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Agota Kristof, Poesie scelte da Chiodi, Edizioni Casagrande, 2018 pp. 100 € 16, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: La poesia del nostro tempo non può che nascere e crescere sotto il Grande Gelo, e una intervista di Michele De Mieri 

Agota Kristof (1935-) stands outside the window of a bookstore displaying her works. She is in Strasbourg to attend the Crossroads of European Literature event in October 1989.

Foto di Agota Kristof anni settata davanti alla vetrina di una libreria

Agota Kristof è nata a Scicvàud, Ungheria nel 1935 ed è morta nel 2011. Rifugiata in Svizzera nel 1956, all’epoca dei moti di Ungheria, è stata cittadina svizzera ed ha vissuto a Neuchatel. Ha avuto tre figli, una figlia dal primo marito ungherese e due maschi dal secondo, svizzero. La Kristof è scrittrice notissima in Francia e ancor più nota nella Svizzera romanda, sua terra di adozione. Ha scritto, in francese, tra il 1986 e il ’91 tre romanzi: Il grande quaderno (1986); La prova (1988); La terza menzogna (1991), usciti in traduzione italiana con Einaudi nel 1998 sotto il titolo di La trilogia di K., seguiti da Ieri del 1995 (ed. italiana, Einaudi, 1997), da cui Silvio Soldini ha tratto il film Brucio nel vento, verso il quale la Kristof espresse un giudizio negativo. Sono note anche le sue pièces teatrali: John et Joe del 1972; La chiave dell’ascensore (77), L’ora grigia o l’ultimo cliente (queste due edite da Einaudi 1999) e Un rat qui passe del ’84. La Trilogia è diventata presto un classico della letteratura francofona, e soprattutto la prima parte, Il Grande Quaderno, ha ispirato anche molti adattamenti scenici. È tradotta, in 33 lingue: La Kristof, nella sua laconica riservatezza, ne sembra molto contenta: ha conservato pochissimi libri, dopo il divorzio, (il secondo a quanto si capisce), ma tiene con cura tutte le traduzioni del Grande Quaderno, o “dei Gemelli’, come le chiama la scrittrice.

Gif finestrino treno pioggia

Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi/ Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie/ Tram correvano a casaccio sulle rotaie

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Scrive  Agota Kristof: «Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola».

 Agota Kristof,  come si sa, ha preferito andare a lavorare in fabbrica come operaia piuttosto che consegnarsi ad una carriera di insegnante. Ha affermato che la fabbrica, per scrivere poesie, va benissimo: “Si può pensare ad altro, e le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi”. In uno dei racconti, “Il canale”, compare già il puma che si ritrova in un romanzo successivo, “La terza menzogna”. Mi piacerebbe sapere se ha significato simbolico. In un romanzo di Anna Maria Ortese, “’Alonso e i visionari”, c’è un puma, che rappresenta Cristo, il sacrificio: “Ma no. E’ solo un incubo. Ho spesso incubi con animali. E il puma ogni tanto ritorna. Non c’è niente di simbolico. E nemmeno negli altri racconti. Sono solo visioni”. I venticinque racconti risalgono alla prima metà degli anni Sessanta, quando, grazie a una borsa di studio, frequentava i corsi estivi per stranieri all’Università di Neuchâtel, dove si è stabilita con la famiglia dal 1957. Al professore di allora, che le chiedeva perché si fosse iscritta ai corsi per principianti, dato che parlava già bene il francese, risponde: “Perché non so né leggere né scrivere. Sono analfabeta”. 

«”Le mie mani/ rimettono a posto gli occhiali/ affinché io scriva”: l’ultima poesia di Chiodi, intitolata “Non morire”, si conclude così, riaffermando con semplice fermezza il motivo della scrittura, che attraversa l’intera opera in versi e in prosa dell’autrice e che costituisce il destino da lei accettato e caparbiamente perseguito: “Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo”: così la chiusa di un passo memorabile de L’analfebeta.

La “cosa” originaria si complica ora con il sentimento dell’inappartenenza e dell’abbandono; sul versante linguistico ciò significherà appunto il transitare “tra” le lingue senza poter mai più abbandonarsi al sentimento di una vera e propria adesione. A un giornalista piuttosto tronfio che le domandava, dilungandosi in metafore stucchevoli, “verso quale riva avrebbe nuotato” se la sua barca fosse colata a picco in un fiume le cui rive fossero state l’Ungheria e la Svizzera, Afota Kristof rispondeva con infastidito sarcasmo: “verso la più vicina, naturalmente”; a un altro, non meno irritante, che concludeva la sua inconcludente domanda chiedendo retoricamente se in fondo al tunnel la scrittrice non vedesse comunque un po’ di luce, dichiarava secca “assolutamente no”. Rive disamate o non più amabili, non più ospitali; oscurità senza redenzione possibile; sguardo lucido, asciutto e privo di illusioni: da qui proviene la voce di Agota Kristof, tra le più estreme degli ultimi decenni di letteratura europea, che nelle poesie di Chiodi può risultare contemporaneamente atroce e struggente». (Fabio Pusterla, da uno scritto in calce al volume)

Di recente ho scritto: «Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate». Più di uno, anzi, molti, anzi, quasi tutti hanno storto il naso pensando: “ah, che noia questo moralizzatore dei costumi dei letterati italiani!”. Ma adesso, leggendo queste poesie di Agota Kristof  ho capito meglio quelle mie parole: la poesia del nostro tempo non può che nascere e crescere sotto il Grande Gelo, come nelle fiabe, sotto un cavolo, deve essere davvero forte e resistente per sopravvivere al Grande Gelo universale.

Ho scritto di recente, parlando della poesia di Anna Ventura, questo pensiero: «la poesia prima di essere poesia è una posizione poetica, è un abitare stabilmente in un non luogo, in un «vuoto», un abitare spaesante. La poesia di Anna Ventura, come quella della Szymborska alla quale è stata accostata, come quella della ungherese Agota Kristof o della rumena Daniela Crasnaru proviene da questo disagio, dal dover abitare stabilmente una zona spaesante del mondo che, segretamente, ci è ostile, non ci vuole, che ci tollera a malapena e ci pone in continuazione degli ostacoli non immediatamente percepibili, che non riusciamo ad afferrare, a concettualizzare».

Per Agota Kristof quella «zona spaesante» del mondo è stata l’Ungheria del comunismo sovietico, quel regime dispotico  e capillare di controllo e di educazione delle coscienze, l’ideologia della felicità dispotica promulgata per decreto poliziesco, l’abbandono da parte della poetessa del suo paese e della sua lingua, il dover imparare un’altra lingua, il francese, come propria lingua madre, l’esperienza del  trovarsi senza lingua, o meglio, spodestata «tra» due lingue, in quella «zona» oscura inospitale, spaesante… La poesia di Agota Kristof nasce da qui, da questa «zona» inospitale e spaesante, priva di lingua, dalla ricerca spasmodica di una lingua di significati stabili.

Tre anni fa mi sono persa in una città dove
Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi
Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie
Tram correvano a casaccio sulle rotaie
Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora
Se avessi trovato almeno un po’ di soldi

Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro
Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata…

Agota Kristof_C-da Agota Kristof, I chiodi, prefazione di Fabio Pusterla, traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla, Casagrande, Bellinzona, 2018 pagg. 112, € 16

 L’uccello

Ero un uccello grande pesante e talvolta
riconoscevo le città
dove ero già stato
in particolare mi piacevano i ponti
e i giardini dove la sera
in estate volteggiavano danzatori
sotto i lampioni
avevano paura quando la mia ombra incombeva su di loro
anche io avevo paura quando cadevano le bombe
volai lontano e quando si fece silenzio
tornai volteggiando a lungo
sopra le buche e i morti
amavo la morte
amavo giocare con la morte
sopra i monti oscuri talvolta
chiudevo le ali e come un sasso
precipitavo in un burrone
ma mai del tutto mai del tutto a fondo
ancora avevo paura
ancora amavo solo la morte altrui
e non la mia
della mia morte mi innamorai solo più tardi
molto più tardi
quando ormai fui stanco e affamato e triste
quando ormai non ebbi più paura di niente
solo guardai le pietre e il nebbioso
burrone
e le mie ali si chiusero

 

Il ladro di appartamenti

Chiudere i portoni
arrivo senza far rumore con crudeli
bianche mani
io non sono della razza dei bruti
non sono della razza degli stolti e avidi
le mie mani sono bianche e affusolate
sulla mia fronte e sui miei polsi
le sottili linee delle vene
potreste ammirare se una volta
aveste modo di farlo ma io entro
nelle vostre stanze solo
quando ormai tutti sono andati via
quando ormai tutti tacciono
quando ormai ogni luce è caduta
dai vostri lampadari di cattivo gusto

Chiudete i portoni
arrivo senza far rumore con crudeli
bianche mani
vengo solo per qualche minuto
guantato in abiti scuri
ma ogni notte instancabile
e in ogni casa instancabile
io non sono della razza dei bruti
non sono della razza degli stolti e degli avidi
la mattina quando vi svegliate controllate pure
i vostri soldi i vostri gioielli non mancherà niente

Soltanto un giorno della vostra vita

Agota Kristof cover

Lentamente, lui si abituava

Lentamente, lui si abituava a questo: che lei lasciasse, dimenticasse cose da lui
Dei fiammiferi, un fazzoletto quando aveva pianto, una scarpa dei suoi figli,
i suoi guanti, i suoi occhiali talvolta.
Lui, in generale, dormiva quando lei partiva, era stanco.
Sapeva che lei restava lì, da lui, a fumare sigarette e a pensare a Dio sa cosa.
Era al mattino che scopriva gli oggetti dimenticati.
Lei non smetteva di dimenticare e di lasciare le sue cose da lui.
Il suo reggiseno.
Le sue sigarette.
Il suo accendino, un libro per l’infanzia
Il suo astuccio per gli occhiali
I suoi sandali
(Sarà rientrata a piedi nudi)
I suoi fazzoletti
I suoi cappelli, soprattutto i suoi capelli
C’è n’erano dappertutto, di suoi capelli
Sul cuscino, nel bagno, in cucina.
Un vero e proprio incubo.
I suoi capelli neri, dappertutto, in tutto l’appartamento.
L’ultima volta, aveva dimenticato le sue mani.
Due mani senza anelli, posate sul bordo del tavolo,
immobili, sanguinanti un po’ ai polsi dove le aveva selezionate.

 

Non morire

Non morire
non ancora
troppo presto il coltello
il veleno, troppo presto
Mi amo ancora
Amo le mie mani che fumano
che scrivono
Che tengono la sigaretta
La penna
Il bicchiere.
Amo le mie mani che tremano
che puliscono nonostante tutto
che si muovono.
le unghie vi crescono ancora
le mie mani
rimettono a posto gli occhiali
affinché io scriva

 

Chiodi

Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve
con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate
più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane
un prato e piume viola sul prato
crescono
gli uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega
chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte

 

Qualche parola

Sono tornati i monti della primavera ma ormai
non assomigliano più a nulla in fondo
al lago non c’è altro che melma
vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
guardano si avvicinano e fanno ritorno
a loro stessi
le città lentamente strangolano i loro
gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
le strade
un uccello prova ancora a sollevarsi
risuona qualche parola qualche campana d’allarme
e cadono le pietre

 

Ti aspettavo

Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano
Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi
Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare
Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio
Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato

Su campi freddi

Tre anni fa mi sono persa in una città dove
Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi
Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie
Tram correvano a casaccio sulle rotaie
Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora
Se avessi trovato almeno un po’ di soldi

Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro
Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata
O era solo una pittura che per sbaglio
Avevo scorto attraverso una finestra oppure mi era solo
venuta all’improvviso in mente una poesia forse era musica ormai
Non lo so invano corsi via di lì terrorizzata
Un’auto quasi mi venne addosso urlò rabbioso
Il guidatore poi mi invitò a salire in macchina mi portava a casa
Disse risi e nominai la via dove abitavo

Avevo un amico si è ucciso due anni fa
Quell’estate mi ero innamorata tre volte

Non piangere se non sono venuta da te stasera io
Ho diritto a me stessa non ti vedo nemmeno domani
Penso a tramonti polverosi odorosi di letame adesso e
A carretti solitari che rumoreggiano su viottoli invasi da erbacce
Nei tuoi occhi sento il calore degli ultimi giorni d’estate
e la loro tristezza non dimenticare le colorate sere di maggio
e osserva il pianto disperato dei boschi sferzati dalla pioggia

Camminavo per meravigliosi prati freddi senza fiori
Nel mio sogno del mio cuore non sapevo nulla
I fili d’erba ondeggiavano nel vento come bandiere
Su questi prati felici e sconfinati e allora
Dissi alla terra lascia che io rimanga qui
Di colpo un’ombra mi si parò davanti mi guardò
O forse era solo una pittura una poesia o musica ormai
Non lo so invano corsi via di lì terrorizzata

L’alba era muta e grigia come il tuo viso
Tutto mi faceva di nuovo male

Agota-Kristof_Foto_02

una intervista di Michele De Mieri uscita per l’Unità.

Minuscola e leggera, con un passo claudicante e un paio di grossi occhiali a fare da schermo ai due occhi quasi sempre socchiusi, Agota Kristof si lascia avvicinare per le interviste che man mano diventano una sorpresa: ben presto infatti la taciturna scrittrice di culto, nata in Ungheria nel 1935 e trasferitasi in Svizzera a 21 anni dopo i fatti in Ungheria, parla di tutto, confessa che non scriverà mai più nulla di così interessante come i tre libri della Trilogia della città di K, non fa sconti alla versione filmica del suo Ieri (firmata da Silvio Soldini col titolo Brucio nel vento): “Troppo melensa e poi l’attrice non era in grado di dare corpo al personaggio di Line”, confessa di leggere pochissimo e di guardare molto la televisione: “prima amavo molto il cinema ma ora ho paura di uscire da sola la sera”. Timori, crediamo, non d’ordine pubblico: a Neuchatel riesce difficile immaginarsi una delinquenza comune che rende le strade insicure le serate, come i suoi personaggi la Kristof ha altre antenne per sentire chissà quali, ben diverse paure.

Come ha cominciato a scrivere e cosa ha significato per lei il passaggio dalla sua lingua madre al francese?

Un mio personaggio, in Ieri dice che è diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori. Devo dire che quest’affermazione vale anche per me. Fin dall’infanzia ho amato leggere e scrivere. Tutte le altre cose non avevano nessuna importanza, ma non volevo fare degli studi letterari, diventare un professore. No, non amavo quella strada: ho preferito andare a lavorare in una fabbrica. Lì potevo concentrarmi sulla scrittura, sui miei pensieri, vicino alla macchina che io usavo in fabbrica c’era un foglio su cui scrivevo i miei versi, ed era la cadenza delle macchine a darmi il ritmo di quella poesia. Allora scrivevo in ungherese. Poi ho scritto pochissimo per molti anni: avevo abbandonato il mio paese e stavo lasciando anche la mia lingua per il francese che non conoscevo bene e così mi esercitavo con dialoghi teatrali. Oggi quelle mie prime opere in francese mi sembrano quasi tutte orribili. Non tutte, qualcuna buona c’è. Erano gli anni Settanta.

E i tre libri della “Trilogia” come nascono?

Dopo le pièces teatrali cominciai a scrivere delle piccole novelle, volevo parlare della mia infanzia durante la guerra, vissuta con mio fratello maggiore. Scrivevo sempre delle scene corte, una o due pagine, poi queste scene, con il loro titolo, diventavano capitoli del mio romanzo. Quindi cambiai il mio nome e quello di mio fratello e trasformai i personaggi in due maschi e poi in due gemelli. Da quel momento non scrissi solo di cose da me vissute ma cominciai a immaginare altro. Lasciai l’autobiografia e riorganizzai quei capitoli per una struttura romanzesca.

Come ha raggiunto questo stile essenziale, duro, secco?

All’inizio non era per niente così. Anche quando scrivevo in ungherese ero melliflua, romantica, troppo letteraria. Le mie prime cose in francese, quelle per il teatro, erano scritte in una lingua normale, quotidiana. Solo quando ho cominciato a scrivere i capitoli della prima parte della Trilogia ho cercato fortemente un nuovo linguaggio: dovevo rendere lo stile di un libro scritto da dei bambini (i due gemelli n.d.r.), anche se un po’ speciali, molto intelligenti e autodidatti, che amano i dizionari com’eravamo io e mio fratello. Per la verità chi mi ha messo definitivamente sulla buona strada è stato mio figlio quando aveva dieci, dodici anni, io l’osservavo molto scrivere, studiavo il modo e il contenuto, e cercavo di apprendere quello stile, quel punto di vista. Il mio stile è figlio di mio figlio.
Lei sembra indicarci che solo attraverso il dolore possiamo avere un’opportunità di comprendere gli altri, il mondo…

Questo è vero, ma lo è solo per me. E’ il mio modo di mettermi in contatto col mondo, ma non posso dire che questo sia valido per le altre persone.

Oggi come vive la separazione col suo paese, con quella lingua? Legge letteratura ungherese? Torna spesso in Ungheria?

Io non volevo lasciare il mio paese. Lo rimprovero sempre al mio ex marito: era lui che aveva paura dopo i fatti del ’56, io non avevo nulla da temere, lavoravo in fabbrica e amavo scrivere. All’inizio non capivo cosa c’entravano per me la Svizzera, la lingua francese. E’ stata una separazione difficile, soprattutto quella della mia lingua, ma non potevo continuare, come hanno fatto alcuni altri scrittori dell’Est. A scrivere in una lingua che non parlavo più quotidianamente. Non avrei avuto neppure lettori. E così scrivere in francese è stata una necessità oltre che una sfida. Mi dicevo: “come può accadere questo, io che sto scrivendo in una lingua che non è la mia”. Era un po’ un miracolo. Oggi mi capita di ritornare in Ungheria, ho pure il doppio passaporto, ma per brevi periodi, io vivo in Svizzera vicino ai miei figli. Tra gli scrittori ungheresi conosco bene e personalmente Imre Kertész, sono stata felice per il suo Nobel. Sa, è stato per anni povero e senza

Agota Kristof è nata a Scicvàud, Ungheria nel 1935. Rifugiata in Svizzera nel 1956, all’epoca dei moti di Ungheria, è ora cittadina svizzera e vive a Neuchatel. Ha tre figli, una figlia dal primo marito (ungherese) e due maschi dal secondo (svizzero).

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Francesco Destro, Due poesie più altre inedite – Con una Lettera di intenti

 

Man Ray devant un portrait de Kiki des années 1930 - 1954 /Michel Sima /sc

Man Ray, In front of Kiki de Montparnasse

Francesco Destro è nato a Padova nel 1994. Studente di Lettere Moderne, nel 2016 ha pubblicato la raccolta Così dolce la sera (Eretica Edizioni) con la prefazione di Alessandro Quasimodo. La sua seconda raccolta, Humanum est, è in attesa di pubblicazione. 

Lettera di intenti

… ho pensato di proporvi queste due poesie che, in un certo senso, sono due facce della stessa medaglia. La prima, Pollicem vertere, è nata due mesi fa come riflessione in seguito alla petizione per rimuovere il quadro Therèse dreaming di Balthus da un museo di NY. Appresa la notizia, ho pensato all’ennesimo caso di rifiuto di considerare qualsiasi espressione artistica come qualcosa che vada continuamente decifrato, preferendo un’idea di arte come semplice intrattenimento dei sensi o vuoto formalismo.

La seconda, Conforme agli standard, è nata invece da un senso di avvilimento dopo l’ennesima spettacolarizzazione e mercificazione della violenza, visto che più testate giornalistiche hanno condiviso il video (non necessario, quantomeno a mio avviso) della donna gettata sui binari, desolante e recente fatto di cronaca. Da qui, ho pensato a quell’essere sempre pronti a filmare o fotografare, ma soprattutto all’ipocrisia di certe persone, a quel condannare il “puramente possibile” (riferimento a Croce e alla sua idea di arte) e all’assurdità di certi “standard della comunità” virtuali e non, come pure all’idea di osceno e a come il popolo ami contraddirsi, imbrogliarsi da sé (pasolinianamente parlando, “er popolo è sempre colpevole” ).

Nei giorni della tentata censura, nei cinema usciva con successo il film su Egon Schiele, cosa che ha rafforzato la mia idea di ipocrisia e di contraddizione (chiaramente, non pretendendo sia un fattore immancabile ed universale).

Scherzosamente, se mi capita di parlare di poesia sostengo che ogniqualvolta si legge una composizione ci si trova di fatto nella condizione di pagare (in tempo, in denaro o in entrambi) per leggere le ‘paturnie’ di qualcun altro. Ebbene, quand’è che questa spesa si rivela proficua?
Arthur Schnitzler scrisse che degli aforismi per primi ci annotiamo quelli che ci danno conferma di ciò che abbiamo pensato o avvertito (in altre parole, che ci danno ragione). Per moltissime poesie il meccanismo è lo stesso: nei versi si cerca traccia di un riscontro, di una consolazione, di un reciproco vissuto. Il poeta, offrendo il suo tentativo di esprimere quell’inesprimibile di cui l’uomo non ha che vaga percezione, dona parole in cui il lettore trova riparo e che solo leggendo comprende di aver già dentro sé.
Tuttavia, pienamente consapevole che la Poesia non esaurisce in questo il suo compito, ritengo che nelle sue plurime manifestazioni dovrebbe continuare ad essere in grado anche di provocare, di sollecitare, di instillare un dubbio, così da andare oltre il genere dominante della poesia-confessione e quel tentare di ridurre la poesia a semplice intrattenimento dei sensi o vuoto formalismo (come l’Arte in generale, mi sembra; significativi sono i recenti tentativi di censura ‘collettiva’ di quadri sulla spinta del politicamente corretto e del progressismo più becero e ignorante).
Da qui si sviluppa la mia ricerca poetica. Nell’assiduo confronto con il nostro Zeitgeist rivendico, quantomeno personalmente, la necessità di una poesia non ermetica, inutilmente autoreferenziale o vuoto esercizio stilistico (seppur mi capiti di negare coi fatti queste due ultime intenzioni), fondata sull’esigenza di apparire e di piacere, di far vedere che (questo soprattutto pensando alla mia generazione, troppo spesso costantemente focalizzata su temi amorosi, mal di schiena e uccellini che fastidiosi cantano di prima mattina e banalizzati anche solo per la resa espressiva).

Seppur avverta anch’io una certa sfiducia nelle parole e sia nutrito dall’impressione di vivere in un oggi in cui più che mai si è fiacchi liberti di una fiacca età (lontane ma profetiche, queste parole di Ada Negri), con tutta la mia inesperienza cerco di restare il più possibile coerente con una responsabilità etica della scrittura che non sia, come più volte espresso fra queste pagine, “un’innocua contemplazione del mostro del Moderno”, cercando inoltre di non arrendermi a quel “raffreddamento delle parole” (fenomeno della “nuova ontologia estetica” qui ampiamente descritto) trovando un compromesso fra la prosaicità e il recupero di parole alte, poetiche o inconsuete nel tentativo di coinvolgere, anche ironicamente, il lettore in questo sforzo (penso a una poesia in cui invito chi legge ad armarsi di vocabolario prima di continuare nella lettura).

In altre parole, tendo a ricercare sì una condivisione di sentimenti ed impressioni (interrogandoci, perché umani, sull’amore, sul rapporto con sé stessi, con e tra gli altri) ma anche un’invito alla riflessione senza avere la pretesa di fornire risposte (in questo, probabilmente acquisisce un senso il mio uso ricorrente di punti di domanda, del forse e del condizionale).
Credo infatti in quella poesia che è un’avida supplica al mondo e a sé stessi di farsi comprendere e raccontare (o meglio, narrare); in quella poesia capace di spezzare l’inanellarsi di banalità e ripetizioni (o dissimularvisi per distruggerla dall’interno) e che spinge per far uscire la figura del poeta dal ruolo marginale cui è stato (o si è?) confinato, guardando con nuova volontà (ma senza cadere in ulteriori epigonismi) al ‘poeta giullare e ribelle’ e condannando il ‘poeta saltimbanco’ che non pone serietà e responsabilità nel proprio lavoro. In tutto questo, ecco il mio scrivere poesie perché non riesco a farne a meno, e non perché immagino siano gli altri a non poter farne a meno. Cercando, fra mille personali contraddizioni, di evitare che ciò che scrivo non sia che un guazzabuglio di parole, e nulla più.

Foto Man Ray to the selfie generation

Man Ray, to the selfie generation

Dittico

Pollicem vertere

“La pornografia è una forma d’arte decaduta”
(Philip Roth, L’animale morente)

Non lo toglieranno, alla fine:
il pollice verso stavolta
non ha sortito effetto.
Resterà lì, smacco in olio su tela,
dimostrazione in cornice
che in fondo è cosa vera,
la fallibilità di certe petizioni. Continua a leggere

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Anna Ventura Poesie inedite da Ventuno poesie – Premessa di Pier Aldo Rovatti, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante) – gli «oggetti» si stanno trasformando in «cose»

 

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

Che poi le cose, res,
divengano res gestaeres adversae
res secundae
ci interessa meno

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Foto Sadness fear

L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita

Pier Aldo Rovatti

«L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? […] È ipotizzabile una logica del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero “forte” è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, dalla possibilità del perdersi: l’uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo possibile? […] In “Umano, troppo umano” leggiamo di un “impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose”. Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di “leggerezza” e di “libertà”: l’abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa.

In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un’immagine dell’ “oltreuomo” e si chiede: “Quali uomini si riveleranno allora i più forti?” E risponde: “I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli […].

L’uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo “spaziare” (o lo “starsene fuori”) non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all’acquisizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il “portar pesi” si trasforma in un “esser potenti”. […] Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall’abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l’uomo avvicina a sé. […] L’immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d’appoggio. […] Come può una simile precarietà essere la massima forza?

Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie “vere” della filosofia, il fine ultimo, l’unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l’eterno ritorno se non una “diversa” necessità? […] Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all’interno, allora il nulla che siamo non è poi così terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l’affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso.

Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione».

1] (Pier Aldo Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, contenuto ne Il pensiero debole; a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 29-51.)

Giorgio Linguaglossa i Quattro

Fiera del Libro di Roma, 8 dicembre 2017, da sx Steven Grieco Rathgeb, Luciano Nota, Franco Di Carlo, Giorgio Linguaglossa

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

L’evento del linguaggio nella poesia di Anna Ventura, accade, non c’è nessuna «cosa» che sta «oltre», «dopo» il linguaggio. L’atto di imperio più ignominioso è quello del poeta «Nerone» nella poesia eponima, colui che crede che si possa allettare il linguaggio con la musica della cetra mentre Roma prende fuoco, è pensare che la frase possa «toccare» la cosa, possa corteggiarla in una danza apotropaica e lussureggiante; e invece la cosa si ritrae dal linguaggio ogni volta che poniamo in essere l’allestimento scenico della danza apotropaica, del corteggiamento verso la cosa. E allora la scelta giusta da fare è porre una distanza tra noi e la cosa, tra il linguaggio e la cosa, e apprendere ad abitare in questa distanza senza l’arbitrio e la tracotanza di volerla eludere o accorciare, come se la distanza fosse un pezzo di stoffa che possiamo tagliare a piacimento. L’evento del linguaggio accade sempre nella distanza, ed in essa si spegne. Il linguaggio non ha un essere, il linguaggio è nell’esistenza viva dell’essente, è il ponte sopra il quale può passeggiare l’essere, il ponte che simboleggia la distanza, sempre la distanza tra noi e le cose. Il linguaggio poetico di Anna Ventura richiama la distanza, rinuncia a violare l’intimità della cosa e delle cose, rinuncia ad «avvolgere» la cosa e le cose, ad «entrare dentro le cose», non sobilla le cose, non le vuole provocare ad allontanarsi, a sottrarsi, vuole soltanto coabitare con esse cose, trovare la giusta misura della distanza e del ritorno a casa, alla patria dell’essere che è il linguaggio poetico.

Il linguaggio poetico di Anna Ventura abita da sempre il registro simbolico, lo dà per scontato, sa che non c’è, oltre la storia, nulla che brilli come un topazio per le verità sue proprie, perché anche la verità è diventata precaria, e anche la libertà degli uomini.

Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante).

Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la propria estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro. Il nostro «abitare spaesante» il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del poetico, giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi. L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.
Allora forse occorre abolire e abitare in un medesimo tempo la distanza che ci separa da noi stessi per adire ad un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo.

Sul comodino del soggiorno della mia casa romana, sito tra due grandi finestre che ricevono luce da via Pietro Giordani, sono poggiati alcuni oggetti: una cornice in finto argento che contiene un piccolo riquadro che ha due segni di pennarello nero tracciati da mio figlio quando era bambino, un minuscolo albero di natale con palline rosse e filamenti, una piccola zucca che si illumina dall’interno, ricordo di una serata di Hallowen, una candela a forma di piramide, una statuetta in bronzo della dea Shiva che suona il piffero, comprata su una bancarella a Jaipur, un’altra candela colorata a forma cilindrica, regalo di una donna che è scomparsa dalla mia vita, un orologio da polso che ha smesso di funzionare e una molletta di plastica bianca, di quelle che si usano per appendere i panni.

Ecco, non posso fare a meno di pensare che un tempo lontano erano «oggetti», ma adesso, lentamente, si stanno trasformando in «cose». Attendo con pazienza da alcuni anni che si verifichi questa misteriosa trasmutazione. Come essa avvenga non lo so, ma so che sta avvenendo, che un giorno sarà compiuta e tutte queste «cose» potranno entrare in un mio commento o in una mia poesia.

Ecco, gli «oggetti» si stanno trasformando in «cose», sono qui, nelle poesie di Anna Ventura. Tutti sanno della particolare attenzione che la «nuova ontologia estetica» riserva alle «cose», e Anna Ventura è stata la prima poetessa italiana che ha introdotto questa problematica nella sua poesia, fin dal 1978 con il suo libro di esordio, Brillanti di bottiglia. Ma il tema è antico. Possiamo leggere l’Odissea come il dramma del «ritorno» di Ulisse a «casa», tra le «cose» della «casa», «ritorno» presso il focolare domestico dove le «cose» sostano da sempre in attesa del suo «ritorno», sostano in «attesa» della sua autenticità. Per far ciò Ulisse deve diventare cieco, «la cecità è la condizione affinché qualcosa sia visibile» scrive Guglielmo Peralta in un saggio ancora inedito; ebbene, Ulisse può tornare soltanto perché finalmente è diventato cieco e finalmente è in grado di discernere le «cose» vere dalle false. Hic incipit vita nova. Il dramma dell’autenticità possibile è già tutto nella storia di Ulisse. Ebbene, la poesia di Anna Ventura tratta da sempre questa problematica: il «ritorno» a «casa» tra le «cose» familiari, che finalmente abbiamo imparato a vedere per la prima volta. Il «ritorno», De reditu di Rutilio Namaziano, il Prefetto pagano in fuga che sogna la riscossa della paganità contro i cristiani, opera che Anna Ventura ha tradotto. Per la nostra poetessa abitare storicamente il nichilismo significa abitare poeticamente il mondo delle «cose», ma non le cose delle res gestae, ma le cose secundae, quelle piccole, deboli, fragili che stanno lì nella nostra «casa», da sempre, in attesa del nostro «ritorno».

Foto Man Ray nudo

Man Ray, Nudo

Anna Ventura, da 21 poesie inedite

I MAESTRI

Sieste qui, maestri
Ascoltati ieri
col timore rapace
dell’ultimo dei discepoli.

Finalmente so
che cosa mi avete insegnato.
Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada.

La barbarie che è fuori la porta
Non mi fa più paura.
Attraverso un tempo lunghissimo,
oltre lo spazio stretto del reale,
oggi siete chiarissimi,
concreti. Continua a leggere

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Poesie di Tomas Tranströmer, Giorgio Seferis, Charles Simic, Ewa Lipska, Rita Dove, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Lidia Popa, Lidia Are Caverni, – La poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna – Commenti

 

Foto Jason Langer, Mannequins, 1993

Jason Langer, Mannequins, 1993

Gino Rago
Decima Lettera a E. L.


[il bacio]

Cara Signora Jolanda W.

Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,

dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,

l’aria d’autunno si guasta].
Il mio amico* pensando all’altro amico [che ha lasciato Roma]**ha scritto:

«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»

Musica, pausa, parola, silenzio. Linguaggio senza lingua
o immagini sfocate dell’ “Io” sopraffatto?

Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:

«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale»

* il mio amico è Giorgio Linguaglossa
** l’altro amico [che ha lasciato Roma] è Steven Grieco-Rathgeb

 

Lucio Mayoor Tosi

Mi collego a quanto rilevato da Rossana Levati, ai versi
“mi soffiava il maestrale attraverso / una fessura nel torace”… “ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio”; perché questi versi mi parlano di un disagio, di una malinconia, o forse peggio di una pesante tristezza sottoposta a cura:

“ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi (…)

Steven Grieco è tra gli autori NOE quello che maggiormente si occupa dell’aspetto ontologico di questa ricerca. Il suo frammento lungo, meditato, che si dà tutto il tempo che serve, io spero possa servire da esempio, per scongiurare il pericolo che l’uso frequente del punto possa volgere nella direzione di un passo troppo regolare… Voglio dire che le immagini, penso tutte, abbiano come un loro respiro – oh, questa poesia ne è piena – alcune passano rapide, altre si soffermano.

A me ha colpito il verso, già evidenziato da Chiara Catapano, di “quei promontori guarderebbero solo se stessi”, preceduto ma con altro significato da “Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri / quei promontori che nel silenzio guardano se stessi”.
Vi ho sentito senso di estraneità, quasi un Che ci sto a fare qua. Il che mi ricollega alla ferita descritta inizialmente. E alla cura che sempre la natura sa darci, quando depositiamo le nostre domande e semplicemente stiamo.

Tomas Tranströmer

Aprile e silenzio

La primavera giace deserta.
Il fossato di velluto scuro
serpeggia al mio fianco
senza riflessi.

L’unica cosa che splende
sono fiori gialli.

Son trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.

L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento

[da La lugubre gondola,Rizzoli, 2011
Traduzione di Gianna Chiesa Isnardi]

Analizzando questo concentrato, denso testo di Tranströmer, che per me e per la mia ricerca di poesia è il traguardo, è [difficilissimo da toccare] il modello poetico esemplare, è facile notare che l’autore de La lugubre gondola si affida a una parola poetica essenziale, concentrata, evocativa, metafisica e con questa parola, non con altre parole, tenta l’immersione nella contemplazione del paesaggio naturale che nel poeta si fa specchio di quello dell’anima, [ecco lo specchio che in altra forma fa ritorno… ], percependo fra sé e il paesaggio stesso un nuovo ordine. Dice la Chiesa Isnardi “[…] Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…” E poi continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in me ha fatto scattare il guizzo dell’accostamento persuaso al nuovo corso della poesia lanciato da Giorgio Linguaglossa, proprio con Tomas Tranströmer come altissimo modello, come faro cui indirizzarci adottando il nuovo corso poetico:”[…] La poesia così diventa “meditazione attiva” in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato; una poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto…”.

Estraggo ed evidenzio:
La poesia come meditazione attiva

Charles Simic si muove magistralmente proprio in questa scia e lo stesso dicasi per Ewa Lipska. Al di fuori di questi tre per me maestri assoluti di poesia contemporanea non sento alcun risucchio, nessuna vertigine negli abissi della parola, anche se rimane il rispetto assoluto per la fatica che è sempre dentro e dietro qualunque esperienza poetica.

La poesia della NOE deve essere Poesia della meditazione attiva.
[Se i miei bronchi fossero in grado di lavorare come vorrei anziché come capricciosamente stanno facendo da qualche settimana a questa parte, mettendomi non di rado in quella pena nota come ‘fame d’aria’ come Giuseppe Talia magistralmente l’ha definita, potrei dare forse altri contributi, ma non sempre ho la forza per ora per poterlo fare ].

(Gino Rago)

Lidia Popa e altri 2018

da sx Giorgio Linguaglossa, Lidia Popa, Sabino Caronia, Roberto Piperno, Roma, 2018

Una poesia inedita di Lidia Popa

Anche a questo funerale mancherò

Ho finito di lavare i piatti in cucina.
Ho messo a posto.
Ho lucidato il lavandino.
Ora brilla come l’acciaio appena sfornato.

A pranzo ho mangiato frittata con le patate.
Ho messo tutta la poesia del frigo dentro.
Quattro uova per due porzioni, cipolla e patata lessa,
una grattugiata fresca di Grana Padano.

Ho girato e sistemato tutto
su un piatto da portata.
Apparecchiato. Servito.
Mangiato. Lavato.

Stasera a cena mi è rimasto questo verso.
Insipido.
Oggi ho saputo che è morta la zia.
Lei era un pezzo di pane.

Tante volte una madre.
No, non era come mia madre.
Mia madre è viva.
Mia zia ora è una santa.

Ha convissuto per anni con la cirrosi.
Come mio padre.
Lui è morto nove anni fa, come fosse oggi.
Era quattro luglio del duemilanove.

Era nato in un giorno significativo: undici settembre,
anniversario di morte per l’America.
Per me il quattro luglio è il giorno più triste
che ricorderò per il resto della vita.

Attraversavo la strada.
Il telefono squillava.
Era mio fratello che chiamava.
Erano le diciassette e trentatré di pomeriggio.

Mio padre stava morendo.
Io non c’ero a tenere la sua mano,
a dire che andrà tutto bene.
E bene non andò.

Finii solo per cucinare ogni giorno una poesia dal frigo.
E tanta solitudine marcia.
Volevo solo decorare la morte,
descriverla meno paurosa del vissuto,

contraddicendo chi diceva che ispiro pena,
per aver cercato una vita degna altrove.
Mio padre non ha mai saputo che sono un poeta.
La zia Teodora lo sapeva.

A lei ho letto una domenica alcune mie poesie
fresche di cucina.
Ora incontrerà mio padre e le racconterà,
come so cucinare le poesie dal frigo. Continua a leggere

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Antonio Sacco, L’haiku come modello di approccio alla poesia

 

Antonio Sacco è nato a Agropoli nel 1984, scrive e compone versi nel cuore del Parco Nazionale del Cilento. Studioso di poesia, in particolare di poesia d’origine giapponese, ha pubblicato molti articoli in vari blog e riviste on-line dedicate al genere haiku. E’ membro di giuria del Premio Nazionale “L’Arte in Versi”, nel 2015 con Arduino Sacco Editore ha pubblicato la silloge di haiku In ogni Uomo uno haiku. Si dedica con passione e regolarità allo studio e alla composizione di poesie sia in metro prestabilito sia in versi liberi.

*

Scopo di questo articolo è analizzare la possibilità di concepire il genere haiku come un modo di approccio alla poesia in generale, in particolare alla poesia in versi liberi. Prenderemo in considerazione gli aspetti caratterizzanti di uno haiku cercando di applicarli alle poesie in versi liberi, valutando un ipotetico criterio di approcciare a quest’ultimo modo di fare poesia attraverso il genere haiku. Introdurremo l’idea dello haiku come “atomo poetico” ossia l’unità poetica di base dal quale possono originarsi altre forme liriche. Nell’ultima parte di questo articolo focalizzeremo l’attenzione sul rapporto fra il genere haiku e come questo può costituire un modo di rapportarsi alla realtà.

Lo haiku come modello di approccio alla poesia

L’impianto in cui è strutturato uno haiku, oltre al metro prestabilito in 5/7/5 sillabe nei tre versi, prevede, nella maggior parte dei casi, la giustapposizione o, comunque, il collegamento di due immagini distinte presenti nel componimento stesso. E’ quello che viene generalmente indicato col termine di toriawase, la quale può essere ulteriormente suddivisa in due diversi sottotipi: la torihayasi (stacco semantico) e il nibutsu sogheki (ribaltamento semantico). Chiariamo prima di tutto con un esempio il concetto di toriawase (giustapposizione d’immagini):

shibui toko

haha ga kuikeri

yama non kaki

*

kaki di montagna:                                                (v. 1 prima immagine)

è la madre a morderne

le parti aspre                                                         (Vv. 2-3 seconda immagine)

(Kobayashi Issa – da “Haiku: il fiore della poesia giapponese”; Mondadori 1998)

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

pseudo haiku di Lucio Mayoor Tosi

Nel sottotipo di toriawase chiamata torihayasi le immagini proposte si armonizzano fra loro, quasi sostenendosi a vicenda, un esempio di questo caso particolare di toriawase lo possiamo ritrovare in questo componimento del Maestro Basho:

uyu no hi ya

bajo ni koru

kageboshi

*

giorno d’inverno:

gelata sul cavallo

la mia ombra

(da Haiku: il fiore della poesia giapponese; Mondadori 1998)

Per quanto riguarda l’altro sottotipo di toriawase, il nibutsu sogheki, troviamo che le due immagini fornite entrano in aperto contrasto fra loro, quasi scontrandosi fra esse. Grazie allo stacco (kire) il flusso ideativo subisce un repentino e brusco cambio, un esempio particolare di questa tecnica è data da questo componimento di Ikenishi Gonsui:

uo hanete

mizi shizuka nari

hototogisu

*

il guizzo di una carpa

l’acqua torna piatta –

un cuculo Continua a leggere

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Steven Grieco-Rathgeb – Una poesia, Ο Μαϊστρος (Maestrale) Commento di Chiara Catapano

 

Foto solitudine

Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone/
ero tornato e non c’era più nessuno./ Solo soffiava costante, tenace come un mastino

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. È redattore de lombradelleparole.wordpress.com e convinto fautore della nuova ontologia estetica. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com

[Steven Grieco Rathgeb nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

 

Commento di Chiara Catapano

Capita da un po’ di tempo a questa parte ch’io non riesca a distogliere lo sguardo da quei monti del Pindo, da quella Grecia che per alcuni (di noi) più che luogo geografico è coincidente con una qualità dello spirito. Forse meglio dire “oltre quel luogo”, come se una consistenza luminosa – appena materia, quasi spirito – osasse imprimerci un segno e ci spingesse insistentemente ad affermare: “tu sei questo”. Chi l’ha provato, lo comprende di certo con “un senso in più” proteso verso l’infinito. Ciò che desidero fare questa sera è, con quelli che sono i miei mezzi poetici, offrire quel senso nella lettura di una poesia che potentemente rivendica l’appartenenza ad un luogo, forse più reale di quello cui concretamente allude la materia.
E ciò che affiora dalla superficie immateriale – poco più sotto, poco più dentro a quella natura fenomenica di cui parlavo ora – è l’anima del paesaggio. Se noi siamo qui, testimoni dell’avvenimento poetico, e ne misuriamo metrica e intenti, non possiamo altresì dimenticarci della sua stessa anima. Di questa io voglio parlare.

L’anima inconsapevole – perché eternamente assolvente al proprio destino – emerge dalla poesia Μαϊστρος ricondotta a noi dal vento, più in là facendosi trasportare, dove ogni nostra categoria vacilla. Il ritmo dei versi misurato – i movimenti ampi: si sta, si ha l’impressione di stare, a misurare la distanza tra due cavalloni, in mare aperto (con buona visibilità a avanti tutta). E il soffio del Maestrale ci viene continuamente suggerito, e si chiude dove non più udito, tace anche nel verso.
La poesia Μαϊστρος è un addio curioso, perché chi scrive è appena arrivato. Ma è così, l’anima inconsapevole desta nel paesaggio ci fa barcollare; insinua nella sua pienezza la frammentarietà dell’esistenza umana. Come misurarla, se non attraverso un tempo interiore che raggiunge e fa esperienza dell’altra, che sbocca dentro una terra in noi più viva di quella reale?

Abbiamo avuto modo in questi ultimi tempi di lavorare fianco a fianco, S.G.R. e io, così ho potuto davvero calarmi dentro quei versi ai quali rispondevo con particolare incuriosita frequenza: mi ha detto che il Paesaggio, il “suo” Paesaggio, vuol suggerire qui un annullamento, vuole riportare al grado zero lo spaesamento: ci suggerisce insomma la non-nostalgia nel ritorno. Che è quasi un paradosso, un koan, poiché sappiamo che la parola “nostalgia” è naturalmente legata al ritorno e al dolore. Dunque sospesi tra due: due paesaggi (quello esterno e quello interiore), due visioni del mondo (attaccamento al paesaggio o abbandono del doloroso eterno ritorno), ecco vediamo aprirsi il pertugio minino.
Nella poesia lo sentirete sotto forma di dissonanza rispetto alle immagini proiettate nei versi; un campanello d’allarme, che vi farà mettere in dubbio se stiate guardando davvero nella giusta direzione (se stiate davvero osservando il paesaggio che il Poeta vi indica). In quel passaggio aperto da pochi versi (tre in tutto, che lasciano un’eco anche quando noi ci allontaniamo da loro) la possibilità di misurarci con l’incommensurabile: due che tendono all’Uno, oppure a infinite Unicità.
Ma poi questa è la cifra del Poeta in tutta la sua produzione: sempre, mentre i versi si snodano e conducono in una direzione, qualche cosa avviene (pochi suoni-sillabe che insinuano il dubbio): la direzione muta totalmente, siamo presi come cavalli al morso e costretti a invertire la marcia, con grazia certo, ma sotto mano determinata.

I versi son questi:

Nel cieco della luce vado rovistando

E il modo delle acque di sciacquarsi sempre a riva

Di nuovo, nel moltiplicarsi smarrito dei miei futuri
quei promontori guarderebbero solo se stessi.”

Nell’economia della poesia, che è quasi un poemetto, sono pochi. Pure bastano, sono anzi perfettamente bastanti, perché qualcosa in più o in meno, e l’incanto non sarebbe. L’incontro con e tra i due movimenti (interno ed esterno, tempo-luogo) non esisterebbe.

[foto di Chiara Catapano]

 

Steven Grieco-Rathgeb

Ο Μαϊστροσ – all’Epiro – Vento E Asfodelo

Quando mi svegliai da questo sogno di cose e persone
ero tornato e non c’era più nessuno.
Solo soffiava costante, tenace come un mastino
attraverso la chiusa finestra
mi soffiava il maestrale attraverso
una fessura nel torace.
Alla finestra soffiava azzurro vuoto il vento
lo stesso che a lungo negli anni portò
avvenimenti luoghi persone, ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio.

Lui che in altre condizioni di tempo, luogo e persona
diventò in mille mascheramenti le tramontane
mareggiate e ventate di scirocco, cozzare di nuvole
e rullio di Golfo, montagne, promontori
fattezze appena accennate su volti fuggenti
ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi e gocce d’acqua
microcosmi che stillano dai rami uno a uno.

Loro continueranno a mangiare pesce
a mangiare sul piattino candida feta: continueranno
nelle stanze fra incrociati letti e masserizie
a morire sotto la croce greca.
La sera accenderanno lumi davanti alle icone
e sarà la preghiera alla Dea Speranza.
Continueranno col nero dei sacerdoti,
con l’ala corvina di quattro secoli e mezzo a sventolare
nel bianchissimo azzurro, a vivere e morire.

Passando da qui, voi avete detto: non capiamo
non vediamo, non cogliamo l’attimo che tu evolvi
pregno di mondo, respiro tenace fuggente nel pensiero
nelle cinematiche figure proiettate
a migliaia su di uno schermo vuoto.

Ma io non scolpisco la luce di Seferis.
Uguale talvolta l’angolo osservato,
il suo mirabile altrove non è mio.
Nel cieco della luce vado rovistando:
nessun asfodelo, solo nerobianche immagini
proiettate furibonde su di uno schermo
che non lascia traccia. Continua a leggere

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IL GRANDE PROGETTO: USCIRE DAL NOVECENTO Alfredo de Palchi, Eugenio Montale, Angelo Maria Ripellino, Giorgio Caproni, Alda Merini, Amelia Rosselli, Helle Busacca, Salvatore Toma, Giuseppe Pedota, Roberto Bertoldo, Giovanna Sicari, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura, Mario M. Gabriele, Letizia Leone, Donatella Costantina Giancaspero, Francesco Nappo, Cesare Viviani, Luigi Reina – a cura di Giorgio Linguaglossa, – le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate»

 

Gif otto volti dolore…quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).

Strilli Gabriele2Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista come Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. La poesia di Ripellino nasce in controtendenza, estranea ad un orizzonte di gusto caratterizzato da un’ottica ideologico-linguistica dell’oggetto poesia, e per di più, in una fase di decollo economico che in Italia vedrà l’egemonia della cultura dello sperimentalismo. Che cos’è il «modernismo»?  Si può dire che il modernismo in Europa si configura come un atteggiamento verso il passato, una sensibilità di continuità verso la tradizione unite con un senso vivissimo della contemporaneità. La poesia modernista europea si configura come un vero e proprio dispositivo estetico: un campo di possibilità estetiche che trovano la propria energia da uno scambio, una cointeressenza, una convivenza tra le varie arti, una simbiosi di teatro e poesia e una interazione tra i vari generi. Di fatto, però, nella poesia italiana del primo e secondo Novecento risulta assente un movimento «modernista» come quello che si è verificato in altri paesi europei durante la prima parte del secolo (Eliot e Pound, Pessoa, Halas, Holan, Achmàtova, Cvetaeva, Mandel’stam, Rafael Alberti, Machado, Lorca, e poi Brodskij, Milosz, Herbert, William Carlos Williams, Cummings, Wallace Stevens sono da ascrivere alla schiera dei poeti modernisti); questo ritardo ha oggettivamente condizionato la nascita e lo sviluppo di una poesia modernista  ed ha fatto sì che in Italia una poesia modernista non ha trovato il modo di attecchire e di mettere salde radici. La poesia di Ripellino arriva troppo presto, in un momento in cui non c’è uno spazio culturale che possa accoglierla. Il poeta siciliano crea, di punto in bianco, un modernismo tutto suo, inventandolo di sana pianta: un modernismo nutrito di un modernissimo senso di adesione al presente, visto come campo di possibilità stilistiche inesplorate, e di sfiducia e di sospetto nei confronti di ogni ideologia del «futuro» e del «progresso» e delle possibilità che l’arte ha di inseguire l’uno e l’altro. Quello di Ripellino è un modernismo che ha in orrore qualsiasi contaminazione tra arte e industria, o tra linguaggio poetico e ideologia, un modernismo privo della componente ideologica della modernizzazione linguistica, un modernismo intriso di un vivissimo senso di conservazione culturale che ingloba e attrae nel proprio dispositivo estetico la più grande massa di oggetti linguistici come per neutralizzarli e tentare di disciplinare stilisticamente l’indisciplinabile, il non irreggimentabile. È stato anche detto che la poesia di Ripellino piomba nella letteratura del suo tempo come quella di un alieno. È vero. E del resto l’autore ne era ben cosciente quando scriveva: «La mia confidenza con la poesia di altri popoli, e in specie con quella dei russi, dei boemi, dell’espressionismo tedesco e dei surrealisti francesi, era un peccato di cui avrei dovuto pentirmi». Gli rinfacciano di essere uno «slavista», stigmatizzando il suo essere al di fuori delle regole, un non addetto ai lavori.

Strilli Lucio Ricordi

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane e; nel 1976, il suo lavoro più impegnativo: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985); il suo è un personalissimo itinerario che non rientra né nella tradizione né nell’antitradizione. La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Un tirocinio ascetico la cui spia è costituita da uno stile intellettuale-personale con predilezione per gli attanti astratti (la Rosselli), una predilezione per gli attanti concreti (la Merini), e per il vissuto-concreto (la Busacca), spinge questa poesia verso una spiaggia limitrofa e liminare a quella del tardo Novecento sempre più stretta dentro la forbice: sperimentalismo-orfismo. Direi che il punto di forza della linea modernista risiede appunto in quella sua estraneità alla forbice imposta dalla egemonia stilistica dominante. La forma della «rappresentazione» di questa poesia, il suo peculiare tratto stilistico, il tragitto eccentrico, a forma di serpente che si morde la coda, è qui un rispecchiamento del legame «desiderante» della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto. Gli atti «desideranti» (intenzionali) del soggetto esperiente definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio» e di «possesso», oscilla tra desiderio e possesso; è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto.

Strilli Leopardi D'in su la vetta della torre anticaStrilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secoloÈ perfino ovvio asserire che soltanto il riconoscibile entra in questa poesia, con il suo statuto ideologico e il suo vestito linguistico, mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e, quindi, non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica non può che procedere attraverso il «conosciuto», il «noto». Questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico (intimamente antinomico) di una poesia attestata tra il desiderio e la rivendicazione di un mondo «altro», tra la vocazione e la provocazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Di fatto, non si dà intenzione poetica senza una macchina desiderante dell’oggetto (con il suo statuto linguistico e stilistico). La poesia che si fa strada consolidandosi appresso alla propria ossatura linguistica allude al tragitto percorso dalla contemplazione alla rivendicazione. Una tautologia: la Poesia Modernista degli anni Settanta resta impigliata dentro l’ossatura del paradigma novecentesco: ma non quello maggioritario, eletto a «canone» (attraverso le primarie e le secondarie delle istituzioni stilistiche egemoni), ma quello laterale, e ben più importante, che attraversa la lezione di Franco Fortini passando per la poesia di un Angelo Maria Ripellino, fino a giungere ai giorni nostri.

La contro rivoluzione al linguaggio poetico sclerotizzato del post-orfismo e del post-sperimentalismo è impersonata dalla parabola di un poeta scomparso all’età di 36 anni: Salvatore Toma. Il suo Canzoniere della morte (edito con venti anni di ritardo nel 1999), ci consegna il testamento di una diversità irriducibile vergato con il linguaggio più antiletterario immaginabile. Una vera e propria liquidazione di tutti i manierismi e di tutte le oreficerie, le supponenze, le vacuità dei linguaggi letterari maggioritari. Ma anche qui il semplicismo letterario prende il posto di una narrazione del personale biografico. Affine alla sorte de poeta pugliese è il tragitto del lucano Giuseppe Pedota con la riproposizione di un personalissimo discorso lirico ultroneo (Acronico – 2005, che raccoglie scritti di trenta anni prima) che sfrigola e stride con l’impossibilità di operare per una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica: propriamente, nella post-poesia.

Strilli Busacca Vedo la vampaIn una direzione «in diagonale» e in contro tendenza si situa invece la poesia del piemontese Roberto Bertoldo, il quale si muove alla ricerca di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo, salvando del simbolismo il contenuto di verità stilistica, aspetto che appare evidentissimo in opere come Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Il popolo che sono (2015), da cui queste due poesie:

La satira di Dio

Ho parlato con le note di una luna pipistrello
che sgocciola dalle nuvole
ho parlato di sporche assenze nella mia patria divelta
ma senza suoni e immagini
le parole sono l’autoaffezione dei vili
allora ho parlato con le bestemmie e le rivolte
ma si sono divelti anche gli occhi dei miei fratelli
i loro abbracci hanno perso la pelle
e così ho ricamato Dio sul dorso delle poesie
e Dio ha sputato la farsa delle mie dita
e mi ha cresimato
“agnello dalla gola profonda”. Continua a leggere

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Raffaele Urraro, Poesie scelte, da Bereshìt (In principio… ), 2017 – con una dichiarazione dell’autore e un Commento in forma di poesia di Giorgio Linguaglossa

 

pittura Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Raffaele Urraro è nato il 1940 a San Giuseppe Vesuviano dove tuttora vive e opera. Dopo aver insegnato italiano e latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario. Collabora come redattore alla rivista di letteratura e arte «Secondo Tempo» diretta da Alessandro Carandente. Suoi interventi critici, con saggi e recensioni, sono presenti anche su altre riviste, come «La Clessidra», «L’Immaginazione», «Capoverso», «Sìlarus», ecc.
Ha pubblicato molte raccolte di versi e opere di saggistica tra cui Giacomo Leopardi: le donne, gli amori, Olschki, Firenze 2008; La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2011; “Questa maledetta vita” – Il “romanzo autobiografico” di Giacomo Leopardi (Olschki editore, Firenze 2015), e Le forme della poesia – Saggi critici (La Vita Felice, Milano 2015).

Commento di Giorgio Linguaglossa in forma di poesia alla maniera della «nuova ontologia estetica»

«ho sognato che Dio mi chiedeva di scrivergli
una recensione per la sua creazione…»

disse proprio così. inutilmente io mi schermii dicendo
che non mi sentivo all’altezza…

allora Dio si è rivolto a Gino Rago
[del resto anche lui è un membro della nuova ontologia estetica]

ma, sfortunatamente per il Signor Dio, anche Gino ha declinato l’invito
con l’argomento che il Buio rotola alla velocità della luce

e altre smargiassate che non vi sto qui a ridire,
e allora quel manigoldo si è rivolto a Mario Gabriele

dicendogli che lo avrebbe accolto nel regno dei cieli se…
ma il risultato è stato che il poeta di Campobasso se l’è data a gambe;

insomma, a farla breve, Dio ha dovuto rinunciare…
e sì, e la «creazione» è rimasta senza alcuna recensione

*

pittura Old Chicago Avenue Station Entrance by Jim Watkins

Old Chicago, Jim Watkins 

Citazioni in exergo di Raffaele Urraro

Ho sognato che Dio mi chiedeva
di scrivergli una recensione
per la sua creazione.
(Charles Simic)

Uomini, perdonatelo,
perché non sa quello che ha fatto!
(José Saramago, Il Vangelo secondo
Gesù Cristo)

ab/io/genesi è questo mondo che ruota
niente sarebbe questo girotondo
senza l’io cosciente che intravede
e parla e fissa le parole
(r.u.)

Gli dèi devono ringraziare la poesia
se si trovano in cielo.
(Charles Simic)

Nota dell’autore

Questo libro di versi non vuole essere il controcanto della Genesi, né la satira della Scrittura, né si configura come il canto di un predicatore che vuole convincere gli altri sulla sua verità. Non ho la presunzione di dire cose rivoluzionarie, né ho l’umiltà per nascondere le cose che penso e tenermele per me. Ho voluto solo raccontare in versi la mia visione delle cose e del mondo prendendo spunto dalla Genesi, fonte che mi ha ispirato e mi ha spinto all’espressione poetica per dare corpo a quella visione cosmologica che è venuta formandosi nella mia mente con gli studi e la riflessione.
In questo libro sono solo un poeta, uno che cerca di dire, lavorando colle/sulle parole, le sue idee, i suoi sentimenti e, rispettoso dei sentimenti e delle idee di ciascun individuo, cerca di esporre le sue convinzioni sulla genesi e sul destino finale del cosmo, della terra, della vita, della storia, dell’uomo.

Avvertenze particolari

1. Il Pensiero, con la iniziale maiuscola, è il Pensiero ritenuto il logos creatore dell’universo, mentre il pensiero con la iniziale minuscola è il pensiero umano che, nella mia visione, ha dato vita al Pensiero: è questo il sillogismo teoretico che ha illuso e deluso, che illude e delude, che illuderà e deluderà gli uomini di ogni tempo.

2. Questo libro si sostanzia di testi poetici esplicativi dei versetti della Genesi e di altri testi che sono nati dalle mie personali riflessioni sui contenuti biblici.

3. Debbo al mio carissimo amico Raffaele Perrotta, che la adotta di norma, la segnalazione dell’inizio dell’interrogativa per mezzo del segno ¿, come d’uso nella lingua spagnola.

4. Il testo biblico da me seguito è quello della versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana del 2007.
5. Bereshìt, il titolo, è parola ebraica, significa «In principio» e indica
propriamente la “Genesi” («Origine»).
R.U.

raffaele urraro immagine

Bereshìt (In principio… ), Marcus edizioni, 2017

prologo

sto accovacciato all’ombra
di un platano
– che non è un platano
e non è neppure una pianta –
qui nell’eden circondato
dall’opalescenza infastidita della noia
a bere un bicchiere di vino
annacquato con un po’ di fantasia
e a giocare con nuvole di passaggio
disegnando nell’aria
ghirigori evanescenti
vedo veli bianchi che stendono nell’aria
una sottile malinconia
(veli bianchi bianchi veli
che a vederli ti s’offusca il cuore)
mentre il ricordo della terra
e della vita
è segno di pura nostalgia
non si direbbe
eppure
nell’eden non si sa cosa fare
: una volta morti
si è morti dappertutto
sulla terra se bevi un bicchiere
almeno senti il corpo rotolarsi
nelle brezze della sera
e quando fai l’amore
davvero ti senti bussare
alle porte dell’abisso
per entrare nello spazio del nulla
che sembra spazio del tutto
qui nell’eden
se ne stanno con le mani in mano
a sdrucire le trame del tempo
pigro e insolente
e a contare le ore
che non passano mai
ma io voglio stare
dentro il tempo
e dal tempo calarmi
fino alla fonte primigenia delle cose
anche se le cose
sembrano soltanto
mere proiezioni del pensiero Continua a leggere

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Poesie di Charles Simic, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Letizia Leone, Lidia Popa, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno – La scrittura poetica in distici – Commenti e critiche

Foto Vivian mayer in ascensore metallico

Foto di Vivian Mayer – Mi sono svegliato nel cuore della notte e ho trovato/ un cavallo silenzioso accanto al letto

Charles Simic

Nella Biblioteca
                                       per Octavio

C’è un libro dal titolo
Un dizionario degli Angeli.
Nessuno in cinquant’anni l’ha più aperto,
Lo so, perché quando lo feci,
La copertina si spaccò, le pagine
Si sbriciolarono. Lì ho scoperto

Che un tempo gli angeli erano fitti
Come mosche. Il cielo al tramonto
Era sempre pieno di loro.
Dovevi agitare entrambe le braccia
Per tenerteli lontani.

Ora il sole splende
Attraverso le alte finestre.
La biblioteca è un posto tranquillo.
Angeli e divinità rannicchiati
Negli scuri libri non aperti.
Il grande segreto giace
Su qualche scaffale di Miss Jones
L’oltrepassa ogni giorno nei suoi giri.

È davvero alta, così tiene
La testa inclinata, come in ascolto.
I libri stanno sussurrando.
Io non sento nulla, ma lei sì.

  1. In the Library

There’s a book called
A Dictionary of Angels.
No one had opened it in fifty years,
I know, because when I did,
The covers creaked, the pages
Crumbled. There I discovered

The angels were once as plentiful
As species of flies.
The sky at dusk
Used to be thick with them.
You had to wave both arms
Just to keep them away.

Now the sun is shining
Through the tall windows.
The library is a quiet place.
Angels and gods huddled
In dark unopened books.
The great secret lies
On some shelf Miss Jones
Passes every day on her rounds.

She’s very tall, so she keeps
Her head tipped as if listening.
The books are whispering.
I hear nothing, but she does.

[Charles Simic]

“Le parole fanno l’amore sulla pagina come mosche nel caldo dell’estate e il poeta è solo lo spettatore divertito.”

Letti disfatti

“Amano le stanze ombreggiate,
le carte da parati consunte,
le crepe nel soffitto,
le mosche sul cuscino.

Se ti viene la tentazione di allungarti,
non essere sorpreso,
non farai caso alle lenzuola sporche,
al raschio delle molle arrugginite
mentre ti metti comodo.

La stanza è un cinema buio
dove si proietta
una pellicola sgranata in bianco e nero.

Un’immagine sfuocata di corpi svestiti
nel momento della dolce indolenza
che segue all’amore,
quando il più malvagio dei cuori
arriva a credere
che la felicità può durare per sempre.”

Charles Simic

Il Cavallo

Mi sono svegliato nel cuore della notte e ho trovato
un cavallo silenzioso accanto al letto
amico mio, sono felice che tu sia qui, gli dico,
nevica e dovevi avere freddo
solo in quella stalla in fondo alla strada
il contadino e la moglie, tutti e due morti.

Ti metto addosso una coperta e vado a vedere
se c’è una zolletta di zucchero in cucina
come quella che in un circo ho visto mettere
in bocca a una cavalla
da un uomo col cilindro, ma ho paura di non trovarti
al mio ritorno, allora è meglio che resti
a farti compagnia qui al buio.

[“The Horse”, “Il Cavallo”, una poesia di Charles Simic, tratta dalla sua ultima raccolta “The Lunatic”,Harper Collins Publisher, 2015].

Charles Simic

 [Sull’incendio della Biblioteca Nazionale di Sarajevo del 25 agosto 1992]

“La Biblioteca Nazionale bruciò gli ultimi tre giorni di agosto e la città soffocò nella neve nera.

Liberati, i personaggi vagarono per le vie, mescolandosi con i passanti e con le anime dei morti.

Vidi Werther seduto accanto ai muri sbrecciati del cimitero; vidi Quasimodo che si dondolava con una sola mano in un minareto.

Raskolnikov e Mersault chiacchierarono per giorni nella cantina di casa mia; Gavroche sfoggiò uno stanco travestimento.

Yossarian vendeva già provviste al nemico; per pochi dinari il giovane Tom Sawyer si tuffava dal Ponte del Principe.

Ogni giorno più fantasmi ed esseri viventi; e il terribile sospetto si confermò quando gli scheletri mi caddero addosso.

Mi chiusi in casa. Sfogliai la guida turistica.
E non uscii finché la radio non mi spiegò come avessero potuto tirar fuori tonnellate di carbone dal sotterraneo più profondo della Biblioteca Nazionale bruciata”

Nota
L’incendio della Vijecnica, la Biblioteca Nazionale di Sarajevo, 25 agosto 1992

“[…]Vijećnica è il simbolo della distruzione di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina. Custodiva, prima della guerra, un milione e mezzo di libri, tra i quali 155 000 esemplari rari e preziosi, 478 manoscritti. Era l’unico archivio nazionale di tutti i periodici pubblicati in, o sulla Bosnia Erzegovina.
Dopo tre giorni di rogo, della biblioteca bruciata rimanevano lo scheletro di mattoni e dieci tonnellate di cenere.

“Una grande catastrofe culturale”, cosi il Consiglio di Europa ha definito la distruzione della Biblioteca Nazionale di Sarajevo. “La pazzia visibile”, intitolava l’articolo sulla devastazione della Vijećnica, il quotidiano inglese “The Times”.

Il 25 agosto 1992, poco dopo la mezzanotte, dalle colline che circondano la città i serbi spararono le prime bombe incendiarie su Vijećnica.

La Biblioteca Nazionale fu bersagliata dai cannoni per tre intere giornate. L’accuratezza dei lanci non lasciava dubbi sul fatto che il bersaglio fosse proprio la Vijećnica.

Sui vigili del fuoco, sui coraggiosi bibliotecari e sui volontari che, formavano una catena umana nel tentativo di salvare i libri, sparavano i cecchini o le antiaeree. La giovane bibliotecaria, Aida Buturović, perse la vita in quella occasione.

“Salvavano solo i libri degli autori musulmani”, affermò un tale Miroslav Toholj, scrittore di Sarajevo, scappato a Belgrado…” Continua a leggere

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Charles Simic  (1938) Poesie scelte, Traduzioni di Andrea Molesini, Damiano Abeni con uno stralcio di intervista. Con una glossa di Giorgio Linguaglossa, il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina

Foto Vivian Mayer dallo scompartimento

foto di Vivian Mayer

Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.

 In una intervista Simic dichiara:

“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico? 

Domanda:

A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…

Risposta:
“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.

Foto Miriam Mayer autoritratto

Vivian Mayer autoritratto

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Non sorprende che Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.

La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.

La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.

Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.

Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.

La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.

Gli amici di Eraclito

Il tuo amico è morto, quello con cui
giravi per le strade
a tutte le ore, parlando di filosofia.
Perciò, oggi sei andato solo,
fermandoti spesso per scambiarti di posto
con il tuo compagno immaginario,
e ribattere a te stesso
sul tema delle apparenze:
il mondo che vediamo nella testa
e il mondo che vediamo ogni giorno,
così difficili da distinguere
quando dolore e sofferenza ci piegano.

Voi due spesso vi siete fatti trascinare
tanto da trovarvi in quartieri strani
persi tra gente ostile,
costretti a chiedere indicazioni
proprio sul ciglio di una suprema rivelazione,
a ripetere la domanda
a una vecchia o a un bambino
che potrebbero essere entrambi sordi e muti.

Qual era quel frammento di Eraclito
che stavi cercando di ricordare
quando sei inciampato nel gatto del macellaio?
Nel frattempo, tu stesso ti eri perso
fra la scarpa nera nuova di qualcuno
abbandonata sul marciapiedi
e il terrore improvviso e l’ilarità
alla vista di una ragazza
abbigliata per una notte di ballo
che sfreccia sui pattini.

The Friends of Heraclitus

Your friend has died, with whom
You roamed the streets,
At all hours, talking philosophy.
So, today you went alone,
Stopping often to change places
With your imaginary companion,
And argue back against yourself
On the subject of appearances:
The world we see in our heads
And the world we see daily,
So difficult to tell apart
When grief and sorrow bow us over.

You two often got so carried away
You found yourselves in strange neighborhoods
Lost among unfriendly folk,
Having to ask for directions
While on the verge of a supreme insight,
Repeating your question
To an old woman or a child
Both of whom may have been deaf and dumb.

What was that fragment of Heraclitus
You were trying to remember
As you stepped on the butcher’s cat?
Meantime, you yourself were lost
Between someone’s new black shoe
Left on the sidewalk
And the sudden terror and exhilaration
At the sight of a girl
Dressed up for a night of dancing
Speeding by on roller skates.

Domando al piombo

Domando al piombo
perché ti sei lasciato
fondere in pallottola?
Ti sei forse scordato degli alchimisti?
Hai perso qualsiasi speranza
di diventare oro?

Nessuno mi risponde.
Pallottola. Piombo. Con nomi
del genere
il sonno è lungo e profondo.

I say to the lead

I say to the lead
Why did you let yourself
Be cast into a bullet?
Have you forgotten the alchemists?
Have you given up hope
In turning into gold?

Nobody answers.
Lead. Bullet. With names
Such as these
The sleep is deep and long.

Prodigio

Sono cresciuto chino
su una scacchiera.

Amavo la parola scaccomatto.

Il che sembrava impensierire i miei cugini.

Era piccola la casa,
accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
per via di carri armati e caccia.

Fu un professore di astronomia in pensione
che m’insegnò a giocare.

L’anno, probabilmente, il ’44.

Lo smalto dei pezzi che usavamo,
quelli neri,
era quasi del tutto scrostato.

Il re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.

Mi hanno detto, ma non credo che sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.

Ricordo che mia madre
spesso mi bendava gli occhi.
Con quel suo modo spiccio d’infilarmi
la testa sotto la falda del soprabito.

Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.

Prodigy

I grew up bent over
a chessboard.

I loved the word endgame.

All my cousins looked worried.

It was a small house
near a Roman graveyard.
Planes and tanks
shook its windowpanes.

A retired professor of astronomy
taught me how to play.

That must have been in 1944.

In the set we were using,
the paint had almost chipped off
the black pieces.

The white King was missing
and had to be substituted for.

I’m told but do not believe
that that summer I witnessed
men hung from telephone poles.

I remember my mother
blindfolding me a lot.
She had a way of tucking my head
suddenly under her overcoat.

In chess, too, the professor told me,
the masters play blindfolded,
the great ones on several boards
at the same time.

Molti Zero

Senza voce l’insegnante si alza davanti a una classe
di pallidi bambini dalle labbra serrate.
La lavagna alle sue spalle tanto nera quanto il cielo
che dista anni luce dalla terra.
È il silenzio che l’insegnante ama,
il gusto dell’infinito che trattiene.
Le stelle come le impronte di denti sulle matite
dei bambini.
Ascoltatelo, dice felice.

Many Zeros

The teacher rises voiceless before a class
Of pale, tight-lipped children.
The blackboard behind him as black as the sky
Light-years from the earth.

It’s the silence the teacher loves,
The taste of the infinite in it.
The stars like teeth marks on children’s pencils.
Listen to it, he says happily.

*

Hotel Insomnia

I liked my little hole,
Its window facing a brick wall.
Next door there was a piano.
A few evenings a month
a crippled old man came to play
My Blue Heaven.

Mostly, though, it was quiet.
Each room with its spider in heavy overcoat
Catching his fly with a web
Of cigarette smoke and revery.
So dark,
I could not see my face in the shaving mirror.

At 5 A.M. the sound of bare feet upstairs.
The “Gypsy” fortuneteller,
Whose storefront is on the corner,
Going to pee after a night of love.
Once, too, the sound of a child sobbing.
So near it was, I thought
For a moment, I was sobbing myself. Continua a leggere

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Chiara Catapano: Ornitologia filosofica da banco con un Commento di Letizia Leone – Filosofia, poesia e ornitologia

 

pittura Paul Delvaux, Landscape with Lanterns, 1958

Paul Delvaux, Landscape with Lanterns, 1958

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca. Collaborazioni recenti: Fondazione Museo storico del Trentino: assieme al dott. Andrea Aveto dell’Università di Genova: riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine, nell’ambito di uno studio sull’autore portorino. Per Thauma edizioni: ha curato l’edizione di “Per metà del cielo”, della poetessa slovena Miljana Cunta (trad. Michele Obit). Per l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL – Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas, rivista “Anthropos” numero di febbraio 2015, l’articolo: “Sopra la rappresentazione transmoderna del sé”.

http://www.anthropos-editorial.com/DETALLE/LA-CONDICION-TRANSMODERNA.-ROSA-MARIARODRIGUEZ-MAGDA-RA241

L’attività prevalente e continuativa (da ottobre 2012), consiste nella direzione, accanto allo scrittore Claudio Di Scalzo, della rivista d’autore on-line Olandese Volante (www.olandesevolante.com); al cui interno, oltre alla pubblicazione di testi letterari in poesia e prosa dei direttori e di alcuni collaboratori, vengono curati autori e maestri in modo “transmoderno”, come la rivista attesta nel sottotitolo: “Transmoderno, arti, pensosità, letterature.” Con Perrone editore esce nel2011 la sua prima raccolta Apice stretto in Verso libero- antologia poetica a cinque voci con prefazione di Letizia Leone. Nello stesso anno 2011 pubblica la raccolta La fame edita da Thauma Edizioni; nel 2013 pubblica La graziosa vita (Thauma edizioni) dialogo sulla tomba di Giovanni Boine, uscita sotto l’eteronimo di Rina Rètis – opera dedicata allo scrittore portorino. Ha collaborato fino al 2013 con l’associazione culturale “Thauma” di Pesaro, per la cui casa editrice è stata curatrice. Ha curato il cortometraggio poetico basato sul poemetto inedito Alìmono,  in collaborazione con gli artisti pugliesi Iula Marzulli, Marianna Fumai (RecMovie) e Gaetano Speranza: prima proiezione il 26 dicembre 2016 al Lecce Film Fest. Collabora con la compagnia teatrale Fierascena, fondata dall’attrice e regista Elisa Menon.

pittura mimmo paladino 4

mimmo paladino

Commento di Letizia Leone

Poemetti sapienziali queste preziose scritture poetiche di Chiara Catapano che confermano la sua concezione forte e dantesca del valore epistemologico della poesia.  Una composizione spezzata in capitoli ma insieme luminosa e unitaria e illuminante. Viene allora da chiedersi da dove arrivino e quale coscienza abitino queste creature del volo, questi uccelli intatti nella loro primigenia essenza paradisiaca, con il loro “sentire illuminante”, direbbe la Zambrano.  Messaggeri mistici o testimoni di una coscienza spirituale che sembra sempre più annichilita dall’orizzonte umano? Di certo custodi non umani di vibrazioni profonde. Nella loro piena ma breve manifestazione biologica sono quasi palpitazioni del tempo. E il tempo storico della civiltà attraversa e rigenera queste nude creature esposte alla vita che pare traboccare per eccesso dai loro “piccoli petti canori”:

Il Pettazzurro ha sviluppato, nella sua breve vita, un sistema gnoseologico che afferra il significato di un’evoluzione inversamente proporzionale alla durata d’ogni singola esistenza.
Si dice sia stata la reciproca contemplazione del piumaggio lapislazzuli dello sterno, cerchiato di rosso rame, nella coppia di Pettazzurri, a far sviluppare loro un controcanto filosofico per l’incommensurabilità della natura nei piccoli petti canori, così fragili e limitati.

L’averla, il pettazzurro, il merlo acquaiuolo, l’allodola o il cuculo o il “picchio rosso di Hegel” incarnano, in uno sdoppiamento allegorico dell’io, l’ardore di una coscienza evoluta, l’essenza vivente del pensare. Oltre le classiche dicotomie nomos e physis, res cogitans e res extensa, qui la cultura pare funzionare come eredità genetica in grado di apportare senso e “felicità” dopo aver decostruito le antiche opposizioni, e la Catapano sembra trovare una modalità per “addentrarsi nel vivo del pensare filosofico”.

Ma soprattutto l’autrice riesce a trovare una conciliazione tra due stati dell’essere: essere sempre più naturali per mezzo della cultura, e allo stesso tempo, essere culturali attraverso la natura. “Il sistema, il sistematico che caratterizza la Filosofia, non è l’ordine esterno in cui appaiono collocati i concetti, ma il suo stesso farsi fluido e vivente”, ci suggerisce infatti la Zambrano così lontana da quel sapere astratto e concettualizzato della filosofia tradizionale. Anche per questo ci affascinano i testi della Catapano, per questa sintesi sublime, per l’esperienza vitale o il “sapere sperimentale della vita” della natura di cui sono intrisi, una partecipazione attiva che la filosofa spagnola ha chiamato “Logos del pathos”.  Illustra infatti la Catapano attraverso la perfetta conciliazione di poesia e filosofia, la storia di un pensiero speculativo in sacrale sintonia con la natura:

Il primo che ne osservò le curiose abitudini meditative fu Pitagora, attraverso lo studio della musica e del canto; ma solo Filolao da Crotone riuscì a sviluppare un calcolo matematico basato sull’algebra delle migrazioni.
Il Pettazzurro saltella con grazia nei giardini escatologici inconsci: vi intesse una lirica di invisibili rette, delimita e taglia, lasciando l’uomo al centro della sua geometrica costituzione.

Se starete fermi, in attesa, scoprirete che il mio cinguettio segue intorno alla vostra figura traiettorie precise, incidendo l’aria in un ipotetico quadrato di cui siete ontologico equilibrio.

Allora è necessario convocare le creature dell’aria e del canto. Rivolgersi agli uccelli. In subliminale richiamo forse con quella adamitica “lingua degli uccelli” o in evocazione sciamanica di anime privilegiate del regno animale (ma non fu Heidegger che definì l’animale “povero di mondo”?) eppure qui, in un ribaltamento strategico, l’animale si fa innocente portatore di sapienza.

In questa “Filosofia ornitologica da banco” sembra implicita l’indicazione all’uso e consumo di una materia sacra se volessimo catturare la portata simbolica degli uccelli, angeli trasfigurati, e dunque richiamo agli stati superiori dell’essere. Ma “lingua degli uccelli” o “lingua angelica” ha il suo corrispettivo nel mondo umano nel linguaggio ritmato, “scienza del ritmo” se, secondo la tradizione islamica, Adamo nel paradiso terrestre parlava in versi, cioè in linguaggio ritmato…ed è qui che il simbolismo allude ad una reintegrazione.

L’ animale, fuori da ogni tedium culturae e dal non aver violato la sacralità degli equilibri cosmici può guardare bene in faccia il fallimento della cultura umanistica nel salvare il mondo:

Dietro la nuca, acconciando i lunghi capelli in una coda, ho visto le quattro spine piumate, la lanugine del quadrifarmaco che m’ingombra il pensiero: quattro piccole aperture affilate nel cranio, creano tutto il contrasto del mio essere religioso. Una m’instilla l’indifferenza per il volere divino; la seconda mi culla ogni sera con il canto della morte che non si teme, perché nulla di noi rimane – afferma- quando abbandoniamo la vita terrena; la terza m’inganna con l’accesso al piacere senza rimpianto; l’ultima, altrettanto menzognera, m’illude che il dolore persiste solo se facilmente sopportabile… Sono un essere sterile, perché in me dio è morto; ucciso nel nido d’abbandono.

Leggendo risulta evidente la condizione dell’uomo moderno chiuso nell’orizzonte in uno scientismo predatorio dopo la morte di Dio, là dove come afferma Heidegger riguardo al nichilismo «non serve a nulla metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia».  Forse servono ormai altri occhi che consegnino nelle mani di un cieco la visione e la consapevolezza. La consapevolezza di malattie “ontologiche” di ordine superiore come il nichilismo, divenute costituzionali nell’uomo.

Chiara Catapano riattiva l’attenzione dell’esausto lettore contemporaneo usando magistralmente la tecnica dello straniamento. Così “strania” i concetti o le teorie al centro del suo discorso poetico catapultandole in una dimensione ornitologica, si veda ad esempio come procede nella focalizzazione dell’idea di Animus-Anima riformulandola attraverso l’inedito punto di vista del merlo acquaiuolo:

Il piumaggio candido del petto, la prima cosa di sé che immergono nei voli subacquei, rappresenta, delle coppie d’opposizioni dialettiche, il positivo: Io, Persona, Logos. Il piumaggio nero e lucido del dorso e delle ali simboleggia la funzione animica dell’ombra, l’Eros; tutto quanto espulso dalla personalità, bruciato e spento nelle folli acrobazie, non riconosciuto come proprio e tenuto a debita distanza dal centro, o cuore immacolato della creazione.
Animus e Anima s’alternano alla vista, immergendosi ed emergendo dal guado della personalità in dialogo col numinosum, nel sacro bacino della vita.

Non resta che godere della lettura, godere dell’“atto di meraviglia” dal quale veniamo continuamente scossi nei nostri pre-giudizi: “questo atto di meraviglia , evidentemente, si verifica quando la percezione entra in conflitto con un mondo di concetti abbastanza stabilizzato in noi. Nei casi in cui un conflitto del genere viene vissuto acutamente e intensamente, a sua volta esercita una forte influenza sul nostro mondo intellettuale.” (A. Einstein) Ecco in queste intense scritture di Chiara Catapano la filosofia, o per meglio dire la gnoseologia, diventano il materiale sublime della visione poetica…

pittura Edward Hopper nudo in interno

Edward Hopper nudo in interno

Ornitologia filosofica da banco di Chiara Catapano

(Testi inediti)

1

Quando le rigide temperature del Nord Europa mi spingeranno verso le tue campagne, osserverai la giovane Averla cinguettante svernare nel tuo giardino. Guarderai in alto, verso la cima del noce, perché da lì discenderà il mio richiamo; distrarrò i predatori che stazionano accanto ai cespugli dei tuoi sogni, vicino all’entrata di casa (nottole, volpi, faine che grattano a notte la porta), dove avrò deposto le uova.

Mi soffermo alla finestra, per tuo diletto, a cantare il vento che languido freme tra le cime d’Engadina, l’acqua raccolta dagli stami della notte di Pasqua, e il viola del pruno selvatico dentro il cielo d’agosto. Continua a leggere

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Paradigma dello Specchio – Quindici poesie e prose per quindici poeti a cura di Gino Rago – Poesie e prose di Silvana Baroni, Gino Rago, Ghiannis Ritsos, Guido Galdini, Giuseppe Talia, Mario Gabriele, Zbigniew Herbert, Donatella Costantina Giancaspero, Jorge Luis Borges, Francesco Lorusso, Mauro Pierno, Francesca Dono, Giuseppe Gallo, Lorenzo Pompeo, Lidia Are Caverni, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Gif La noia

Nota di Gino Rago

Gran parte delle ragioni che mi hanno spinto a indagare nella poesia contemporanea, e di questa [per me la più avanzata] dei poeti scelti e antologizzati, il confronto lirico-dialettico con il paradigma dello specchio è condensata nella missiva a me diretta da Giuseppe Talia, che riporto:

«Caro Gino Rago, è molto interessante questa indagine sullo specchio che stai conducendo in queste pagine. Che cosa è lo specchio se non la storia delle generazioni che si succedono nel corso del tempo. E’ impossibile esprimere – scrive Tarkovskij – la sensazione finale che questo tipo di ritratto produce su di noi. Secondo Lacan, attraverso lo specchio il bambino arriva, attraverso varie fasi, a riconoscere se stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto. Questo testo che ti sottopongo è interamente calato nell’odierno narcisismo, nella doppiezza in cui però la costruzione del proprio Io porta con sé una malattia: la metafora di Nietzsche sul cammello, per esempio. La passione per la libertà, la passione per la creatività, come afferma Massimo Recalcati, non è la passione fondamentale, la passione fondamentale che orienta la vita umana è la passione per le catene. Ecco che allora il set del mio testo è in una palestra, luogo di fatica, di costruzione di un corpo che non è il corpo, quanto, invece, l’idea di corpo. Un luogo di tortura medievale, almeno così io l’ho inteso, con il mio stile».Altre ragioni non meno urgenti a sostegno della idea di indagare la Poesia verso il paradigma dello specchio derivano direttamente dalla domanda che Giorgio Linguaglossa pone alla filosofia:
«C’è una differenza ontologica fra l’immagine allo specchio e l’immagine che sta nella mia testa?», partendo dalla Dialettica negativa [pag.68] di Adorno:«Lo specchio è un concetto aporetico per eccellenza, perché converte il più concreto nel più astratto, e quindi il più vero nel più falso. In ciò lo specchio è l’esatto contrario dell’essere, concetto anch’esso aporetico in sommo grado, perché quest’ultimo «trasforma il più astratto in più concreto e quindi più vero».

I quindici poeti antologizzati hanno in comune una cifra che nella scelta operata è stata per me decisiva: la tensione metafisica, se non mistica, che emerge dai loro versi. Cifra che induce questi poeti a confrontarsi con il mondo visto da uno specchio attraverso il quale scorre la vita, esprimendo o anche soltanto accennando l’indicibile, senza la pretesa di possederne le risposte. Sotto lo sciame degli aerei da bombardamento, il lettore continui a tagliare il suo cocomero.

1- Silvana Baroni

Persa e ritrovata

Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.

 

2 – Gino Rago

il Vuoto, lo specchio

Cara Signora Jolanda W. ,

[…]
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla,
litiga di nascosto con lo specchio.

Lo fa tutti i giorni, non dategli molto credito,
dice che fa i conti con il Vuoto,

Il Vuoto che capta altro Vuoto.
Il tempo cade sotto forma di polvere, opacizza l’immagine,

sbiadisce le fotografie, scontorna il presente, il futuro e il passato,
il mio amico se la prende con il Signor K.

Una donna, la sgualdrina di Vivaldi, fa un valzer con il primo che passa,
Mario Gabriele mangia una Sacher con panna,

lo vedo attraverso la vetrata della Gebäck der Prinzessin Sissi.
Che volete, i miei amici, quelli della nuova ontologia estetica,

hanno un debole per le pasticcerie.
Adesso lo vedo allo specchio mentre si rade la barba e fischietta.

Una risata da dietro i gerani.

*[Il mio Amico [di Roma] è Giorgio Linguaglossa]

 

3 -Ghiannis Ritsos

Quarta dimesione [da Crisotemi ]

” […] In una grande stanza disabitata era appeso da anni
un antico specchio dalla cornice d’oro. In quella stanza
non entrava nessuno. Là dentro gettavano alla rinfusa
tutto il vecchiume inutile – lampade, poltrone, candelieri, tavolini,
ritratti di antenati e altri di generali deposti, di poeti, filosofi,
vasi di cristallo dalle forme strane, treppiedi, bracieri di bronzo,
grandi maschere di gesso o di metallo, e altre piccole di velluto nero,
teste imbalsamate di cervi e fiere, uccelli
multicolori impagliati, azzurri e d’oro, dai becchi adunchi-
di cui ignoravo il nome-
attaccapanni, armature, consolle e tende pesanti,
di solito color porpora o verde scuro. Quello era il mio rifugio.

C’era un odore di stoffa tarlata, di polvere e frescura. Dunque,
lo specchio, appeso in alto sul muro, concentrava tutta quanta la luce-
era l’occhio
della stanza cieca piena di anfratti.
Quell’occhio
regnava calmo e intramontabile sull’inservibilità e la desolazione,
anzi le immortalava; – memoria sacra nell’oblio profondo.
Una sera,
salii su un baule e mi guardai allo specchio; – non vidi niente –
niente, soltanto luce – una luce oscura, come fossi io stessa
tutta quanta di luce – e lo ero veramente. Compresi, allora,
(o forse ricordai) ch’ero sempre stata luce. Un ragno
passeggiava sul chiarore dello specchio e sul mio viso. Non
mi spaventai affatto” […]

 

4- Guido Galdini

Specchio

è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?

Tiziano Scarpa

Pagina del nuovo libro di poesia di Tiziano Scarpa uscito da Einaudi – Ecco qui un mio commento:
parafrasando Charles Simic:
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. Gli scrittori sono gli operatori ecologici. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.

5 – Giuseppe Talia Continua a leggere

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Jean Claude Izzo: Loins de tous rivages / Lontano da ogni riva, 1997, Ensemble, Roma, 2018, pp. 156 € 12 un ponte sul Mediterraneo Cura e traduzione di Annalisa Comes

 

foto donna con ombrello

Jean Claude Izzo (1945-2000), scrittore, giornalista, drammaturgo e sceneggiatore è noto al pubblico soprattutto come creatore del cosiddetto «noir mediterraneo», con la “trilogia marsigliese” pubblicata a partire dal 1995: Casino totale, Chourmo (1996), Solea (1998), tutti aventi come protagonista e voce narrante il commissario Fabio Montale. Tuttavia il suo primo incontro con la scrittura nasce all’insegna della poesia (mai tradotta in Italia). Nel 1970 pubblica la sua prima raccolta Poèmes à haute voix (Poesie a voce alta), a cui seguiranno Terres de feu (Terre di fuoco, 1972), Etat de veille (Stato di veglia, 1974), Braises, brasiers, brûlures (Braci, bracieri e bruciature, illustrazioni di E. Damofli, 1975), Paysage de femme (Paesaggio di donna, 1975) e Le rèel au plus vif (Il reale al più vivo, 1976). Tornerà alla poesia ancora alla fine degli anni novanta con Loin de tous rivages (Lontano da ogni riva, illustrazioni di Jacques Ferrandez,1997) e L’Aride des jours (L’arido dei giorni, fotografie di Chaterine Bouretz-Izzo, 1999). Fra le numerose pubblicazioni si possono ricordare La Commune de Marseille (La comune di Marsiglia, 1971) nella rivista «Europe»; un testo teatrale per la liberazione di Angela Davis e i romanzi Clovis Hugues, un rouge du midi (Clovis Hugues, un rosso del Midi, 1978), Marinai perduti (1997) e Il sole dei morenti (1999). Giornalista e responsabile della rubrica cultura a «La Marseillaise», corrispondente ufficiale del giornale al Festival di Avignone, è stato poi redattore di «La Vie Mutualiste» (1980-85), animatore alla radio «Forum 92», e ha partecipato alla creazione della rivista poetica «la Revue Orione» con Bruno Bernardi.

dalla prefazione di Annalisa Comes 

La voce di Jean-Claude Izzo arriva dal Mediterraneo. «Isola» di acque e terre dalle molteplici civiltà, culture, lingue, di contraddizioni, naufragi e sbarchi, di paure e sbarramenti, di accoglienze e passaggi. – purtroppo oggi ancor più dolorosamente evidenti, – di cui lo stesso poeta esplicita e rivendica, in modo inequivocabile, la sua appartenenza… L’opera poetica di Jean-Claude Izzo è pressoché sconosciuta in Italia… è ricordato soprattutto come giallista, l’inventore del noir mediterraneo – la cosiddetta «trilogia marsigliese» composta dai noir: Casino totale, Chourmo. Il cuore di Marsiglia, e Solea… Ma è con la poesia che Jean-Claude Izzo inizia e conclude il suo cammino e d’altronde, anche il nome del suo famoso poliziotto, Fabio Montale, è un omaggio alla poesia (e alle sue origini italiane) […] Non stupisce nei suoi versi ritrovare l’eco del randagio Rimbaud e di poeti quali Louis Brauquier (con il suo maestro, Emile Sicard, entrambi amrsigliesi), gabriel Audisio, Gérald Neveu, Alexandre Toursky, tutti relegati dall’esperienza di «Le Cahiers du Sud», la rivista fondata a Marsiglia nel 1925 da Jean Ballard (e a cui, negli anni Quaranta aveva collaborato anche Simone Weil con lo pseudonimo di Emile Novis). E ancora, geograficamente affini, scrittori come Jean Giono e Albert Camus […]
Il Mediterraneo, l’acqua «bianca» di sbarchi, nascite, esilio, tanto amato di Izzo e presente in quasi tutte le sue narrazioni, non è che uno scorcio di luce lontana in questa penultima raccolta di poesie. Il largo che ci dispiega il titolo, Lontano da ogni riva (Loin de tout rivage), è qui invece un orizzonte bruciante di terra, un deserto di pietre e rovine, pais dove spazioe tempo si coagulano nell’abbacinante aridità del Midi. Su questa terra di rovine, «in rovina, abbandonata ai rovi» dove non si ode «nessuna voce umana», anche i «vascelli» sono di pietra… e sembrano spingersi, perdendosi, fino alla vertigine della garrigue azzurra, specchio rovesciato, eco di un mare lontano. È la «vertigine di sapersi lontano da ogni riva», geografia dell’anima, questo tempo offerto alla memoria, che non può essere descritto, non cantato, solo, tastato in ruderi, rovine, cimiteri, oppure fiutato nelle essenze «violente» del timo, della resina, della santoreggia. Gli alberi sono pochi, manciate sparute di olivi, qualche pino, un cipresso, predominano invece rovi e sterpi, lo splendore effimero dei papaveri, e poi argilla e poi polveri, polvere.

edith-diario-di-un-addio-sogno

edith dzieduszycka diario-di-un-addio-sogno

Braises
de la mémoire (1997)

Là.
Des ruines se lamentent dans un langage dèjà d’autrefois.
Païs.
Là, et les pierres, face au ciel, depuis hier, depuis toujours.
Présence. Absence.
Entre le tremblement de terre et la pétrification, l’aveugle éboulis des murs se répand sur nos mémoires.
Là.
Pierres à jamais…
Colonnes brisées, vestiges…
Pierres de boue recouvertes, livrées à l’oubli, aux fadarellos qui peuplent désormais la campagne.
Là, et les heures accumulées.
Et le silence.
Et le silence en feu aux abords de midi.
Blanches, les heures révèlent sur les pierres la profondeur du soleil.
Mortelle blancheur, jusqu’à l’immobilité.
Que sont devenus les mots, la langue, les hommes qui donnaient force aux mots par la beauté des moissons?
Et le silence hurlant dans le silence.

Braci
della memoria

Laggiù.
Rovine si lamentano in una lingua già d’altri tempi.
Païs.
Laggiù, e le pietre, di faccia al cielo, da ieri, da sempre.
Presenza. Assenza.
Fra il terremoto e la pietrificazione, la cieca frana dei muri si spande sulle nostre memorie.
Laggiù.
Pietre per sempre…
Colonne spezzate, vestigia…
Pietre di fango ricoperte, abbandonate all’oblio, ai fadarellos che popolano ormai la campagna.
Laggiù, e le ore accumulate.
E il silenzio.
E il silenzio infuocato vicino al meriggio.
Bianche, le ore rivelano sulle pietre la profondità del sole.
Bianchezza mortale, fino all’immobilità.
Che sono diventate le parole, la lingua, gli uomini che davano forza alle parole con la bellezza delle mietiture?
E il silenzio che urla nel silenzio.

II

Sur la garrigue bleue, en vertige, sur cette terre en ruine, livrée aux ronces, aucune voix humaine.
Ici gisent.
Violent désir de mettre alors mot sur pierre, de rebâtir un présent accessible. Un présent.
Il y a urgence à nous renaître.
Païs.
Et c’est déjà midi. L’heure où se rassemblent les instants épars.
En mon corps le sang remue et se débat contre le silence.
Hauts cyprès dressés dans le jour – barricades vertes – l’ésperance a cette profondeur.
L’immobilité devient révolte et cherche sa force.
Ici, là-bas, ailleurs, là où je suis né, sommeillent les heures qui, sous les pierres, aspirent à s’épanouir en un cri.
Je revendique les fureurs de l’heure à midi.
Que dit le sang dans mes veines?
Sang, qui sonne le tocsin aux clochers alentour et dont l’écho bat comme le vent sur les pierres.
Souffle au plus profond.
Sang, qui sonne le temps qui vient et qui ne sera que par un maintenant, ici.

II

Sulla garrigue azzurra, in vertigine, su questa terra in rovina, abbandonata ai rovi, nessuna voce umana.
Qui riposano.
Violento desiderio di mettere parola su pietra, di ricostruire un presente accessibile. Un presente.
Urgenza di rinascere.
Païs.
Ed è già mezzogiorno. L’ora in cui si radunano gli sparsi istanti.
Nel mio corpo il sangue si rimesta e si dibatte contro il silenzio.
Alti cipressi – barricate verdi – innalzate nel giorno la speranza a questa profondità.
L’immobilità diventa rivolta e cerca la sua forza.
Qui, laggiù, altrove, là dove sono nato, sono assopite le ore, che sotto le pietre, aspirano a sbocciare in un grido.
Rivendico i furori dell’ora a mezzogiorno.
Cosa dice il sangue nelle mie vene ?
Sangue, che suona a martello nei campanili vicini e la cui eco batte come il vento sulle pietre.
Respiro nel profondo.
Sangue, che suona l’approssimarsi del tempo che sarà qui solo per un momento.

III

Pierres.
Caresse lente de ma main.
Corps.
Un dialogue se noue:
les ronces parcourent d’invisibles chemins parmi les corps offerts à l’attente de midi. Ailleurs l’amour… Ailleurs des carrés de terre labourée, ensemencée, tendent leur bonheur comme du linge lavé de frais. Ailleurs du linge sèche sur un fil d’horizon vert et bleu, et la vie, lentement, s’égoutte au soleil.
Ailleurs
Pierre dénudée de sa boue.
Et le sang affolé s’épaissit à ce contact.

III

Pietre.
Carezza lenta della mia mano.
Corpo.
Si annoda un dialogo :
i rovi percorrono invisibili sentieri tra i corpi offerti all’attesa del mezzogiorno. Altrove l’amore… Altrove, zolle di terra arata, seminata, stendono la loro felicità come biancheria appena lavata. Altrove biancheria si asciuga su un filo d’orizzonte verde e azzurro, e la vita, lentamente, sgocciola al sole.
Altrove…
Pietra snudata del suo fango.
E il sangue smarrito si raggruma al contatto.

IV

Midi, enfin.
Un poing s’élève.
Tous les feux du soleil se rassemblent en lui.
Brutal instant qui déchire les ronces.
Geste qui retrouve la mémoire.
Le soleil blanchit aux confins du regard. Dressé audessus des oliviers, il absorbe le ciel. L’olivier retient son délire. Le ciel n’ose plus frémir. Le pin éclate de sève et, au risque de périr, enlace l’heure. L’air alors devient plus lourd de mystère. La poussière vaincue retombe sur le sol qui la fait naître…
Là.
Fixement, je parcours le paysage au plein de son jour.
Des relents de mémoire aux essence violentes – thym, résine et sarriette mêlés – attisent la sève qui monte en moi.
Le soleil m’accueille dans un ressac de silence.

IV

Mezzogiorno, finalmente.
Si leva un pugno.
Tutti i fuochi del sole si radunano in lui.
Brutale istante che strappa i rovi.
Gesto che ritrova la memoria.
Il sole sbianca ai confini dello sguardo. Dritto sopra gli olivi, assorbe il cielo. L’olivo trattiene il suo delirio. Il cielo non osa più fremere. Il pino scoppia di linfa e, al rischio della morte, abbraccia l’ora. L’aria diventa più carica di mistero. La polvere vinta ricade al suolo che la fa nascere…
Laggiù.
Fisso, percorro il paesaggio nel pieno del suo giorno.
Tanfi di memoria dalle essenze violente – timo, resina e santoreggia confusi – risvegliano la linfa che sale in me.
Il sole mi accoglie in una risacca di silenzio.

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V

Midi, encore.
Pierres brûlées, à nouveau. L’ombre se meurt.
L’ombre, sous ma langue, ne sait plus les mots et dans ma bouche, la brûlure de ne plus savoir dire, ne plus savoir.
Le temps prend le corps de l’argile.
Le silence se tisse par transparence et épaisseur.
Pierres, et pierres. Ruines.
Mon pays, c’est l’histoire et toutes les histoires, et l’Histoire en ruines, pierres et cailloux, défile sous mes yeux.
Païs, saurai-je un jour où ton midi trouve son feu?
Et les heures au cadran, taillé de main d’hommes, me saluent de leur mépris.

V

Mezzogiorno, ancora.
Pietre bruciate, di nuovo. L’ombra muore.
L’ombra, sotto la mia lingua, non sa più le parole e nella mia bocca, la bruciatura di non saper dire, di non sapere più.
Il tempo prende il corpo dell’argilla.
Il silenzio si tesse di trasparenza e spessore.
Pietre, e pietre. Rovine.
Il mio paese, è la storia e tutte le storie, e la Storia in rovine, pietre e sassi, sfila sotto i miei occhi.
Païs, saprò un giorno dove il tuo mezzogorno si infuoca ?
E le ore sul quadrante, intagliato da mani di uomo, mi salutano con disprezzo.

VI

Terre.
Gisent les hommes dans les villages défaits. Cimetières.
Aux fenêtre des maisons tombent les pierres d’angle.
Larmes.
Larmes, et pierres sur pierres, les ruines s’érigent.
Cri – trou que font mes lèvres dans l’opacité bleue pour rompre le silence, pour rendre la parole à ces heures dans le plain-chant du soleil. Et les coquelicots enfin rendus à leur éphémère splendeur.
Terre.
Là.

VI

Terra.
Riposano gli uomini nei villaggi disfatti. Cimiteri.
Dalle finestre delle case cadono le pietre angolari.
Lacrime.
Lacrime, e pietre su pietre, si innalzano le rovine.
Grido – buco che fanno le mie labbra nell’opacità azzurra per spezzare il silenzio, per restituire la parola a queste ore nel canto piano del sole. E i papaveri restituiti al loro effimero splendore.
Terra.
Laggiù.

jean-claude-izzo

Jean-Claude Izzo

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Paradigma dello Specchio – Quattordici Poesie per quattordici poeti sul tema dello specchio, a cura di Gino Rago – Poesie di Ezra Pound, Sylvia Plath,  Wislawa Szymborska, Francesca Dono, Kikuo Takano, Donatella Costantina Giancaspero, Letizia Leone, Lidia Popa, Edith Dzieduszycka, Ewa Lipska, Alejandra Alfaro Alfieri, Gino Rago, Annalisa Comes, Giorgio Linguaglossa,

Foto Lo specchio

La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica»

Quattordici  poeti si confrontano con il Paradigma dello Specchio. La tematica dello specchio, insieme a quella dell’identità, svolge un ruolo centrale nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica».  La parola «specchio» deriva da «speculum», ed ha la stessa radice di «speculazione», cioè pensare qualcosa in rapporto ad un’altra. Lo «specchio» ci mette dinanzi agli occhi una immagine nella quale spesso non ci riconosciamo, e ci invita a pensare noi stessi in rapporto a ciò che vediamo riflesso nello specchio. È dal non-riconoscimento che ha inizio la speculazione intorno a ciò che noi siamo e ciò che non siamo; è attraverso l’immagine esterna a noi che possiamo speculare intorno a ciò che siamo o non siamo, perché ciò che noi vediamo di noi è sempre altro da ciò che noi credevamo di sapere…

«Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il Vuoto stesso […]».

 (Roland Barthes)

l’immagine allo specchio ci rivela il nostro sembiante come un «gioco» di significanti e di significati, di codici e di geroglifici inscritti tra le pieghe del nostro volto […]

Un  contesto di «gioco» nel quale la Parola, nel suo significato, rischia di farsi ambigua.  Da questa ambiguità trae l’origine il  «lutto» e da questo l’ impedimento al pieno dispiegarsi dell’adempimento nel tempo della «Storia».

La storia individuale è quindi una ripetizione del «gioco luttuoso» del Trauerspiel, ripetizione infinita della rottura, dell’incongiungibilità di suono e significato, della dif-ferenza tra significante e significato, del permanente rischio di parlare tramite la ciarla.

Autotrasparenza e autoriflessività sono due momenti dello «specchio» intorno ai quali ruota la rappresentazione nel Moderno. La rappresentazione si fa rappresentazione di se stessa, si duplica, si mostra nella trasparenza e nel riflesso allo specchio, mostra la propria struttura riflessiva e, nello stesso tempo, mette in atto un rapporto con il soggetto della rappresentazione di cui smarrisce la genesi; il soggetto si mostra «barrato» nella elisione direbbe Lacan* indicando in tal modo la lacuna intorno a cui si costituisce la rappresentazione, lacuna che colpisce, a ritroso, il soggetto, elidendolo. Così, il linguaggio tende al metalinguaggio e l’io tende al meta-io.

L’atteggiamento giubilatorio del bambino davanti allo specchio è, per Lacan,  la seduzione dello specchio, la fascinazione in cui si produce quello sdoppiamento nel soggetto per cui l’immagine riflessa diventa l’emblema nel quale il soggetto si riconosce e si identifica. Si è colti in imago prima ancora come persona, si è catturati dall’immagine statuaria che si produce sulla superficie dello specchio. Il corpo è la sede dell’ingovernabilità,  in balia dell’altro e della propria inibizione motoria. Il corps morcelé è l’espressione che Lacan utilizza per descrivere questo stato. Il «corpo-in-frammenti», è l’altro polo di questo processo che detta le regole, da un lato, allo disgregazione del soggetto tra la sua immagine unitaria, ortopedica, come dice Lacan, in cui il soggetto si aliena, e la frammentazione che rivela al soggetto il soggetto.

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria e in cui accade qualcosa che appare nel registro della finzione: la formazione di sé nell’immagine.

* M. Foucault, Les Mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad.it. Panaitescu E., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967 .

(Giorgio Linguaglossa)

Gif gemelli

Lo specchio è quel luogo in cui il soggetto scopre la sua alienazione primaria

Niente è più astratto e sfuggente della nostra identità e nello stesso tempo niente è più esposto al giudizio altrui, è più concreto e visibile. A cominciare dal volto, la prima immagine di noi stessi. Da quasi due secoli la fotografia è legata alla nostra stessa idea di identità. Tutti portiamo con noi un documento con il nostro volto e abbiamo fotografie delle persone che più amiamo. Il rapporto emozionale che stringiamo con queste immagini è talmente complesso da farci rifiutare, qualche volta, i nostri stessi ritratti. Non ci riconosciamo, anche se bastano pochi anni per trovare sorprendentemente migliorate fotografie che prima detestavamo. Perché la fotografia è come la memoria: cambia. Non resta immobile, ma si trasforma sulla base della storia di ciascuno e dell’idea che si ha di se stessi.

(Ferdinando Scianna, Lo specchio vuoto, Laterza, 2015)

La creazione sarebbe secondo Jakob Böhme (1575-1624) una sorta di gigantesco specchio, cioè un enorme occhio che è in grado di guardare se stesso.

Un gruppo di cosmologi guidato da Julian Barbour, dell’Università di Oxford, ha ipotizzato che all’origine della freccia del tempo non ci sia l’entropia, ma la gravitazione.

Il loro modello cosmologico prevede, infatti, l’esistenza di due universi specchio, che evolvono simmetricamente – creando strutture complesse e ordinate, come le galassie, per esempio – a partire da uno stesso stato iniziale caotico, di dimensioni minime e densità massima.

Uno dei due universi va quindi in avanti nel tempo, l’altro indietro. Naturalmente non potremo mai incontrare gli ipotetici abitanti dell’universo specchio, perché ognuno percepirà di muoversi verso il futuro, allontanandosi da quello stato caotico primordiale.

Le particelle virtuali spesso appaiono in coppie che si annichilano a vicenda quasi istantaneamente. Tuttavia, prima di svanire possono avere un’influenza reale sull’ambiente circostante. Per esempio, i fotoni – i quanti di luce – possono saltare dentro e fuori un vuoto. Quando due specchi sono posti l’uno di fronte all’altro in un vuoto, all’esterno degli specchi possono esistere più fotoni virtuali di quanti ce ne sono nello spazio che li separa, generando una forza apparentemente misteriosa che tende ad avvicinare gli specchi.

Questo fenomeno, previsto nel 1948 dal fisico olandese Hendrik Casimir e da allora chiamato con il suo nome, fu osservato per la prima volta con specchi mantenuti in uno stato di quiete. I ricercatori però hanno previsto anche un effetto Casimir dinamico, che si osserva quando gli specchi sono in moto o quando gli oggetti subiscono qualche tipo di cambiamento. Ora il fisico Pasi Lähteenmäki dell’Università di Aalto,  in Finlandia, e colleghi, hanno dimostrato che variando la velocità con cui viaggia la luce è possibile farla apparire dal nulla.*

* notizie tratte da  http://www.lescienze.it/news/2013/02/16/news/luce_vuoto_quantistico_particelle_virtuali_fotoni_effetto_casimir_dinamico-1511221/

foto Ombra sulle scale

Quello che vedo lo ingoio all’istante

1 Ezra Pound

Sul suo viso allo Specchio
“O strano viso nello specchio!
O compagnia ribalda, ospite
sacro, o folle
sconvolto dal dolore, che risposta?
O voi moltitudini che lottate,
giocate e svanite,
scherzate, sfidate, mentite!
Io? Io? Io?
E voi?” Continua a leggere

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Gino Rago, Poesie da Lettere a Ewa Lipska, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: la tua è una «poesia-polittico»; la grande elegia è diventata impercorribile – Dopo il Moderno

Gif Moda

portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di trenta anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). È presente nelle antologie curate da Giorgio Linguaglossa Il Rumore delle parole, (2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016) Roma.

Caro Gino Rago,

la tua è una «poesia-polittico», hai inventato di sana pianta un nuovo genere della poesia del Dopo il Moderno. La tua «poesia-polittico» è simile ad un affresco rinascimentale dove ci sono molte e disparate cose qua e là: nelle bandelle ci sono i committenti (i poeti interlocutori), delle dame che accompagnano il trionfo di Venere e Adone, in un’altra bandella c’è una tomba nella neve con su scritto un nome: Herr Cogito, c’è del «Liquido reagente» che non si sa a cosa debba reagire; c’è un personaggio inventato da Ewa Lipska: la Signora Schubert, c’è una misteriosa «amica di Vienna», ci sono delle missive non giunte a destinazione, c’è uno scambio di vedute tra interlocutori distanti migliaia di chilometri  in un mondo ad una unica dimensione (sovranista, mediatico e populista), etc. In questo mondo globale ad unica dimensione, tu riadotti il genere della missiva per fare un monologo globale a 360 gradi, la tua poesia riprende a fare dei grandi affreschi con del ready-made, con stralci-stracci di lettere immaginarie, mai inviate e di poesie nostre e altrui, con gli stracci del nostro mondo…

«portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato»

In un certo senso sei andato molto oltre la grande elegia del passato recente che ha in Brodskij il suo grande poeta irripetibile, ma con lui e dopo di lui l’elegia è diventata impercorribile perché una elegia per fiorire ha bisogno di una «casa»,  di una Heimat, di un «esilio», di una nostalgia… noi oggi  non abbiamo più una «casa» dove sostare e non possiamo avere neanche la nobiltà di un «esilio», e allora non rimane che la «poesia cartografia», la «poesia-polittico», la poesia che sfonda e sfocia nel futuro e nel passato ma senza alcun rammarico, come su una slitta, senza nostalgia, senza elegia, e, direi, anche senza un presente… Nella tua poesia c’è tutto: il passato, il futuro, ma, incredibile, non c’è il presente, sintomo evidente di una anomalia del nostro mondo… E se non c’è un presente non ci può essere neanche una casa del presente… non possiamo neanche uscire da una casa perché non abbiamo più una casa, una Heimat, non possiamo neanche intraprendere un viaggio, perché dove potremmo andare se siamo rimasti senza una casa alla quale ritornare? Appunto: in nessun luogo. E qui sembrerebbe che la vicenda metafisica dell’homo sapiens e della metafisica occidentale sia arrivata a compimento…

Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», le parole si sono raffreddate e indebolite… ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design (vedi il design di Lucio Mayoor Tosi) sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che inoltrarsi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.

Oggi sarebbe impossibile scrivere una poesia come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini o come La Beltà (1968) di Zanzotto perché entrambe quelle opere presupponevano una «casa», una Heimat… oggi noi non abbiamo altro linguaggio che questo della tua lingua di ruggine di ferro, quello di Mario Gabriele fatto di frantumi di specchi di altri linguaggi, oggi abbiamo un linguaggio fatto di frantumi di specchi… ed è con questo linguaggio che dobbiamo fare i conti, chi non l’ha capito continua a fare la poesia del post-minimalismo, della retorizzazione del corpo, del privatismo… l’aveva capito bene Helle Busacca quando dà alle stampe I quanti del suicidio (1972) con quel suo linguaggio da spazzatura, vile e sordido, volutamente a-poetico o Maria Rosaria Madonna quando scrive in quel suo linguaggio di frantumi di specchi che è il neolatino di Stige (1992)  libro ripubblicato con le poesie inedite: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura (2018) che raccomando a tutti di leggere, uno dei capolavori della poesia del novecento italiano.

Adesso, finalmente, la poesia italiana ha ripreso a pensare in grande, a tracciare il cardo e il decumano di una «poesia polittico» che abbraccia il pensato e l’impensato, il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile.

Per altezza di impegno edittale la tua poesia mi fa pensare a libri come Lettere alla Signora Schubert di Ewa Lipska e al ciclo di poesie de Il Signor Cogito di Zbigniew Herbert, tu ritorni al punto della vexata quaestio: il problema del nome e della cosa e se la poesia debba nominare la cosa o no, se il discorso nominante ha ancora senso o no, se il discorso nominante sia parola del destino o no: «E questo nome ora è il mio destino». La lingua diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell’espressione con il denotato, solo se la lingua accetta l’assunto secondo il quale nell’espressione nome e cosa si diversificano, tendono ad allontanarsi.

(Giorgio Linguaglossa)

gif donna in corridoio

non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso

Prima Lettera a Ewa Lipska

[Il liquido reagente]

Cara Signora Ewa Lipska,
( p.c. caro Signor Giorgio Linguaglossa )

[non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.
La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
Non più di cinque persone al suo funerale,
senza pianti né fiori.]

[…]
[La mia amica di Vienna mi ha consolato.
Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert,
ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori.
Nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.
La Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
Scrive poesie come impronte digitali e sintetiche

come fuochi d’artificio.
Con poche amiche passeggia intorno al lago artificiale.
Parla della vita, del caso, del destino]

Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi,
ululano alla poesia come i lupi alla luna.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente?
E il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Lei sa meglio d’altri
che il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
nello  stesso istante del mondo
[questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande].

Seconda Lettera a Ewa Lipska

[Il passato]

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Linguaglossa)

portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato.
Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
E Lei da poeta lo sa
che i morti  ai processi dei vivi
si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-à-terre
con la sua donna.
Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
si guardano negli occhi.
Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[litiga con Schiele per  «ll Bacio» di Klimt].
L’aria d’autunno si guasta,
ma un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce-vita dello sperma siderale […]

Gif scale e donna

Per questo forse uscendo dalla cripta della Signora Schubert
ho udito da lontano la Marcia di Radetzky

Terza Lettera a Ewa Lipska

[La clinica della folla]

Cara Signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei si chiederà perché Le scrivo da Vienna.
Le invio le mie lettere dal centro dell’Impero d’Austria-Ungheria
per la Signora Schubert che Lei mi ha fatto amare.
Ho voluto raccogliere i segni della sua vita
nei luoghi forse a lei cari. Stefansplatz. I giardini Schönbrunner.
La ruota di lontano della Wiener Riesenrad.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signora Giorgio Linguaglossa)

Il mio amico-poeta di Roma ha scritto in un altro verso:
«La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.»
Per questo la mia amica di Vienna mi ha detto di cercare la Signora Schubert
nella Cripta dei Cappuccini?
Ho deposto un mazzo di tulipani.
Era troppo freddo il giorno per le rose.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Ogni Suo verso è una impronta digitale.
Io sono il lettore delle Sue impronte.
Per questo forse uscendo dalla cripta della Signora Schubert
ho udito da lontano la Marcia di Radetzky
dalle finestre aperte della Villa dei Von Trotta
[forse inciampo anch’io nella cava degli intrecci delle date,
con la mia amica di Vienna entro nella clinica della folla]. Continua a leggere

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Edith Dzieduszycka, Squarci, Racconti poetici, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12 – Loro, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e il Video del poemetto Traversata, voce recitante Pino Censi

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa del libro Squarci di Edith Dzieduszycka, Progetto Cultura, 2018 pp. 180 € 12

Questi tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti»:

Inventare una storia
una vita
delle vite.
Afferrare frammenti
strappati rubati sfilati ad altri
altri inconsapevoli indifesi spogliati
privati della propria pelle
dal guscio protettivo
aperti sventrati esposti agli elementi.
Tutte emanazioni macerazioni carcasse
sbranate dal becco degli avvoltoi
dal dente delle iene
dalla bocca degli sparlatori
dall’indifferenza dei saggi
dal giudizio degli stolti.

L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Con un tonfo:

Ecco.
Ci siamo.
Doveva finire così.
Era scritto che finisse così.
Scritto da chi?
Bella domanda…

Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola».

Nel secondo racconto c’è un personaggio femminile che «non riconosceva più sua madre […] Con quella voce di metallo arrugginito/ che le sgorgava dalle budella»; «sua madre voleva intaccare il magma… inventare storie sempre più terribili», «quello che cercava ed inseguiva/ le sfuggiva si ritraeva si allontanava/ risucchiato dalla nebbia».
Il personaggio di questi racconti è l’io colto nelle vicissitudini che comporta la stabilizzazione di una identità «la paura di non essere pronta / di mancare all’appuntamento/ arrivare presto arrivare tardi/ trovare strade sbarrate…». L’io si rivela essere un isolotto circondato dal magma pulsionale di un mare inospitale che vuole espungerlo, infirmarlo, dimidiarlo. La crisi dell’io è la crisi del Logos, crisi del linguaggio, inadeguatezza del linguaggio a identificare le «cose», inadeguatezza dell’io ad identificare i suoi nemici, interni ed esterni, reali e fantasmati. Di qui la labirintite dell’io e il suo cedimento strutturale.

Nel terzo racconto la vecchia automobile Opel viene mandata dallo «sfasciacarrozze», da quel momento l’oggetto automobile viene internalizzato e prende la forma di un fantasma che ossessiona nel ricordo la mente della protagonista che passa da divagazione a divagazione, la catena metonimica che conduce l’io sull’orlo della follia… e compaiono «alcuni personaggi [che] attirano la mia attenzione», finché lungo il percorso da pendolare che il personaggio fa ogni giorno, incontra «un essere luminoso» con «lunghi capelli biondi fino alle spalle», non viene specificato il sesso di questo misterioso personaggio ma forse è un transgender in quanto per l’inconscio dell’ossessivo l’Altro non ha una identità sessuale ma soltanto una nominale, figurale. Ecco che l’Altro si ripresenta di nuovo, sul treno dei pendolari con «una grossa borsa di tela nera/ un astuccio da violino/ che non avevo notato la prima volta». Il racconto rimane in sospeso, viene interrotto nel punto più interessante quando il lettore vorrebbe saperne di più. Ma qui fa capolino l’ignoto, il mistero, l’insondabile.

Nel quarto racconto il protagonista è una «pagina immacolata/ sulla quale tutto diventa possibile/ dove tutto può succedere». «Ci sono i viziosi che si fanno le seghe/ e si masturbano sui sedili da soli o in coppia». E poi c’è Marta, la moglie del tassista protagonista, l’alter ego dell’io narrante, insipida e bigotta donna che castra le fantasie narrative del marito narrante. Il racconto va avanti fino a quando…
Nel quinto racconto, «Traversata», c’è una «porta» che si socchiude, e gli «erranti» vanno «tutti verso quel sogno». «Ombre sulla soglia./ Quattro./ Una per ognuno dei punti cardinali./ Ombre grigie silenti in attesa».

Cercavano un’uscita
una porta
una porta qualunque
alla quale bussare
una porta
socchiusa nella memoria.
Dietro la quale
impazienti
voraci
li aspettavano
dall’alba dei tempi
quattro Ombre grigie.

Nel sesto racconto, «Loro», la narrazione raggiunge il climax. I «fantasmi», gli «ectoplasmi», «Loro./ Impalpabili./ Inafferrabili./ Tu ne eri cosciente./ Sentivi che anche Loro/ sapevano/ che tu li percepivi». Qui la belligeranza tra l’io e l’inconscio raggiunge la massima intensità, l’ostilità diventa violentissima, rischia di travolgere la fragile impalcatura auto organizzatoria dell’io. «Tanti contro uno./ Loro contro di me./ I Titani in azione». Ma l’io ha un’arma segreta, segreta in quanto costituita da soldati inconsapevoli: «le mie Amazzoni e i miei Gladiatori/ fedeli e devoti/ pronti a buttarsi nel fuoco per me. Non sanno niente di Loro/ né delle mie battaglie contro di Loro./ E se per caso sanno fanno finta di niente/ ma rinserrano i ranghi/ perché hanno sempre capito/ che la mia sconfitta sarebbe anche la loro».

Il settimo racconto, «Genesi», troviamo l’io ridotto alla sua nudità autoreferenziale:

Sono io.
Solo all’interno di me stesso.
Perché?
Perché io ?
Perché ora ?
Perché qui ?
Non lo so.
Mai lo saprò.
Una cosa soltanto so.
Sono vivo.
Vivo.

Non c’è scampo per l’io che è costretto a girare a vuoto come una duchampiana macchina celibe, l’io che vive «all’interno di me stesso… nell’inferno di me stesso», non ha altri argomenti che chiedersi: «Perché tutto questo?».

L’ottavo racconto, «Desprofondis», narra dell’inarrestabile processo di cadaverizzazione dell’io. Scompare il tempo, scompare lo spazio. Ecco il finale:

Si spalancò
di fronte a lei
una porta gelatinosa
dietro alla quale regnava un nulla nero
accogliente.
Non fece in tempo a chiedersi
se si trattasse dell’inizio
o della fine di quel viaggio.
Insieme alle entità sconosciute
che l’avevano trascinata
posseduta
assorbita
digerita
scivolò via
senza neanche accorgersene.

Il racconto successivo, «Prisma», è la narrazione di una «orrida vertigine/ d’un sogno senza senso/ d’un pozzo senza fondo». Tutti i segmenti del racconto sono il resoconto stenografico di una discesa agli inferi, in un luogo senza fondo «trappola più del pozzo». Sono scomparsi anche gli «ectoplasmi» che inseguivano l’io, ormai l’io è braccato, assediato, costretto in un «pozzo» dalle pareti verticali. Sono scomparsi spazio e tempo.
Nel racconto che segue, «Ritorno», l’io è diventato una «bambina» che non distingue più «tra mito e realtà/ sogno e desideri/ fantasmi e ricordi», il tutto è un «mosaico sconnesso/ così inestricabile/ da non poterne più delimitare/ i punti d’intersezione». L’io «dava la mano a suo padre/ questo sconosciuto./ Sprofondava con lui/ nel cuore d’una foresta»; «un merlo nero dal becco giallo/ si alzava in volo un momento/ poi si posava di continuo/ per aspettarli e mostrare loro la strada».

Tutto a un tratto guardò lo sconosciuto.
E lui la guardò
facendo un passo verso di lei.
La sua mano era diventata enorme e grigia.
Sembrava l’ala spiegata di un uccello rapace.
Lei stava sull’orlo del precipizio
il piede reggendosi appena sulla terra cedevole.
Chiuse gli occhi e aspettò.

Rimase così.
Preda. Sospesa.
Vuota sul vuoto.
Un secondo
un secolo
un’eternità.

Nell’undicesimo racconto, «Piccolo», «niente di niente/ la storia si è fermata,/ inceppato il meccanismo», l’io è diventato un nano. Nel dodicesimo, una donna parla della sua vita:

Un marito l’ho avuto.
Tempo fa.
Non ricordo nemmeno quando esattamente.
Un essere tecnologico.
Non un uomo di scienza.
No.
Non ha niente a che vedere.
Un robot sarebbe più giusto come definizione.
Un robot amante dei robot.
Avrebbe dovuto sposare una bambola gonfiabile.

Siamo giunti al tredicesimo racconto: ormai è inutile interrogarsi, le domande si sono inaridite, inabissate. «La vera prima era prima./ Ma non ero in grado/ né di capire/ né di ricordare». Adesso il nodo inestricabile s’è sciolto. La soluzione è arrivata. Come sarà nella prossima vita?

Sarà come ci hanno insegnato?
Sarà tutto diverso?
Non sarà?

Se me lo chiedete gentilmente
forse verrò a raccontarvelo
una sera d’inverno…

https://youtu.be/t4rIzauiCjE

Il retro di copertina recita:

Questi  tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti». L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola». In questi soliloqui illocutori  di Edith Dzieduszycka la catastrofe annunciata non avviene mai, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es. La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io. Il motto di Lacan: «Penso dove non sono e sono dove non penso»,  indica la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come questa di Edith Dzieduszycka e della «nuova ontologia estetica» non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico, un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica effrattiva.

LORO

È ovvio.
Le cose non possono più andare in questo modo.
Devo prendere dei provvedimenti.
Devo correre ai ripari.
Proteggermi dagli attacchi concentrici
sempre più ravvicinati
che Loro stanno piano piano organizzando
per accerchiarmi
rovinarmi
annientarmi. Continua a leggere

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Alfonso Berardinelli, Gli sforzi di Magrelli per convicersi di essere poeta – La sindrome Magrelli – Il caso Italia nella medietà della situazione culturale propugnata dalle grandi case editrici – Il degrado morale, politico e istituzionale della poesia italiana maggioritaria – Commento di Letizia Leone

[ qui sotto, Video dell’incontro dell’11 maggio 2018 con Valerio Magrelli e Franco Marcoaldi alla trasmissione televisiva Quante storie condotta da Corrado Augias su Rai3 alle 12.45 ]

https://www.raiplay.it/…/Quante-storie-62e55f25-48a4-4105-bdf6-dc…

Per chi volesse saperne di più:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/09/27/poesie-scelte-di-valerio-magrelli-da-il-sangue-amaro-einaudi-2014-con-un-commento-di-giorgio-linguaglossa/

Complimenti a Giuseppe Talia per la lucidità e concretezza storica della sua invettiva. Il dibattito che ne è seguito è molto interessante e apre trasversalmente a molte importanti questioni estetiche, critiche, sociologiche e anche politiche se perseverare nel fare arte, cultura, poesia nell’attuale situazione di degrado e “ostracismo” non sia già implicitamente un grande “atto politico”. Purtroppo, il caso Magrelli è forse la conseguenza della sparizione della critica letteraria e della logica del consumo che orienta ormai completamente la produzione delle case editrici. Eppure nel coro cerimoniale degli incensamenti d’occasione ho trovato un’altra voce critica (oltre a Giorgio Linguaglossa) “molto critica” e ironica sull’ultimo libro di Magrelli , quella di Alfonso Berardinelli che posto qui di seguito.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/05/30/giuseppe-talia-lettera-aperta-a-corrado-augias-gentilissimo-corrado-augias-le-scrivo-riguardo-alla-trasmissione-di-quante-storie-su-rai3-andata-in-onda-giorno-11-maggio-2018-dal-titolo-s/comment-page-1/#comment-35442

(Letizia Leone)

Alfonso Berardinelli, da Il Foglio 22/03/2014, 22 marzo 2014
TUTTI GLI SFORZI DI MAGRELLI PER CONVINCERSI DI ESSERE POETA

Preferisco essere truffato da un bottegaio che da un finto poeta. Per questo ogni dieci, quindici anni, non molto spesso e senza accanimento, sento il bisogno di dire qualcosa sul poeta Valerio Magrelli, che ci aiuta a capire la situazione della poesia, nonché della critica italiana e a me fa subito venire in mente il solito, abusato Karl Kraus, secondo il quale gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che lo sono e quelli che non lo sono. Per legge di natura, la seconda categoria è prevalente, cresce e prospera, mentre scovare qualche esemplare della prima, quella dei poeti che lo sono, è un’impresa ardua e poco remunerativa: se lo fai, rischi di condannare una maggioranza e fai la figura del “rosicone” e del “malmostoso”, aggettivi che piacciono molto ai lodatori del “così è, così è bello” e a tutti coloro che, per dubbie ragioni, si sentono invidiabili. Dopo un silenzio di otto anni (segnalato in copertina), silenzio che vorrebbe far pensare alla ventennale afasia poetica di Paul Valéry, esce ora di Magrelli una nuova e accuratamente confezionata raccolta di poesie intitolata amaramente Il sangue amaro (Einaudi, 2014).

Magrelli non è uomo che ami attriti e conflitti, si tiene reticente e prudente ed evita finché può le fonti di amarezza e tutto ciò che lo può danneggiare. Dato che è (come è) il più abile e laborioso promotore di se stesso che si incontri oggi nella poesia italiana, mestiere nel quale si è lasciato indietro chiunque altro, perfino Maurizio Cucchi, ormai quasi dimenticato, Magrelli dovrebbe rivelarci in questo libro che cosa lo affligge e lo amareggia. No, la ragione, letto il libro, resta oscura. Al posto di ragione e senso, c’è in Magrelli un incolmabile vacuum. Ma se la causa appare oscura, chiari e visibili sono gli effetti. Si vede che Magrelli ha una gran paura di non esserci, di non consistere, e cerca di rimediare intensificando le dediche, le epigrafi, i riferimenti, le allusioni, gli appigli, gli agganci, i salvagente. In questo libro il salvagente più esibito sembrerebbe niente di meno che il Kierkegaard di Timore e tremore (debitamente segnalato in quarta di copertina).

Già. Magrelli teme e trema e va in cura dal Socrate di Copenaghen. Avendo sempre avuto l’epigrafe facile e comoda (cita ma non sembra aver letto) Magrelli allunga le mani su tutti gli autori di prestigio, quelli che al momento fanno chic, creano consenso, circolano nell’ambiente. Vent’anni fa osò prendere epigrafi da Simone Weil e da Auden per mettere in salvo un paio di poesiole che un autore dotato di pudore avrebbe fatto sparire nel cestino. Per , diavolo!, su quei versicoli da niente c’erano i nomi di Simone Weil e di Auden e quindi (si era detto l’autore) sono al sicuro: chi mi legge penserà che sto pensando ai massimi livelli, penserà di aver letto qualcosa che in qualche modo avrà a che fare con due degli autori più intelligenti del Novecento. Magrelli gioca e punta infatti a fare il poeta intelligente, il poeta di pensiero. Sulle scatolette verbali che ci offre ci sono le etichette con tanto di nomi-garanzia. Per dentro il pensiero non c’è. Dunque, dov’è il Kierkegaard annunciato in copertina? Cerchiamo Kierkegaard… Le dediche e le evocazioni a vuoto arrivano subito.

La prima poesia si mette sotto l’ombrello di Watteau. La seconda è dedicata a Pagliarani. La terza di dediche ne ha due, a Sanguineti e a Cortellessa. La quarta nomina ripetutamente, in anafora, Schwitters. La quinta fa il nome di Beuys. Seguono due dediche a Pino Varchetta e a Stefano (Giovanardi). E così si chiude la prima sessione. Con la seconda sezione, subito due epigrafi, una da Chateaubriand (che fu rilanciato da Garboli) e una da Montaigne (tutta la città ne parla). Si affaccia un Babbo Natale che qui è definito “gnostico”, come Ceronetti, Calasso e dintorni (farseli amici aiuta). Si notano alcune litanie in rima. Tornano anche, come di dovere, Gesù e Dio. Ne parlano tutti, la chiesa ha ipnotizzato i laici, Papa Bergoglio ha fatto sembrare l’ateo Scalfari un povero ingenuo pieno di pretese. Subito dopo si fa il nome di Gutenberg (il precursore di Steve Jobs!) con un’epigrafe assurda dall’assurdo Jarry.

Le rime ora abbondano. Magrelli ha scoperto il verso regolare e la rima, e si mostra artifex. Una di queste rime sembra anzi un lapsus di quelli che pugnalano alle spalle e dicono tutto del nostro poeta: la parola “poesia” viene fatta rimare con la parola “burocrazia”. E dunque, almeno su se stesso, qui Magrelli dice la pura verità. Ma ecco la terza sezione. Il suo titolo suona impudicamente “Timore e tremore” come quello di Kierkegaard (più avanti si parlerà di “tremarella”). Dunque siamo arrivati al filosofo usato per tenere in piedi il libro come libro di pensiero. Ma Kierkegaard non basta ancora all’autore, che aggiunge due epigrafi sulla paura, una di Kafka e una di Hrabal.

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Gianfranco Palmery (1940-2013), Poesie da In Quattro (2006) Compassioni della mente (Passigli, 2011) e Corpo di scena (Passigli, 2013) con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

foto ombre sfuggenti

Spogliato ti spegnerai del dispotico / potere della poesia

Gianfranco Palmery (Roma, 22 luglio 1940 – Roma, 28 luglio 2013) nato e vissuto a Roma, è stato poeta e saggista. Ha pubblicato sedici libri di versi e numerose prose sparse in quotidiani e riviste, in parte raccolte in quattro volumi. Critico letterario per alcuni anni del quotidiano «Il Messaggero», ha fondato e diretto la rivista di letteratura «Arsenale». Ha tradotto, per le edizioni Il Labirinto, poesie di Keats, Shelley, Berryman, Sponde, Corbière, Stéfan. Dopo una lunga malattia, è morto a Roma il 28 luglio 2013.

Ha scritto:

Mitologie, Il Labirinto, Roma 1981.
L’opera della vita, Edizioni della Cometa, Roma 1986.
In quattro, Edizioni della Cometa, Roma 1991.
(edizione d’arte, con quattro incisioni di Edo Janich).
Il versipelle, Edizioni della Cometa, Roma 1992.
(con prefazione di Luigi Baldacci)
Sonetti domiciliari, Il Labirinto, Roma 1994.
Taccuino degli incubi, Edizioni Il Bulino, Roma 1997.
(edizione d’arte, con due incisioni di Guido Strazza).
Gatti e prodigi, Il Labirinto, Roma 1997.
Giardino di delizie e altre vanità, Il Labirinto, Roma 1999.
Medusa, Il Labirinto, Roma 2001.
L’io non esiste, Il Labirinto, Roma 2003.
Il nome, il meno, Edizioni Il Bulino, Roma 2005.
(libro d’artista, con interventi a tempera, grafite, collage e graffiti di Guido Strazza).
In quattro, Il Labirinto, Roma 2006.
Profilo di gatta, Il Labirinto, Roma 2008.
Garden of Delights: Selected Poems, Gradiva Publications, New York 2010.
(traduzione e cura di Barbara Carle)
Compassioni della mente, Passigli, Firenze 2011.
(con prefazione di Sauro Albisani)
Amarezze – Madrigali e altre maniere amare, Il Labirinto, Roma 2012.
Corpo di scena, Passigli, Firenze 2013.

Prose critiche

Il poeta in 100 pezzi, Il Labirinto, Roma 2004.
Divagazioni sulla diversità, Il Labirinto, Roma 2006.
Italia, Italia, Il Labirinto, Roma 2007.
Morsi di morte e altre tanatologie, Il Labirinto, Roma 2010.

Foto Richard Serra (1939) the labirint

Me ne sto su me stesso come un falco
o  un  torvo avvoltoio  su  un trespolo

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Gianfranco Palmery l’ho conosciuto nel 1989 quando sulla rivista “Arsenale” pubblicò cinque mie poesie. È stato il mio debutto in poesia. Palmery già allora aveva deciso di auto confinarsi nel perimetro della propria abitazione-prigione, a Roma, zona Montagnola, circondato dai suoi gatti e dai suoi dèmoni… soleva ricevermi in una anticamera polverosa e schiumosa ingombra di oggetti e di libri polverosi e di gatti sontuosi e pigri; mi parlava lentamente, attento a scandire le sillabe senza mai guardarmi negli occhi, anzi, evitando accuratamente di guardarmi, con quella sua tipica aria cupa e altezzosa mentre teneva in braccio magnifici felini dal pelame iridato che io, al contrario, trovavo orribili, anzi, mostruosi. Era totalmente ripiegato-richiuso in se stesso, nel suo Olimpo-cloaca immaginario, nella sua spettrale oreficeria. All’epoca pensai che non lo interessasse affatto il mondo né i suoi abitanti, era incentrato esclusivamente su se stesso, deciso «di rendere l’osservatore il suo oggetto». Ne sono convinto tuttora: il mondo non lo interessava affatto, l’«oggetto» per lui era nient’altri che l’io, il «soggetto», «un animale araldico arrestato / sulle due zampe e così raffigurato». Dal 1991 decisi di abbandonarlo in preda ai suoi eroici furori e non l’ho più rivisto. Anzi, no, con mia meraviglia un pomeriggio di luglio lo scorsi che passeggiava sulla battigia del mare di Ostia in compagnia della moglie americana, Nancy Watkins. Me ne stupii alquanto che potesse passeggiare in pieno luglio sotto il sole…

Penso che provasse un sordido e perfido autocompiacimento nel raffigurarsi come un animale re araldico effigiato con il blasone nobiliare della propria singolarità genealogica. Nemico giurato della società affluente e del narcisismo, Palmery ha portato alle estreme conseguenze il suo patto di fedeltà alla Musa: «Spogliato ti spegnerai del dispotico / potere della poesia». In questa personalissima e ossessiva genealogia immaginaria che lo ricollegava alla Musa, Palmery troverà un riparo e una abitazione protettiva dalla quale proiettare i suoi araldici e velenosi guizzi all’esterno, verso la pagina bianca della scrittura e del mondo dis-conosciuto. La sua poesia, autoritratto fedele delle sue manie e delle sue ubbie, è sempre rimasta fedele a se stessa, imperturbabile e impermeabile, fitta di piroette acrobatiche, esercizi di scherma, fitta di illusionismi, verbalismi, associazioni consonantiche, irta di picchi semantici, di acrobatismi, di inarcature verbali con cromatismi indecorosi, agonismi lessemici, clamori e sarcasmi, esorcismi e diseroicismi di cartapesta. Il poeta romano amava denominarsi, con un malcelato autocompiacimento, «Issione», condannato al suo destino di evanescenza e di inappariscenza, fedele alla sua idea di rigorismo mentale, inchiodato alla eterna ruota di tortura del suo mito preferito.

Palmery amava crogiolarsi nelle profondità della sua vertigine esistenziale, il nichilismo era  l’index veri del suo «io», era l’unica verità-deità ammessa nel suo tempio perifrastico; immerso nella sua solitudine olimpica fino al mento, ultimo erede della dinastia dei poeti araldici, venuto al mondo per distinguersi dai comuni mortali reprobi e collusi con una vita di vile commercio delle cose comuni. Palmery è stato senza dubbio  l’ultimo dei poeti «araldici», eletto da se medesimo al castigo divino di essere ossessionato dalla propria sorte monastica. In ciò eravamo lontanissimi, non condividevo in nulla la sua metafisica «araldica», io, portato per natura alla terrestrità delle cose per la mia formazione materialistica; lui, ateo e onniveggente, non poteva capirmi ma io, ateo e preveggente, capivo il suo dramma, intendevo i suoi illusionismi cerebrali e i suoi ghirigori stilistici, comprendevo la necessità del suo ritrarsi presso il domicilio coatto del proprio ubiquitario e sdegnoso solipsismo. Era il suo modo di fare della scherma mentale. In un’altra vita sarebbe stato un magnifico schermidore; dunque, avrebbe calcato, in un’altra vita, la pedana dei duelli di fioretto. Anche la sua poesia è vistosamente agghindata di contorcimenti semantici e sintattici, di affondi e di ritirate precipitose, con preferenza per le anadiplosi e per i chiasmi imperfetti, per i duetti con  «le maschere della derelizione». Un universo ermeticamente chiuso quello di Palmery, un immaginario privo di metafisica, ossessivo e rutilante di sgherri, di «canaglie», di «bastardi»: Amleto, Vathek, Don Giovanni, Cerbero, Orco…

Adesso, questi due volumi editi da Passigli sono dei preziosi strumenti per apprezzare il lavoro svolto dalla musa di Palmery, una musa fatta di stracci un tempo nobili. Un poeta da studiare e da considerare come uno dei più originali di questi ultimi decenni tra la fine del novecento e il nuovo millennio. Senza dubbio, la poesia di Gianfranco Palmery «chiude» una certa ontologia estetica tipicamente novecentesca fondata sulla centralità dell’io e su un progetto di tonosimbolismo prettamente novecentesco. Dopo di lui penso che una «nuova» poesia debba cercare fuori dal tonosimbolismo e fuori della centralità ontologica dell’io. Al pari della poesia del piemontese Roberto Bertoldo, un esempio parallelo di tonosimbolismo e di fonosimbolismo di fine novecento portato alle estreme conseguenze, con uno stile ultroneo e perifrastico.

Michele Ortore commenta: “I versi di Palmery sono scanditi dalla frequenza dei poliptoti e delle figure etimologiche, che spesso si combinano in diffratte ecolalie: «[…] costretto alla sua marcia / forzata, al forzato, lo sforzato» (V 65), «Mi spaventa il silenzio e la mia voce / spaventata – pura voce / dello spavento» (CM 38), «Cosa ho più da salvare che mi salvi?» (CM 70), «Mi guardi Dio dal divinizzarti / egizianamente e cadere in egiziache / tenebre» (GP 18). Ma la tecnica palmeriana può giocare anche sulle collisioni sostantivo-avverbio («scendendo nel suo verso verso il buio», CM 74), sulle omofonie («questo / è il la e là restate», CM 75), sulle univerbazioni («mi vedi da per tutto, se non sono / per te che l’eterno signor Dappertutto», V 35), sugli equivoci semantici («[…] e sempre / senti nell’aria la mia aria, in ogni suono», V 35)

– Il ricorso alle interiezioni tragico-patetiche, costante e frequente nei quattro libri: «Ah il rombo del silenzio, il sibilo / della solitudine!» (CM 19), «oh la paura, la paura, il terrore / del corpo prigione» (CM 37), «oh amarezza / tu curi il cuore» (A 8), «tu non sei – ahi, quasi sempre! – / che un irritante incidente» (V 36), «Ah durasse per sempre / questo dolce servizio» (GP 22).

– Interrogative retoriche con anafora del pronome o dell’avverbio: «Dove vanno le unghie, dove i capelli?» (V 47), «Dove vanno i sogni dei gatti, dove evaporano?» (GP 17).”.1

Parlare di barocchismo in Palmery forse è erroneo; per il poeta romano si può parlare di un maestro di architetture verbali sinonimiche e paronomasiche, tutto ciò che tocca lo tocca con algido nitore, dall’alto di uno sdegno numinoso che accetta di scendere tra i plebei, i comuni mortali  con la sua «poesia, mia paziente giardiniera». Poeta tipicamente ultroneo, le sue cose migliori, paradossalmente, le ha scritte quando assorto nella folgorazione del suo solipsismo spasmodico e rutilante.

1] http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/Palmery/Ortore.html

[in foto, Gianfranco Palmery]

da In Quattro (2006)

I

L’anno, l’ora, la croce, i cardini
del mondo: tutto si divide in quattro
parti – così qui si misura nello spazio
e nel tempo il sacrificio e la perdita.

IV

Me ne sto su me stesso come un falco
o un torvo avvoltoio su un trespolo:
risibile rapace ormai allo smacco
rassegnato, nel suo piumaggio tetro e crespo. Continua a leggere

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