uno sia incompatibile con l’altro ma provi comunque a vincere. Già, anche alcune parole sembrano votate all’auto distruzione. GUERRA, VINCERE, ARRENDERSI, COMPROMESSO, PACE, RESISTENZA, EROE etc appartengono a vocabolari ormai inservibili come i carri armati sulla via di Kiev. Dovremmo farne a meno o al massimo usarle per un selfie con la famiglia. Siamo in presenza di un tentata fissione della realtà in due parti. Dove l’una è Propaganda e l’altra è Verità. Non vale girare la testa di qua e di là sperando in questo o quello. La partita a ping pong si trasforma facilmente in una di calcio e quindi di rugby con molossi sulle curve, grandi come portaerei a suonarsele di buona ragione.
Non ce n’è nemmeno per gli arbitri. Spesso si finisce impiccati a una traversa solo per aver soffiato nel fischietto sbagliato con su scritto la parola “PACE” e chissà quando un santo verrà a mettere la buona parola.
Fino a quando insomma l’assurdo si travestirà di senso? Ogni guerra è assurda e meriterebbe una trattazione profonda delle ragioni che l’hanno scatenata. Occorrerebbe farne una dimostrazione matematica e insegnarla alla prima elementare con la pallottoliera del due più due. In una atmosfera surriscaldata dal lutto invece ogni frase è sospetta e deve fare un giro di scongiuri e rituali magici, pronunciare parole d’ordine per farsi aprire la porta dell’amico e farsi accettare senza che si sospetti di parteggiare per la parte sbagliata.
In tutto questo quale tipo di attacco può avere l’armata di parole di uno che starebbe solo nelle scarpe di Charlot e il suo grande dittatore?
E certo non è edificante vedere Arlecchino passare alle vie di fatto per convincere la platea che sta agendo e pensando seriamente. La risposta passa per il linguaggio tra panzer in fase di annichilimento reciproco ma anche per quello che c’è di tragico e marcio in un buffone disposto a uccidere migliaia di persone per dimostrare la sua versione di verità: DUE PI§ DUE FA CINQUE.
Nascono raggi gamma che accecano d’odio ma da cui, grazie a Dio, il linguaggio poetico prova a liberarsi con l’arma del ridicolo, dell’ironia, della caricatura e della strombazzatura. Credo che questo avvenga per vocazione allo smascheramento da parte del bambino che addita la nudità di re ed eroi di ogni genere. Un Omero piccolo piccolo che veste Achille con le armi di Fantozzi ed Ettore con quelle di Filini impegnati in una gita di fine agosto intorno a un trullo di Alberobello.

*

«tutti gli spettri metafisici emergono dagli antagonismi della vita reale». (Slavoj Žižek) 1

(Giorgio Linguaglossa)

1 S. Žižek  op. cit. p. 562

Giorgio Linguaglossa

Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera

I

Il misuratore delle ombre uscì dalla Cadillac nera
parcheggiata sotto gli alberi
Il Mago Woland tirò fuori dal cilindro il Signor Putler in giacca e cravatta
il quale prese a tossire e a friggere
«È libera quella sedia?
Posso sedermi? È da tanto che sono in viaggio.
Ingehaltenheit in das Nicht»,
disse senza colpo ferire, aggiungendo la seguente postilla:
«Se in una poesia appare una bianca geisha,
non resta che contemplarla»

II

È arrivato finalmente il misuratore delle ombre
È entrato nella stanza con un metro pieghevole
Il letto era incassato nella parete
Ha preso le misure del letto, del lampadario, dei comodini, dell’appendiabiti
con le giacche del Signor Linguaglossa
Una torcia elettrica brillava nell’angolo dietro l’armadio
I bagagli erano tutti aperti, c’era della biancheria e delle scatole di medicinali
Il Signor K. si è accomodato sulla sedia dipinta in rosso
proprio di fronte al letto

«Una overdose di Remdesivir la si può prendere ad Abukir»
«Composizione per pantofole e violino»
«Infilare le pallottole nel pallottoliere»
«Spruzzare del borotalco»
«B. è un venditore di pentole, kitsch maleodorante disinfettato col deodorante»
«Sa, Linguaglossa, se in un romanzo compare una pistola, occorre che spari».
disse K.
« Sì, lo so, è incredibile: il Signor Putler e il Signor Salvini una volta erano dei bambini»,
replicai senza convinzione

III

Lafcadio, lo pseudo mulier, prese a tossire
si affacciò alla finestra
Mr. Humble si tolse gli occhiali di tartaruga mentre parlava fitto
Il bicchiere giallo era posato sul tavolo del tinello dipinto in verde
Il vento spazzava via i ricordi.

«È stato testato dal Signor Putler un budino all’isotopo di polonio in grado di abbattere in un sol colpo una intera brigata aviotrasportata della Nato»,
disse lo scrittore Gombrowicz che in quel momento aveva fatto ingresso dalla porta girevole nella hall dell’Hotel Excelsior di Budapest

Mauro Pierno Continua a leggere

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Đorđe D. Sibinović (1964), Dieci Poesie, testo serbo a fronte, da La penna di William Shakespeare, a cura di Elizabet Vasiljević, Il poeta serbo scopre che la  condizione umana è attigua a quella della simulazione, il discorso dell’io è una sorta di oscena ripetizione della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo. Più che una poesia dell’esistenza, siamo in presenza di una poesia che sopravvive al cadavere dell’esistenza, alla dissoluzione dell’esistenza

3. Đorđe Sibinović

Đorđe D. Sibinović, scrittore, poeta e sceneggiatore serbo, è nato nel 1964 a Šabac. Dottore in giurisprudenza, vive e lavora a Belgrado. Ha pubblicato 11 libri di poesie: Presto (1994), Plodovi (1998), Nešto poverljivo (2004), Naselje belih kuća (2012), Rečnik poezije (2013), Hiljadu karaktera (2013), Pesme ljubavi pune (2014), Antologija uporednih snova (2015), Olovka Wilijama Šekspira (2018), Vidiš me kako usisavam (2019), Svojim rečima (2020). Ha avuto importantii riconoscimenti. Oltre alla poesia, ha pubblicato anche 7 libri di saggi e 4 romanzi. Il suo ultimo romanzo Plač mačke božije (2021) – Il pianto del gatto di Dio – ha attirato un’attenzione particolare sulla scena letteraria serba.

Le sue opere sono state tradotte in russo, inglese, italiano, tedesco, slovacco e macedone e arabo. Đorđe D. Sibinović non è quindi sconosciuto al pubblico letterario italiano. Il suo romanzo Genitori (Roditelji) e la raccolta di poesie La penna di William Shakespeare  sono stati tradotti in italiano e pubblicati da SECOP edizioni.

*

Ermeneutica

È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto», il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «soliloqui» fa esplodere. L’atto soliloquiale del poeta serbo assume l’aspetto di un discorso che si svolge nel foro interiore, ma il poeta scopre che l’interiore dell’io coincide con la superficie dell’io, che non c’è nulla di autentico nell’io; si ha l’impressione che il poeta serbo metta in atto una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto quel suo tergiversare tra le pareti della interiorità come irrigidita, muta, ostile alla sua duplicazione in parole. Il poeta serbo scopre che la  condizione umana è attigua a quella della simulazione, il discorso dell’io è una sorta di oscena ripetizione della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo. Più che una poesia dell’esistenza, siamo in presenza di una poesia che sopravvive al cadavere dell’esistenza, alla dissoluzione dell’esistenza. In tal senso la poesia di Đorđe D. Sibinović è una tipica poesia del postumanesimo. Nell’epoca del tramonto dell’umano la poesia si ricava uno spiraglio, un pertugio nel quale sopravvivere come una muffa o un echinoderma.

(Giorgio Linguaglossa)

da La penna William Shakespeare

scrivere poesia
a penna stilografica con inchiostro
blu regale
sulla carta senza legno…
rullare la polvere del talento
che scorre
attraverso il pennino d’oro
della storia dell’arrivo delle oche
alle corti
e non dire niente…
versare l’orma
dell’inchiostro
nella lettera dei due pazzi
che credevano che
il sangue diventasse l’inchiostro
e che con il sangue solamente
si potesse
scrivere…

OLOVKA VILIJAM ŠEKSPIR

pisati pesme
penkalom mastilom
kraljevski plavim
po hartiji bez drveta…
valjati prah talenta
što prostruji
zlatnim perom
istorije ulaska guske
na dvorove
i ne reći ništa…
prosuti trag
mastila
u slovu dva ludaka
koji su verovali da
krv postaje mastilo
a da se samo krvlju
može
pisati…

*

La terapia

sei chilometri
di cammino veloce
attende il malato di cuore
ogni giorno.
il mio caso è
specifico.
all’inizio sono pronto
al peggio
poi
mi soffermo aspettando
un colpo improvviso…
finché l’accelerazione
non porta la gioia
della nuova nascita
senza malattia.
a casa giungo
sudato
e deluso
per quanto tutto
dura
poco…

TERAPIJA

šest kilometara
brzog hoda
čeka srčanog bolesnika
svakog dana.
moj slučaj je
osobit.
prvo pomišljam
na najgore
zatim
zastajkujem očekujući
iznenadni udar…
da bi ubrzanje
donelo radost
novog rađanja
bez bolesti.
domu stižem
znojav
i razočaran
koliko sve
kratko
traje…

*

LA PENNA WILLIAM SHAKESPEARE

La farmacia

ho notato
che qualcuno
entra in casa mia
alla chetichella
e prende mie medicine.
non sono avaro
la mania di persecuzione
non mi ossessiona
ma non capisco
perchè si beve
tanta quantità
appena apro
una scatola
e quella non c’è più.
ho intrapreso un’inchiesta
meticolosa
spostato lo zerbino
interrogato la farmacista
segnato la data e
aspetato il fantasma.
ci potreste credere
le ho preso
io… Continua a leggere

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Archiviato in Poesia serba, Poesia serba contemporanea

Sulla struttura serendipica del testo kitchen, Scritture serendipiche di Letizia Leone, Mauro Pierno, Ewa Tagher, Raffaele Ciccarone, Commenti di Jacopo Ricciardi, Francesco Paolo Intini, Lucio Mayoor Tosi, Marie laure Colasson, Vediamo le cose da punti di vista diversi, ed è bene che sia così. La visione scientifica sbaraglia equilibri e certezze, esatto contrario di ciò che comunemente si pensa

Gallina Nanin moltiplicate

Sulla struttura serendipica del testo kitchen

Penso che fondamentalmente un testo serendipico restituisca creatività alla poesia. Se è vero che viaggia nel vuoto – ma fino a che punto ogni altro gas: scientifico, matematico, filosofico etc. è assente? – e vorrebbe appropriarsene indefinitamente, disperando dell’impresa come Achille e Tartaruga è altrettanto vero che il desiderio del vuoto lo rende fertile di fermenti che negano le parole e nel fare questo ne inventano altre come in un puzzle di tasselli bianchi e neri tutti uguali in forma e dimensione di cui nessuno conosce la figura definitiva. In questo senso è possibile aggiungere e togliere per realizzare una realtà locale che consiste di un piccolo senso più o meno ordinato in uno spazio generale caotico tra conscio e inconscio. Chiedersi quale sia la figura che presiede al puzzle è come chiedersi quale figura abbia il caos. Il bello di tutto è che quello che alla fine chiamiamo componimento finisce solo apparentemente, ma potrebbe riprendere vita da una parola qualsiasi – come farebbe spontaneamente il gas se in un punto qualsiasi del suo contenitore si aprisse un foro – bisogna ad un certo punto umilmente accontentarsi di quel poco (sempre poco se la vis che presiede l’espansione è la stessa di un gas) che si riesce a scrivere, consci di un tutto non rappresentabile definitivamente ma anche del fatto che l’effetto diluizione non cambia la natura del gas. Il desiderio soggettivo del vuoto è inappagabile ma anche l’appetito del vuoto, sul nostro desiderio non scherza, specie se al suo interno residuano particelle scientifiche, filosofiche etc. di ogni altro tipo. Ciò che conta è l’effetto di contrasto tra un testo poetico e quello che lo circonda, fino a che punto esso si sia mantenuto integro rispetto a tutti le altre molecole che in un vuoto relativo sbattono e collidono in un tutto caotico. Almeno così mi sembra.

(Francesco Paolo Intini)

Vediamo le cose da punti di vista diversi, ed è bene che sia così. La visione scientifica sbaraglia equilibri e certezze, esatto contrario di ciò che comunemente si pensa. La visione mistica, lo dico per semplificare, non può essere data senza che vi sia partecipazione diretta dell’osservatore. Il vuoto mistico è in relazione al divenire costante; la qual cosa è stabile e continua, al punto da far pensare che sia sempre stato così: nessun inizio (big bang) ma costante inizio, se così si può dire, di tutto ciò che muore, si trasforma, di tutto ciò che è in atto. Le due visioni si somigliano.
Mi vedo sconcertato mentre avanzo tra fotografie sospese nel vuoto; se presto attenzione a una di queste, ecco che l’immagine prende vita, e mi ritrovo in qualche storia, anche le più banali, le più insignificanti… e non sempre ne vale la pena. Quindi ho eliminato figure e personaggi, che diventano voci. Avanzo in ciò che sono e non sono, stabilmente. Tra l’altro, a me sembra di non avere immaginazione, la quale serve a prefigurare, e non c’è fatica maggiore che inseguire un buon concetto, una buona immagine visiva (se capita cerco di sbrigarmela in meno di due versi, se di più ci rinuncio. Mi porterebbero fuori strada). La procedura serendipica non è distante da questo comportamento.

(Lucio Mayoor Tosi)

Intini afferma che il testo deve “mantenersi integro” nel caos esterno e il vuoto ha un proprio desiderio che consiste nello sgretolare tutto (parafraso); quindi il testo è questo sgretolarsi per azione del vuoto. Il lettore ne gode perché quello sgretolarsi effettuato per desiderio del vuoto, a cui il poeta partecipa, rimane integro. Si potrebbe pensare che l’integrità di un testo si possa migliorare e che quindi esistano testi più integri di altri. Ma di che tipo sia questa integrità migliore è difficile dire. Alcuni versi di Intini mi piacciono più di altri, penso valga anche per Linguaglossa (con migliore discernimento da Poetry Kitchen), ma il testo è la somma delle parti (anche se queste si accumulano per sottrazione del vuoto) oppure no e le parti sono salti su uno stesso punto? E l’integrità come si misura rispetto alle parti? Intendo che all’interno della Poetry Kitchen, pur con estrema perizia di lavoro di fattura, nel risultato del testo ci sia una specie di sensazione di scivolare sul testo, di surfare sull’onda del vuoto, e chi surfa è il lettore che vive questo lasciarsi andare, questo diventare della mente gas e vuoto insieme. E l’ ampiezza della nube è già un oceano senza limite dove un testo rispetto a un altro non si situano vicino ma piuttosto estraniati l’uno dall’altro. Così c’è un’ebbrezza del surfista che cavalca il vuoto ma questa ebbrezza non ha poi variazione e rimane stabile, non ha shock, inizia e resta, e non si scende mai da cavallo anche se si interrompe la lettura (quando la si riprende ci si trova sempre sulla cresta dell’onda). E questo accade anche quando il testo ha una vita più occasionale, estemporanea. È il meccanismo attivato per giocare con il vuoto (o per farsi giocare dal vuoto) a rendere variegata l’esperienza, mi pare. È come se valesse di più la forma e la struttura della tavola del resto. È come surfare su uno stuzzicadenti e altro ancora. Il vuoto resta sempre lì, e non si può scendere dall’onda.

(Jacopo Ricciardi)

(ritratto di Letizia Leone a sx di Giorgio Ortona, acrilico)

.

Letizia Leone

Ventilatore a palla: ceneri infeconde
Volano alte. Grigio, grigio, grigio
Si affondano gli agosti.

Ventilare gli Archi Trionfali
e altri buchi. Nei lugli e negli agosti.

Ventilatore a paglia. Mano morta di dama,
Scoloriti i carnevali dei ventagli.
Quarantacinque gradi sulla Tiburtina
Le lacrime calde del parabrezza.

I motori novecenteschi collassano
Per ferro incandescente. Dalla finestra aperta
Entra un po’ di galassia.

Ventaglio souvenir o soffietto a mantice?
Viviamo in infradito.
Le fiamme dell’aldilà lambiscono l’aldiquà,
rivelò Sloterdijk agli accademici svedesi.

Ma quale vento favonio, è un fono per capelli e glottide.
Miseria e nobiltà, messa in piega e fonosimbolismo.
Dammi mille euro per il Billionaire…

Le pale sul soffitto cubano a cento all’ora.
Il detective letterario è trash ma fa lo snob.
La scimmia in giubba rossa.
Un libro effimero da spiaggia. Dopo Dio.

La canottiera accende il ventilatore:
Stasera mi godo fresco neorealista sul divano.

Ewa Tagher

CASA. Piccionaia con intento d’universo interiore.
CASA. Fuori, dentro, fuori, dentro.
CASA. Ingresso, due camere, soggiorno forzato.
CASA. Ascensore fuori uso, ipoteca d’affetti, mutuo soccorso, possibilità di variare il colore delle abitudini.
CASA. Souvenir d’oltralpe sul frigidaire, gorgonzola e vuoto dentro.
CASA. Di montagna, al mare, vuota, piena, infestata di litigi e formiche rosse.
CASA. Affacciarsi dalla finestra e urlare “così non va”! Continua a leggere

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È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto», il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti compostati» fa esplodere. L’atto kitchen ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, Poetry kitchen di Marie Laure Colasson, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Paul Klee il movimento parallattico della visione

20220522_134017

Paul Klee – Il punto di vista ha perduto rigidità, è diventato anomalo, abnorme, subisce uno scarto e con esso l’oggetto; ovvero, il punto di vista resta fisso, e a spostarsi è l’oggetto. L’anomalia consiste nell’accentuare una visione dell’oggetto a scapito di altre. Per la prima volta nel novecento con la poetry kitchen il movimento degli oggetti e dei soggetti diventa parallattico.
.

Marie Laure Colasson
da Nuove Poesie

La blanche geisha cueille un trèfle à quatre feuilles
pour effacer les mirages d’un étang marzien

“Donne le moi!” dit Eredia
“pour prononcer les paroles du silence”

Madame Green intercepte l’ardue conversation
et dans un raptus d’acier hurle
“Vous n’avez rien compris!”

“Ses cris sont pires qu’une bouilloire
qui se trémousse en vacances!”

“Tu as raison un véritable court-circuit
un véritable drone kamikaze
une véritable illusion de la gravité”

Madame Green fume sa cigarette électronique
ses yeux à inventaire
tirent une flèche vers le soleil

Un lion à losanges pourpres
meurt de faim de soif dans sa cage

Les jeux sont faits
rien ne va plus

*

La bianca geisha coglie un quadrifoglio
per cancellare i miraggi di uno stagno marziano

“Dammelo!” dice Eredia
“per pronunciare le parole del silenzio!”

Madame Green intercetta l’ardua conversazione
e in un raptus d’acciaio urla
“Voi non avete capito niente!”

“Le sue strida sono peggio d’un bollitore
che traballa in vacanza”

“Hai ragione un veritiero corto circuito
un veritiero drone kamikaze
una veritiera illusione della gravità”

Madame Green fuma la sigaretta elettronica
gli occhi a inventario
tirano una freccia verso il sole

Un leone a losanghe color porpora
muore di fame di sete nella gabbia

Les jeux sont faits
rien ne va plus

Giorgio Linguaglossa

Christoph Türcke ha di recente introdotto un paradigma interpretativo, che ben si lega alle considerazioni fin qui svolte, il sociologo oppone al paradigma formulato da GuyDebord nel 1967, vale a dire quello della «società dello spettacolo», il nuovo paradigma di una «società eccitata», paradigma poi radicalizzato da Baudrillard nella nozione di «società della simulazione e dei simulacri». La società eccitata va a rimorchio del «sensazionale», vive di «traumi», di shock e di «oblio» che si alternano ripristinando sempre di nuovo il meccanismo della rimozione e dell’oblio. Il mondo del tardo capitalismo macchinizzato ha ormai fagocitato la società dello spettacolo e della simulazione, oggi siamo dinanzi ad una società perennemente «eccitata» dai fantasmi e dai traumi della comunicazione. Ciò che conta, ciò che vale di più, ciò che valutiamo positivamente negli altri e ciò che noi stessi cerchiamo di realizzare, è il produrre sensazioni, shock percettivi, comunicazionali, input. Si tratta di un mondo di sensazioni, di istanti, di affetti momentanei consentanei al nostro modo di vita che richiede continue sollecitazioni, continui zoom e continui scarti, un universo di notizie che si accavalla e implode su se stesso. Il sensazionale non produce esperienze, quanto simulacri di esperienze ed oblio.

Heidegger nel 1924 scrisse: «Quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare». Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. In quel frangente, le parole e le cose ci diventano riconoscibili, ed è proprio in quel momento possiamo iniziare a parlare.

È molto importante trovare il luogo nella linguisticità, e questo lo possono fare soltanto i poeti. Marie Laure Colasson ha trovato il suo luogo esclusivo nella linguisticità in una «poesia lunare», dove la forza di gravità è appena un decimo di quella terrestre, dove le parole e i suoi fantasmi sono così leggeri come il volo di una farfalla o di una libellula. È la leggerezza il fascino segreto della sua poesia che oppone allo shock e ai traumi della società della comunicazione l’agilità e la leggerezza delle zampe di una gru o di un cerbiatto. Non per niente la Colasson scrive nella lingua di Apollinaire, di Max Jacob, di Pierre Reverdy, di Anatole France e di Paul Claudel.

Mauro Pierno
Compostaggio

Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più. (F.P. Intini)

Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto. (M. Pierno)

L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito (A. Sagredo)

Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle.(G. Linguaglossa)

Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi.(M.L. Colasson)

Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?” (Lucio M. Tosy)

o almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo. (F.P. Intini)

i missili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc.

La morte è un congedo illimitato siglato dal Signor Dio (Gino Rago)

quanto accade normalmente nella poetry kitchen della pagina odierna (Marie laure Colasson)

Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
(Lucio Tosi)

Tre frammenti di uguale misura, da ripetere con attenzione e intenzione. (Lucio Tosi)

Siamo entrati in un mondo parallattico (Slavoj Zizek)

*Merda d’artista (Manzoni)

Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.(Linguaglossa)

Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov” (Tiliacos)

…tolgo gli orpelli…

Mauro Pierno

Dalla trincea del Meno si spara contro un eroico Più.
Stasera passeggiava con il padre di Amleto torcia in mano e passo incerto.
L’illusione di un attore che non fugge da nessuno
e da nessuna cosa è il destino del numero infinito.
Che dire?, in questa jouissance c’è spazio per le anime nobili, per le parole assennate, per le anime belle.
Poi ciascuno è libero di inventare una propria strategia di pescaggio degli escrementi.
Voglio dire, alla domanda “Cosa ti dà pena?”
O almeno tentare di farlo senza ipocrisia e postura di struzzo.
I missili russi muniti di testate nucleari per attingere e annichilire Parigi, Berlino, Londra, Torino etc.
La morte è un congedo illimitato siglato dal Signor Dio
quanto accade normalmente nella poetry kitchen della pagina odierna
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Telegiornali, cose incredibili. Peggio che morire.
Tre frammenti di uguale misura, da ripetere con attenzione e intenzione.
Siamo entrati in un mondo parallattico
*Merda d’artista
Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.
Ameremo forse meno, per questo, “Anna Karenina” o “I fratelli Karamazov”

Giorgio Linguaglossa

Sul «compostaggio di frammenti» di Mauro Pierno

Quando Salman Rushdie inizia a scrivere il suo primo romanzo, Midnight’s children nel 1981, aveva già raccolto una sterminata miriade di «frammenti» dei cartelloni pubblicitari affissi in India negli anni Cinquanta, e il romanzo fu una ricostruzione minuziosa della storia indiana a partire da quei frammenti raccolti. Così anche il celebre romanzo di Orhan Pamuk, Museo dell’innocenza, ha nel suo centro il racconto della raccolta di una sterminata miriade di «frammenti», di biglietti dell’autobus, di spille, di oggetti femminili che erano appartenuti alla amatissima Fusun da parte del protagonista, poi morta in un incidente stradale. Il protagonista ricostruisce il passato a partire da quei frammenti. O meglio: crede, si illude di ricostruire il passato, ma il passato è passato e il più grande amore della sua vita, la bellissima Fusun è morta. L’unico modo per farla rivivere è, appunto, la raccolta dei frammenti, anche insignificanti di cose che avevano avuto un rapporto con la sua amata Fusun.
Il «frammento», dunque, è una cosa ben strana, la postmodernità lo ha scoperto da molti decenni; Derrida, Levinas, Barthes, Lyotard, Baudrillard e altri pensatori hanno investigato le straordinarie facoltà di questo «talismano magico»; la poesia, il romanzo, la pittura, la scultura, il cinema, ma anche la pubblicità ne fanno larghissimo uso da molti decenni, soltanto la poesia italiana non se ne è accorta, che continua a fare poesia scolastica, di accademia.

L’atto kitchen di Pierno è un atto rivoluzionario, utilizza il frammento come un «effetto di superficie», un «talismano magico», come immagini di caleidoscopio, come «cartellonistica»; impiega il «frammento», il polittico e il compostaggio di frammenti come principio guida della composizione poetica; ma non solo, l’atto kitchen è anche un perlustratore e un mistificatore dell’Enigma superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente della soggettività proprio della civiltà cibernetica-tecnologica.

È una poetica del «vuoto», una poesia del «vuoto». E il «vuoto» è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti compostati» fa esplodere. L’atto kitchen ha l’aspetto di un fuoco d’artificio di superficie; si ha l’impressione che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un algebrico gioco di simulacri e di simulazioni, una agopuntura, una scherma, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo, reperti dell’Antropocene. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket globale, ed è simile al telemarket, una danza apotropaica di scheletri viventi…

Lucio Mayoor Tosi

La parola che da inizio duemila apre le danze è “interattività”. Grazie all’interattività chiunque può “produrre sensazioni, shock percettivi, comunicazionali, input”. Performance, installazioni, arte concettuale, ecc. mirano al coinvolgimento dell’osservatore, che si suppone o lo si vorrebbe partecipativo; o assente, nei grandi numeri, se il parametro è meramente commerciale. Nella poesia kitchen la partecipazione attiva del lettore è fondamentale, troppe le parti mancanti del discorso (del discorso lineare). Tutto sta a capire se il linguaggio di risulta corrisponde o intercetta nelle modalità il farsi del pensiero odierno; il quale non sempre è rintracciabile nelle forme preferite dalle élite letterarie ma, al contrario, è rinvenibile nelle titolazioni di libri, giornali, notiziari e pubblicità. Mia sensazione è che il linguaggio comune, condiviso, abbia abbandonato l’uso di locuzioni appropriate ma si preferisca il modo di dire; il quale si aggiorna in ogni momento perché capace di integrare terminologie di linguaggio internazionale; purché sempre nella forma dei “modo di dire”. Parte della produzione kitchen sembra volta a creare inediti modi di dire.

La poesia di Marie Laure Colasson è all’insegna della leggerezza, è vero e lo si capisce sempre, fin dal primo verso. Eredia e Bianca geisha inaugurano la forma “sequel” (come già il Signor K e Cogito nelle poesie di Linguaglossa). Va però considerato che la forma distico tende ad irreggimentare il discorso, il che non giova alla leggerezza; tant’è che Marie Laure si trova a non poter uscire dalla forma soggetto verbo predicato. C’è anche la questione del bilinguismo. Ma certo è un passo avanti rispetto all’esistenzialismo, di cui si avvertono le tracce.

Giorgio Linguaglossa

Ho letto su ‘Il Giornale’ che Putin durante i suoi viaggi all’estero negli anni scorsi era accompagnato da un segugio del FSB il quale aveva il compito di raccogliere le sue risultanze fisiologiche in una borsetta per trasferire poi il conglomerato in una valigia e riportarla in Russia, questo per timore di lasciare in giro gli escrementi dello Czar che avrebbero potuto essere intercettati dai servizi segreti occidentali per appurare lo stato di salute dello Czar.
Straordinario, no? Chiediamoci: dove sta il significato?

Lucio Mayoor Tosi

Davvero straordinario. Pensare che qui da noi le Scatolette di merda di Manzoni (*Merda d’artista) vengono ancora riprodotte e vendute sul mercato.

Giorgio Linguaglossa

caro Lucio,

c’è più verità negli escrementi che nell’Empireo, anzi, l’empireo è fatto di escrementi, lo sanno bene tutti i dittatori i quali commerciano con gli escrementi e lo sanno bene anche gli schiavi i quali hanno da sempre le mani in pasta negli escrementi.
Ecco una mia poesia sull’argomento (g.l.):

Distretto n. 15

«Ecco gli appuntamenti che mi procurano benessere: Hotwitzer da 155 mm. Tank Terminator, Machine gun, Rocket launcher e fragole al polonio, di tutto di più».

Il Presidente del Globo Terrestre stava massaggiando un sorbetto al limone quando mi rivolse queste parole nella hall dell’Excelsior a Venezia:

«Dov’è la verità? Portate qui la verità!»
«Senza indugio!»,
urlò il Presidente completamente fuori di sesto.

Il cappotto di Astrachan pendeva dall’appendiabiti.
Il filamento elettrico in tungsteno della lampadina tossì e si frantumò.

«La verità è negli escrementi!», replicò Cogito mentre metteva sul fuoco la macchinetta del caffè e masticava una brioche.
«Tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper starsene tranquilli in una stanza»,
aggiunse il filosofo

Le tendine sporche alle pareti lasciavano trasparire un mesto umidore.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa la sua prima raccolta di poesia, Les choses de la vie

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra? di Marie Laure Colasson, Poesie all’epoca della guerra in Ucraina di Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato

Ritratto di Giorgio Linguaglossa

foto di Marie Laure Colasson, Ritratto di Giorgio Linguaglossa al tempo della guerra in Ucraina, 2022

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Marie Laure Colasson

 È possibile oggi scrivere una poesia sulla guerra?

È inutile girarci intorno oggi non è più possibile scrivere una poesia sulla guerra, per una semplice ragione: è la vita elementare, la vita quotidiana degli uomini delle democrazie neoliberali che è diventata una guerra permanente: andiamo in guerra tutti i giorni, tutti sono già preparati fin dalla culla ad andare in guerra, è una guerra generale e generalizzata, viviamo in una zona di conflittualità permanente e di permanente regime di esclusione (i più forti escludono i più deboli, i ricchi escludono i poveri, i mascalzoni gli onesti). Viviamo e prosperiamo in un regime ad esclusione portabile, controllata e irreggimentata, siamo entrati nell’epoca delle democrazie dell’esclusione controllata e auto controllata, con il premio di consolazione del sussidio di cittadinanza. La Nuova Ontologia Estetica e la poetry kitchen derivano dalla presa di conoscenza di questa situazione globale. Il modernismo è finito. Chi scrive alla maniera lirica e postlirica è un confidente e un connivente di questa situazione politica di stallo stilistico. È inutile girarci intorno: le democrazie neoliberali se vorranno sopravvivere in Occidente devono trovare il coraggio di fare delle riforme drastiche: togliere ai ricchi e agli straricchi per devolvere parte di questa ricchezza smodata ai poveri, rimettere in moto l’ascensore sociale, aprire gli spazi di libertà. Brodskij è stato un poeta del modernismo europeo, la poesia “Lettera al generale Z” risale al 1968, alla invasione di Praga; oggi, con la guerra di invasione dell’Ucraina prendiamo atto che il modernismo è morto e sepolto, scrivere una poesia della memoria o una poesia sulla guerra sarebbe kitsch, un esercizio alla maniera degli anni Sessanta. Brodskij intelligentemente ha aggirato il problema: ha fatto una poesia contro il “generale Z.” non contro la guerra in modo generalizzato. Torniamo all’oggi, chiediamoci: come è possibile che Putin e il suo regime autocratico abbia raccolto e raccolga tuttora tra i disgraziati e i poveri tanto consenso? La domanda è perentoria e richiede una risposta. Io penso che qui in Europa si può rispondere rilanciando la democrazia, con delle riforme, rimettendo in moto la democrazia. In Russia la democrazia non c’è mai stata, ma qui  in Italia e in Europa occorre da subito rafforzare la democrazia, soltanto costruendo un più di democrazia si potrà porre un argine alle smanie di potenza dell’élite di professionisti che ha fatto il suo apprendistato tra le file del KGB. Ma quello che c’è di più allarmante è vedere quanti appoggi e approvazioni indirette goda Putin e il suo regime tra le masse degli italiani e tra i partiti italiani di destra e anche in parte di sinistra. Come si può spiegare questo fatto? Come è stato possibile? – ma questo è un problema tutto italiano, squisitamente italiano.

Giorgio Linguaglossa

Negli anni che vanno dal 1914 al 1945 l’Occidente ha messo in atto, senza averne coscienza, un vero e proprio tentativo di auto annientamento. La guerra fredda che è seguita è stato un interludio di pace, armata ma di pace. Oggi con la guerra di invasione dell’Ucraina qui in Europa siamo entrati in una nuova era che però ci è ignota, in un certo senso noi siamo gli abitanti dell’ignoto. Non sappiamo se un’altra epoca si aprirà davanti a noi o se ci sarà il diluvio. Auden titolò L’età dell’ansia un poemetto ambientato in un bar di New York verso la fine della seconda guerra, oggi non so quale sarà il titolo di un libro di poesia che passerà ai posteri, forse il libro di Francesco Paolo Intini, Faust chiama Mefistofele per una metastasi (2019). Il titolo del mio libro che sto per dare alle stampe è Distretto n. 18. Ora che ci penso la parola «distretto» è un termine militare, siamo già tutti militarizzati senza saperlo e senza volerlo, viviamo in una zona altamente militarizzata in quanto disponiamo di un inconscio storico de-politicizzato e di una vita privata de-privata in via di privatizzazione progressiva. La nuova militarizzazione delle coscienze si avvale di una vita privata che è stata de-privata, che è incapace di esperire esperienze, si oscilla tutti tra turismo e terrorismo. E questo lo troviamo accettabile.

«Fondamento del terrore è l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. Tutto il resto appare labile, incerto, inadeguato.
[…]
Nello stadio ultimo della sua formazione, il terrorismo islamico coincide con la diffusione della pornografia in rete, negli anni Novanta. All’improvviso si trovarono davanti agli occhi, facilmente e perennemente disponibile, ciò che avevano sempre fantasticato e desiderato. e che al tempo stesso svelleva l’intero assetto delle loro regole riguardo al sesso. Se quella negazione era possibile, tutto doveva essere possibile. Il mondo secolare aveva invaso la loro mente con qualcosa di irresistibile, che li attirava e al tempo stesso li irrideva e li esautorava. Senza uso di armi – e oltretutto non ammettendo o esigendo la presenza del significato. Ma loro sarebbero andati oltre. E, al di là dal sesso, c’è solo la morte. Una morte sigillata dal significato».1

1 Roberto Calasso ne L’innominabile attuale (Adelphi, 2017 p. 14)

Francesco Paolo Intini

“A questo punto interviene il Re:-il mondo va corretto termodinamicamente”

La coda di lucertola era parte del Logos-animale vissuto nel Pleistocene-
Ma si muove ancora, sbattendo la punta come una banconota l’Europa

Ed è di qua che si assiste alla caccia e di là che ricrescono i T-Rex
Tra i pastelli c’è ressa a ricostruire giungle. Il pollo si lascia dipingere su Pasifae.

Subentrano i missili ad personam-L’atomica tattica nel marsupio-
Tanto per umiliare l’amor proprio delle melanzane ed esaltare il cavolfiore.

Un grido:- Perché m’hai riportato al mercato?
I vocaboli vanno dal parrucchiere ad aggiustare la dentiera.

Se la zucca si spacca in due, nessuno è in grado di fermare i semi
Cocomeri e meloni si rompono a catena.
Pesche e albicocche distruggono l’Italia.

E dunque cos’è massaciquadro nella polpa delle nazioni?

Lucio Mayoor Tosi

È da un po’ che non scrivo. Ho chiesto al medico,
dice che sua moglie lo ha lasciato. Ha iniziato a scrivere.

– Ama quel che le pare. Si veste come una pazza. Si lascia rapire
da un verso. Sa, dice, implora; cioè, lo pensa. Non la senti parlare.
La casa (un) fai-da-te.

– “La rondine al tetto”. Libro per prostitute; scritto a quattro mani
con canterina che squilla – si vede che sta bene, neanche guarda
i tasti… vola!

L’arretrato del tutto, signor accapo.

– Dice di essere turca. Ha le lentiggini. Si esprime con gesti.
È muta.

Ci siamo. Tra sei ore gli occhi saranno chiusi. Strano destino.

– Sempre facendo gesti canta Fiume di parole tra noi.

Più in basso, le Dolomiti.

 

Mauro Pierno

Il dove siamo ha poca importanza, tanto la realtà ci riporta sempre a galla.
L’immedesimazione comporta straniamenti emotivi…

“il fumo delle sigarette tra gli scaffali e le bibite lasciate a metà, le mani
che si stringono alle maniglie, ai corrimani…”(Linguaglossa)

“-E dunque, mio caro animale, ognuno ha la voce che si merita.” (Tosy)

“-Ho una pupilla ballerina!
-No! No! Ha l’occhio pigro! Sentenziò l’oftalmico.”(Gallo)

“Stanotte la campagna è blu
nella mansarda è fiorito il baobab” (Pugliese)

… che tracciano un atemporalità. Tanto la realtà ci riacciuffa sempre.
Forse il tentativo di questa nostra poesia è già una sorta di ricostruzione, dopo un enne tempo.
C’è un tempo, uno spazio, dove tutto questo pensiero poetico può avverarsi!
Una sorta di sottinteso emotivo risucchiato da un gigantesco buco nero.
La felicità della poesia kitchen è una sorta di forte aspirazione.
L’atto di essere aspirati!
Non ispirati.

La poesia di Intini e di Mauro Pierno prende atto che ormai si può scrivere poesia soltanto facendo riferimento ad un ordine delle parole che è saltato, come del resto l’ordine dei fatti, su una sterminata quantità di guerre glocali (162 su tutto il pianeta) che sono il contraltare delle guerre globali (quelle non combattute con le armi ma con gli strumenti del web e delle Agenzie di Affari Riservati, per il tramite delle bande guerresche Wagner e similari).

«Non esiste più uno spazio circoscritto e sommariamente regolamentato entro cui si svolge la politica», commenta Roberto Calasso nel libro sopra citato a pag. 35, il quale così continua: «Nel 1967 Kissinger afferma: Non sarà possibile concepire un ordine internazionale se la regione entro cui si svolgono la sopravvivenza e l’evoluzione degli Stati rimane senza regole internazionali di condotta ed è abbandonata a decisioni unilaterali». Definizione dove Kissinger è costretto a mescolare linguaggio vestfaliano e linguaggio del cyberspazio.
[…]
Henry Kissinger avviò la sua carriera con un solo libro sul Congresso di Vienna. Passato dagli studi alla politica attiva, tentò in ogni modo di applicare quella che ha chiamato politica “vestfaliana”, quindi basata sull’equilibrio fra le potenze, introdotto nel trattato di Vestfalia del 1648 e riformulato per un’ultima volta nel 1815 con il Congresso di Vienna. e, finché durò una opposizione polare USA e URSS, quel principio trovò un ulteriore corollario, puntando questa volta sulla deterrenza nucleare e sulla spartizione delle aree di influenza. Ma dopo? Un ordine fondato sull’equilibrio delle potenze è diventato inattuabile, innanzitutto perché le potenze non si oppongono più frontalmente, ma su più lati. E non condividono neppure il principio della spartizione delle aree di influenza. (p.35)

 

Kitsch poetry

Il coccodrillo rivolge la parola ad un armadio, gli dice:
«Il pollo si cuoce nella carta stagnola».
Così avvenne che il Congresso di Vienna adottò il significante.
I think tank hanno sfornato un mandolino che suona “O sole mio” sul lungomare di Posillipo.
Il sindaco di Napoli però ha preso le distanze.
Parole vestfaliane si mischiano a quelle basedowike di una poesia sagrediana in modo che si possano mangiare in un panino imbottito.
L’Agenzia Affari Riservati del Signor Putler ha inviato un logogramma al Signor Dio, c’è scritto: «Chiuso per lutto».
«Chi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato»
mormorò il poeta Antonio Sagredo
il quale non si mosse dal busto in marmo sito in villa Borghese accanto a quello di Ugo Foscolo dove lo aveva piazzato un’ordinanza di papa Pio IX.
Uno stuolo di pappagalli passò di lì e ci fece la cacca.
Così avvenne che la tgirl Korra delle Amazzoni scambiò il fotoreporter del TG1 per il Macho Zozzilla noto attore del film porno intitolato “Il gorilla dello Zoo di Atlanta e la Signorina Biancaneve”.
Il che produsse sconcerto e imbarazzo presso gli utenti della pellicola.
La mannequin Clizia Sosostris in monokini ha dichiarato ai followers di Tic Toc: «Non diventate quello che vi hanno fatto».
In tutto questo trambusto un treno carico di uova fritte entrò direttamente nella suite dove Biancaneve stava girando una scena porno con i sette nani, causando scompiglio e sbigottimento.
Che è che non è, per porre fine a queste ipotiposi alla fine è intervenuto il Signor Dio,
il quale disse:
«Il mondo va corretto in una camera iperbarica ad alta densità di neutrini e positroni»
«E così sia»

Mimmo Pugliese

Non ti sei fidato

Non ti sei fidato
hai continuato a guardare il prato deserto

Il volo che hai sulle spalle
asperge tulipani e ciba cicogne

Una piccola voglia di caffè sul collo
sversa sulle canne dei fucili

Avevi la luna nel piatto
quando ti sei alzato e guardato fuori

Passavano bighe che trinciavano stricnina
avevano martingale di rovi

Domani le aquile dormiranno
i bambini mangeranno gelati alla frutta

Stringono i pugni le colonne
samurai vestito da lince accende fuochi

La portulaca fa il filo alle onde gravitazionali
ha zampe di riccio il nuovo soffitto

Sa di legno la fila di notti
che dalle grondaie spara ai papaveri

Tappeti persiani spezzano il sonno ai pattini a rotelle
l’ultimo brindisi è per l’acrobata cieco

Non ti sei fidato
polpastrelli di saccarina rovesciano il muro del suono

*

Per Wittgenstein le parole, le proposizioni valgono in quanto si riferiscono a contesti d’uso: «Che questa o quest’altra proposizione non abbia senso, è significativo in filosofia; ma significativo è anche che suoni comica», afferma il filosofo austriaco. La caratteristica più importante di questa nuova strategia riguarda l’apparenza di nonsenso che si produce nell’uso di giochi linguistici per esprimere esperienze nuove. È possibile individuare due conseguenze importanti per la riflessione del secondo Wittgenstein sul ruolo della filosofia e sull’etica: i giochi linguistici che utilizzano parole o espressioni insensate in relazione ai contesti d’uso della vita di relazione esibiscono questa apparente insensatezza solo perché impiegate in modo nuovo e inconsueto come reazione linguistica al presentarsi di una nuova esperienza. È quanto accade nella poetry kitchen, nella quale sono i contesti di uso delle parole che vengono cambiati. Non avrebbe senso parlare di insensatezza della poetry kitchen se noi considerassimo la questione dal punto di vista delle parole secondo i tradizionali contesti di uso. (g.l.)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. È in corso di stampa per Progetto Cultura di Roma la sua prima raccolta poetica, in edizione bilingue, Les choses de la vie.

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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie.

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Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019.
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Dopo il Moderno, Dopo il Novecento, Poesie kitchen di Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà»

Salvini Odoacre

immagine a computer del pelandrùn Salvini nelle vesti del barbaro Odoacre, il generale dei barbari che sconfisse Oreste, generale romano, e pose fine all’impero romano d’Occidente nel 476 d.C. Un magnifico esempio di come le sorti delle democrazie parlamentari d’Europa siano in pericolo e di poter naufragare in una confusa ideologia sovranista e antieuropea fatta di filo putinismo e anti atlantismo. Il pelandrùn ha detto che intende andare a Mosca a incontrare Putin, che ci vada pure magari con la maglietta quella con stampato il busto dell’autocrate russo in divisa militare. Il pelandrùn si comporta come il barbaro Odoacre, vuole mettere fine alle democrazie parlamentari perché hanno fatto il loro tempo, ma le democrazie parlamentari, pur con tutti i loro difetti, fanno paura alle autocrazie del globo… i dittatori temono le democrazie, le demonizzano, vogliono sanificarle, denazificarle, deucrainizzarle, saponificarle, derattizzarle… ma le democrazie sono più forti delle autocrazie e delle loro menzogne, e vinceranno con la forza stessa della  debole e contraddittoria istituzione chiamata democrazia.

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caro Gino Rago,

Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta:
«La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità».
Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà».

La memoria, strettamente connessa alla tradizione, è vissuta dai poeti modernisti come la più grande alleata per situarsi entro l’orizzonte della tradizione, e quindi della storia. I poeti e i narratori dell’età del modernismo percepiscono la storia come tradizione e la tradizione come storia, in un nesso indissolubile; e nell’ambito della tradizione introducono il «nuovo», di qui le avanguardie del primo Novecento e le post-avanguardie del secondo Novecento. Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo e la rivoluzione mediatica, le cose sono cambiate: la storia è diventata storialità e la tradizione è diventata museo, museo di ombre e di fantasmi, da difendere e da coltivare perché produce profitti.

La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà (convertita in scelta tra più prodotti). Il primo motto di Microsoft recitava: «Where do you want to go today?», lasciando presagire la prossima ventura libertà assoluta della navigazione senza limiti nel web. Ma è la locazione dell’opera di poiesis, che ha dis-messo la memoria, l’ha derubricata in storialità, in storia minore. La parola della poesia nel tempo della storialità non fonda né stabilisce nulla tranne la propria interrogazione; un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù, oggi questa è una domanda derubricata ad atto di fede. L’interrogazione poetica abita il traslato, il discorso spostato, indiretto, il discorso implicito, il meta discorso. La poesia abita la meta poesia. Dopo Giorgia Stecher (1929-1996) la sfiducia si è impossessata delle capacità discorsive della forma-poesia: i segni si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili, altri segni sembrano indicare altri e diversi significati possibili. Il significato di questi segni non può essere conosciuto a priori, i segni sono enigmi che viaggiano nel tempo, o meglio, si diramano in più temporalità, e l’interpretazione di ciò che il tempo dice diventa sempre più problematico. Il tempo dice: nulla. Dunque, nichilismo.

La «secolarizzazione» ha investito il discorso poetico, lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, lo ha sproblematizzato. La topologia ci dice che tutti i luoghi sono simili, si assomigliano, gli aeroporti, i cavalcavia, le stazioni ferroviarie, i cinema, gli interni ammobiliati delle nostre abitazioni, le carlinghe degli aerei, i portabagagli delle nostre automobili, le nostre valigette ventiquattro ore… tutti i luoghi della nostra vita quotidiana si assomigliano, viviamo in non-luoghi, siamo noi stessi il precipitato dei non-luoghi, di non-eventi, viviamo noi tutti in temporalità terribilmente somiglianti. Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini. Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante. Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi(…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…». (Parm., 156d-e).

Questa natura è una finzione, una petizione, una involontaria allegoria della nostra prigionia. Questa finzione narra la nostra condizione ontologica: siamo davanti al video e ci reputiamo presuntivamente liberi. Tutto il resto, ovvero, il reale, ci appare come degli epifenomeni laterali, periferici, consideriamo libertà la non-libertà.
Nell’oblio della libertà c’è tutta l’impossibilità per un poeta di oggi di scrivere come i poeti del modernismo europeo che erano guidati dalla stella polare del valore assiologico della parola «libertà». Tuttavia, come scrive Agamben, il naufragio «apre il luogo della parola, come quello in cui si può soltanto parlare e non sapere».

La dizione «poesia da frigobar», usata da Marie Laure Colasson, contrassegna la poesia del Dopo il Moderno, la crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie…

(Giorgio Linguaglossa)

Antonio Sagredo

Mi portava via il Ponte dei Tormenti un non so che di me dal mio canto,
e ogni pietra della mia voce era il viatico per una discreta eternità – d’argilla
era la letania della notte che beffava con le note i miei capricci e il riso,
e conteggiava sul selciato i furori e i singulti – Viole d’amore dei miei occhi!
Tutti i passi erano meno di un’epoca e più di un mosaico greco!

E la caduta dei volti e delle maschere come petali dai balconi, i saluti recitati,
gli addii dai treni di confino, le gonfie glandole dell’infanzia di Pietroburgo.
I poeti sono martiri del futuro, e la loro parola è già oltre torture imprevedibili.

Applausi, e sul palco il can-can di despoti –
spettri ossuti del Moulin Rouge!
Torbidi tempi io vi sento… sipario!… ciak! –
siete pronti al trionfo delle apocalissi?

Giuseppe Gallo
28 aprile 2022 alle 9:25 

Omaggio alla “Pallottola” di Gino Rago

Il proiettile, dopo aver sorvolato la Muraglia cinese,
gli era entrato nell’occhio sinistro,
ma né Vic, né Mary se ne erano accorti.
-Mamy…
-Sì…
-Ho una pupilla ballerina!
-No! No! Ha l’occhio pigro! Sentenziò l’oftalmico.
-No, ribatté la madre, è un tentativo di suicidio.
-A quest’età? Si oppose il padre.
-Sì, perché mio figlio è molto precoce!
Jerry, comunque, gironzolava per casa come se niente fosse.
L’occhio pigro continuava a essere pigro
e non si curava di inseguire le farfalle
o le nuvole che si accoccolavano sulle sue spalle
invece che sulle antenne della città.
-Come farai a vivere
se non guardi sopra e sotto, sia a destra che a sinistra?
Si preoccupò la sorella.
-Non so… Perché non me la togli tu questa pallottola?
-Io?
-Tu, sì!
Allora Terry gli strinse il viso tra le mani,
afferrò il proiettile con gli incisivi e gli diede uno strattone.
E fu guerra tra Russia e Ucraina.

Mauro Pierno
2 Maggio 2022 alle 13:33 

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli. (F.P. Intini)

Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione. (Lucio Mayoor Tosy,)

una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi (G. Linguaglossa)

Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare. (F.P. Intini)

lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga. (F.P. Intini)

la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente. (M.L. Colasson)

due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa. (M.L. Colasson)

aumentano i segnali che il regime si sta trasformando da autoritario a totalitario.( Greg Yudin )

leading from behind (Barack Obama)

L’America sarà l’Arsenale della democrazia». (Franklin Delano Roosevelt)

Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini.(Linguaglossa)

E poi c’è questo gerundio che è sospettoso, perché indica una azione in atto (Sagredo)

Chissà che caldo fa in Africa! “ (A.Cechov).
E l’assassinio della Anna Politkovskaja non fu forse una regalo che si fece nel giorno di compleanno (Antonio Sagredo)

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,
le sue parole sicure come pesi.(Osip Mandel’stam)

Scipione da grande generale aveva vinto ma si guardò dalla ambizione di voler stravincere.(Linguaglossa)

I cannoni della pandemia sono rimasti per qualche istanti vuoti.(F.P. Intini)

Una nuova genia d’animali viene fuori dai boschi di Chernobyl. (F.P. Intini)

Dvorský Petr Král a un certo punto della sua ermeneutica parla di poetica come “costellazione di parole” :(Gino Rago)

i cavoli da 81 a 99 rubli al kg
le patate da 50 a 53 rubli al kg. (Giorgio Linguaglossa)

TUTTO SI GENERA NEL CREMLINO E TUTTO DEGENERA NEL CREMLINO .(Sagredo)

Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.”
(Francesco Paolo Intini)

le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità (Marie Laure Colasson)

Sulla entalpia, cito la Treccani (Giorgio Linguaglossa)

partendo da James Joyce e Virginia Woolf, per il romanzo, da Ezra Pound e T. S. Eliot, per la poesia, (Rago)

E ci sovvennero i geroglifici incisi,
e le parole non identificate,
(Giuseppina De Palo)

Poi sono giunti dei presunti sacerdoti o qualcosa del genere a confondere i più le acque.(Sagredo)

Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo(Linguaglossa)

o canto di disperazione. (Lucio M. Tosy)

Tra un po’ tolgo gli orpelli…

Mauro Pierno
2 Maggio 2022 alle 13:40 

Scappa di mano persino il sale. Da un buffet all’altro viaggia la fragranza dei cingoli.

Ma poi non si ferma, da vero canto di disperazione.

una Bomba H, quella al neutrone che lascia le cose intatte e uccide gli esseri viventi.

Chi dovrebbe provvedere è in vacanza e non ha nessuna intenzione di tornare.

lavatrici che si pensano libere dal giogo della centrifuga.

la guerra di invasione di uno stato sovrano come l’Ucraina ha reso tutto ciò assolutamente evidente.

due cosmonauti russi i quali hanno issato a bordo della navicella spaziale la bandiera con la Z impressa.

aumentano i segnali che il regime si sta trasformando da autoritario a totalitario.

Leading from behind
L’America sarà l’Arsenale della democrazia

Ogni anno, il genere umano produce più di un trilione di immagini.

E poi c’è questo gerundio che è sospettoso, perché indica una azione in atto

Chissà che caldo fa in Africa!
E l’assassinio della Anna Politkovskaja non fu forse una regalo che si fece nel giorno di compleanno?

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,
le sue parole sicure come pesi.

Scipione da grande generale aveva vinto ma si guardò dalla ambizione di voler stravincere.

I cannoni della pandemia sono rimasti per qualche istanti vuoti.

Una nuova genia d’animali viene fuori dai boschi di Chernobyl.

Dvorský Petr Král a un certo punto della sua ermeneutica parla di poetica come “costellazione di parole”

i cavoli da 81 a 99 rubli al kg
le patate da 50 a 53 rubli al kg. (Linguaglossa)

TUTTO SI GENERA NEL CREMLINO E TUTTO DEGENERA NEL CREMLINO.

Pacchi di odio legati con lo sputo.
-Tutto in ordine però-, rassicura l’airbag.

le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità.

Sulla entalpia, cito la Treccani

partendo da James Joyce e Virginia Woolf, per il romanzo, da Ezra Pound e T. S. Eliot, per la poesia

E ci sovvennero i geroglifici incisi,
e le parole non identificate,

Poi sono giunti dei presunti sacerdoti o qualcosa del genere a confondere i più le acque.

Con la fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo

o canto di disperazione.

(Lucio Mayoor Tosi)

 

1 Maggio 2022 alle 19:16 
caro Gino,

ci restano le parole iperbariche, quelle stordite e istupidite da una immissione di ossigeno ad altissima densità. Oggi abbiamo le parole ossigenate, ibrididatizzate, ibridizzate. La poesia di Intini fa incetta in grande quantità di queste parole mitridatizzate e addomesticate e le fa cozzare le une contro le altre come avviene con i fotoni all’interno del Large Hadron Collider di Ginevra che generano una energia miliardi di volte superiore a quelle immessa nel circuito.

In medicina: terapia iperbarica, tecnica terapeutica che prevede la somministrazione di miscele gassose costituite in prevalenza da ossigeno a pressione superiore a quella atmosferica, utilizzata per aumentare l’ossigenazione del sangue in pazienti colpiti da embolia gassosa. Camera iperbarica, speciale ambiente con pareti a chiusura ermetica, in cui si applica questo tipo di terapia.

Leggo con apprensione che è stato ferito il capo di stato maggiore delle forze armate russe il gen.le Gerasimov, l’inventore della guerra ibrida, ma il generale russo non poteva supporre che anche gli ucraini dispongono di un LHC di altissima qualità e precisione in grado di colpire i fotoni avversari con indubbia efficacia.

(Marie Laure Colasson)

2 Maggio 2022 alle 7:57 
cara Marie Laure,

in quanto alla guerra dei fotoni dell’HLC e alla guerra teorizzata da Gerasimov, la guerra ibrida, mi permetto di notare che anche la NOe ha teorizzato e praticato la iperbarizzazione delle parole ottenuta in una camera stagna mediante la ipermitridatizzazione e la iperibridazione delle parole, che è quella cosa lì che sta facendo in maniera encomiabile Francesco Paolo Intini.

Sulla entalpia, cito Francesco Intini:

«Il conto è fatto in entalpia ma bisognerà convertirlo in entropia. Ce la mettono tutta i ragazzi prodigi per la relazione semestrale. Tecnezio e Piombo seguiti da Titanio e Ferro lavorano sodo per tutta la notte ma il risultato finale è sempre lì che sfugge. Un po’ di massa non si converte al nichilismo.»

Sulla entalpia, cito la Treccani:

«[ἐνϑάλπω «riscaldare»]. – In termodinamica, funzione (detta anche impropriam. contenuto termico o calore totale) definita come somma tra l’energia interna e il prodotto della pressione per il volume di un fluido termodinamico; ha le dimensioni di un’energia e sua unità di misura SI è quindi il joule (J).»

Siamo entrati in quella dimensione fotosferica e fotogrammatica dove le cose (e le parole) che accadono sembrano accadere in vitro, in virtuale, all’interno della superficie di un monitor. Il reale è scomparso, ma non per far luogo all’Iperreale come asseriva Baudrillard ma per far luogo al minus quantum, al meno di reale. Siamo nella dimensione teorizzata da Zizek del «soggetto scabroso» di cui la poesia di Intini è il risultato ribaltato, un soggetto de-realizzato.

(Giorgio Linguaglossa)

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie,  elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano,  a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.
Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rud enkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

 

Dopo il Moderno, Dopo il Novecento, Poesie kitchen di Giuseppe Gallo, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni Novanta. Zbigniew Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni Novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». Brodskij scrive in una poesia del 1988: «il trionfo della memoria sulla realtà»

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La vita è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo, troppo impoetica per la poesia, la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in frigorifero, la vita è impresentabile, intrattabile e irrappresentabile, Aforismi di Silvana Baroni: La lotta di classe inizia già all’asilo, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese, Acrilico di Marie Laure Colasson, astratto concreto, 60×60 cm, 2022

Marie Laure Colasson acrilico 60x60 2022Marie Laure Colasson, acrilic, 60×60, 2022

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Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità tra le parole

di Marie Laure Colasson

La vita è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo, troppo impoetica per la poesia… la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in frigorifero… la vita è impresentabile, intrattabile e irrappresentabile.
Asserire la tesi secondo cui la poesia debba affidarsi ai significati e ai significanti perché solo in essi si può cantare e perché sono l’ossatura del linguaggio, come ha pensato il modernismo nel corso del novecento e in questi ultimi anni di normologia della ragione, non può che incartarsi nelle aporie della propria ambiguità. Chi pone così la questione considera le pratiche discorsive dipendenti dalla parte del significato e del significante, le pensa in modo erroneo e non sa altrimenti pensarle se non dalla parte del significato, non è uscito da quell’incantesimo dal quale proprio il pensiero delle pratiche discorsive intendeva liberarlo. Uscire fuori dal significato e dal significante come fa la poesia kitchen, significa fare poesia finalmente liberata da una allucinazione consolatoria e totalitaria che ha impoverito il linguaggio poetico.

Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue.

Una «azione retrograda», una azione ritardata, ritardante e anticipatoria, una zona altamente compromissoria e auto contraddittoria

Se il battito delle ali di una farfalla a Vladivostok ha effetti sulle maree nel Mediterraneo, figuriamoci gli effetti che una guerra in Ucraina come quella in corso può avere persino nel nostro frigorifero e nel serbatoio di benzina della nostra auto.
La Rückfrage (il domandare all’indietro di Heidegger), è il domandare di cui si deve appropriare il nuovo discorso poetico. Ma anche il domandare in avanti è indispensabile al discorso poetico il quale non può non prendere in considerazione la zona di compromissione che si situa tra l’azione dell’atto linguistico con ciò che non è linguistico, con ciò che deve de-finire senza mai finire veramente e che può però finire in un discorso poetico; questa zona del discorso poetico, deve e può fare riferimento a tutto ciò che si trova in quella zona di compromissione che definiamo Es, Inconscio, Preconscio, in quella zona accidentale e accidentata nella quale la pratica delle parole mette in moto una «azione retrograda», una azione ritardata, ritardante e anticipatoria, una zona altamente compromissoria e auto contraddittoria inficiata di anacronismi inconsci e preconsci e coscienzialismi ideologici del tutto slegati e non dipendenti dagli anacronismi inconsci. Proprio in quella zona di compromissione si situa la massima vulnerabilità e, quindi, la massima attualità del discorso poetico kitchen. È pur sempre il linguaggio che descrive il passaggio dal non-linguistico al linguistico, ed è il linguaggio poetico quella zona di compromissione e di indistinzione recettizia di questa zona compromissoria. La manifesta paradossalità del linguaggio poetico kitchen che si presenta agli occhi di un lettore ingenuo della communis opinio come incomprensibile, irragionevole, gratuito, arbitrario deriva dal fatto eclatante che esso si situa, appunto, in questa «zona di indistinzione e di indiscernibilità tra le parole» dove il linguaggio del business è preponderante.
Non ha veramente senso parlare di un «soggetto» creatore se non come il prodotto di pratiche discorsive che riguardano i correlativi soggettivi del soggetto e i correlativi oggettivi dell’oggetto, insieme con i correlativi inconsci e preconsci, non certo un presunto soggetto plenipotenziario attore centrale del discorso poetico. È di un «soggetto scabroso» (ticklish subject – dizione di Slavoj Zizek) ciò di cui stiamo parlando.

(Giorgio Linguaglossa)

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Come si fanno a ottenere risultati quando si fa business? Conviene partire piano, senza farsi troppo notare, mentre il business ingrana? Oppure conviene cercare di farsi spazio? Ne parlo in questo video.

Silvana Baroni

da Per amor di dubbio, puntoacapo, 2022 

Gli aforismi di Silvana Baroni ci dicono che oggi abbiamo bisogno di intelligenza perché la verità ha le diottrie di chi la guarda, in un mondo di manipolazione programmata della verità dei fatti come è evidentissimo nella guerra in Ucraina dove i fatti vengono capovolti dalla propaganda del Cremlino, in cui si cambia il nome ai fatti, anzi, si capovolge la verità dei fatti è indispensabile mettere in ordine le parole, ottimizzare le parole, renderle precise, inequivocabili, responsabili. Una volta, dieci anni fa, un letterato ha scritto che la poesia deve essere «irresponsabile». Ricordo che sono rimasto sbigottito. Oggi non c’è più tempo, non abbiamo più tempo per giocare con le parole «irresponsabili» e con i significati, anch’essi irresponsabili» le parole rischiano di dimenticare altre parole, di tradirle… quando si sovvertono le parole anche i fatti se ne vanno a ramengo e non si sa più che cosa sia la verità delle parole. Quindi, questi aforismi di Silvana Baroni sono un esercizio salutare per l’intelligenza delle parole. Un saluto cordiale quindi a Silvana Baroni per questa sua testimonianza in aforismi, l’arte dell’inteligenza concentrata in poche parole. E vorrei iniziare le citazioni di alcuni aforismi da quello, direi, più ovvio:

La lotta di classe inizia già all’asilo.

Il linguaggio specialistico è il vallo di cinta d’ogni potere arroccato.

Anche a nascer calice, si finisce nella campana di vetro.

La verità ha le stesse diottrie di chi le guarda.

La vita è una strana staffetta: giorni che corrono senza passarsi il testimone.

Chi s’affida alla logica, chi ai fondi di caffè.

Il consumismo ci trasforma da beati in beoti.

Ogni religione tende a scagionare Dio.

Molti scrivono per espellere tossine.

S’è ferro lo vedi dalla ruggine.

Le idee più originali sono furti senza saperlo.

Viveva a giorni alterni per farla breve.

Non c’era nessun futuro anteriore in quel suo infinito passato remoto.

Ci sono anime gemelle e anime doppioni

C’è chi vive la vita e chi la frequenta.

Nei libri, o trovi pagine di scrittori, o scrittori di pagine.

Mauro Pierno

Abbiamo nominato il pane invano le porte
i fabbricati le finestre gli antidoti le minestre

gli infissi i divani le scatolette le conche le mollette
le mutande i reggiseni gli stivali gli scolapasta

le ortiche l’orzo il grano il farro le lenticchie
gli asciugamani le bandiere i cannoni

i missili l’acciaio i cassetti i portafogli le camicie
le fabbriche gli isolotti le acciughe la luna i falò

le lavatrici i rossetti le portaerei i fiammiferi
i sugheri gli accendini le sigarette i tombini

i cavatappi le bottiglie gli stendini i binocoli gli aratri
i carrarmati gli aerei gli elicotteri i fenicotteri

gli archi gli architravi le saune le fragole i biscotti
le grucce i pantaloni le valigie i libri le edicole

gli occhiali gli ombretti gli ombrelli le auto le stufe
i camini la legna il carbone il magnesio il radio

il cromo il selenio la borragine le penne le gomme
i tromboni i violini le zattere le margherite.

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(Da anni l’unica scrittura che pratico è sul foglio elettronico di codesta rivista. È un continuo work in progress, uno stimolo costante alla ricerca di un’idea condivisa di poesia e di risoluzioni poetiche)

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Francesco Paolo Intini

Qualcuno bussa al XXX

C’era da aspettarselo? Capocchio si girò incuriosito.
Gianni lo azzannò al nodo del collo.

Il punto critico delle ossa fece un crac.
Ci rimise una banca, tre banconote e un cent.

La clavicola cedette un ponte.
Se il Don si avvitava il Reno avrebbe brindato
o viceversa?

Un torrente di linfa scende lungo le spalle
L’osso sacro si spezza e una gamba corre più rabbiosa dell’altra.

Il tavolo cresce in lontananza ma non in lungimiranza
Per due punti qualità si perde un pollo arrosto.

L’intimo era già perduto quando il botulino
Imperversò nell’olio del girasole.

Mirra si affacciò dal palazzo in fiamme.
Era la sua voce o un verso di corvo?

La sentivamo triste e aggressiva ma non riuscivamo a sbarazzarci di lei.

Accusava i dolori reumatici della perdita di obiettivo
Avrebbe portato all’Aia il capo degli streptococchi
E alla flora intestinale disse che poteva mettersi in pensione.

Un carro armato presidiava l’aorta ma non osava entrare nel ventricolo.

A un tratto il microfono afferrò un mezzobusto alla gola
intimandogli di smetterla col Brazil
Gridò: c’è Dante, lo faccio entrare?

Jashin con i baffi fiammanti apparve tra i pali.
Una bolgia contro l’altra armata.

Come s’impedisce a un missile di entrare nell’epoca sbagliata?
Burgnich e Facchetti, Molotov a mediano.

Il grande portiere ha una pausa di terrore.
Il rasoio solleva un palazzo, Cislenko fa cilecca.

Il fornello ad est fa una mossa geniale.
Ricorda Cesare quando scese tra i suoi e la battaglia fu vinta.

Ora si trattava di dare al reporter fiorentino
la chiave di chiusura del gas. Continua a leggere

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Il tempo: dal passato verso il futuro o dal futuro verso il passato? Tempo ciclico, Tempo lineare, Tempo puntiforme, Tempo distopico, Il concetto di Tempo nella nuova ontologia estetica, di Vincenzo Petronelli, Se il tempo, come il fiume congelato, non scorre ed è già tutto creato, può essere possibile viaggiare nel futuro o nel passato, Poesie kitchen di Mauro Pierno, Vincenzo Petronelli, Francesco Paolo Intini, Gerhard Richter, foto di Ulrike Meinhof, 1977

gerhard-richter-Ulrike Meinhof, 1977 foto

Gerhard Richter, foto di Ulrike Meinhof, 1977

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Il tempo: dal passato verso il futuro o dal futuro verso il passato?

di Vincenzo Petronelli

Ho sempre ritenuto che l’abbattimento della concezione lineare spazio – temporale, sussumendo conseguentemente anche tutti i paradigmi su cui si basa l’operazione mimetica poetica, inclusa la dialettica soggetto/oggetto, sia la dinamica di base di una reale operazione di revisione della costruzione poietica.
La riflessione antropologica – anche mediante le sua filiazioni della Storia delle religioni e della Storia dell’immaginario – così come il dibattito filosofico nelle varie branche pertinenti alla materia, si interrogano da sempre sull’analisi del rapporto tra l’individuo e la realtà, preoccupandosi anche leggere i vari piani possibili di questo rapporto, dalle proiezioni socialmente e culturalmente mediate, alle sue concrezioni più profonde e che sottendono le costruzioni convenzionali.

Naturalmente, il punto nodale dell’analisi sulla realtà è la concezione di tempo.
Il pensiero classico definiva due livelli temporali, in realtà tra loro interconnessi. Il primo livello era quello del tempo suggerito dalla percepibilità del movimento: un tempo “misurabile”, ciclico, degli anni, delle stagioni, dei ritmi della vegetazione, un tempo scandito dalla natura.
Il secondo livello postulava invece l’eternità, come astrazione assoluta nella quale si cercava di fermare il tempo, come condizione per cercare di interpretare il senso dell’esistenza stessa. Nella prima dimensione prevaleva il divenire con il suo avvicendarsi mutevole di nascite, eventi e dinamiche reiterate mediante la replicazione ciclica, mentre la seconda era caratterizzata dall’immobilità dell’Essere.
In realtà, questi due livelli temporali coincidono con quelli della suddivisione ontologica platonica, cioè il tempo assoluto della realtà immutabile eterna (corrispondente al mondo delle idee) da un lato; quello relativo del divenire del mondo, in cui si inscrive la componente fisica della vita umana con la sua temporalità e finitezza.

In concreto però, questi due livelli temporali erano tra loro complementari e videro riflessa questa complementarità anche nei riti delle antiche religioni, riprese successivamente dalla codificazioni cosmologiche delle dottrine cristiane, basate sulla concezione ciclica del tempo legato ai ritmi della natura – di cui le religioni ed i loro riti rappresentano la canonizzazione – ma che al tempo stesso, nella loro reiterazione immutabile, riconducevano ad una scansione eterna, immutabile, del tempo sacro che poneva l’uomo direttamente in contatto con il supremo, con le concrezioni profonde dello spirito.
E’ a questa visione cosmologica che si rifà un’opera antropologica fondamentale quale Il mito dell’eterno ritorno del grande storico delle religioni romeno Mircea Eliade, che evidenzia appunto come le religioni antiche fossero legate a questa visione eterna del tempo e del cosmo, che ricongiungeva la sfera del quotidiano e del profondo.
Gli studi della storia dell’immaginario collettivo di scuola francese legata alla cosiddetta “Scuola delle Annales” che ha rivoluzionato la metodologia della ricerca storica, hanno dimostrato la frattura creatasi nella concezione del tempo a partire dal basso medioevo, con la distinzione che il grande storico Jacques Le Goff ha definito, in suo saggio memorabile, “Tempo della chiesa e tempo del mercante”: la distinzione cioé, e l’affermazione di un senso lineare del tempo che è quello della borghesia degli affari, dei commerci, concezione legata allo sfruttamento intensivo e “progressivo” del tempo quale unità di misura della realizzazione dei propri affari.
Gradualmente, con l’affermarsi del mondo di valori della borghesia, attraverso lo sviluppo della cultura capitalistica e la nascita della rivoluzione industriale, accompagnate dalla componente culturale scientista – che si affermerà con la corrente illuministica – e materialista, che troverà eco nella filosofia positivista, la concezione lineare e economicamente redditizia del tempo finisce per imporsi, in quanto dettai ritmi dell’esecuzione delle attività lavorative.

È proprio in contrapposizione al rischio alienante di questa tendenza materialistica del tempo, che già gli antropologi di fine ‘800 cominciano a relativizzare il concetto di tempo ed il suo corrispondete della considerazione dello spazio, come evidenziato da Emile Durkheim e Marcel Mauss – tra i padri fondatori dell’antropologia e della sociologia, pubblicato nel 1902 ed intitolato Su alcune forme fondative di classificazione. Nel libro, i due studiosi, sostengono che il tempo, inteso come un fenomeno oggettivo e naturale, è una pura astrazione. Le attività organizzate attorno alle quali l’uomo impernia il suo tempo , sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.
Le indagini antropologiche sulle dimensioni del tempo e dello spazio, pongono l’accento sul valore qualitativo della concezione del tempo presso le società preindustriali ed ancora oggi, si ritiene che il senso di un tempo non quantizzato, ma carico di significati speciali, sia presente in tutte quelle società che hanno bisogno di rievocare periodicamente l’atto che considerano il fondamento della propria esistenza, il che ci riconduce all’estrinsecazione della teoria del “Mito dell’eterno ritorno” dell’opera omonima di Eliade.

Nel 1920, lo studioso svedese Martin P. Nilsson, pubblicò un libro che ebbe una grande fortuna, Primitive time-reckoning; a study in the origins and first development of the art of counting time among the primitive and early culture peoples; in esso l’autore sosteneva che nelle cosiddette società “primitive” il tempo era concepito in maniera “puntiforme” e i riferimenti non corrispondevano a frazioni temporali omogenee e quantificabili, ma ad eventi naturali o sociali o a stati fisiologici, utilizzando ad esempio locuzioni come “due raccolti fa”, come equivalente di “due anni fa”, oppure “un sonno” per indicare il giorno precedente.

Il filosofo polacco Krzysztof Pomian ha evidenziato come durante il XIX secolo, filosofi, intellettuali, storici, concepirono il tempo solo nelle versione lineare, cumulativa, ritenendo erroneamente ed arbitrariamente, che le società ancora ai margini del processo di industrializzazione fossero prive di senso storico, mentre gli stessi studi antropologici hanno dimostrato come queste comunità poggiano semplicemente il loro senso della diacronia sulla reiterazione dei loro miti fondanti.
Le ricerche condotte nel campo della filosofia, dell’antropologia e della sociologia, sono approdate alla conclusione che sia fondamentale, per un rapporto equilibrato nella concettualizzazione del tempo nell’ambito di una civiltà industriale moderna, approdare alla coesistenza dei due piani: tempo quantitativo e tempo qualitativo, poiché da un lato una concezione esclusivamente lineare sottindenderebbe l’idea secondo cui gli eventi non si sovrapporrebbero mai, traducendosi nell’erosione dell’inteliggibilità stessa della categoria di tempo, in quanto vorrebbe dire che ogni istante del futuro fosse sempre e completamente diverso da ogni istante del passato. Al contrario, una concezione esclusivamente ciclica del tempo, renderebbe inconcepibile qualsiasi percezione dei nessi causali degli eventi, il che condurrebbe all’annullamento della distinzione tra passato e futuro, condannandoci a vivere in un eterno presente.
Sussunta alla categorizzazioni delle rappresentazioni temporali vi è, all’interno degli studi di antropologia culturale, anche la riflessione sulla memoria e come essa possa essere studiata, partendo dal presupposto che la memoria rappresenta una griglia interpretativa fondamentale per la nostra esistenza.
La possibilità di ricordare dipende dalla capacità di dimenticare e il rapporto tra memoria ed oblio permette l’atto stesso del pensiero. La memoria non è semplicemente un processo soggettivo, ma è anche un processo collettivo e la stessa è radicata nella sua idea di tempo.

Accanto alla dimensione della linearità primaria, che pone gli eventi oggettivi su una linea progressiva tra di loro che va dal passato verso il futuro, vanno estendendosi rappresentazioni culturali del tempo che procedono in senso contrario, ossia dal futuro verso il passato. Sono riflessioni che mettono al centro la rappresentazione culturale di tempo secondo la fisica occidentale odierna: infatti i fisici si chiedono, in rapporto all’idea di tempo, perché gli eventi non procedono all’indietro. Per riflettere su questa possibilità occorre tuttavia costruire una particolare concezione culturale, e filosofica, di tempo. In fisica, per esempio, vi è l’idea secondo cui il passato non scompare e il futuro non è inesistente; passato, presente e futuro esistono alla stessa maniera. In altre parole, secondo la fisica odierna ciò che è accaduto e ciò che dovrà accadere esiste già. È sicuramente un’idea di tempo che noi classifichiamo “scientifico” e quindi non calato all’interno della percezione quotidiana umana.

Per spiegare questa rappresentazione di tempo, i fisici usano il concetto di «fiume temporale», secondo cui, come sulla pellicola è già impresso un film intero esiste già nella pellicola, così nella la fisica odierna sarebbero già codificati già tutti i momenti della nostra vita. La differenza è che però per il film c’è un proiettore che sceglie ed illumina un fotogramma dopo l’altro, nella fisica invece non ci sono prove della presenza di un criterio ordinativo che scelga un istante piuttosto che un altro. Noi possiamo percepire la percezione dello scorrere regolare del tempo, ma il tutto potrebbe essere, secondo i fisici, pura illusione. Oggi infatti gli studiosi riflettono sul fatto che, se il tempo, come il fiume congelato, non scorre ed è già tutto creato, può essere possibile viaggiare nel futuro o nel passato e che anzi, si ritiene che ciò sarà presto possibile, sfruttando, come teorizzato a suo tempo da Einstein, una strana proprietà della gravità, che influenza il tempo rallentandone il passaggio. Più intensa è la forza gravitazionale e più il tempo rallenta. La fisica sostiene infatti che, viaggiando vicino un buco nero, i nostri movimenti apparirebbero rallentati. Si è anche ipotizzato che due ore in orbita attorno ad un buco nero equivarrebbero a circa cinquanta anni sulla Terra. Tornando dall’orbita di un buco nero, sarebbe quindi possibile, per i fisici, viaggiare nel futuro della Terra.

Un’ulteriore evoluzione di questa formulazione la teoria quantistica dei campi (Loop quantum gravity in inglese) in cui la geometria di riferimento è quantizzata. Nelle teorie classiche della relatività ristretta e della gravitazione la geometria di riferimento è continua: ragionando in una sola dimensione (anziché in 3), dati due punti distinti A e B sicuramente esiste un punto A’ intermedio tra A e B, un punto A” intermedio tra A e A’, un punto intermedio A”’ tra A e A” e così via all’infinito. Con la teoria quantistica dei campi, compiendo la stessa operazione di suddivisione tra A e B, tra A e A’ e tra A e A” si arriverà alla situazione di avere due punti A e A^ tra i quali non è presente nessun altro punto. Tornando alle tre dimensioni spaziali, ciò significa che partendo da un volume e suddividendolo in volumetti sempre più piccoli, c’è un valore minimo di volume non ulteriormente divisibile. In particolare il vuoto, quando esiste, appare dipendere dalla traiettoria dell’osservatore attraverso lo spazio-tempo.
Tutto ciò ci porta a considerare che evidentemente sempre più l’arte debba interpretare, nella sua rappresentazione mimetica della realtà, la disarticolazione dei paradigmi tradizionali, perché è solo nella frammentazione dell’apparente e dell’egocentrismo correlato, nel vuoto in cui si annidano i detriti delle segmentazioni profonde, che si possono ritrovare quelle tracce fondamentali per poter ricostruire le traiettorie di un mondo liquido come il nostro, esattamente secondo i dettami della poetica Noe.

Mauro Pierno

Mettiamo dei proiettili nei nostri fiori
infiliamoli nei siluri nelle camere da letto
nei soggiorni sulle spiagge nel ragù della domenica
nelle case nei telegiornali nelle televisioni sulle autostrade in mezzo al traffico nelle vacanze attorno a giardini ai parchi agli ospedali agli aereoporti ai teatri a bordo campo sui tram sui treni
sugli elicotteri nei giocattoli nelle merende tra una forchetta ed un coltello tra un bicchiere dell’acqua ed una caraffa di vino in mezzo ai piedi tra le mani tra le natiche i coglioni le fiche i pannolini i pannoloni le ciabatte le scarpe i santi le puttane.

Vincenzo Petronelli

TEATRO

Nessuno ne seppe più nulla
fino a quel giorno di marzo 2016.
I traghetti da Durazzo hanno orari incerti.
All’imbarco, una fila ordinata di transfughi
in pigiama e ciabatte.

Tre mesi di prugnole selvatiche e tabacco da masticare:
questo il referto.

“Avete solo il menù del giorno
o anche à la carte, Suor Pasqualina?”.
“Oggi pranzo fisso: stricnina e carne di cavallo”.

Ogni ultimo lunedì del mese
l’avvocato si recava in banca per effettuare i prelievi.

Cercarono a lungo, ma invano, la chiave della tenuta di Montaltino.
Un’icona di madonna ilirica
dietro il décolleté in conference call.

Nella vecchia madia
solo libri di poesie di Paul Muldoon e Rafael Alberti.
Non rimase più traccia
degli affreschi sui muri e delle vecchie auto.

Lo tsunami spazzò le isole per sempre.

Risuonano voci dai fondali marini:
“Se Dio vuole, il prossimo anno sarà migliore”

Cocomeri e grigliate sulle spiagge del Gargano
nelle domeniche d’estate:
per dessert, parmigiana di melanzane.

Gli arrotini di Cerignola, forgiavano parole nella pietra.
“Yo soy más valiente que tu: más gitano y más torero”.

Solo gli elettricisti ormai
continuano a coltivare la metafisica.
“Ha visto il mio ultimo quadro elettrico, Signora Grace?”

“Per quello che ho, non sto soffrendo”.
Al Saint John’s Hospital
Gordon Lachance ricordava i giorni felici a Castle Rock
nel suo ultimo romanzo.
“This is the end: my friend, ma la notte equatorial ti fa sognar”.

Oliva è uscito stamattina nella nebbia
per recarsi a scuola, baciando sulla fronte sua madre e sua sorella:
sarebbe rientrato per pranzo.

[1] Trad. dallo spagnolo: “Sono più coraggioso di te: maggiormente gitano e torero”. Verso tratto dal famoso brano di Federico Garcia Lorca: “En el café de Chinitas”

DANUBIO

Zuppe di cavolo e cipolla nel refettorio della vecchia scuola.

“Hogy vagy, Vittorio?”.
“Jól, köszönöm: csak nagyon hídeg van kint”.

Káta Néni aveva l’abbonamento all’opera:
adorava Mozart e Liszt.
“Una figlia di Liszt è nata a Como, lo sapeva?”.
“Certo: era molto prima delle “croci frecciate”

Alla fermata di Gyöngyösy útca, si cammina
con la mano sulle borse
guardando le incisioni di Barnard. Veloci,
scorrono mani zingare lungo fianchi ormai di donna.

“Stasera abbiamo appuntamento con Pétra e Zita
per “quattro matrimoni e un funerale”.
“Sul Rakpart , assaporerai l’umido del mio autunno.”

In fila per la distrubuzione del gulyás levés
a Keleti Pályudvar .
Per la notte, una luce da campo nelle cuccette del Venezia Express.
Il sermone del pastore calvinista, stasera
ricorda che gli ultimi saranno i primi.
“Padre, preferisco i primi: possibilmente anche con dei secondi”

Zsuzsa la bidella è rincasata tardi: le hanno offerto un contratto
ed un biglietto per Lugano.
Un numero in tasca ed una chiave pass partout.
“A víszontlásra továris” .
Le domeniche ai mercatini di Praga.

“Lassie Come Home, Furia, Rin Tin Tin.
Hanno rubato il tempo ai giorni nostri.
Al crepuscolo si attraversa volentieri la deriva.
Pizza all’ananas e birra Borsodi in bottiglia.

Nelle boutiques in centro la collezione autunno-inverno Nietzsche
annuncia le prime correnti dall’Himalaya.

With our lives we give lives e Remebrances
risuonano nel Parco degli Eroi.
Coppie di pattinatori danzano sul lago ghiacciato.
“Amo quest’atmosfera.
Non è male Budapest d’inverno, vero?”.

Un’auto in corsa con i finestrini neri.
Scrivere, in fondo, non ha molto senso.
Dissolvenza in campo lungo.

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Trad. dall’ungherese: “Come stai Vittorio?”. “Bene, grazie: solo che fa molto freddo fuori”.
Zia Kàtàlin in ungherese
Milizie fasciste ungheresi
Lungo Danubio
Trad. dall’ungherese: “Zuppa di gulasch”: E’ questa la denominazione corretta del noto piatto della cucina magiara.
È una delle stazioni ferroviarie di Budapest: la stazione orientale
Trad. dall’ungherese: “Arrivederci compagni”. “Compagni”, qui inteso nel senso del glossario comunista, è riportato con la magiarizzazione del termine russo.
Brani tratti dalla colonna sonora del film Schindler’s List del compositore John Williams.

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Vincenzo Petronelli è nato a Barletta l’8 novembre del 1970, laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiede ad Erba in provincia di Como, dove è approdato diciotto anni fa. Dopo un primo percorso post-laurea impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ha successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale che lo ha condotto all’attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export. È ricercatore nelle problematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Dal 2018 è presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni suoi scritti sono presenti nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin Acarya di Como e sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com.

Francesco Paolo Intini

LA BILE SI MOSTRÒ IN CALZE NERE E GIARRETTIERA …MA LA NOTTE… MA LA NOTTE…

Il pianeta risucchiava la lava nei polmoni
senza un residuo di gravità avrebbe superato l’asticella a 2 e 50 Ampere

Dove sono i coccodrilli? Il Nung è infestato dagli gnu ripeteva
Il direttore delle poste
Tirò fuori dalle retrovie il ritratto del Caudillo.

La rivolta dei timbri contro i posacenere
Chi da una parte chi dall’altra le canzonette sconce, la roulette russa
le catene di sant’Antonio osè, gli appening tra mouse.

Bisognava fare squadra, sorprendere, insultare
Fucilare Lorca all’Oscar.

Si trattò di richiamare alle armi roncole e bastoni
Carte napoletane, puttanieri, sifilitici del terzo tipo.
Che imparassero il ramino finalmente.

Sapete? Signor Kurtz, sarà un gioco da ragazzi. Qui nel sacco della tombola
ci sono medaglie per il 1812, carrozze e surgelati del 1799, altre che vedranno la luce del 1975.Cipolle e

carciofi in bustine da tre fucilati per muro a secco.
L’ultimo elicottero da Mergellina.Penzola da un ramo libero la donna di bastone.

E’ un’iguana, ma avrei giurato sugli artigli di un ramarro
Che Federico avrebbe avuto salva la coscienza.

Oh il più liquido tra i surreali non meritava funghi al suo debutto in terra
Davvero brutale recitare versi con la bocca piena di rane.

Allo stato larvale un thè al nickel è più che gradito.
Come faranno le spighe a sopportare quest’orrore?

Il toro ringrazia.
Persino il cobra scendendo da Wall Street non trova la foresta,
Sia dunque benedetto l’errore del verso profeta.

Il valore di Ruffo è nel non tenere fede
Penzoli l’amministratore tra i conti del bilancio preventivo
nessuna pietà per chi usava il pitale della regina.

Ora il Re è a caccia. Passerà da Portici il treno di lumache.
Se il Borbone si tuffa dal suo naso, Nelson prepara la frittata di limoni.
E dunque niente green pass al gran buffet soltanto restrizioni in stile impero.

I cannoni intonano la nona di Beethoven.
L’albero della libertà fuma il sigaro cubano.

All’onore della mensa nessun fantasma vale una brasciola barese.
Qui e là tornano i giullari a soffiare sulla minestra di Ferdinando

Mantenere i nervi saporiti, il soffritto in versi endecasillabi.
Mentre il Vesuvio mangia la pizza a metro e la gotta avanza.

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Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti  (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017) e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). È presente alla antologia La pacchia è strafinita di AA VV a cura di Versante ripido. Nel 2020 pèubblica la raccolta  Faust chiama Mafistofele per una metastasi (Progetto Cultura).

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Poesie kitchen di Mauro Pierno, Francesco Paolo Intini, Riflessione di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, L’ipotiposi della repetitio e l’Enkleidung, Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità

L’ipotiposi della repetitio di Mauro Pierno

È l’ipotiposi della repetitio che nella composizione di Mauro Pierno ha luogo. la repetitio assunta a tropo retorico fondamentale dell’Enkleidung, della modellizzazione secondaria qual è il testo poetico. Un dispositivo semplicissimo, un esempio inequivocabile di diafania applicata alla poesia della NOe. È la prima volta che un poeta italiano si misura con queste procedura, la poesia non ha un inizio e non ha una fine, potrebbe continuare all’infinito in quanto priva di epifania e priva del limite, è un esempio di modellizzazione all’infinito della narrazione letteraria in quanto non c’è più niente da modellizzare e da raccontare, il tramonto del plot in poesia non potrebbe essere più chiaro, è questo, il dado è tratto, così è se si vuole e se non si vuole.

La narrazione letteraria è un’elaborazione secondaria e, perciò, un Einkleidung, si tratta di un vestito di parole, un rivestimento, il travestimento di qualcosa d’altro. La narrazione dissimula e maschera la nudità dello Stoff. Come tutti le narrazioni, come tutte le elaborazioni secondarie, l’Einkleidung vela e rivela una nudità preesistente. Lo svelamento della nudità produce stupore e raccapriccio, è un trauma insopportabile per il sistema simbolico del «soggetto scabroso», e allora la nudità va ricoperta, nascosta, celata.

Il tema nascosto de I vestiti nuovi dell’imperatore [fiaba di Andersen] è il cuore del problema. Ciò che l’Einkleidung formale, letterario, secondario vela e disvela, è il sogno di velamento/disvelamento, l’unità del velo (velamento/disvelamento), del travestimento e della messa a nudo. Tale unità si trova, in una struttura indemagliabile, messa in scena sotto la forma di una nudità e di una veste invisibili, di un tessuto visibili per gli uni, invisibile per gli altri, nudità allo stesso tempo apparente ed esibita. La medesima stoffa nasconde e mostra lo Stoff pre-simbolico, vale a dire che la verità è ciò che è presente mediante una velatura simbolica.
Se penso a certe figure della mia poesia: il re di Denari, il re di Spade, l’Otto di spade, il Cavaliere di Coppe, Madame Hanska, Ençeladon, Cogito etc.; se penso a certi ritorni di figure tipicamente kitchen che si incontrano e si rincorrono da un libro all’altro e da un autore all’altro della poesia kitchen non posso non pensare che tutte queste figure non siano altro che Einkleidung, travisamenti, travestimenti, maschere di una nudità preesistente, di una nudità primaria, della freudiana «scena primaria» che non può essere descritta o rappresentata se non mediante sempre nuovi travestimenti, travisamenti, maschere, sostituzioni. Si ha qui una vera e propria ipotiposi della messa in scena della nudità primaria fatta con i trucchi di scena propri della messa in scena letteraria. E se questo aspetto è centrale in tutta la nuova ontologia estetica, una ragione dovrà pur esserci.

(Giorgio Linguaglossa)

Mauro Pierno

Cento coperchi
cento valvole
cento dentifrici
cento spazzole
cento parrucche
cento peluche
cento coltelli
cento cucchiai
cento occhiali
cento spalliere
cento quaderni
cento colori
cento penne
cento libri
cento cartelle
cento zaini
cento computer
cento bretelle
cento magliette
cento mollette
cento zollette
cento caffè
cento pentole
cento stivali,
cento assorbenti
cento uniformi
cento viti
cento anelli
cento pettini
cento bracciali
cento poltrone
cento biscotti
cento costumi
cento giacche
cento grucce
cento cartelli
cento zaini
cento palloni
cento calzini
cento pesci
cento pani
cento vini
cento cassette
cento stendini
cento asciugamani
cento corde
cento coriandoli
cento mensole
cento armadi
cento camicie
cento ovetti
cento berretti
cento zebre
cento bicchieri
cento bambole
cento profumi
cento soffitte
cento scope
cento lampade
cento pile
cento adesivi
cento cd
cento cornetti
cento cravatte
cento matite
cento mattoni
cento martelli
cento microfoni
cento bengala
cento tricicli
cento pattini
cento biciclette
cento auto
cento mollette
cento tappeti,
cento carri
cento cassaforti
cento pietre
cento ombrelloni
cento pullman
cento treni
cento orologi
cento organi
cento chitarre
cento spartiti,
cento cipolle
cento fiori
cento tamburi
cento rotelle
cento pneumatici
cento biliardi,
cento materassi
cento cuscini
cento fazzoletti
cento lavatrici
cento ascensori
cento piscine,
cento medaglie
cento scontrini
cento bambini

Francesco Paolo Intini

AUGH

Alesia ha qualcosa di Custer da mostrare:
Nei teepee si bruciano squaw e cuccioli vietnamiti

La celluloide mostra i protagonisti.
Avrà la sua vendetta il capo cheyenne
o sarà sorpreso nella toilette del campo?

Al bisonte è negato un barattolo d’erba cipollina
E dunque niente tundra siberiana

Il cecchino sul francobollo
spara al capo Xylella e dunque l’ulivo dai capelli bianchi
Può ricongiungersi all’ultimo mohicano

Alle stelle lo scalpo del benzinaio.
Tirano pure i distributori di lecca lecca

Tra le scorie del Tempo
L’ora piange il minuto e il secondo
È fermo a centrocampo

Si attende l’arbitro, ma la corriera da Giove
Ritarda di un dinosauro e mezzo.

TUTTI AL CAFFÈ VOLTAIRE

C’è la possibilità che il pesco armi il giardino
E dunque si gonfino gonne sugli sfiati d’aria

Balla una gemma sbattendo i tacchi
Tic-toc-toc-toc-tic-to-to-to-tic

Il primo albero che si stanca scemo è
Il secondo mangia il ramo di un lecca lecca

Un nocciolo lasciò la postazione nella polpa
e da quel momento gli scheletri abbandonarono la carne
ma non ci fu seguito tra le leve dei cambi.

L’orchidea avanza di un milligrammo:
che vi pare della modella grassa?

Il tempo firma un contratto miliardario
con il mandorlo. Una tromba vi seppellirà
ma intanto esce linfa buona dai piccioli.

Potremo sfamare la televisione di stato
Con le merendine all’albicocca.

Anche il suono è ottimo:
i tegami suonano l’inno nazionale:
Dlin Dlen abbasso la CO2

I nuclei sono occupati in un’orgia planetaria
e non vogliono saperne della calvizie di Einstein.

Sugli schermi del ciliegio
Un ippopotamo annuncia la fusione con la Luna
E il primo lotto di crateri last minute.

Nota di Marie Laure Colasson

Nella poesia kitchen il pensiero logico-sequenziale, di tipo “alfabetico”, sembra essere stato in buona parte sostituito da un tipo di pensiero nello stesso tempo “olistico” e “multi-tasking”.
Il dizionario Garzanti scrive che con multi-taksing «si dice di sistema operativo (informatico) in grado di eseguire contemporaneamente più programmi alternando il tempo dedicato all’esecuzione di ciascuno di essi.
Etimologia: ← voce ingl.; comp. di multi- ‘multi-’ e il v. to task ‘assegnare un compito’.»

L’idea della «nuova poesia» si può riassumere così: disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate. Non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel che gli consente di indicare.
Scrive Giorgio Linguaglossa: «Una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlocutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».
Per la «nuova poesia» è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.

Una zona di indistinzione, di indiscernibilità, di indecidibilità, di disfunzionalità si stabilisce tra le parole e le frasi come se ogni singola unità frastica attendesse di trovare la propria giustificazione dalla unità frastica che immediatamente la precede o la segue… non si tratta di somiglianza o di dissimiglianza tra le singole unità frastiche ma di uno slittamento, una vicinanza che è una lontananza, una contiguità che si rivela essere una dis-contiguità, una prossimità che si rivela essere una dis-prossimità… si tratta di una dis-cordanza, di un dis-formismo che si stabilisce tra i singoli sintagmi… anche le unità di luogo e di tempo della mimesis aristotelica sembrano dissolversi in una fitta nebbia e, con la dissoluzione della mimesis, viene meno anche la giustificazione di un io plenipotenziario e panottico, viene meno anche la maneggevole sicurezza del corrimano del significato. Modus tipico di questa procedura è la poesia di Francesco Paolo Intini.
È una poesia che fa larghissimo impiego di «sovraeccitazioni», di shock, di continui sussulti, di strappi, di traumi… È perché viviamo in una società traumatizzata, che fa del trauma una necessità di vita e una necessità del mercato. Basta osservare il panorama della politica di oggi: Trump, Bolsonaro, Putin, Erdogan, Salvini, Meloni, Orban, parte dei 5Stelle, i populisti nazionalisti e sciovinisti fanno amplissimo uso della sovra eccitazione; gli stessi media Facebook, Instagram, Twitter, i telegiornali lottizzati e non etc non sono altro che una vetrina e un diario di notizie che puntano sulla sovra eccitazione; la stessa forma-merce, nel design e nel marketing punta tutto sullo stato di sovra eccitazione delle masse di possibili acquirenti. Tutto punta allo stato di eccitazione e di surplus di eccitazione, non vedo perché la forma-poesia ne debba rimanere estranea.

Ha scritto Lucio Mayoor Tosi:

«La scrittura NOE è più vicina al pensare stesso, ne riprende le modalità. Per questo, nonostante le stranezze, i salti semantici, penso si tratti di poesie ri-conoscibili. Perché tutti pensano, e spesso parlano, in modo incoerente. NOE è vicina all’aspetto sorgivo del pensiero… come anche tutta la poesia di sempre, solo che in altri modi si avverte il profumo del potpourri, violette e lavanda, cose del consueto, del corredo.»

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.
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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione.

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Uno spettro si aggira per il mondo della poesia di accademia che si fa in Italia, Lo spettro della poetry kitchen, Poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Gino Rago, La poesia kitchen si fa con quello che abbiamo in frigorifero, Moda, Moschino Fall winter 2022

foto Moschino Fall winter 2022

Moschino, Fall winter, 2022 – esempio di compostaggio ibrido di elementi kitsch. Nell’ipermoderno la Moda anticipa le tendenze artistiche ed interpreta al meglio lo spirito dei tempi –

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Lo spettro della Poetry kitchen

Uno spettro si aggira per il mondo della poesia di accademia che si fa in Italia…
Lo spettro della poetry kitchen
Possiamo perimetrare il luogo vacante del soggetto a misura dell’insuccesso della simbolizzazione

Il detto secondo cui «l’io non è più padrone in casa propria», significa che l’io è uno straniero a se stesso, che nella soggettività si annida una alienazione primaria non eliminabile

non possiamo pensare nulla che preceda il linguaggio, il Reale appare, da un lato come una eccentricità interna ad esso, dall’altro come un eccedente della struttura linguistica

La parola è il cavallo di Troia, una volta che fa ingresso nella città delle parole, si perde nelle strade più svariate, e il significante è il suo cavaliere che crede ingenuamente di guidare il cavallo secondo i suoi desideri, ma si inganna

Il Reale in sé non è assolutamente nulla, è semplicemente
un vuoto nella struttura simbolica che segnala una impossibilità. Il Reale non equivale a qualcosa di esterno che non si lascia catturare dalla rete simbolica ma rappresenta la smagliatura stessa all’interno di tale rete

È il linguaggio pubblicitario che impone al linguaggio poetico le sue regole, si tratta di una modifica del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità

Wo Es war soll Ich werden, significa, per Lacan, che l’io non emerge dall’abisso dell’inconscio come un’isola dal mare, ma è un luogo di emersione della verità del soggetto ciò che riconduce l’io alla sua dimensione immaginaria

(citazioni a cura di Marie Laure Colasson)

“L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1

La diafania del mondo del capitalismo cognitivo rende incognito ciò che non è diafanico, ciò che appare in superficie non corrisponde più a ciò che è nel profondo e che affiora dal profondo perché non c’è più profondità ma soltanto superficie superficiaria.

Se tutto è linguaggio implica che nulla è linguaggio, il linguaggio corrisponde direttamente con il nulla.

Nelle condizioni del capitalismo diafanico e del totalitarismo putiniano la poiesis semplicemente non ha un luogo, non ha luogo. L’arte totalmente oscurata di cui narrava Adorno è divenuta ratio del profitto, e quindi deiettata fuori della logica del capitalismo cognitivo che si regge sulla legislazione inconscia del profitto. La poiesis oggi in Occidente non è neanche legislazione inconscia di un qualcosa d’altro ma linguaggio superficiario della superficie.

(Giorgio Linguaglossa)

1 T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33

Francesco Paolo Intini

A mio avviso il vuoto che circonda la poesia Noe somiglia paradossalmente alla bevanda in cui sono immerse le bolle di gas. Ogni verso ha questa possibilità, di andare oltre, deflagrare in qualche altro universo, germinare altrove portandosi dietro il Dna del poeta che la pressione del proprio tempo ha conficcato nel profondo della lattina. E dunque c’è lo stare assieme dominati dalla legge della serendipità e da poche altre che entrano in funzione quando si è stretti nello stesso spazio e c’è che poi, all’atto dell’apertura del sigillo, ciascun verso viaggia per suo conto, mettendo un microsenso al posto di guida.
In quale terra si approda? Dove porta la forza propulsiva della spuma?
Anche indietro nel tempo dove il presente tocca qualche zolla del passato:

I piemontesi entrarono in casa nostra a cavallo sotto la neve di febbraio.
“Qu’est qu’il y à dans cet enfer?”. Le truppe distribuivano pasticcini al vaiolo.
Questa mattina il generale Cialdini sorseggia un tè, nel caffè Francesco II.

Ma lo spazio è dominato da onde distruttive non previste da alcuna teoria o proprio perché banali nella loro crudeltà e semplicità scartate a priori perché ritenute impossibili e irreali. Cosa può una semplice bolla di piacevole iridescenza contro un mare in tempesta?
C’è da mettere nella stiva un po’ di tutto anche “un tailleur nuovo per il giorno dell’ Apocalisse” come fa l’ottimo Vincenzo Petronelli e quelli come me che si riconoscono in queste pagine:

Le insegne già spente oltre l’ora del coprifuoco. “Avete il green pass?”
Il cameriere serve spezzatino in zuppa e filetto Stroganoff.
“Volodymyr, per il giorno dell’Apocalisse pensavo di indossare il nuovo tailleur”.

Basterà il desiderio di non arrendersi per sopravvivere?
I nuclei di alcuni atomi scalpitano nelle ogive, non vedono l’ora di passare ai fatti dopo anni di noia ad aspettare. Stalin e Kruscev e tutti quelli che a loro tempo fecero da controparte della cortina, sembrano giganti a confronto con gli attuali lillipuziani, pasticcioni e vanagloriosi che agitano lo spettro della distruzione finale come se fosse qualcosa di trattabile da cui riprendersi subito dopo con delle benda qui e là e qualche disputa accesa nei salotti buoni della televisione.
In tutta questa crudeltà di animi che spazio c’è ancora per la parola dopo che, spogliata di qualunque bellezza, rivela il mostro al suo interno?

Francesco Paolo Intini

Colazione al plutonio

L’uomo nero si spaventa per il nucleo sottosopra.
Chi l’ha sabotato?

E mentre il sospetto cade sull’ acciuga della margherita
nell’ altro universo, dove il nulla è un signor qualcuno,
chi fischietta indifferente e chi porta la valigia delle 10.25.

Dall’uovo di T.S. Eliot spunta un T-Rex
E il via vai è forte tra Wall Street e il tegamino.

Gino Rago

da Storie di una pallottola e della gallina Nanin 

La poetry kitchen è anche la poiesis della cucina;
ma il frigorifero è vuoto.
Dunque, lottare con il vuoto, ma vuoto non è il frigorifero,
il vuoto è nelle parole stesse.
Siamo alla fine della immortalità, bisogna ricorrere alle metafore cinetiche.
chi intenda fare poetry kitchen dev’essere nella consapevolezza
che della funzione di vedetta su una nave

n. 11

Il commissario Montalbano spegne la sgaretta.
Poi fa un monologo interiore a bassa voce.
Dice:
«Madame Colasson,
la pallottola calibro 7.65 del suo revolver può ridurre ad uno scolapasta
quel distinto Signore di Stavrakakis
e invece ha colpito
un platano del libro di Gino Rago I platani sul Tevere diventano betulle,
mentre il suo autore, il distinto poeta,
correva dietro le sottane di Catherine Deneuve…
Lo so, non è stata Lei a sparare…
Ritengo che in qualche modo abbia la sua parte quel Linguaglossa,
il titolare dell’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani,
l’energumeno che ha trattato la tangente per 65 milioni di dollari
con gli emissari di Putin.
Anche i leghisti, lo sa, sono una banda bassotti della peggiore specie,
dove possono arraffano…
Stia attenta anche a quel filosofo greco
che si spaccia per marxista…
In verità, io dei marxisti non mi fido,
preferisco loro la crossdresser Ewa Kant,
presidia sempre il marciapiede al Moulin Rouge…»

Il dottor Montalbano riprende fiato.
Poi dice:
«Madame Colasson,
vede quel Signore lì? Quello con la giacca a quadretti?
E’ Alain Robbe-Grillet.
Sì, lo scrittore.
Crede di essere un avatar, un calzolaio, un aiuto lavapiatti.
Sta là dietro,
nel retrobottega, in cucina come addetto alla lavanderia
e alle pulizie dello stabile,
al pronto soccorso delle parole in ortopedia.

Nella sala d’attesa dell’aeroporto
Liz Taylor e Audrey Hepburn litigano.
Vogliono un posto in una Struttura dissipativa della Colasson,
invece vi precipita Italo Calvino con tutte le scarpe.
Adesso Marlon Brando fa il posteggiatore abusivo a Fiumicino
e Robert Mitchum fa l’autista di taxi in “Taxi driver”.

Sulla testa di Robbe-Grillet cadono palloncini colorati,
carte da gioco,
un corno di corallo, una statuina decapitata, un collare per cani,
una crema di aloe, un totem in alabastro,
una confezione di taralli
e un tubetto di dentifricio “Colgate” con fluoro activ…

Madame Colasson, Lei non ha un alibi!».

Mauro Pierno
Compostaggio (luglio 2021)

Laura aveva 10 anelli: uno per ogni dito
quanti i figli nati anche con i cesarei.

Il mare dall’oblò.
A Venezia il parrucchiere per signore von Aschenbach.

La rotta degli alluci coincide con il prossimo anticiclone che trafùga oggetti alla primavera.

Dove i treni non si fermano
lì è il luogo ove sostare.

Le relazioni verticali in poesia sono fittizie. In realtà ogni verso è parte di un lungo testo orizzontale

Sopravvivere all’attacco dei versi. Pandemia che provoca vomito e bifida la lingua.Optare per l’uno o l’altro.

Buon Giorno Signor Klister. Ha risolto il problema?
Con tutto il materiale indiziario in suo possesso,
dovrebbe giungere a conclusione il contezioso con le parti offese.

Il piano finale è senza interruzione. Le divise corte,
con calzoncini alle ginocchia. Le magliettine estive.

Una giraffa dialoga con il tempo sul tempo del tempo
prende il suo tempo seduta su uno sgabello da bar

gesticola e discute con un corvo che fuma un sigaro avana

Ed un becco di pappagallo che noi perdemmo nel ventitré, pre, preprepreprepre pre pre

Venite in vacanza qui
Comfort, camere sanificate, picnic,

Colazione a buffet, piscina con idro, sale relax
e penne bic

La Ladyboy Aris fa sesso con il Macho Zozzilla
Gli dice: «Il Green Pass passerà»

Prima, una bella vacanza, poi l’abitudine.
– Eh.

Ciò che conta è quello che manca, ciò che manca è quello che conta. Sta scritto nel thriller.

È ora che ti scegli un marito se non vuoi superare la trentina e trovarti nel dimenticatoio. Anche questo sta nel thriller.

“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi

Noi camminiamo sulla riva del mare
È ieri. È oggi. Ci si accosta, ci si sorride
Precipitiamo. Pioggia. Sole. E di nuovo pioggia
Sappiamo che l’inverno non è lontano
È ieri. È oggi. Rammento soltanto le tue mani.
Sappiamo che ieri è già domani. Continua a leggere

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«Wo Es war soll Ich werden» significa, per Lacan, che l’io non emerge dall’abisso dell’inconscio come un’isola dal mare, ma è un luogo di emersione della verità del soggetto, ciò che riconduce l’io alla sua dimensione immaginaria che altro non è che una funzione, un io alienato, aggregato di identificazioni, di proiezioni e di rimozioni, Il detto secondo cui «l’io non è più padrone in casa propria», significa che l’io è uno straniero a se stesso, che nella soggettività si annida una alienazione primaria non eliminabile, Poesie di Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Raffaele Ciccarone

Lucio Mayoor Tosi, Untitled. cm 80 x 80 – acrilico su legno 2022

Lucio Mayoor Tosi Germinazioni

La modalità kitchen della poiesis kitchen

L’impersonalità del linguaggio dell’ Altro implica la simbolizzazione da parte del soggetto mediante la catena significante; introducendo la catena significante il soggetto viene ad essere deiettato nella dimensione del senso e della verità; ed è ciò che determina una mancanza-a-essere all’interno del soggetto poiché in realtà non tutto del reale è significante: l’essere del soggetto viene ad essere infirmato dalla inflizione del significante. Il significante primordiale e il significato perduto, la Cosa originaria, fanno così ingresso nel non-senso, prendono stabile dimora in esso, che è quella dimensione in cui può emergere il particolarissimo intreccio di desiderio e godimento del soggetto, vale a dire la sua personalissima verità, la dimensione dell’oggetto piccolo a quale sostituto provvisorio del grande Altro. Il soggetto non è l’io come posizione di terzietà o di giudizio, e non è nemmeno una istanza che si può ridurre a sommatoria delle parti di cui nella topica freudiana Io-Superio-Es. Ancor più radicalmente, il soggetto non è l’io, e l’io non è il soggetto. Il detto freudiano «Wo Es war soll Ich werden» significa, per Lacan, che l’io non emerge dall’abisso dell’inconscio come un’isola dal mare, ma è un luogo di emersione della verità del soggetto, ciò che riconduce l’io alla sua dimensione immaginaria che altro non è che una funzione, un io alienato, aggregato di identificazioni, di proiezioni e di rimozioni. Il detto secondo cui «l’io non è più padrone in casa propria», significa che l’io è uno straniero a se stesso, che nella soggettività si annida una alienazione primaria non eliminabile; che vuol dire che l’io significa?, vuol dire che l’io ha un linguaggio impersonale che viene dall’Altro, un linguaggio irrorato dalla alienazione originaria. L’io non è un sostrato che sta sotto a qualcosa d’altro, non è un hypokèimenon ma un vuoto che attende di essere colmato di jouissance, del desiderio dell’Altro.

Il significato non è un qualcosa intenzionato da un soggetto essendo il soggetto nient’altro che un posto vuoto, un posto afflitto da una mancanza costitutiva per cui il significato non è nient’altro che «un effetto immaginario della catena significante»,1 nulla di sostanziale ma un segno che rimanda ad altro da sé, ad un altro segno. Il significato non sta in nessun luogo, è qui e là, in entrambi i luoghi contemporaneamente e la modalità kitchen della poiesis intende semplicemente mettere in evidenza questa struttura: il kitchen traduce un sistema di significati in un altro sistema di significati, o meglio, in un sistema di «fuori-significati», è una modalità di trasbordo del significato da un luogo ad un altro. È ovvio che il «fuori significato» della modalità kitchen è una utopia, una tensione verso, un impossibile, ma il fatto che si tenti l’impossibile porta l’impossibile verso il possibile, cambia i luoghi delle categorie. E così salta tutto, saltano tutti i ponti che la metafisica ha costruito mettendoli a carico del soggetto e della sua legislazione.

Das Ding è per Lacan «originariamente ciò che chiameremo il fuori significato»;2 la Cosa: essa è muta, non si lascia afferrare né dalle immagini né dalle parole. Non è possibile rappresentare la Cosa perché è «il termine estraneo attorno a cui ruota tutto il movimento della Vorstellung».3 Tutte le rappresentazioni (Vorstellungen) del soggetto nascono dal tentativo di impadronirsi della Cosa in un gesto sublimatorio. In effetti, das Ding può essere identificata con la «tendenza a ritrovare» che caratterizza il rapporto del soggetto con l’oggetto. Tuttavia, «a livello delle Vorstellungen la Cosa non è […] brilla per la sua assenza, per la sua estraneità»4: essa è, infatti, perduta perché ha patito l’azione del significante. In questa perdita è riscontrabile la condizione di possibilità di ogni rappresentazione, di qualsiasi discorso; secondo Lacan, «la distanza tra il soggetto e das Ding […] è appunto la condizione della parola».5 La Cosa, pur cancellata, non fa che causare il desiderio. Essa è introvabile ma anche orientativa della ricerca del soggetto, in quanto viene sempre sostituita da un altro oggetto.

La Cosa non ha valenza ontologica, è paradossale: è un fuori-discorso, un fuori-significato ma, paradossalmente non è un nulla o un’essenza, non è un sostrato, un soggiacente alla maniera dell’hypokèimenon, e non è nemmeno un noumeno in quanto non è un ente. Si può immaginare il Das Ding soltanto in modo paradossale: come interno-esterno, confine-passaggio, resto-eccedente, perdita-causativa, mancanza causativa in quanto non rimanda ad alcun ente ma a una mera funzionalità empirica del soggetto.

(Giorgio Linguaglossa)

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1 A. di Ciaccia; M. Recalcati, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 28
2 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), tr. it. M. D. Contri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2010,p. 71. p. 64.
3 Ivi, p. 67.
4 Ivi, p. 74.
5 Ivi, p. 81.

Mauro Pierno

Aria aria missili da crociera, la catechesi è concreta.
Nelle finitudine, così come nelle altitudini.

L’inganno delle medaglie. La neve di Pechino il sushi della rivoluzione. Deglutire ad una apparizione.

Nei tablet, nei transatlantici, con le unghie dipinte.
Il colore è un cloroformio. Una guglia.

Addormentati tutti fino a tarda sera. Troppo troppo ammorbidente nelle stive.

In fila indiana i pinguini i Tank e quattro frecce,
e ti sei addormentata non appena tu sei salita.

Lucio Mayoor Tosi

Titoli.

Mela lasciata sul tavolo per bellezza. Calze a rete
di mia nonna.

Rosso Ferrari, acqua marcia, due sotto la pioggia.
Terra. Terra e cemento.

Darsela a gambe. Piaghe, tattoo. – Viene sera,
non ricordo. – Matisse: “Wagon-lit”.

Paesaggio cancellato. Ritratto di Hulk. Poco mare.
Fine alba e dopo il tramonto.

*

caro Lucio,

qui è in azione la procedura serendipica, tu lavori per semi enunciati e frasari interrotti, irreferenziali, tipo jazz e gin fizz. Così, lasciando il soggetto in frigorifero, raggiungi esiti notevoli, magari senza volerlo, senza perseguire una finalità ma lasciando galleggiare il linguaggio a pelo d’onda. Complimenti. (g.l.)

Raffaele Ciccarone

Set 70

alla Woridcon di Los Angeles dei cosplay in Follout

le armi psicotrope bevono vino e cioccolata calda.

La censura parte per Viareggio, sul balcone i bambini

invocano Stefen King e It. La geisha in limousine ancheggia

il Vampiro gli chiede una bottiglia d’acqua minerale.

l’unicorno si ferma nel bosco a leggere Proust, Facebook non ci crede

emette una fake news, solo la giraffa con la testa sopra le nuvole si salva dall’asfissia.

Nell’emisfero australe l’Alfa Monocerotis, della costellazione dell’unicorno,

si allontana con Alfa Centauri dal sistema solare, Minecraft è a City Life Distri Continua a leggere

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Intervista a  Iana Boukova a cura di Ewa Tagher, con Poesie  di Mimmo Pugliese, Francesco Paolo Intini, Ewa Tagher, Marie Laure Colasson, un compostaggio di Mauro Pierno, La poesia si occupa delle illusioni ottiche del nostro pensiero, delle imperfezioni del nostro sguardo mentre cerchiamo di leggere il mondo: ciò che vediamo e ciò che immaginiamo di vedere, e ciò che facciamo tutto il possibile per non vedere. La rigorosa critica del presente che mette in atto la poesia delinea i problemi del futuro.

Domanda: La pandemia di Covid 19 e la crisi climatica hanno messo a confronto l’umanità con la dura verità che non importa quanto ci proviamo e comunque la scienza progredisca, non possiamo essere totalmente immuni dalle malattie e dalla morte. Il risultato è una ferita narcisistica per l’io umano, simile alle altre che ne hanno minato la centralità, a cominciare da Copernico (non siamo al centro dell’universo), per arrivare a Darwin (siamo il mero prodotto dell’evoluzione e non immagine divina), e a Freud (l’io non è padrone in casa propria ma è governato dall’inconscio). Secondo te, come può oggi la poesia affrontare questo ridimensionamento?

Risposta: Credo che la poesia abbia affrontato questo tipo di ridimensionamento per tutto il XX secolo e fino ad oggi: guerre, totalitarismi, un generale senso di delusione su come il progresso scientifico interagisce con la giustizia sociale. Il lavoro della poesia è sentire le crepe nelle costruzioni razionali di ogni epoca, scoprire le debolezze di ogni costrutto narcisistico del nostro ego personale o collettivo. La poesia percepisce le crisi ancor prima che appaiano. Non per un dono profetico, ma per l’ipersensibilità della percezione. La poesia si occupa delle illusioni ottiche del nostro pensiero, delle imperfezioni del nostro sguardo mentre cerchiamo di leggere il mondo: ciò che vediamo e ciò che immaginiamo di vedere, e ciò che facciamo tutto il possibile per non vedere. La rigorosa critica del presente che mette in atto la poesia delinea i problemi del futuro. In questo senso, in questa particolare crisi a cui stiamo assistendo, non credo che la poesia abbia bisogno di un nuovo approccio. Deve solo continuare a funzionare come sempre, ad es. essere tagliente, intransigente e irritante. In altre parole, non permettere il sonno. A proposito, la vulnerabilità umana e la morte non hanno mai smesso di essere uno dei suoi temi principali.

Domanda: In un’intervista con Athina Rossoglou hai detto “Penso che al giorno d’oggi non abbiamo altra scelta che imparare a usare il sentiero della poesia per camminare nel mondo”. Quanto è necessario e perché, oggi, scrivere e leggere poesie?

Risposta: Considero la poesia come un metodo per studiare il mondo, come una strategia cognitiva. In un’epoca in cui tutto è fluido e non esistono sistemi filosofici indiscutibili, nessuno può darti una visione del mondo. Devi costruire la tua visione del mondo. La poesia ti offre gli strumenti per farlo. Ti educa a rilevare le connessioni tra i pezzi, ad articolare frasi in mezzo al rumore generale. In altre parole, ti allena a mantenere l’equilibrio su un terreno che è tutt’altro che stabile.

Domanda: La tua è una poesia che non ha un manifesto dichiarato, né un intento preciso, hai detto più volte che le tue poesie non sono mai le stesse. Ed è vero, ogni tua poesia è diversa dalle altre. Ciò che li accomuna, però, è il tuo tentativo di usare il linguaggio al massimo, giocando con le infinite possibilità che offre, in senso estetico e contenutistico. La poetessa bulgara Silvia Choleva parla di te come di “un’autrice di tipo borgesiano” che “predilige i giochi, i riferimenti, gli enigmi, i colpi di scena inaspettati, l’ironia e la drammaturgia del verso”. Da quale necessità ti fai guidare quando scrivi poesie?

Risposta: Ogni poesia inizia per me come una sorta di ricerca (o indagine). Un’immagine, un fatto o una frase mi pone una domanda, mi dà un punto di partenza. Il labirinto di connessioni, scoperte e colpi di scena nella ricerca di una risposta crea il testo. Questo è un percorso che non so mai dove porterà. Se riesco a sorprendermi, se finisco in un posto che non mi aspettavo, il testo ha funzionato.

Domanda: Come ci si orienta in un mondo che produce informazioni in eccesso, attraverso mezzi informativi che ne amplificano i toni, a volte perentori, poi sensuali, ricattatori, e ancora scandalosi, sempre più allarmisti, e che producono una massa di linguaggi ibridi, di rumori di fondo, di nuovi fonemi?

Risposta: In effetti, la poesia, come ho detto sopra, aiuta molto in questo. Mi insegna a essere costantemente vigile e a rimanere concentrata. Allena la mia memoria a tenere traccia delle informazioni importanti per me e a seguire una narrazione, non importa quanto  frammentata. Leggo spesso anche articoli scientifici: il linguaggio pacato, equilibrato e allo stesso tempo pieno di passione per la conoscenza del linguaggio della scienza mi aiuta a mantenere un senso di scala rispetto alla piccolezza dei temi mediatici, a estirpare il significativo dall’insignificante . Credo che qualcosa di estremamente importante oggigiorno sia creare silenzio per se stessi e per i propri pensieri. Ho creato nel tempo, per me, un filtro insonorizzante molto ben costruito. D’altra parte, tutto questo spreco di informazioni di cui parli può anche essere materiale per la poesia. (Tutto potrebbe essere materiale per la poesia.) Nel mio ultimo libro, ho ripetutamente incorporato nei miei testi frammenti di storie, notizie, trame cospirative e opinioni popolari. Anche questi fanno parte dell’inquietante ricchezza del mondo e dei nostri tempi, hanno il loro valore simbolico. Trovo significativa la loro assurdità.

Domanda: Hai scritto la tua ultima raccolta di poesie Notes of the Phantom Woman (Sofia, 2018) / Drapetomania (Atene, 2018) in due lingue diverse, il bulgaro, la tua lingua madre, e il greco, la tua lingua di adozione. Una vera sfida! È forse la dimostrazione che i linguaggi sono solo strumenti, materie plastiche da utilizzare per compiere un percorso di ricerca poetica?

Risposta: In questo libro  particolare,  lavoro più con le idee e lo sviluppo di situazioni di pensiero, che con il peso e l’aura delle parole. In pratica, questo significava per me che tutto poteva essere detto in modo altrettanto chiaro e convincente in entrambe le lingue con cui lavoro. Lascio che la lingua mi guidi solo nei dettagli. Ma questo non è il mio unico metodo di lavoro. I miei ultimi due progetti di poesia, ad esempio, sono interamente orientati al linguaggio. Uno, la “S”, che è stata pubblicata in Grecia lo scorso dicembre, è una scommessa per definire in modo metaforico e fantasioso tutti i nomi greci che iniziano con questa lettera. Si basa sul “contorto”,  un gioco di associazioni libere in lingua greca che è la mia lingua di adozione. Il secondo “Le paure che portano alla follia” (di prossima pubblicazione) si basa su “testo trovato” in bulgaro e tratta l’incapacità della persona moderna e della lingua in particolare di affrontare il tema della morte. Entrambi sono abbastanza intraducibili. Quindi nella mia opera  a volte la lingua è solo uno strumento, a volte una “collega” di lavoro, a volte lascio che sia lei a comandare, dipende dal mio istinto del momento e dall’idea del progetto.

Domanda: Oltre a scrivere poesie, traduci i versi dei più grandi poeti del mondo greco e romano, da Saffo a Catullo. Qual è il tuo rapporto con i testi antichi?

Risposta: Il contatto con gli autori antichi ha ampliato i miei orizzonti sulla letteratura contemporanea. Ho imparato a guardare alla letteratura nel contesto del tempo profondo, al di fuori di ogni teoria letteraria corrente, spesso dogmatizzata, imposta nel quadro del presente. Ho imparato a osservare più somiglianze che differenze tra i testi poetici, indipendentemente dalla loro lontananza nel tempo (o culturale o geografica). È sempre emozionante scoprire la vicinanza nei metodi con cui poeti separati da millenni o migliaia di chilometri da noi parlano della condizione umana. Naturalmente, non è stato un caso che ho scelto Saffo e Catullo per la traduzione. Hanno questa rara fortuna nella letteratura di essere completamente traducibili – emotivamente, mentalmente e come poetica per il lettore di oggi. Suonano come i nostri contemporanei.

Domanda: Lo scrittore Gore Vidal diceva: “l’intellettuale è come il canarino nella miniera”. Che aria tira nella tua miniera?

Risposta: Abbastanza insolita e fuori moda, sono ottimista. Sento l’aria nella mia miniera né più pesante né più pulita che in altri tempi della storia. Non è facile essere umani e non è facile vivere tra le persone. Ma anche nei momenti più difficili di stupidità o crudeltà che invadono il mondo, credo profondamente nella capacità delle persone – prima o poi, anche dopo tanti errori – di trovare soluzioni. L’aria nella mia miniera è del tutto imprevedibile, come nella vita. A volte sembra stagnare fino alla morte e proprio quando meno te lo aspetti qualcosa cambia, anche una leggera brezza e puoi respirare di nuovo.

NOTA BIOGRAFICA

Iana Boukova è una poetessa e scrittrice bulgara. Nata a Sofia nel 1968, si è laureata in Lettere Classiche all’Università di Sofia. È autrice di quattro libri di poesie, tra cui I palazzi di Diocleziano (1995), La barca nell’occhio (2000), Le note della donna fantasma (2018) e S (2021); due raccolte di racconti; e il romanzo In viaggio nella direzione dell’ombra (2009). La sua raccolta di poesie Notes of the Phantom Woman ha ricevuto il Premio nazionale Ivan Nikolov per il libro di poesie più eccezionale nel 2019. Una versione in lingua greca è stata pubblicata anche nel 2018 ad Atene con il titolo Drapetomania. Le sue poesie e racconti sono stati tradotti in numerose lingue, tra cui inglese, greco, spagnolo, francese, tedesco e arabo.
Boukova è anche editore e traduttore in bulgaro di oltre dieci raccolte e antologie di poesia greca moderna e antica, tra cui Frammenti di Saffo (Premio dell’Unione dei traduttori bulgari nel 2010), la raccolta di poesie di Catullo e le Odi pitiche di Pindaro (Il Premio Nazionale per la Traduzione nel 2011).
Boukova vive in Grecia dal 1994, dove è membro della piattaforma Greek Poetry Now e del comitato editoriale di FRMK, una rivista semestrale di poesia, poetica e arti visive.

Ewa Tagher

RISONANZE

Nave in arrivo da sud

La sirena di bordo gracida appena.

Nella sala macchine un fuori sinc

senza rimedio.

Dalla banchina l’onda di un coro

miagolii e dita peste.

Nebbia.

Anche strizzando gli occhi

la voce rimane a mezz’aria.

“Tuo nonno, un disertore”

giù per un vallone

al confine con la Francia.

Guadato il fiume restò

solo un paio di occhiali rotti in mano.

“Hai ancora sete?”

Dalle mie parti col sole d’agosto

orti e giardini si arrendono.

Solo il fico a dispetto

gonfia mammelle piene di latte. Continua a leggere

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Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive: “Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana”, con una messa a punto di Marie Laure Colasson: Occorre un Grande Progetto, Un Nuovo Paradigma della poiesis, Poesie di Mauro Pierno da Compostaggi, Guido Galdini, un Estratto di Piero Dorfles

Lucio Mayoor Tosi, Quattro Ombre, 2021
Se puoi vedere l’ombra, puoi vedere anche la figura dietro l’ombra, che è invisibile. Per vedere l’invisibile devi raffigurare il visibile. I segni della poiesis forniscono la cornice di ciò che l’ideologia della significazione vuole celare, indicano ciò che non può essere rammemorato, non può essere significato e non può essere indicato, indicano il negativo che  si nasconde appena dietro la significazione che l’ideologia del tutto vuole significare; alludono, accennano, ammiccano a quel qualcosa che non può risolversi nella significazione, ma che sfugge ad essa.

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Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:

“Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1

Gli appunti di Fortini illustrano come fosse ben chiara, in lui più che nei redattori della rivista «Officina», l’idea che la vera questione sulla quale ruotavano le scelte strategiche del gruppo era la cosiddetta «ontologia letteraria del Novecento»; un «piccolo mito» creato «a favore d’una definita cerchia di autori e critici degli Anni Trenta». «Alcuni di noi – continua Fortini – ed io fra questi, ebbero in sorte di far coincidere l’inizio della propria attività letteraria con la critica a quel mito e al gusto di quel decennio».2

L’idea poi che la letteratura e soprattutto la poesia del nostro Novecento si sia sviluppata secondo criteri e caratteristiche speciali e assolutamente innovatrici rispetto all’epoca precedente, tanto da rendere possibile la redazione di un “canone”, è stata lungamente vulgata da critici come Bo, Ferrata, Anceschi e da molti altri. Ma chi più la prende sul serio? Attaccata da tutti i lati, nell’ultimo quindicennio i suoi stessi settatori l’hanno ampiamente corretta. L’inizio del gusto novecentesco silenziosamente si è venuto spostando dai fiorentini a Gozzano, Campana prendeva il posto (modesto) che era il suo, accanto a Jahier si poteva ormai leggere anche Michelstaedter, Rebora diventava una figura centrale, un Tessa o un Clemente non erano più soltanto scialbe figure di periferia e di provincia. Si veniva a sapere, seppure di malavoglia, che negli Anni Trenta aveva operato un poeta della statura di Noventa e che Pavese aveva pur scritto Lavorare stanca. Lo schema “novecentesco” è andato anche troppo in pezzi… Oggi, comunque, la categoria del Novecento letterario, il suo “ontologismo”, il suo “assolutismo” mi paiono formule polemiche inutilizzabili, fantocci di comodo.3

Franco Fortini da un lato addita gli errori della rivista «Officina»:

non vedere quanto il nostro “Novecento letterario” fosse appena un episodio della cultura letteraria europea tardo-simbolista e avanguardistica (…) La sua polemica contro la destra novecentesca era in ritardo di dieci anni; quello che la faceva parer nuova era la simultanea polemica contro l’impegno e il social realismo. Non a caso teneva a suggerire una poetica “civica” bensì ma di “disimpegno” dalle parti politiche»;4 dall’altro, invita a riflettere sul fatto che «L’idea che la letteratura del ventennio, o meglio la letteratura della prosa d’arte e della lirica, novecentesca prima ermetizzante poi, sia stata la “via italiana” dell’antifascismo culturale non nasce con la restaurazione successiva al 1948. È invece l’idea centrale, il mito scrupolosamente predisposto prima ancora che il fascismo cadesse, fondato sull’equivoco stesso dell’antifascismo cioè sul suo frontismo, che vedeva schierati da una medesima parte un A. Gide e un B. Brecht. In forma non scritta quell’idea circolava durante la guerra nella fascia di autori e scrittori che erano contigui all’antifascismo liberale o liberalsocialista. La formulazione più autorevole e più abile, anche per la sede ed il momento, è in uno scritto di G. Contini che nel 1944, sulla rivista svizzera “Lettres” introdusse una antologia letteraria italiana da Campana a Vittorini. Vi si sosteneva esplicitamente che la “resistenza” culturale italiana andava identificata col rifiuto dei nostri scrittori migliori ad imboccare la tromba sociale e tirteica. Nell’Italia del dopoguerra quella tesi divenne poi pressoché ufficiale. Nessuna forza o gruppo organizzato sorse a confutarla: nessuno rovesciò apertamente la tesi per affermare che al di là del fascismo di Mussolini c’era una classe ed una ideologia generalizzata e che proprio la letteratura della astensione e dell’ascesi, del “reame interiore” o das Innere Reich era la fedele voce, lo specchio devoto della classe che i fascismi creava e disfaceva.5

In un articolo del 1960 Fortini individua con lucidità le modificazioni che l’industria culturale ha introdotto nelle istituzioni della letteratura in Italia. È una analisi oggettiva, che coglie la crisi di legittimità e di rappresentatività dell’intellettuale, i legami di dipendenza tra l’attività del critico e del poeta e l’apparato dell’industria culturale: da una parte, la nascita di un nuovo tipo di critico «contemporaneista», un «misto di cinismo, moralismo e intuizionismo», dall’altra, l’industria culturale, afferma Fortini, «ha bisogno di questo tipo di eclettismo, almeno quanto ha bisogno di fabbricare le nuove avanguardie». Rispetto alla generazione precedente, i contemporaneisti di nuovo conio «sono più informati, hanno forse più studi e letture. Ma la loro posizione all’interno della società italiana è proporzionalmente la medesima… dei Serra, dei Cecchi, dei Pancrazi, e dei De Robertis: l’umanesimo zoppo».6 E concludeva:

Oggi una parte essenziale dell’attività critica è invisibile. Le scelte fondamentali si compiono nelle direzioni editoriali, dove confluiscono quei giudizi dal cui equilibrio o squilibrio scaturisce l’atto di politica culturale e commerciale (e insieme di indicazione critica) che è la pubblicazione d’una o di più opere letterarie. Non voglio dire, con questo, che la vera critica sia quella esercitata dai lettori delle case editrici o dai critici e letterati che esse impiegano; e che la verità critica sia quella depositata negli archivi degli editori. Non voglio dirlo, perché il carattere cerimoniale e convenzionale dell’articolo e del saggio ha pur una sua ragione critica, proprio per l’ossequio formale preteso dalla sua pubblicità, quale non può esistere nella schiettezza del giudizio privato. Ma non c’è dubbio che oggi il critico svolga, se non sempre almeno spesso, una indispensabile funzione tecnica nei confronti di un apparato industriale e commerciale e che, per di più, nell’atto di esercitarla, si faccia latore di tendenze ideologiche e politiche in misura infinitamente più responsabile di quanto non facciano il narratore o il poeta.”6

 

 di Marie Laure Colasson:

Nell’Italia di oggi una critica di poesia, semplicemente non esiste, si fa critica di compagnia, di accompagnamento, di corteggiamento o di cortesia, cerimoniale e di adescamento, cioè di scambio di favori, ovvero, critica strumentale a posizioni di poteri, e di influenze, critica di chierici e di aspiranti chierici che scrivono per altri chierici e aspiranti chierici.
Il discorso sarebbe più di antropologia della nazione piuttosto che di sociologia del fatto letterario.
Questa situazione il nostro amico Massimiliano la sa, la conosce bene, è una situazione correlativa alla stazionarietà della poesia italiana diciamo ufficiale, quella degli uffici stampa che genera schedine editoriali da uffici stampa.
A questo punto, l’unico genere di critica che si può fare oggi in Italia è appunto una critica di nicchia, militanza di nicchia, ovvero, di parte e soltanto di parte.
A questo punto di arrivo parlare di tradizione è come parlare dell’involucro del pacco, ciascuno la nomina per quello che più gli conviene. Non c’è nessuna questione della tradizione, c’è solo una questione di involucro e di marchio di fabbrica, questo il Signor “Massimiliano” (n.d.r. Claudio Borghi) lo sa bene, e se non lo sa, buon per lui che ancora si illude.
Giorgio Linguaglossa ha pronunciato alcuni anni fa una frase: occorre un «UN GRANDE PROGETTO» e un’altra odierna che suona blasfema ai normografi di oggi, che parla di un «UN NUOVO PARADIGMA»; dicendo questo sa bene che il suo lavoro non solo dà fastidio, perché va in contro tendenza, sa bene che questo significa andare in salita, contro corrente, contro i narcisismi in lista di attesa e contro le società per azioni letterarie, ma sa che fa una mossa da scacco matto, come quella che ha fatto Guido Oldani nel 2010 quando ha sfoderato il Manifesto del «Realismo terminale», come quella tirata fuori da Mario Lunetta con la sua «Scrittura materialistica» negli anni novanta. Noi siamo consapevoli che non c’è altra soluzione: tracciata una via, ciascuno deve scegliere in quale direzione camminare, e proseguire per quella.

1 Franco Fortini, Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1965 p. 64
2 Ibidem, p. 58
3 Ibidem, p. 59
4 Ibidem, p. 59
5 Ibidem, p. 46
6 Ibidem, p.44

da https://www.lintellettualedissidente.it/pangea/piero-dorfles-intervista/?fbclid=IwAR2sBqSBetj1UFh0cAuAsZx0SmesuXROlMONoHeCHN4Nfnh4lNQtHL3cXrY

Estratto di Piero Dorfles

Il giornalismo culturale è andato corrompendosi, negli ultimi decenni, fino a diventare irrilevante. Ma non è mai stato esente da difetti più o meno gravi. I grandi stroncatori, i critici severi e giusti erano rari anche cinquant’anni fa. Ma il comportamento opportunistico, fatto di scambi di favori e di ricattucci reciproci, sempre esistito, oggi è diventato pervasivo. I premi di cui si parla li vincono gli amici degli amici e, entrati in giuria, restituiscono il favore. Si fa scrivere sul proprio giornale chi recensisce il proprio libro o quello dei clientes; se ne allontana chi ha osato esprimere opinioni critiche. Si recensiscono libri che non si sono letti, alle volte nemmeno sfogliati, raramente capiti. Più che svolgere un ruolo di servizio, il giornalismo culturale persegue l’interesse personale, occasionalmente tenta lo scoop e, se può, alimenta polemiche pretestuose. A complicare le cose è arrivato il predominio del marketing. Chi vende bene è praticamente costretto a pubblicare un libro l’anno, ed è tormentato dall’editore se tarda a mantener vivo il rapporto con i lettori. Chi vince un premio guadagna anche lo spazio di commentatore sui grandi giornali, indipendentemente dalla sua capacità di scrittura pubblicistica. Chi è amico dei dirigenti e dei conduttori di programmi radiofonici e televisivi avrà ampio spazio di promozione su tutti i canali, mentre chi non coltiva amicizie e terrazze non avrà nessun sostegno dalla comunicazione di massa. In definitiva: si recensisce solo chi già vende bene, si tengono d’occhio gli editori che domani potrebbero tornare utili, e si parla con entusiasmo di libri insignificanti, scritti da giornalisti e politici il cui potere, altrimenti, potrebbe danneggiare chi scrive. Ma perché stupirci? C’è forse un comparto della vita pubblica, nel nostro paese, che sfugga a questo paradigma? Non mi pare proprio. Né mi pare che ci sia più chi, con autorevolezza, possa stigmatizzare il sistema di piccola e mediocre mafia intellettuale che domina il panorama culturale. Non mi limito a rimpiangere i Vittorini, i Fortini, i Milano. Guardo e vedo una società nella quale, nel suo complesso, i valori della conoscenza e l’onestà intellettuale sono non solo poco vitali ma, ove carsicamente compaiano, derisi. Se nelle vene della società non scorre il valore della cultura, perché dovremmo trovarne traccia nel suo specchio fedele, e cioè il sistema dell’informazione?

Mauro Pierno

da Compostaggi, 2021

L’albero socchiuso ha una palpebra accennata,
Eva tollera in eterno questo alternarsi di funi.

Il sipario che si alza ha un giardino meraviglioso,
la vita scrostata di polvere colorata, quando cala.

Indossa un grembiale nell’atto di saldare,
Adamo attorciglia il prato con le stelle.

*

D’accordo spengo la luce.
Ti racconto dei gatti al buio.

Dei politici, Kitdog e Kitwoman,
elegantissima al ballo stasera nel suo abito di strass,

la felpa del cane orrenda però! Deduco che dormi.
Se vuoi non starmi a sentire. Una visione a soggetto.

Al party, tra le chiacchiere, escludendo gli altri,
taluni annuivano sull’ennesimo candidato,

Salviti?! Non ricordavano bene il nome
e oscillavano sempre di più dal lunotto.

*

Infondo la piccola porta apriva anche all’esterno,
nei semplici cardini
svolazzanti. Al saloon si sorbivano idee,
gli sputi da un angolo all’altro
mostravano traiettorie fantastiche.
Ramon, nell’esatto momento che traballò stramazzando
riconobbe volare una spirale via Lattea,
sfuocata, verdastra.
Joe sparava e rideva.

*

Il quadrato costruito sull’ipotenusa il teorema applicato
nella moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Nei brani sgranati si arrotolano esistenze piè
e a cena le rive si allontanano.

Ci si ammassa con forchette negli inferi precipitati.
Dalla forma più casuale un ricettario pubblico.

Una rivoluzione portatile per l’ipnosi.
Questa tua apparizione a capotavola,

Tomas, rimette tutto in ballo.
Lo sai che le farfalle son alte alte alte.

*

Eppure al collo si attorciglia il nodo una formica.
A cerimonia terminata

le congratulazioni ostruiscono un nido all’alba,
quanto un torrente, un cimelio o un cumulo di ortiche,

quanto le nuvole rientrate sulla bilancia della ragione.
Con una cravatta a pois.

Retro di copertina 

«Ciò che resta lo fondano i poeti» ha scritto Hölderlin. E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate…

Le parole delle poesie di Mauro Pierno sono errori di manifattura, errori del compostaggio, errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili. Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le parole combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non è Mauro Pierno il responsabile. Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del distico è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un distico distassico e dismetrico che contiene al suo interno una miriade di dis-allineamenti fraseologici, dis-connessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo. Il distico è una gabbia metrica dinamica che contiene al suo interno le pulsioni e le tensioni che si sprigionano da decadimento chimico delle parole, che consente una sorta di compostaggio delle parole un tempo nobili e nobiliari.

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, Mauro Pierno e i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. «Solo i pensieri che non comprendono se stessi sono veri», ha scritto Adorno.

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Mauro Pierno Dopo aver saltellato

Guido Galdini

[In un post dedicato a filosofi (o ex-filosofi) un mio pezzo in argomento (probabilmente troppo presuntuoso).]

Ripasso di matematica e geometria otto

fin dal primo anno del corso di platonismo
è noto che ogni cerchio
tracciato, immaginato o sognato
è un modesto riscontro del cerchio
che dimora nell’inattingibile mondo delle idee

ripeto, è una filosofia elementare
diffusa da autori senza pretese
da prefatori la cui voce non osa
avventurarsi nella bufera dei testi
contentandosi delle note a piè pagina
dove possano esprimere il loro smorto fulgore

ma tutto il resto, le figure più sghembe
gli ovali mal riusciti, gli sgorbi tracciati
con mano tremante o indecisa
avranno anch’essi il loro timido luogo
nel mondo delle idee sopracitato?

la precisione negli occhi del volto
si ribella a quella negli occhi della mente
cospargendo di terriccio lo splendore
il muschio cresce sui muri delle case crollate
schiaffeggia le ambizioni dell’intonaco
ma non cessiamo di rovistare nello scrigno
che rinchiude i tesori e le loro vendette

siamo i gingilli della perfezione.

(2015)

Il soggetto, che è il soggetto dell’inconscio, secondo Lacan è l’effetto della strutturazione del significante, cioè di una presa del linguaggio che, per il fatto stesso di determinarlo, gli «rispedisce» indietro un «residuo» che non riesce a simbolizzare, un «resto» non-linguistico, irriducibile tanto alla lingua quanto alla Legge. Ciò che ritorna, questa volta nell’ambito del Reale, è das Ding, che esorbita dal linguaggio significante, che sfugge alle regole stesse che strutturano la soggettività e si pone come un nucleo di ciò che è unverstanden, di ciò che non è del tutto comprensibile. Ciò che sfugge alla linguisticità è Das Ding. Essere consapevoli di ciò che sfugge alla linguisticità è il precipuo della poetry kitchen, il suo tratto fondante.

(g.l.)

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica.
Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014), Ramon, (2017)  Compostaggi (2020); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Da Sanguineti e Zanzotto alla Poetry kitchen l’imprimatur metalinguistico ha preso il sopravvento, si avverte il trapasso da un’istanza iniziale di espressività a un’istanza metalinguistica, Testi di Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Gino Rago, Francesco Paolo Intini, Commenti di Vincenzo Petronelli, Giorgio Linguaglossa

Francesco Paolo Intini

Nello studio di un tizio che conosco
apparve improvvisa una scritta:

“il dottore dalla mano tremante scrisse una ricetta che nessuno
sa decifrare ma la calligrafia si riconosce…”

Un verso di Tranströmer
incise la Tavola periodica

-Ogni chimico ne ha una appesa alle spalle
Il suo crocifisso-

Irruzione credo o entanglement nella sua vita
che si svolgeva altrove.

Era l’agave che cresceva sulla Murgia
o quella sincrona sul lungomare di Bari?

Il mio amico si chiedeva cosa c’entrasse
Mendeleev con Hegel.

Né l’uno né l’altro avevano mai sentito parlare di protoni
In quanto a proprietà invece

La pistola della legge dice il primo
Ma si potrebbe giurare sul secondo.

da Faust chiama Mefistofele per una metastasi. 2020, Progetto Cultura, Roma, Pag. 109

Mauro Pierno

La principessa Boncompagni-Ludovisì
Suona danze russe con l’arpa di Paris.

Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.

Sui binari divaricati la Storia suda
il sermone dell’ancella scommettitrice.

Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina

Mi scuso per refusi e disattenzione, è quel che sentivo di voler dire

E al contrario un’energia meno compressa ma altrettanto efficace è possibile?

(Compostaggio da versi e commenti)

***

In equilibrio sulla piccola formica in ordine di apparizione un gorilla, una giraffa, un piccione.

Sovraesposto con carico da briscola un piccolo ippopotamo. Credimi tutto tiene la polverina.

Diminutivo di polvere da sparo, da mobilio, da abbandono. Le fiancate tutte rifatte però.

Le piste ciclabili sublimi con quegli aggetti a ridurre le povere carreggiate. Le due ruote tengono.

.

Le immagini in modalità kitchen che Mauro Pierno ha sapientemente assemblate possono apparire arbitrarie e irrazionali (come qualcuno senza fare nomi asserisce), ma in realtà c’è in Pierno anche un rigido controllo sulla proliferazione di campi semantici che si alternano in modo contiguo legati da rapporti di inferenza e di inerenza (se non altro una inerenza c’è: ed è il fatto mentale soggettivo). In questo gioco di avvicinamento e allontanamento delle parole, in questo gioco di dentrificazione, di sovrapposizione e di esterificazione delle parole, in questa costruzione di figure foniche ed iconiche come esiliate dalla significazione capaci di generare immagini di non-senso, si instaura una dialettica tra la regressione linguistica e l’aspetto puramente ludico dell’articolazione fonematica. A questo processo compositivo è associata la nascita non solo di molti neologismi ma anche una dichiarazione poetica ben precisa: alla regressione dell’esperienza esistenziale e storica corrisponde una progressione linguistica che vuole condurre il linguaggio. Non si tratta soltanto di un mero gioco etimologico ma di una funzione, di una modalità culinaria, il voler cucinare il linguaggio con le padelle e le pentole che si trovano in cucina… E poi c’è anche un’altra funzione, ovvero, esorcizzare e liberare la versificazione dall’esperienza della storia attraverso il linguaggio, attraversando in diagonale i linguaggi del linguaggio stando dentro il linguaggio, senza volerne uscire in un metalinguaggio. (g.l.)

Mauro Pierno

Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.

Sui binari divaricati la Storia suda
il sermone dell’ancella scommettitrice.

Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina

*

La principessa Boncompagni-Ludovisì
Suona danze russe con l’arpa di Paris.

Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia

L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.

Sui binari divaricati la Storia suda
il sermone dell’ancella scommettitrice.

Scopo della vita è la vita stessa, e l’Universo è costante inizio di sé medesimo.

Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

Come lui danzava nei suoi calzoni
un uovo usci dalla cucina

Marie Laure Colasson

Ecco la mia poesia n. 49 dal libro in corso di stampa Les choses de la vie.

49.

Eredia rencontre Dieu tous le vendredis
au bistrot du coin de la rue de la Gaité

Les cosplayers se déguisent en transgenders
la cristographie joue aux échecs

Les supernovae messagères du cosmos
plongent dans les vagues du port de Saint Tropez

La croix d’honneur de Georges Bataille
se ballade dans le “Bleu du ciel”

La censure enfile sa robe de velours couleur framboise
la blanche geisha avale un cachet d’alprazolam de 15 kg

Les temps astronomiques goulûment
mangent un soufflet au fromage

Le tout le rien le dessus le dessous
se confondent et se suicident

*

Eredia incontra Dio tutti i venerdì
al bistrot all’angolo della strada de la Gaité

I cosplayers si travestono in transgender
la cristografia gioca agli scacchi

Le supernove messaggere del cosmo
si tuffano nelle onde del porto di Sant Tropez

La croce d’onore di Georges Bataille
passeggia nel “Bleu du ciel”

La censura s’infila il vestito di velluto color lampone
la bianca geisha inghiotte una compressa d’alprazolam di 15 kg

I tempi astronomici golosamente
mangiano un soufflet al formaggio

Il tutto il niente il sopra il sotto
si confondono e si suicidano

Gino Rago

da Storie di una pallottola e della gallina Nanin in corso di stampa.

«I poeti elegiaci sono tutti delle carogne!»
gridano gli elettori delle sardine riuniti a piazza San Silvestro a Roma.

Ilia Prigogine risponde:
«Non esiste un sistema che non sia instabile
e che non possa prendere svariate direzioni».
E infatti il macinacaffè della poesia elegiaca ha preso
la direzione sbagliata
ed è finita fuori campo.

La sedia di Van Gogh ha traslocato,
adesso è finita in un quadro di De Chirico.
La «sartoria teatrale» di Montale ha lasciato il campo alla poetry kitchen.

La notizia venne udita da uno scrittore di Urbino
mentre litigava con la vecchia moglie.
Il fatto viene incriminato dal commissario don Ciccio Ingravallo.

I primi sospetti cadono
su un’amica di famiglia dell’agente di pubblica sicurezza
che addestrava il cane poliziotto
esperto in droghe di ogni tipo
e amico del commissario.
Il veterinario che ha fatto l’autopsia ne parla con i giornalisti
con voce stentorea
nel corso della conferenza stampa
davanti all’obitorio del Policlinico.

Al Commissariato di P.S. della Garbatella
e all’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani
regna il trambusto,
sospettano dei servizi deviati dei poeti di Mediolanum
per tenere in vita il «mini canone»,
una costola del «canone occidentale» di Harold Bloom.

Misteriose indagini portano ad una scatoletta di carne Simmenthal,
unica responsabile del sequestro dell’Onorevole Moro nel 1978.
Il dottor Linguaglossa dice che la gelatina è fatta con il brodo di carne
al quale si aggiungono delle tracce di Marsala
e un gelificante
per la consistenza del tutto…

Da Sanguineti e Zanzotto alla Poetry kitchen l’imprimatur metalinguistico ha preso il sopravvento, si avverte il trapasso da un’istanza iniziale di espressività a un’istanza metalinguistica

Leggendo le instant poetry di Lucio Mayoor Tosi mi è venuto in mente il duetto tra Zanzotto e Sanguineti dove il primo parla di «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso» a proposito del Laborintus del Sanguineti.
Anche a me le instant poetry di Lucio mi sembrano fedeli trascrizioni di un confuso esaurimento nervoso, ma ci aggiungerei: con distinguo e messe a punto intenzionali del tutto fuorvianti o capziose che mirano a fuorviare e a delegittimare i testi, a togliere loro ogni credibilità e presentabilità letteraria…. pratica nella quale Lucio Tosi eccelle.

Cfr. il gossip contenuto nel numero 11 di «Officina», novembre 1957, pp.458-62 (a p. 458 e a p. 462)

Nella Nota anonima, ma da attribuire a Leonetti (così in ogni caso farà lo stesso Zanzotto nel celebre e polemico saggio su I «Novissimi», uscito su «Comunità», 99, maggio 1962 e ora in Id., Scritti sulla letteratura, vol. II cit., pp.24-9: 26), a commento della famigerata Polemica in prosa di Sanguineti (a sua volta scritta rispondendo al Pasolini della Libertà stilistica, sul precedente numero 9-10), è scritto:

«In una cena romana “da Cencio”, in attesa dei poeti sovietici in ritardo, ai 6 di ottobre, lo Zanzotto (presenti Fortini, Pasolini, Leonetti) si lagnava di aver perso il sonno per colpa di Sanguineti, affermando diabolico il suo Laborintus è degno di punizione se non era “sincera trascrizione di un esaurimento nervoso”: ecco dunque uno, Zanzotto, di cui la buona coscienza, il sonno nelle convenzioni petrarchesche, è rotto da quella illeggibile e furiosa ironizzazione delle forme, e niente, niente affatto, dalle nostre costruzioni ideologiche e critiche; quella può essere, dunque, in un certo ambito, mordente. […] Per Sanguineti continuerà a valere in poesia la situazione immobile, che da alcuni, astrattamente, si è voluta identificare con quella di Leopardi (mentre è angoscia del secolo, che si riduce poi alla sensazione del paesaggio – ora con la modulazione poetizzante, mettiamo, di Zanzotto: “perch’io dispero della primavera”»(nella cit. antologia della rivista, cfr. pp. 334-9: 335 e 338). Alla battuta di Zanzotto replicherà com’è noto Sanguineti (nel brano Poesia informale? accluso nell’antologia I novissimi. Poesie per gli anni ’60 [1961], a cura di A. Giuliani, Torino, Einaudi, 2003, pp. 201-4: 202) accettando la definizione «ma con una non piccola correzione: e cioè che il cosiddetto “esaurimento nervoso” che io tentavo di trascrivere sinceramente era poi un oggettivo “esaurimento” storico».

Sull’episodio – assai noto, per non dire famigerato – si veda l’esauriente messa a punto di L. Weber, Usando gli utensili di utopia. Traduzione, parodia e riscrittura in Edoardo Sanguineti, Bologna, Gedit, 2004,pp. 19-31

Nella poetry kitchen si rinvengono da un lato le linee di forza dell’irrazionalismo di cui il mercato delle economie neoliberali è un potente amplificatore; di ciò si trovano tracce evidentissime disseminate nell’habitat testuale; dall’altro si rinvengono anche le linee di forza della ratio che presiede ad ogni impegno tecnico di costruzione formale, laddove l’elemento formale non è il punto di arrivo posto fuori dal testo, ma meta processo di un processo di demistificazione in atto. Il modo in cui si struttura il significato (o il non-significato) viene ad essere demistificato nel processo stesso della testualità. Viene così a cadere il concetto di esperienza poetica auratica e individuale tipico della poesia lirica e elegiaca del novecento. La prassi del trobar clus viene esautorata e sostituita con un trobar poroso e aperto agli esiti psico linguistici che si costituisce nell’intreccio, nel compostaggio di ready language, nell’intreccio di precarie fibrillazioni tematiche e linguistiche, che si stratificano per poi subito tornare a dissolversi nella testualità; fra di essi uno dei più significativi momenti di demistificazione si fabbrica proprio nei momenti di passaggio dalla poesia lirico elegiaca a quella kitchen o con modalità kitchen. Quello che appare è un nuovo concetto del fare poesia.

Nei  testi kitchen di Lucio Tosi, di Marie Laure Colasson e di Mauro Pierno l’imprimatur metalinguistico ha preso il sopravvento, si avverte il trapasso da un’istanza iniziale di espressività a un’istanza metalinguistica.
Nella straordinaria escursione linguistica che tale trapasso comporta, il linguaggi tecnici, privatistici, di settore, gli idioletti, il linguaggio dell’inconscio e quello della tradizione lirica si ritrovano parificati in una commistione linguistica conversativa e avversativa che comprende però anche il lessico massmediatico e triviale della comunicazione quotidiana, accanto a spiazzanti inserti metalinguistici. L’effetto è quello di un territorio terremotato e peristaltico della materia verbale, un susseguirsi di shock percettivi e uditivi per l’ignaro lettore che, abituato alla bella, ordinata, regolata compartimentazione del mondo dell’io della poesia ordinaria, è costretto invece a partecipare, obtorto collo, al precipitare di conglomerati verbali disintegrati sulla superficie del foglio e a prendere in qualche modo parte attiva.

(g.l.)

Marie Laure Colasson

Il “Non è” di Galdini è una formula magica, un abacadraba, una formula di autonientificazione di ciò che è e anche dell’io che lo pronuncia. Originalissima posizione di poetica che nega tutto ciò che è negabile, e anche la poesia che secondo le poetiche della tradizione si poneva come un ente. Galdini, non so quanto inconsciamente, intende negare in toto il modo tradizionale di fare poesia, e quindi nega sia l’avanguardia che la retroguardia con i relativi concetti correlati. In questo modo Galdini salta oltre la propria ombra, getta via con un calcio la scala sulla quale è salito e giunge ad un territorio di autonientificazione che non ha eguali (per quanto io conosca) nella poesia che si è fatta finora (e non solo di quella italiana). Questo atto di negazione radicale sposta i piatti della bilancia decisamente, quello destro, verso la nientificazione, quello sinistro anche… Siamo così arrivati sulla spiaggia del nichilismo? Galdini è un nichilista? E’ un comunista?, Un rottamatore? Non so, non saprei, so solo che la sua via verso la poetry kitchen è stata ed è originalissima. Ecco spiegato il dubbio cartesiano dell’autore verso il proprio manufatto.
Galdini scopre che il banale è significativo.

Scrive Andrea Cortellessa in un saggio dedicato ai rapporto antagonista che ha legato Fortini e Zanzotto:

“Che l’ironia, la gestione ironica del patrimonio letterario tradizionale, sia unica possibile via d’accesso al sublime lo dice proprio la dittologia «sublime» e ridicolo destino attribuita al Barone di Münchhausen e, lui tramite, all’universale condizione. Si tratta di quella che in retorica si dice preterizione e, in psicoanalisi, formazione di compromesso (anche se Zanzotto, come s’è visto, preferisce parlare di sublimazione), ma che Giorgio Agamben ha recentemente ricondotto alla sua valenza religiosa – la più adatta, tutto sommato, a definire l’atteggiamento di Zanzotto.
Se la poesia moderna, secondo il filosofo, è caratterizzata da una dimensione complessivamente parodica è perché essa ha perso il suo legame originario, naturale, con il canto : cioè appunto col carmen, la celebrazione del nume. In un tempo secolarizzato, o come egli preferisce dire profanato – con gli dèi estinti o fuggiti, cioè –, all’artista non resta chela «parodia» come «forma stessa del mistero»: in quanto «essenziale alla parodia è la presupposizione dell’inattingibilità del suo oggetto». In questo senso la «parodia» è «paraontologia»: perché «esprime l’impossibilità della parola di raggiungere la cosa e quella della cosa di trovare il suo nome»1 Continua a leggere

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Dopo la fine della Metafisica, Poesia da frigobar, scritta con un linguaggio aggiornatissimo, cioè da frigidaire con parole necessariamente conservate al freddo, La forma-poesia per eccellenza dei nostri tempi infetti dal virus del populismo, del sovranismo e del Covid19; la crisi climatica è la crisi del pianeta Terra, del capitalismo mondiale, crisi dell’Antropocene che accomuna Occidente ed Oriente, Nord e Sud, La crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie. E la poesia? Penso che la poesia abbia l’obbligo di riformulare i suoi parametri fideistici, Poesie kitchen di Guido Galdini, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Raffaele Ciccarone

Foto volto con quadrato nero

Dopo la fine della Metafisica

La poesia che si scrive oggi avendo in mente un ente ricade nel modello del «vero» e del «verosimile», e quindi del realismo – Pieno di demerito e impoeticamente abita l’uomo su questa terra

Se prendiamo La ragazza Carla di Pagliarani (1960) o anche Laborintus (1956) di Sanguineti, lì vengono trattate (rappresentate) delle cose che realmente esistono; se prendiamo un brano de I quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, lì si tratta di un tema ben preciso: la morte del fratello «aldo» e della conseguente j’accuse del «sistema Italia» che lo ha determinato al suicidio. Voglio dire che tutta la poesia del novecento italiano e quella di questi postremi anni post-veritativi, rientra nel modello del «vero», e del «verosimile». Ebbene, questo «modello» nella nuova ontologia del poetico viene ad essere caducato,  messo in sordina; la distinzione tra verosimile e non-verosimile cade inesorabilmente ed entrano in gioco il possibile e l’inverosimile, l’ultroneo e l’erraneo; si scopre che l’inverosimile è della stessa stoffa del possibile-verosimile e che l’ipoverità è il lessico più evoluto della forma-poesia e della forma-romanzo di oggi.

Questa possibilizzazione del molteplice è la diretta conseguenza di una intensa problematizzazione delle forme estetiche portata avanti dalla «nuova ontologia estetica», prodotto dell’aggravarsi della crisi delle forme estetiche tardo novecentesche che ha creato una fortissima controspinta in direzione di un nuovo modello-poesia non più ancorato e immobilizzato ad un concetto di eternità e stabilità del «modello del vero e del verosimile».

Il concetto di «verosimile» della poesia lirica e anti lirica che dir si voglia di questi ultimi decenni poggiava sulla stabilità ed eternità del soggetto che legiferava in chiave elegiaca o antielegiaca.

La poesia che si scrive oggi avendo in mente un ente ricade nel modello del «vero» e del «verosimile», e quindi del realismo in senso lato, ovvero, poesia fatta con il pilota automatico innestato.
La poesia che si scrive senza l’ausilio di alcun pilota automatico, è la sola poesia che è possibile scrivere Dopo la fine della Metafisica.
Il fatto è che l’uomo è «un animale metafisico» (dizione di Albert Caraco) che non può che riprodurre la metafisica anche dopo la fine della metafisica. Si tratta di un meccanismo infernale che non può arrestarsi mai, ma è preferibile esserne consapevoli. Ecco perché la «nuova poesia» assume a proprio tema centrale il perché della poesia, se si debba perseguire il senso e il significato, o si debba perseguire il fuori-senso e il fuori-significato.
Poiché la crisi è in poesia, la poesia reagisce diventando meta poesia, ricusando la vecchia metafisica per una meta ontologia. Il poetico non è uno spazio separato dal non-poetico, quanto che esso è la stessa meta ontologia che diventa nuova metafisica. La meta ontologia verte su ciò che è al di fuori della ontologia, fuori dell’ontico e, precisamente, sul nulla che costituisce le cose, sulla nientificazione che sta all’origine di tutte le cose e determina la nostra esistenza.

Riprendendo un verso di Hölderlin in cui il poeta dice:

«Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra»

Heidegger formula un’interpretazione rimasta storica che indica l’essere dell’uomo in presenza degli dei e dei «mortali». Gli uomini sono coloro i quali muoiono ogni volta, muoiono sempre di nuovo e infinitamente. Heidegger sottolinea che il fare poesia è il fabbricare «poeticamente» le «case», intendendo l’attività pratica del costruire abitazioni, in quanto anche la poesia è una «casa» che possiamo abitare. La poesia indica: «L’atto del fare si dice in greco  po…hsij. L’abitare [das Wohnen] dell’uomo dovrebbe essere [Poesie], cioè qualcosa di poetico». In base al detto del poeta, l’abitare dell’uomo non è un prodotto  di una delle tante facoltà dell’uomo, ma è il fondamento stesso dell’esserci: l’abitare è il modo principale con cui l’esserci attua la sua struttura fondamentale di essere-nel-mondo. L’abitare della poesia di oggi è la costruzione di un luogo dove vige lo scetticismo nei confronti del vero, dell’io e del reale; optare per la leggerezza, la volatilità, l’ultroneo e l’erraneo è ciò che dischiude la peculiarissima Befindlichkeit, il «modo» d’essere del nostro essere nel mondo, ma è questo «pieno di merito» la locuzione significativa usata dal filosofo tedesco, quel «merito» la poesia odierna lo svela come un «demerito», un minus habens un minus di essere.

L’umanità estraniata esternata dalla poesia di oggi è una umanità in minore, che si occupa di inezie, di dettagli insignificanti, trascurabili, inessenziali, minimi, che preferisce il Non è di Guido Galdini, che predilige il principio di dis-piacere, che opta per la libertà del desiderio di contro alla illibertà del principio di realtà, per una poiesis non più rappresentativa e non remunerativa. La poetry kitchen opta per il pensiero negativo, per la negazione radicale. L’umanità estraniata di oggi non sa di vivere in minore, in omicron, e non è neanche più capace di uscire fuori da questo stato di minorità,  non sospetta neanche di essere condannata alla minoritarietà della storialità. Ed è questo morire indefinitamente tra sovranismo, populismo e personalismo che la poesia di oggi ha il dovere di cogliere. Il motto di Hölderlin andrebbe derisoriamente riformulato così: «Pieno di demerito e impoeticamente abita l’uomo su questa terra».

La dizione «poesia da frigobar», impiegata da Marie Laure Colasson è da intendere in accezione positiva, contrassegna la poesia odierna, oggi la poesia più evoluta «è scritta con un linguaggio aggiornatissimo, cioè da frigidaire con parole necessariamente conservate al freddo». Condivido la tesi della Colasson, oggi lo scetticismo integrale affiancato da una robusta dose di fantasmi e di icone, avatar, sosia etc. è la forma-poesia per eccellenza dei nostri tempi infetti dal virus del panlogismo, del populismo, del sovranismo e del Covid19; la crisi climatica è la crisi del pianeta Terra, del capitalismo mondiale, crisi dell’Antropocene che accomuna Occidente ed Oriente, Nord e Sud. La crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie. E la poesia? Penso che la poesia abbia l’obbligo di riformulare la forma-poesia per derubricare i suoi parametri fideistici.

(g.l.)

1 M. Heidegger, …“poeticamente abita l’uomo”… , in Saggi e discorsi, cit., p. 125

Mimmo Pugliese

Il coseno

Il coseno delle autostrade
che farcisce gli occhiali
resta fuori dalle buste della spesa
allo stesso modo dei capelli rossi
del collo di pelliccia
della neve di cartone
dimenticata nel cassetto
delle smilze scale mobili
battezzate con fieno acrilico
gòcciolano i mattoni
sui libri di geografia
Londra è lontana
arrampicata sui tronchi delle sequoie
dall’umore di mosto cotto
sul diario di bordo c’è scritto
che la prossima stella polare
avrà la targa con numeri romani
nella giungla dietro casa
gemelli siamesi traducono
il linguaggio dei passeri
non sfugge
all’occhio attento dell’oracolo
la differenza tra la tattica
ed il posizionamento dei terrazzi
all’ora del ditirambo

Guido Galdini

seguite ora le istruzioni
per il compimento dell’opera
prendete un foglio di sufficiente lunghezza
e copiate con disciplina queste frasi
appendetelo alla parete più opportuna
aggiungendovi, in basso (è facoltativo)
sull’esempio di René Magritte

questa non è una poesia

Mauro Pierno

Azzardo una visione poetica in franchigia. La forma esatta è un montaggio, un compostaggio di eventi- forma. La differenza tra kitchen poetry e realismo terminale sta nella commercializzazione di una idea. Davvero grandi differenze tra un verso di Oldani e di Bjelosêvic non le trovo.

Andando indietro tutto quello che era lontano
diventa più vicino e caro
(Il ritorno in avanti, P. Bjelosêvic)

ne godo che mi ammirino i vicini,
non sanno i fiori sono artificiali. (Esistere, G. Oldani).

La gratuità della ricerca NOE sta nell’ingranaggio
ormai inceppato delle poetiche. Appunto la ricerca trascende qualsiasi significato, si emancipa dalla stessa passione politica, Persegue l’errore.

Potrà solo mettere note esplicative alle allucinazioni.
Curare le ferite dell’ incomprensione con punti esclamativi (F.P. Intini)

Il Signor K. allarmato, ha esternato:
«Lasciamo almeno aperta una finestra, una possibilità esegetica.
Entriamo dalla porta di servizio!». (G. Linguaglossa)

E’ un primo binario per una futura composizione kitchen.(Rago)

Non continuiamo noi ad usarlo per dire qualcosa d’altro, in una situazione differente?». (M.L. Colasson)

Raffaele Ciccarone

Set 1

Adalgisa senza ombrello
incontra una pioggia
vestita d’argento fuligginoso
il cappello a punta nero
montava piume di struzzo
omaggio del suo pappagallo

Set 2

per abbandonare Alcatraz
Dedalo mette a punto
il volo verticale
Minosse ne è adirato
per il suo drone sparito

Set 3


gli era difficile trattenere
il taglio delle mezze lune
il sauro montato da Holden
saltava senza posa
il ritmo market movers
gli permetteva di schivarle tutte


la pipa di Simenon
sfarfalla banchi di fumo
Toulouse Lautrec cena
con sua bella al ristorante
Modigliani allunga
il collo al suo ritratto

.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018)
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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.
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Raffaele Ciccarone, nasce a Bitonto (Bari) il 10 Ottobre del 1950, dopo la laurea in Economia e Commercio a Bari, si trasferisce a Milano per lavorare in una grande banca, attualmente è in pensione. Si occupa di pittura e ha scritto poesie e racconti alcuni pubblicati su piattaforma di scrittura on line, con uno pseudonimo. Ha partecipato a gruppi di poesia di Milano e non ha mai pubblicato.

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Dallo sperimentalismo di Antonio Porta degli anni sessanta alla poetry kitchen sono passati settanta anni e il quadro epocale appare radicalmente cambiato: dall’azzeramento del significante alla dismissione della tradizione del Novecento, Poesia kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Compostaggio, Confesso, l’ho ucciso tirandogli dietro un ombrello, La poesia da salotto televisivo che non osa nulla

È opportuno fare un passo indietro rispetto alla poetry kitchen per ripensare ad uno dei tentativi più interessanti degli anni sessanta però attinti da insuccesso raggiunti dalla poesia italiana sperimentale: la poesia di Antonio Porta del 1961.

Nel fare poesia Antonio Porta racconta quando, dopo avere assistito ad una serata di pubbliche letture, durante la quale lo stesso autore milanese aveva declamato alcuni suoi recenti componimenti, Pier Paolo Pasolini gli si fosse avvicinato e gli avesse confidato con sicurezza un primo, istintivo giudizio negativo sul tono e sul modo dei versi appena uditi «La sua poesia non ha niente a che vedere con quella dei Novissimi» (1961).1

dalla raccolta Cara di Antonio Porta del 1969. Leggiamo alcune composizioni tratte da Il sasso appeso (1960)

Azzannano le mani chiedono dei figli
Si chinano sulle bocche leccano le dita
Iniettano cemento incidono tumori
Battono sull’accento li spingono tutti dentro
Vuotano gli intestini scuotono le orecchie
Accumulano le lenzuola trascinano per le braccia
Aprono la posta escono in pattuglia
Seguono i richiami calcano la polvere…

*
II.

Dentro le sue cornici non svelle
Quell’armadio non lo apre
Se questo è l’armadio si domanda
L’orologio fa il rumore della polvere
Non lo trova spostando le lancette
Lentamente scoprendosi le braccia
Come si fora buttandosi dall’alto

Rinchiusi nelle pellicce uscendo
Nel principio della corsa correndo
C’è dentro quella nuvola di tarme
Distintamente fa il rumore

Lo si può sentire sotto i tacchi suona
Uscendo le lancette tra le labbra
Gli occhi di porcellana sul punto di staccarli

Il commento di Renato Barilli, adotta la formula della poesia come «mini-happening»:

«ogni suo verso, appunto, afferra oggetti, solleva pesi, mette in moto cellule embrionali di azione (…) In un certo senso, è come se il nostro autore volesse bruciare gli intervalli discorsivi, le mediazioni rappresentative, per passare a una presentazione. Le cose, o meglio le azioni che le sollevano, sono già lì, fin dal primo momento. La sua è davvero una poesia In re».2

Un linguaggio che Fausto Curi definisce «radicalmente intransitivo, dunque non fungibile»,3 una sorta di riduzione oggettuale del linguaggio votato esclusivamente alla autoreferenzialità, allo statuto opaco tendente a minimizzare e azzerare la distanza che intercorre tra il linguaggio e le res. Porta arriva al nocciolo duro del reale, quella cosa che resiste ad ogni connotazione linguistica, che costringe il linguaggio ad una condizione opaca, resiliente e dunque asemantica, al suo statuto meramente ed eminentemente materico. Dove è evidente che arrivato a questa posizione Porta giunga ad un passo dal vicolo cieco costituito dalla sua concezione materica del linguaggio poetico.
L’impasse di Porta conduce il linguaggio poetico alla sua autonomia e alla tautologia nomenclatoria, ad un mero gioco combinatorio, ad una perenne tautologia, alla incapacità del linguaggio poetico a connotare altro che una tautologia del tutto auto referenziale. Porta accudisce un procedimento ad incastro dal quale sono espunti gli incipit, i preamboli, le protasi in quanto il testo si presenta come una perpetuazione di espedienti linguistici costruiti per giustapposizione asindetica e paratattica, per agglutinazione di sintagmi asemantici, tonalmente opachi, per stratificazioni polisillabiche asemantiche ma tutto ciò all’interno della autonomizzazione del linguaggio che diventa auto sufficiente in quanto catena di significanti asemantizzati. Sarà Zanzotto che nel 1968 con Dietro il paesaggio formulerà una poesia che punterà sulla piena adozione del significante, sanzionando la signoria indiscussa del significante, in un certo senso ribaltando l’impasse cui era giunto Antonio Porta. Il poeta milanese pensa secondo la logica della divaricazione tra significante e significato tutta all’interno della tradizione della metafisica occidentale, con il significato subordinato al significante, il solo, quest’ultimo, in grado di accedere al significato e quindi con il significante individuato quale bersaglio di una logica decostruttiva di azzeramento del significante; ma questo modo di pensare, tipico dello sperimentalismo delle post-avanguardie, condurrà Porta in un vicolo cieco, a puntare tutto sull’azzeramento del significante.

da La palpebra rovesciata del 1960, composizioni confluite nella antologia de I Novissimi
1.
Il naso si sfalda per divenire saliva il labbro
alzandosi sopra i denti liquefa la curva masticata
con le radici spugnose sulla guancia mordono
la ragnatela venosa, nel tendersi incrina ma mascella,
lo zigomo s’impunta e preme nella tensione dell’occhio
contratto nell’orbita del nervo fino alla gola
percorsa nel groviglio delle voci dal battito incessante

2.
Il succo delle radici striscia lentamente su per le vene
raggiungendo le foglie fa agitare, con la scorza che gonfia
cresce la polpa del legno, dilata le sue fibre cariche di umore
con gli anelli che annerano pietrificati e un taglio
netto guizza su un tronco maturo come colpito dalla scure

3.
I bruchi attaccano le foglie premono col muso
a rodere l’orlo vegetale mordono le vene dure
e lo scheletro resiste. Sbavano il tronco, deviano,
scricchiola la fibra meno tenera, a ingurgitare il verde
inarcano le schiene bianche, l’occhio fissato sull’incavo,
fan piombare gli escrementi giù dai rami, si gonfiano,
riposano sullo scheletro sgusciato, distesi sul vuoto masticato.

4.
Le fibre della tela distesa lugo i vetri sulla strada
rigata da molecole di nafta lentamente calano
e inguainano il ferro e il legno , roteano sul soffio dell’aria
caldo gonfiano la molle superficie, graffia e lacera la trama,
i fili si torcono e il foro si spalanca, nello squarcio
condensa viscido molecolare e i vetri aderiscono al cancro della tela

Non ci potrebbe essere distanza maggiore tra la poetry kitchen e questa procedura, tipica dello sperimentalismo anni sessanta, preoccupata di disseminare delle mine dietro di sé ad ogni passo in avanti, un tentativo che ruota intorno a un cul de sac: intorno ad un impossibile significante asemantizzato, un utopistico azzeramento del significante. La poetry kitchen esperisce l’indicibile condizione del senza fondo e del senza origine, la pre-condizione di possibilità di ogni condizione di possibilità linguistica, il divenir-tempo dello spazio e il divenir-spazio del tempo, la costituzione non originaria del tempo e dello spazio, la commistione di disparati linguaggi in quanto è nella commistione e nella trasmutazione dei linguaggi che soltanto il linguaggio poetico può sopravvivere. Continua a leggere

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Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Dialogo della Redazione con Giorgio Linguaglossa: La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis? La riforma della Forma-Poesia ereditata da Satura (1971) di Montale?, Risponde Giorgio Linguaglossa: Il giudizio estetico è un atto accusatorio, una sorta di ontologia applicata: non si dà alcuna «bellezza», né alcuna «certezza» nella poiesis

Francesco Paolo Intini

VENERE O MOLTO MENO

La faccia dell’idrogeno è scura. Dà brividi il ciano.
Il bambino nato nel letto sbagliato piange per tutto il giorno.

Una lanterna mangia insalata di carne
Ma non s’accorge della stella nana nel soggiorno.

Venere conferma la sua identità con un green pass
Tutti liberi i quark in cambio di un rossetto all’aragosta.

Calde entità dell’Ade invadono i tuoi occhi
Lasciando libero lo spazio tra i canini.

Lo schermo è a posto. Perché dici universo
Se si tratta di un cartellone?

Da qui è scappata persino la donna delle calze a rete
E gli angoli tristi diventano punti luce senza ritegno.

Vietata la crema da barba ci si rade alla carte,
nessuno ricorda dove è la taverna dei granchi.

S’accende la dea all’aprirsi della Borsa
Fa un tuffo e nella fodera allatta un cent.

Dal fiore di scarafaggio, cola mercurio
sulle vie di Bari.

Per frittura mista s’intende il Sud,
Giusto per somigliare a una stella del girarrosto.

Oh paura, mater generatrice d’ universi
Spasmo di parto che dissolvi cosa?.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione. 

Mauro Pierno

Altra cosa la morte
dal discorso sulla morte e oggi

Un’anima abita
e custodisce il bosco.

a pochi millimetri
dal nostro presepe

Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?

il fendente che non prende
la colla essiccata

Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?

Compostaggio

Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores

Ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana

Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno

Come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct

Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo

Nell’orma del piede
giace un dinosauro

C’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”

E cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.

Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
di appendere pipe

Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.

La verità della creazione ha uno sbuffo,un tuffo
senza sigillo

Una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti

Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo.

Ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca

.

(compostaggio di versi di Guido Galdini, Raffaele Ciccarone, Gino rago, Ewa Lipska, Tiziana Antonilli, Francesco Paolo Intini, mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mario Gabriele, Duska Vrhovac, Lucio Mayoor Tosi, Luciano Nanni)

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”

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Poetry kitchen di Marie Laure Colasson

Dialogo con Giorgio Linguaglossa

La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis?

Domanda: Secondo Agamben il giudizio estetico come viene teorizzato da Kant (e che sta alla base della nostra nozione di estetica) è una sorta di “teologia negativa”, che fonda la bellezza sul negativo: piacere senza interesse, universalità senza concetto, finalità senza fine, e normalità senza norma. Ciò determina l’arte a partire da quello che essa non è. La conseguenza è che il giudizio estetico fa della non-arte il contenuto dell’arte.

Risposta: Il giudizio estetico è una sorta di ontologia applicata: non si dà alcuna «bellezza» né alcuna «certezza» nella poiesis. La poesia è un enigma che non può essere sciolto da un atto padronale dell’ermeneutica, mettiamo fine a questa vulgata buona per adescare i normologi. Il giudizio estetico deriva dal primordiale atto accusatorio, rimanda in origine alla pubblica accusa, vuole interdire ed escludere. L’atto della poiesis come noi l’intendiamo esprime una singolarità che non ha alcun interesse verso l’interesse, alcun concetto se non verso il fuori-concetto, alcun significato se non verso il fuori-significato e il fuori-senso. Il giudizio estetico come verdetto che pende sulla poiesis è una categoria poliziesca che respingo con decisione.

Domanda: La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis?

Risposta: La crisi della poiesis pone alla medesima l’assunzione come “propria” della crisi stessa.

Domanda: Ritieni che sia giunto il momento di dichiarare a chiare lettere l’esigenza di una rottura con la tradizionale forma-poesia del recente minimalismo europeo e italiano?

Risposta: Giunti al punto in cui è giunta oggi la poesia maggioritaria, ritengo che una semplice Riforma della forma-poesia maggioritaria, ovvero, il minimalismo romano-lombardo, sia del tutto insufficiente. Quello che c’è da fare è una drastica dis-missione della tradizione del secondo Novecento, ovvero, quell’area che va dalla Antologia di Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975) ai giorni nostri. Una vera riforma linguistica e stilistica della poesia italiana comporta la «dis-missione» del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di «dis-missione» determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica per chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di ostilità. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica di oggi, una «dis-missione» è non solo auspicabile ma necessaria.

Il mio libro monografico sulla poesia di Alfredo de Palchi si situa in questa linea di pensiero: la necessità di aprire dei varchi nelle commessure degli studi accademici sulla poesia del secondo Novecento, correggere le macroscopiche omissioni e, fatto ancor più grave, le distorsioni dei valori poetici del secondo Novecento, indicare che è possibile e auspicabile individuare un diverso Novecento. Occorre un po’ di coraggio intellettuale.

Domanda: Tu parli di «dis-missione» della poesia italiana così come si è costituita dagli anni Settanta ad oggi, ne prendo atto. È un compito arduo quello di riscrivere la storia della poesia italiana del secondo Novecento, da Satura (1971) di Montale fino ai giorni nostri, non credi? Ritieni che i tempi siano maturi?

Risposta: Scrivevo in un post del 13 ottobre 2015:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18847

Invito alla Rilettura del secondo ‘900 poetico Continua a leggere

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“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”, Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, Poesie Kitchen di Mimmo Pugliese, Guido Galdini, Francesco Paolo Intini, Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Mario M. Gabriele

In questo appassionato monitoraggio della poesia italiana dell’epoca della stagnazione Linguaglossa ci dà il meglio delle sue capacità critiche (nota dell’Editore, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 pp. 150 € 12)

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«“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile. Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”».

Mario M. Gabriele

Oggi c’è l’estetica della instant poetry, ed è un bene conoscerla nelle varie esternazioni, brevissime sì, ma sempre collaudate, mai cocci del pensiero, ma pezzi da 90 con i testi poetici riportati. È sorprendente come la poesia di Linguaglossa, qui riportata, superi vari check-in e vada avanti per superstrade a scorrimento veloce. È cambiato tutto: linguaggio, stile, con vari personaggi, alcuni provenienti dal mondo del cinema, come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct, il tutto intervallato da immissioni lessicali in inglese e il quadro, a questo punto, può andare in pinacoteca.

Lucio Mayoor Tosi

Quando scrivo instant poetry non ho mai l’impressione di scrivere una poesia.
A volte torno a scrivere poesie che posso riconoscere come kitchen; aggiungo versi su versi, ma a quel punto non è più l’istante, e non può nemmeno dirsi tempo… o è il tempo di una esibizione, valutabile in qualità, bellezza e riuscita.
Quando scrivo instant poetry non ho mai l’impressione di scrivere una poesia.
Ho provato a pubblicare un verso “Instant” su Fb, più che altro una provocazione. Le diverse reazioni espresse nei commenti mi hanno fatto capire che un verso di poesia non lo si può commentare: sta su un altro piano del linguaggio. E che nel linguaggio, se opportunamente valorizzato, un verso (frammento) ha potenzialità insondabili. Si crea un conflitto tra linguaggi, anche in caso fossero tra loro similari.
Questo è forse anche il senso della poesia, la sua difficoltà a collocarsi nel mondo.

  • Perché scrivere ancora poesie?
    Non si può dire in altro modo?

Marie Laure Colasson

caro Lucio,

io sono molto più pessimista di te, penso che dovremmo tacere tutti per almeno 10 + 10 anni = 20 anni e forse ne rimarrebbero 80 da aggiungere ai venti: in tutto facciamo 100 anni.
Perché ormai il linguaggio della poesia non ha più nulla da dire, tantomeno il linguaggio dell’anima solitaria che sta in giardino a bere il the.
Il fatto di non avere nulla più da dire ci consegna delle perle di linguaggio, un linguaggio infungibile che non può essere trafugato né utilizzato o impiegato per edificare alcuna cosa. Questo è il linguaggio poetico kitchen dei nostri giorni, i linguaggi del lontano novecentismo sono linguaggi ad obsolescenza prescritta, caduti in prescrizione.

Mimmo Pugliese

F I N E

La luna raccoglie papaveri
in fondo allo stagno di sassi
quegli uomini erano stati soldati

Falene ubriache
sfondano specchi di ghiaccio
la strada è un rettangolo

La scuola turchese
è avvitata con chiodi di prugna
hanno scambiato l’ordine dei materassi

L’acqua ha una ruga in più
dalla cruna degli aghi
si intravede Kabul

Rocce arroventate
albe colpite alla schiena
dalle ali degli aerei

Il maniscalco parla al contrario
ha il becco dell’aquila
per cappello un mappamondo

Seduto sul divano uno spartito
sparpaglia tutt’intorno carte napoletane
l’utente è impegnato in un’altra conversazione…

Fine

ALLE SPALLE

Alle spalle della luce
una bocca si infuoca

Un secolo fa oggi
era un aereoplano la mano

Un orecchio sorrideva
al mandorlo e all’ippogrifo

Solleva un macigno
l’occhio davanti al mare

l’algoritmo di domani
è il binario del mento

La fronte porta lontano
fin dove cresce l’erba superba

Il fragile profilo francese
si riconosce in un vassoio azteco

Fucile che non sparerà mai
è il ginocchio divelto della collina

Si ferma al gomito
la sete dello gnomo

Nell’orma del piede
giace un dinosauro

Giorgio Linguaglossa

La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità.
La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.

Guido Galdini

Non abbiamo più niente da dire.
Ci è rimasto da dire solo il niente.
Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.

Francesco Paolo Intini

HIROO! QUEST’È

Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
Di appendere pipe.

Fumare è una passione in tempi di Luna sorella.
Ottobre passò con le ciminiere appassite

Giurò di impastare un Lenin al secondo
Se non avesse visto la Tabella sul senecio.

Prometeo scostò le tendine del salotto
E fece un esperimento di entanglement

Le madame si arrabbiarono quando videro
Il diamante bruciare in Paradiso.

Sarebbe riapparso a fine corsa:
Amore di mamma su katana.

Una cardo vantò l’offerta formativa di una rosa
La questione finì davanti a una bella di notte

Solo perché da una tubetto di smeraldo
Spuntò il soldato Oneda, baionetta e ramarro.

Un gioiello riappare sempre dal lato kitsch
Talvolta il vestito appende il volto blu

Carbonio o Plutonio?

Quello vero ha barba e occhiali ma vota PCI
e lo fa ogni giorno e lo fa ogni volta che ha una donna

Ma il tema sopravvive all’inganno.
E l’imperatrice?

Un haiku al giorno:
chi vinse la pandemia?
Hirohito Yeah!

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Frasi in gif da una poesia di Mauro Pierno

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La scena della “doccia” in “Psyco” di Hitchcock – girata con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio – esprime bene quanto sia complesso il modo di riprodurre un oggetto da una pluralità di sfaccettature o punti di vista, Omega, Poesie kitchen di Giorgio Linguaglossa da Distretto privato n. 18, Mauro Pierno, Gino Rago, Instant poetry di Lucio Mayoor Tosi, Il montaggio occupa un ruolo fondamentale per la nuova fenomenologia del poetico Poetry kitchen

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

Lucio Mayoor Tosi, Composizione in ambiente bianco – il termine «verità» risulta essere un’errata traduzione del concetto greco di aletheia, l’espressione si compone del suffisso privativo – α seguito dal termine lethe, che in greco antico significa “ombra”, “oblio”, “oscurità”, “dimenticanza”. In origine, quindi, la parola aletheia sta ad indicare il non-nascondimento, il venire via dall’ombra, ciò che è celato, ciò che è privo di ombra, e quindi interamente esposto alla luce.

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Giorgio Linguaglossa
inedito da Distretto privato n. 18

La scena della “doccia” in “Psyco” di Hitchcock – girata con 78 differenti posizioni della macchina da presa e 52 tagli di montaggio – esprime bene quanto sia complesso il modo di riprodurre un oggetto da una pluralità di sfaccettature o punti di vista.
Analogo discorso in poesia. Il montaggio occupa un ruolo fondamentale per la nuova fenomenologia del poetico Poetry kitchen. Quanti tagli e quanti differenti posizioni della macchina da presa sono necessari per raffigurare una scena? Ecco una mia poesia di dieci anni fa, costruita da un numero molto alto di posizioni della macchina da presa (l’occhio) e di «tagli» del montaggio.


Omega

[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,

corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.

A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.

[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.

[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.

Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.

[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.

Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».

Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.

(2011)

Alle prime stesure della prima strofa di questa poesia (composta nel 2011, ben prima della nascita delle Poetry kitchen) mi saltava agli occhi che essa non era stata scritta con tutti quei punti a mo’ di spezzatino, ma era scritta come un’onda unica fonica e sintattica, alla maniera della ontologia estetica novecentesca. E la cosa non mi piaceva affatto, mi lasciava insoddisfatto. In seguito, nel corso degli ultimi anni ho iniziato a segmentare il testo con dei punti, togliendo i verbi e gli aggettivi (che confondevano e ostacolavano a mio vedere il colpo d’occhio della lettura). La stesura in distici è stata l’ultimissima e decisiva modifica che ho apportato al testo.

La poesia è stata costruita in feroce inimicizia con il «suono», con la poesia fonologica e sonora della tradizione italiana che va da Pascoli e D’Annunzio a Franco Fortini di Composita solvantur (1994). Quello che è avvenuto dopo l’ultimo libro di Fortini nella poesia italiana non lo ritengo, da questo punto di vista, decisivo… con l’eccezione di Stige di Maria Rosaria Madonna [1992 e adesso in Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018, pp. 148 € 12], la quale opera uno strappo vistosissimo con la poesia della tradizione novecentesca in senso lato frantumando il verso e il metro, riducendoli ad ossi di seppia.

La poesia – dicevo – è stata costruita nell’ambito della nuova concezione estetica della «nuova ontologia estetica» ma circa dieci anni prima della poetry kitchen. Mi rendo benissimo conto che ad un orecchio abituato ed educato alla «vecchia ontologia estetica» la poesia possa sembrare brutta e cacofonica. Anzi, il fatto che venga recepita così mi convince sempre di più che mi trovo (ci troviamo) sulla strada giusta, la strada del rinnovamento di una stagnazione della prassi poetica che si è protratta per più di 50 anni. Innanzitutto, nel mio testo, la fonologia, il suono ha perso la sua centralità, anzi, è stata relegata in ultima posizione. Il suono complessivo delle parole, la Stimmung non è data dal suono del significante ma dal cozzo acustico della fonemica e dal cozzo dei significati.

Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con un «vuoto»… e questo è evidentissimo se rileggiamo per esempio le poesie kitchen di Mauro Pierno, Alfonso Cataldi e di altri. È avvenuta una rivoluzione, e non ce ne siamo accorti. Chi non la vede è perché non ha occhi e orecchi per avvedersene.

Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso», afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:

«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari

impiego una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della «nuova ontologia estetica». Leggiamo cosa dice un maestro della teoria del linguaggio, Ferdinand de Sassure:

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«Le sillabe che si articolano sono impressioni acustiche percepite dall’orecchio, ma i suoni non esisterebbero senza gli organi vocali; così una “n” esiste solo per la corrispondenza dei due aspetti. Non è dunque possibile ridurre la lingua al suono, né distaccare il suono dall’articolazione boccale; reciprocamente, i movimenti degli organi vocali non sono definibili se si fa astrazione dall’impressione acustica.
Ma ammettiamo anche che il suono sia una cosa semplice: è forse il suono che fa il linguaggio? No, il suono è soltanto uno strumento del pensiero e non esiste per se stesso. Sorge qui una nuova corrispondenza piena di pericoli: il suono, unità complessa acustico-vocale, forma a sua volta con l’idea una unità complessa, fisiologica e mentale. E non è ancora tutto.
Il linguaggio ha un lato individuale e un lato sociale, e non si può concepire l’uno senza l’altro.
Inoltre, in ogni istante il linguaggio implica sia un sistema stabile sia una evoluzione; in ogni momento è una istituzione attuale ed un prodotto del passato.
[…]
Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale… La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».1

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Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso»1 afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Ad esempio, quando io scrivo: «Questo è il posto del Re», dice il Re di denari, utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione intermediaria del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della nuova ontologia estetica. Continua a leggere

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Il linguaggio poetico kitchen mina l’intenzione soggettiva, de-stabilizza il «luogo del soggetto», la poesia kitchen segue il segno fin dove esso marca l’esplosione del linguaggio verso l’altro da sé, la sua apertura. Questa esplosione è il proprio della pratica kitchen, mostra l’assurdo, il fuori-luogo del «dire», Poesie di Mauro Pierno, Mimmo Pugliese, Tiziana Antonilli

Foto Alvaro Siza (Museo d'Arte Donnaregina Napoli

foto Alvaro Siza, Museo Donnaregina Napoli

Giorgio Linguaglossa

Il Cambio di Paradigma

Scrive Emilia Margoni su “Doppiozero” recensendo l’ultimo libro di Carlo Rovelli, Relatività generale (Adelphi 2021):

«La grande rivoluzione avviata da Albert Einstein si basa su un principio analogico tutto sommato semplice: come nel caso dell’elettromagnetismo, così la gravità è descritta da una teoria di campo. Detto altrimenti, come il concetto di forza elettromagnetica viene superato da quello di campo elettromagnetico, così il concetto di gravità viene superato da quello di campo gravitazionale. Per chiarire il punto in poche e semplici parole, mentre la fisica che precedeva la nozione di campo articolava il proprio oggetto di studi in termini di interazione tra forze che agiscono a distanza, il campo riconcettualizza la forza in termini di proprietà fisiche assegnate a ciascun punto dello spazio.
Non ci sono più quindi corpi che cambiano le reciproche posizioni in ragione della loro mutua interazione, ma un’entità fisica reale diffusa, pensabile appunto proprio come un campo costellato di proprietà. Applicata alle nozioni di spazio e di tempo, una simile rivoluzione concettuale ha fatto strame di intuizioni che si erano sedimentate nel corso dei secoli e in particolare l’idea che lo spazio e il tempo siano entità assolute entro cui le forze interagiscono tra loro. Nella teoria della relatività non c’è un tempo assoluto, quale parametro universale in grado di individuare eventi simultanei che prendono corpo in una sorta di ampio contenitore definito spazio. L’intuizione di Einstein, che determinò quell’effetto a domino ancor oggi gravido di tante innovazioni scientifiche e tecnologiche, è che spazio e tempo sono il campo gravitazionale, che determina la velocità a cui ticchetta un orologio o la distanza che separa due estremità.»*

L’intuizione di Carlo Rovelli, un vero e proprio cambio di paradigma della relatività generale di Einstein, potrebbe essere applicata alla poesia sostituendo il concetto di forza semantica del linguaggio con quello di «campo sistemico semantico del linguaggio», con il che possiamo pensare al linguaggio poetico alla stregua di un sistema-linguaggio gravitazionale all’interno del quale non c’è il soggetto parlante (la phoné) come soggetto assoluto ma un «campo linguistico» (la phoné) nel cui interno la forza del linguaggio varia a seconda del punto nel quale si abita il linguaggio. Il linguaggio cessa così di essere pensato come un contenitore di forze per essere pensato come un «campo costellato di proprietà, di possibilità».

Il principio di ragion sufficiente di Leibniz si basa su questo tipico ragionamento: che non c’è fatto o entità reali che non possano ricondursi a una causa per cui essi sono quel che sono e non altrimenti. Alla base della fisica c’è quel rapporto di causa-effetto che, di contro agli esiti della relatività, ripropone il tempo come fondamentale, dato che esso altro non è che la catena lineare di cause ed effetti che ordina la struttura degli eventi secondo un prima e un dopo. È ovvio che la teoria del «campo costellato di proprietà, di possibilità» è un qualcosa che non contempla il «tempo» quale elemento fondamentale di un certo modello teorico, il «tempo» nel nuovo concetto di «campo» non è più necessario e dunque va semplicemente abolito. Per lo stesso motivo va riconsiderato anche il concetto di «spazio». Per Lee Smolin, nella struttura di fondo dell’universo, gli eventi sono legati da un ordine lineare di causalità, ma non occupano una posizione nello spazio, né quindi sono ordinati secondo rapporti di prossimità o di distanza spaziale. La prossimità tra eventi, pertanto, non è da intendersi in termini spaziali; all’opposto, possono dirsi prossimi quegli eventi che possiedono un numero ampio di proprietà in comune, ragione per cui si può dire che due eventi sono uno stesso evento quando possiedono le medesime proprietà in comune.

https://www.doppiozero.com/materiali/la-relativita-generale-secondo-carlo-rovelli

Mauro Pierno

Hai tratto delle strane conseguenze. Fin troppo ammorbidente nelle proiezioni, nei panni sporchi.

Stasera del resto resti immobile. E di Milaure la concezione immacolata ha la crema chantilly.

La porporina Covid ha soppiantato la lotta di classe,
la scala mobile e tutte le torte Sacher.

Eppure dopo il terzo tentativo la sorpresa divenne un placebo da undici settembre. Milaure,

tu si che sapresti cosa dire, cosa fare e a che ora spegnere, col tentativo estremo, le parole.

Marie Laure Colasson

Esplorare la potenza del linguaggio, i suoi enunciati, le sue espressioni vuol dire indagarne il potere propriamente in-significazionale. L’assioma secondo il quale compito del discorso poetico è la sua capacità portarci vicini alle cose, all’essere stesso si rivela un inganno, un effetto ottico del soggetto che indossa gli occhiali della intenzione significante. È proprio questo il punto. Infatti, il linguaggio poetico kitchen mina l’intenzione soggettiva, de-stabilizza il «luogo del soggetto»; la poesia kitchen segue il segno fin dove esso marca l’esplosione del linguaggio verso l’altro da sé, la sua apertura. Questa esplosione è il proprio della pratica kitchen, mostra l’assurdo, il fuori-luogo del «dire». Il luogo di questa esplosione è appunto il discorso poetico kitchen, lì infatti il linguaggio sfugge sempre a sé stesso e ci sfugge, e tuttavia è anche il luogo dove viene a sé stesso, il luogo dove il linguaggio mostra la sua incomprensibilità e la potenza del dire, mostra di dover tacere davanti a ciò che dice e di dover continuare a dire. La funzione ontologica del linguaggio originata dalla intenzione significante del soggetto, è questa assiomatica che la poesia kitchen deve ad ogni costo smobilitare e de-pauperare, è proprio l’intenzione significante che deve essere annichilita, altrimenti si ricade indietro nel «luogo del soggetto» e delle sue perifrasi, dei suoi enunciati sibillini.

«Il discorso poetico del prossimo futuro dovrà passare necessariamente attraverso la cruna dell’ago della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento».*

Mi sembra che la conclusione dello scritto di Linguaglossa che risale al 2013 sia molto preciso, indica con acuta consapevolezza che la poesia “del prossimo futuro” dovrà essere diversa. Mi sembra anche ovvio pensare che la poesia di prima del Covid19 e quella del dopo il Covid19 dovrà essere molto diversa, il mondo è cambiato, è entrato in crisi il neoliberalismo che ha dominato in Occidente ed è entrato in crisi il turbocapitalismo che di quel neoliberalismo ne è stato la messa in pratica. Da questa crisi se ne uscirà, forse, ma se ne uscirà soltanto con la consapevolezza che la poiesis di prima il Covid19 dovrà essere abbandonata.
Il mondo sta cambiando, anzi, è già cambiato. Chi non se ne è ancora accorto sono i piccoli letterati che continuano a scrivere come trenta e quaranta anni prima del Covid19.

* da Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013.

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La tradizione aveva di vista il «senso» e il «significato», un macchinario infernale che spegneva ogni surplus di significazione. Quella tradizione è pleonastica, inficiata da ideologemi: il quotidiano, lo sperimentalismo, il panlogismo, l’orfismo, Noi abitiamo una scatola vuota con all’interno il vuoto, all’interno di questo vuoto c’è un altro vuoto, e così via… nominare il nulla o il vuoto non è affare di poca contezza, Poesie kitchen di Marie Laure Colasson, Mario M. Gabriele, Pastello a cera su carta di Jacopo Ricciardi, La poetry kitchen (con le sue varianti instant e kitsch) ha dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali, di dittature sanitarie, di autovelox, di no vax, no tax, no fax, no trav

Jacopo Ricciardi, Io=orizzonte 3 (piccolo), pastelli a cera su carta, 33x21 cm, 2014

Jacopo Ricciardi, orizzonte 3, pastelli a cera su carta

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Mario M. Gabriele

Si parla spesso in questo post dell’uso [https://lombradelleparole.wordpress.com/2021/08/08/kitsch-poetry-n-3-di-giorgio-linguaglossa-termopolio-kitsch-compostaggio-kitsch-di-mauro-pierno-remix-e-mash-up-quando-appare-una-nuova-%cf%86%cf%89%ce%bd%ce%ae-phone-sorge-anche-un-nuovo/#comments] del frammento, non sempre assimilabile dai vari operatori, Questo perché la traccia archeologica della tradizione è un deposito calcareo ancora in uso, che non si toglie neppure con la candeggina.
Bisogna transitare verso altre direzioni, assimilandone i contenuti morfologici e strategici, diventando anche un esperto del linguaggio dei social-media. Qualcosa di questo genere l’ho trovata nei testi di Giorgio Linguaglossa.

Non è una provocazione, ma una inevitabile mutazione che il tempo e gli eventi richiedono per evitare colonialismi lessicali. Ogni forma nuova, adottata in questo modo, detronizza le precedenti lasciandole in archivio.

L’arte di oggi è una galleria incentrata su eventi sociali ed economici, e di altri casi ancora, esposti in pubblico con scelte che azzerano l’estetica attraverso la grafica murale e il vocabolario da website. Non a caso la mia ultima poesia, da pubblicare ancora su Altervista, è caratterizzata da versi di questo stile, che mi trovano in completa attitudine, aprendo pagine di storia privata e pubblica, che diversamente non saprei fare se non tornando alle narrazioni.

Marie Laure Colasson

caro Mario Gabriele,

tu pali di rielaborare, assimilare e comporre la «storia privata e pubblica» e il lessico mediatico – giustissimo; scrivi: «la traccia archeologica della tradizione è un deposito calcareo ancora in uso, che non si toglie neppure con la candeggina. Bisogna transitare verso altre direzioni, assimilandone i contenuti morfologici e strategici, diventando anche un esperto del linguaggio dei social-media».
La tradizione aveva di vista il «senso» e il «significato», un macchinario infernale che spegneva ogni surplus di significazione. Quella tradizione è pleonastica, inficiata da ideologemi: il quotidiano, lo sperimentalismo, il panlogismo, l’orfismo, la scrittura unitemporale e unidirezionale… se non per via negativa, annullandola, bisogna sciacquarla la tradizione con la candeggina e l’idrossiclorochina, occorre riconoscere la sua inanità, prendere cognizione che quel «senso» e quel «significato» erano una macchinazione di ideologemi, una perversione di ideologemi, una costruzione delle ideologie che hanno abitato il novecento e questi ultimi lustri postruisti. Quegli ideologemi sono finiti nella catarifrangenza della implosione del simbolico, vanno semplicemente disattivati, disoccupati e abbandonati nella loro interezza. Per abitare poeticamente il nostro mondo occorre disfarsi degli ideologemi dell’io panottico e panlogico.
Il fatto è che noi abitiamo una scatola vuota con all’interno il vuoto, all’interno di questo vuoto c’è un altro vuoto, e così via… nominare il nulla o il vuoto non è affare di poca contezza, lì dentro non c’è più quella cosa catarifrangente e catafratta che va sotto il nome di «io», il mondo non lo si capisce più se lo leggiamo dall’angolino dell’«io», va letto dal punto di vista del «vuoto». Ed ecco che il mondo, improvvisamente, si anima, si popola di tante cose che non immaginavamo. La poetry kitchen (con le sue varianti instant e kitsch) ha dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali, di dittature sanitarie, di autovelox digitali, di no vax e di no tax e di «io» digitalizzati che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce nella poetry kitchen è la sistematica dis-connessione di tutti gli ideologemi, la de-pressurizzazione semantica, la de-costruzione sintattica e metrica del suo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla e a nessuno, e lo fa con una fragranza asciutta, terribilmente ilare… Se qualcuno dirà: ma voi siete privi di utopia, privi di progetto, privi di contenuto! Rispondetegli così: È l’account del «vuoto» che noi abitiamo, sono i nuovi avatar ciò di cui narra la kitchen poetry… la poetry kitchen si fa da sola, a strati, con la panna e la crème caramel… così facendo e disfacendo si nomina il «vuoto» che è in noi, attorno a noi, in ogni luogo e in ogni tempo.

Marie Laure Colasson

n. 47, da Les choses de la vie di prossima pubblicazione. «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo».

47.

Rue de la Vieille Lanterne
Eredia assise sur le trottoir
au côté de Marcel Duchamp
ouvrent une boîte de pâté de canard
et regardent passer une roue de bicyclette

Que faites-vous ansi sur le trottoir?
demande l’ombre de la blanche geisha
voilée d’un burka couleur citron

Nous regardons les rayons du soleil
qui transpercent la cinétique d’une roue
sans rien comprendre c’est évident

Eredia je t’en supplie le désert des pensées
est une combustion sans étincelle
de l’indécent royaume de Facebook

Viens avec moi boire un panaché
pour écouter Frank Sinatra chanter “My Way”
chez “Zeyer” sur la place d’Alésia
avec mes amis Giacometti et Mohsen Makmalbaf

*

Via della Vieille Lanterne
Eredia seduta sul marciapiede
a fianco di Marcel Duchamp
aprono una scatola di pâté de canard
e guardano passare una ruota di bicicletta

Che fate così sul marciapiede?
chiede l’ombra della bianca geisha
velata sotto un burka color limone

Guardiamo i raggi del sole
che trafiggono la cinetica d’una ruota
senza capire niente è evidente

Eredia te ne prego il deserto dei pensieri
è una combustione senza scintilla
dell’indecente regno di Facebook

Vieni con me a bere uno spritzer
ad ascoltare Frank Sinatra che canta “My Way”
da “Zeyer” a piazza Alesia
con i miei amici Giacometti e Mohsen Makmalbaf

Francesco Paolo Intini

GIROTONDO QUASI OBLIQUO

Tutti intorno all’uomo nero.
Toh! Ecco un attimo di giornata,
trancio di tonno e chiusura lampo

è la mazurka di periferia…

E dunque la donzelletta vien dalla campagna.
Bella. Dolce e chiara la chioma di polpessa

E quest’è! Una lettera di presentazione.
Il curriculum di poeta o la chimica del Plutonio?

Hai fatto il master?
A cosa t’è servito il ginger?

Un Munch e due Van Gogh per penitenza
e dopo due molari un canino cariato.

Oppie apre un varco nella Bastiglia. Boletus Satana
senza riguardi per Cappuccetto Rosso.

Dov’è il lupo cattivo? E Gay-Lussac?

Einstein in porta. Filini tira al pioppino
Meglio se trifolato.
Meglio se occhialuto e palombaro.

Rimetti l’Artico al suo posto che poggio i piedi.
Ora sen va per l’Adriatico, un pied-à-terre il porto di Bari
Sbarcano Fantocci, saranno in mille, di sicuro a cento all’ora.

Nel blu dipinto di …fiu

Ulisse vide i proci mangiarsi gli archi
Cocca al dente e freccia del tempo.

Non c’è ordine a Itaca.
La punta si fa il giro del palazzo. Punge Polifemo
il sangue all’ occhio per un calcolo di millesimi.
La maggioranza al colesterolo.

Due o tre piume sollevano un coso ad Alamogordo.
Un Chianti un po’ più amaro in una botte.

Che colpa ha uno spaghetto scotto?
E l’elettrone rispetto al positrone?

“Il navigatore italiano è giunto nel nuovo mondo
E gli indigeni?

Ottima la pasta al dente.
Anche la melanzana è cotta e fritta. Continua a leggere

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La poetry kitchen ha una forza tellurica dirompente perché abita un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind un gioco di citazioni dei linguaggi, Poesia di Vincenzo Petronelli, Fragmenta historica, Compostaggio di Mauro Pierno, Pseudo limerick di Guido Galdini, instant poetry di Lucio Mayoor Tosi

Vincenzo Petronelli

Fragmenta historica

Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico.

Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.

“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.

Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”

“Who by fire? Who in the night time?”

Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.

Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

Lucio Mayoor Tosi

Prospettive invernali come in Utrillo.
Mancano dati sulle ballerine. Fotocopie sbiadite.

Ho registrato Il libro che mi avete chiesto.
Via camera. In definizione. Prego.

*

Respira due tre volte con coscienza.
Palpebre pesanti, occhi chiusi.

– Interno di antica costruzione. Ombre in controluce.
A muoversi è un gruppo di ballerini, in costume di plastica
o pelle blu, con brillantini.

*

Due filosofi mangiapreti (fermi al trauma
della prima comunione?), si dissero contenti
del cammino fin qui intrapreso.

Non capitava da anni, e nemmeno da giorni.

La poetry kitchen ha in sé una forza tellurica dirompente perché viene agita e agitata da un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind, un gioco di citazioni dei linguaggi del mondo delle emittenti linguistiche («lo stato di cose esistente» di Marx in versione linguistica) che intende sovvertire la lettura normologante di quel mondo. Una sorta di remix e mash up di linguaggi radiofonici, telefonici, privati e mediatici, di voci interne e di voci esterne, di interferenze, di entanglement. Smash and mash up, potremmo riepilogare. La poetry kitchen contiene in sé una carica di libertà, di vivacità e di sedizione veramente rivoluzionaria, incontenibile, imprevedibile; mi fa piacere leggere questa magnifica espressione di libertà, intendo la poesia di Vincenzo Petronelli e di Francesco Paolo Intini, ma anche i panegirici minimal di Guido Galdini e di Mauro Pierno che mettono all’asta il minimalismo svendendone e svelandone l’arcano: che chi cerca il minimal prima o poi finirà con il trovarlo accontentandosi del minimo. Ma noi non cerchiamo il minimo, semmai, il massimo telluricamente esperibile e compossibile.

La poetry kitchen è una struttura complessificata che vede la simultaneità di spazi e di tempi (reali e immaginari). C’è una corrispondenza biunivoca fra la sintassi e la semantica: la semantica inaugura un movimento di sensi e di significati, costruisce una narrazione, una storia; la sintassi dipana un ordine, definisce uno stato, edifica una metafisica. La fine di una metafisica produce una lontananza, un distacco fra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose; telos della poiesis è di stabilire un diverso ordine tra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose. La fine della metafisica si preannuncia con grandi sommovimenti e rivolgimenti dello stato di cose esistente, e la poiesis non può che riflettere le forze soverchianti della storia che la producono. Così stando le cose, perorare la continuità della poiesis nello stato di cose esistente, significa accontentarsi di salvaguardare la funzione ancillare e decorativa delle opere minimal e decorative.

(Giorgio Linguaglossa)

1 M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit. p. 8
2 Ibidem

Mauro Pierno Continua a leggere

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Kitsch poetry n. 3 di Giorgio Linguaglossa, Termopolio kitsch, Compostaggio kitsch di Mauro Pierno, remix e mash up, Quando appare una nuova φωνή (phonè) sorge anche un nuovo λόγος (logos), il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, in esso trovano posto come non mai le antinomie del contemporaneo, La de-psicologizzazione del linguaggio poetico e narrativo

Quando appare una nuova φωνή sorge anche un nuovo λόγος, appare una definita modalità dell’essere-nel-mondo, una definita modalità in cui il mondo incontra la storia, la polis, la politica e l’abitare il mondo, cioè l’etica. Questa modalità è una ontologia modale, sono i «modi» con cui interagiamo con il mondo che determinano il nostro essere-nel-mondo; il che implica una serie di pensieri, di azioni, di retro pensieri, di un fare, di pratiche, di passioni, di reazioni. Ad un certo punto, tutto questo conglomerato si trasforma in un nuovo stile, in un nuovo linguaggio.
Nella riflessione del Wittgenstein maturo, dalle Ricerche filosofiche in poi, è all’opera un tentativo di de-psicologizzazione del linguaggio, vale a dire un’indagine grammaticale relativa al modo in cui parliamo delle nostre esperienze «interne». Centrale, in quest’ultimo tratto del percorso wittgensteiniano, è il termine «atmosfera» (Atmosphäre): attraverso una critica di tale concetto, il filosofo austriaco analizza il nostro modo di parlare dei processi psicologici e, in particolare, della comprensione linguistica, intesa come esperienza mentale «privata». Contro l’idea che il significato accompagni la parola come una sorta di alone di senso, come un sentimento o una tonalità emotiva (Stimmung), Wittgenstein valorizza l’aspetto comunitario e già da sempre condiviso dell’accordo (Übereinstimmung) tra i parlanti. Il richiamo al modello musicale dell’accordo armonico tra le voci consente così di recuperare la dimensione atmosferica, auratica e coloristica dell’esperienza linguistica in cui si assiste a una «sintonizzazione» tra i parlanti coinvolti in un comune sentire, il cui luogo ideale è per eccellenza la forma-poesia.

Dobbiamo forse accettare che oggi il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, che in esso trovano posto come non mai le antinomie del contemporaneo.
Vero è che un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.

Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo: ma oggi la crisi si è stabilizzata, la crisi governa la crisi; i linguaggi artistici, e quelli poetici in particolare, sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e quindi invulnerabili; questi connotati, tipici del nostro tempo non devono affatto meravigliare, sono i connotati dello Zeit-Raum che è diventato un contenitore vuoto, contenitore di altro vuoto, i linguaggi poetici contengono un linguaggio invisibile, poroso, e quindi non fungibile. È come se la legge di gravità che tiene insieme le parole fosse diminuita; forse dovremmo accettare una filosofia «debole», che accetti di misurarsi con una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare poesia; forse dovremmo accostumarci ad accettare la «debolezza ontologica dei frammenti». Ed è quello che tenta di fare la «nuova ontologia estetica», che sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità, non da un sommovimento sociale ma sì da un sommovimento epocale: dalla consapevolezza della messa in liquidazione dei linguaggi poetici «rotondi».1]

.

1] Il pronome personale «io» che parla, è, vistosamente, un espediente retorico e nient’altro, è una custodia vuota. È un enunciato linguistico e nient’altro.
“L’enunciazione è l’istanza linguistica, logicamente presupposta dall’esistenza stessa dell’enunciato […] che promuove il passaggio tra la competenza e la performance linguistica […] l’enunciazione è chiamata ad attualizzare lo spazio globale delle virtualità semiotiche, cioè il luogo delle strutture semio narrative […] allo stesso tempo è l’istanza di instaurazione del soggetto (dell’enunciazione). Il luogo, che si può chiamare l’ «Ego, hic et nunc», è prima della sua articolazione semioticamente vuoto e semanticamente (in quanto deposito di senso) troppo pieno: è la proiezione (per mezzo delle procedure di débrayage) fuori da questa istanza degli attanti dell’enunciato e delle coordinate spazio temporali, a costituire il soggetto dell’enunciazione attraverso tutto ciò che esso non è”.1
1) A.J. Greimas, J. Courtes, Sémiotique. Dictionaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979; a cura di Fabbri P., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007, pp. 125-126. – E. Benveniste Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Saggiatore Economici, 1994. Si veda in particolare il saggio dedicato alla funzione dei pronomi pp. 301-8.

Giorgio Linguaglossa

Kitsch poetry n. 3

(inedito, dalla raccolta: Termopolio kitsch)

L’Agenzia per la sicurezza nazionale
ha dichiarato la liberazione dai trigliceridi
nel 740

L’analisi vaccinale di Letizia Castà è risultata negativa
per deficit immunitario
E allora chiudiamo i bambini a scuola in una scatola di plexiglas
trasparente
prima di andare al termopolio a prendere il caffè

Il caffè è sul tavolo
Anche Sharon Stone è sul tavolo
ha le gambe accavallate sulla famosa sedia del film “Basic Instinct” del 1992
nella scena dell’interrogatorio, dice:
«The capital gain is food
per quel film ho ricevuto un assegno da 500 mila $…
Fui ingannata sulla scena dell’interrogatorio,
in “The Beauty of Living Twice”, svelo cosa è accaduto nel backstage prima di girare la famosa scena in cui accavallo le gambe senza le mutandine»

The Generation Q’ cast is caught between marriage and monogamy
in Season 2
«Perché in fondo la vita è un’infinita sliding doors come è scritto su un’insegna di Hollywood»,
disse l’aiuto regista durante la recitazione del movie

L’Agenzia dell’Erario ha dichiarato podcast tutti i reati contro il patrimonio
e anche quelli contro il matrimonio

«Il goniometro è il vero competitor del sinusoide in 4D.
broadcast»
c’è scritto nella rivista populista “Science and Fiction”

«La temperatura sulla superficie del pianeta Venere è di 600 gradi Celsius»,
ha detto la sindaca Raggi uscendo dal plenilunio,
aggiungendo che
«Il catamarano è una astronave che può viaggiare nello spazio intergalattico ad una velocità prossima a quella della luce»

Caro Giorgio,
ecco tracciato il perimetro ideale per la tua voce. Avessi ragione, ne sarei felicissimo. È la voce orecchiata di un linguaggio radiofonico; quindi una voce esterna, che, recepita, incontra un’altra voce: quella interna – ironica, poche parole ed è il tutto. Perfetto. Fantastico.

Kitchen: nel senso che una voce radiofonica può dire quel che gli pare, apparire e scomparire, esattamente come hai scritto in poesia.
(Lucio Mayoor Tosi)

La storia ha subito un irrimediabile stop. Nelle tue parole l’ironia che che questa sorte ci riserva. Davvero tanto più gli accadimenti nelle tue poesie si avvicinano al presente, tanto più le parole che la comprendono se ne allontanano. Una forza uguale e contraria. Questa la poesia del presente. Linguaglossa che forza!

(Mauro Pierno)

Mauro Pierno

Compostaggio – Poetry Kitsch

Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.

C’è una pandemia in giro che vuole aiutare la Morte
nel suo lungo cammino per il Mondo.

è un’abitudine che diventa una teoria
man mano veniamo a patti con le maniglie

Agosto doveva essere il quadro nella camera da pranzo
“la maniglia, dov’è la maniglia?”

apro la porta, la spalanco. il pulsante rosso, a sx,
lo premo.
luce accecante.

Penso ai versi di Emily Dickinson :Heavenly hurt it gives us /we can find no scar / but internal difference / where the meanings are. ( da ‘ There’s a certain slant of light ‘ )

siamo al cospetto di una materialità di gusci vuoti (svuotati) accumulati in pile, due monticchietti di gusci del reale. Dove poggiano?

Essendo pastelli su carta e non acrilico ti chiederei se ti è possibile di sostituire la didascalia, altrimenti non fa nulla.

preferisce così, non parla alle parole perché
dice che scavano dei cunicoli nel sotto pavimento

Cosí, la pressione verso l’accelerazione porta a una dittatura dell’emozione e dell’emotività.

Vintage e design si arricchiscono di assurdi Puzzle packaging, creando il nuovo consumismo

“Il linguaggio è un labirinto in cui tutte le strade si perdono in direzioni entropiche.”

Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

Sospetto che Franco Fortini, ma non solo lui, anche tutti gli intellettuali di fede comunista e materialista, avrebbero condannato seduta stante queste nuove poesie di Giorgio Linguaglossa

L’apparire del nano dal vuoto del salto di strofa in una frase continua, rende, quel vuoto bidimensionale e materico, tridimensionale

Non sei coinvolto, come se i tuoi pensieri fossero di qualcun altro. Capito questo, ci sta che l’io possa fare la sua parte.

Inizierò di qui per una compostaggio Kitsch…
Infondo questo è ora il comunismo…lo adopero sull’OMBRA come imbastitore di pensieri…

Une tour de livres placés dans le frigidaire
livrent un féroce combat avec des aubergines
un camembert et des cervelles gélatineuses.

(in ordine di apparizione: stralci di poesie kitchen di Petronelli, Gabriele, Galdini, Antonilli, Ricciardi, Linguaglossa, Gabriele, Linguaglossa-Intini, Petronelli, Tosy, Ricciardi, Tosy, Pierno, Colasson)

Beh, questo «compostaggio» è il meglio del peggio o il peggio del meglio che si poteva compostare.
Complimenti a Mauro Pierno, non siamo nell’epoca (per citare Epstein) del remix e del mash-up? Anche Pierno ha inventato una variante del Virus della poetry kitchen: il Compostaggio kitsch.
Mauro Pierno chiude, per sempre, l’accesso alla poesia non come espressione di una soggettività «autentica», chiude anche la porta in faccia ai sostenitori della soggettività «inautentica», entrambe categorie della poesia della Anti tradizione novecentesca, la sua non è una operazione di circoscrizione della regione entropica dell’inautentico, è ben altro: è vociferazione plurale di disparate autorialità che non sono neanche Autori, lo stesso concetto di «autore» viene dissacrato e, quindi, antologizzato, ossia, manducato, digerito, ed espulso con le feci, come del resto avviene per ogni atto di «parole» durante la vita di relazione dell’homo sapiens dell’epoca cibernetica. Quello che interessa Pierno è, ogni volta, la rinnovata risorgenza della parola (acting out e atto performativo), quale affiora negli scambi più banali ed elementari della vita quotidiana, come avviene, ad esempio, negli scambi della poetry kitchen. Il terreno prediletto dell’inventio poetica è quindi la raccolta degli «stracci» di benjaminiana memoria, degli atti degli enunciati passati dalla intenzione di non-significare all’atto di parola, che non è certo privilegio della poesia, ma condizione generalissima della vita di relazione. Quindi, la poesia si fa democratica, rivendica (derisoriamente) il proprio ruolo democratico in quanto, in realtà, ancora pseudo aristocratico, rivendica così in pieno il diritto di accalappiare appieno il linguaggio derisorio della poetry kitchen per farlo convolare a nozze nel «compostaggio» ilare, spregiudicato e derisorio dei testi compostati.

(Giorgio Linguaglossa)

caro Lucio,

io per la verità, non avevo intenzione di fare poesia kitsch, non avevo intenzione di andare in quella direzione, la mia poesia precedente, che è iniziata nel 1992 con Uccelli ed è finita nel 2018, con Il tedio di dio, andava ancora alla ricerca di un «senso», di un «significato». Poi, come sappiamo, la nostra ricerca si è indirizzata verso il «fuori-senso» e il «fuori-significato». La strada successiva, che abbiamo percorso tutti insieme, la strada capitanata da Mario Gabriele che ci precedeva in vedetta, ci ha portato in questa direzione. Certe cose non possiamo prevederle, anzi, spesso, lottiamo per evitarle ma, in fin dei conti, non potevamo arrestare la ricerca, non potevamo fare marcia indietro.

È Wittgenstein che ci ricorda la vacuità della ricerca di un senso:
«il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, sarebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo (…) Tautologia e contraddizione sono prive di senso».1

Carlo Marx scopre che la riproduzione del capitalismo come sistema economico e sociale non è mai una riproduzione semplice, ma sempre una riproduzione allargata, e che proprio per questo la «cosiddetta accumulazione originaria» è al di fuori di essa, si converte in «riproduzione allargata»; analogamente, c’è una merce che eccede il sistema economico vigente e richiede un sistema allargato, un mercato di merci dove essa può trovare collocazione. Se tutto si risolvesse in un sistema a riproduzione semplice, cesserebbe il capitalismo perché si limiterebbe ad auto riprodursi eguale a se medesimo. Un sistema culturale funziona allo stesso modo, esso tende a riprodursi e ad impedire che una idea nuova possa trovare accoglienza, ma in questo modo si sclerotizza e muore. È allora che una nuova idea, una nuova merce, prima o poi può trovare accoglienza.

Nell’ambito della poetry kitchen, qualcuno si è fermato, qualcun altro è rimasto nelle retrovie in attesa di fare chiarezza, qualcun altro si è volatilizzato. È comprensibile, avviene in tutte le buone famiglie, qualcun altro si è aggregato; gli ultimi poeti come Jacopo Ricciardi e Giuseppe Petronelli si sono aggiunti al gruppo di ricerca
Cmq, resto dell’idea che sia la Instant poetry che la Kitsch poetry siano delle varianti del virus-base: la Poetry kitchen. E nella Poetry kitchen ci può stare anche la poesia post-liminal di Guido Galdini che azzera il minimalismo, e va oltre, ci può stare anche la “Ferula” di Giuseppe Talia, che annichila la poesia di paesaggio, per sempre, e la mette in soffitta; ci può stare anche la story telling di Gino Rago, che mette fine allo story telling del vero e del verosimile della tradizione novecentesca con tutte le adiacenze di riguardo, ci può stare anche il «compostaggio» di Mauro Pierno, che mette fine alla autorialità dell’autore e a tutto ciò che richiama la cellula monastica dell’io; ci può stare anche un guastatore del «significato» e del «senso» come Francesco Paolo Intini armato di cesoie e bombe incendiarie; ci può stare la Instant poetry di Lucio Mayoor Tosi; ci può stare una eretica della poesia francese come Marie Laure Colasson che fa della distassia e della dismetria la sua parola d’ordine, ci possono stare le quartine stralunate di Mimmo Pugliese…
La Poetry kitchen mette un punto al teorema della specificità della forma-poesia, dichiarando quest’ultima quale genere specifico della poesia innica e della poesia elegiaca (Contini), tesi questa che è stata sconvolta dalla rivoluzione internettiana delle emittenti linguistiche. Nel mondo di oggi non ha più senso alcuno compiacersi di avere un linguaggio speciale, quello della poesia (dotato di ambiguità e di ambivalenza qualsivoglia) a propria disposizione. Vecchia petizione, oltre che infondata filosoficamente anche palesemente superata dal corso degli eventi storici.
Nella Poetry kitchen ognuno deve cercare da sé la propria strada, non c’è alcun dogma, alcun verdetto.
L’unico assioma da seguire è che ciascuno deve porsi nella condizione di voler abitare stabilmente il vuoto. Il resto verrà da sé.

(Giorgio Linguaglossa)

1 Wittgenstein, Tractatus Logico-philosoficus p. 37

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36 twitter instant poetry di Vari Autori europei, La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose ma realizza immediatamente il suo significato, Il potere extra semantico della semantica viene così ad evidenza, Il linguaggio reso inoperoso acquista smagliante auto evidenza, La poetry kitchen è un modello di experimentum linguae che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio

Marie Laure Colasson 40x23 Stuttura dissipativa 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 40×23 cm., acrilico 2021

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La instant poetry è una struttura linguistica performativa in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato. In un certo senso nella poetry kitchen si rende evidente il «potere extra semantico della semantica»; quello che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act). L’enunciato «io giuro» è il paradigma perfetto di un tale atto in quanto chiama la parola alla immediatezza del denotato il cui significato non può essere posto in dubbio da nessuno pena la infrazione del giuramento. Il linguaggio è quella cosa che presuppone il passaggio dalla langue alla parole, e cioè dalla parola nella sua mera consistenza lessicale, a prescindere dal suo impiego nel discorso, alla denotazione, a una istanza di discorso in atto. Il linguaggio è la struttura presupponente che fonda tutte le altre strutture del pensiero.

Possiamo dire che nella instant poetry la parola chiama a sé la veredizione del significato nel circolo della veredizione, con esclusione di qualsiasi dubbio; la poetry kitchen persegue la tautologia: è vero ciò che viene enunciato;  esercita una espropriazione del significato nel mentre che maneggia il potere locutorio come atto di libertà assoluta dal significante e dal significato. La poetry kitchen non esegue nessuna appropriazione del linguaggio, non esercita alcun dominio sul linguaggio, lasciandolo lì dov’è.

Collegando l’analisi di Usener alla teoria di Austin, Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».1 La struttura denotativa e quella performativa del linguaggio sono caratteri storici della lingua umana,  appartengono in toto alla storia della metafisica occidentale, non v’è nulla di originario o di eterno nella lingua. Non è un caso che nell’epoca del predominio della tecnica questa struttura denotativa abbia raggiunto il suo limite massimo raggiungibile, la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane.

Per poter essere in grado di agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello della adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un fatto.
La poesia è proposta, in Il Regno e la Gloria, da Agamben, come paradigma della disattivazione del linguaggio, in essa il linguaggio è reso inoperoso: la poesia marca il punto in cui la lingua «riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile».2 

Non a caso Agamben assume la poesia a modello di una parola che disattiva le funzioni comunicative e informative del linguaggio rendendo evidente la sua immediata «medialità», il suo essere mero «mezzo», dove il soggetto poetico diventa «quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile».3 Il superamento della metafisica implica un nuovo modello del significare, e qui Agamben presenta, di sfuggita, un aspetto che costituirà uno degli assunti principali della sua soteriologia: che lo scioglimento della contraddizione della metafisica si fonda in un nuovo linguaggio, in una nuova parola, nella poesia, in «un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato».4 
L’experimentum linguae è nella poesia kitchen collegato all’«uso» del linguaggio come ricerca di un diverso e più profondo statuto della parola, di un’esperienza della parola liberata che apra lo spazio della gratuità dell’uso.
La poetry kitchen è, in tal senso, un modello di experimentum linguae, che trasforma e rivela le potenzialità insite nel linguaggio quando esso viene reso inoperoso.
Ecco una serie di esempi di strutture linguistiche performative.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008 pp. 74-75.
2  G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza 2007, pp. 274-75
3 Ibidem, p. 274.
4 G. Agamben, 1977, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,Torino, Einaudi, p. 165.

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Instant poetry di Giorgio Linguaglossa

https://twitter.com/i/status/1415959604782043136 Continua a leggere

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Lettera di Vincenzo Petronelli sulla poetry kitchen e l’instant poetry, Risposta di Marie Laure Colasson, L’autodichia permanente della poesia caudataria di oggi, di Giorgio Linguaglossa, Poesie kitchen di Francesco Paolo intini, Mauro Pierno

da sx Ennio Flaiano, Federico Fellini, Anita Ekberg, 1960, «Per fortuna il meglio è passato» (E.Flaiano)
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Vincenzo Petronelli
 
caro Mario Gabriele,

buongiorno a tutti amici, sono tornato a leggere quest’analisi di Giorgio Linguaglossa sulle caratteristiche distorcenti della poesia scritta in Italia in questi decenni (non che il problema sia esclusivamente italiano, ma certo in Italia è un fenomeno particolarmente diffuso) e trovo che quando in futuro si ricostruirà lo scenario della storia poetica di oggi, il “manifesto” della Noe dovrebbe essere uno strumento d’analisi imprescindibile, annoverando anche queste lucidissime sintesi di Giorgio. Confesso che sia una dinamica che la cui gravità personalmente mi è forse sfuggita fino ad un certo punto, poiché ritenevo che di per sé non ci fosse niente di male nel fatto che ognuno scrivesse secondo i propri canoni preferiti, rendendomi conto perfettamente anche del valore terapeutico che ricopre per molti ma la poesia e dando salomonicamente per scontato che tutto sommato ognuno potesse trovare il proprio modello poetico; ma è anche vero che leggendo da sempre poesia di varie tradizioni letterarie ed aree geografiche, non conoscevo in modo esaustivo il panorama della produzione poetica italiana. In effetti, da quando ho avvertito l’esigenza di un rinnovamento radicale nella mia scrittura – momento aulico di “palingenesi” personale, culminato nel momento topico dell’incontro con la Noe – rinnovamento motivato non solo (per quanto principalmente, come è ovvio) da un motivo legato alla mia personale ricerca poetica, non riconoscendomi più in quanto da me scritto fino ad allora, ma anche dall’essermi reso conto del fatto che quel modello di scrittura fosse una vera palude nella quale versasse la poesia italiana. Ho cominciato così a comprendere la necessità che ogni poeta od artista, anche modestamente, debba contribuire al rinnovamento della propria arte per testimoniare il proprio contesto storico: non si può pensare di perpetuare ad aeternum gli stessi stilemi solo per una consolazione gratificante di un’approvazione all’interno delle solite compagnie di giro. Soprattutto, da lì ho cominciato a comprendere il problema del nodo cruciale che tutto ciò comporta e cioè la ricaduta politica: politica tout court e politica editoriale. manifestata dal profluvio di produzione editoriale poetica – che investe anche case editrici importanti – basata esclusivamente sui meccanismi facebookiani per costruirsi un mercato redditizio di breve termine, privo di qualsivoglia progettualità e funzionale solo all’edonismo, all’auto esaltazione dell’io, punto d’approdo attuale del disegno culturale del capitalismo multinazionale ed il suo modo di produzione, E si giunge così al punto fondamentale: una poesia, una produzione artistica frutto di una sorta di autismo lirico”. è destinata a smarrire la sua funzione di coscienza sociale e culturale, di anticorpo naturale che la società si crea contro i condizionamenti del potere. E’ una condizione pericolosissima evidentemente, ancillare ai populismi ed alla demagogia che vediamo prosperare attorno a noi in quest’epoca sbandata e proprio questo sbandamento, fa sì che solo un modello di ricostruzione di questa frantumazione, quale il modello Noe nelle sue declinazioni evolutive – frammento, poetry kitchen, instant poetry possono riuscire a restituire alla poesia la sua funzione di testimonianza.
Ringrazio vivamente Giorgio per queste riflessioni illuminanti.
Lunga vita all’”Ombra” ed alla Noe!

 

caro Vincenzo,

anch’io che sono di cultura francese ma vivo in Italia, a Roma, da molti anni, ho vissuto l’esperienza descritta da Vincenzo Petronelli: l’incontro con la nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico come un profondo rinnovamento del linguaggio poetico, come un moto di libertà espressiva e, personalmente, anche come un modo nuovo e diverso di approccio alla realtà.
Non dobbiamo farci intimidire dalla marea di pessima poesia soliloquiale e monolocale che alberga in Europa e in Occidente, è completamente futile ed errato perseguire e inseguire il senso in un mondo palestrato di populismi, di fondamentalismi e irrazionalismi. Tendere ad una nuova modalità espressiva è assolutamente necessario alla comunità, alla lingua e alle sue osteoporosi. In questo discorso la poesia di Mario Gabriele è buon profeta, ci dice che abbiamo scelto «il tavolo esagonale, ci siamo divisi equamente i posti a tavola (tre posti per la famiglia Valpellina/ e tre ai figli del filosofo Casella), che viviamo tranquillamente della rendita del capitale finanziario mentre «sui muri c’erano versi di Murilo Mendes». Che altro dire?

 

Giorgio Linguaglossa

... dicevamo che il luogo del poeta è il suo linguaggio. Chiediamoci: qual è il «luogo» del linguaggio poetico? È ovvio che qui si parla di un «luogo» particolare, che sta nella storia e fuori della storia, in un luogo-non-luogo, in quel Zwischen (framezzo) individuato da Heidegger, in quella barra della significazione S/s (Significante su significato, di Lacan), la barra che divide il significante dal significato. Ne deriva che il poeta è quel luogo che è sempre scisso, dilaniato da forze diversive e conflittuali. Non si tratta affatto di un luogo pacifico e positivizzato come vorrebbe una vulgata acritica e ipnagogica di stampo regressivo ma di un luogo attraversato da forze telluriche e conflittuali, esposto alle conflittualità della storia e delle ideologie.
La poesia quindi è un campo-modello dell’experimentum linguae, che trasforma e «rivela» il luogo del linguaggio, che non si lega denotativamente alle cose né vale essa stessa come una cosa significata ma che intende qualcosa che non è ancora una cosa significata e che potrebbe essere Altro, altro da una cosa, più importante, più essenziale di una cosa significata. È la significazione che chiude la cosa, non il contrario. La poetry kitchen è l’atto dell’apertura del significabile, l’atto della promiscuità dei significati, della loro sospensione.
Agamben afferma che le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza. Esperienza che ha luogo in quel topos outopos che è il linguaggio.

Francesco Paolo Intini

Controversia tra un tasto rotto e uno sano

Sopravvivere all’attacco dei versi.
Pandemia che provoca vomito e bifida la lingua.
Optare per l’uno o l’altro.

A una che diceva “Siamo” fu detto di cuocere un uovo
così gli universali si giocarono le mogli.

A rugby, gioco bizzarro!

Un arbitro invece vide l’inizio dei tempi.
Bagliori della domenica successiva
Si sprigionavano dal centro campo.

La legge del caso sopraffatta da un goal.
Lampi dal fischietto di Flegias.

Un protone travestito da Biancaneve
cedette la sua verginità a Brontolo.

Prigioni senza catene entrarono al Louvre.
Tutti che pisciavano sotto la Gioconda.
Gli altri si limitarono a una gaffe.

Questo vuoto tra i giorni, questo buio da saltare
il muro di Gaza ordinato su Internet.
-Scusi, da quale parte il discorso di J.F.K?

Dollari spingono pacchetti d’onde.
Caverna contro Sistina e palla a centro.

La causa prima tra le fauci di un drago di Komodo.

Camminano bisonti per Via Re David
Senza pneumatici, come orchidee in un vaso.

E’ la Regina la più bella del reame.
Un’anguilla su monopattino
Consegna un quark di orecchiette e rape.

Mai suonare alla porta del Logos
Nemmeno per scroccare un pasto caldo.

foto Il fondo di un lavabo

[Marie Laure Colasson, foto di un lavabo sporco]

.

Giorgio Linguaglossa

L’autodichia permanente della poesia caudataria di oggi

caro Mario Gabriele,

la foto sopra postata di Marie Laure Colasson rappresenta il fondo di un lavabo sporco, è del marzo del 2021. Ci dice una cosa: che l’arte di oggi è sporcizia, che l’arte della nostra civiltà è un’arte da immondizia, accompagnamento musicale alla discarica pubblica.

La Poetry kitchen e l’immondizia sono quindi imparentate. La poiesis annuncia una forma poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro… ma qui «dio» non c’entra niente, non c’entra neanche il divino, non cerchiamo soteriologie miracolistiche e consolatorie, non cerchiamo scorciatoie, «dio» è lontano e, se c’è, se ne frega delle questioni dell’homo sapiens e delle beghe della poiesis.

Dicevamo che la distanza che ci separa dalla poesia del secondo Montale è immensa. La poesia di Montale si muove dall’io e dalla crisi dell’io, crisi esistenziale, ideologica, religiosa, politica; Montale non arriva e non può arrivare a concepire una poiesis diretta dalla logica dell’Altro, l’epoca non glielo consente. La poetry kitchen ha alzato il cartellino rosso, «dio» è stato espulso dal campo di gioco, la nuova poiesis ha dovuto prendere atto che la poesia è guidata dalla logica dell’Altro. Tutto qui.

Il recupero delle forme chiuse e normative in letteratura, e in particolare nella poesia, la convivenza pacifica delle forme narrative con quelle non-narrative, dell’arte figurativa con l’arte astratta e così via assume un significato peculiare: il fatto che le forme aperte convivano beate con le forme chiuse, ci dice molto di più, ci dice che il rinchiudersi del poeta all’interno di una normatività positivizzata in campo formale potrebbe essere una strategia per rendere evidente il peso e la relativa postura che un paradigma normologico impone ai corpi e alle psicologie di massa e individuali. Il carattere di un ritorno all’ordine che tanta poesia del secondo novecento ha in qualche modo messo in atto senza remore e reazioni appare evidentissimo in queste ultime due decadi, potrebbe essere ricondotto non soltanto ad un bisogno di ordine imposto da una situazione politicamente regressiva, ma potrebbe anche essere letto come una sorta di auto-martirio spettacolarizzato, una autodichia dell’ente de-politicizzato che vuole rendere evidenti i segni e le ulcerazioni dell’anima che una misteriosa legge fantasmatica e fantasmata infligge ai suoi utenti, tanto più oppressiva quanto più invadente nella sua invisibile indiscernibilità dalla «nuda vita».

Il fatto che le preoccupazioni poetiche e politiche di un Fortini, di un Pasolini siano vissute come ambasce e futilità del passato senza continuità con il presente, il fatto che il tardo Montale ha fatto scuola significa soltanto che siamo entrati in una nuova situazione politica e psicologica di massa, una condizione derubricante di conflittualità di massa permanente, una situazione che vede in vigore la legge della «nuda vita»: l’autodichia permanente della poesia caudataria, che significa il fatto nudo e crudo di occhio per occhio e dente per dente.

Mauro Pierno

“I rami di poesia sono rigagnoli di acqua e sabbia,
anche se lo slang è lontano
e le metafore si accendono
come le luci la notte di Natale.”

(M.M. Gabriele)

Finita l’epoca dei poppatoi,
la devastazione connetteva girandole e chiodi

d’acciaio, beninteso le sorprese nelle molotov
perfino dai dirimpettai non erano comprese.

Di certo dapprima di stimare le stive con impegno
si erano svuotati i guardaroba e gli armadietti.

La scuola anche quella era finita da un pezzo.
L’orgoglio in polvere venduto da Amazon

e la corrente sfusa, divertente, la si apprezzava
spargendo forte il tasto On.

Elettrico sei, quanto ti diverti o stai seduto, elettrico sei quando dormi, quando mangi, quando sorridi.

La funzione è compatibile con la sostituzione, il terzo verso puoi spostarlo a piacimento

anche abbattere le barriere, spostare muri, salutare, fare ciao ciao, con la manina. Ricostruire.

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio “Inediti” (Words Social Forum, 2016), “Natomale” (LetteralmenteBook, 2017) e “ Nei giorni di non memoria” (Versante ripido, Febbraio 2019)  . Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (“Sylvia e le Api”. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Ha recentemente contribuito alla raccolta “La pacchia è strafinita” di AA VV a cura di Versante Ripido. Una raccolta inedita dei suoi scritti: “ Nella mente di un fuochista” è stata recensita su “Versante Ripido, Novembre 2017 ”
Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club, Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen, di Marie Laure Colasson, Instant poetry di Mauro Pierno, Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Lucio Mayoor Tosi, Sull’iperbole nella poetry kitchen, di Giuseppe Gallo

Marie Laure Colasson

Sulle ragioni della Crisi

Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:
«Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club», racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. «Joyce, Duchamp, Picasso, Bréton… ci trovavamo alla “Coupole” dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

Giuseppe Gallo

L’iperbole, dal greco: ὑπερβολή, hipér “sopra” e bolé “lancio”, con il significato di esagerazione, è una figura retorica di contenuto. Nel linguaggio comune e nelle affermazioni poetiche è una figura largamente diffusa, basti pensare a espressioni del tipo:

– Siamo in un mare di guai.
– «Quivi parendo lontana a Rinaldo mille miglia.» (Ariosto, L’Orlando furioso)

Da questi due semplici esempi si evince che l’iperbole eccede nella descrizione della realtà: i guai sono un mare sterminato; e la distanza che Rinaldo ha di fronte si sottrae a qualsiasi misurazione. La realtà descritta, però, può subire anche una diminuzione,

– È pronto in un minuto!
– Non hai un briciolo di cervello!

In questi ultimi esempi si esagera, sempre, ma per difetto. Ecco la verità che sta dietro le parole: ciò che si esprime non va preso alla lettera! L’iperbole è un trucco, un’illusione, rende l’idea, circuisce la nostra logica razionale e la proietta verso il fantastico. Infatti, spessissimo, l’iperbole funziona nelle favole, nei racconti per bambini e in quella letteratura consapevole che il linguaggio contiene in sé la possibilità intrinseca di un “discorso doppio”, quello dell’invenzione e quello della realtà; l’iperbole non vuole ingannare, ma quasi; un po’ di vero deve rimanere in piedi, ma deve essere stravolto, con l’iperbole l’impossibile diventa possibile!
Ma oggi, come stanno le cose? Oggi che impera l’immagine audiovisiva, a tutti i livelli. Videogiochi, fantasy, spot pubblicitari avveniristici, il cielo che cade sulla terra, l’universo che non ha alcuna legge su cui reggersi… Oggi che abbiamo a disposizione lacerti poetici di questo genere:

“Il semaforo gorgheggiò una canzone di Mina
degli anni sessanta” (Giorgio Linguaglossa)

“I lati scaleni del rettangolo scorrono sulle dune,
adesso che le albicocche sono asteroidi
il collo dell’ukulele è figlio di Andromeda” (Mimmo Pugliese)

“Roba che si vede al Bancomat: il Minotauro
e Teseo che parcheggia la Rolls Royce” (Francesco Paolo Intini)

Sembra che la metafora iperbolica investi la struttura stessa del discorso. Oggi non “affoghiamo in un bicchiere d’acqua”, ma in tutti i bicchieri e in tutte le acque, tornando ad essere bambini, incapaci di distinguere tra vero e falso, tra verosimile e improbabile, tra esagerazione e compressione…

Marie Laure Colasson

Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen si basa su un concetto piuttosto semplice:[…] la poesia kitchen non ha identità alcuna, non dà certezze a nessuno, non è né maschio né femmina, e neanche transgender, non vuole essere trasgressiva e neanche rassicurante, disconosce i concetti di avanguardia e di retroguardia, concetti del secolo trascorso che non hanno più cittadinanza nell’epoca del Covid-19 e dei sovranismi; inoltre, si sente a suo agio nel presente, in questo presente confuso e contraddittorio, e lascia libero ciascuno di assegnarle l’etichetta che più aggrada.

La poetry kitchen non vuole essere definita da stereotipi e/o da categorie del passato. È un genere ibrido, fluido, mutevole, instabile, né poesia né prosa, tantomeno prosa poetica o poesia prosastica, non poggia su alcuna certezza, non garantisce alcuna identità, non v’è distinzione tra il genere innico e il genere elegiaco, categorie continiane che possono applicarsi ben che vada alla poesia del ‘900 e del tardo novecento; rifiuta il concetto di identità, non si presenta come un nuovo «modello», non è la gardenia di Dorian Gray e neanche la pipa o la bombetta o l’ombrello di Magritte né il ferro da stiro o l’orinatoio di Duchamp, non ricerca la identità di genere, anzi, non ricerca nessuna identità, la sua sola identità è la promiscuità e l’ibrido, l’infiltrazione e la permeabilizzazione del testo; è insieme ilare e drammatica, ideologenica e mitologenica, si esprime per assiomi infondati e per aforismi derubricati; la poetry kitchen avverte la responsabilità di promuovere la mental inclusivity di tutti i punti di vista, non chiede di essere riconosciuta ma soltanto dimenticata dopo averla letta, non rivendica che la propria inautenticità, la propria sintomaticità; fate attenzione: è una malattia esantematica e contagiosa, e poi è democratica e rivoluzionaria perché sconvolge gli stereotipi e le categorie che vorrebbero irreggimentarla, inoltre è allergica alla poesia da salotto e ai salotti tele-igienizzati del politichese letterario, infine piace ai giovani e ai giovanissimi.
Così è se vi piace. Ed anche se non vi piace.

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L’Avanguardia letteraria “ZTL” a traffico limitato ai residenti, Instant poetry di Mimmo Pugliese, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Da Montale alla poetry kitchen di oggi, E allora, che cosa ci resta da fare?, mi chiese un poeta, Risposi: Uscire fuori dal tombino della nostra epoca medial-mediatica, La poesia italiana da alcuni decenni è diventata una cosa da supernicchia che parla agli abitanti della supernicchia,

Giorgio Linguaglossa

Un pappagallo scambiò le gambe di Marilyn
per quelle di Mary Poppins
Il semaforo gorgheggiò una canzone di Mina
degli anni sessanta.
Disse che si trattava della «frattura metafisica della presenza»
o giù di lì.
«È la biodiversità», disse.
E passò ad altro.

Un giorno, circa di un anno fa, un giovane poeta romano (Faraòn Meteosès), mi chiese se, a mio avviso, fosse possibile ripristinare una nuova avanguardia oggi.

Risposi che, a mio avviso, era possibile proclamare una nuova avanguardia. Doveva essere un gruppetto di “arditi” i quali avrebbero dovuto diffondere all’Ansa e presso tutti i mezzi di comunicazione che il giorno X alle ore 18,30 sotto l’Arco di trionfo di Costantino in Roma si sarebbe riunita l’Avanguardia letteraria “ZTL” a traffico limitato aperta ai residenti che avrebbe proclamato la propria nascita, e che alle ore 18,35 tutti i membri del Gruppo si sarebbero suicidati in pubblico, davanti ai turisti distratti, agli oziosi pedoni romani, in mezzo ai centurioni fasulli in cerca di turisti e ai fotografi abusivi…
Questa, dissi, è l’avanguardia che mi auguro possa sortire fuori dal tombino della nostra epoca medial-mediatica. A mio avviso, aggiunsi, l’avanguardia non può resistere più di cinque minuti perché verrebbe scavalcata dai potentissimi motori e rotori della civiltà metal-mediatica e dalla velocità dei suoi mezzi di locomozione-informazione.

E allora, che cosa ci resta da fare?, mi chiese Faraòn Meteosès…

Gli risposi che una vera avanguardia deve calcolare e disporre liberamente il proprio decesso, programmarlo ed attuarlo in piena libertà, sottraendosi alla (falsa) libertà coscrittiva della comunicazione mediatica e alla normologia del sistema culturale. Un atto «programmato e programmatico», dunque, perfettamente inutile e perfettamente superfluo.

E il Gruppo 93?, mi chiese il poeta.

Beh, quella è un’altra cosa, si trattava di una faccenda di ufficiali giudiziari, di ufficiali dell’aviazione teorica e di pubblicitari della poesia… – risposi.

(Giorgio Linguaglossa)

Mimmo Pugliese

Domani comincia

Domani il giorno comincia un’ora prima
a colazione inoculano cristalli liquidi.

I lati scaleni del rettangolo scorrono sulle dune,
adesso che le albicocche sono asteroidi
il collo dell’ukulele è il figlio di Andromeda.

Secoli di neve vivono in armadi di papavero,
sulla punta degli ombrelli
lo stagno diventa nave alberata.

Il pentagramma ha alamari di onice
Agata ha perso l’allure, beve succo di ceci.

La locomotiva assiste al torneo di Winbledon,
Il coppiere della Tavola Rotonda è un agente del Kgb.

Betaprotene gioca a baccarat con il gallo cedrone.
Coppie di paguri baciano sulla bocca delle torce elettriche

nella tenda dell’erborista indiano
al campeggio sul versante oscuro del Circo Massimo..

Un delfino

Un delfino smercia casse di birra.

I segni zodiacali hanno l’emicrania
fuggono in taxi.

Il giardino d’inverno non ha palpebre,
un’alba di betulle svincola sulla superstrada.

Giacche di ozono marciano sulle grondaie,
sono in saldo fasci di endecasillabi.

Le picozze sudate dell’alpinista
brandiscono campi di grano selvatico.

La criniera dello spritz
cerca stelle cadenti nella clessidra,
un geo disinvolto ha fatto un brutto sogno
lo racconterà al mercato delle falci.

La tendopoli imbroglia il segnale orario,
rampe di scale raggiungono Capo Horn in un balzo.

La rotta degli alluci
coincide con il prossimo anticiclone
che trafùga oggetti alla primavera.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.

Vincenzo Petronelli

Complimenti vivissimi per questi tuoi due componimenti caro Mimmo: trovo la prima in particolare strepitosa già a partire dal suo incipit: “Domani il giorno comincia un’ora prima a colazione inoculano cristalli liquidi”. La trovo un incalzare di immagini potenti e mozzafiato, grazie al ritmo serrato che la contraddistingue. Buona domenica ed un abbraccio.

Tiziana Antonilli

Giorgio Linguaglossa

caro Mario e cara Tiziana,

penso che la nuova ontologia estetica che si è sviluppata nella poetry kitchen sia una strada a senso unico, non ci consente esitazioni o passi indietro, ma solo in avanti. La via della ricerca non può essere arrestata o rinviata sine die o ritardata, la nostra ricerca non può inseguire i sondaggi, non tende la mano alla popolarità, la poetry kitchen non deve limitarsi a cercare il consenso, non è una proposta politica ma una proposta poietica, il che è diverso.
Il fatto che la poesia italiana da alcuni decenni sia diventata una cosa da supernicchia che parla agli abitanti della supernicchia, oggettivamente non ci giova, la supernicchia difende se stessa perché produce serialità letteraria, al massimo professionalità letteraria. Non mi aspetto che la poetry kitchen venga adottata nei manuali scolastici, prima deve fare i conti con la cesura del silenzio e della marginalizzazione che l’accademia letteraria produce e non potrebbe non produrla. Adesso la poetry kitchen è matura, i suoi valori sono visibili, penso che alla fine di agosto manderò l’Antologia della poetry kitchen all’editore Progetto Cultura di Roma per la pubblicazione, ci saranno i poeti che hanno contribuito con il loro lavoro alla nostra ricerca, sarà un prodotto di novità dirompente, assolutamente fuori dalle righe della omologazione della poesia di accademia.

Mario M. Gabriele

deve essere un giorno storico, quello relativo alla Antologia NOE, cioè l’altra faccia della poesia che si immette sui detriti di un terremoto in cui la storia e l’inettitudine dei poeti, hanno immobilizzato senza variazione alcuna, il rinnovamento del linguaggio e dello stile. Spetta all’Editore fare campagna pubblicitaria, la più dirompente possibile, entrare nei social, in Facebook, in ogni sito possibile, fare PDF dell’Opera, mandandola a tutti gli iscritti all’Ombra delle Parole. Non spetta a me rubare il mestiere all’Editore. Ma qui si tratta di un evento straordinario! Un Abbraccio, Mario.

Scrivere della poesia di Mario M. Gabriele; ma anche solo l’idea di volerne scrivere, mi è pari all’idea di voler scalare una montagna. Il fatto è che, a fronte di una poesia che in lettura si presenta chiara e comprensibile, il tentativo ermeneutico, anche il più ingenuo, introdurrà elementi di complessità che il poeta, nel suo immediato, ha già ben risolto. Voglio dire con questo che non prevale sulla poesia l’accorgimento critico, sebbene quello di Giorgio Linguaglossa sia di gran lunga il più adatto, quello che più si avvicina all”inafferrabile”.
Ecco, se devo dire qualcosa sulla poesia futura, immagino sia questo l’aspetto più rilevante: che si sia abbandonata la forma poesia strutturata, dal verso libero sempre più sofisticato. La poesia di Gabriele è infatti di diversa e nuova architettura. Sgombra di ascesi e verticalità, è una poesia orizzontale; che nell’evento è di ampio accoglimento perché tutto sembra accadere nell’unico istante, qui o/e da ogni altra parte del mondo; e che sa giocare con la memoria.
È nuovo, per me, il discorso che arriva frammentato ma diretto e comprensibile. Frutto di attento lavoro di dismissione di regole obsolete; linguaggio che si avvale di una sintassi semplificata, che ha fiducia nella grammatica, perché tanto basta. Poesia del dimagrimento linguistico, della perdita di orpelli. Poesia del suolo, e del reale che non ti aspetti perché è sempre altrove.
La perfetta originalità dei suoi frammenti pare adatta ad essere incastonata in soggetti cinematografici, o per dare vita e sorpresa a narrazioni altrimenti agonizzanti nel perdurare di un pensiero o di un’emozione. Frammenti che spezzano e ravvivano, spezzano e vanno oltre.
Ma è anche poesia mono tonale, lo stesso che si potrebbe dire di un fiume; non fosse che Gabriele è poeta sperimentale, quindi destinato a disegnare sempre nuove mappature…

Aggiungo una riflessione su quel che accade alla “voce” a causa del continuo dismettere del pensiero: che la voce, o dovrei dire le voci, per principio di individuazione, finiscono per rivelasi sonoramente; e mi chiedo se esista una voce sovrana, e se possa convivere in rapporto, anche conflittuale, con altre voci; queste sì, che hanno parvenza demente…

Con tastierismo modernista

In mancanza di tempo:
fermi al semaforo / dentro una stanza in affitto/
soprani, nell’acuto / tra la gente.

Come Jimi Hendrix, quando stonava.

Sulla panchina, due giovani innamorati decisero
di scadere a livello delle promesse d’amore.
Venisse una pestilenza, mangeremo castagne.
Moriremo insieme. Sull’autostrada, di notte.

(may – giu 201)

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

Da Montale alla poetry kitchen di oggi
Giorgio Linguaglossa

…riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è il massimo responsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia («sterminio di oche») e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una positivizzazione e privatizzazione lessicale e stilistica che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. È una operazione di dismissione, di liquidazione in saldo prendi tre paghi uno. Chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «demetaforizzare» il proprio linguaggio poetico. Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia stigmatizzazione e presa di distanze da Montale. Montale – accompagnato da Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), di Giovanni Giudici con La vita in versi (1965) e di Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965) -, era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non aveva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo privo però di copertura filosofica. Montale, insomma, apre le porte della poesia italiana alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto compie una legittimazione dell’impero mediatico che era alle porte, legittima la ciarla, la chiacchiera, lo scetticismo e lo psicologismo in poesia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia come elettrodomestico. Qui sì che Montale ha fatto scuola! Ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

La Storia della poesia italiana del Novecento è tutta attraversata da sigle letterarie e da fasi di stallo che per lunghi periodi hanno tenuto in tilt ogni forma di ricambio. In realtà si trattava di annettersi o disgiungersi con temi formali, apofonici, politici, elegiaci, ecc. a volte reattivi nei confronti della staticità del linguaggio.

Queste operazioni non duravano più di un ventennio e anche meno, venendo subito dopo sostituite con altre Proposte disgiuntive dalla Forma Regina. Non a caso abbiamo assistito a scremature continue del linguaggio che hanno prodotto sigle poetiche diverse con le relative Antologie prodotte dalle maggiori Case Editrici, e con le prefazioni dei migliori critici al Top Ten delle classifiche, presenti anche come poeti,

Da qui la nascita di correnti letterarie e poetiche, che assemblavano nelle loro proposte, qualche canone postjoyciano, dopo le fermentazioni di canzonette di regime e di potere, autentici droni poetici da parte di D’Annunzio, e via via fino al percorso di livello psicologico, narrativo, umanistico-individualistico in un sistema che ha corroso culturalmente il nostro paese fino a detronizzarlo con l’afasia, con i Soggetti Dio e il Nulla con il Futurismo e il Crepuscolarismo, l’Ermetismo e la poesia Visuale, l’Avanguardia e altre forme evasivo-liriche. Questo per evidenziare come la poesia sia andata nel corso del Novecento soggetta a ricambi strutturali e ideologici. E proprio in questi corridoi di percorrenza stilistica e poetica che si muove la Nuova Ontologia Estetica con annessa la Poetry Kitchen o Buffet o performativa, che ha come unico scopo quello di evidenziare un fatto: il tentativo di ricucire un vestito sdrucito in tutte le sue parti, aprendo le sartorie poetiche dopo l’usura e l’assenza della poesia pervenendo alla pubblicazione di una Antologia, già omologata nella mente di Giorgio Linguaglossa.

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Giorgio De Chirico guida il taxi, Instant poetry di Gino Rago, La de-politicizzazione e la de-qualificazione della forma-poesia in Italia, di Giorgio Linguaglossa, Commenti e poesie di Mimmo Pugliese, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno,

Poetry kitchen di

Mario M. Gabriele

Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.

Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.

Si può affermare che la Instant poetry è un atto linguistico performativo e rappresenta nella lingua una sua antichissima potenzialità, dormiente nell’uso che si fa oggi delle lingue, che viene rimessa in potenza, in atto.
Scrive Agamben:
«Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che inesso si realizza» (G. Agamben p. 62). Con il passaggio al monoteismo il nomedi Dio nomina il linguaggio stesso, è il logos stesso a essere divinizzato come tale nel nome supremo, attraverso il quale l’uomo comunica con la parola creatrice di Dio: «il nome di Dio esprime, cioè, lo statuto del logos nella dimensione della fides-giuramento, in cui la nominazione realizza immediatamente l’esistenza di ciò che nomina».1 Questa struttura, in cui un enunciato linguistico non descrive uno stato di cose, ma realizza immediatamente il suo significato, è quella che John L. Austin ha chiamato «performativo» o «atto verbale» (speech act; (cfr. AUSTIN 1962); «io giuro» è il modello di un tale atto. Agamben sostiene che gli enunciati performativi rappresentano nella lingua «il residuo di uno stadio (o, piuttosto, la cooriginarietà di una struttura) in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che, come nel giuramento, l’atto verbale invera l’essere».2

Per poter agire, l’enunciato performativo deve sospendere la funzione denotativa della lingua e sostituire al modello dell’adeguazione fra le parole e le cose quello della realizzazione immediata del significato della parola in un atto-fatto.
La instant poetry è quindi un atto-fatto, un fatto-significato, un fatto-non-significato. La instant poetry è vera se legata ad un istante, se è il prodotto di un istante, dopodiché scompare nel non-istante che chiamiamo, per consuetudine, passato.

(Giorgio Linguaglossa)

1 G. Agamben, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza. 2008, pp. 71-72
2 Ibidem p. 74-75.

 

“Lucio Mayoor Tosi entra nel “Notturno” di Madame Colasson,
invita l’uccello Petty al Caffè de Paris”
Mi piace: non perché ci sono anch’io, ma perché di fatto è un bell’esempio di “eccetera”, scritto in fuori senso.
È proprio scrittura giapponese!
Forse nuova epifania, fatta di suoni, accompagnati da immagini.
(Lucio Mayoor Tosi)

.

Giorgio Linguaglossa

La de-politicizzazione e la de-qualificazione della forma-poesia in Italia

caro Mario,

la poesia di super nicchia che è stata fatta in Italia e in Occidente da alcuni decenni, si è rivelata altrettanto invasiva nell’epoca Covid che ha registrato un altissimo tasso di pseudo poesia considerata come demanio privato delle strutture psicologiche dell’io, con le conseguenti malattie esantematiche e psicosomatiche e compiacente fibrillazione della malaise dell’io.
Il mio giudizio su questa pseudo poesia non può che essere severamente negativo. Si tratta nel migliore dei casi di episodi, di sintomi psicanalitici che registrano un malanno psicologico e di sfruttarlo come pseudo tematica del disagio esistenziale. Si tratta di una miserabile e regressiva strategia di sopravvivenza alla crisi politica delle democrazie de-politicizzate dell’Occidente con un superpiù di auto lacerazione e di auto flagellazione dei lacerti di un io posticcio e positivizzato.
Riassumo qui i punti principali della malattia pandemica che ha attinto la poesia contemporanea:

– Si fa consapevolmente una poesia da supernicchia;
– La pseudo poesia positivizzata ed edulcorata che si fa oggi in Italia la si fa avendo già in mente un certo indirizzo dei destinatari e un calcolo di leggibilità e di comunicabilità privatistica;
– Si circoscrive il microlinguaggio poetico a misura delle dimensioni lillipuziane dell’io;
– Si rinuncia del tutto alla questione del ruolo della poesia e della letteratura nel mondo storico di oggi;
– Ritorna in vigore una certa mitologia del «poeta» visto come depositario di saggezza, seriosità, tristezza, pensosità ombelicale;
– Ritorna in auge il mito di una «poesia» vista come luogo neutro della ambiguità e della astoricità in una posizione di involucro dell’anima ferita e malata ( ingenuo alibi ideologico e smaccata mistificazione culturale);
– Nessuna capacità e volontà di rinnovamento del linguaggio poetico visto come un che di separato dai linguaggi della comunicazione delle emittenti linguistiche;
– Moltiplicazione delle tematiche private, privatistiche e quotidiane opportunamente devalutate in chiave privatistica e de-politicizzata;
– Moltiplicazione di forme narrativizzate ad imitazione della prosa;
– Moltiplicazione del taglio narrativo, diaristico, quotidiano e prosastico;
– Moltiplicazione di un super linguaggio de-politicizzato e lucidato;
– Adozione delle pratiche onanistiche, auto assolutorie e regressive confezionate in forma poetica.

 
Mario M. Gabriele

Condivido pienamente questo esame critico sulla poesia di oggi, sempre più asfittica, da reflusso gastro esofageo. Se solo una parte dei poeti, che utilizzano questi collanti abrasivi, sempre più plasticizzati e degradabili, riuscisse a proporre una più significativa difesa della parola poetica, si avrebbe un parlare chiaro e sincero. Restiamo, purtroppo, in un esercizio estetico che non guarda alla riprogettazione della poesia necessaria alla sua sopravvivenza, ma in un cantiere dove i materiali utilizzati franano ad una prima lettura perché onnicomprensivi di tutte le turbe elencate da Giorgio Linguaglossa.

Mauro Pierno

Finita l’epoca dei poppatoi,
la devastazione connetteva girandole e chiodi

d’acciaio, beninteso le sorprese nelle molotov
perfino dai dirimpettai non erano comprese.

Di certo dapprima di stimare le stive con impegno
si erano svuotati i guardaroba e gli armadietti.

La scuola anche quella era finita da un pezzo.
L’orgoglio in polvere venduto da Amazon

e la corrente sfusa, divertente, la si apprezzava
spargendo forte il tasto On.

Elettrico sei, quanto ti diverti o stai seduto, elettrico sei quando dormi, quando mangi, quando sorridi.

La funzione è compatibile con la sostituzione, il terzo verso puoi spostarlo a piacimento

anche abbattere le barriere, spostare muri, salutare, fare ciao ciao, con la manina. Ricostruire.

Mario M. Gabriele

Conservami i sandali Birckenstock,
la borsa K-WAY per i sogni in tribolazione,
le canzoni di Nora Jones su Radio Capital
e la foto di Amy Winehouse nell’ultimo picnic
con gli anni che restano come polvere d’asfalto
prima che le scarpine MEU
mi portino a letto a sognare le Galàpagos.

Scegli tu la vetrina più bella
dove sistemare il passato nel display
con le stories di Pussy Riot a piazza Kazan.

Poetry kitchen

di Mario M. Gabriele, da Horxcrux

Al bar scegliemmo il tavolo esagonale:
tre posti per la famiglia Valpellina
e tre ai figli del filosofo Casella.

Sui muri c’erano versi di Murilo Mendes
e un repertorio fotografico della città.

Accettati i confini di un’isola poetica,
il linguaggio si fece astruso
con tutte le biodiversità estetiche.

Un gatto scambiò le gambe di Meddy per una lettiera.
Ci fu un dialogo sui social networks
sommando alla fine follower e like.

In attesa che lo chef preparasse hamburger e whisky Gin,
un venditore di flaconi e stick,
ci propose Instant Reset di Fenty Skin,
il Sauvage di Dior
e il Rouge H di Hérmes.

Riprendemmo il discorso, serafico e quantistico,
citando il lume di Diogene.

-Habemus vitam- disse uno dei figli di Casella,
ricercatore all’Artemisia.

-Allucinanti- esclamò la signora Valpellina
-sono le centurie e le abrasioni-.

C’era una richiesta di pertinenza
affidata a Giusy De Luca,
esperta di advocacy e digital strategy.

Solinas riferì i dati in laboratorio
su Emoglobina e Linfociti del piccolo Larry.

Il Memorial finì quando un cigno nero
entrò nella stanza con le finestre aperte
e i lumi spenti.

Chiamati a rapporto Kant e San Tommaso
ordinammo cioccolatini Pomellato.

Essendo dei flâneurs preferimmo l’albergo All Right
dove Jean Russell esibiva un altro Premio Pritzker
mentre il gourmet passava da un tavolo all’altro.

 

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Atto unico di Mauro Pierno, Teatro kitchen, Commenti di Marie Laure Colasson, Vincenzo Petronelli, Giorgio Linguaglossa

Tutti allo stesso tempo
(Ossia, un concerto di voci
Ovvero, coincidenze)

Personaggi
Emme
Erre
Emmea
Ci
E
Gi
A
Effe
Esse

L’operatore, ovvero

studio teatrale 22.04.90
rivisitazione maggio 2020

AMBIENTAZIONE: (nove posti a sedere disposti a diversa altezza; agli estremi di essi alcune file di scatole tutte uguali. Nove individui occupano i rispettivi posti e a ritmo si passano le scatole. Tutti sono vistosamente scalzi. S, ad un estremo, avrà il compito di ripristinare la fila di scatole; dall’altro capo, M, avrà cura di riproporre il giro delle stesse. Gli altri personaggi: R, Ma, C, E, G, A, F.)

(Terminando il giro silenziosamente)
M
R
Ma
G :
A :
F :
S : vuota!

M: Incomincio ad essere stanco.
R: che senso ha?
Ma: appunto che senso ha?
C: …” Che senso ha?” Cosa?
E: questa ricerca suppongo?!
G: no, no…forse il senso…
A: …ho inteso!
F: io niente!!!
S: centro quarantatré! Vuota!

M: Passa.
R: anch’io incomincio ad essere stanco!
Ma: io ancora no.
C: cercare, cercare, cercare…
E: mai essere stanchi…
G: appunto!
A: certo!
F: su sbrigatevi! (È l’unico a dare segni di impazienza)
S: vuota!

(Toccandosi i piedi)
M: ho i piedi freddi.
R: i miei sono di ghiaccio.
Ma: i miei infreddoliti.
C: i miei semirigidi.
E: i miei raffreddati.
G: i miei ibernati.
A: i miei congelati.
F: i miei…non ci sono! (Tutti disapprovano)
S: vuota!

M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo
G: anch’io le indossavo
A: io le infilavo
F: io…semplicemente camminavo
S: vuota!

M: era un quarantuno!
R: il mio un trentanove!
Ma: il mio un trentacinque!
C: il mio un trentasette!
E: il mio un trentasei!
G: il mio un trentotto!
A: il mio un trentanove!
F: il mio…un centoottant’otto! (Tutti disapprovano)
S: vuota!

M: Mi mancano.
R: anche a me.
Ma: pure a me.
C: a me anche.
E: a me pure.
G: sicuro.
A: chiaro.
F: oscuro! (Disapprovano tutti)
S: vuota!

(Sempre guardandosi i piedi)
M: Si, si…
R: si, si, all’improvviso…
Ma: si, si, all’improvviso scomparse
C: si, si, all’improvviso scomparse nel nulla…
E: si, si, all’improvviso scomparse nel nulla, perdute…
G: si, si, all’improvviso scomparse nel nulla, perdute per sempre
A: si, si, all’improvviso scomparse nel nulla, perdute per sempre
per strada
F: si, si…in effetti! (Sbrigativo. Ancora una impertinenza.)
S: vuota!

(Riflettendo)
M: Riflettiamo
R: riflettiamo
Ma: riflettiamo
C: riflettiamo
E: riflettiamo
G: riflettiamo
A: riflettiamo
F: …non pensiamoci più! (Occhiate di disprezzo da tutti)
S: vuota!

M: Non ci riesco.
R: non ci riesco.
Ma: non ci riesco.
C: non ci riesco.
E: non ci riesco.
G: non ci riesco.
A: non ci riesco.
F: …io ci riesco! (come sopra)
S: vuota!

M: Allora ricostruiamo
R: si, ricostruiamo
Ma: certo, ricostruiamo
C: dai ricostruiamo
E: su, ricostruiamo
G: via, ricostruiamo
A: ricostruiamo, ricostruiamo
F: …va bene…non pensiamoci più! (Disapprovazione, come sopra)
S: ricostruiamo: centoquaranta sette! Vuota!

(Avvincenti)
M: Erano le quattro!
R: già, le tredici
Ma: precisamente le otto!
C: esatte le sedici!
E: in punta le nove!
G: erano le sei!
A: appunto le ventidue!
F: … (Leggendo l’orario) …sono le… (Generale disapprovazione)
S: vuota!

(Squilli di telefono)
M: Pronto?
R: pronto?
Ma: pronto?
C: pronto?
E: pronto?
G: pronto?
A: pronto?
F: chi parla? (Crescente disapprovazione)
S: vuota! (Terminano gli squilli)

M: È per te?
R: no! È per te?
Ma: no! È per te?
C: no! È per te?
E: no! È per te?
G: no! È per te?
A: no! È per te?
F: È per me! (Nervosismo dilagante)
S: vuota!

M: Vuole distoglierci.
R: è vero
Ma: allora, resistere
C: continuare e basta
E: senza tregua
G: senza arrendersi
A: giammai
F: diritti alla meta! (Seppur sconcertati, cenni di consenso)
S: vuota!

(Caricati ripetono la strofa)
M: Vuole distoglierci.
R: è vero
Ma: allora, resistere
C: continuare e basta
E: senza tregua
G: senza arrendersi
A: giammai
F: diritti alla meta! (Tripudio di consenso)
S: vuota!

(Riprendono gli squilli)
M: Non bisogna rispondere alle provocazioni
R: ogni provocazione resterà impunita
Ma: abbasso la violenza
C: viva, via Ghandi
E: mio padre non mi picchia
G: mia madre neanche
A: evviva, evviva
F: diritti alla meta! (Ancora consensi)
S: vuota! (Gli squilli terminano)

M: Dove eravamo rimasti?
R: dove eravamo rimasti?
Ma: dove eravamo rimasti?
C: dove eravamo rimasti?
E: dove eravamo rimasti?
G: dove eravamo rimasti?
A: dove eravamo rimasti?
F: diritti alla meta! (Costernati tutti. Ricomincia)
S: vuota!

(Ignorandolo)
M: Scomparse
R: giusto
Ma: inopinabile
C: d’accordo
E: più che giusto
G: giustissimo
A: verissimo
F: diritti alla meta! (Tutti al limite della sopportazione)
S: vuota!

M: Ma che ha?
R: ma che ha?
Ma: ma che ha?
C: ma che ha?
E: ma che ha?
G: ma che ha?
A: ma che hai?
F: diritti alla meta!
S: vuota!

M: Non è proprio il caso di scherzare!
R: proprio non lo è!
Ma: certo!
C: insomma!
E: manchi di eleganza!
G: alla tua età!
A: vergognati!
F: (Afono) diritti alla meta!
S: vuota!

M: Finalmente
R: diventava insopportabile!
Ma: ripetitivo
C: fastidiosissimo
E: sgradevole
G: amarissimo
A: disgustevole
F: diritti alla meta!
S: vuota!

M: allora è un problema politico…
R: non necessariamente…
Ma: ma insiste…
C: allora è sociale…
E: no, politico.
G: no, sociale.
A: no, politico.
F: diritti alla meta!
S: vuota. Vuota alla meta!

(Senza scampo)
M: vuota alla meta!
R: vuota alla meta!
Ma: vuota alla meta!
C: vuota alla meta!
E: vuota alla meta!
A: vuota alla meta!
F: diritti alla meta!
S: vuota!

(Disperazione crescente. Sguardo ai piedi)


M: Senza non andremo lontani
R: soltanto pochi passi
Ma: ai lati della strada
C: seppure
E: non più lontano di tanto
G: vicino
A: più vicino
F: immobili! (Pare rinsavito…)
S: vuota!

M: Abbiamo perduto le scarpe,
R: ci mancano,
Ma: non è un mistero,
C: siamo scalzi,
E: non le ritroveremo,
G: illudersi non serve,
A: non serve,
F: immobili! (…invece ricomincia)
S: vuota!

(Disperati)
M: Cosa faremo?
R: cosa faremo?
Ma: cosa faremo?
C: cosa faremo?
E: cosa faremo?
G: cosa faremo?
A: cosa faremo?
F: immobili! (Scoppi d’ira)
S: vuota!

(Esasperati)
M: Digli di smetterla!
R: digli di smetterla!
Ma: digli di smetterla!
C: digli di smetterla!
E: digli di smetterla!
G: digli di smetterla!
A: smettila!
F: (In piedi) Immobili!
S: vuota!

(Incazzati)
M: Potrebbe anche sedersi!
R: potrebbe anche sedersi!
Ma: potrebbe anche sedersi!
C: potrebbe anche sedersi!
E: potrebbe anche sedersi!
G: potrebbe anche sedersi!
A: potresti anche sederti!
F: (Sempre in piedi) immobili!
S: vuota!
M: Allora ignoriamolo! (Si alza, anche gli altri a turno)
R: certo, ignoriamolo!
Ma: lo merita, ignoriamolo!
C: bene, ignoriamolo!
E: ignoriamolo, ignoriamolo!
G: ignoriamolo e basta!
A: basta ignoriamolo!
F: (Sedendosi) Immobili!
S: vuota! Ignoriamolo!

(Si ode un segnale orario. Potrebbero essere anche i rintocchi di una pendola, di un campanile lontano. Batte le sedici. Le quattro, pare l’attacco della quinta di Beethoven. La scena
sì oscura. Sulle note de “io cerco la Titina” entra in platea l’operatore telefonico con in mano una seggiola pieghevole. Una bacchetta. Nell’abito rammenta Charlot, Totò, è molto impacciato. Ovvero, dirige il traffico, una orchestra immaginifica, dispensa faccine, risponde al telefono. Però la scena incalza. La sua voce diventa afona. Ovvero, è un personaggio irriconoscibile. Si sovrappongono immagini di Totò, di Charlot. Il palco si rillumina. Scompare. Anche F è scomparso. Ben visibile il vuoto lasciato sullo scranno. Il giro delle scatole riprende immutato.)

M: Assurdità
R: nullità
Ma: fesserie
C: frottole
E: balle
G: bugie
A: …è scomparso! (F non c’è. A è turbata; la scatola cade nel vuoto)

S: vuota!

M: Senza senso
R: non verificabile
Ma: insufficiente
C: meno che sufficiente
E: mediocre
G: scadente
A: (Come sopra) È scomparso!!! (La ignorano)

S: vuota!

(Quasi sollevati)
M: Basta distrarsi un attimo…
R: certo, soltanto un attimo…
Ma: un attimo…
C: anche di meno…
E: ancora meno…
G: meno, meno…
A: (Come sopra) È scomparso! (Ancora la ignorano)

S: vuota!

M: Basta distrarsi un attimo…
R: certo, soltanto un attimo…
Ma: un attimo…
C: anche di meno…
E: ancora meno…
G: meno, meno…
A: è scomparso!

S: vuota!
(Rispondendo allusivamente ad A)
M: Delle buone ragioni
R: delle buone ragioni di certo
Ma: delle buone ragioni di certo indubitabili
C: delle buone ragioni di certo indubitabili e irreversibili
E: delle buone ragioni di certo indubitabili e irreversibili e
inequivocabili
G: delle buone ragioni di certo indubitabili e irreversibili e
inequivocabili e indiscutibili
A: … è scomparso!

S: vuota!

(Comprensivi)
M: un piccolo sforzo
R: un’altra strofa
Ma: eravamo alla fine
C: la sequenza era completa!
E: non dovevi interrompere
G: certo, non dovevi
A: …è scomparso!

S: vuota!

(Ancora comprensivi)
M: Sgombra la mente
R: non distrarti
Ma: attenzione!
C: applicazione
E: studio
G: metodo
A: …è scomparso! (Disapprovazione generale)

S: vuota!

(Ancora un’altra possibilità)
M: che strano indolenzimento
R: davvero
Ma: rasenta la stanchezza
C: più indolenzimento che stanchezza
E: una via di mezzo
G: il giusto mezzo
A: ma è scomparso! (Sono sconcertati)

S: vuota!

(Per l’ultima volta)
M: Ho i piedi freddi
R: due pezzi di ghiaccio
Ma: infreddoliti
C: semirigidi
E: congelati
G: raffreddati
A: … è scomparso!

S: vuota!
(Sbottando inesorabilmente)
M: Non lega!
R: con cosa lega!
Ma: davvero non lega!
C: insomma non lega!
E: non lega per niente!
G: per niente non lega!
A: …ma è scomparso!!!

S: vuota!

(Ultimatum)
M: Le responsabilità sono soltanto tue!
R: sono soltanto tue le responsabilità!
Ma: tue soltanto sono le responsabilità
C: soltanto tue le responsabilità sono!
E: soltanto sono tue le responsabilità
G: le responsabilità tue soltanto sono!

A: … ma è scomparso!!! (Disperata)
S: vuota!

(Nuovamente si ode un segnale orario. Squilli di telefono. Un pendolo, alcuni rintocchi di un campanile. L’attacco della quinta. Ancora una volta parte la musica della Titina. L’operatore, l’improbabile Charlot,Totò, forse un venditore di palloncini, forse il direttore d’orchestra, probabilmente il vigile, fischia, dirige, risponde, si accomoda sulla sedia pieghevole. Perde la bacchetta. Rimane afono. Prima buio poi di nuovo luce. La scena incalza è l’esibizione è interrotta. Scompare. Anche A è scomparsa.)

M: Assurdità!
R: nullità
Ma: fesserie
C: frottole
E: balle
G: bugie (la scatola ormai cade nel vuoto…S dovrà recuperarla)

S: vuota! (…Disperato. Per l’impatto la scatola si apre)

M: Senza senso
R: non verificabile
Ma: insufficiente
C: meno che sufficiente
E: mediocre (come sopra)
G: scadente (come sopra)

S: vuota!

(Occhiate di intesa per l’avvenuta nuova scomparsa)
M: Ci sono cose di cui non bisognerebbe parlare
R: termini che non bisognerebbe usare
Ma: assolutamente da dimenticare
C: parole vietate!
E: concetti vietati.
G: contenuti vietati! (come sopra)

S: vuota! (come sopra)

M: Mai parlare
R: mai usare
Ma: da dimenticare
C: vietare
E: vietare
G: vietare

S: vuota!

M: Mai parlare
R: mai usare
Ma: da dimenticare
C: vietare
E: vietare
G: vietare

S: vuota!

(All’infinito)
M: Mai parlare
R: mai usare
Ma: da dimenticare
C: vietare
E: vietare
G: …boom! (Enfatizza la caduta della scatola)

S: vuota! (Ride.)

M: Mai parlare
R: mai usare
Ma: da dimenticare
C: vietare!
E: vietare!
G: … boom!!! (Ride più forte. Gli altri disapprovano)

S: vuota! (Ridono insieme)

(Richiamo all’ordine)
M: L’immagine del silenzio
R: ali
Ma: l’anima in concreto
C: l’estasi vola
E: l’estasi
G: …infranta! (Accompagnando la caduta della scatola)

S: boom! Vuota! (Entrambi ridono)

(Ulteriore richiamo all’ordine)
M: Solo parole
R: semplici parole
Ma: parole di parole
C: parole alla terza
E: parole alla quarta
G: chi ha visto le mie scarpe? (Disapprovazione)

S: boom! Vuota (Come sopra. Entrambi ridono)

(L’ordine, soprattutto)
M: L’economia della realtà non permette impertinenze!
R: sia chiaro!
Ma: la realtà non fa rumore!
C: è sorda!
E: è muta!
G: (Emette una sonora pernacchia. Come sopra)

S: boom!!! (Entrambi ridono sonoramente)

(Soprattutto, l’ordine)
M: È il tempo dell’insurrezione dei rumori,
R: bisogna fermarli,
Ma: la realtà non fa rumore,
C: è sorda,
E: è muta,
G: (Come sopra. Ancora una pernacchia sonora)

S: boom!!! Vuota!

(L’ordine non si inceppa mai!)
M: È il tempo dell’insurrezione dei rumori,
R: bisogna fermarli,
Ma: la realtà non fa rumore,
C: è sorda,
E: è muta,
G: (Come sopra. Ancora una pernacchia sonora)

S: boom!!! Vuota!
M: È il tempo dell’insurrezione dei rumori,
R: bisogna fermarli,
Ma: la realtà non fa rumore,
C: è sorda,
E: è muta,
G: (Come sopra. Ancora una pernacchia sonora)

S: boom!!! Vuota!

(Ancora un segnale orario confuso tra i rintocchi e un pendolo.
L’apparizione dell’operatore, ovvero, è più confusa, pare essere imbavagliato. La musica, le immagini tutto più accelerato. Il buio più totale. La sparizione dell’operatore e di G ed S fulminea. Luce.)

M: Assurdità
R: nullità
Ma: fesserie
C: frottole
E: balle! (Le scatole si esauriranno perché il giro è ormai inevitabilmente interrotto)

M: senza senso
R: non verificabile
Ma: insufficiente
C: meno che sufficiente
E: mediocre (Continueranno anche a scatole terminate)

M:
R:
Ma:
C:
E:

(Alludendo alle recenti scomparse)
M: non esprimersi,
R: nessun giudizio
Ma: soltanto caso
C: puro caso
E: coincidenze

(Riflessivi)
M: Il senso libero
R: l’espressione
Ma: la parola
C: i concetti
E: i problemi

M: Non esistono,
R: non esistono,
Ma: non esistono
C: non esistono
E: non esistono

(Alcuni giri a vuoto. Poi con nuovo rigore)
M: Ho i piedi freddi
R: i miei sono di ghiaccio
Ma: i miei infreddoliti
C: i miei semirigidi
E: i miei raffreddati
M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo

M: Mi mancano
R: anche a me
Ma: pure a me
C: a me anche
E: a me pure

M: Abbiamo perduto le scarpe
R: ci mancano
Ma: non è un mistero
C: siamo scalzi
E: non le ritroveremo.

INTERMEZZO – SIPARIO
AMBIENTAZIONE:
(Siamo alle spalle della scena precedente. Anche gli attori superstiti, M, R, Ma, C e E sono di spalle al pubblico e continuano a vuoto a passarsi le scatole inesistenti.)

M: Ho i piedi freddi
R: i miei sono di ghiaccio
Ma: i miei infreddoliti
C: i miei semirigidi
E: i mei raffreddati

M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo

(Marcia trionfale dell’Aida. Trombe a tutto spiano.)
(Attraversando tutta la platea accompagnati dalla musica assordante e marziale. In corteo sorridenti e festanti. Elegantissimi, G A F e S precedentemente scomparsi recano a passo trionfale enormi scatoloni da imballaggio. Una quantità indescrivibile di svariate scarpe verrà riversata sulla scena. Scene di giubilo. Entusiasmo alle stelle. Alle spalle intanto con indifferenza totale)

M: Abbiamo perduto le scarpe
R: ci mancano
Ma: non è un mistero
C: siamo scalzi
E: non le ritroveremo
(Incominciano a passarsi le scarpe nella speranza di trovarne un paio giusto. La marcia dell’Aida diventa il motivo di sottofondo che accompagnerà lo spettacolo fino alla fine dell’azione.)

G: non è per l’occasione
A: figurarsi questa
F: non l’indosserei mai
S: fossi morto!

G: no, questa non è mia.
A: no, non è neanche mia!
F: non può essere nemmeno mia!
S: fossi morto!

(Sul retro)
M: Mi mancano.
R: anche a me.
Ma: pure a me.
C: a me anche.
E: a me pure.

(Sul palco)
G: calzavo trentotto!
A: io trentanove!
F: io centoottant’otto!
S: fossi morto!

M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo
G: a me serve sportiva!
A: a me serve elegante!
F: a me serve classica!
S: fossi morto!

G: … più alta!
A: di più!
F: di meno, di meno!
S: fossi morto

(L’orchestrazione dell’azione è a questo punto al massimo. La contemporaneità del movimento dietro e davanti al palco è totale. Medesima la ricerca affannosa e infruttuosa da entrambe le parti, tutti allo stesso tempo insoddisfatti della ricerca, fino a diventare totalmente afoni.)

M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo

G: anch’io le indossavo
A: io le infilavo
F: io…semplicemente camminavo
S:

M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo
G: anch’io le indossavo
A: io le infilavo
F: io…semplicemente camminavo
S: vuota! (Senza voce. Quasi un rigurgito)

M: era un quarantuno!
R: il mio un trentanove!
Ma: il mio un trentacinque!
C: il mio un trentasette!
E: il mio un trentasei!

G: il mio un trentotto!
A: il mio un trentanove!
F: il mio…
S:

M: ho i piedi freddi.
R: i miei sono di ghiaccio.
Ma: i miei infreddoliti.
C: i miei semirigidi.
E: i miei raffreddati.

G: i miei ibernati.
A: i miei congelati.
F: i miei…
S:

(La stessa marcia di sottofondo. Ossessiva. La ricerca affannosa diviene ripetitiva ed evidentemente infruttuosa da entrambe le parti. Il sincronismo raggiunto è perfetto! Le voci sempre più afone. L’operatore ovvero Il direttore ovvero il vigile ovvero il conduttore…completamente in abito bianco, ricomparirà in scena)

M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo

G: anch’io le indossavo
A: io le infilavo
F:
S:

M: era un quarantuno!
R: il mio un trentanove!
Ma: il mio un trentacinque!
C: il mio un trentasette!
E: il mio un trentasei!

G: il mio un trentotto!
A:
F:
S:

M: Mi mancano.
R: anche a me.
Ma: pure a me.
C: a me anche.
E: a me pure.

G:
A:
F:
S:

M: Si, si…
R: si, si, all’improvviso…
Ma: si, si, all’improvviso scomparse
C: si, si, all’improvviso scomparse nel nulla…
E:

G:
A:
F:
S:

M: Riflettiamo
R: riflettiamo
Ma: riflettiamo
C:
E:

G:
A:
F:
S:
(I movimenti frenetici raggiungeranno il culmine. L’apparizione dell’operatore inaspettata. Pure la musica diventerà vorticosa e silenziosa.)

M: Non ci riesco.
R: non ci riesco.
Ma:
C:
E:

G:
A:
F:
S:

M: Allora ricostruiamo
R:
Ma:
C
E:

G:
A:
F:
S:

M:
R:
Ma:
C:
E:

G:
A:
F:
S:

L’operatore: allo stesso tempo il silenzio ed il rumore la scoria ultima del suono, le parole, gli uomini e gli oggetti…
(Silenzio assordante e vorticoso…Tutta la scena pare un metronomo silenzioso, un pendolo, un tacet silenzioso e frenetico)
La convinzione forte è che non ci siano più momenti di incontro casuali e che seppure i colori ed i suoni si centuplicassero, tutti allo stesso tempo, in sottofondo rimarrebbe un inespugnabile silenzio, una inespressa vita, vuota! Coincidenze completamente definite, nelle azioni, nelle parole, noi stessi compiuti all’infinito.
La memoria la vera illusione.
(Un gigantesco disco di Newton vorticosamente abbaglierà la sala decretando la fine dello spettacolo.)

FINE.

Marie Laure Colasson

caro Mauro,

volevo parteciparti che ad una seconda lettura l’impressione tratta dalla prima lettura ne esce rafforzata: si tratta di un Atto unico del nuovo dadaismo kitchen, sfido chiunque a raccapezzarsi in quel tigullio di parole in libera sarabanda!
Il segreto della poesia kitchen è semplicemente questo: commerciare con il Nulla senza alcun timore reverenziale, non avere dogmi o fidejussioni di alcun genere, saper porre agli arresti il significante e il significato. Soprattutto: non c’è né è mai esistito un significante primordiale (che alcuni chiamano dio). Il resto viene da sé.
Complimenti!

Giorgio Linguaglossa

caro Mauro, direi che il tuo Atto Unico rappresenta in scena la Marcia Trionfale del Nulla (con le trombe dell’Aida di Verdi in sottofondo), con quegli scatoloni che rimbalzano di qua e di là e le parole assolutamente vuote che vengono pronunciate e masticate e i personaggi che parlano frasi sconnesse e smozzicate parenti strette del Nulla!
Come nella procedura della ripetizione e del fermo immagine, qui si “svela” l’artificio delle parole, la loro parzialità, la loro insostanzialità, l’“effetto di realtà” prodotto dalle parole-simulacro… la realtà come effetto di qualcosa d’altro, come in un gioco di riflessi di riflessi… un gioco di specchi che non sappiamo, che non riconosciamo… questo è, per l’appunto, kitchen e chicken, chicken cotto al forno, parole come crocchette di chicken…Rispondi

Giorgio Linguaglossa

caro Mauro, tu scrivi alla fine dell’Atto Unico:«il silenzio ed il rumore la scoria ultima del suono, le parole, gli uomini e gli oggetti…
(Silenzio assordante e vorticoso…Tutta la scena pare un metronomo silenzioso, un pendolo, un tacet silenzioso e frenetico)»dove è chiaro che il reale è ciò che interrompe e ostacola il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico; qui è ben visibile l’irruzione del reale nella catena semiotica, l’impasse della formalizzazione e dell’elaborazione dell’inceppamento all’interno del dispositivo semiotico e semasiologico del testo. Il reale fa problema, è problema, all’interno della linearità del dispositivo linguistico nella misura in cui si insinua nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come un ostacolo, un inceppamento del motore semiotico che ne mina anche solo per un istante la stabilità della continuità.

Vincenzo Petronelli

Caro Mauro,
andando a perlustrare tra gli ultimi episodi dell’ “Ombra”, mi si è rivelata questa tua gemma. Ritengo si tratti di una straordinaria invenzione linguistica ed espressiva di grande giocosità: ho appena avuto modo di evidenziare in un mio intervento sull’articolo che cronologicamente precede questo. come ritenga quest’attitudine una straordinario valore aggiunto sulla strada dello sradicamento dei dogmi legati al linguaggio tradizionale della poesia e dell’arte in genere. La storia delle arti ci insegna come proprio la dimensione del gioco, della levità, dell’ironia, siano gli strumenti più efficaci per demolire le convenzioni e rivitalizzare le strutture e le categorie culturali tradizionali una volte logoratesi. La trama e l’intreccio surreali di questa atto unico è strepitoso e lo considero a tutto tondo un esempio di Poetry kitchen, perché difatto giunge all’altezza di un “gramelot” per la ricomposizione degli elementi del linguaggio e pur non essendolo “strictu sensu”, approda allo stesso apice di non-sense (che di questo processo di scomposizione e ri-composizione giocosa del mondo è a mio avviso la dinamica apicale) del gramelot. Ho riletto più volte questa tua proposta e mi si rafforza ogni volta l’idea che tu sia giunto sul punto di edificare una nuova cosmologia di significati che ci apre dei nuovi spiragli e dei nuovi indirizzi semantici.
Grazie per aver condiviso questa chicca con noi.Buona serata.

Mauro Pierno

Ti confido caro Vincenzo che l’idea del testo mi è venuta osservando l’andirivieni lungo il viale, meraviglioso dei tigli, che tu conosci, qui a Ruvo. Immaginai che tutta quella folla avesse perduto le scarpe e che percorrendo imperterriti “le vasche” forse le avrebbero ritrovate.
Una dannazione dantesca! Un abbraccione.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”. 

13 commenti

Archiviato in poetry-kitchen, teatro

L’agente Hanska e Madame Colasson, di Gino Rago, Qualcuno ha scritto sul cavalcavia, di Giorgio Linguaglossa, Siamo entrati nella superficie superficiaria dei linguaggi di superficie, twitter di Mauro Pierno e Lucio Mayoor Tosi, Video intervista a Giorgio Linguaglossa a cura di Corrado Vatrella, Biblioteca Civica C. Arzelà

Gino Rago

L’agente Hanska e Madame Colasson

L’agente Hanska e Madame Colasson
pedinano da tempo la scrittrice Elsa Morante.
Al direttore dell’Ufficio Affari Riservati
giunge un biglietto con un messaggio in codice.
Il commissario Ingravallo travestito da Sherlock Holmes
lo decifra, c’è scritto:

«Dottor Linguaglossa,
Elsa Morante pensa in via dell’Oca n. 27
ciò che scrive in via Archimede n. 121,
passa tutta la vita nel frammezzo
(das Zwischen)
fra questi due appartamenti ammobiliati;
ha sostituito Verdi, Mozart e Pergolesi, con “Le ombre”,
gli acrilici di Lucio Mayoor Tosi,
l’extimità con l’intimità, la dimensione ipnagogica
con la dimensione ontologica;
legge Stendhal, Melville, Palazzeschi, Flaiano
e getta nel cestino i libri di suo marito,
Alberto Moravia!».

Il direttore dell’Ufficio Affari Riservati
di via Pietro Giordani n.18,
il poeta Giorgio Linguaglossa
convoca con urgenza la squadra omicidi:

«Bisogna arrestare lo Scià di Persia:
Mohammad Reza Pahlavi.
Fermiamo questo manigoldo ad ogni costo,
Putin telefona a Lukashenko,
gli dice che lo Scià ha ripudiato Soraya e sta scappando dalla Persia
con la nuova moglie, Farah Diba,
ha con sé i gioielli imperiali
e anche il vestito da sposa della principessa Soraya
disegnato per lei da Christian Dior…

Temo che il vestito di matrimonio di Soraya
finisca nelle mani dei leghisti di via Bellerio n. 37, Milano,
sai, quelli sono capaci di tutto,
anche di venderlo all’asta,
e poi dobbiamo dare i pieni poteri a quel manigoldo, quel Salvini,
e farne la longa mano della Russia!
Ma è che di mezzo ci sono quelli dell’Ombra delle Parole,
sono dei rompiscatole…».

Interviene il curatore della Antologia della Poetry kitchen,
dice di spedire del paracetamolo a Putin
ed attendere gli esiti.
Detto fatto.
La squadra omicidi si è mossa:
Paracetamolo + Deltaprotene + dentifricio Mentadent plus
con aminoacidi e isotopi al plutonio
e il gioco è fatto:
Putin decede dopo un lungo calvario,
Salvini cade sulla spiaggia del Papeete,
prende il suo posto un governo PD + 5Stelle e partitini di sx,
Presidente del Consiglio il segretario Enrico Letta,
il Cavaliere defunge, il suo partitino si squaglia,
Renzi se ne è tornato a casa, adesso riceve lo stipendio
direttamente dallo Scià dell’Arabia Saudita
sul suo conto corrente presso la Deutsche Bank.
E tutto è bene quel che finisce bene!

Videointervista al poeta Giorgio Linguaglossa

Pubblicata il 24/05/2021
Qui di seguito il link Youtube della videontervista al poeta Giorgio Linguaglossa. L’incontro è stato organizzato dalla Biblioteca Civica C. Arzelà in collaborazione con l’amico, poeta e scrittore, Corrado Vatrella.

https://youtu.be/IbNdhHebQTE

Giorgio Linguaglossa

Qualcuno ha scritto sul cavalcavia

Al cavalcavia di Orte sulla autostrada del sole qualcuno ha scritto:
«Il Nulla non ha direzione».

Un filosofo marxista ha scritto:
«Il Tutto è falso»,
mandando a farsi benedire la dialettica hegeliana e anche
la dialettica degli zoppi epigoni di oggi.
«E poi c’è da dare identità al Domopak»,
disse il poeta Francesco Paolo Intini intimando un alt alla signorina
guardasigilli di “Portobello”,
la celebre trasmissione televisiva di Rai1.

«Ergo, ne deduco – rispose Cogito – che oscilliamo tra il falso del Tutto
e la indirezione del Nulla.
Ci muoviamo a tentoni tra disfanie, discrasie, dispepsie,
disformismi«.

Madame Hanska dall’Alaska spedisce al Signor Cogito
una cartolina piena di ghiaccio.
«Ci sei?, sei Tutto per me».
Risponde Cogito:
«Mia cara Musa, tu invece sei Nulla per me».

«Come dire che la parete bianca del Nulla è un fotogramma
che dura per un bimillesimo di secondo
e viaggia alla velocità di un nanometro,
unità di misura della lunghezza che corrisponde a 10⁻⁹ metri»,
interloquì Azazello dall’altalena
nettandosi il muso con il bavero della giacca a quadretti.

Il Signor K. mi scrive:

«gentile Linguaglossa,

Le spedisco una cartolina dall’Antartide a – 70 gradi centigradi.
Qui non ci sono cose men che bianche,
ma è un bianco così splendente che tutti gli altri colori
del Vostro mondo si assottigliano
e si confondono.
Davvero, mi venga a trovare, mi creda,
qui ci si vede più chiaro circa la non consistenza
del Vostro rispettabile mondo,
la Vostra ontologia privata non corrisponde più alla ontologia pubblica,
ne prenda atto.
Un cordiale saluto dalla solida positività del Nulla.
Suo fedele interlocutore.
K.».

Giorgio Linguaglossa

Siamo entrati nella superficie superficiaria dei linguaggi di superficie

Un autore mi ha chiesto quale sia il punto di distinzione tra la poesia kitchen e la poesia del novecento. Ecco la mia risposta: il modernismo europeo in poesia come nel romanzo finisce negli anni novanta. Herbert, uno dei massimi rappresentanti del modernismo europeo ha scritto negli anni novanta: «La poesia è figlia della memoria». Herbert scrive questi versi significativi: «stammi vicino fragile memoria/ concedimi la tua infinità». La memoria, strettamente connessa alla tradizione, è vissuta dai poeti modernisti come la più grande alleata per situarsi entro l’orizzonte della tradizione, e quindi della storia. I poeti e i narratori dell’età del modernismo percepiscono la storia come tradizione e la tradizione come storia, in un nesso indissolubile, e nell’ambito della tradizione introducono il «nuovo», di qui le avanguardie del primo novecento e le post-avanguardie del secondo novecento. Con la fine del novecento, con la caduta del muro di Berlino e del comunismo e la rivoluzione mediatica, le cose sono cambiate: la storia è diventata storialità e la tradizione è diventata museo, museo di ombre e di fantasmi, da difendere e da coltivare perché produce profitti.

La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia NON è figlia della memoria» perché la storia è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita/ chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia e di un nuovo romanzo, una poesia e un romanzo incentrati sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione. Qui, in nuce, c’è il punto centrale della nuova poesia europea. Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione drammatica dell’uomo della nostra epoca è contrassegnata da questo duplice oblio: della memoria e della tradizione. Questo duplice oblio narra la nostra condizione ontologica. Tutto il resto sono degli epifenomeni laterali. In quel duplice oblio c’è tutta l’impossibilità per un poeta di oggi di non poter più scrivere come i grandi poeti del modernismo europeo.

«Una talpa inghiotte chiodi.
C’è da dare eternità al dentifricio»
(F.P. Intini)

Dinanzi ad una poesia come questa di Mario Gabriele e di Francesco Paolo Intini penso non ci sia niente da dire, perché si tratta di «riscritture» (dizione di Intini) di altre scritture le quali a loro volta sono delle «riscritture» di altre precedenti, e così via; dicevo che non abbiamo niente da dire su queste scritture se le leggiamo dal punto di vista di un serio critico di poesia, da Contini ai moderni critic reader oriented, del resto l’ermeneutica classica dinanzi ad un’opera pop o kitchen di nuova programmazione ha ben poco da dire, la chiave ermeneutica che fa riferimento al il pluristilismo e il plurilinguismo di cui ci parlava Pasolini non ci dice gran che, può illuminare gli svariati apporti lessicali e concettuali, anzi, iconici che entrano nel testo ma non potrebbe mai spiegarci perché proprio quei cotali reperti iconici e non altri siano entrati nel testo, non è un caso che Mario Gabriele parli di un atteggiamento da «anatomopatologo» che dovrebbe avere il lettore di questo tipo di poesia, e non si tratta nemmeno del «lettore ideale» a cui questa poesia si rivolgerebbe, si tratta semplicemente degli abitanti di un altro pianeta, ormai questo pianeta con i suoi brusii e i suoi rumori ha raggiunto e ottenuto il quoziente Zero dei linguaggi, non ha senso auscultare il battito cardiaco di un cadavere, qui siamo andati oltre lo stato cadaverico dei linguaggi, i linguaggi sono nient’altro che «compostaggio» di materiali inerti, isotopi radioattivi che daranno i risultati nefasti tra qualche tempo quando saranno captati dai rilevatori Geiger.

Si tratta di «ontologie private», Gabriele e Intini attingono al proprio personalissimo repertorio di parole da discoteca e da bacheca, dove ci sta il linguaggio biblico e quello del cabaret televisivo, i linguaggi da twitter e quello reader oriented, il linguaggio comunicazionale. Forse non c’è migliore esempio di questa poesia per rendere manifesto che siamo entrati dentro il quadrante di una civiltà dell’oblio della memoria e della dimenticanza della tradizione. Questo genere di poesia ci parla proprio non parlando ad alcuno, senza avere in mente un «lettore oriented» o «dis-oriented», ci dice che siamo ormai entrati in una zona orizzontale dei linguaggi dove tutti i linguaggi sono situati sulla superficie superficiaria e sincronica dei linguaggi, effetti del bianco e sono diventati effetti di linguaggi, effetti di effetti che più bianco non si può.
Oserei dire che si tratta di una «zona kitchen» che è identificabile nei termini di uno spazio vuoto al centro del soggetto che buca ogni concettualizzazione o, che è lo stesso, ogni possibilità di iscrizione dell’esperienza in un registro di senso. A ciascuno è data una possibilità di accedere a questo registro del fuori-senso e del fuori-significato come quel registro che consente la fondazione del senso e del significato.
Lacan nel Seminario VII dedicato all’etica della psicoanalisi si riferisce a das Ding e al suo statuto come a qualcosa che si situa al di fuori di ogni significato. Se è vero, infatti che la Cosa è «quel che del reale patisce del significante», allora la vacuità nel cuore del reale (il reale del soggetto, ma anche il reale inassimilabile al senso, il reale «primordiale») altro non è che la condizione di possibilità di un pieno. Come infatti il vuoto è la condizione necessaria del pieno, il fuori-senso è la condizione di possibilità di ogni senso e di ogni non-senso. La Cosa è impiegata da Lacan come manifestazione del reale stesso, che si costituisce in un paradossale regime di intima esteriorità. La Cosa è ciò che, eccedendo i limiti del linguaggio, buca dal suo interno il linguaggio medesimo, rigettandosi così ad ogni sua eventuale espressione. Il reale non è la realtà. Se in Lacan la realtà è il tessuto del simbolico e dell’immaginario, il registro del reale è ciò che irrompe nella trama della realtà bucandone l’intreccio del senso e del significato.

Questo incontro con il reale è sempre costituzionalmente fallimentare. Nell’esperienza linguistica ogni appuntamento con il reale è un appuntamento tradito, eternamente rinviato, fallito, mancato. Il reale in sé è ciò che sfugge senza posa e senza meta; non si dà appuntamento con il reale se non nella guisa di un appuntamento fallito. Pur tuttavia, detto fallimento non indica l’impossibilità dell’incontro, l’incontro con il reale si manifesta nella guisa della mancanza, della fuga, della procrastinazione indefinita, del trauma della perdita. Nella scrittura poietica l’effetto sul soggetto di questo incontro sempre mancato con il reale si dà solo nella forma del trauma della perdita che non può che essere un effetto perturbante, straniante, spossessante, slontanante, l’effetto dell’incontro fallito con un significante. A costituirsi come trauma della perdita nel linguaggio è proprio l’incontro con un significante slegato dalla catena significante, un significante vuoto. L’ineffabilità del reale coincide così con la sua radicale estraneità all’ordine del senso, del significato e della verità, mero momento di traumaticità.

Se volessimo indicare in qualche modo approssimativo il concetto di poetry kitchen dobbiamo fare riferimento al nastro di Möbius come esempio classico di superficie non orientabile, dove non si ha che una unica dimensione della quale non è possibile stabilire convenzionalmente un sopra e un sotto, un dentro o un fuori; se tentassimo di attraversare questa figura, di percorrerla, ci accorgeremmo che il nastro di Möbius incarna perfettamente il paradiso di un linguaggio non orientabile in base all’assunto del senso e del significato, di un linguaggio libero e liberato dalla costrizione del senso.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.
 .
Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.

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Instant poetry, Poetry kitchen, Twitter poetry di Lucio Mayoor Tosi, Mario M. Gabriele, Alejandra Alfaro Alfieri, Mauro Pierno, Scambio di opinioni tra Giorgio Linguaglossa, Mario Gabriele, Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa

La citazione, l’incorporazione, il gioco, l’immagine anacronica, la collezione/collazione rivelano le segnature del passato e dell’estraneo, sono segnali semaforici che stabiliscono le referenze del presente. Le opere poetiche hanno ciascuna una propria temporalità specifica che stabilisce relazioni intempestive non solo all’interno dell’opera, ma anche in relazione con altre forme di temporalità. Benjamin paragona il procedimento del montaggio ad un trucco di magia, ed appunto questo è il segreto del montaggio/compostaggio: un atto magico della poiesis.

Poetry kitchen di Alejandra Alfaro Alfieri

«Si, apri la telecamera».
«Guarda il cavallo».
La sua risata aveva spezzato lo schermo. Chi si immaginava che lei si sarebbe innamorata di un criminale.
«Non sono mai stata una rubacuori», dissi.
Ma continuarono ad interrogarmi.
Le tre bambole mi furono strappate lo stesso.
Nessuna parola di quelle dette tra me e lui compariva nel verbale.
C’erano scritte a stampatello follie e menzogne.

«Alla peggio vieni qui da me, è verde – disse –
qui si lavora la terra».
«Sai, avrei tanto voluto costruirci una casa. 5 cani. Io e te e il gatto».
La libertà era la cosa più bella che lei avesse mai vissuto.
18,30 – si gioca con lo sguardo, alla ricerca dell’ identità.

Lei con la felpa di Ralph si nascose tra le regole della metamorfosi.
«Che nessuno si muova!
Mezza giornata e ci vediamo a casa, in California»
disse Ralph.
«Un viaggio per un bicchiere di vino».
«Ok, A dopo».

http://mariomgabriele.altervista.org/1381-2/#comment-301

Poesia Kitchen di Mario M. Gabriele

Monin chiese il Copyright per l’Opera del Mondo.
Dal Cantorum si alzò la voce di Sister Power
per il Natural Work d’incomprensibile fattura.

Padre Mingus inciampò per le scale
tenendo in mano una copia di Sinn und Form,
dove anche la CDU ne approvò la pubblicazione.

Il procedimento era necessario
per fermare polittici e scritture
come disse Pier Luigi da Fassina.

Voi non sapete quanto ci stia a cuore
il vermiciattolo del baobab,
riferì uno dei 5678 fuori Aula.

Tutto questo per confessare
che si vive una vita da commedia parigina.

Amleto se ne stava in silenzio
senza volere altri shock.

Ogni giorno ci inoltriamo su Sky e Netflix
seguendo i videogame.

Riparammo i tessuti con Achillea
e acido ialuronico della Omnia Star.

Spesso ci si viene a dire
di essere deleted, fuori da ogni Capitolo,
come in un romanzo Night, Sleep, Death
di qualche thriller post Generation.

Giorgio Linguaglossa
maggio 16, 2021 at 8:36 am

caro Mario,

penso che, come tu hai scritto, siamo tutti «deleted», «fuori da ogni Capitolo», siamo membri di «una post generation». Che linguaggio usare? Come uscire da questo «post» che ci perseguita? Forse con due «post» «post»? O tre «post»? Anche il linguaggio che tu impieghi con impareggiabile maestria è un linguaggio «deleted», fitto di algoritmi vuoti, tessere di un puzzle vuoto, fitto di caselle vuote. È inutile girarci attorno: forse siamo membri segreti di una Loggia massonica, una Super “Ungheria”, dove qualcuno ci ha iscritti a nostra insaputa, e di lì dirigiamo i rapporti di potere e l’esistenza degli uomini, continuiamo a legiferare sulle nostre esistenze senza accorgerci che Qualcuno ha già deciso per noi, forse un Super-Algoritmo infinitamente complesso che pensa per noi e ci sussurra e suggerisce i pensieri che dobbiamo pensare, forse siamo già in un Grande Fratello dominato da un Algoritmo Invisibile e Insostanziale che ci conduce, e non abbiamo più bisogno di alcun Grande Dittatore o Duce di cartapesta e di fascio littorio. Abbiamo raggiunto l’insostanzialità. E siamo felici così.

Mario M. Gabriele

caro Giorgio,
le tue osservazioni sono un punto cruciale sulla dialettica del nuovo Mondo che si sta istituzionalizzando convertendo società e cultura in un nuovo elemento di decrescita e povertà.
Siamo lontani dal pensiero di Montesquieu con il suo Esprit des Lois. La divisione dei poteri in Italia sta capitolando in ambito legislativo, esecutivo, e giudiziario.
C’è in atto una revisione dei diritti di un popolo con la caduta dei fondamenti del valore e delle Costituzioni liberali. I sistemi di governo variano da nazione a nazione con risultati discutibili.

Non ce ne stiamo accorgendo ma un Superpotere è in atto in ogni nazione annullando il fondamento principale che è quello della libertà evidenziato da Habermass nel volume: Morale, Diritto, Politica (Einaudi, Torino 1992,.contro qualsiasi elemento corrosivo di Leggi ingiuste proposte dal legislatore e dai governi.
I concetti e le attuali finalità di magistrati e politici fanno parte di una lunga serie di approvvigionamento ideologico, per mettere in un angolo il vecchio asset economico, sanitario, e occupazionale, riformando democrazia e cultura.
La pandemia ha mandato in tilt l’apparato sanitario ridotto al minimo essenziale dai precedenti governi. Mai come oggi è necessario istituire un nuovo “patto sociale” senza che i poteri siano stravolti e che ogni Nazione rispetti le altre evitando genocidi e massacri come nel passato regime nazionalsocialista in Germania, e che tra Israele e Palestina stiamo ancora assistendo.
Quanto alla poesia italiana, da noi riformulata, tra critiche e proposizioni pluriestetiche, si può azzardare l’ipotesi che essa è una sorta di lessico autonomo, come segno di resistenza e accessorio minoritario, rispetto alle proposte delle grandi case editrici, che impongono una linea di dittatura culturale, di fronte alle piccole famiglie poetiche che rimangono tali con l’attenzione di pochi followers nei momenti di maggiore leggibilità.
Insistere con autonomia e demitizzazione, determinando misure precise come linguaggio della differenza, annullando iter zoomorfici diventa fattore indispensabile e necessario per non finire nella raccolta di rifiuti differenziati.

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Testo compostato in stile kitchen di Mauro Pierno, Pseudo quasi limerick di Guido Galdini, Natale, di Lucio Mayoor Tosi, Foto di Kim Jong un. Direi una foto-pop in stile kitchen di regime e figurazione digitale di Salvini che riceve in faccia uno scapaccione da Papa Francesco

Dittatore

[Foto di Kim Jong un. Direi una foto-pop. La foto pop di una pornostar internazionale]

.Salvini e Papa Bergoglio

[opera digitale kitchen-pop  dell’aspirante dittatorello dello stivale]

.

La tranquilla banalità del porno è ben visibile in questa fotografia del dittatore nordcoreano, addirittura ingenua, direi igienizzata, edulcorata, gentile, scattata e studiata con meticolosa precisione dello staff pubblicitario del dittatore per dare ai sudditi coreani una immagine normale del governante impegnato a sbrogliare gli affari di stato, con il gatto nero che osserva qualcosa fuori quadro, la carta geografica con isole e oceano azzurro, la grande tavola con scritture e cifre in geroglifici coreani, i telefoni bianchi in fila, il retro di un porta fotografie, un innocuo monitor, un tavolo in cristallo, carte e scartoffie, una biro e, infine, il faccione del dittatore un po’ obeso chino nell’atto della scrittura con la pappagorgia pendula e il taglio dei capelli come va di moda oggi in tutto il mondo presso i giovani del mondo post-comunista… Non c’è da fare nessun commento a questa fotografia, è essa che commenta se stessa, il commentatore non è più necessario perché non c’è niente da commentare, l’evidenza è auto evidente, si mostra perché è. Al pari del nostro aspirante dittatorello di provincia che chiede «pieni poteri» a torso nudo da una spiaggia del Papeete beach, nella rappresentazione digitale la Figura è rappresentata ricevere uno scapaccione dal Papa Francesco. Come dire, l’istante esce dalla storia per abitare la storialità. Il tempo diventa istante e l’istante diventa eternità, l’eternità del banale normale. È la nostra metafisica, la metafisica dell’età del sovranismo di cartongesso. Il significato si è distaccato totalmente dal significante, penso che dovremmo prenderne atto.
Giorgio Agamben scrive che «La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce». Quella metafisica del significante è diventata ormai un relitto, dobbiamo trovare il coraggio di camminare in un mondo privo di metafisica senza appoggiarci sulla mistica del significante e del significato, ignorando che tra di essi si è interposta una frattura irresolvibile. Una poiesis che non trae le conseguenze di questo assunto è una poiesis acritica. La foto di regime, il selfie di regime di Kim Jong un, seduto, bonario e tranquillizzante alla sua scrivania con il gatto miagolante non è molto diversa dal nuovo look di Salvini in giacca e cravatta e occhiali severi sulla faccia per dare un significato rassicurante rispetto alle immagini di qualche mese fa che lo ritraevano in canottiera o torso ignudo sulla spiaggia del Papeete a dichiarare caduto il governo del Conte1 e in quelle di Rimini e della Versilia a fare il disc-jay.
La nostra è l’epoca del totalitarismo e del populismo, della crisi delle democrazie liberali. È la nostra crisi, quella crisi che si vede, in contro luce e in filigrana, nella pornografia bianca delle pseudo poesie di oggi che ci parlano della pericardite, del pericardio e della peritonite, nei romanzi omiletici che ci narrano le convulsioni dei sentimenti. La foto di regime di Kim Jong Un alla scrivania non è diversa dalle foto di Salvini a torso nudo al Papeete, quelle foto creano uno sgradevole effetto di intimità e di familiarità, il medesimo effetto di estraneazione che ci crea la poesia da camera in vigore nelle democrazie liberali. C’è un legame ben visibile tra la foto del regime nordcoreano e la poesia del pericardio educato, la poesia della pornografia gentile dei giorni nostri a democrazia liberale.

.

Testo compostato in stile kitchen di Mauro Pierno

Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.(V. Petronelli)
È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat (G. Linguaglossa)
sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi(M.M. Gabriele)
non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza, (G.Gallo)
Un uomo si è perso nel parco/ha un cappello a tese larghe
porta becchime per gli uccelli/il sole non si vede (M. Pugliese)
È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio. (G. Linguaglossa)
Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita. (M.L. Colasson)
In passato eravamo poety oggi siamo kitchen!
E la pubblicità butta la pasta. (M. Pierno)
A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
all’Arco della Pace n. 5/il pomodoro rosso con il ciuffo verde/
beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
“Quante parole dobbiamo usare/per avvertire il silenzio tra le parole?” (G. Rago)
e guarda da là in alto le onde del mare
che gran fatica devono fare per arrivare
mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare (G.Galdini)
L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante, (G. Linguaglossa)
Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante… (L.M. Tosi)
quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità (V. Petronelli)
Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni (A. Sagredo)
Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine. (F.P. Intini)

Dietro la sagrestia, un vomere inceppato, tra le pietre dei granai;
mani bambine, cingono ombre di scialli stinte, tra sentieri di cardi.
È noto che l’Italia durante anni sessanta settanta ha subito l’invasione delle lavatrici, della televisione in bianco e nero, delle cinquecento e delle seicento Fiat
sono appena le 9 e il mattino non si è ancora rivelato con tutte le ionosfere linguistiche e accidentali, tra bollettini di guerra pandemica e cadute di razzi cinesi
non c’è fondo o fondamento senza sfondo, la poesia deve sempre riuscire a ripresentare lo sfondo, la latenza
Un uomo si è perso nel parco/ha un cappello a tese larghe
porta becchime per gli uccelli/il sole non si vede
È il rumore, solo il rumore che ci può condurre davanti alla soglia del segreto del linguaggio.
Una volta stabilito un campo elettromagnetico, questo agisce da sé, attira gli attori e il materiale di risulta e quello nuovo di zecca in un pot-pourri, li fagocita.
In passato eravamo poety oggi siamo kitchen!
E la pubblicità butta la pasta.
A Roma, caffetteria del Chiostro del Bramante
all’Arco della Pace n. 5/il pomodoro rosso con il ciuffo verde/
beve un cappuccino con l’uccello Petty di Marie Laure Colasson:
“Quante parole dobbiamo usare/per avvertire il silenzio tra le parole?”
e guarda da là in alto le onde del mare
che gran fatica devono fare per arrivare
mentre a lui basta un filo di vento per scorrazzare
L’arte occidentale non ha fatto una bella figura, e neanche la poesia, ormai i poeti non hanno nulla da dire di importante,
Abbastanza da ritenere che saremo sempre, noi umani, una razza primitiva; che a pensarci bene, è rassicurante…
quando camminando per Milano, mi compaiono angoli di insularità
Quando la colomba s’accartoccia sul fiume ed Elia piange
nei canali in piena le oscure torbe discorrono coi lampioni
Oggi gli stessi dicono che bisognerebbe fare delle spighe di ferro e da queste ricavare la ruggine.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Instant poetry, ultimo esito della poetry kitchen, Il gatto di Schrödinger, Lo spazio espressivo integrale della poesia kitchen, Sketch di poesia di Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Curzio Malaparte, Anonimo, Gino Rago, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Vincenzo Petronelli

La instant poetry
Sulla struttura circolare e la struttura lineare della nuova poesia

Lo spazio espressivo integrale della poesia kitchen è il campo in cui «maschere», «icone» «tempo», «spazio» vengono ridefiniti in un nuovo paradigma.

Lo spazio espressivo integrale della instant poetry è l’istante, l’essere qui e là contemporaneamente, qui per me, là per te, in due luoghi. E ciò combacia perfettamente con la legge del gatto di Schrödinger e con la fisica dei quanti.

La «struttura a polittico» della poesia è una struttura circolare. La struttura della instant poetry è una struttura a segmento.
La struttura lineare, a segmento della poesia kitchen e della instant poetry chiama in causa la mancanza di fondamento del pensiero della fine della metafisica.

La poesia kitchen è fondata sullo statuto di verità del nuovo discorso poetico, ultimo esito della ricerca definita «nuova ontologia estetica».

Il «polittico» nasce dalla consapevolezza che il discorso poetico è privo di un fondamento. La instant poetry nasce dalla consapevolezza che il discorso poetico è privo di un fondamento. La instant poetry nasce dall’utopia di poter afferrare l’istante, come fondamento di se stesso, ovvero, come l’originale di se stesso.

Il tempo del fantasma è l’istante, l’istantanea presenza del presente.
Il fantasma è lì dove il linguaggio manca. Pone un termine, un alt alle possibilità del linguaggio, perché è il presupposto affinché vi sia linguaggio.
Il silenzio è dentro il linguaggio, è contenuto nel linguaggio come suo presupposto, come confine «interno». Se non vi fosse il silenzio, non sorgerebbe neanche il linguaggio. Quindi, il linguaggio non deriva dal silenzio come una nota vulgata vorrebbe farci credere, ma è all’interno del linguaggio. Di conseguenza il «fantasma» sarebbe nient’altro che il commissario rappresentante del silenzio all’interno del linguaggio. La sentinella del linguaggio.

(g.l.)

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Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa, La nuova poesia, il nuovo linguaggio critico, la poiesis, la poetry kitchen, la nuova ontologia, Logos, lo spazio poetico, Storia italiana del Covid19, I parte

Marie Laure Colasson 50x28 2021

Marie Laure Colasson, Structure, 50×28 cm, acrilico, 2021 – L’arte moderna diventa astratta quando si accorge che non si può più raffigurare l’irrappresentabile, perché la normalità è diventata finalmente rappresentabile in quanto neutra e neutrale, perché la poiesis è diventata decorativa e funzionale alla estetizzazione diffusa e fa da cornice alla immondizia e ai cassonetti dei rifiuti e che non c’è alcun experimentum da fare. Così, non è più possibile oggi fare dei ritratti che non siano kitsch o peggio, il volto umano non è più raffigurabile, così come non è più raffigurabile un paesaggio, con buona pace del zanzottismo e dei suoi fedeli seguaci. L’arte moderna diventa astratta perché ha orrore degli oggetti, che nel frattempo sono stati defenestrati dalla sanità pubblica del buon gusto. Diventa astratta perché ha in orrore la spiritualità posticcia e invereconda delle anime belle… (g.l.)

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Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

Domanda: La «nuova poesia» pone sicuramente la necessità di una «nuova lettura». Lasciamo stare per il momento se questa«nuova lettura» sia proprio quella della «nuova ontologia estetica» o sia qualcosa d’altro. Resta il fatto che la «nuova lettura» implica munirsi di una dotazione intellettuale nuova e diversa, il critico che deve fare una «nuova lettura», deve abbandonare i linguaggi ermeneutici pregressi, deve inventarne di nuovi, di desueti, non riconoscibili. Certo è che una «nuova lettura» della poesia kitchen si deve munire di strumenti «diversi», deve saper pescare nel linguaggio filosofico recente quegli spunti che ti offrano una «nuova visione» della poesia moderna. Quello che è indubbio è che gli strumenti ermeneutici tradizionali non possono aiutarci. Rinnovare il linguaggio ermeneutico (per carità, lasciamo il termine “critico”) è oggi una necessità della «nuova ontologia estetica».

Risposta: Mi dispiace, molti non capiscono il nuovo linguaggio critico, ma è perché i miei commentatori sono rimasti fedeli ad un vocabolario critico un po’ attempato, i più aggiornati, mi riferisco agli addetti ai Cultural studies, non hanno strumenti categoriali idonei a comprendere la nuova poesia, il loro è un vocabolario accademico!
Alcune persone mi hanno chiesto lumi su ciò che intendo per «linguaggio dell’esplicito e dell’implicito». Non credo di essere stato particolarmente astruso. Possiamo considerare implicito un discorso che va per linee esterne ad un oggetto, che dà per scontata la presupposizione cui una risposta sempre reca in sé, anche in modo inconscio.

Domanda: Tu hai scritto:

«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto, tra gli altri, i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, dell’attualità, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Questo tipo di scrittura che oggi va di moda è la poesia maggioritaria?

Risposta: Interrogare il logos significa che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi «impliciti», il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o non posta. Nella risposta esplicativa l’interlocutore introduce sempre uno smarcamento, una deviazione che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.

La traduzione problematologica diventa nella poesia kitchen una traslazione stilistica. I vecchi concetti di «simmetria» e di «armonia», legati ad un concetto lineare del tempo, vengono sostituiti con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella kitchen invece assistiamo ad un universo sintattico «goniometrico», plurispaziale, pluritemporale, distopico.

Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così diritte e dirette. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

Domanda: Puoi fare un esempio?

Risposta: Nella poesia kitchen è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzweg), un significato barrato, e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica, una topografia dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito.

La poesia kitchen risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare» dell’io. In questa ricerca eccentrica, spiraliforme, indiretta la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un pluri-spazio che si apre al tempo, anzi, un pluri-spazio fitto di temporalità, un tempo fatto di pluri-spazio, che apre lo spazio, lo svincola dalla sua clausura temporale. È la marca della pluri spazialità quella che appare alla lettura, un pluri-spazio inscindibilmente legato ad una molteplicità di accadimenti.

Per la poesia kitchen il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta che rimanda ad altro, che rinvia ad un altro segno, ad un significato deviato perché non vuole statuire attraverso il discorso assertorio dell’io e della comunicazione. Il discorso poetico kitchen invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia della poetry kitchen abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi appaiono e basta:

la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua
(Mauro Pierno)

Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora, della metonimia, dell’immagine. La metafora e, soprattutto, la metonimia indicano così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metonimia smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia kitchen, non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, ad un qualche significato o senso, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non è una glossa, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo, pur se superdissimile e superdistopico.

Domanda: A questo punto, possiamo dire che la questione della poiesis diventa una questione ontologica?

Risposta: La metafisica occidentale conosce da sempre una ontologia per la quale «l’essere è ciò che è presupposto al linguaggio (al nome che lo manifesta), ciò sulla cui presupposizione si dice ciò che si dice» (Agamben, Il linguaggio e la morte, p. 17). Occorre rovesciare il problema: si dà una onto-logia, «il fatto che l’essere si dica e che il dire si riferisca all’essere» (ibid.), che «l’ente in quanto ente e l’ente in quanto è detto ente sono inseparabili» (ivi, p. 18).
La questione del linguaggio è che l’essere non parla mai, l’essere è muto. È sempre il linguaggio che parla, e parla secondo la legge del linguaggio differenziale. Il linguaggio non conosce l’io, conosce soltanto il parlante, il che è molto diverso dall’«io parlo», il parlante è «colui che» parla. «Colui che» (quindi un altro) che parla in mia vece, al posto di… È il linguaggio dell’Altro che parla.
La poiesis ha sempre a che fare con il linguaggio di quel «colui che» sta parlando nell’atto in cui parla.

Marie Laure Colasson Struttura 30x30, 2020

[Marie Laure Colasson, Combustione, 30×30 cm, acrilico, 2020]

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il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.

(Tadeusz Różewicz)

Giorgio Linguaglossa

Poetry kitchen
Storia italiana del Covid19,
I parte

➡Marie Laure Colasson telefona al poeta Gino Rago.
«Non c’è più posto nelle mie “Strutture dissipative”!*»,
grida allarmata.
Tatarkiewick litiga con il filosofo Žižek, dice che “Brillo box”
è una scatola di detersivo e basta.
Marie Laure Colasson se la prende con il nano Azazello
che le vuole dare un bacio,
«Pizzichi e puzzi, fatti la barba, lavati e pussa via!».
Il nano Proculo lancia un tubetto di Astrazeneca sulla groppa di un gatto nero
nel mentre che questi galoppa nella kitchen dell’Ufficio Informazioni Riservate
di via Pietro Giordani 18,
è invaghito della gatta Johnson & Johnson.
Le dice: «Sei più bella di una Opel coupè».

➡Robert Redford e Jane Fonda.
Backstage sul set del film “The Chase” (1966).
Lui indossa una tuta da operaio, un bicchiere di plastica.
Lei sorride, sta fumando.
Ha un impermeabile grigio, ma forse no, è la foto in bianco e nero.
Che confonde.
Sembrano gentili e sorridenti.

Un selfie della putiniana deputatessa Olga Kamjenska in monokini sulla spiaggia
finisce su facebook.
Un ammiratore le scrive: «Das Nichts nichtet».

➡Piazza del Plebiscito. Milano. Giugno 2020.
La deputatessa Santanchè di “Fratelli d’Italia”, agita la borsetta Birkin n. 21.
Urla: «Il popolo ha fame!».
Strilla contro i Dpcm del governo Conte.
Scarpe con tacco a spillo metallizzato da 350 euro.
Leggings da 750 euro con lista laterale argentata.
Permanente con meches, 250 euro.
Gilet, 350 euro.
Giacca, 3000 euro.
Occhiali Ray ban da sole ottagonali, 500 euro.
T-shirt à fleur. 700 euro.
Mascherina Trussardi, 180 euro.

➡Giugno 2020, dopo la prima ondata Covid.
Una tavola rotonda di aspiranti poeti su Zoom.
La showgirl Wanda Osiris svestita da cow boy brucia il perizoma in pubblico.
Passeggia sulla passerella per il quarto d’ora di celebrità.

L’agente 007 bacia Ursula Andress sul set del film “Licenza di uccidere” (1962).
Ha inizio la saga cinematografica di James Bond,
agente segreto di Sua Maestà britannica.
Renzi attua la tattica della «opposizione al pop-corn»
contro il governo Lega-5Stelle.

L’Ombra delle Parole lancia la poetica della poetry kitchen,
poesia pop-corn, o poesia buffet.

Gino Rago invia “Storia di una pallottola n. 14” al poeta Giorgio Linguaglossa
all’Ufficio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani
con un biglietto:
«caro Linguaglossa, Lei è in pericolo».

Marie Laure Colasson è in atelier, lavora ad un’ultima “Struttura dissipativa”.*
Ci stanno dentro Marlon Brando e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Telefona a Catherine Deneuve nel film “Belle de jour”,
le dice di cambiare il rossetto, di mettere quello rosso de l’Oreal n. 37.

La crossdresser Korra del Rio si fa fotografare nuda
avvolta in una tela di ragno
per la pubblicità di una marca di profilattici.

«Seguite la video-chat erotica di Lilla13», dice una inserzione promozionale
con tanto di pose osé della mitica star.
La poesia è «una questità di stati di cose», afferma il noto critico letterario
Giorgio Linguaglossa.

➡Il filosofo Stavrakakis fa una video-chiamata ad Ewa Kant.
Dice: «Pornostar di tutto il mondo, unitevi!».
La crossdresser esce dall’armadio
svestita di tutto punto:
calzamaglia a rete, tacchi a spillo 16, perizoma.
Sta bevendo un caffè bollente.
Dice che presto salirà sul lampadario
e da lì verserà litri di “Aromatique Elixir de Clinique”
sulla testa dei piccolo borghesi
con il naso all’in sù.
Dice che vuole entrare in una “Struttura dissipativa” della Colasson
e invece si deve accontentare di un “Covid garden” di Lucio Mayoor Tosi.
La deputatessa Olga Kamjenska, “Forza Italia”,
chapeau a larghe tese Dolce & Gabbana, euro 370,
la invita ad una partouze con il Cavaliere
e l’ultrareazionario Pillon con la farfallina gialla sotto il collo.
Salvini mangia in diretta TV un cesto di ciliegie
e bacia il rosario della santissima Madonna immacolata. Continua a leggere

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Sul nichilismo, Giorgio Linguaglossa, Poesia di Mauro Pierno, Carlo Livia, The Plateaux of Mirror, Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi,

Lucio Mayoor Tosi Sei Pezzi

Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi – Segni, orme, tracce, indizi. La poiesis dell’«io penso dunque sono» della tradizione poetica del novecento, la poiesis da risultato sicuro, cioè del significante e del significato, è affondata insieme alla tradizione. Dire: «io dunque significo e posso significare ciò che voglio» è dire un falso assioma. La poesia da risultato è una poesia che deriva da un concetto di logos tutto sommato rassicurante, perché l’io ha a che fare soltanto con se medesimo: quello che l’io dice e quello che non dice si trova nel campo della verità, non si discute. Da questa impostazione ne deriva che il non-io non esiste, e quindi è fuori della verità, fuori del campo della verità. Una posizione indubbiamente comoda, rassicurante, che non si può discutere. Un concetto, si direbbe oggi, da «dittatura sanitaria». Ipse dixit. Si potrebbe dire, parafrasando un virologo che va di moda oggi, che «l’io è clinicamente morto». L’io, il locutore, ha cessato di essere il fondatore e il fonatore.
Nella poiesis della poetry kitchen non siamo più entro il recinto o campo della verità. Ci muoviamo in un campo che non conosciamo, e che per di più ci è estraneo, in cui le strade e la mappa del territorio non possono più orientarci. È questa la ragione, ad esempio, dei «segni» che Lucio Mayoor Tosi dissemina sul suo cammino perché essi sono gli unici «segnavia» che ci consentono di riconoscere i luoghi e gli oggetti e, di conseguenza, il soggetto che noi siamo e che ci è sconosciuto.

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Giorgio Linguaglossa

La questità di cose nella poesia kitchen

C’è, in ogni poesia kitchen, una determinata questità di cose, le quali cose avvengono in quanto sono in presenza, cioè costituiscono una attualità esperienziale. Nelle tre poesie dei tre autori qui pubblicati emerge che non v’è più una arché dal cui cominciamento la poesia prende luogo, si sviluppa e termina nel medesimo luogo, ma ci sono più luoghi disparati dove delle cose disparatissime prendono il luogo della presenza, cioè vengono in presenza e se ne vanno con la stessa facilità con cui sono venute in presenza. Qui sono le «cose» ad essere protagoniste, non Sua Maestà l’io. E questo è un fatto problematico, perché le «cose» non rispondono più all’io plenipotenziario che le ha nominate (come vuole una certa tradizione ermeneutica) ma soltanto a chi le ha chiamate in presenza, le «cose» galleggiano nella presenza, appaiono irresponsabili in quanto si danno in formazioni gratuite e onnilaterali.

La questità delle cose presenti in una poesia kitchen è totalmente diversa dalla questità di cose presenti in una poesia normo direzionata dall’io esperienziale. Questo fatto è del tutto evidente, incontrovertibile. Di conseguenza, la ricchezza, la contraddittorietà e la problematicità delle «cose» presenti in una poesia kitchen dipendono dal fatto che esse sembrano essersi liberate, sciolte dai rapporti di produzione e dalle forze produttive che le hanno prodotte. Così, anche le parole sembrano essersi liberate dalla soggezione alla sintassi delle lingue storiche e si danno senza alcun ordine apparente. E questo è un prodotto storico del capitalismo finanziario del nostro mondo globale, che fa apparire le «cose» e le parole come per magia, di qua e di là, nel mondo virtualreale. Le «cose», liberate dai loro contesti di cosità, appaiono leggere e friabili, insignificanti e aleatorie. Così poi tutto va a finire in una gran confusione:

Questa fine di cucchiaini nel reparto più piccolo.
Sebbene poi per disordine anche qualche cucchiaio nello scomparto delle forchette.

(Mauro Pierno)

Oppure, nella fantasmagoria della gallina Nanin che si è ribellata al suo papà, tale Lucio Mayoor Tosi, e se ne va in giro a far guai. È che gli oggetti sembrano essersi liberati della loro forma di merce e si mostrano come feticci dotati di mana, di forze allucinatorie…

Lucio Mayoor Tosi gallina 2020

Lucio Mayoor Tosi, gallina Nanin

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Carlo Livia

The Plateaux of Mirror

se non parla convoca gli aghi
le stanzette bipolari, la polvere delle casematte

altri io strisciano sui contorni
ma il gorgo è sempre lì, che urla nell’amianto

oppure trasloca nel terzo raggio
nei dialoghi fra le sepolture

c’è un dolore al centro della luce
di notte è un’acqua muta

l’amore è un nulla che ferisce la sintassi
una spina nel fianco dell’ora di punta

la bestia si lecca gli angoli di lutto
che dal cielo sembrano peccati

ha un sonno obeso di lunghe mitosi
misteri umidi nel vento psichico

l’uragano ha dimenticato la cristalliera
dove lei arrossisce sottovoce
e ripone i suoi celibi

la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua

l’attimo terminale indossa il sogno del violoncello
davanti al precipizio soffice

il Demiurgo ha un pallore malsano
getta il follicolo in perifrasi infinite

il congegno profetico è stato seppellito vivo
con le sue protesi appena nate

ma il messaggio vaga ancora nel frutteto
con i neutrini a vista

.

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.

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sALVINI BANDA BASSOTTI

Foto professionale, kitchen, in posa il Presidente della Lombardia con un suo assessore

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Mauro Pierno

«Tutto finisce» disse uno all’altro. Perché erano sempre due.
E non c’è verso, o verbo, che possa cambiare.
§
Vogliamo parlare del merito? Delle cassapanche fine settecento
infilate sotto il mento, dello street food?

Della cultura forse, del puntaspilli perso a Porta Portese
Dell’almanacco del giorno? Del capezzolo spuntato su Marte?

Edmond le indico le esatte coordinate WGS84
il piano di fuga, la donna di picche e tutto il kit per la salvaguardia,

il bisbiglio continuo, le luci accese e senza incomodare ne generali
ne colpi di scatole le lascio tutto sul comodino.

Cosi nel flusso continuo di una news permanente, nel pugno,
la posizione non cambia. Bau! Bau! (detto in cinese)
§
se non parla convoca gli aghi
le stanzette bipolari, la polvere delle casematte

altri io strisciano sui contorni
ma il gorgo è sempre lì, che urla nell’amianto

oppure trasloca nel terzo raggio
nei dialoghi fra le sepolture

c’è un dolore al centro della luce
di notte è un’acqua muta

l’amore è un nulla che ferisce la sintassi
una spina nel fianco dell’ora di punta

la bestia si lecca gli angoli di lutto
che dal cielo sembrano peccati

ha un sonno obeso di lunghe mitosi
misteri umidi nel vento psichico

l’uragano ha dimenticato la cristalliera
dove lei arrossisce sottovoce
e ripone i suoi celibi

la clessidra, contagiata dal silenzio delle madonne
segna avvoltoi, verande infelici, parole di neve sull’acqua

l’attimo terminale indossa il sogno del violoncello
davanti al precipizio soffice

il Demiurgo ha un pallore malsano
getta il follicolo in perifrasi infinite

il congegno profetico è stato seppellito vivo
con le sue protesi appena nate

ma il messaggio vaga ancora nel frutteto
con i neutrini a vista Continua a leggere

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Jacopo Ricciardi, Il frammento non lo trovo io, Così sono sbucato in un corridoio del carcere di Regina Coeli, di Giorgio Linguaglossa, Poesie kitchen Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin, E la poesia italiana che fa, continua con i suoi stereotipi?

Gif Bulgakov Il Maestro e Margherita

Gif dal film Il Maestro e Margherita

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Jacopo Ricciardi

Il frammento non lo trovo io. Il frammento non trova io. Il frammento si trova da solo. Guardo la tartaruga fracassata in terra davanti a me. Io l’ho lanciata e ho sbagliato. Il frammento che cerco è già pronto, devo solo cucinarlo per bene. Ma dove lo trovo? Se il mondo che ho davanti è fatto da tante unità, e devo fare di quelle unità un frammento debole, un residuo, devo prendere l’ombra di quelle unità che sono le parole, e capire che le parole in quanto ombre sono le vere cose, e devo trattarle, friggerle magari, con attenzione in una poesia strutturata con parole d’ombra che sono ‘cose’ vere. Il mondo che ho davanti sta dopo quelle ‘cose’. È vero allora che la realtà è una discarica.
E la realtà ha situazioni (dentro cui essa si muove; le vicende vi si dibattono dentro, le attraversano per momentanei brani e lembi di situazioni), o concezioni (che la sintetizzano e la radicano, a volte in un modo a volte in un altro moltiplicandosi come spazi di tempo; l’elaborazione si elabora e il suo meccanismo ha un trascorrere, una simulazione di tempo, ripetuta in isole di tempi, allungate, protratte), o condizioni (ossia il modo delle cose di essere l’una al fianco dell’altra in relazioni multiple, contradditorie, occupandosi a vicenda, un pezzo dell’una in un pezzo dell’altra, confrontandosi, senza venire a capo di nulla, anzi per non venirne a capo; soggetti e oggetti in promiscua azione, ogni cosa in per nel sull’altra, confondendosi e provocandosi), o tradimenti (ogni cosa si divora allontanandosi fino all’infinito, all’estremo, vincendo e fallendo contemporaneamente, in un distanziamento di una deriva; il vicinissimo e il lontanissimo convivono, bruciano e collassano quasi che un’ombra si alimentasse di altre ombre), o si consuma (ogni cosa lasciata a se stessa col suo universo di esperienza-relitto, in viaggio con le altre cose in un elenco inesauribile di universalità; il consumarsi senza sosta e senza termine ne dà l’universo tra irripetuti universi di ‘cose’ lasciati a se stessi, privati di una sola creazione per tutti e arricchiti di una sola creazione per ognuno), o negazione (caduta libera di spazi attraverso tempi e tempi attraverso spazi lasciando apparire veri lampi di strascichi spazio temporali; con ‘cose’ frammentate di presenze sparse).
Situazioni (Gino Rago), concezioni (Giorgio Linguaglossa), condizioni (Marie Laure Colasson), tradimenti (Francesco Paolo Intini), consumazioni (Mario Gabriele) e negazioni (Jacopo Ricciardi), sono le caratteristiche apparenti della realtà che ora funzionano come meandri della discarica, dove si perdono e vengono ritrovate le ‘cose’ ossia le parole che riemergono attraverso la vastità di questi meandri che le fanno riapparire in quanto realtà fatta dell’ombra (mentale) che si rimodella fisicamente, abitando questi meandri fisici della realtà non più apparente, e da questi riconcretizzando un mondo di comportamenti e leggi di un futuro presente.
La mente riconosce le situazioni, e le può ricreare, anzi può essere una situazione, e quindi inserire i frammenti nelle situazioni della mente. La mente ha dei meandri come eventi proiettivi. Ora il punto è capire se la mente riconosce l’architettura delle situazioni nella realtà apparente e le porta dentro di sé, potendo diventare situazione di sé, per far riemergere i frammenti delle parole da quei meandri, oppure la mente è fatta da una struttura che è stata autoriconosciuta come situazioni e ha modellato la realtà apparente su di sé in quanto situazioni mentali, nascondendosi in un’apparenza che la stessa ha prima creato e poi tolto riconoscendosi originaria matrice. Ma allora cosa sono le situazioni mentali? È un modo della mente di mettere in relazione i frammenti, cioè di farli apparire ad ogni meandro con un certo fondamento, un certo modo di apparenza, di concretizzazione, di occupazione di un luogo, una proiezione che permette un certo tipo di mostrarsi reale. La mente ha più meandri, e sono meandri umani; si ha la sensazione che la mente abbia una struttura che possa essere anche non umana (extraterrestre?) ma noi abbiamo la mente umana e solo quella possiamo far funzionare. L’intelligenza artificiale può essere una mente non umana? Le parole sono cosa umana, e possono aprire all’umano e alla mente umana. Quanti sono i meandri di cui è capace? Forse quanti sono i viventi. Ognuno può attivare un proprio piano di meandro.

Giorgio Linguaglossa

caro Jacopo,

stanotte ho sognato che l’ultimo giorno di lavoro in ufficio prima di andare in pensione avevo stipato tutte le mie cose dell’Ufficio in una cassa di legno, ma era troppo ingombrante e pesante per portarla via semplicemente… in qualche modo ci ho provato. Degli agenti preposti ai cancelli mi hanno riconosciuto e mi hanno salutato. Io ho salutato loro. Ero un po’ imbarazzato per via della cassa ingombrante, infatti mi chiedevo: «E adesso che cosa penseranno di me? Che ho rubato le cose dall’ufficio?», ma fortunatamente gli agenti non ci hanno fatto caso. Così sono sbucato in un corridoio del carcere di Regina Coeli (dove ho lavorato per molti anni). Il giorno dopo sarei andato in pensione, e dovevo portarmi via quella cassa… Così sono uscito lungo la via della Lungara. Ero in automobile ma la strada era ostruita da dei lavori e quindi non potevo passare, avrei dovuto fare un giro lunghissimo per passare. Così mi accigevo a fare il tragitto lungo quando… mi sono svegliato. E mi sono chiesto: «Dov’è la cassa»?

È che dentro quella cassa ci stanno tutte quelle cose che non ho potuto portare via con me. C’è tutto il mio passato, a me stesso sconosciuto. Forse la poesia, nella poesia si ritrova il passato, che però nel frattempo è diventato irriconoscibile. E allora non ci resta che oscillare in quella zona mediana tra passato e futuro che non è il presente, perché il presente non esiste, ma è un frammezzo. È in questo frammezzo che dobbiamo lavorare con la poiesis. Quando tu scrivi che «la mente ha più meandri», tocchi un punto importante, ma come faccio a riconoscere le cose che sono stipate nella cassa se non le posso più riconoscere perché sono diventate irriconoscibili? Le vere esperienze sono quelle che sono andate via e sono scomparse. Con la poesia non possiamo fare altro che una copia di quelle esperienze che sono ormai scomparse, una copia di un originale che non c’è più.

È che per la poesia non abbiamo un linguaggio già pronto, altrimenti non sarebbe poesia ma kitsch. Il linguaggio poetico e il linguaggio narrativo tendono sempre più ad assomigliare ai linguaggi da rotocalco. Anche il lingaggio del politico tende ai linguaggi telemediatici. Non c’è via di uscita: i linguaggi artistici prendono a modello inconsapevole i linguaggi telemediatici. Quando invece il linguaggio poietico lo dobbiamo trovare andando contro corrente in un perenne stato di eccezione durante il quale sospendiamo ogni linguaggio del già detto, restiamo senza parola, senza linguaggio… In questa condizione esistenziale, quando ci manca il linguaggio, sentiamo che qualcosa di essenziale ci sfugge ma non riusciamo a dire che cosa sia, è solo una sensazione, una impressione…

Scrive Agamben:
«Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo. Uomini ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono».

E ancora: «Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente. La mobilitazione totale nella quale Jünger vedeva il carattere essenziale del nostro tempo va vista in questa prospettiva. Gli uomini devono essere mobilitati, devono sentirsi ogni istante in una condizione di emergenza, regolata nei minimi particolari da chi ha il potere di deciderla. Ma mentre la mobilitazione aveva in passato lo scopo di avvicinare gli uomini, ora mira a isolarli e a distanziarli gli uni dagli altri»

E la poesia italiana che fa? Continua con i suoi stereotipi e con il concetto lineare e reflessologico di mimesis del reale presunto e presupposto?; ma, chiediamoci, quel reale che ci hanno raccontato, non è scomparso?, non si è inabissato con tutto il bagaglio del senso, del significato e del non senso?, non è affondato con l’inabissarsi dell’ideologia della mimesis?. La poesia continua ad essere narrata come se quel reale fosse lì con il linguaggio che abbiamo già pronto, davanti a noi in attesa di essere fotogrammato. Ma quel reale è diventato ideologia, feticcio, surrogato, simulacro del senso comune, non è più possibile accoglierlo nella sua postura così com’è e per come si presenta nell’ideogramma dell’ideologia. E viene scambiato con la poesia dell’io, con la poesia monodica, con la poesia della disperazione posticcia, fasulla e invereconda. Quello che è posticcio e inverecondo è la postura della poesia che si auto nomina maggioritaria per via di elezione e di cooptazione…

Francesco Paolo Intini

QUALCOSA SCENDE DAL CALENDARIO FORSE BILE O UN VERSO NASCOSTO.

Il 22 febbraio cominciarono i lavori.
Un’ oca innamorata del suo fegato.

Ci volle un ginecologo al capezzale
Che sapeva dove mettere le mani.

Il calendario in bianco.
Ottobre nascosto dietro Maggio.

Ci fu il modo di sporcarsi le mani ma poi
iniziarono i registri a compilarsi.

Il peso della visione e l’importanza
Delle virgole nel sistemare i primi.

Dietro front delle pallottole.
Si torna nei tamburi. Niente Bucharin.

Una postilla abolisce gli sgabelli.
Esenin recita al capezzale d’Isadora.

C’è Filini di fronte. Sapete?

L’Asl prende di petto la Questio.
Non accade niente senza un depistaggio.

Caino ucciso da suo fratello.
Revenge di un petalo sul catrame.

Lenin si riprende dall’urto delle arterie
Rimesso in piedi dallo zar Nicola.

Salta un piano per far fuori la partita
Escludere peschi dalle avanguardie.

Ossigeno liquido condensa Elio.
Un profumo sistema i papaveri.

Prendere il ‘69 e rovesciare la corolla.
Scoprire se tra gli stami c’è albume d’uovo.

Tutto in un pacchetto per Natale.
Sonno diffonde cloroformio.

Il gran ritorno della bile nell’ intestino.
Ferlinghetti morto, Andy vivo.

foto 4 gallineGino Rago
Vicissitudini della gallina Nanin, ultimo atto

Nanin decide di scolarsi una bottiglia di Rosso di Montalcino,
cantina Belvedere 1997,
comincia senza freni a delirare:
«Sì , è vero, detesto il mio papà,
quel Lucio Mayoor Tosi, lui è dei 5Stelle
ed io sono una democratica del PD!
Adesso basta con questa Alleanza,
è innaturale, anzi, contro natura, è un trans,
e Zingaretti un crossdresser!
Adesso faccio colazione a letto con uova e pancetta
mentre il segretario del PD se la spassa con quella vecchia befana
di Ursula Andress…
Dice che la sogna anche di notte
stesa tra i rododendri e i platani di Villa Borghese.
Ma io gli rendo pan per focaccia!».

Saltella qua e là e va ad appollaiarsi
sulla ringhiera del balcone dell’Ufficio Affari Internazionali
di via Pietro Giordani 18.
Nanin sa che il Direttore, il critico Giorgio Linguaglossa,
come ogni mercoledì
a quell’ora è tra le lenzuola con la nuova amante,
Madame Hanska, la giovanissima moglie di un poeta di Boemia.
La porta è socchiusa.
Entra nella Room n.3 al 5 piano.
Sul comodino tra due finestre che ricevono luce dalla via
sono poggiati cinque libri:
Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg,
I platani sul Tevere diventano betulle di Gino Rago,
La lugubre gondola di Tomas Tranströmer,
Fuga da Bisanzio di Iosif Brodskij,
Rapporto dalla città assediata di